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Arturo Labriola

Discorrendo di socialismo e di filosofia


Avvertenza alla seconda edizione.

Ich bin des trocknen Tons nun satt,
Muss wieder recht den Teufel spielen.

“Mi parrebbe di far cosa poco men che assurda, se premettessi alla stampa di queste lettere delle parole di introduzione.

Perché vengano alla luce, nella forma di un volumetto, è spiegato nell'ultima.

Noto qui soltanto, che queste pagine recano un qualche complemento, e aggiungono una certa chiarezza ai miei due saggi intitolati: In memoria del Manifesto dei comunisti [2° ed., Roma 1895]; e Del materialismo storico, Dilucidazione preliminare [Roma 1896].

A quei due saggi io portai qualche lieve correzione, e feci qualche piccola aggiunta, ma solo in pochi punti, nella edizione francese apparsa quest'anno. [Questa contiene in più dell'originale la riproduzione integrale del testo del Manifesto.] Eccone il titolo: Essais sur la conception matérialiste de l’histoire, par Antonio Labriola; avec préface de G. Sorel, Paris 1897, chez V. Giard et E. Brière".

Con così breve Avvertenza apparve - e precisamente il 6 dicembre 1897 - la prima edizione italiana di questa raccolta di lettere, che ora io ristampo con alcune modificazioni nel testo e nelle note, che son quasi tutte ripigliate dall'edizione francese venuta fuori nel 1899.

Se non che, tra quelle due edizioni, e ossia tra il 1897 e il 1899, accadde che il signor Sorel, al quale queste lettere furono indirizzate, e il mio amico Croce che m'incoraggiò a pubblicarle, portassero di tali critiche alle dottrine del materialismo storico, che io mi credetti in obbligo di risponder loro con le aggiunte che introdussi, così in fine come in principio, dell'edizione francese appunto. Quelle aggiunte ora io riporto qui in Appendice (I e II).

Roma, 30 maggio 1902.

I.

Roma, 20 aprile '97

Caro signor Sorel,

da un pezzo vo pensando d'intrattenermi con voi in una specie di conversazione per iscritto.

Sarà questo il modo migliore, e il più acconcio, onde io v'attesti la mia gratitudine per la Prefazione, della quale mi avete onorato. Va da sé, che, così dicendo, io non mi fermo con la mente a ricordare soltanto le parole cortesi, delle quali mi siete stato prodigo con tanta profusione. A quelle parole io non potevo non risponder subito, e sdebitarmene nella forma della lettera privata. Né ora sarebbe più il caso, che io mi andassi diffondendo con voi in complimenti; proprio in lettere, le quali, o a voi, o a me, potrà parere più in là opportuno di pubblicare. Che varrebbe, del resto, che io venissi ora a far proteste di modestia, schermendomi dalle vostre lodi? Voi mi avete oramai costretto a rinunciare a tali sforzi. Che i miei due saggi, appena rudimentali, di materialismo storico corrano in Francia nella forma di un quasi libro, ciò è tutto merito vostro; per averli voi rnessi e prcsentati al pubblico in tale assisa. Non fu mai nelle inclinazioni mie di faire le livre, secondo il senso che voi francesi, ammiratori e seguaci sempre della classicità letteraria, date a cotesta espressione. Sono io, anzi, di quelli i quali vedono in cotesto continuarsi del culto per la forma classica una specie d'impaccio - come sarebbe di un abito che mal s'attagli alla persona - alla espressione propria, adeguata e conveniente dei resultati del pensiero rigorosamente scientifico.
Passando, dunque, sopra a tutti i complimenti, intendo di rifarmi su le cose che voi dite in quella Prefazione; e di tornarci su per discuterne liberamente, senza star proprio ad aver lì innanzi alla mente il disegno o il prospetto di una meditata monografia. Scelgo la forma delle lettere, perché solo in queste un procedere interrotto, spezzato e a volte saltuario, che ritragga quasi quasi la conversazione, non par cosa impropria ed incongrua. Non me la sentirei, in verità, di scrivere tante dissertazioni, memorie od articoli, quanti ne occorrerebbe per rispondere alle molte domande che voi movete, alle molte questioni che voi ponete a voi stesso, in così breve giro di pagine, come chi dubitando e dubbiosamente pensi.

Scrivendo, direi quasi, come vien viene, non intendo però di sottrarmi alle responsabilità di ciò che mi verrà di dire, e andrò dicendo; ma voglio come prosciogliermi dai doveri di prosa serrata e legata, che son proprii del discorrere e del dissertare a tesi. Oramai non c'è dottorucolo al mondo, il quale, per minuscolo che ei si sia, non creda di monumentarsi innanzi ai presenti e innanzi ai posteri, ove riesca a consacrare in pesante opuscolo, o in dotta ed involuta disquisizione, uno di quei tanti pensieri o di quelle tante osservazioni, che nella viva conversazione, o nell'insegnamento che sia retto da indubbia virtuosità didattica, tornan sempre di più intuitiva efficacia, per la naturale dialettica, che è propria di chi sia in atto di cercare da sé, o d'insinuare per la prima volta negli altri, la verità.

Ma già, si sa: - in questa fin di secolo, tutta business, tutta faccende, tutta affari e tutta merci, il pensiero non si presta a circolar per il mondo, se non fissato e fermato anch'esso nella riverita forma di merce, cui faccia compagnia la fattura del libraio, e giri attorno, da agile messaggera di sincerissime lodi, la onesta réclame editoriale. Forse nella società dell'avvenire, in quella nella quale noi c'infuturiamo con le nostre speranze, e assai più con certe illusioni, che non sempre son frutto di una ben plasmata fantasia, cresceranno a dismisura, da parer legione, gli uomini atti a discorrere con la divina gioia della ricerca e con l'eroico coraggio della verità, che ora ammiriamo in Platone, in Bruno, in Galilei, e si moltiplicheranno in infiniti esemplari i Diderot capaci di scrivere le profonde capestrerie di Jacques le fataliste, che per ora abbiamo la debolezza di credere insuperate. Nella società dell'avvenire, nella quale l'ozio, ragionevolmente cresciuto per tutti, darà a tutti, con le condizioni della libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la paresse - la felicissima trovata del nostro Lafargue - farà spuntare ad ogni angolo di strada dei perditempo di genio, che, come il nostro maestro Socrate, saranno operosissimi di operosità non messa a mercede. Ma ora... in questo mondo, nel quale solo i matti da manicomio hanno le traveggole del prossimo millennio, molti sfaccendati sfruttano, come per proprio diritto e professione, la pubblica stima coi loro ozii letterarii... e lo stesso socialismo non può a meno di accogliere nel suo seno una discreta frotta, non che di sfaccendati, di faccendoni e di faccendieri.
E così, quasi celiando, mi avvicino all'argomento.

Voi lamentate la poca diffusione che ha avuto fino ad ora in Francia la dottrina del materialismo storico. Anzi lamentate, che a tale diffusione mettano ostacolo e oppongano resistenza i pregiudizii derivanti dalla boria nazionale, le pretese letterarie di alcuni, l'albagia filosofica di altri, la maledetta voglia del parere senza essere, e da ultimo, poi, lo scarso avviamento intellettuale, e i molti difetti che si riscontrano anche in certi socialisti. Ma tutte coteste cose non sono da considerare come dei meri accidenti! Vanità, orgoglio, desiderio di parere senz'essere, iomania, megalomania, voglia e smania di prevalere, tutte queste ed altre passioni e virtù dell’uomo civile non son certo le bagattelle della vita, anzi assai più spesso possono parere come la sostanza e il nerbo di questa. Si sa che la chiesa non è riuscita, il più delle volte, a suggestionare gli animi cristiani ad umiltà, se non facendo di questa nuovo titolo a novello e rincalzato orgoglio. E via... cotesto materialismo storico esige, da chi voglia consapevolmente e schiettamente professarlo, una certa curiosa maniera di umiltà: che, cioè dire, nell'atto che ci sentiamo legati al corso delle cose umane, e di questo studiamo le complicate linee e le tortuose pieghe, ci tocchi pur di essere insiememente e medesimamente, non già rassegnati ed acquiescenti, ma anzi operosi di conscia e ragionevole opera. Ma... venire al punto da confessare a noi stessi, che il nostro proprio io individuo, al quale ci sentiamo così strettamente legati da un ovvia e casalinga consuetudine, senza esser proprio una mera evanescenza, un nonnulla, come parve agl'invasati teosofi, per grande che esso si sia, o ci paia, è assai piccola cosa nel complicato ingranaggio dei meccanismi sociali: - ma doversi adattare alla persuasione, che i propositi o i conati subiettivi di ciascun di noi dànno quasi sempre di cozzo nelle resistenze dell'intricato intreccio della vita, cosicché, o non lascian traccia di sé, o ne lasciano una affatto difforme dal primitivo intento, perché alterata e trasformata dalle condizioni concomitanti: - ma dover convenire di questo enunciato, che noi siamo come vissuti dalla storia, e che il nostro contributo personale a questa, per quanto indispensabile, è sempre un dato minuscolo nell'incrocio delle forze, che si combinano, completano ed elidono a vicenda: - ma tutte queste vedute sono una vera e propria seccatura, per tutti quelli che han bisogno di confinare l'universo intero nei termini della loro individua visuale! Dunque si serbi alla storia il privilegio degli eroi, perché ai nani non sia tolta la fiducia di potersi mettere a cavallo delle proprie spalle per farsi vedere; anche quando essi, secondo il detto di Jean Paul, non sian degni di arrivare all'altezza delle proprie ginocchia!

E, di fatti, non si va a scuola da secoli, per sentirsi a dire, che Giulio Cesare fondò l'impero, e Carlo Magno lo rifece; che Socrate quasi quasi inventò la logica; e Dante, cosi a un di presso, creò la letteratura italiana? Gli è da assai poco tempo, che alla immaginazione mitologica degli autori della storia s'è andata sostituendo, e fino ad ora in modi non sempre precisi, la nozione prosaica del processo storico-sociale. La Rivoluzione Francese non l'han voluta e fatta, secondo le varie versioni della inventiva letteraria, i varii santi della leggenda liberalesca; e santi di destra, e santi di sinistra, santi girondini e santi giacobini? Tanto è, che il signor Taine - del quale non ho mai capito come, con la poca rassegnazione che mostra alla cruda necessità dei fatti, si dica che ei fosse un positivista - ha potuto spendere una parte non piccola del suo poderoso ingegno a dimostrate, come chi scrivesse l'errata-corrige della storia, che tutta quella bagarre potea anche non accadere. Per buona fortuna loro, la più parte di cotesti vostri santi paesani si onorarono e si coronarono a vicenda, e a tempo debito, del dovuto martirio; ond'è che le regole della classicità tragica rimasero per essi gloriosamente intatte: - se no, chi sa quanti imitatori di Saint-Just (uomo sommo per davvero) non sarebbero finiti fra i manutengoli del turpe Fouché, e quanti complici di Danton (un grande uomo di stato mancato) non avrebbero contesa al Cambacérès la cancelleresca livrea, quando altri molti non si fossero contentati di disputare all'avventuroso Drouet, e a quel bieco commediante del Tallien, i modesti galloni del sottoprefetto.

Insomma, affannarsi ad occupare i primi posti è cosa di rito e di prammatica per tutti quelli, che, avendo imparato la storia di vecchio stile, s'accordano ancora con quel retore di Cicerone nel proclamarla maestra della vita. E a ciò fare bisogna moraliser le socialisme. La morale non ha forse insegnato per secoli, che bisogna rendere a ciascuno secondo il merito suo? Un tantino di paradiso non volete serbarcelo? - mi pare di sentire a dire; - e se anche s'ha da rinunciare al paradiso dei credenti e dei teologi, non ci si ha da serbare un po' di pagana apoteosi in questo mondo? Non barattiamo, dunque, tutta la morale degli onesti compensi: - almeno una buona poltrona, od un palco di prima fila, nel teatro delle vanità!

Ed ecco perché le rivoluzioni, per tante altre ragioni necessarie ed inevitabili, anche per questo rispetto sono utili e desiderabili: perché, a guisa di grossa scopa, spazzano dal terreno i primi occupanti, o per lo meno rendono l'aere più respirabile, come accade dei temporali per cresciuto ozono.
Non dite voi forse, e assai giustamente, che tutta la questione pratica del socialismo (e per pratica intendete, senza alcun dubbio, quella che piglia lume dai dati intellettuali di una coscienza rischiarata dal sapere teoretico) si riduce e compendia in questi tre punti: a) il proletariato ha esso di già raggiunta la coscienza chiara della sua esistenza come classe indivisibile? b) ha esso tanta forza da poter entrare in lotta con le altre classi? c) è esso in grado di rovesciare, insieme con la organizzazione capitalistica, tutto il sistema della ideologia tradizionale?
E sta benissimo!

Ora il proletariato che arrivi a conoscere perspicuamente ciò che esso può, ossia che s'avvii a saper volere ciò che può: - quel proletariato, insomma, che si metta in carreggiata per riuscire a risolvere (qui uso il gergo un po' sciatto dei pubblicisti) la così detta questione sociale, quel proletariato dovrà proporsi di eliminare, fra le altre forme di sfruttamento del prossimo, eziandio questa della vanagloria e della presunzione, e della singolare concorrenza che c'è tra coloro, che s'inscrivono da sé sul libro d'oro dei benemeriti della umanità. Anche quel libro va messo in falò, con tanti altri che han titolo di libri del debito pubblico.

Ma per ora sarebbe opera vana il provarsi a fare intendere, a tanti e tanti di costoro, questo principio schietto di etica comunistica: che, cioè, la gratitudine e l'ammirazione conviene aspettarsele come doni spontanei dal prossimo nostro; - né molti di costoro si tratterrebbero dal mettere le mani avanti, per sentirsi a ripetere, in nome di Baruch Spinoza, che la virtù è premio a se stessa. En attendant, dunque, che in una società migliore della nostra non rimangano altri oggetti all'ammirazione degli uomini, se non quelli degnissimi - che so dire? -, per es., le linee del Partenone, i quadri di Raffaello, i versi di Dante e di Goethe, e quanto di utile, di certo, di definitivamente acquisito presenti la scienza, non ci è dato per ora d'impedire a quanti abbiano fiato da spendere, e carta stampata da mettere in circolazione, di pavoneggiarsi in nome di tante e tante belle cose - umanità, giustizia sociale e simili - e anche in nome del socialismo, come accade specie a quelli che s'inscrivono da concorrenti a l'ordre pour le mérite e alla legion d’onore, della futura, ma non molto prossima, rivoluzione proletaria. Figurarsi se costoro non dovessero subodorare nel materialismo storico la satira di tutte le loro vuote arroganze e futili ambizioni, e non avessero da avere in uggia questa nuova specie di panteismo, dal quale, con licenza parlando, è sparito - appunto perché esso è ultraprosaico - perfino il riverito nome di dio.

Una grave circostanza è qui da aggiungere. In tutte le parti dell'Europa civile gl'ingegni - veri o falsi che si siano - han molti e molti modi di occuparsi nei servizii dello stato, e in tutto ciò che di proficuo e di onorifico può loro offrire la borghesia; la quale, per dir vero, non è tanto prossima a tirar le cuoia, come si dànno ad intendere alcuni allegri facitori di strampalate profezie. Non è dunque da meravigliare che Engels (pag. IV della prefazione al III vol. del Capitale - notate bene - in data del 4 ottobre 1894) scrivesse così: “Come nel secolo XVI, così nel nostro tempo tanto agitato, non vi ha nel campo degl'interessi pubblici dei puri teorici se non dal lato della reazione”. Queste parole, per quanto chiare altrettanto gravi, basterebbero da sole a turar la bocca a quelli che vanno sbraitando, esser già tutta l'intelligenza passata dalla parte nostra, e che la borghesia abbassi oramai le armi. Il vero è precisamente il contrario: nelle nostre file c'è da per tutto scarsezza di forze intellettuali, per quanto gli operai genuini, per ispiegabile sospetto, spesso strepitino qua e là contro i parleurs e lettrés del partito. Non c'è dunque da inarcar le ciglia, se il materialismo storico sia così poco progredito dalle prime e generali enunciazioni. E volendo pur passar sopra a quelli che ne han fatto argomento di semplici ripetizioni o di travestimenti, che qualche volta rasentano il burlesco, ci tocca di confessare, che nella somma di tutto ciò che se n'è scritto di serio, di congruo e di corretto, non c’è ancora l'insieme di una dottrina uscita già dallo stadio della prima formazione. Non è chi oserebbe fra noi di far confronti col darwinismo, che in poco men di quarant'anni ha avuto tale e tanto sviluppo intensivo ed estensivo, che oramai, per la copia dei materiali, per la molteplicità dei riattacchi ad altri studii, per le varie correzioni metodiche e per la interminabile critica sortavi dentro e dattorno, quella dottrina ha giù una storia gigantesca.

Tutti quelli che son fuori del socialismo ebbero ed hanno interesse a combattere, a svisare o per lo meno ad ignorare questa nuova dottrina; e ai socialisti, e per le ragioni dette e per altre molte, non è stato dato di spenderci attorno il tempo, le cure e gli studii che occorrono, perché un indirizzo mentale acquisti ampiezza di sviluppi e maturità di scuola, come accade delle discipline, che protette, o per lo meno non combattute dal mondo ufficiale, crescono e prosperano per la cooperazione assidua di molti collaboratori.

La diagnosi del male non è una mezza consolazione? Non usano forse così ora con gli ammalati i medici, dacché divennero, come sono difatti al presente, più ispirati nella pratica terapeutica al sentimento scientifico dei problemi della vita?

Al postutto, dei varii effetti che il materialismo storico può produrre, alcuni soltanto si prestano a raggiungere un grado notevole di popolarità. Di certo, con l'aiuto di tale nuova orientazione dottrinale, si riuscirà a scrivere dei libri di storia meno inconcludenti di quelli che di solito scrivono i letterati addestrati a cotesta arte coi soli mezzi della filologia e della erudizione. E, passando sopra alla consapevolezza che i socialisti d'azione possono ritrarre dall'analisi accurata del terreno su cui lavorano, non c'è dubbio che il materialismo storico, o per diretto o per indiretto, ha già esercitato su molte menti un grande influsso, e ne eserciterà col tempo uno ancor maggiore, per quanto si attiene agli studii veri e proprii di storia economica, e a quelli di interpretazione prammatica dei moventi e delle ragioni intime, e per ciò più remote, di una determinata politica. Ma tutta la dottrina nel suo intimo, o nel suo insieme, tutta la dottrina, intendo dire, insomma, come filosofia - e adopero questa parola con molta apprensione di poter esser frainteso, ma non ne saprei trovare di altra, e, se scrivessi in tedesco, direi più volentieri Lebens-und Weltanschauung, ossia concezione generale della vita e del mondo - non mi pare che possa entrare tra gli articoli della coltura popolare. Oltre che ad apprendere cotesta filosofia occorre un discreto sforzo di menti già addestrate alle difficoltà e alla combinatoria del pensiero; il maneggiarla, poi, può esporre gl'ingegni troppo facili e troppo correnti alle comode conclusioni a spropositare di santa ragione; e noi non vorremmo renderci, né promotori, né complici di tal nuova ciarlataneria letteraria.

II.

Roma, 24 aprile ‘97

Ed ora permettetemi di passare alla considerazione di certe cose prosaicamente piccole, ma che, come assai spesso accade delle cose piccole nelle faccende grosse del mondo, hanno assai peso nel fatto nostro.

Gli scritti di Marx e di Engels - tanto per tornare a loro, che sono principalmente in causa - furon essi mai letti per intero da nessuno, il quale si trovasse fuori della schiera dei prossimi amici ed adepti, e quindi, dei seguaci e degl'interpreti diretti degli autori stessi? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto di commento e di illustrazione, da gente che si trovasse fuori del campo, che s'è formato intorno alla tradizione della deutsche Socialdemokratie; nella quale impresa di lavoro applicativo ed esplicativo ha per anni primeggiato soprattutto la “Neue Zeit”, magazzino indispensabile delle dottrine del partito? Intorno a quegli scritti, in brevi parole, non si è formato, fuori che in Germania, ed anche ivi assai parzialmente, e qualche volta con modi non pienamente critici, ciò che i neologisti chiamano ambiente letterario.

E poi la rarità di molti di quegli scritti, e anzi la irreperibilità di alcuni di essi! C'è molta gente al mondo, che abbia la pazienza di mettersi per degli anni, come toccò a me, alla ricerca di un esemplare della Misère de la philosophie, che fu solo assai di recente ristampata a Parigi, o di quel singolare libro che è la Heilige Familie; e che sia disposta a durar più fatica per avere a disposizione un esemplare della “Neue Rheinische Zeitung”, di quella non tocchi, in condizioni ordinarie, a qualunque filologo o storico presentemente per leggere e studiare tutti i documenti dell'antico Egitto? A me che pure ho una certa pratica alquanto notevole dei libri e del modo di ricercarli, non è toccata mai briga più fastidiosa di cotesta. Il leggere tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico è parso fino ad ora come un privilegio da iniziati!().

Che maraviglia, dunque, se fuori della Germania, e quindi anche in Francia, e anzi in Francia segnatamente, molti e molti scrittori, e specie fra i pubblicisti, abbiano avuto la tentazione di ritrarre, o da critiche di avversarii, o da citazioni incidentali, o da frettolose illazioni ricavate da brani speciali, o da vaghi ricordi, gli elementi per foggiarsi un marxismo di loro invenzione e maniera? Tanto più, poi, che, col sorgere in Francia ed in Italia di partiti socialistici, che dal più al meno sono in voce di rappresentare una esplicazione del marxismo, il che pare a me invero designazione inesatta, ai letterati d'ogni maniera si offerse la comoda opportunità di credere o di far credere, che in ogni discorso di propagandista o di deputato, in ogni enunciato di programma, in ogni articolo di giornale, in ogni atto di partito, ci fosse come l'autentica e ortodossa rivelazione della nuova dottrina, esplicantesi nella nuova chiesa. Alla Camera Francese non si fu due anni fa quasi quasi sul punto di discutere della dottrina del valore di Marx... come se fossimo a Bisanzio? E che dirvi di tanti professori italiani, che han citato e discusso per anni libri ed opuscoli, che notoriamente non eran mai giunti in questi nostri paraggi; e specie dappoi che il signor Giorgio Adler() scrisse quei suoi due libri alquanto superficiali quanto inconcludenti, nei quali però egli offerse ai ricercatori di comoda erudizione e ai facitori di plagio i facili tesori della bibliografia e delle copiose citazioni: perché, a dir vero, quel signor Adler ha molto letto come ha molto peccato.

Il materialismo storico, che poi in un certo senso è tutto il marxismo, prima che entrasse nell'ambiente critico letterario degli atti a svolgerlo e continuarlo, è passato qui, fra noi popoli di lingue neolatine, attraverso ad una infinità di equivoci, di malintesi, di alterazioni grottesche, di strani travestimenti e di gratuite invenzioni: tutte cose coteste, che nessuno vorrà mettere a carico della storia del socialismo, ma che, in tutti i modi non poteano non tornare d'impaccio ai volenterosi di farsi una coltura socialistica, specie se son persone che escano dalle file degli studiosi di professione.

Voi sapete la fantastica storiella del biondo Marx inauguratore della Internazionale a Napoli nel 1867, che fu raccontata dal Croce nel “Devenir Social”. Io di quelle storielle potrei narrarvene parecchie. Che dirvi dello studente corso anni fa a casa mia a vedere, una volta almeno de visu, la famigerata Misère de la philosophie! Rimase sbalordito: “dunque - diceva - è un libro serio di economia politica?” – “E oltre che serio - soggiunsi io - di dicitura difficile, e in molti punti oscuro”. Non si poteva capacitare. “Vi aspettavate - gli dissi - un poema su gli eroi della soffitta, o un romanzo come quello del giovane povero?” Per fino quel bisbetico titolo di Heilige Familie (Sacra Famiglia) ha dato ad alcuni occasione di stranamente almanaccare. Singolare ventura di quella coterie di posthegeliani - tra i quali, del resto, era un uomo notevole e di valore, Bruno Bauer - che le sia toccato di passare ai posteri nel curioso persiflage che ne fecero i due giovani scrittori! E dire che quel libro - che alla più parte dei lettori francesi apparirebbe duro, intricato ed incondito - non è veramente notevole, se non perché ci mostra come Marx ed Engels, liberi già dallo scolasticismo hegeliano, si andassero districando dall'umanitarismo del Feuerbach, e, mentre s'avviavano a quella che fu poi la dottrina loro, fossero ancora in certo tal quale modo intinti di quel socialismo vero, che più tardi essi stessi volsero in satira nel Manifesto.

Ma a canto a queste storielle, tutte da ridere, qui in Italia se n'è svolta una, che veramente non fa ridere: e intendo dire del caso Loria. Proprio in questi ultimi anni, nei quali, tra difficoltà  grandissime, s'è andato formando da noi un partito socialistico, che nei programmi e negl'intenti, e, per quanto la condizione del paese lo consente, alla men trista anche nelle opere, risponde alle tendenze del socialismo internazionale, proprio in questi ultimi anni venne in capo a parecchi, o studenti, o quasi ex-studenti, di fare del signor Loria, ora l'autentico autore delle dottrine del socialismo scientifico, ora l'inventore della interpretazione economica della storia, ora tante e tante altre cose diverse, contrarie e contraddittorie: di modo che il Loria, a sua insaputa e senza merito o colpa sua, è passato a un tempo stesso ora per Marx, ora per anti-Marx, ora per vice-, per sopra-, o per sotto-Marx. Anche cotesto equivoco è oramai trapassato: e sia pace alla memoria sua. Da che i Problemi Sociali del signor Loria furono tradotti in francese, parrà strano a molti dei vostri compaesani, che quello scrittore sia potuto passare, non che per socialista in genere, la quale opinione può parere in fin delle fini atto o segno d'ingenuità, ma anzi per un continuatore e correttore di Marx; il che è veramente sproposito da far rizzare i capelli.

Dunque, per tali aneddoti d'intuitiva esemplarità, consolatevi per ciò che riguarda la Francia; perché, non solo è vero, che intra Iliacos muros peccatur et extra, ma perché, in fin delle fini, nessuno che non appartenga alla categoria di quei folli, che sono i genii incompresi, può non convenire di questo principio: che non si arriva mai tardi al mondo per fare il dover suo. E anzi qui, in questo caso, si arriva tanto poco tardi, che, come Engels mi scriveva poche settimane prima di morire: noi siamo al primo cominciamento ancora!

E tanto, perché in questo primo cominciamento sia dato agli studiosi di occuparsi della dottrina in questione con piena cognizion di causa, col minimo d'incomodo e col preciso possesso delle prime fonti, pare a me, che sarebbe dovere del partito tedesco di procurare una edizione completa e critica di tutti gli scritti di Marx e di Engels; una edizione, voglio dire, che sia corredata, caso per caso, di prefazioni dichiarative, di indici di riferimento, di note e di rimandi. Sarebbe già un'opera meritoria il togliere agli antiquarii di libri il modo di esercitare una indecente speculazione - ne so io qualcosa - su le rarissime copie degli scritti più antichi. Agli scritti già apparsi in forma di libri o di opuscoli converrebbe aggiungere gli articoli di giornali, i manifesti, le circolari, i programmi, e tutte quelle lettere, che, per essere di pubblico e di generale interesse, per quanto dirette a privati, hanno importanza politica o scientifica.

A tale impresa non possono mettersi se non i socialisti di lingua tedesca. Non già che Marx ed Engels appartengano alla Germania soltanto, nel senso patriottico e sciovinistico, che ha per molti la parola di nazionalità. La forma dei loro cervelli, l'andamento delle loro produzioni, l'assetto logico dei loro modi di vedere, il loro senso scientifico e la loro filosofia, furono il portato ed il resultato della coltura tedesca: ma la sostanza di ciò che essi han pensato ed esposto è tutta nelle condizioni sociali, che s'eran svolte fino agli anni più che maturi di loro vita per la massima parte fuori della Germania e segnatamente in quelle della grande rivoluzione economico-politica, che dalla seconda metà del secolo XVIII ebbe base e svolgimento soprattutto in Inghilterra ed in Francia. Essi furono, per ogni rispetto, spiriti internazionali. Ma, nulladimeno, solo fra i socialisti di lingua tedesca si trova, a cominciare dalla Lega dei Comunisti fino al programma di Erfurt e fino agli ultimi articoli del cauto, e ponderato Kautsky, quella continuità e persistenza di tradizione, e quel sussidio di costante esperienza che occorrono, perché l'edizione critica trovi nelle cose stesse e nella memoria degli uomini i dati occorrenti a farla piena e viva. Né si tratta di scegliere. Tutta la operosità scientifica e politica, tutta la produzione letteraria, sia pur essa occasionale, dei due fondatori del socialismo critico, deve esser messa alla portata dei lettori. Non si tratta già di compilare un Corpus juris, né di redigere un Testamentum juxta canonem receptum; ma di mettere insieme una elaborata raccolta di scritti, perché essi parlino direttamente a chiunque abbia voglia di leggerli. Solo così gli studiosi di altri paesi potranno avere a loro disposizione tutte le fonti, che altrimenti apprese, per via di incerte riproduzioni o di vaghi ricordi, han dato luogo a questo strano fenomeno, che non c'era fino a poco tempo fa quasi scritto alcun di lingua non tedesca sul marxismo, che procedesse da una critica documentata; specie se tali scritti uscivano dalla penna degli scrittori di altri partiti rivoluzionarii, o di altre scuole socialistiche. Il caso tipico è quello degli scrittori anarchisti, pei quali, specie in Francia ed in Italia, l'autore del marxismo pare il più delle volte non sia esistito se non per essere lo staffilatore di Proudhon e l'avversario di Bakunin, quando non divenga il semplice caposcuola di quella che agli occhi loro è la massima delle reità, ossia il rappresentante tipico del socialismo politico, e quindi - o infamia! - anche parlamentare.

Tutti cotesti scritti hanno un fondo comune; e questo è il materialismo storico, inteso nel triplice aspetto, di tendenza filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di critica dell'economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica, e di interpretazione della politica, e soprattutto di quella che occorre e giova alla direzione del momento operaio verso il socialismo. Questi tre aspetti, che qui enumero astrattamente, come accade sempre per comodo di analisi, faceano uno nella mente degli autori stessi. Perciò quegli scritti, che, tranne il caso dell'Antidühring di Engels e del primo volume del Capitale, non parranno mai ai letterati di tradizione classica come condotti secondo i canoni dell'arte di faire le livre, sono in verità delle monografie, e nella più parte dei casi dei lavori d'occasione. Ossia, sono i frammenti di una scienza e di una politica che è in continuo divenire; e che altri - e non dico che ciò sia l'affare del primo venuto - deve e può continuare. Per intenderli, dunque, a pieno, bisogna ricollegarli biograficamente; e in tale biografia è come la traccia e l'orma, e a volte l'indice e il riflesso della genesi del socialismo moderno. Chi cotesta genesi non è in grado di seguire, cercherà in quei frammenti ciò che non c'è, e non ci ha da essere: per es., delle risposte a tutti i quesiti che la scienza storica e la scienza sociale possano mai offrire nella loro vastità e varietà empirica, o una soluzione sommaria dei problemi pratici d'ogni tempo e d'ogni luogo. A proposito ora, per es., della questione d'Oriente, nel discutere la quale alcuni socialisti offrono lo spettacolo singolare di una lotta fra l'idiotismo e l'avventataggine, si sente d'ogni parte fare appello al marxismo!. Difatti i dottrinarii e i presuntuosi d'ogni genere, che han bisogno degl'idoli della mente, i facitori di sistemi classici buoni per l'eternità, i compilatori di manuali e di enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel marxismo ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno. Costoro intendono il pensato ed il saputo come cose che esistano materiatamente; ma non intendono il pensare ed il sapere come operosità che siano in fieri. Costoro son metafisici, secondo il senso che Engels attribuisce a cotesta parola, e che, veramente, non è il solo che quella parola abbia o possa avere: secondo il senso, in somma, che Engels le attribuisce per via d'una insistente amplificazione della caratteristica che Hegel applicava agli ontologisti come Wolf e simiglianti.

Ma che forse Marx, nello scrivere da pubblicista insuperato, nel periodo di tempo dal 1848-60, i suoi saggi di storia contemporanea e i suoi memorabili articoli di giornale, ebbe mai la pretesa di atteggiarsi a compiuto istoriografo; la qual cosa non gli sarebbe forse riuscito d'esser mai, non essendo questa la vocazione e l'attitudine sua? O che forse Engels, nello scrivere l'Antidüring, che fino all'ora presente è il più compiuto libro di socialismo critico, il quale reca a un di presso tutta quella filosofia che occorre alla intelligenza del socialismo stesso, s'è mai sognato di descriver fondo, nel giro di così breve e squisitissimo lavoro, all'universo scibile, e di segnare in perpetuo i termini della metafisica, della psicologia, dell'etica, della logica e come altro si chiamino, o per ragioni intrinseche di obiettiva partizione, o per ripiego e comodo e vanità dei professanti l'insegnamento, le sezioni dell'enciclopedia? O che è forse il Capitale una di quelle tante enciclopedie di tutto lo scibile economico, delle quali ora precisamente i professori, specie se tedeschi, van riempiendo il mercato?

Quell'opera, per quanto vasta di tre volumi in quattro non piccoli tomi, può parere, a confronto di tali enciclopediche compilazioni, come rassomigliante ad una colossale monografia. Il suo soggetto principalissimo è la origine ed il processo del sopravvalore (nell'orbita, s'intende, della produzione capitalistica), poi, dopo combinata la produzione con la circolazione del capitale, la spartizione del sopravvalore stesso. Sta come presupposto del tutto la teoria del valore, portata a compimento su la elaborazione che ne avea fatta la scienza economica per un secolo e mezzo: teoria che non rappresenta mai un factum empirico tratto dalla volgare induzione, né esprime una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato, ma è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile.

Le premesse di fatto, ossia il capitale preindustriale e la genesi sociale del salariato, sono i capisaldi della spiegazione storica dell'iniziarsi del capitalismo attuale: - il meccanismo della circolazione, con le sue leggi secondarie e laterali, e da ultimo i fenomeni della distribuzione, guardati nei loro aspetti antitetici e di relativa indipendenza, formano il tramite e le illazioni, attraverso il quale e per le quali, si arriva ai fatti di configurazione concreta, come ce li porge il movimento apparente della vita di tutti i giorni. Il modo di rappresentazione dei fatti e dei processi è generalmente tipico, perché si suppongon sempre come già tutte esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica: ond'è, che le altre forme di produzione vengono illustrate, o solo in quanto furono superate di già, e per il modo come furono superate, o in quanto, come residuo, tornan di limite e d'impedimento alla forma capitalistica.

Di qui il frequente passare attraverso alle illustrazioni di mera storia descrittiva per poi tornare, dalla dichiarazione delle premesse di fatto, alla esplicazione genetica del modo come quelle premesse, data la loro concorrenza e concomitanza, debbano funzionare tipicamente, formando esse la struttura morfologica della società capitalistica. Da ciò dipende, che quel libro, che non è mai dommatico, appunto perché critico, ed è critico, non nel senso subiettivo della parola, ma perché ritrae la critica dal moto antitetico e quindi contraddittorio delle cose stesse, anche nei punti nei quali arriva alla descrittiva storica non si perde nello storicismo volgare, il cui segreto è questo: rinunziare alla ricerca delle leggi del variare, e alle varietà semplicemente enumerate e descritte appiccicare l'etichetta di processo storico, di sviluppo o di evoluzione.

Il filo conduttore di questa genesi è il procedimento dialettico; ed è questo il punto scabroso, che mette in tristissima condizione tutti i lettori del Capitale, che nel leggerlo vi portino dentro gli abiti intellettuali degli empiristi, dei metafisici, e dei padri definitori di entità concepite in aeternum. La fastidiosa questione che si è fatta da molti sulle contraddizioni, che, secondo loro, correrebbero fra il III e il I volume del Capitale (qui intendo di parlare dello spirito della disputa e non delle particolari osservazioni perché, di fatti, il III volume è tutt'altro che un lavoro compiuto, e può offrire materia di critica anche a chi professi in genere gli stessi principii), si vede come alla più parte di questi critici manchi la nozione esatta del procedimento dialettico.

Le contraddizioni che essi notano non sono le contraddizioni del libro col libro stesso, non sono le infedeltà dell'autore alle sue premesse e promesse: ma sono le stesse condizioni antitetiche della produzione capitalistica, che, enunciate in formule, si presentano allo spirito pensante come contraddizioni. Rata media di profitto in ragione della quantità assoluta del capitale impiegato, e, cioè, indipendentemente dalla varia composizione sua, ossia dalla proporzione fra capitale costante e capitale variabile; - prezzi che si costituiscono sul mercato per via di medie, che oscillano con assai difforme oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano; - interesse puro e semplice del danaro posseduto come tale, e abbandonato a prestito all'industria degli altri; - rendita della terra, cioè di ciò che non fu mai prodotto di alcun lavoro; - queste ed altre smentite alla così detta legge del valore (- gli è proprio quel termine di legge che imbroglia i cervelli di molti! -) son le antitesi stesse del sistema capitalistico.

Queste antitesi, ossia l'irrazionale, che, malgrado che paia irrazionale, esiste - a cominciare dal primissimo irrazionale, che cioè il lavoro del lavoratore salariato renda a chi lo piglia a mercede un prodotto superiore al costo (salario) - questo vasto sistema delle contraddizioni economiche (per tale espressione sia reso onore a Proudhon!) è ciò che ai socialisti sentimentali, ai socialisti semplicemente ragionatori, e poi via via ai declamatori radicali, apparisce come l'insieme delle ingiustizie sociali: - di quelle ingiustizie, che la onesta gente fra i riformatori vorrebbe eliminare con degli onesti ragionamenti di legge! Chi confronti ora, alla distanza di cinquanta anni, la trattazione di coteste antinomie concrete nel III volume del Capitale con la Misère de la philosophie, è bene in grado di riconoscere in che consista il filo dialettico della trattazione. Le antinomie, che Proudhon volea astrattamente risolvere (e per tale errore egli ha un posto nella storia) come ciò che la ragion ragionante condanna in nome della giustizia, sono in fatti le condizioni della struttura stessa, in guisa che la contraddizione è nella stessa ragion d'essere del processo. L'irrazionale considerato come un momento del processo stesso, mentre ci libera dal semplicismo della ragione astratta, ci mostra, al tempo medesimo, la presenza della negatività rivoluzionaria nello stesso grembo della forma storica relativamente necessaria.

Comunque sia di cotesta assai grave ed intricatissima questione di concezione processuale, che io non oserei di trattare a fondo come l'incidente di una lettera, sta il fatto, che non è dato ad alcuno di distrarre le premesse, gli andamenti metodici, le illazioni e le conclusioni di quell'opera, dalla materia in cui si svolge e dalle condizioni di fatto cui si riferisce, per ridurne la dottrina in una specie di volgata o di precettistica per la interpretazione della storia di qualunque tempo e luogo. Né si può dar frase più scipita e ridicola di quella che proclama il Capitale la Bibbia del socialismo. Già, la Bibbia, che è un insieme di libri religiosi e di trattazioni teologiche, l'hanno fatta i secoli! E ci fosse pure la Bibbia, col solo socialismo i socialisti non diverrebbero onniscienti!

Il marxismo - giacché questo nome è oramai adottabile come simbolo e compendio di un molteplice indirizzo e di una complessa dottrina - non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels. Ci vorrà, anzi, molto, prima che esso divenga la dottrina piena e completa di tutte le fasi storiche già ridotte alle rispettive forme della produzione economica, e regola al tempo istesso della politica. A ciò fare occorre, o studio accuratamente nuovo di fonti, per chi voglia ingegnarsi a studiare il passato secondo l'angolo visuale della nuova veduta storico-genetica, o speciali attitudini di orientazione politica in chi voglia praticamente operare al presente. Come quella dottrina è in sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se non criticamente. Come si tratta di appurare e di approfondire determinati processi, così non c'è catechismi che tenga, non c'è generalizzazioni schematiche che valgano. Ne ho fatto la prova io quest'anno.

Mi proposi di trattare all'Università della condizione economica dell'Italia superiore e media in su la fine del XIII, e in sul cominciamento del XIV secolo, col principale intento di spiegare l'origine del proletariato di campagna e di città, per trovar poscia una qualche prammatica spiegazione al sorgere di certe agitazioni comunistiche, e per dichiarare da ultimo le vicende assai oscure della eroica vita di Fra Dolcino. Fu certo intento mio d'essere e rimanere marxista; ma non posso non prendere sotto la mia responsabilità personale le cose che dissi a mio rischio e pericolo, perché le fonti su le quali mi toccava di lavorare son quelle che maneggiano tutti gli altri storici, d'ogni altra scuola o indirizzo, e a Marx non aveva niente da chiedere, poiché lui non aveva niente da offrirmi nella fattispecie.

Mi par quasi di aver risposto sufficientemente - sebbene per altri rispetti mi tocchi di continuare - alla domanda principale che ricorre non solo nella vostra Prefazione, alla quale io specialmente mi riferisco, ma in parecchi dei vostri scritti inseriti nel “Devenir Social”. La vostra domanda s'aggira sempre su questo punto: per quali ragioni il materialismo storico ebbe fino ad ora così poca diffusione e così scarso sviluppo?

Con riserva delle cose che dirò in seguito - guardate che bella minaccia di ulteriore seccatura io vi faccio - voi non dovreste trovar fatica a rispondere ad un'altra domanda, che vi siete fatta, specie nello scrivere ceste recensioni, e che suona a un di presso così - almeno in tali termini la tradurrei io -: come va che in tale imperfetta cognizione ed elaborazione del marxismo, tanti si sono affannati a completarlo, ora con Spencer, ora col positivismo in genere, ora con Darwin, ora con ogni altro ben di dio, dando segno di volere, chi sa mai, o italianizzare, o infranciosare, o russificare il materialismo storico; mostrando, vale a dire, di dimenticare due cose, che questa dottrina reca in se stessa le condizioni e i modi della sua propria filosofia, ed è, cosi nella origine come nella sostanza, intimamente internazionale?

Ma anche per questo riguardo mi tocca di continuare.

III.

Roma, 10 maggio '97

Se i due autori del socialismo scientifico (- adopero cotesta espressione non senza tema, che il mal uso che se ne va facendo possa averla resa in certo qual modo presso che risibile specie quando è usata a significare un certo che di scienza universale -) fossero stati, non dirò santi di vecchia leggenda, ma per lo meno facitori di progetti e di sistemi, che per la forma classica dai precisi contorni si prestassero alla facile ammirazione! Nossignore: essi furono critici e polemisti, non solo nello scrivere, ma perfino nell'atto d'operare, e non esibirono mai le proprie persone loro e le proprie idee ad esemplare od a modello: dichiararon sì le cose stesse, ossia i procedimenti storico-sociali, in senso rivoluzionario, ma con animo di chi non misuri i grandi rivolgimenti storici alla stregua della personale e fantastica impulsività. Inde le irae di molti! Fossero stati per lo meno di quei professori umanissimi, che scendono di tanto in tanto dal piedistallo, per onorare di loro consigli il misero e meschino popolo, atteggiati, or d'un modo or d'un altro, a protettori e mecenati della question sociale! Tutt'all'incontrario: - identificando se stessi con la causa del proletariato, essi furono tutt'una cosa sola con la coscienza e con la scienza della rivoluzione proletaria. Rivoluzionarii per ogni rispetto compiuti (ma non passionati e passionali), pur nondimeno non suggerirono mai, né piani combinatorii, né artificii politici, mentre del resto spiegavano teoreticamente e aiutavano praticamente la nuova politica, che il nuovo movimento operaio indica e precisa come una necessità attuale della storia. In altre parole, e può sembrare quasi incredibile, furon qualcosa di diverso e di più che dei semplici socialisti: e di fatti, molti non più che semplici socialisti, o rivoluzionarii ancor più semplici, li ebbero spesso, non dirò in sospetto, ma di certo in uggia e in avversione.

Non ci sarebbe da finirla a volerle enumerar tutte le cagioni, che per lunghi anni ritardarono la discussione obiettiva del marxismo. Voi sapete bene che in Francia il materialismo storico è tutt'ora trattato da parecchi scrittori, che pur sono nell'ala sinistra dei partiti rivoluzionarii, non come usa di un portato dello spirito scientifico, sul quale la critica che attinga alla scienza abbia, come ha di fatto, l'indubitabile diritto di esercitarsi, ma come tesi personale di due scrittori, che, per notevoli o grandi che si fossero, rimangon sempre due fra gli altri capiscuola del socialismo, per es., due fra i tanti X… dell'universo! Per spiegarmi meglio, dirò, che contro di questa dottrina non si levarono soltanto tutte quelle buone o cattive ragioni, le quali di solito tornan di ostacolo e d'indugio alle innovazioni del pensiero, proprio fra i dotti di mestiere; perché assai spesso, anzi, le obiezioni nacquero da uno speciosissimo motivo, che cioè le teorie di Marx e di Engels fossero considerate come opinioni di compagni, e misurate quindi al sentimento di simpatia o di antipatia pratica che quei compagni destavano. Ecco le bizzarre conseguenze della democrazia prematura, che non ci sia dato di sottrarre proprio nulla al controllo degl'incompetenti, nemmeno la logica!

Ma c'è dell'altro. All'apparizione del primo volume del Capitale nel 1867, i professori e gli accademici, specie quei di Germania, n’ebbero come un grave colpo sul capo. Era quello un tempo di languore per la scienza economica. La scuola storica non avea ancora prodotto in Germania i ponderosi e spesso utili lavori venuti in luce più tardi. In Francia, in Italia, nella Germania stessa, menavano vita rachitica i derivati volgarissimi di quella economia vulgaris, che fra il '40 e il '6o avea già obliterata la coscienza critica dei grandi economisti classici. L'Inghilterra s'era acquetata in Stuart Mill; il quale, sebbene fosse un loico di professione, come accade d'un noto tipo della nostra commedia, fra il sì e il no rimase sempre, nei punti decisivi, del parer contrario. Nessuno avrebbe pensato a quel tempo a questa neo-economica degli edonisti, sorta ora assai di recente. In Germania, dove, per ragioni evidenti, prima che altrove Marx dovea esser letto, e dove Rodbertus rimaneva quasi ignorato, spadroneggiavano i genii della mediocrità, e sopra tutti gli altri quel famoso emarginatore di note erudite e minute, via via apposte a paragrafi pieni zeppi di definizioni nominali e spesso insensate, che fu il signor Roscher.

Il primo volume del Capitale parea proprio fatto a posta per preparare ai cervelli dei professori e degli accademici una triste delusione: essi, i dotti en titre, proprio nel privilegiato paese dei pensatori, dovean tornare a scuola! O smarriti nei minuti particolari della erudizione, o vogliosi di convertire l'economia in una scuola di apologetica, o imbarazzati a trovare le plausibili applicazioni di una scienza venuta d'oltre mare alla vita assai difforme del proprio paese, tutti cotesti professori della terra dei dotti per eccellenza aveano dimenticata l'arte dell'analisi e della critica. Il Capitale li costringeva a studiar daccapo; cioè a rifarsi su gli elementi primi. Perché quel libro, quantunque uscito dalla penna di un comunista estremo e risoluto, non recava tracce in sé di proteste o di progetti subiettivi, ma era l'analisi spietatamente rigorosa e crudelmente obiettiva del processo della produzione capitalistica. Nel giornalista rivoluzionario del 1848, nell'espatriato del 1849 c'era, dunque, qualcosa di assai più terribile che non la continuazione o il complemento di quel socialismo, che la letteratura borghese di tutto il mondo avea definito sogno da trapassati, e vicenda politica esaurita del tutto, dopo la caduta del Cartismo, e dacché trionfava in Francia il sinistro uomo del Colpo di stato. Bisognava, dunque, ristudiare l'economia: cioè, questa rientrava in un periodo critico.

A onor del vero, i professori di Germania, più tardi, e cioè dal '70 in poi, e con crescendo dall'80 in qua, alla revisione critica dell'economia ci hanno atteso con la diligenza, con la persistenza, con la buona volontà, con la laboriosità, che i dotti di quel paese rivelan sempre in ogni ramo di studii. Sebbene quello che scrivono non possa esser quasi mai accettato senz'altro da noi, gli è nondimeno indubitato, che per opera loro fu rimosso nuovamente il terreno dell'economia, fra quelli che la coltivano da professori e da accademici, e che questa disciplina non può esser più ora mandata a mente come una ovvia pigrorum doctrina. Da ultimo, il nome di Marx è diventato tanto fashionable, da risuonare nelle aule accademiche qual tema prediletto di critica, di polemica e di rimando, e non più di semplice rimpianto e di volgare invettiva. Del ricordo di Marx è tutta inficiata al presente la letteratura sociale della Germania.

Ma ciò non potea accadere nel 1867. Il Capitale venne alla luce proprio in quel tempo, nel quale la Internazionale cominciava a far parlar di sé, e a breve andare apparve terribile, non solo per quello che intrinsecamente essa fu, e per ciò che sarebbe di fatti diventata, senza il grave colpo che le venne dalla guerra franco-prussiana e dal tragico incidente della Comune, ma anche per le focose amplificazioni di alcuni dei suoi componenti, e per le mene stupidamente rivoluzionarie di parecchi che v'entrarono da intrusi. Non era forse notorio che l’Indirizzo inaugurale dell’Associazione dei Lavoratori (del quale Indirizzo non è socialista che non abbia tuttora qualcosa da imparare) era uscito dalla penna di Marx; e non s’avea forse ragione di attribuire a lui gli atti e le deliberazioni più praticamente e politicamente risolute della Internazionale stessa? Ora, mentre un rivoluzionario di indubitata lealtà e di singolare acume, quale fu Mazzini, potea permettersi di confondere la Internazionale, cui Marx rivolgeva l'opera sua, con l'Alleanza Bakuniniana, che maraviglia c’è, se i professori tedeschi s'indugiassero tanto ad entrare nelle vie di una critica dottrinale con l'autore del Capitale? Com'era possibile di venire così presto a patti di discussione, a tu per tu, con un uomo, che, mentre era, per così dire, impiccato in effigie in tutte le leggi d'eccezione a uso Favre e consorti, ed era tenuto qual complice morale di tutti gli atti dei rivoluzionarii, compresi gli errori e le stravaganze di costoro, proprio nel medesimo tempo dava alla luce un libro magistrale, qual novello Ricardo, che studii impassibile i procedimenti economici, more geometrico? Di qui un curioso metodo di polemica, cioè una specie di processo alle intenzioni dell'autore; cioè il tentativo di dare a credere, che quella scienza fosse stata, come a dire, escogitata per colorire delle tendenze: insomma, per molti anni, la polemica tendenziosa sostituita all'analisi obiettiva.

Ma il peggio gli è, che gli effetti di cotesta critica grossolanamente errata si fecero sentire proprio nelle menti dei socialisti, e specie in quelle della gioventù intellettuale, che fra il '70 e l'80 si volse alla causa del proletariato. Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, - e in Germania la cosa è più chiara, perché ha lasciato tracce di sé nelle polemiche del partito, e nella minuta letteratura - si misero su la via di proclamarsi seguaci delle teorie marxiste, pigliando proprio per moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli avversarii. Il caso più paradossale di tutta la equivocazione sta in questo: che i correnti alle facili illazioni, come capita anche ora ai novellini, mescolando allora cose vecchie a cose nuove, credessero, che la teoria del valore e del sopravvalore, come si presenta di solito semplicizzata in facili esposizioni, contenga hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie. Non è forse una grande ingiustizia, che milioni e milioni di uomini sian privati del frutto del loro lavoro?

L'enunciato è tanto semplice e tanto pietoso, che tutte le nuove bastiglie dovranno cadere d'un tratto innanzi alle nuove trombe di Gerico, scientificamente intonate! Concorrevano in cotesta così spiccia semplificazione molti degli errori teorici di Lassalle; così quelli che gli furon proprii per relativa inscienza (- la legge ferrea del salario! ossia una mezza verità relativa che diventa un totale errore, per manco di circostanziata specificazione -), come quelli che possono dirsi, nel caso suo, espedienti da agitatore (- le famose cooperative sussidiate dallo stato -). Del resto, per chi si metta su la via di confinare tutta la profession di fede del socialismo nella semplicissima illazione, dallo sfruttamento riconosciuto, alla rivendicazione, sicura solo perché legittima, degli sfruttati, non ha che a fare un passo sul terreno assai liscio della logichetta, per ridurre tutta la storia del genere umano ad un caro di coscienza, e lo svolgersi successivo di tante forme di vita sociale come a tante variazioni di un continuato errore di contabilità.

Fra il '70 e l'80, e poco dopo, insomma, si andò formando intorno al vago concetto di un certo che, ossia del socialismo scientifico, una specie di neoutopismo, che, come i frutti fuor di stagione, fu veramente insipido. E che altro è l'utopismo, cui manchi il genio di Fourier e l'eloquenza di Considérant, se non cosa da ridere? Di questo neoutopismo, che rifiorisce di tanto in tanto anche al presente, se ne sa non poco in Francia: se non altro per le lotte sostenute con altre sette e scuole da quei valorosi dei nostri amici, che nel programma del partito operaio rivoluzionario intesero e seppero pei primi condurre il socialismo su la linea della cosciente lotta di classe, e della progressiva conquista del potere politico da parte del proletariato. Solo nell'esperienza di tale giostra pratica, solo nello studio cotidiano della lotta di classe, solo nella prova e riprova delle forze proletarie raccolte già in fascio e concentrate, ci è dato di verificare, les chances del socialismo: se no, si è e si rimane utopisti, anche nel riverito nome di Marx.

Contro di cotesti neoutopisti, non altrimenti che contro i sopravvissuti delle vecchie scuole, e contro le varie deviazioni del socialismo contemporaneo, i due nostri autori aguzzaron sempre e di continuo gli strali della critica. Come nella loro lunga carriera fecero della loro scienza la guida della loro pratica, e dalla loro pratica trassero materia e indicazione ad una più approfondita scienza, come non trattaron mai la storia qual cavallo da inforcare e da mettere al trotto, né si dettero alla ricerca di formule atte a destare le momentanee illusioni; così furono, per la necessità delle cose, portati a misurarsi in critica aspra, violenta, risoluta, con tutti quelli, che agli occhi loro apparivano capaci di nuocere al movimento proletario. Chi non ricorda? - i proudhonisti per esempio, di qua, con la pretesa di distruggere lo stato astraendone ad arte, come chi chiuda gli occhi e finga di non vedere; - di là quei blanquisti d'un tempo, che lo stato voleano togliersi in mano per forza, per poi fare la rivoluzione; - e Bakunin che si caccia surrettiziamente nell'Internazionale, e costringe gli altri a scacciarnelo; - e poi di qua e di là la pretesa delle tante scuole del socialismo, e la concorrenza di tanti capitani!

Da che Marx stritolò in una verbale polemica l'ingenuo Weitling, fino alla sua terribile critica del programma di Gotha (1875), apparsa poi invero assai tardivamente (1890), la sua vita fu una continua lotta, non solamente con la borghesia e con la politica che questa rappresenta, ma ancora con le varie correnti, o rivoluzionarie o reazionarie, che a torto o per rovescio sono andate pigliando il nome di socialismo. Queste lotte si acuirono nella Internazionale, e dico di quella di gloriosa memoria, che lascia fino ad oggi traccia così grande di sé in tutta l'azione odierna del proletariato, e non della caricatura che se ne fece dappoi. Lo strascico maggiore di polemiche contro il marxismo, ridotto, nella fantasia di certi critici, ad una semplice varietà di scuola politica, è dovuto alla tradizione di quei rivoluzionarii, che, specie nei paesi latini, riconobbero in Bakunin il loro duce e maestro. Gli anarchisti di oggi, che altro ripetono se non le querimonie e gli errori di quei tempi andati?

Forse venti anni addietro, fatta eccezione di quei dotti, che rimasticano a casa le cose lette nei libri, dei due fondatori del socialismo scientifico la generalità del pubblico italiano non risapea, se non quel tanto che s'era serbato, per memoria, delle invettive di Mazzini e delle malignazioni di Bakunin.

Ed ecco come il comunismo critico, che cosi tardi è stato ammesso agli onori della discussione nella cerchia della scienza ufficiale, ha avuto contro di sé, nel campo del socialismo stesso, la più grave delle avversità: la inimicizia degli amici.

Tutte coteste difficoltà, o furono già superate, o sono in buona parte prossime a sparire.

Non per la virtù intrinseca delle idee, che non ebbero mai né piedi per andare, né mani per afferrare, ma per il solo fatto, che, da per tutto dove son nati dei partiti socialistici, i programmi di questi partiti sono andati assumendo un comune indirizzo, è da ultimo accaduto, che i socialisti di tutti i paesi sian venuti a collocarsi, per la imperiosa suggestione delle cose, nell'angolo visuale del Manifesto dei Comunisti. Non vi pare che io sia giunto in tempo opportuno a scrivere la commemorazione di questo? Le classi degli sfruttatori van facendo alla massa degli sfruttati in ogni parte del mondo condizioni quasi da per ogni dove identiche: ond'è, che da per tutto i rappresentanti attivi di questi sfruttati entrano nelle medesime vie di agitazione, e seguono gli stessi criterii di propaganda e di organizzazione. Ciò molti chiamano marxismo pratico e sia! Che giova di litigar su le parole?

Quando anche il marxismo per molti si riduca alla semplice parola, anzi alla riverenza per il ritratto di Marx, per il suo busto in gesso, o per la sua effigie sul ciondolo (- su cotesti innocenti simboli la polizia italiana esercita così spesso il suo buon umore -), il fatto è che cotesta unità simbolica sta a significare, che l'unirà reale è per lo meno avviata, e che il proletariato di tutto il mondo è in atto di avvicinarsi, poco per volta, ad una certa similarità di tendenze; ossia che in esso la internazionalità si elabora di lunga mano per ragioni obiettive. Coloro che usano il linguaggio dei decadenti della borghesia, scambiando, com'è loro uso, la cosa col simbolo, vanno ora dicendo, che questo è il trionfo del signor Marx; tal quale come se altri dicesse, che il cristianesimo è il trionfo (e perché non dire a dirittura il successo?) del signor Gesù di Nazaret; di un signor Gesù, che, deposto e destituito dalla qualità di figlio di dio fattosi uomo, divenga, come nello stile tra il molle e lo sdilinquito del vostro Renan un uomo così fanciullescamente divino da parere un iddio.

Innanzi a questo esperimento intuitivo della politica del socialismo, il che è quanto dire della politica del proletariato, son cadute le vecchie divergenze delle scuole, alcune delle quali erano in fatto divarii e screziature di vanità letteraria, per cedere il posto alle utili divergenze, che nascono spontanee dal vario modo di trattare i problemi pratici. Nel fatto, in concreto, ossia nello svolgimento positivo e prosaico del socialismo, poco importa se tutti i suoi capi, condottieri, oratori e rappresentanti si conformino o non si conformino ad una dottrina, e ne facciano o non ne facciano professione palese. Il socialismo non è una chiesa, né una setta, cui occorra il dogma o la formula fissa. Se oggi da molti si parla del trionfo del marxismo, cotesta enfatica espressione, quando sia ridotta ad una forma crudamente prosaica, viene a dire che nessuno può essere d'ora innanzi socialista, se non a patto di domandarsi ogni istante: in questa data situazione, che cosa conviene di pensare, di dire o di fare nell'interesse del proletariato? Non saran più possibili i dialettici, che siano in verità dei sofisti, come fu Proudhon, né gl’inventori di sistemi sociali subiettivi, né i facitori di rivoluzioni private. La indicazione pratica del fattibile è data dalla condizione del proletariato, e questa è apprezzabile e misurabile appunto perché c'è la stregua del marxismo (intendo qui la cosa effettuale e non il simbolo) come dottrina progressiva. Le due cose, ossia il misurabile e la misura, fanno uno dal punto di vista generale del processo storico, specie quando siano considerate a conveniente distanza.

E vedete di fatti, che, mentre i contorni del socialismo come azione pratica si vanno precisando, tutte le antiche poesie e ideologie si disperdono, lasciando dietro di sé la semplice traccia fraseologica. Al tempo stesso è cresciuto nel campo della scienza accademica, per tutti i versi e in tutti i sensi, il criticismo della dottrina economica. L'esule Marx è tornato, dopo morto, nell'ambito della scienza ufficiale; per lo meno come avversario col quale non sia lecito di scherzare. E come per tante vie i socialisti sono arrivati alla coscienza prosaica di una rivoluzione, che non può esser macchinata, ma che si fa perché diventa, così s'è andato lentamente preparando il pubblico, per il quale il materialismo storico risponde a un vero e proprio bisogno intellettuale. Negli ultimissimi anni, come vedete, furon molti quelli che in questa dottrina han messo bocca; sia pur male, od a sproposito. Dunque, se guardate bene, non si arriva in ritardo. Da giovane io sentii più volte ripetere questa storiella, che, cioè, Hegel dicesse: un solo dei miei scolari mi ha capito. La storiella non si presta a verifiche, perché quel tale scolaro verissimo non fu fino ad ora identificato. Questa storiella può ripetersi all'infinito, da sistema a sistema, e da scuola a scuola. Come in fatto di attività intellettuale non c'è luogo alla suggestione, e come il pensiero non si trasfonde meccanicamente da cervello a cervello, così i grandi sistemi non si diffondono, se non per la similarità delle condizioni sociali, che vi dispongano e v'inclinino molte menti in uno e medesimo tempo.

Il materialismo storico si allargherà, si diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e colorito diverso. E ciò non sarà gran male; purché rimanga in fondo il nocciolo, che n'è, come a dire, tutta la filosofia. Per es., dei postulati come questi: - nel processo della praxis è la natura, ossia l'evoluzione storica dell'uomo: - e dicendo praxis, sotto questo aspetto di totalità, s'intende di eliminare la volgare opposizione tra pratica e teoria: - perché, in altri termini, la storia è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro così integralmente inteso è implicito lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative, così, da un'altra parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale forma: - l'uomo storico è sempre l'uomo sociale, e il presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della fantasia: - e così via.

E... qui faccio punto, principalmente per non ripetermi, e per non ripetere a voi buona parte delle cose che ho messo nei due saggi: - del che voi non sentite, mi pare, il bisogno, e io, veramente, nemmeno.

IV.

Roma, 14 maggio '97

Mi pare - tanto per tornare al primitivo argomento - che a voi stia in cima dei pensieri questa domanda: per quali vie, e in quali modi, sarebbe dato di avviare in Francia una scuola del materialismo storico? Non so se sia lecito a me di rispondere al quesito, senza aver l'aria di gareggiare con quei giornalisti di vecchio stampo, i quali davano, tanto sicuri di sé, consigli all'Europa, col grave rischio di rimanere, e difatti rimanevano, quasi sempre inascoltati. Mi ci proverò modestamente.

Innanzi tutto mi sembra non debba esser cosa difficile si trovino in Francia editori e librai, i quali stampino e diffondano delle accurate traduzioni degli scritti di Marx, di Engels, e di quanti altri occorra. Sarebbe, per cominciare, il cominciamento migliore. Capisco che nell'arte del tradurre si va incontro a delle curiose difficoltà. Sono oramai trentasette anni dacché leggo in tedesco, e m'è parso sempre di osservare, che a noi popoli di lingue latine capiti addosso uno strano smarrimento delle attitudini linguistiche e letterarie, quante volte traduciamo da quell'idioma. Ciò che in tedesco è vivo, trasparente, efficace, diventa assai spesso, per es., in italiano, frigido, senza rilievo, e qualche volta a dirittura come di gergo. In coteste traduzioni, parlo s'intende delle comuni e correnti, va perduto, con gli effetti della insinuazione, l'affiato della persuasiva. In un vasto lavoro di popolarizzazione, com'è quello cui accenno, occorrerebbe, salva sempre la integrità testuale degli scritti da tradurre, che le prefazioni, le note, i commenti offrissero i surrogati a quel facile processo di assimilazione, che è implicito e pronto già nelle scritture, le quali sian native del paese stesso.

Le lingue non sono, in verità, le accidentali varianti dell’universale volapük; e, anzi, sono assai più che dei semplici mezzi estrinseci di comunicazione e di significazione del pensiero e dell'animo. Son condizioni e limiti dell'attività nostra interiore, la quale ha per ciò, come per tante altre ragioni, modi e forme nazionali non di mero accidente. Se ci sono internazionalisti che ciò ignorino, costoro han da chiamarsi a dirittura confusionisti ed amorfisti; come quelli che ritraggono i loro insegnamenti, non dai vecchi apocalittici, ma da quello speciosissimo Bakunin, che invocava per fino la egalizzazione dei sessi. Dunque, nella assimilazione delle idee, dei pensieri, delle tendenze, dei propositi, che sian venuti a maturità di espressione letteraria in terreno di lingue straniere, c'è come un caso alquanto scabroso di pedagogica sociale.

E, giacché cotesta espressione m’è uscita dalla penna, permettetemi io vi contessi, che quando io esamino dappresso la storia precedente e le presenti condizioni della Socialdemokratie tedesca, non è l'incremento continuo dei successi elettorali che mi riempia proprio principalmente l'animo di ammirazione e di viva speranza. Più che almanaccare su quei voti come arra dell'avvenire, secondo i calcoli qualche volta fallaci della illazione e della combinatoria statistica, mi sento ripieno di viva ammirazione per questo caso veramente nuovo ed imponente di pedagogica sociale: e, cioè, che in così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale concorrono, in egual misura, il sentimento diretto della situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del socialismo, inteso come meta o punto d'approdo. Questa divagazione mi fa nascere un ricordo. Io fui qui in Italia, o il primo, o certo fra i primi, a richiamare, con lo scritto e con la parola, più volte e insistentemente, l'attenzione di quella parte degli operai nostri, che erano e son capaci di muoversi su la linea della moderna lotta proletaria, verso l'esempio della Germania. Ma... non mi passò mai per il capo di credere, che l'imitazione dispensi alcuno dalla spontaneità: non mi son mai sognato si dovesse seguire l'esempio di quei frati e preti, che furon per secoli i quasi esclusivi educatori dell'Italia già decaduta, e allegramente fabbricavano i poeti, dando ad imparare a mente l'Arte poetica di Orazio. Sarebbe curioso, che tu, benemerito, operosissimo e sagacissimo Bebel, apparissi qui fra noi in veste di novello Orazio! - ne strabilierebbe perfino il mio amico Lombroso, che odia il latino più della pellagra.

C'è delle altre difficoltà più intime, in breve, e di maggior portata e di maggior peso. Dato pure il caso che editori e librai, abili e solerti, si dessero la briga di diffondere, non che nella sola Francia, negli altri paesi civili ancora, le traduzioni di tutti gli scritti del materialismo storico, ciò varrebbe solo a stimolare, ma non già a formare e fermare nelle rispettive nazioni le energie fattive, che producono e tengono in rigoglio un indirizzo del pensiero. Pensare è produrre. Imparare è produrre riproducendo. Noi non sappiamo bene e davvero, se non ciò che noi stessi siam capaci di produrre, pensando, lavorando, provando e riprovando; e sempre per virtù delle forze che ci son proprie, nel campo sociale e dall'angolo visuale in cui ci troviamo.

E poi la Francia, con la sua grande storia, con la sua letteratura, che fu così dominante per secoli, con la sua ambizione patriottica, e con quella sua così propria differenziazione etnico-psicologica, che si riflette per fino nei prodotti più astratti del pensiero! Non starò proprio, io italiano, ad assumermi le parti di difensore di quei vostri sciovinisti, ai quali voi infliggete così meritato biasimo. Ma ricordiamo pure ciò che accadde nel secolo passato. Il pensiero rivoluzionario derivò da più parti del mondo civile, dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla Germania, ma non fu europeo, se non a patto di plasmarsi in ispirito francese; e la rivoluzione europea fu la rivoluzione francese. Questa gloria imperitura della vostra nazione pesa, come tutte le glorie su la nazione stessa, quale incubo di radicato pregiudizio. Ma i pregiudizii non sono anch'essi delle forze, se non altro in quanto sono degl'impedimenti? Parigi non sarà più il cervello del mondo; anche perché il mondo non ha cervello, se non nella fantasia di certi speciosi sociologisti. Né Parigi è tuttora, né sarà più in avvenire, la santa Gerusalemme dei rivoluzionarii d'ogni parte del mondo - come parve un tempo che fosse. Già la futura rivoluzione proletaria non avrà niente che la riavvicini ad apocalittico millennio: e poi, oggi, i privilegi son finiti non meno per le nazioni che per gl'individui.

Così giustamente osservava l'Engels; e del resto varrebbe la pena che i francesi leggessero ciò che egli scriveva nel 1874 a proposito dei blanquisti, aizzanti all'immediata riscossa proprio a poco andare dalla catastrofe della Comune. Ma tutto sommato... e fatto calcolo delle condizioni proprie dell'agricoltura e dell'industria francese, le quali han ritardato per tanto tempo la concentrazione del movimento operaio, e data pure la sua buona parte di torto ai varii capisetta e capiscuola, che tennero per così gran tempo scisso e spartito il socialismo francese, sta sempre il fatto, che il materialismo storico non potrà farsi strada fra voi, finché avrà l'aria d'essere il semplice elaborato mentale dei due tedeschi di grande ingegno. Con questa espressione Mazzini appunto acuiva i risentimenti nazionali contro i due autori; i quali, da comunisti e materialisti com'erano, parean fatti a posta per iscombussolare l'idealistica formula di patria e dio.

Fu per questo rispetto quasi tragica la sorte dei due fondatori del socialismo scientifico. Passarono più volte pei due tedeschi agli occhi di tanti, che furon sciovinisti per fino fra i rivoluzionarii, anzi passarono per organi del pangermanismo nelle invettive di quel Bakunin, che ebbe l'animo così disposto ad inventare... per non dir altro: essi, i due tedeschi, che nella patria, dalla quale usciron da esuli fin dagli anni della prima gioventù, incontrarono lo studiato silenzio di quei professori, ai quali è atto di patriottismo l'esercizio del servilismo! Quei professori, in fondo, si vendicavano. Difatti nel Capitale, nel quale tutta la trattazione s 'inradica nelle tradizioni della economia classica, non esclusi gli scrittori ingegnosi e spesso geniali che ebbe l'Italia nel secolo XVIII, non si parla se non con sovrano disprezzo dei signori Roscher e compagni. Engels, che con tanta cura e con tanta abilità di ampliamenti espositivi si sforzò di rendere popolari i resultati delle ricerche dell'americano Morgan, chiuso com'era nella persuasione, che ciò che egli giustamente chiamava filosofia classica fosse giunta alla sua dissoluzione in Feuerbach, scrivendo l'Antidühring mostrò noncuranza, dirò francamente eccessiva, per la filosofia contemporanea (- noncuranza spiegabile in lui, ma non scusabile, anzi ridicola, negli altri socialisti, che per imitazione l'affettano -), ossia per la neocritica dei suoi connazionali.

Cotesta sorte tragica fu come insita alla missione loro. Essi furon con l'animo e con la mente rivolti del tutto alla causa del proletariato d'ogni nazione: e perciò i prodotti della scienza loro hanno in ogni nazione quel pubblico soltanto, che vi si vada reclutando tra quelli che sian capaci di una consona rivoluzione intellettuale. In Germania, ove per condizioni storiche speciali, e soprattutto perché la borghesia non v'è mai riuscita a spezzare per intero la compagine dell'Ancien Régime (vedete che quell'imperatore può tenervi impunemente il linguaggio d'un vice-nume, e non è poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi commesso viaggiatore dell'in German made), la democrazia sociale s'è ridotta e fermata in serrata falange, era ben naturale che le idee del socialismo scientifico trovassero favorevole il terreno alla normale e progressiva diffusione loro. Ma nessuno dei socialisti tedeschi - spero almeno - si sognerà mai di considerare le idee di Marx e di Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei doveri, dei meriti e dei demeriti, dei Camarades de Parti. Ecco per es. che cosa Engels scriveva, e non è gran tempo:

Si noterà come in tutti questi articoli io mi chiami, non democratico-sociale, ma comunista. E ciò perché a quel tempo si davano il nome di democratici sociali, in molti paesi, di quelli che non aveano scritto su la loro bandiera l'appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte della società. Per democratico-sociale s'intendeva in Francia un repubblicano democratico, che avesse delle simpatie più o meno genuine, ma che rimanevano pur sempre indeterminate, per la classe operaia; gente, insomma, come Ledru-Rollin del 1848, e come i radicali socialisti del 1874, che erano intinti di proudhonismo. In Germania chiamavansi democratici-sociali i lassalliani: ma, sebbene la gran massa di essi andasse a grado a grado riconoscendo la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione, pur nondimeno le cooperative di produzione, sussidiate dallo stato rimanevano il punto essenziale del programma del partito nella sua azione pubblica. Era dunque per me e per Marx assolutamente impossibile di scegliere un termine di tale elasticità a designazione dei nostro specifico punto di vista. Oggi è tutt'altro, e la parola può passare; sebbene sia pur sempre disadatta a significare un partito il cui programma è, non genericamente socialistico, ma direttamente comunistico, e la cui finale meta politica è di superare ogni forma di stato, e quindi anche la democrazia.

I patrioti - e non uso punto a dileggio cotesta parola - hanno, mi pare, di che consolarsi e confortarsi. Non è detto in conclusione che il materialismo storico sia il patrimonio intellettuale di una sola nazione, o che debba rimanere in privilegio d'una clique, d'una consorteria o d'una setta. Esso, innanzi tutto, appartiene nella sua origine obiettiva alla Francia, all'Inghilterra e alla Germania, in eguale misura. Non starò qui a ripetere ciò che dissi in altra lettera, della forma di pensiero che derivossi nella mente dei nostri due autori per lo stadio a cui era giunta, nella loro giovinezza, la coltura intellettuale dei tedeschi, e la filosofia in ispecie, mentre l'hegelismo appunto, o si perdeva nei rigagnoli di una nuova scolastica, o dava luogo ad un nuovo e più poderoso criticismo. Ma era pur lì la grande industria inglese con tutte le miserie che l'accompagnavano, e col contraccolpo ideologico di Owen, e con quello pratico dell'agitazione cartista. Ma eran pur lì le scuole del socialismo francese, e la tradizione rivoluzionaria dell'Occidente, che si derivava già nelle forme del comunismo d'indole modernamente proletaria.

Che cos'è il Capitale, se non la critica di quella economia, che, come rivoluzione pratica e come rappresentazione teorica di questa stessa rivoluzione, era venuta a piena maturità nella sola Inghilterra, fin verso il '60, e in Germania cominciava appena? Che cosa è il Manifesto dei Comunisti, se non la chiusa e la esplicazione del socialismo, o latente, o palese nei movimenti operai di Francia e d'Inghilterra? Ma tutte queste cose furono continuate e portate a compimento di critica, la filosofia di Hegel non esclusa, con quella critica immanente, che è la dialettica con le sue inversioni; ossia, per via di quel negare, che non è contenziosa e avvocatesca contrapposizione di concetto a concetto, di opinione ad opinione, ma che invece invera ciò che nega, perché in ciò che nega e supera, trova o la condizione (di fatto), o la premessa (concettuale) del procedere stesso.

Francia e Inghilterra possono ripigliare, senza parere che compiano un atto di mera imitazione, la loro parte nella elaborazione del materialismo storico. Perché i francesi non avrebbero oramai da scrivere dei libri veramente critici su Fourier e Saint-Simon, in quanto furono, e nella misura in cui furono, veri precursori del socialismo contemporaneo? Non c’è occasione a lavorare letterariamente sui moti rivoluzionarii dal 1830 al 1848, in modo si veda, che la dottrina del Manifesto non fu la negazione di quelli, ma il loro aboutissant è risolvente? A riscontro di quel 18 Brumaio di Marx, che, pur essendo uno scritto genialissimo, e nell'intento suo insuperabile, riman sempre un opuscolo di occasione e di tinta pubblicistica, non sarebbe il caso di comporre una meditata storia del Colpo di stato? Ma la Comune non aspetta ancora la sua definitiva trattazione critica? Ma la Grande Rivoluzione, intorno alla quale esiste una letteratura colossale, quanto all'insieme, e singolarmente minutissima quanto ai particolari, fu mai fino ad ora trattata a fondo in tutto l'intrinseco del sommovimento delle classi che vi presero parte, e come caso esemplare di sociologia economica?

A farla breve, tutta la storia moderna di Francia e d'Inghilterra non offre essa forse agli studiosi un più largo e sicuro capitolo d'illustrazioni al materialismo storico, di quello che non potessero fino a poco tempo fa offrirlo le condizioni della Germania? Queste furono, nel fatto, dalla guerra dei trent’anni in poi, grandemente intricate pei sopraggiunti impedimenti allo sviluppo, e nelle teste di quelli, che sopra luogo le osservarono, rimasero quasi sempre come involute in varie specie di nebulosità ideologica - nebulosità che muoverebbe a riso i cronisti fiorentini del secolo XIV.

Mi son fermato su questi particolari, non per darmi l'aria di consigliere della Francia, ma per aver modo di osservare da ultimo, che, data la forma dei cervelli di lingue latine, non è cosa agevole il fare entrare in essi le nuove idee, se altri s'indugi a rappresentarle esclusivamente come forme astratte del pensiero; mentre riescono a penetrarvi, con pronto e suggestivo effetto, quando vengano plasmate in racconti e in esposizioni, che in qualche modo rassomiglino ai prodotti dell'arte.

Torno per un momento su la questione del tradurre. L'Antidühring è il libro che prima di ogni altro conviene che entri nella circolazione internazionale. Pochi libri io conosco, che possano stargli a paro, per densità di pensiero, per molteplicità di punti di vista, per duttilità di penetrazione suggestiva. Può essere una medicina mentis per la gioventù intellettuale, che di solito si volge, incerta di sé e con criterii assai vaghi, a ciò che genericamente ha nome di socialismo: e così fu nel tempo in cui apparve, come ne andò scrivendo un tre anni fa il Bernstein, in una specie di commemorazione pubblicata nella “Neue Zeit”. Nella letteratura socialistica rimane quello il libro insuperato.

Ma quel libro non è tetico, anzi è antitetico. Salvo i brani isolabili, come son quelli i quali presero corpo di opuscolo per sé stante, che fa da un pezzo il giro del mondo (Del passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza), quel libro ha a suo filo conduttore la critica del signor Dühring, in quanto ei fu inventore di una filosofia e d'un socialismo a modo suo. Or qual persona, che non viva nella cerchia dei professanti scienza, e quanti non tedeschi hanno proprio il dovere d’interessarsi del signor Dühring? Ogni nazione ha, pur troppo, i suoi Dühring. Un Engels di altra nazione, chi sa quali altri anti-chi sa che cosa avrebbe scritto o scriverebbe. L'effetto vero di quel libro mi pare debba esser questo su i socialisti di altri paesi e lingue, che li abiliti a fornirsi di quelle attitudini critiche, che giovano per iscrivere tutti gli altri anti-x occorrenti a combattere ogni altra qualche cosa, che imbarazzi od inficii il socialismo, in nome di tante sociologie pullulanti d'ogni parte. Le armi e i modi della critica devono, da paese a paese, subire la legge della variabilità e dell'adattamento. Curare il malato e non la malattia; - in ciò consiste la modernità della medicina.

A fare altrimenti di così, si rischia d'incorrere nella sorte toccata agli hegeliani, che vennero su in Italia dal 1840 al 1880, e specie nel Mezzogiorno, anzi a Napoli. Furono in parte dei semplici epigoni, ma alcuni furono pensatori di polso. Nel tutt'insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo alla francese e della filosofia del così detto buon senso. Di tal movimento pur qualcosa s'è risaputo in Francia; perché fu uno di questi hegeliani, e non il più profondo e forte di tutti, il Vera, che dette alla Francia appunto le più leggibili traduzioni, con copiosissimi commenti, di alcune delle opere fondamentali di Hegel. Di tutto quel movimento s'è perduta ora da noi la traccia e la memoria, nel giro di così pochi anni. Gli scritti di quei pensatori non si trovano che dai rivenditori di anticaglie e di bagattelle librarie. Cotesta dispersione nel nulla di tutta una attività scientifica, non certo irrilevante, non è solo dovuta alle vicende non sempre belle e laudabili della vita universitaria, né al solo dilagare epidemico del positivismo che manda qua e là frutti che paiono scienza da demi-monde, ma a ragioni più intrinseche. Quegli hegeliani scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a Napoli, ma a Berlino, o non so dove. Conversavano mentalmente coi loro Camarades d’Allemagne. Rispondevano dalla cattedra o negli scritti alle obiezioni di critici noti a loro soltanto; facendo così un dialogo, che a lettori e uditori parea monologo. Non riuscirono a plasmare le loro trattazioni e la loro dialettica in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della nazione. Cotesto non piacevole e non lusinghiero ricordo mi stava innanzi alla mente, quando, quasi repugnante, mi misi a scrivere il primo dei due miei saggi di materialismo storico, ai quali ora non c'è ragione io non ne faccia succedere degli altri. Mi domandava più volte: ma da che parte devo rifarmi, per dir cose, che ai lettori italiani non tornino ostiche, straniere e strane? Mi dire che io son riuscito: e così sia. Non sarebbe un caso singolare di scortesia, che io volessi ribattere, ragionando, da arbitro, di me e delle lodi che voi mi fate?

Nel leggere - così scrivevo a un di presso cinque anni fa ad Engels la Heilige Familie, mi son ricordato degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io vissi da giovanissimo, e mi pare di avere inteso e assaporato quel libro, più che non possa riuscire a molti, cui mancano al presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso umorismo. Mi parea di averla vista io stesso da vicino quella curiosa coterie di Charlottenburg, da Marx e da voi così singolarmente persiflée. Mi si ripresentava allo spirito, più che tutti gli altri, un professore di estetica, originalissimo e genialissimo uomo, che deduceva i romanzi di Balzac, costruiva la cupola di S. Pietro e disponeva in serie genetica gl'istrumenti musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con la negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica dell'inconoscibile, che, ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e anzi a guisa di uno Spencer non glorificato, chiamò l'innominabile. Anch'io da giovane vissi in quella specie di palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l'animo diviso fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile ingenuità, la dialettica contro lo Zeller che iniziava il neokantismo; di questo sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi, con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come lontanissima preistoria. Avrò subita anch'io la mia negazione della negazione? Voi mi spronate a scrivere di comunismo: ma io temo sempre di far di cosa di nessun valore quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto all'Italia.

E lui a rispondermi...; ma qui faccio punto. Mi pare sia cosa presso che incivile il riprodurre senza urgente ragione di pubblico interesse, le lettere private, specie a breve tempo dalla morte di chi le scrisse. In tutti i casi, anche stralciando da tali lettere private ciò che può esservi di puramente occasionale, e serbandone solo ciò che è di dottrina e di scienza, esse fan sempre poca fede e son di poco peso, a fronte degli scritti meditatamente destinati alla pubblicità. Col crescere dell'interesse per il materialismo storico, e nel difetto di una letteratura, che estesamente e partitamente lo illustri, s'è dato il caso che Engels, negli ultimi anni di sua vita, qual professore che non sieda in cattedra, fosse interrogato, e anzi tormentato di continuo con infinite domande da parte di molti, che si iscrivevano spontanei da studenti liberi nella vagante ed eslege Università del socialismo. Di qui le lettere che furon pubblicate, e quelle altre molte, che son rimaste inedite. In quelle tre lettere, che il “Devenir Social” riprodusse recentemente da una rivista di Berlino e da un giornale di Lipsia, apparisce chiaro come fosse in lui una certa temenza, che il marxismo diventasse troppo presto una dottrina a buon mercato.

A molti dei professanti la scienza, non nella vagante Università del popolo di là da venire, ma in questa che realmente esiste nella presente società ufficiale, capita d'esser messi fra l'uscio e il muro dagli studenti e dagli studiosi, perché, uno pede stantes, rispondano ad ogni quesito, come chi avesse stampata nel cervello la ragione universale delle cose. I più vanitosi fra i professori, per non ismentire la ieratica sacramentalità della scienza, e come se questa consistesse del tutto nella materialità del conosciuto, e non principalmente nella virtuosità e correttezza formale dell'atto del sapere, rispondono difilato, riuscendo a fare assai di sovente la satira di se stessi, da imitatori del saporitissimo Mefistofele in maschera di maestro in tutte e quattro le facoltà. Pochi hanno la socratica rassegnazione di rispondere: non so, ma so di non sapere, e so che si potrà sapere, ed io stesso potrò sapere, se avrò compiuti gli atti di sforzo, ossia di lavoro, che occorre per sapere, - e se mi date degli anni indefiniti, con l'indefinita attitudine dell'applicazione metodica del lavoro, io potrò indefinitamente saper quasi tutto.

Ed ecco in che cosa consiste quel capovolgimento pratico della teorica della conoscenza, che è insito al materialismo storico.

Ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro nuovo. A compierlo occorrono innanzi tutto i materiali dell'esperienza depurata, e gl'istrumenti metodici, resi familiari e maneggevoli dal lungo uso. Non c'è dubbio, che il lavoro compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevoli i nuovi sforzi diretti alla produzione di novello pensiero; in prima, perché i prodotti precedenti rimangono obiettivati nei mezzi intuitivi dello scritto e delle altre arti rappresentative, e, in secondo luogo, perché l'energia in noi internamente accumulata penetra e investe il nuovo lavoro, qual ritmo del procedimento, nella qual cosa (ossia nel ritmo) consiste appunto il metodo della memoria, del ragionamento, dell'espressione, della comunicativa, e così via. Ma macchine pensanti non si diventa mai! Tutte le volte che ci mettiamo nuovamente a pensare, oltre che ci necessitano sempre i mezzi e gl'incentivi esterni ed obiettivi della materia empirica, ci occorre ancora uno sforzo adeguato per passare dagli stati più elementari della vita psichica a quello stadio superiore derivato e complesso, che è il pensiero, nel quale non possiamo mantenerci, se non per atto di attenzione volontaria, che ha intensità e durata di speciale e non sorpassabile misura.

Cotesto lavoro, che a noi si rivela nella nostra diretta ed immediata coscienza, qual fatto, che ci concerna solo in quanto siamo persone singole e circoscritte dalla nostra naturale individuazione, non si avvera in ciascun di noi, se non in quanto noi siamo appunto, nell'ambiente della convivenza, esseri socialmente e quindi anche storicamente condizionati. I mezzi della convivenza sociale, che sono, da un lato le condizioni e gl'istrumenti, e dall'altro i prodotti della collaborazione variamente specificata, costituiscono, al di là di ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la materia e gl'incentivi della nostra formazione interiore. Di qui nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei quali, di là dai termini della nostra corporea configurazione, sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol dire, in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria, di una tradizione storica, e così via. In coteste correlazioni di consociazione pratica, che corrono da individuo a individuo, han la loro radice e hanno il loro fondamento obiettivo e prosaico tutte quelle varie rappresentazioni ideologiche di spirito pubblico, di psiche sociale, di coscienza etnica, e così via, intorno alle quali, come gente che pigli per enti e sostanze i rapporti e le relazioni, speculano, da metafisici di pessima scuola, i sociologisti e psicologisti, che io chiamerei simbolisti e simboleggianti. In questi medesimi rapporti pratici nascono le comuni correnti, per le quali il pensiero individuo, e la scienza che ne deriva, son vere e proprie funzioni sociali.

E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che è il midollo del materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni di benessere e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della natura: e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo, che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel: il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica d'un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto.

In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le cose empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione, esempio, conseguenza o come altro dicasi, d'un pensiero, come che siasi, presupposto, così è la fine anche del materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale, che ha condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di continuo in atto.

V.

Roma, 24 maggio '97

Ripigliando al punto dov'ero rimasto l'altra volta, mi pare voi abbiate pienamente ragione di rimettere in campo il problema della filosofia in generale. Mi riferisco, così dicendo, non solo alla vostra Prefazione, che io vado quasi moltiplicando di effetto in questo mio prolungato conversar per iscritto, ma anche ad alcuni vostri articoli nel “Devenir Social”, e, inoltre, a parecchie delle lettere private, che avete avuto la cortesia d’indirizzarmi. Vi dà pensiero, in fondo, che il materialismo storico possa apparire come campato in aria, fino a che abbia di contro a sé delle altre filosofie, con le quali non armonizzi, e fino a quando non si trovi modo di sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse.

Ho capito bene?

Voi accennate esplicitamente alla psicologia, all'etica, e alla metafisica. Con quest'ultimo termine intendete di significare ciò che io, per effetto di altri abiti dello spirito e di altre maniere di trattazione didattica, chiamerei per es.: Dottrina generale, o della Conoscenza, o delle Forme fondamentali del pensiero, e cosi via, a un di presso, o per eccesso di cautela, o per tema di non incorrere in equivocazione, ed anche per non urtare in certi pregiudizii. Passo, però, sopra a cotesti accessorii terminologici; tanto perché noi, in fatto di scienza, non siam tenuti a starcene al significato che i termini hanno nella comune esperienza e nella comune intuizione (quando, come nella vita ordinaria, non c'è dato di chiamare altrimenti che pane il pane); ma quei significati fissiamo noi stessi, ponendo e sviluppando i concetti, che vogliamo compendiariamente formulare con una parola di convenzione. Si starebbe freschi a voler dedurre il significato ed il contenuto per es. della chimica dall'etimo di tal parola: ci troveremmo di faccia all'Egitto antichissimo, anzi al nome che significa la terra gialliccia dai due lati delle sponde del Nilo e fino ai monti!

Vi lascio in pace in compagnia della parola metafisica, se in questa v'accomoda d'acquietarvi. Frivolezze! Se un estensore di catalogo cacciasse domani nella rubrica dei metà physiká i Primi principii dell'oramai indispensabile Spencer, non farebbe nulla di più e nulla di meno di quel che fece il bibliotecario ai Pergamo nell'appiccicare cotale etichetta a quei vani trattati di prima filosofia (Aristotele non usa altro termine a denotarli), che nessuna cura di vecchi commentatori, né di critici moderni, è riuscita a ridurre mai alla trasparenza e conseguenza di libro giunto a perfezione. Chi sa quanti sarebbero lieti ora di scovrire, che in fin delle fini il vecchio Stagirita, che ha ingombrato di sé le menti degli uomini per tanti secoli, ed è stato insegna a tante battaglie dello spirito, non fu se non un altro Spencer d'altri tempi, che, magari per sola colpa dei tempi, scrisse in greco, e anche maluccio.

La tradizione non dee pesare sopra di noi come un incubo, come un impedimento, come un impaccio, come oggetto di culto e di stupida reverenza; e siamo bene intesi di ciò: - ma, d'altra parte, la tradizione è ciò che ci tiene nella storia, il che è quanto dire, che è ciò che ci ricollega alle condizioni faticosamente acquisite, le quali agevolano il lavoro nuovo e rendono possibile il progresso. A fare altrimenti si è bestie; perché il solo lavorio secolare della storia differenzia noi dagli animali. E poi, inoltre, nessun che si metta a studiare, sia pur nel modo più concreto, empirico, particolare, minuto e circostanziato, un qualunque lato della realtà, può rifiutarsi mai di ammettere, che a un certo punto si è come assaliti dal bisogno di ripensare alle forme generali (ossia alle categorie), che son ricorrenti negli atti particolari del pensiero (unità, pluralità, totalità, condizione, fine, ragion d'essere, causa, effetto, progressione, finito, infinito e così via). Ora, per poco che in questa nuova curiosità ci soffermiamo, i problemi universali della conoscenza ci s'impongono; ossia, ci appariscono come necessariamente dati: - e in questa inevitabile suggestione ha origine e sede anche ciò che voi chiamate metafisica, e che può chiamarsi altrimenti.

Tutto sta a sapere come cotesti dati vengano poi da noi maneggiati. La nota caratteristica, parlando, s'intende, molto genericamente, del pensiero classico (dico dei greci), è una certa ingenuità nell'uso e nella trattazione di tali concetti. La nota caratteristica della filosofia moderna, e qui di nuovo molto per le generali, è il dubbio metodico, e quindi il criticismo, che accompagna, a guisa di sospettosa cautela, l'uso di tali forme, così nell'intrinseco, come nella portata estensiva. Ciò che decide di tale passaggio dalla ingenuità alla critica è la osservazione metodica (scarsa per estensione e per sussidii negli antichi), e, più che l'osservazione, l'esperimento volontariamente e tecnicamente condotto (che mancò quasi del tutto agli antichi). Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della natura; - noi produciamo ad arte ciò che la natura da per sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan dall'esser per noi dei meri obietti rigidi della visione perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e il pensiero cessa dall'essere un presupposto, o un'anticipazione paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene progressivamente concrescendo. L'esperimento ad arte e metodico finisce da ultimo per indurci nella persuasione di questa verità semplicissima: che anche prima che nascesse la scienza, e in tutti gli uomini che alla scienza non arrivano, le attività interiori, compreso l'uso della ovvia riflessione, sono come un venir crescendo, per la sollecitazione dei bisogni, di noi in noi stessi, e cioè un generarsi di nuove condizioni, successivamente elaborate. Anche per questo rispetto il materialismo storico è la chiusa di un lungo sviluppo. Esso giustifica perfino il processo storico del sapere scientifico facendo questo sapere qualitativamente consono e quantitativamente proporzionale alla capacità del lavoro; cioè facendolo rispettivo ai bisogni.

Torno a voi, e vi do ragione per la staffilata che aggiustate all'agnosticismo. Esso è il pendant inglese del neokantismo tedesco: con un notevole divario però. Questo, il neokantismo, non rappresenta, in conclusione, se non una corrente accademica, che ci ha dato, con una più chiara conoscenza di Kant, una utile letteratura da eruditi; mentre quello, l'agnosticismo, per la sua diffusione popolare, è un fatto sintomatico della presente condizione di certe classi sociali. I socialisti avrebbero tutte le ragioni di credere, che quel fatto sintomatico sia uno degli indizi della decadenza della borghesia. Fa, certo, un malinconico contrasto con la eroica securtà del vero, che assiste il pensiero nei prodromi della storia moderna (Bruno e Spinoza!), con l'asseveranza da Convenzionali, che fu propria dei pensatori del secolo passato fino a venir poi giù giù alla filosofia classica di Germania, ed anche con la precisione dei metodi esplorativi, i quali hanno ai tempi nostri allargato di tanto il dominio del pensiero su la natura. Ha l'aria della paurosa rassegnazione. Manca del carattere essenziale ad ogni filosofia, secondo Hegel, ossia del coraggio della verità. Un qualcuno di quei marxisti, che inducono così senz'altro, a bruciapelo, dalle condizioni economiche ai riflessi ideologici, come chi issofatto traducesse i segni stenografici, potrebbe quasi dire, che cotesto Inconoscibile, tanto celebrato da una vasta setta di quietisti della ragione, è segno già che lo spirito dell'epoca borghese non è più atto a guardare perspicuamente nell'ordinamento del mondo, perché il capitalismo, dal quale esso toglie l'orientazione, è già in se fradicio; e, per ciò, molti, nell'istintiva coscienza della prossima rovina, si dànno ad una specie di religione dell'imbecillità. Simile asserto potrebbe sembrare per fino ingegnosamente bello, pur rimanendo non dimostrabile: sebbene poi rassomigli a molte delle sciocchezze, che furon dette da tanti in nome dell'interpretazione economica della storia.

E invece, io dico, che cotesto agnosticismo ci rende un grande servigio. Fermandosi gli agnosticisti a dire e a ripetere, che non è dato di conoscere la cosa in sé, l'intimissimo della natura, la causa ultima e il fondo dei fenomeni, essi per un'altra via, ossia a modo loro, come gente, cioè, che rimpianga l'impossibile, vengono a quello stesso resultato al quale arriviamo noi, non con rimpianto ma da realisti che non cercano l’aiuto della immaginazione, e cioè: che non si può pensare se non su quello che noi possiamo sperimentare, in lato senso, noi stessi.

Guardiamo a ciò che è accaduto nel campo della psicologia; fu fugata, da un canto, la illusione ideologica, che i fatti psichici si spieghino assumendone a sostanziale subietto un ente iperfisico; - fu bandita, dall'altro canto, la volgarità, più materiale che materialistica, essere il pensiero una secrezione del cervello; - fu fissata l'inerenza dei fatti psichici nello specificato organismo, in quanto l'organismo stesso è un processo di formazione, e in quanto i fatti psichici sono la interiorità dell'attività dei nervi, ossia questa attività in quanto è coscienza; - fu respinta la grossolana ipotesi del materialismo semplicistico, che cotesta interiorità, la quale si conserva e si complica, per il solo fatto che noi ne scovriamo giorno per giorno le rispettive condizioni nei centri nervosi, in quanto è interiorità, ossia funzione di coscienza, possa essere estensivamente osservata; - ed eccoci arrivati alla scienza psichica, che è impreciso, per non dire erroneo, di chiamare psicologia senza l'anima, ma bisogna denominare scienza dei prodotti psichici senza il mito della sostanza spirituale.

Quando Engels nell'Antidühring usava della parola metafisica in senso peggiorativo, intendeva appunto di riferirsi a quelle maniere di pensare, ossia di concepire, di inferire, di esporre, che son l'opposto della considerazione genetica, e quindi (subordinatamente) dialettica delle cose. Tali maniere son contrassegnate da questi due caratteri: in prima dal fissare, come per sé stanti, e del tutto indipendenti l'uno dall'altro, quei termini del pensiero, i quali in verità son termini solo in quanto rappresentano i punti di correlazione e di transizione ai un processo; e, in secondo luogo, nel considerare quei termini stessi del pensiero come un presupposto, un'anticipazione, o anzi un tipo od un prototipo della povera e parvente realtà empirica. Nel primo rispetto, per es., causa ed effetto, mezzo e fine, ragion d'essere e realtà, e così via, si presentano allo spirito soltanto come termini distinti, e quindi diversi, e alcune volte opposti; quasiché si desser cose, che siano per sé esclusivamente cause ed altre che siano per sé esclusivamente effetti, e così di seguito. Nel secondo caso pare come se il mondo dell'esperienza ci si andasse disintegrando e scindendo innanzi agli occhi in sostanza ed accidenti, in cosa in sé e fenomeno, in possibilità e in ovvia esistenza. Tutta cotesta critica si risolve nell'esigenza realistica di considerare i termini del pensiero, non come cose ed entità fisse, ma come funzioni; perché quei termini hanno valore, solo in quanto noi abbiamo qualcosa da pensare attivamente, e siamo in effettivo atto di pensare, procedendo.

Cotesta critica dcll'Engels, che per molti rispetti è specificabile e precisabile ancora, e soprattutto per ciò che riguarda la origine di cotesto pensare metafisicamente, ripete a modo suo la opposizione hegeliana fra l'intendimento, che fissa gli opposti come tali, e la ragione, che gli opposti rimette in serie di processo ascendente - (la divina arte di conciliare gli opposti, direbbe Bruno - omnis determinatio est negatio, diceva Spinoza).

Cotesta metafisica, sensu deteriori, ha alla lontana una qualche analogia con la origine dei miti. S'inradica nella teologia, in quanto questa è diretta a rendere plausibili al ragionamento formale i dati (subiettivi sì, ma che l'autoillusione fa parere obiettivi) del credere. Quanti miracoli non ha fatto il quasi-mito dell'eterno logos? Tale metafisica, in senso diremo oramai dispregiativo, come stadio e come intoppo di un pensiero ancora in formazione, ricorre in ogni ramo del sapere. Quanto sforzo non è costato alla riflessione dottrinale, nel campo della linguistica, l'andar sostituendo alla illusione paradigmatica delle forme grammaticali la genesi di queste: genesi che va psicologicamente cercata ed accertata nel vario atteggiarsi del parlare, che è un fare ed un produrre, e non un semplice factum? Così fatta metafisica, in senso d'ironia, esiste ed esisterà forse sempre nei derivati verbali e fraseologici dell'espressione del pensiero; perché la lingua, senza della quale noi non potremmo, né addivenire alla precisione ai quello, né formularne la manifestazione, al tempo stesso che dice, altera ciò che esprime, ed ha perciò sempre in sé il germe del mito.

Sprofondiamoci pur quanto si voglia nella teoria più generale delle vibrazioni, noi diremo sempre: la luce produce questo effetto: il calore opera così. Si ha sempre la tentazione, o per lo meno si corre il pericolo, di sostantivare un processo, o i termini di esso. Le relazioni, per via di una illusionale proiezione, divengono cose, e queste cose escogitate divengono, alla volta loro, soggetti operanti. Se facciamo attenzione, a questa così frequente ricaduta del nostro spirito nell'esercizio prescientifico dei mezzi verbali, noi ritroviamo in noi stessi i dati psicologici del modo come si originarono, in altre circostanze e tempi, le obiettivazioni delle forme del pensiero stesso in enti e in entità, come è il caso tipico delle idee platoniche: e lo dico tipico perché è il più plastico fra tutti. Di tale metafisica, in quanto essa è la immaturità di una mente non ancora scaltrita dall'autocritica, e non rafforzata dall'esperimento, è piena tutta la storia; che appunto per ciò, come per tanti altri motivi, è anche superstizione, mitologia, religione, poesia, fanatismo delle parole, e culto delle vuote forme. Lascia, cotale metafisica, le sue tracce anche in ciò che ai tempi nostri chiamiamo orgogliosamente scienza.

Non aduggia essa forse il campo della economia politica? Quel danaro, che, da semplice mezzo di scambio qual è in prima, si fa capitale, solo in quanto è in funzione col lavoro produttivo, non diventa forse, nella fantasia degli economisti, capitale ab origine, che per un diritto innato getti interesse? Ecco il gran significato di quel capitolo di Marx, dove si parla del capitale come di feticcio Di questi feticci è piena la scienza economica. La qualità di merce, che è propria del prodotto del lavoro umano, solo in un certo rispetto storico, - e, ossia, in quanto gli uomini vivono in un certo dato sistema di correlazione sociale, - diventa una qualità intrinseca ab aeterno al prodotto stesso. Il salario, che non è concepibile, se a determinati uomini non è imposta la necessità di darsi a mercede ad altri uomini, diventa una categoria assoluta, cioè un elemento d'ogni guadagno; e perfino l'intraprenditore capitalista si adorna del titolo di un che ritragga da se stesso un più alto salario! E poi la rendita della terra: - della terra, dico! Non ci sarebbe da venirne mai alla fine, se si volesse enumerarle tutte coteste trasformazioni metaforiche dei rapporti relativi in eterni attributi degli uomini o delle cose.

Ma che non è diventata la lotta per l'esistenza nel volgare darwinismo? - un imperativo, un comando, un fato, un tiranno; e addio le empiriche circostanze del topo e della gatta, della nottola e dell'insetto, della erbaccia e del trifoglio. L'evoluzione, ossia l'espressione compendiaria d'infiniti processi, che dan luogo a tanti problemi circostanziati e non ad un singolo teorema, non si trasforma spesso, fantasticamente, nella Evoluzione? Per fino nelle volgarizzazioni della sociologia marxista, le condizioni, i rapporti, le correlatività di coesistenza economica acquistano - forse il più delle volte per insufficienza stilistica degli espositori - un certo che di fantasticamente soprastante a noi; come se nel problema ci fossero altri dati da questi in fuori: persone e persone, cioè inquilini e padroni di casa, proprietarii e fittaioli, capitalisti e salariati, signori e servitori, sfruttati e sfruttatori, cioè, in una parola, uomini ed uomini, che, in precise condizioni di tempo e di luogo, trovansi in varia dipendenza fra loro, per l'uso così e così distribuito e collegato dei mezzi necessarii all'esistenza.

La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a dirittura confina con la mitologia, ci dee rendere indulgenti verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più generalmente sociali, che per tanto tempo ritardarono in passato l'apparizione del pensiero critico, coscientemente sperimentale e cautamente antiverbalistico. Né vale di ricorrere alle tre epoche del Comte. È questione, sì, di quantitativo predominio della forma teologica o metafisica nelle diverse epoche della storia, ma non di esclusività qualitativa, a fronte della così detta epoca scientifica. Gli uomini non furon mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non saranno mai esclusivamente scientifici. Il più umile selvaggio che paventa i feticci, sa che il fiume in discesa gli costa minor fatica, che non il fiume su cui nuoti contro corrente, e nel suo elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione di esperienza e di scienza. Ai giorni nostri ci sono, viceversa, degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La metafisica, nel senso di ciò che sarebbe il contrario della correttezza scientifica, non è già un fatto precisamente così preistorico, da stare alla pari col tatuaggio e con l'antropofagia!

Non è, spero, chi voglia mettere esclusivamente sul conto attivo del materialismo storico la vittoria definitiva su la metafisica, nella significazione usata qui innanzi, secondo Engels. Esso è, anzi, un caso particolare, per rispetto allo sviluppo del pensiero antimetafisico. Non sarebbe stato veramente possibile, se l'intelletto critico non si fosse formato già per l’innanzi. Qui c'è da fare i conti con tutta la storia della scienza moderna. Quando il Don Ferrante dei Promessi Sposi (siamo, s'intende bene, al secolo XVII) che fu, se Leone XIII non vorrà per invidia di mestiere aversene a male, l’ultimo scolastico veramente convinto, moriva di peste, negando la peste, attesoché quella non rientrasse nelle dieci categorie di Aristotele, lo scolasticismo avea ricevuto già i primi, e fieri, e decisivi colpi. E da allora in qua è tutta una storia di conquiste positive del pensiero, che hanno, o assorbita, o eliminata, o altrimenti ridotta e combinata quella materia del conoscere, che innanzi formava la filosofia per sé stante, e quindi soprastante alla scienza.

In cotesto cammino del pensiero scientifico, noi c'incontriamo, per es., nella psicologia empirica, nella linguistica, nel Darwinismo, nella storia delle istituzioni e nel criticismo propriamente detto. Direi anche nel positivismo, se non temessi d'ingenerare equivoco. Difatti il positivismo, guardato così in genere e per sommi capi, è una delle tante forme in cui lo spirito s'è andato avvicinando al concetto di una filosofia, che non anticipi su le cose, ma sia a queste immanente. Non è quindi da maravigliare, se, per la generica similarità che riavvicina il materialismo storico a tanti altri prodotti dello spirito e del sapere contemporaneo, molti di quelli che trattano la scienza alla maniera dei letterati e dei leggitori di riviste, ingannati dalle impressioni, e seguendo gl'impulsi della erudita curiosità, han creduto di poter completare Marx, o con questa, o con quell'altra cosa. Di coteste storpiature ne avremo per un pezzo. Induce soprattutto in cotesto errore l'abito, comune a quasi tutta la scienza del nostro tempo, della considerazione evolutiva o genetica: cosicché agli inesperti e superficiali pare che da chiunque si parli di evoluzione si dica lo stesso. Voi molto giustamente portate la vostra attenzione su i caratteri differenziali e differenziati del materialismo storico - i quali, aggiungo io, son proprii di una scienza da comunisti dialetticamente rivoluzionarii - e non vi proponete il quesito se il signor Marx possa andare a braccetto del tale o tale altro filosofo, ma vi chiedete, invece, quale filosofia sia a questa dottrina necessariamente e obiettivamente implicita.

Gli è per questa ragione che io vi ho lasciato e vi lascio anche l'uso della parola metafisica, nel senso non dispregiativo. In fondo al marxismo ci son dei problemi generali; e questi si aggirano, per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e, per un'altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del conoscibile e del conosciuto. Non è ciò che intendete voi di dire? Tanto è, che io appunto alle questioni più generali rivolsi l'attenzione mia nel secondo dei miei saggi; ma con un modo di trattazione che dissimula l'intento.

Chi consideri il materialismo storico nel suo insieme, può trovarvi argomento a tre ordini di studii. Il primo risponde al bisogno pratico proprio ai partiti socialistici, di andare acquistando una adeguata conoscenza della specificata condizione del proletariato in ogni paese, e di commisurare, congruamente alle cause, alle promesse ed ai pericoli della complicazione politica, l'azione del socialismo. Il secondo può menare, e menerà di certo, a rinnovare gl'indirizzi della storiografia, in quanto abiliti a ricondurne l'arte sul terreno delle lotte di classe e della combinatoria sociale, che da quelle risulta, data la relativa struttura economica, che ogni storico deve d'ora innanzi conoscere ed intendere. Il terzo consiste nella trattazione dei principii direttivi, a comprendere e svolgere i quali occorre di necessità la generale orientazione da voi invocata. Ora, pare a me - e ho dato di ciò la prova, scrivendo - che quando non si cada nell'antiquato errore di credere, che le idee stiano come degli esemplari al di sopra delle cose, ammessa la inevitabile division del lavoro, il darsi alla considerazione dei principii generali, presi per sé, non implichi per forza, lo scolasticismo formale, ossia la ignoranza delle cose dalle quali quei principii vengono astratti. Certo che quei tre ordini di studii e di considerazioni faceano uno nella mente di Marx, e, oltre che nella mente, fecero uno nell'opera sua. La sua politica fu come la pratica del suo materialismo storico, e la sua filosofia fu come inerente a quella sua critica dell'economia, la quale fu il suo modo di trattare la storia. Ma, lasciando stare che cotesta universalità di comprensione è la nota specifica del genio che inizii un nuovo indirizzo mentale, il fatto è che Marx stesso in un solo caso portò a compimento la integrazione della sua dottrina, ed è nel Capitale.

La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole, con la materia del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane però un semplice desideratum. Cotesta tendenza vorrebbero alcuni significare, appunto quando dicono superata la metafisica (in ogni senso); mentre altri, che son più esatti, suppongono che la scienza giunta a perfezione sia già la filosofia riassorbita. La medesima tendenza giustifica quella dicitura di filosofia scientifica, che altrimenti sarebbe d'un risibile barocchismo. Se cotesta espressione può mai aver un riscontro pratico di evidenza probativa, gli è proprio nel materialismo storico, come fu nella mente e negli scritti di Marx. Ivi la filosofia è tanto nella cosa stessa, e in essa e con essa rifusa, che il lettore di quegli scritti ne prova l'effetto, come se il filosofare non sia se non la funzione stessa del procedere scientificamente.

Devo io qui stare a fare delle confessioni; o mi tocca solo di limitarmi a discorrer con voi obiettivamente, su quei punti che possono riavvicinarci negli intenti? Se io dovessi fermarmi alle espressioni aforistiche, che son proprie della confessione, io direi così: - a) l'ideale del sapere deve esser questo, che in esso cessi la opposizione fra scienza e filosofia; - b) ma, come la scienza (empirica) è in continuo divenire, e si moltiplica così nella materia come nei gradi, differenziando in pari tempo gl'ingegni che i singoli rami ne coltivano, e d'altra parte s'è accumulata e s'accumula di continuo sotto al nome di filosofia la somma delle cognizioni metodiche e formali; - c) così la opposizione tra scienza e filosofia si mantiene e si manterrà, come termine e momento sempre provvisorio, per indicare appunto, che la scienza è di continuo in sul divenire, e che in cotesto divenire entra per non poca parte l'autocritica.

 Basta guardare a Darwin per intendere quanto occorra di proceder cauti nell'affermare, che la scienza dell'ora presente sia per se stessa la fine della filosofia. Darwin ha di certo rivoluzionato il campo delle scienze dell'organismo, e con esse l'intera concezione della natura. Ma in Darwin stesso non fu la coscienza completa della portata delle sue scoverte: egli non fu il filosofo della sua scienza. Il darwinismo, come nuova visione della vita, e quindi della natura, e di qua dalla persona e dagl'intenti dello stesso Darwin. Viceversa alcuni volgarizzatori del marxismo hanno spogliato questa dottrina della filosofia che le è immanente, per ridurla ad un semplice aperçu del variare delle condizioni storiche per il variare delle condizioni economiche. Osservazioni così semplici bastano per persuaderci, che se noi possiamo affermare, che la scienza arrivata a perfezione è già la filosofia, ossia che questa non significhi se non l'ultimo grado della elaborazione dei concetti (Herbart), noi non dobbiamo, con l'enunciazione di tale postulato, autorizzar nessuno a parlare con dispregio di ciò che in senso differenziato chiamasi la filosofia, come non dobbiamo dare a credere a tutti gli scienziati, che, a qualunque grado dello sviluppo mentale si arrestino, essi sian di già i trionfatori o gli eredi di quella bagattella che fu la filosofia. E voi, perciò, non avete posta una questione che possa dirsi oziosa, mentre chiedete, a un di presso: - con quale animo il cultore del materialismo storico guarderà la rimanente filosofia?

VI.

Roma, 28 maggio '97

Nella biografia scientifica dei due nostri grandi autori c’è una lacuna. Nel 1847 una loro opera viaggiava per la stamperia; ma rimase poi inedita per ragioni accidentali.

In quel libro, che è rimasto un semplice manoscritto, e che, per quanto io sappia, non fu visto dappoi da nessun altro dagli autori in fuori, essi, come se facessero un esame di coscienza, fissarono la loro veduta nel campo filosofico, a raffronto delle altre correnti contemporanee. Che cotesto esame fosse fatto in relazione principalmente ai derivati dell'hegelismo, e al contraccolpo materialistico di esso nella dottrina di Feuerbach, non v'è dubbio alcuno. Oltre alle ragioni generali del movimento filosofico del tempo, stanno in favore di questa opinione i brani di articoli di giornali e di riviste, che, come reliquie del Marx polemista d'allora, furon di recente pubblicati dallo Struve nella “Nene Zeit”. Ma quale era la complessiva posizione mentale dei due scrittori? quale era il loro orizzonte bibliografico? quale atteggiamento assumevano verso gli altri fermenti della scienza, che son poi fioriti in tante rivoluzioni, così nel campo della filosofia naturale, come in quello della filosofia storica, e quale notizia vi aveano essi? A tutte coteste domande non è dato di rispondere adeguatamente. Si capisce, del resto, che, se a nessuno può rincrescere d'aver pubblicato da giovane degli scritti, che da vecchio non scriverebbe a quel modo, il non averli pubblicati a suo tempo è grave impedimento agli autori stessi per tornarci su; cosicché Engels diceva, che quell'opera avesse in fondo prodotto tutto l'effetto suo: fissare, cioè, l'orientazione di quelli che la scrissero.

E poi dopo di quel tempo, presa che ebbero la loro via, i due autori non scrissero più di filosofia nel senso differenziato della parola. Non solo le loro occupazioni di agitatori pratici, di pubblicisti, e d'intesi a seguire il movimento proletario, influendo sopra di esso, ma la stessa vocazione mentale loro li distoglieva dal mestiere di filosofi en titre. Sarebbe per ciò cosa vana l'andar passo passo ricercando che opinione si facessero essi, nei loro studii e letture, dei nuovi portati della scienza, in quanto questi venivano o non venivano a recar sussidio al nuovo indirizzo di filosofia storica da loro escogitato. Certo che nella psicologia, come s'è da ultimo svolta, nell'acuito criticismo nel campo della filosofia professionale, nella scuola dell'economia storica, nel darwinismo, così nel senso specifico come nel senso lato, nella cresciuta tendenza alla storicità nel considerare i fenomeni naturali, nelle scoverte della preistoria delle istituzioni, e nella inclinazione sempre più forte verso la filosofia della scienza, ci è dato di riconoscere come dei sussidii e come dei casi analogici al prodursi del materialismo storico. Ma sarebbe cosa ridicola il voler misurare alla stregua di ciò che è debito d'un redattore d'una “Rivista critica", che è la bibliografia all'opera, o del professore che sciorina agli scolari le impressioni successive delle sue lettere, il lavoro di assimilazione della scienza contemporanea, che potean fare, o effettivamente fecero, quei due pensatori, i quali disponevano d'un così specifico e specificato angolo visuale, e aveano nel materialismo storico un individuato istrumento di ricerca e di riduzione. E in ciò consiste, del resto, ciò che chiamiamo la originalità; e fuori di tali confini questa parola significherebbe l'assurdo.

Non scrivendo più di filosofia, nel senso professionalmente differenziato e differenziale, finiron per essere i più perfetti esemplari di quella filosofia scientifica, che per molti è un semplice pio desiderio, per altri è un mezzo di spiattellare in nuova dicitura fraseologica le ovvie cognizioni della scienza empirica, alcune volte è una forma generica di razionalismo, e al postutto non è possibile, se non a chi entri nei particolari della realtà con la penetrazione che è propria di un metodo genetico inerente alle cose. Engels da ultimo scriveva: “Dal momento che per ogni scienza diventa una necessità il venire in chiaro su la sua propria posizione nell'insieme delle cose e della conoscenza delle cose, la scienza speciale dell'insieme diventa superflua. Ciò che della filosofia, svoltasi fino ad ora, rimane tuttora come per sé stante, gli è la dottrina del pensiero e delle sue leggi - la logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella scienza positiva della natura e della storia”.

Agli eruditi, ai ricercatori di tèmi per dissertazione, ai dottori novellini, tutto è possibile. Come han messo assieme l'etica di Erodoto, la psicologia di Pindaro, la geologia di Dante, l'entomologia di Shakespeare e la pedagogica di Schopenhauer, così a fortiori, e a più giusto titolo, potrebbero scrivere della logica del Capitale, anzi costruire un insieme della filosofia di Marx, tutta specificata e spartita secondo le sacramentali rubriche della scienza professionale. Question di gusti! - io che, per esempio, preferisco l'ingenuità di Erodoto e la poderosità di Pindaro alla erudizione che ne stemperi gli unitarii prodotti in amminicoli di postuma analisi, lascio volentieri al Capitale la integralità sua, a produrre la quale concorrono organicamente tutte le nozioni e conoscenze, che allo stato differenziato han nome di logica, di psicologia, di sociologia, di diritto e di storia nel senso ovvio; - e ci concorre anche quella singolare flessibilità e flessuosità del pensiero, che è la estetica della dialettica.

Rimane per ciò quel libro, e rimarrà sempre, analizzabile sì nei particolari, ma inafferrabile nell'insieme, per gli empiristi puri, per gli scolasticisti dalle definizioni nette e non convertibili nel flusso del pensiero, per gli utopisti d'ogni maniera, e soprattutto per gli utopisti del liberismo e pei libertarii, che sono, dal più al meno, anarchisti senza saperlo. Immergersi nel concreto delle correlatività sociali e storiche gli è cosa per molti intelletti di una difficoltà quasi insuperabile. Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui geneticamente si svolgono delle leggi, le quali sono relazioni di movimento, molti han bisogno di rappresentarsi delle cose fisse, per es., l'egoismo di qua, l'altruismo di là, e così via. Il caso caratteristico è quello dei moderni edonisti. Non si arrestano alla compagine sociale, come al dato specifico della dottrina economica, ma risalgono ai giudizi di valutazione, come alla premessa (logico-psicologica) della Economica. In questi giudizii trovano una scala, e studiano (per la più parte in forma tipica ed ipotetica) i gradi di essa; come chi studiasse nell'estetica formale i soli gradi del compiacimento. Di fronte a tali valutazioni (o gradi dell'apprezzamento del bisogno) stanno le cose, che sono i beni; e queste cose vengono esaminate nella loro relazione con gli apprezzamenti, tenuto conto della loro quantità disponibile ed acquisibile, il che determina per esse la qualità di valori, il limite dei valori ed il valore-limite.

Costituita così la posizione astratta e generica della economicità, indifferentemente, così per le cose di cui la natura ci è prodiga, come per quelle che costano agli uomini il sudore della fronte (e l'ingrato lavoro della storia), la povera economia ovvia e comune, ossia la economia della convivenza che ci è familiare, e su la quale si sono travagliati i teoretici di scuola classica, e i critici del socialismo, diventa come un caso particolare di un'algebra universalissima. Il lavoro, che per noi è il nerbo stesso del vivere umano, ossia l'uomo stesso che si svolge, diventa in cotesta veduta, o lo sforzo per evitare una pena, o la minor pena. In cotesta astratta atomistica delle conazioni, degli apprezzamenti e delle quantità di beni, non si sa più che cosa sia la storia, e il progresso si risolve in una mera parvenza.

Se mai occorresse di formulare, non sarebbe fuori di luogo il dire, che la filosofia implicita al materialismo storico è la tendenza al monismo; - e uso la parola tendenza, accentuandola. Dico tendenza, e aggiungo tendenza critico-formale. Non si tratta già, insomma, di tornare alla intuizione teosofica o metafisica della totalità del mondo, come se noi, per atto di cognizione trascendente, giungessimo issofatto alla visione della sostanza a tutti i fenomeni e processi sottostante. La parola tendenza esprime precisamente l'adagiarsi della mente nella persuasione, che tutto è pensabile come genesi, che il pensabile, anzi, non è che genesi, e che la genesi ha i caratteri approssimativi della continuità. Ciò che differenzia cotesto senso della genesi dalle vaghe intuizioni trascendentali (per es., Schelling) è il discernimento critico, e quindi il bisogno di specificare la ricerca: ossia il riavvicinamento all'empirismo per ciò che concerne il contenuto del processo, e la rinuncia alla pretesa di recarsi in mano lo schema universale di tutte le cose. I volgari evoluzionisti fanno così: afferrata la nozione astratta del divenire (evoluzione), ci caccian dentro ogni cosa, dal concretarsi della nebulosa alla fatuità loro. Così facevano i ripetitori di Hegel, col ritmo soprastante e perpetuo, della tesi, antitesi e sintesi. Ragione precipua dell'accorgimento critico, col quale il materialismo storico corregge il monismo, è questa: che esso parte dalla praxis, cioè dallo sviluppo della operosità, e come è la teoria dell'uomo che lavora, così considera la scienza stessa come un lavoro. Porta infine a compimento il senso implicito alle scienze empiriche; che noi, cioè, con l'esperimento ci riavviciniamo al fare delle cose, e raggiungiamo la persuasione, che le cose stesse sono un fare, ossia un prodursi.

Il brano dell'Engels citato più innanzi potrebbe, però, dar luogo a delle curiose illazioni; come chi si pigliasse tutta la mano, quando altri gli ha offerto il dito. Dato ed ammesso, che la logica e la dialettica continuino a sussistere come per sé stanti, non può esser questa, si direbbe, occasione propizia a rimettere a novo tutta la enciclopedia filosofica? Rifacendo, a parte a parte, e per ogni singolo ramo di scienza, il lavoro di astrazione degli elementi formali che vi sono impliciti, si riesce a scrivere dei vasti e comprensivi sistemi di logica, come son quelli esemplari del Sigwart e del Wundt; le quali, in verità, son delle vere enciclopedie della dottrina dei principii del sapere. Ora se è questo il desiderio dei filosofi professionali, stiano pur tranquilli, che le loro cattedre non saranno abolite. La division del lavoro nel campo intellettuale si presta praticamente a molte combinazioni. Se c'è chi voglia compendiare in forma schematica i principii, coi quali noi ci rendiamo conto di un determinato gruppo di fatti, per es., di un determinato ordinamento giuridico, nulla osta che egli cotesta disciplina chiami scienza generale del diritto o anche, se gli piace, filosofia del diritto, purché si rammenti che riduce a sistema (empirico) un ordine di fatti storici; ossia che coglie una categoria storica come il divenuto del divenire.

Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, virtuosità a tenersi equilibratamente in un campo di specializzata ricerca, dall'altra parte: - ecco il resultato. Per poco che s'esca da questa linea, o si ricade nel semplice empirismo (la nonfilosofia), o si trascende alla iperfilosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l'Universo, come chi ne possedesse la intuizione intellettuale.

Leggete, di grazia, se non l'avete già letta, la conferenza di Haeckel sul monismo, che fu volgarizzata in Francia da un appassionato darwinista della sociologia. In quell'insigne scienziato si confondono tre attitudini diverse: una maravigliosa capacità alla ricerca e dichiarazione dei particolari, una profonda elaborazione sistematica dei particolari appurati, e una poetica intuizione dell'Universo, che pur essendo della immaginazione, alcune volte pare della filosofia. Ma mettere voi, illustre Haeckel, tutto l'Universo, dalle vibrazioni dell'etere alla formazione del cervello; ma che dico del cervello, anzi giù giù, dopo questo, dalle origini dei popoli e degli stati e dell'etica fino ai tempi nostri, compresi i principotti protettori della vostra Università di Iena, ai quali fate le riverenze, in sole 47 pagine in-8°, è cosa superiore per fino all'eccellenza dell'ingegno vostro! Non vi sovviene forse di quei tanti buchi, che l'Universo presenta anche alla provetta scienza nostra: o avete a casa un grande armadio pieno di quei berretti da notte, che Heine dicea usassero gli hegeliani a covrire quei buchi? O non vi ricordate di cosa che dovrebbe più direttamente scottarvi: quel tale batibio, che prese nome da voi in una scoverta dell'Huxley, che era poi, viceversa, un solenne qui- pro-quo?

Dunque, tendenza al monismo, ma al tempo stesso coscienza precisa della specialità della ricerca. Tendenza a fondere scienza e filosofia, ma, medesimamente, continuata riflessione su la portata e sul valore di quelle forme del pensiero, che usiamo in concreto, e che pur possiamo distaccar dal concreto, come accade nella logica stricto jure, e nella teoria generale della conoscenza (che voi chiamate metafisica). Pensare in concreto, e pur poter riflettete in astratto su i dati e su le condizioni della pensabilità. La filosofia c'è e non c'è. Per chi non c’è ancora arrivato, essa è come il di là dalla scienza. E per chi c’è arrivato, essa è la scienza condotta a perfezione.

Oggi, come in passato, noi possiamo scrivere, su i dati astratti da una determinata esperienza, dei trattati per es., di etica o di politica, e possiamo dare alla trattazione tutta la perspicuità del sistema: purché ci ricordiamo di questo, che le premesse cioè si ricollegano geneticamente ad altro; purché non cadiamo nella illusione (metafisica) di considerare i principii come degli schemi ab aeterno, ossia come le sopraccose delle cose dell'esperienza.

A questo punto nulla c'impedisce di enunciare una formula come la seguente: tutto il conoscibile può essere conosciuto; e tutto il conoscibile sarà, all'infinito, realmente conosciuto; e di là dal conoscibile, a noi, nel campo della conoscenza, non importa nulla di null'altro. Questo generico enunciato, nel suo aspetto pratico, si riduce a dire: che la conoscenza tanto importa per quanto ci è dato di realmente conoscere, e che è una mera fantasticheria l'ammettere, che la mente riconosca, come esistente in atto un'assoluta differenza tra il limitato conoscibile e ciò che è per sé inconoscibile: - un inconoscibile, che io dichiaro di conoscere come inconoscibile! Come fate voi, von Hartmann, a bazzicare da tanti anni con l'Inconsapevole, che voi così consaputamente vedete operare; e voi, signor Spencer, a manovrate di continuo col riconoscimento dell'Inconoscibile, che in fondo voi in qualche modo sapete, se ne fate il limite del conoscibile? In fondo a cotesta fraseologia dello Spencer si cela il dio del catechismo; - c’è, insomma, il residuo di una iperfilosofia, che rassomiglia, come la religione, al culto di quell'ignoto, che, in uno e medesimo tempo si dichiara ignoto, e pur si afferma di conoscere in certa guisa facendone oggetto di riverenza. In tale stato d'animo la filosofia è ridotta allo studio dei fenomeni (parvenze), e il concetto di evoluzione non implica punto che la realtà stessa divenga.

Per il materialismo storico il divenire, ossia l'evoluzione, e invece reale, anzi è la realtà stessa; come è reale il lavoro, che è il prodursi dell'uomo, che ascende dalla immediatezza del vivere (animale) alla libertà perfetta (che è il comunismo). In questa inversione pratica del problema della conoscibilità, noi ci rechiamo interamente in mano la scienza, in quanto essa è il fatto nostro. Una nuova vittoria sul feticcio! Il sapere è per noi un bisogno, che empiricamente si produce, si raffina, si perfeziona, si corrobora di mezzi e di tecnica, come ogni altro bisogno. Noi via via conosciamo ciò che ci occorre di conoscere. L'esperimentare è un crescere; e ciò che chiamiamo il progresso dello spirito, non è se non un accumularsi di energie di lavoro. In cotesto prosaico assunto si risolve quell'assolutezza della conoscenza, che era per gli idealisti un postulato di ragione, o una argomentazione ontologica. Quella tal cosa (così detta in sé), che non si conosce, né oggi, né domani, che non si conoscerà mai, e che pur si sa di non poter conoscere, non può appartenere al campo della conoscenza, perché non si dà conoscenza dell’inconoscibile. Se un simile assunto entra nella cerchia della filosofia, gli è perché la coscienza del filosofo non è tutta fatta di scienza, ma consta ancora di tanti altri elementi sentimentali ed affettivi, da cui, sotto l’impulso della paura, e per tramite della fantasia e del mito, si generano combinazioni psichiche, le quali, come in passato impedirono lo sviluppo della cognizione razionale, così ora adombrano il campo del sapere meditato e prosaico. Pensiamo alla morte. Essa è teoricamente insita alla vita.

La morte, che pare così tragica negli individui complessi, che alla comune intuizione appariscono come i veri e proprii organismi, è immanente agli elementi primissimi della sostanza organica, per la estrema labilità e per la circoscritta plasticità del protoplasma. Ma tutt'altro è la paura della morte - ossia l'egoismo del vivere! E così è di tutte le altre affettività e tendenze passionali, che, nelle loro derivazioni mitiche, poetiche e religiose, gettarono, gettano e getteranno in varia proporzione le ombre loro sul campo della coscienza. La filosofia dell'uomo puramente teoretico che tutte le cose contempli sotto l'aspetto del proprio esser loro, gli è come il tentativo di far passare il pensiero astratto su tutto il campo della coscienza, senza che v'incontri, né deviazioni, né attriti. Ecco Baruch Spinoza, il vero eroe del pensiero, che se stesso contempla in quanto gli affetti e le passioni, a guisa di forze della interiore meccanica, gli si trasmutano in obietti di considerazione geometrica!

En attendant che in una futura umanità di uomini quasi trasumanati, l'eroismo di Baruch Spinoza divenga la virtù minuscola di tutti i giorni, e che i miti, la poesia, la metafisica e la religione non ingombrino più il campo della coscienza, contentiamoci che fino ad ora, e per ora, la filosofia, così nel senso differenziato, come nell'altro, sia servita quale istrumento critico e serva, per rispetto alla scienza, a mantenere la chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti logici, e per rispetto alla vita a diminuire gl'impedimenti che all'esercizio del libero pensiero frappongono le fantastiche proiezioni degli affetti, delle passioni, dei timori e delle speranze; ossia giovi e serva, come direbbe precisamente Spinoza, a vincere l'imaginatio e l'ignorantia.

VII.

Roma, 16 giugno '97

Mi capita un bel caso. Mentre pareami di non esser venuto al termine ancora di queste mie epistole, m'è toccato di dover discorrere delle stesse precise cose, delle quali mi vado intrattenendo con voi, in altro luogo, in altra forma, e d'animo men lieto.

In uno degli ultimi numeri della “Critica Sociale” apparve una specie di messaggio, che il signor Antonio De Bella, sociologo calabrese, dirigeva contro quei socialisti esclusivi, che per ogni cosa ed in ogni questione, a quel che dice lui, se ne stanno al verbo di Marx. Il De Bella ha mancato di farci sapere, se il Marx, cui quelli che tartassa s'appellano, sia il genuino, o un altro così per dire alterato, o a dirittura inventato, un Marx biondo, o che so io altro. Il fatto è che m'ha concesso l'onore di metterci anche me nel branco di cotesti ostinati, cui rivolge i suoi moniti e i suoi consigli, perché si completino d'altra più vasta coltura sociologica e naturalistica. Cita invero il solo mio nome, senza dire a quale mio scritto, detto o fatto intenda di richiamarsi: e poi giù un pochino del solito catechismo della sociologia intinta di darwinismo, con la inevitabile filastrocca di tanti nomi di autori.

Credetti opportuno di rispondere; un po' per dire sommariamente, come il socialismo scientifico non si trovi poi tanto a mal partito, da aver proprio bisogno di certi consigli; per mostrare, che i complementi suggeriti dal De Bella, o sono i sottintesi, o sono il contrario del marxismo; e soprattutto perché, trovandomi da un pezzo in qua in vena di conversare con voi di socialismo e di filosofia, m'è parso opportuno di fissare con note ad hominem parecchie delle considerazioni critiche, che vado svolgendo tête-à-tête con voi, con una certa tal quale bizzarria di forma.

Vi mando la mia risposta, come è apparsa nella “Critica Sociale” di ieri. E anche questa è una lettera; e, sebbene non sia diretta a voi, potete metterla nella collezione, come se facesse seguito. Completa e riassume le altre, con qualche leggera e scusabile ripetizione.

Questa lettera extra, che indirizzavo al direttore della “Critica Sociale”, non è dolce di sale. Non la scrissi proprio con l'intenzione di far cosa grata al signor De Bella. C'è del cattivo umore. Forse questo umor di critica rivelante amarezza m’è venuto dal fatto, che, standomene io con la mente rivolta allo studio di questo grave problema dei rapporti del materialismo sociale col rimanente della intuizione scientifica contemporanea, m'è parso che i consigli del signor De Bella, - che del resto non stava a spiare quel che io vado scrivendo a voi, - fossero, per lo meno quanto a me, inopportuni; se non altro perché non avrei la fantasia di chiedergliene.

Roma, 5 giugno '97

Caro Turati,

Non mi è ben chiaro se il De Bella, nominandomi, parli proprio di me. Sarei anzi inclinato a credere, che egli rivolga la sua tirata a un mannequin di sua fattura, al quale abbia, commoditatis causa, appiccicato il nome mio. Comunque sia, dal momento che mescola il mio nome alle sue meditazioni, io non posso a meno di aggiungere alla vostra una nuova postilla.

Com'è risaputo, io entrai esplicitamente e pubblicamente nelle vie del socialismo solo dieci anni fa. Dieci anni sono un tratto di tempo non veramente lungo nella mia esistenza fisica, giacché ne conto ormai quattro oltre il mezzo secolo; ma sono un tratto a dirittura breve nella mia vita intellettuale. Prima, insomma, di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo, opportunità ed obbligo d'aggiustar le mie partite ed i miei conti col darwinismo, col positivismo, col neokantismo, e con quanto altro di scientifico si è svolto intorno a me, e ha dato a me occasione di svolgermi tra i miei contemporanei, poiché tengo cattedra di filosofia all'Università dal 1871, e per l'innanzi ero stato studioso di ciò che occorre per filosofare.

Volgendomi al socialismo, non ho chiesto a Marx l'abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto, se non ciò ch'esso effettivamente contiene: ossia quella determinata critica dell'economia che esso è, quei lineamenti del materialismo storico che reca in sé, quella politica del proletariato che enuncia o preannuncia. Non chiesi al marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l'hegelismo, che rifioriva appunto in Italia nella mia gioventù, e nel quale io m’ero come allevato. Manco a farlo a posta, la mia prima composizione filosofica, in data del maggio 1862, è una: Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller! Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si voglia, essendo io vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso. Aggiungo anzi, che, mentre il marxismo non mi tornava punto difficile nei suoi lineamenti intrinseci e formali, in quanto metodo di concezione, mi tornava invece di faticosa acquisizione nel suo proprio contenuto economico. E mentre io andavo facendo, nel miglior modo che mi fu possibile, cotesta acquisizione, non era né dato né permesso a me di confondere la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, ossia il senso che ha qui in questo caso concreto l'evoluzione, con quella, direi quasi, malattia cerebrale, che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti italiani, che parlano ora di una Madonna Evoluzione, e l'adorano.

Che mi chiede, dunque, il De Bella? Che io, a guisa di giovane seminarista, pur mo' svestito, ritorni a scuola! O vuole ch'io mi faccia ribattezzare da Darwin, riconfermare da Spencer, reciti poi la confessione generale innanzi ai compagni, e mi prepari a ricevere da lui l'estrema unzione? Per quieto vivere lascerei correre tutto il resto; ma contro all'appello alla coscienza dei compagni protesto recisamente. I compagni rigidi e perfino tirannici per ciò che si attiene alla condotta politica del partito in una certa misura e in date condizioni, li ammetto. Ma i compagni che abbiano autorità di pronunziare da arbitri in fatto di scienza.. - solo perché compagni... via, la scienza non sarà messa ai voti mai, nemmeno nella cosiddetta società futura!

O vuole una più modesta cosa, che io, cioè, affermi e giuri che il marxismo non è la scienza universale, e che gli oggetti che contempla non sono l'Universo? Concedo subito. E sfido che io possa non concedere. Mi basta di ricordarmi dell'orario della Università, e dei moltissimi corsi che enumera. Anzi concedo ancora di più. Ecco qua: “Questa dottrina non è se non agl’inizii suoi, ed ha bisogno ancora di molto sviluppo” (Del materialismo storico, cap. I).

Difatti, ciò che tormenta il De Bella e tanti altri, gli è appunto la caccia alla universale filosofia, nella quale il socialismo possa poi essere bene allogato, come la parte nella visione del tutto. S'accomodino! La carta è paziente: così dicono gli editori tedeschi agli autori novellini. Ma non posso risparmiarmi due avvertenze. La prima è, che nessun sofo di questo mondo riuscirebbe mai a darci l'idea dell'universa filosofia in due colonne della “Critica Sociale". La seconda è affatto personale. Sono venti anni ormai che io ho in uggia la filosofia sistematica, e come cotesta disposizione d'animo mi ha reso più accessibile al marxismo che è uno dei modi nei quali lo spirito scientifico si è liberato dalla filosofia come per sé stante, cosi è causa della mia inveterata diffidenza per lo Spencer filosofo, che nei Primi Principii ci ha ridata una schematica del cosmo. E qui occorre che citi me stesso:

Io non ero venuto in questa università, ventitré anni fa, qual rappresentante di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di novello sistema. Per le fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto l'influsso diretto e genuino dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; e ossia dei sistemi di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata all'estremo delle conseguenze l'antitesi tra realismo e idealismo, tra pluralismo e monismo, tra psicologia scientifica e fenomenologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica. Già la filosofia di Hegel avea messo capo nel materialismo storico di Carlo Marx, e quella di Herbart nella psicologia empirica, che, a date condizioni, e dentro certi limiti, è anche sperimentale, comparata, storica e sociale. Eran quelli gli anni, nei quali, per la intensiva ed estensiva applicazione del principio dell'energia, della teoria atomica e del darwinismo, e col ritrovamento delle accertate forme e condizioni della fisiologia generale, si rivoluzionava a vista d'occhi tutta la concezione della natura. E in pari tempo, l'analisi comparativa delle istituzioni, in concorrenza con la linguistica e con la mitologia comparata, e poi la preistoria tutta, e, da ultimo, la economia storica, rovesciavano la più parte delle posizioni di fatto e delle ipotesi formali, su le quali, e per le quali, si era per l'innanzi filosofato sul diritto, su la morale e su la società. I fermenti del pensiero, quei fermenti che sono impliciti nelle nuove o nelle rinnovate scienze, non accennavano, come non accennano ancora, allo sviluppo di una novella sistematica filosofica, che tutto il campo della esperienza contenga e domini. Passo sopra alle filosofie di privato uso ed invenzione, com’è il caso dei Nietzsche e dei von Hartmann, e mi risparmio ogni critica di questi pretesi ritorni ai filosofi di altri tempi, che dànno per resultato una filologia in cambio della filosofia, com'è accaduto dei neokantiani.

Mi soffermo a notare il quasi inverosimile equivoco verbale, per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz'altro quella specificata filosofia, che è il positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova esperienza naturale e sociale. A costoro capita, per es., di non saper distinguere nello Spencer, ciò che è merito incontrastabile in lui, d'aver cioè concorso a formare la fisiologia generale, da ciò che è impotenza in lui a spiegare un solo fatto storico concreto per mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato da ciò che è del filosofo; il quale, giuocando di scherma con le categorie dell'omogeneo, dell’eterogeneo, dell'indistinto, e del differenziato, del conosciuto e dell'inconoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un kantiano inconsapevole e a volte un Hegel in caricatura.

L'ordinamento della Università deve anch'esso spiccatamente riflettere lo stato attuale della filosofia, che ormai consiste nella immanenza del pensiero nel realmente saputo; e, cioè, consiste nell'opposto di ogni anticipazione del pensiero sul saputo, per via della teologica o metafisica escogitazione” (L'Università e la libertà della scienza, Roma 1897, pp. 15, 16 e 17).

Al postutto poi cotesta filosofia, dirò così, vagheggiata dal De Bella, non sarebbe, in fondo, se non una riedizione della triunità Darwin-Spencer-Marx, messa in giro con tanta suggestione di eloquenza, ma con tanto poca fortuna, or son tre anni già, da Enrico Ferri. Ebbene, caro Turati, io voglio fare onestamente la parte dell'avvocato del diavolo, e riconosco, che in coteste incerte aspirazioni alla filosofia del socialismo, (e poco manca, alcuni non credano che debba essere una specie di filosofia a privato uso dei soli socialisti) e perfino nei molti spropositi che qua e là si vanno dicendo, c'è un nocciolo di sentimento giusto, che risponde ad un reale bisogno. Molti di quelli che in Italia si dànno al socialismo, e non da semplici agitatori, conferenzieri e candidati, sentono che è impossibile di farsene una persuasione scientifica, se non riallacciandolo per qualche via o tramite alla rimanente concezione genetica delle cose, che sta più o meno in fondo a tutte le altre scienze. Di qui la mania che è in molti, di cacciar dentro al socialismo tutta quella rimanente scienza di cui più o meno essi dispongono. Di qui i molti spropositi e le molte ingenuità, in fondo sempre spiegabili. Ma di qui anche un grave pericolo; che, cioè, molti di cotesti intellettuali dimentichino che il socialismo ha il suo fondamento reale soltanto nella presente condizione della società capitalistica, e in ciò che il proletario e il rimanente popolo minuto possono volere e fare; - che per opera degli intellettuali Marx divenga un mito; - e che, mentre essi discorrono, dall'alto al basso e dal basso all'alto, tutta la scala dell'evoluzione, da ultimo in un non lontano congresso di compagni si metta ai voti questo filosofema: il primo fondamento del socialismo è nelle vibrazioni dell'etere.

Per ciò mi spiego le ingenuità del De Bella. Se Marx fosse ancora vissuto! Già si capisce: essendo nato il 5 maggio 1818, ed essendo morto il 14 marzo 1883, poteva umanamente vivere ancora; e, vivendo - direi io – avrebbe portato a compimento il III volume del Capitale, che c’è rimasto così sgangherato e così oscuro. Nossignore, dice De Bella, sarebbe diventato materialista. Ma santi numi; se era tale dal 1845, e per ciò venne in uggia agli ideologi radicali di sua conoscenza! E oltre che materialista sarebbe diventato anche positivista. Il positivismo! Nella volgare cronologia cotesto nome designa la filosofia di Comte e suoi seguaci. Ora questa avea idealmente tirate le cuoia, già prima che Marx fisicamente morisse. Che bel vedere: il materialismo - il positivismo - e la dialettica in santissima trinità! E poi, che altro bel vedere; il papato scientifico del Comte riconciliato con la indefinita progressività del materialismo storico, che risolve il problema della conoscenza in opposizione ad ogni altra filosofia, ed enuncia:
- non esserci limitazione fissa, né a priori né a posteriori, alla conoscibilità, perché nell'indefinito processo del lavoro, che è esperienza, e dell'esperienza, che è lavoro, gli uomini conoscono tutto ciò che fa bisogno ed è utile di conoscere. Quel Comte, che proclamava chiuso per sempre il ciclo della fisica e dell'astronomia, proprio nel momento in cui si ritrovava l'equivalente meccanico del calore, e pochi anni innanzi alla strepitosa scoverta dell'analisi spettrale; quel Comte, che nel 1845 dichiarava assurda la ricerca circa l'origine della specie!

Ma il materialismo storico, continua De Bella, ha da contemplarsi con la preistoria! E qui il diavolo ci mette proprio la coda. L'Ancient Society del Morgan, pubblicata in America e giunta in Europa in pochi esemplari con la ditta Mac-Millan di Londra (1877), fu messa come sotto sequestro dalla spietata lega del silenzio fattavi attorno dagli etnografi inglesi, o invidi, o paurosi. I resultati delle ricerche del Morgan circolarono però per il mondo precisamente per mezzo del libro dell'Engels, che s'intitola: Della origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (I° ediz. 1884, 4° ediz. 1891), che è al tempo stesso recensione, esposizione e complemento del testo, e reca in sé la tentata ricongiunzione di Morgan e di Marx. E che dice Engels di Morgan? – “aver questi novellamente scoverto il materialismo storico, nella assoluta ignoranza di quanto Marx ne avesse scritto”; e quale fu l’occasione del libro? - il desiderio di mettere a profitto le note e le glosse lasciate da Marx!

Via, la volgare cronologia è qualcosa di assai importante... anche pei socialisti.

E torniamo pure all'inevitabile Spencer. Chi è mai, che, fuori d'Italia, si sia permesso di aggiudicarlo al socialismo? È forse lo Spencer un filosofo dell’altro mondo? Di lui e sopra di lui si può leggere ora in tutte le lingue, non esclusa quella dell'ammodernato Giappone. Né pecca di oscurità: anzi agli occhi miei, che amo la succosa brevità, pecca di prolissa e di minuziosa popolarità. Il primo scritto di lui che si conosca reca la data del 1843. Eravamo, si noti bene, nel più forte dell'agitazione cartista. Quello scritto s'intitola: Della sfera propria dello stato. Spencer fu alle viste di tutto il mondo come ammirato collaboratore dell'”Economist”, della “Westminster” e della “Edinburg Review”; e notiamo nuovamente le date, precisamente negli anni significativi dal 1848 al '59. Chi mai si è fatto illusioni in Inghilterra sul senso e sul valore delle sue vedute sociali e politiche? La Statica sociale apparve nel '51, la Psicologia (l° ediz.) nel '55, il Trattato sulla educazione nel '61, la l° edizione dei Primi principii nel '62, la Classificazione delle scienze nel '64, la Biologia dal '64 al '67, per non dire dei minori Saggi, e tra questi notevolissimi l'Ipotesi dello sviluppo (1852), la Genesi della scienza (1854), e il Progresso e la sua legge (1857). E qui chiudo la filastrocca per arrestarmi alle pubblicazioni che precedono il I° volume del Capitale (25 luglio 1867).

Non occorreva invero il genio di Marx per scorgere in tali scritti ciò che ero in grado di scorgervi io, da semplice studioso della filosofia, già 30 anni fa: che, cioè, la dottrina dell'evoluzione che vi si enuncia è schematica e non empirica, che quella evoluzione lì è fenomenale e non reale, e che essa ha di dietro lo spettro della cosa in sé di Kant, dapprima onorata in tutte lettere col nome di Dio o della Divinità (Statica, ediz. del 1851), più tardi circonlocuita nel riverito nome dell'Inconoscibile.

Metterei pegno, che, se mai Marx fra il '60 e il '70 avesse recensito le opere dello Spencer, avrebbe usato del seguente stile: “ecco l'ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del secolo XVII; - ecco l'ultimo sforzo della ipocrisia inglese nel combattere la filosofia di Hobbes e di Spinoza; - ecco l'ultima proiezione del trascendente sul campo della scienza positiva; - ecco l'ultima transizione fra il cretinismo egoistico del signor Bentham e il cretinismo altruistico del Rabbi di Nazareth; - ecco l'ultimo tentativo dell'intelletto borghese per salvare, con la libera ricerca e la libera concorrenza nell'al di qua, un enigmatico brandello di fede per l'al di là; - solo il trionfo del proletariato può assicurare allo spirito scientifico le condizioni piene e perfette di sua propria esistenza, perché solo nella trasparenza dell'opera può essere congruamente trasparente l'intelletto”. Così Marx scrivea - cioè, volevo dire, così avrebbe potuto scrivere: - ma lui avea da pensare allora all'Internazionale, e di questa lo Spencer non ebbe tempo di avvedersi.

Il 17 marzo del 1883 Federico Engels, parlando al cimitero di Highate in memoria dell'amico Marx, morto tre giorni innanzi, cominciava proprio così: “Come Darwin scovrì la legge dello sviluppo della natura organica, così Marx scovrì la legge dello sviluppo della storia umana”.

Non c'è da rimanerne proprio mortificati?

Né basta. Nell'Antidühring (I° ediz. del 1878 - la terza è del '94) il medesimo Engels avea già acquisito tutte le nozioni fondamentali del darwinismo, che occorrono alla generale orientazione del socialismo scientifico. A ciò fare erasi preparato con dieci anni di novella educazione nelle scienze naturali, e candidamente confessava: esser lui in queste più addentro di Marx, che alla sua volta era forte in matematica. E nemmeno ciò basta. Nella prima edizione del Capitale si trova una nota caratteristica e originalissima sul nuovo mondo scoperto da Darwin. S'intende già che quei due modesti mortali, che non fecero mai le parti di sopracciò dell'Universo, inteso sempre di riferirsi a quel prosaico darwinismo della Origine della specie (1859), che è un gruppo di teorie tratte da un gruppo di osservazioni e di esperienze sopra un campo circoscritto della realtà, che rimane più in qua dalle origini della vita e precede d'un buon tratto la storia umana. In quelle teorie non poteano non iscorgere un caso analogico con la concezione epigenetica della storia, che essi aveano in parte definita, in parte adombrata appena. Non seppero però mai di quel darwinismo, il quale ha scoperto le leggi della intera umanità (De Bella); di quel darwinismo, insomma, buono per tutto, che è una gratuita invenzione dei pubblicisti a corto di scienza, e dei decadenti della filosofia. L'amico loro Heine non avea forse detto: l'Universo è pieno di buchi, e il professore tedesco hegeliano covre quei buchi col suo berretto da notte?

E lasciando stare l'Universo e i suoi buchi, procuriamo, caro Turati, di fare ciascuno il dover nostro. Mi ricorre sempre per la mente questa grave invettiva che 30 anni fa pronunziava l'hegeliano B. Spaventa: “Qui da noi si studia la storia della filosofia nella geografia dell'Ariosto, e si citano alla pari, Platone e l'abate Fornari, Torquato Tasso e Totonno Tasso”.

Credetemi sempre, etc.

VIII.

Roma, 20 giugno '97

Mi occorre come un post-scriptum, che rechi delle postille alla penultima lettera, tanto grave di non facile filosofia.

Metto – com’è naturale - fra i prodotti delle affettività nostre, dei quali dissi che adombrano l'intelletto volgente alla scienza, anche quei complessi di inclinazioni, di tendenze, di valutazione e di pregiudizii, che di solito designiamo con le denominazioni antitetiche di ottimismo e di pessimismo.

In tali modi di apprezzamento, che oscillano dal passionale al poetico, e rivelan sempre la nota incerta di ciò che non può ridursi in formula precisa, non è chi sappia scorgere, né l'indirizzo, né la promessa di una razionale interpretazione delle cose. Sono, nel tutt'insieme, la estrinsecazione riassuntiva di infiniti particolari sentimenti, i quali possono aver sede, come la cosa è più patente nel caso del pessimismo, così nello specifico temperamento di un singolo individuo (per es., Leopardi), come in una situazione comune ad una intera moltitudine (alle origini per es. del Buddhismo). Ottimismo e pessimismo nella somma, consistono nel generalizzare le attività resultanti da una determinata esperienza o situazione sociale, e nel prolungarle tanto fuori dell'ambito della nostra vita immediata da farne come l'asse, il fulcro, o la finalità dell'Universo.

In guisa che poi, in fine, le categorie del bene e del male, che han realmente un senso così modestamente relativo alle nostre contingenze pratiche, divengono come il criterio per giudicare di tutto il mondo, ridotto in così piccola immagine, da parer fatto qual semplice supposto e qual semplice condizione della felicità o della infelicità nostra. Così dall'uno come dall'altro dei due angoli visuali, par che il mondo non possa intendersi se non come fatto, o a fin di bene, o a fin di male, e costituito per la prevalenza o per il trionfo, o dell'uno o dell'altro.

Nel fondo di cotesti modi di concepire c'è sempre la originaria poesia, che non si scompagna mai dal mito; - e tali modi di concepire forman sempre, dal crasso ottimismo maomettano al raffinato pessimismo buddhistico, il midollo pratico e la forza suggestiva dei sistemi religiosi. E ciò è naturalissimo. La religione, che appunto per ciò e, per ciò solo, è un bisogno, consta i tante trasfigurazioni dei timori, delle speranze, dei dolori, delle amarezze della vita cotidiana, in creduti e paventati preordinamenti; in guisa che le lotte del così detto quaggiù vengon tramutate in contrasti dell'Universo: - dio e satana - la caduta e la redenzione - la creazione e la palingenesi - la scala delle espiazioni ed il Nirvana. Quell'ottimismo e quel pessimismo, che si presentano nella veste, o meglio nelle apparenze di cosa pensata, nell'ambito di certe filosofie, non son che residui più o meno consaputi della religione come che sia trasformata, o di quella antireligione, che nell'impeto passionato del non credere rassomiglia alla fede. L'ottimismo di Leibnitz per es. non è certo la funzione filosofica della sua ricerca del calcolo superiore, né della sua critica dell’azione a distanza, e nemmeno del suo monadismo metafisico, né della sua scoverta del determinismo interno. Il suo ottimismo è la sua religione - ossia quella religione che parve a lui come la perpetua e perenne - quel cristianesimo, in cui tutte le chiese cristiane si conciliano - quella provvidenza giustificata nella rappresentazione di un mondo, che è l'ottimo che potesse mai essere e sussistere. Quella poesia teologica ha il suo pendant, dialettico perché umoristico, nel Candide di Voltaire! E così il pessimismo di Schopenhauer non è la resultante necessaria della sua critica della critica kantiana, né la funzione diretta delle sue squisitissime ricerche logiche; ma è la estrinsecazione della sua anima di piccolo borghese, meschino e dispettoso, anzi ringhioso, che si completa con la contemplazione (metafisica) delle cieche forze dell'Inconsapevole (ossia del cieco conato all'esistere); si completa, cioè, di una forma religiosa poco avvertita in generale, la religione dell’ateismo.

Se, dalle configurazioni e dalle complicazioni secondarie e derivate della religione o della filosofia teologizzante, noi risaliamo all'origine prima ed immediata di quelle creazioni ideologiche, che son l'ottimismo e il pessimismo, noi ci troviamo in presenza di un fatto, tanto ovvio, per quanto semplice: che ogni uomo, cioè, per la sua struttura fisica, e per la sua posizione sociale, è portato ad una specie di calcolo edonistico, ossia a misurare i suoi bisogni, e quindi i mezzi per soddisfarli; e, in fine, per necessaria conseguenza, viene ad apprezzare, in un modo, o in un altro, le condizioni della vita e il pregio della vita stessa nel suo complesso. Ora, quando la intelligenza è tanto progredita, da aver vinto gl'incantesimi della imaginatio e della ignorantia, i quali legano le sorti così poveramente prosaiche dell'ovvia vita cotidiana alle (fantasticate) forze trascendenti, non è più alla suggestione generica dell'ottimismo o del pessimismo che si tenga dietro. L'animo si volge al (prosaico) studio dei mezzi occorrenti a raggiungere, non quell'ente favoloso che dicesi la felicità, ma lo sviluppo normale delle attitudini; le quali, date le favorevoli condizioni sociali e naturali, fanno sì che la vita trovi se stessa la ragione dell'esser suo e della esplicazione sua. È qui il cominciamento di quella saggezza, che sola può giustificare la etichetta dell'homo sapiens.

Il materialismo storico, come è la filosofia della vita, e non delle parvenze ideologiche di questa, sorpassa l'antitesi dell'ottimismo e del pessimismo; perché ne supera i termini, comprendendoli.

La storia è si una serie dolorosamente interminabile di miserie; - il lavoro, che è la nota distintiva del vivere umano, è diventato il tormento e la maledizione della maggioranza degli uomini; - il lavoro, che è la premessa di ogni umana esistenza, è diventato il titolo alla soggezione del più gran numero degli uomini; - il lavoro, che è la condizione di ogni progresso, ha messo le sofferenze, le privazioni, i travagli e i patimenti del maggior numero degli uomini in servizio della comodità di pochi. Dunque la storia è un inferno: - anzi potrebb'esser rappresentata, in un lugubre dramma, come la tragedia del lavoro!

Ma questa stessa storia lugubre ha tratto da cotesta stessa condizione di cose, quasi sempre all'insaputa degli uomini stessi, e non certo per la provvidenziale preordinazione di alcuno, i mezzi occorrenti al relativo perfezionamento, prima di pochissimi, poi di pochi, poi di più che pochi; - e ora pare ne prepari per tutti. La gran tragedia non era evitabile. Non deriva da una colpa o da un peccato, non da una aberrazione o degenerazione, non dal capriccioso e peccaminoso abbandono della retta via; ma da una necessità intrinseca al meccanismo stesso del vivete sociale, e al ritmo processuale di questo. Questo meccanismo poggia su i mezzi di sussistenza, che sono il prodotto del lavoro stesso degli uomini, combinato con le più o meno favorevoli condizioni naturali. Ora che si apre innanzi ai nostri occhi questa prospettiva che la società, cioè, possa essere organizzata in modo, da dare a tutti i mezzi di perfezionarsi, noi vediamo chiaro, che tale aspettativa diventa plausibile, precisamente perché, col crescere della produttività del lavoro, si stabiliscono le condizioni materiali occorrenti a comunicare a tutti gli uomini la civiltà. In ciò sta la ragion d'essere del comunismo scientifico, che non confida nel trionfo di una bontà, la quale, chi sa in quali pieghe latenti di tutti i cuori di tutti i trapassati gl'ideologi del socialismo sono andati a scovare, per proclamarla l'eterna giustizia. Ma confida nel crescere di quei mezzi materiali, che permetteranno crescan per tutti gli uomini le condizioni dell'ozio indispensabili alla libertà: - la qual cosa vuol dire, che le ragioni dell'ingiusto saranno eliminate, ossia la signoria, la padronanza, il dominio dell'uomo su l'uomo; le quali ingiustizie (ad usare il linguaggio degli ideologi) suppongono come conditio sine qua non proprio quella miserabile cosa materiale, che è lo sfruttamento economico!

Solo in una società comunistica, il lavoro, oltre che non sfruttabile, può essere razionalmente misurato. Solo nella società comunistica, il calcolo edonistico, non intralciato dallo sfruttamento privato delle forze sociali, può aver carattere di cosa precisabile. Rimossi gl'impedimenti al libero sviluppo di ciascuno, quegli impedimenti, cioè, che differenziano ora le classi e gl'individui fino al non riconoscibile, ciascuno potrà trovare, nella misura di ciò che occorre alla società, il criterio di ciò che per lui è il fattibile e il necessario a fare. Adattarsi al fattibile, e non per esterna costrizione, in ciò sta la norma della libertà, che è una cosa sola con la saviezza; perché non ci può esser morale vera là dove non è la coscienza del determinismo. In una società comunistica cadono da per sé le antitetiche parvenze dell'ottimo e del pessimo, perché la necessità del lavorare in servizio della collettività e l'esercizio della piena autonomia personale non formano più antitesi, anzi appariscono come una e medesima cosa; - l'etica di cotesta società annulla la opposizione fra diritti e doveri, che non è, in sostanza, se non l'amplificazione dottrinale della condizione di questa antitetica società presente, nella quale alcuni han facoltà d'imporre ed altri hanno obbligo di prestare; - in cotesta società, in cui la benevolenza non è carità, non parrebbe utopistico il chiedere, che ciascuno presti secondo le sue forze, e ciascuno riceva secondo i suoi bisogni; - in simile società la pedagogica preventiva eliminerebbe, in buona parte, la materia della penalità, e la pedagogica obiettiva della convivenza e della collaborazione razionale ridurrebbe al minimo il bisogno della repressione; - ossia, in una parola, la pena apparirebbe come la semplice garanzia di un determinato ordinamento, e spoglia perciò del tutto d'ogni parvenza metaforica di superna giustizia da vendicare o da ristabilire. In cotesta società non allignerebbe più il bisogno di cercare alla sorte pratica dell'uomo una spiegazione trascendente.

Per questo criticismo delle cause della storia, delle ragioni della società presente, e dell'aspettativa razionalmente misurata e misurabile di una società futura, si vede perché l'ottimismo e il pessimismo, come tante altre ideologie, dovessero e debbano servire di sfogo e di estrinsecazione alle affettività delle coscienze travagliate dalle lotte della esistenza sociale. Se è questo che intendono di dire gli ideologisti, cui voi alludete; e, se parlando di eterna giustizia, essi pensano di farsi raccoglitori postumi dei sospiri e delle lagrime dell'umanità attraverso i secoli, tal sia di loro; - le licenze poetiche non son vietate nemmeno ai socialisti. Soltanto non si provino poi a metter su le gambe al mito dell'eterna giustizia, per ispedirlo in marcia contro il regno delle tenebre. Quella gran benefica signora non ismuoverà una sola delle pietre dell'edificio capitalistico. Ciò che gl'ideologi del socialismo chiamano il male, contro di cui il bene combatte, non è una astratta negazione, ma è un duro e forte sistema di cose effettuali: è la miseria organizzata per produrre la ricchezza. Ora i materialisti della storia son così poco teneri di cuore, da affermare, che essi in questo male trovano precisamente le molle dell'avvenire; ossia, nella ribellione degli oppressi, e non nella bontà degli oppressori.

Del facile ricadere nella metafisica, in senso non laudabile, fanno fede assai spesso anche quegli studii, che, a detta degli autori loro, rappresentano la quintessenza del procedere scientificamente positivo. Questo è il caso, per es., di molti dei divulgatori della disputata e disputabile antropologia criminale.

Come intento e come tendenza essa rappresenta una parte notevole di quella salutare critica del diritto punitivo, che pian piano è riuscita a scuotere dai fondamenti tutta la costruzione filosofica, e soprattutto etica, di un fatto così semplice e così empirico, qual è quello della inevitabilità del punire, data la esistenza di una società. Nel metodo, però, di rado essa esce dai confini della combinatoria statistica, e da quell'a un di presso di verosimile, che è proprio del variopinto complesso di studii, che chiamasi in genere antropologia. Quasi mai si avvicina, per es., alla precisione di indagine, per la quale la psichiatria, che parrebbe secondo alcuni affine, grazie ai progressi maravigliosi dell'anatomia dei centri nervosi, e di tutte le parti della medicina, ha contribuito allo sviluppo della psicologia, nel giro di pochi anni, assai più non facessero in venti secoli le discussioni sul testo di Aristotele, e le ipotesi dello spiritualismo e del materialismo puramente razionalisti.

Ma non è ciò che mi prema di notare.

In quella dottrina campeggia la tendenza a fissare, come predisposizioni (innatistiche) le ricorrenze del delinquere in quegli individui i quali presentino certi caratteri indiziali, caratteri, che nell'aspetto obiettivo, del resto, non son sempre, né ben raccolti, né ben fissati. E qui nulla di male.

La teoria, che sta in fondo al diritto penale dei paesi su i quali la rivoluzione borghese abbia esteso l'azione sua, ha di comune con tutto ciò che chiamiamo liberalismo i pregi e i difetti di quel principio egalitario, il quale, date le differenze naturali e sociali degli uomini, non può non essere puramente formale ed astratto. Questa teoria è stata di certo un progresso su la giustizia di corpo, e su i privilegi del clero e dell'aristocrazia; e per questo rispetto è una vittoria storica l'enunciato: la legge è eguale per tutti. Inoltre, cotesta teoria, riducendo il punire alla sola garenzia giuridica dell'ordine legalmente costituito, si contenta di colpire ciò che è un danno o una lesione all'ordine stesso, e non s'addentra più nella coscienza. Spoglia com'è di ogni carattere religioso, non colpisce il pensiero e l'animo. Non è più l'istrumento di una chiesa, di una credenza, di una superstizione. È prosaico cotesto diritto penale, come è prosaica tutta la società capitalistica. E questo è un altro trionfo - salvo alcune lievi inconseguenze - del libero pensiero. In una parola, si punisce l'atto, non l'uomo; si punisce il turbatore di quell'ordine che si vuol difendere, non la coscienza, sia irreligiosa, miscredente, atea e così via. Per giungere a cotesto resultato, cotesta teoria ha dovuto costruire, su la base media della volontarietà, ed esclusi gli estremi della mancanza di consapevolezza e di direzione nell'operare, una tipica responsabilità eguale per tutti gli uomini. Ed è qui, che, come per ironia alla vantata e celebrata giustizia, il principio della legge eguale per tutti si tramuta dialetticamente nella massima ingiustizia: perché gli uomini sono in realtà socialmente e naturalmente disuguali innanzi alla legge.

Su questa dialettica si sono esercitati da un pezzo sociologisti, e socialisti, e critici d'ogni maniera. C'è come una lunga scala di opinioni, in contrapposto al diritto esistente: dal paradosso intinto di misticismo, che la società punisca i delitti che essa cova, alla esigenza umanitaria, che la educazione eguale per tutti giustifichi, col porne le condizioni di attuabilità, il principio della legge eguale per tutti. La punta acuta di tutta la critica è quella dei socialisti conseguenti: i quali, partendo dal concetto delle differenze di classe, come essenziali al presente vivere sociale, non cercano nel diritto del punire, come non cercano in nessun'altra parte del diritto esistente, la giustizia eguale per tutti; perché ciò sarebbe come cercare l'inverosimile, data questa forma di società, in cui le differenziazioni sono le cause e il contenuto della compagine stessa. Questo diritto di mezzana giustizia, che contraddice il più delle volte a se stesso, è insito ad una società, in cui il postulato della eguaglianza deve smentire di continuo se stesso. La menzogna è assai più palese in quella bella trovata degli apologisti della forma capitalistica, quando dicono, che alla fin fine i salariati son dei liberi cittadini, che liberamente si dànno a mercede pattuendo alla pari con quei loro eguali, che sono i capitalisti! - Ma noi socialisti cotesto principio in sé contraddittorio non vogliamo abbandonarlo, per andar poi a braccetto dei reazionarii, che per altre ragioni lo combattono, e per altre vie vorrebbero eliminarlo: anzi noi l'accettiamo come la negatività immanente alla società borghese, ossia, come il suo storico corrosivo.

L'antropologia criminale è venuta in buon punto a sussidiare dei suoi studii speciali la tesi critica, che mette in evidenza l’inverosimile della legge eguale per tutti. In questo senso essa è una dottrina progressiva. Alle differenze sociali, che rendono assurdo il postulato della responsabilità eguale per tutti, secondo la tipica forma della volontarietà della mente sana, ha aggiunto lo studio delle differenze presociali, che sono i limiti che la bestialità contrappone, come forze invincibili, a qualunque azione di adattamento educativo. Non occorre qui di vedere, se essa abbia esagerata la estensione di cotesta bestialità, interpretando male i casi che intendeva di studiare, e amplificando alcune volte fantasticamente i resultati di parziali e poco precise osservazioni. Ciò che importa qui è di dire, che essa, per un certo rispetto metodico, ricade, inconsapevolmente, nella detestata metafisica. Nella foga legittima di combattere l'ente giustizia e l'ente responsabilità, fissa poi dei fatti naturali, delle disposizioni, cioè, a delinquere, la cui denominazione e definizione va togliendo da quelle categorie della tutela sociale, che rispondono soltanto alle condizioni di vita alle quali gli uomini, in verità solo dopo che son nati, si vanno assuefacendo. In natura, per ispiegarmi, ci sarà la eccessiva e sfrenata libidine, ma non certo l'adulterio (questa è una categoria arcirelativamente sociale!); la rapacità, ma non il furto in tutte le sue economiche specificazioni fino alla firma falsa su la cambiale; il temperamento sanguinano, ma non il regicidio, e così via.

Né si dica che queste sian questioni meramente verbali. Ciò tocca all'essenza della cosa. Ciò riguarda la coscienza dei limiti metodici. Ciò importa a ricordare, che la metafisica è un male atavistico, al quale non isfuggono nemmeno quelli che di continuo gridano: abbasso la metafisica! In altro campo di studii, cioè nella psicologia in genere e nella psichiatria in ispecie, è accaduto per molto tempo lo stesso. Molti che volean localizzare nel cervello i fenomeni psichici, invece di tenersi ai fatti elementarissimi, che, in verità, solo da poco tempo furono distintamente sceverati, localizzavano (come accadde perfino all'insigne fisiologista Ludwig) le facoltà dell'anima ed altre simili escogitazioni del razionalismo filosofico; ossia davano un posto materiale al non esistente. L'antropologia criminale deve ancora sceverar bene e fissare criticamente le sue categorie, causando l'equivoco di accettare come naturali ed innate quelle categorie, che il diritto punitivo, avuto riguardo alle condizioni di mera esperienza sociale, ha, per ragioni di pratica, fissate ed accettate.

IX.

Roma, 2 luglio '97

Voi accennate a quei critici, di varia indole e natura, i quali, per varie ragioni di molto difformi fra loro, ritengono, che il cristianesimo sfugga all'intendimento materialistico della storia, e stimano che in tale obiezione sia come una difficoltà insormontabile.

Devo io addentrarmi in cotesta selva, non dirò aspra e selvaggia, ma di certo molto oscura per me? Voi sapete come io respinga gli schematismi d'ogni sorta. Non mi pare - e pensare il contrario sarebbe mera fatuità, - ci sia mai alcuna teoria storica tanto buona ed eccellentissima per sé, che ne abiliti alla sommaria cognizione di ogni storia particolare, quando anche alla ricerca specializzata di questa non ci siamo per l'innanzi addestrati con proprii e diretti studii nostri. Ora io su la storia della chiesa cristiana non ho fatto fino ad ora studii ex-professo, che mi conferiscano il facile maneggio della cosa stessa; su la quale gli obiettatori di solito discettano e discorrono come chi giudichi per generiche impressioni. Da giovane, come accadeva allora di tutti quelli che si aggirassero nella cerchia della filosofia classica di Germania, lessi lo Strauss e i principali scritti della scuola di Tubinga; ed ora, con tanti altri, potrei, con piccola variante, ripetere la esclamazione di Faust: ich habe, leider, auch Theologie studiert!

Ma poi dopo... io di coteste materie non mi son più occupato. Ho serbata però in me viva la persuasione, che, come con la scuola tubingese cominciò, in definitivo e per davvero, quella considerazione del cristianesimo, che sola può dirsi storica, così gli ulteriori progressi consistano principalmente nelle correzioni e nei complementi, che furon già portati, o si vanno portando, ai resultati di quella stessa scuola. La principale delle correzioni è, e deve, a mio avviso, esser tuttora questa: che, mentre i tubingesi mirarono, in modo prevalente sì, ma non esclusivo, a studiare la genesi ed il processo delle credenze e dei dogmi, sia poi occorso, e occorra al presente, di mettersi allo studio obiettivo della formazione e dello sviluppo dell'associazione cristiana. Per cotesto riavvicinarsi a quel modo di considerazione, che, brevitatis causa, chiamerò sociologico, si fa un passo innanzi nella obiettività della ricerca: in guisa, che l'intendimento del come e del perché l'associazione è nata e si è svolta, ci dà il modo di vedere per quali ragioni e per quali vie gli animi, le fantasie, le menti, i desiderii, i timori, le speranze, le aspirazioni degli associati dovessero completarsi di certe credenze, ricercare certi simboli, giungere alla escogitazione di certi dogmi; - o come gli associati potessero mettere, in somma, assieme tutto un mondo dottrinale ed ideologico. Fatta una tale inversione, si è già su la via, che mena diritto al materialismo storico; ossia siam prossimi al postulato generale, che si debba considerare le idee come il prodotto e non come la causa di una determinata struttura sociale.

Se non erro, - perché, come dicevo, di tali argomenti me ne intendo relativamente poco - in questo indirizzo realistico concorrono soprattutto gli studii recenti delle antichità cristiane; nei quali, mi pare, primeggiano gli scrittori del genere di Harnack e simiglianti. Cito incidentalmente, giacché questo libro qui io l'ho studiato, quelle notevolissime letture dell'inglese Hatch; nelle quali, con la massima lucidezza di analisi documentaria, si va dimostrando, come l'associazione cristiana, da un punto in qua dalle sue primissime origini, si sviluppasse e si consolidasse per via dell'adattamento alle varie forme di quel diritto corporativo, che fioriva nelle varie regioni dell'impero, o nelle condizioni peculiarmente proprie al giure pubblico romano, o in quelle altre degli altri usi locali e nazionali, e segnatamente delle istituzioni greche ed ellenistiche. I nostri vescovi non se ne abbiano a male. Lo spirito santo ci sarà entrato per qualche cosa nel metterli al di sopra del rimanente dei fedeli, da quando nella associazione originariamente democratica si creò la differenziazione gerarchica di clero e di laici (ossia popolani); ma il loro nome stesso ricorda, che la organizzazione fu fatta sul preciso modello di quei corpi di navicellai, pescivendoli, fornai e simili, che aveano i loro episcopi (sopravveglianti) et reliqua.

A questo punto bisogna fare ancora un passo innanzi. Bisogna, cioè, abbandonare il concetto astratto e generico di una storia unica ed unitaria di tutto il cristianesimo, e venire alla storia particolare, per tempi e luoghi, dell'associazione cristiana: - la quale associazione ora è una parte soltanto di quella più larga società civile, semicivile, o a dirittura barbara, in cui essa s'andò svolgendo nei primi tre secoli; - ora par che covra ed assorba tutti i rapporti della complessiva società semicivile o semibarbara, come fu nell'occidente latino del così detto Medioevo; - e da ultimo, dopo quella dilacerazione dell'unità cattolica, che è il protestantesimo, e riconosciuta la libertà di coscienza, e assai più spiccatamente in seguito alla Grande Rivoluzione, torna ad essere una parte del tutto nella convivenza politico-sociale, una parte, o prevalente, o piccola, o minima, e così via dicendo. Su cotesta traccia stessa va trattato il problema dei rapporti fra chiesa e stato; che è questione di relatività storica, e non di teoretica elocubrazione formalistica.

Per questo modo d'intendere si è in fine in grado di ricercare e di dichiarare quelle condizioni materiali, le quali, come è accaduto di ogni altra convivenza umana, produssero dapprima l'associazione cristiana, e poi la mantennero, la perpetuarono, o la portarono alla parziale o locale dissoluzione, con tutte le varie vicende, che nelle cause e ragioni loro divengon poi senza difficoltà patenti. E si capisce che credenze, e dogmi, e simboli, e leggende, e liturgie, e altre simili cose debbano venire in seconda linea, come è proprio di ogni altra soprastruzione ideologica.

Continuare a scrivere la storia dell'ente Cristianesimo (ne faccio qui un solo sostantivo con la lettera maiuscola), gli è come moltiplicare l'errore di concezione metodica, nel quale incorrono i letterati e gli eruditi, quando compongono, in senso affatto unitario, come se si trattasse di cose per sé stanti, le storie della letteratura o della filosofia. In coteste manipolazioni della dotta fabbrica, pare come se i poeti, gli oratori, i filosofi di diversi tempi, isolati quasi dal resto del mondo in cui realmente vissero, si porgano la mano attraverso o al di sopra dei secoli, per comporre una illustre catena; - o come se, non avendo essi tolta la materia e l'occasione al poetare o al filosofare dalle condizioni della società in cui si svolsero, e dal grado evolutivo di questa, si sforzassero di entrare nella serie indipendente, che è lo studiato indice della dotta compilazione. Si capisce quanto sia cosa comoda l'avere a mano, nel manuale, la somma delle notizie su ciò che chiamiamo letteratura francese, per es. dalla Chanson de Roland ai romanzi del signor Zola: ma dall'una cosa all'altra non corre soltanto il cronologico millennio, né da una cosa all'altra intercede soltanto il semplice variare della facoltà poetica; perché, anzi, c'è di mezzo tutto il tramutarsi di tutti i rapporti della convivenza in tutti i suoi principali aspetti, e in rispetto a cotesti sociali tramutamenti le manifestazioni letterarie non son che relativi indici, sedimenti specifici, e casi particolari.

Sarà comodo, specie per l'allevamento artificiale al sapere, che è tanta parte delle nostre Università, il ridurre in compendio la somma di ciò che nella storia chiamiamo genericamente filosofia; ma chi è che riesca a capir poi per davvero, per cotesta via, come i singoli filosofi siano arrivati a pensare in modi cosi difformi, e spesso contraddittorii? Come si fa a mettere in una sola linea di processo continuativo, indipendente ed unitario, la filosofia dell'antichità, che fu fino a Platone quasi tutta la scienza, - e poi quel minimo di scienza che fu la Scolastica sopraffatta dalla teologia, - e più in qua quella filosofia del secolo XVII, che è una forma di esplorazione concettuale parallela alla nuova scienza contemporanea della osservazione e dell'esperimento - in fine questa neocritica, che tende ora a far della filosofia una semplice revisione formale del saputo nelle singole scienze, già di tanto differenziate fra loro?

A potiori è assurdo l’andar scrivendo - salvo che per ragioni di comodità accademica - delle storie universali del cristianesimo. Non parlo di quelli che pensano con animo da credenti; e, ossia, opinano che il filo conduttore di tali storie unitarie consista nella missione provvidenziale della chiesa stessa attraverso i secoli. A coloro, che così pensano, e in vario modo intendono cotesta storia ideale eterna, che sarebbe come una immanente o processuale rivelazione, noi non abbiamo nulla da dire o da suggerire. Son fuori del campo nostro. Ma quei critici, i quali scrivono le storie unitarie di tutto il cristianesimo, pur sapendo e confessando di aver per le mani una materia che fa parte delle variabili e più o meno necessarie condizioni successive della vita umana, come non vedono, che la loro rappresentazione continuativa si tien sopra di un assai debole filo di tradizione, e riflette uno schema assai vago di cose appena appena riavvicinabili?

Il nascere, l'ampliarsi, il diffondersi, l'organizzarsi e lo sparire (in alcune parti, dico, del mondo, per es. l'Asia anteriore e l'Africa settentrionale) dell'associazione cristiana, e il vario atteggiarsi di essa verso il rimanente dell'attività pratica, e i multiformi legami che ebbe con le altre aggregazioni e potestà politico-sociali: - tutte coteste cose, che son la storia vera e effettuale, non s'intendono, se non si parte dalle condizioni complessive di ciascun singolo paese, nel quale, o pochi, o molti, o tutti gl'incoli, abitanti e cittadini, o da membri di modesta setta, o nelle forme d'imperiosa cattolicità, o perseguitati, o tollerati, o intolleranti e perseguitanti, si professarono e professano cristiani. E di cui solo si comincia a metter piede sul terreno solido, di ciò che è degno obietto dell'intendimento storico; e di qui alla interpretazione materialistica non occorre sforzo maggiore di quello che occorra in ogni altro ramo delle nostre conoscenze della vita del passato.

In una parola, la storia effettiva è quella della chiesa, anzi delle chiese; ossia di una società, che ha la sua oikonomia, così nel senso generico di ordinamento, come in quello specificato del modo di acquisizione, di produzione, di distribuzione e di consumo dei beni (ahimè, terreni!) Se altri intende per cristianesimo, in un senso esclusivo, il solo complesso delle credenze e delle aspettazioni circa il destino umano - credenze, che in verità varian tanto, quanto è il divario, per dirne una sola, tra il libero arbitrio del cattolicesimo postridentino e il determinismo assoluto di Calvino! - bisogna si rassegni a capire e ad ammettere, che cotesto complesso di vedute e di tendenze è nato e si è svolto sempre per entro la cerchia di una associazione, che ha variato di continuo in vario senso, ed è stata sempre, dal più al meno, contenuta da un più vasto e complicato ambiente storico-sociale, tanto per dirla con la prediletta espressione dei neologisti.

Conviene aggiungere un'altra considerazione. In questo quarto d'ora di prosa scientifica, in cui noi ci troviamo al presente, non si dà a credere più a nessuno, che la massa dei raccolti nell'associazione cristiana sapessero e capissero mai nulla di preciso del variare dei dogmi, e delle sottili discussioni dei sapienti e dei dottori. Delle plebi di Antiochia, di Alessandria, di Costantinopoli, e così via, agitantisi intorno alle bandiere di Ano e di Atanasio, noi non conosciamo precisamente le passioni, gl'interessi, il modo cotidiano del vivere, e l'ingenito e abituale idiotismo; - non possiamo descriverle proprio come faremmo ora di Napoli o di Londra: - ma non saremo mai così ingenui da credere, che capissero un iota della lotta circa la sostanza, o semplicemente simile, o affatto identica, del figlio per rispetto al padre. Né misureremo la differenza reale degli artigiani di Ginevra da quei d'Italia nel secolo XVI, dal divario dottrinale fra Calvino e Bellarmino. Per ciò appunto la storia del cristianesimo riesce in gran parte oscura, perché essa ci fu quasi sempre tramandata attraverso agl'involucri e alle diciture ideologiche di quelli che furono il riflesso dogmatico-letterario dello svolgersi dell'associazione; in guisa che della vita pratica si sa relativamente poco, e questo poco si assottiglia fino al minimo quanto più si risale ai primi secoli.

Inoltre, la massa dei consociati ha sempre serbato in cuor suo, e ha trasferito nelle minute credenze e nelle leggende, molte delle superstizioni e moltissimi dei miti che recava in sé prima di convertirsi, e tutte quelle altre superstizioni e tutti quei miti, che le fu necessità di creare, per rendersi in qualche modo plausibile le dottrine astratte e metafisiche del cristianesimo dogmatico. Accadde ciò assai visibilmente fin dalla seconda metà del secondo secolo, quando l'associazione avea cessato da un pezzo dall'essere una democratica setta di aspettanti il regno di dio, compenetrati tutti dello spirito santo, e volgeva alla formazione di una organizzata cattolicità, così nel senso della ortodossia, come in quello di una semipolitica coordinazione gerarchica di moltissimi non più santi, ma semplicemente uomini. Cresce cotesto trasferimento di tutte le superstizioni locali, regionali ed etniche nel seno del cristianesimo, dacché, diventando la chiesa in definitivo ortodossamente ufficiale e territoriale, era tolto il modo a qual si fosse più zelante di andar sceverando, con scrupolosa epurazione, i capaci di una persuasione, frutto di pedagogico addestramento, dagli obbligati a credere, e a stare ai riti e alle forme come che si fosse.

Rovinando poi l'Impero di Occidente, per le sommarie o forzate conversioni dei barbari della Germania e della Slavia, s'accrebbe il capitale delle credenze popolari da formare il pascolo cotidiano delle masse, che eran tenute in obbligo di professare simboli e credenze tanto superiori o estranee all'ambito di loro menti, come quelle che rappresentavano un precipitato di molte semi-filosofie. Tutte coteste popolazioni cristiane vissero e continuarono a vivere delle loro variopinte credenze; per la qual ragione, poi, esse effettivamente trasformarono i dati comunissimi del cristianesimo in moventi ed in occasioni a nuove e speciose mitologie. A riscontro di tal vita barbaramente ingenua, le definizioni dei dottori e le decisioni dei concilii rimasero come librate in aria, quale ideologia inattingibile alle moltitudini, e a guisa di dottrinale utopia.

Da quali ragioni e cause, da quali moventi e mezzi i membri della consociazione furon tenuti, dunque, assieme nei tempi dei quali si dice che la religione fosse l'anima e il fulcro di tutta la vita? Prescindo dalle prepotenze e dalle violenze, per non entrare in un capitolo assai spinoso, che è quello cui s'appellano di solito i passionati avversarii del cristianesimo; capitolo che mette sotto gli occhi la storia delle più odiose tirannie, delle più feroci ed inumane persecuzioni, e della più raffinata ipocrisia. Tantum religio potuit suadere malorum! Ciò che mi preme gli è di notare, che la forza principale della coesione fosse appunto in quei disprezzati mezzi materiali, l'uso il maneggio e il governo dei quali ha fatto crescere l'associazione in una potente organizzazione economica, coi suoi ufficii, con la sua gerarchia, col suo diritto, e coi suoi servi, e schiavi, e dipendenti, e coloni, e ministri, e protetti e beneficati. La proprietà ecclesiastica rappresenta tutta una serie di variazioni, dall'obolo del semicomunismo alla legale corporazione, e da questa alla raccolta dei legati, alla costituzione dei complessi terrieri del latifondo, e poi del feudo coi corollarii delle decime e della finanza delle anime, e fino ai tentativi più moderni della industria coloniale (i Gesuiti), e così via ad altre ed altre cose. Ciò che mantenne la coesione degli umili furon principalmente, come sono in parte tuttora, i beneficii dell'elemosina, dell'assistenza dei malati, dei derelitti, degli orfani, delle vedove e così via, della ordinata e metodica gestione dei campi, del dissodamento delle terre di nuovo acquisto alla coltura.

Questi i mezzi, che, come è accaduto di ogni altro ente morale collettivo, fecero dell'associazione cristiana una cosa vitale, e nel Medioevo soprattutto permisero ad un piccolissimo ceto di addottrinati di far servire una vasta compagine economica a fini relativamente più elevati, più nobili, più altruistici e più progressivi, di quel che non accadesse nell'ambito dei possedimenti strettamente feudali, e per opera di sovrani taglieggiatori, razziatori, e pirati.

La borghesia, nelle sue diverse fasi, con modi più o meno rapidi, e in forme più o meno rivoluzionarie, ha fatto dappoi man bassa di cotesta economia della proprietà del popolo cristiano, e l'ha in diversi modi incorporata alla proprietà di pieno diritto privato, e l'ha resa fluida nel sistema capitalistico. Dove cotesta proprietà di ecclesiastica economia ha resistito parzialmente, e dove parzialmente resiste ancora ai colpi dell'evo progressivo, gli è perché essa adempie tuttavia alcuni ufficii, che le altre organizzazioni pubbliche, e lo stato che le rappresenta, o non assumono sopra di sé, o tollerano sussistano tuttora nella chiesa, come in forma di concorrenza.

La storia di cotesta economia è il midollo di quella interpretazione del variare del cristianesimo, che la critica ulteriore dovrà elaborare. Quel Gregorio Magno, che par già così persuaso, che il vescovo di Roma fosse destinato a tener le parti del tramontato Impero dell'Occidente, quel Gregorio, noto al comune delle persone colte per le sue visioni, per il suo amore della musica e per l'apostolato nell'Anglia, da economo dettò le leggi della condotta del latifondo ecclesiastico. A parecchi secoli di distanza, per tutte le traversie dei semistati e delle varie comunità semi-politiche, che si andaron sviluppando entro l'ambito dal sempre mal fermo e mal restaurato Impero d'Occidente, la estesissima proprietà ecclesiastica, da per tutto diffusa e da per ogni dove incuneata, dette luogo a tentare quella politica, che, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, mirò a fare del successore di Pietro l'erede di Augusto. Questa politica non fu tale qual fu, perché i frati clunacensi ne avessero escogitata la dottrina, o perché com'è di fatti, Gregorio VII ed Innocenzo III fossero uomini sommi, ma perché solo in quel vasto sistema economico c’erano i dati per tentare un gran disegno di organizzazione; al quale, come è noto, si ribellarono in diversi modi, non solo gli altri semipotentati politici d'allora, ma in alcuni punti di più progredita operosità industriale e commerciale (Fiandra, Provenza, Italia del nord) con diversi intendimenti, o di cenobitica ascesi o di civile libertà cristiana, anche una parte delle plebi e delle recenti borghesie. E difatti l'umiliazione inflitta a Bonifacio VIII in Anagni, non è se non il punto acuto di quella politica di Filippo il Bello, che, da precursore molto alla lontana del principato rivoluzionario del secolo XVI, mette per il primo arditamente la mano su la sostanza del popolo cristiano.

E qui vorrei far punto a questa digressione; perché cotesta storia economica non è stata ancora per davvero scritta, e non sarò io ad avviarla con queste incidentali osservazioni.

Mi pare, però, che i soliti obiettatori dicano: ma fatta questa storia economica, tutto il resto sarà chiaro chiarissimo? E qui saremmo al solito caso di quelli che si fanno dei castelli di carta, per aver poi il gusto di distruggerli con un bel soffio. Spiegare un processo consiste, in generale, nel risolverlo nelle condizioni sue più elementari, fino al punto che ci sia dato di scorgere e seguire (dal minimo del discernibile in su) le fasi successive, come chi vada da premesse a conseguenze.

Nessuno si sognerà di affermare per es., che quando si conosca a fondo la struttura economica della città di Atene tra la fine del V e il principio del IV secolo a. C., si possa poi difilato passare ad intendere, così senz'altro, cioè senza il sussidio critico degli elementi intellettuali raccolti nella tradizione, tutto il contenuto ideologico di tutti e singoli i dialoghi di Platone. Ciò che occorre in verità di spiegare innanzi tutto è l'uomo Platone; ossia le sue disposizioni estetiche e mentali, il suo pessimismo, la sua fuga dal mondo, il suo idealismo e il suo utopismo. Tutto ciò è il prodotto di quelle condizioni, che come si svolsero ideologicamente nell’individuo Platone, si svolsero del pari in tanti e tanti altri contemporanei suoi, che altrimenti non l'avrebbero inteso, ammirato e seguito al punto da creare intorno a lui una setta, vissuta poi per secoli con tante modificazioni. Se altri si provi a distrarre quella formazione ideologica dall'ambiente, in cui per l'appunto nacque come primo prodromo del cristianesimo, essa diventa l'incomprensibile, ossia presso a poco l’assurdo.

A potiori ciò vale di quelle disposizioni e inclinazioni, o fantastiche, o mentali, che in una così grande convivenza, qual è stata l'associazione cristiana coi suoi molteplici ufficii e con le sue svariate attinenze, ingenerarono il bisogno di tante credenze, di tanti simboli, di tanti dogmi, di tante leggende. Ci torna di certo più facile di intendere i rapporti, che in genere legano tutte coteste ideazioni a certe determinate condizioni materiali della convivenza, che non di spiegare poi partitamente tutte e singole quelle ideazioni nel loro particolare contenuto. Cotesta difficoltà di adeguata spiegazione è cresciuta dal fatto, che si tratta di tempi di terribili catastrofi, di inauditi rimescolamenti, di decadenza delle attitudini alla scienza corretta; di tempi, in breve, nei quali manca quasi sempre la testimonianza spregiudicata, la critica, l'opinione pubblica, e le menti più forti, sequestrate dalla vita, inclinano all'astruso, al sottile e al verbalistico.

Gli è difatti il difficile intendimento, del come le ideologie nascano dal terreno materiale della vita, che dà forza all'argomentare di coloro i quali negano la possibilità di una piena spiegazione genetica del cristianesimo. In generale gli è vero, che la fenomenologia o psicologia religiosa che dir si voglia, presenta delle grandi difficoltà, e reca in sé dei punti assai oscuri. Come i dati empirici della natura e del vivere sociale si tramutino, in certi determinati tempi e in certe determinate disposizioni etniche, passando per il crogiuolo di una specificata fantasia, in persone, in iddii, in angeli, in demoni, e poi in attributi, emanazioni, e ornamenti di queste stesse personificazioni, e da ultimo in entità astratte e metafisiche come il logos, l'infinita bontà, la gomma giustizia e così via - non è cosa sempre facile d'intendere a pieno. In cotesto campo di derivata e complicata produzione psichica, siam molto lontani da quelle condizioni elementarissime, nelle quali, con l'osservazione e con l'esperimento c'è per es., lecito di seguire il sorgere e lo svolgersi delle prime sensazioni da un estremo all'altro, ossia dagli apparati periferici fino ai centri cerebrali, nei quali l'eccitazione e le vibrazioni si tramutano in noto alla coscienza, cioè dire in coscienza.

Ma è forse cotesta difficoltà psicologica un privilegio delle credenze cristiane? Non è essa propria del generarsi di tutte le credenze, e ideazioni mitiche e religiose? Ci son forse più chiare le creazioni tanto originali del primissimo buddhismo, e quelle più di seconda mano, e quasi sincretiche del maomettanismo? E risalendo poi in là da questi sistemi delle grandi religioni, ci sono forse chiari e trasparenti a prima vista i procedimenti della fantasia nella creazione dei miti elementarissimi dei nostri protopadri ariani? Ci è proprio facile di renderci conto per filo e per segno di tutte le transizioni occorse alla fantasia di tante generazioni, attraverso tanti secoli, perché il pramantha, ossia il bastone da suscitare il fuoco fregandolo ed agitandolo in altro legno, si svolgesse poco per volta nell'eroe Prometeo? E pure questo è il mito più noto della mitologia indo-europea; quello per il quale esistono più dati per seguirne le successive fasi embriogenetiche, dagli antichissimi inni vedici in onore del dio Agni (il fuoco), fino alla creazione etico-religiosa della tragedia eschilea.

Gli è che coteste produzioni psichiche degli uomini dei secoli trapassati presentano all'intendimento nostro delle difficoltà tutte speciali. Noi non possiamo facilmente riprodurre in noi le condizioni che occorrono, per approssimarci allo stato interiore d'animo, che fu rispettivo a quei prodotti. Occorre una lunga assuefazione perché si acquisti quella attitudine interpretativa, la quale è propria del glottologo, del filologo, del critico, del preistorista; ossia di chi, col lungo esercizio e coi reiterati tentativi, si fa come una coscienza artificiale, congrua e consona all'obietto da spiegare.

Se non che il cristianesimo (e qui intendo dire della credenza, della dottrina, del mito, del simbolo, della leggenda, e non della semplice associazione nella sua oikonomika), ci riesce relativamente più facile, in quanto è a noi più prossimo. Ci viviamo in mezzo, e ne abbiamo di continuo a considerare le conseguenze e le derivazioni nelle letterature e nelle varie filosofie a noi familiari. Noi possiamo tuttodì osservare come le moltitudini combinino, all'ingrosso, tanto le atavistiche come le recenti superstizioni con una mezzana o appena approssimativa accettazione del principio più generale, che unifica tutte le confessioni: - il principio cioè della caduta e della redenzione. Noi l'associazione cristiana la vediamo all'opera, così per ciò che essa fa, come per le lotte che sostiene; e siamo in grado di rifarci sul passato per combinazioni analogiche, che di rado ci riesce di adoperare nella interpretazione delle credenze da noi remote. Assistiamo ancora alla creazione di nuovi dogmi, di nuovi santi, di nuovi miracoli, di nuovi pellegrinaggi; e, ripensando al passato, possiamo in buona parte dire: tout comme chez nous! Disponiamo, voglio dire, di un capitale di osservazione e di esperienza psicologica, che ci permette di rivivere nel passato, con isforzo assai minore di quello ci tocchi di fare, quando siam costretti a starcene alla sola analisi documentaria delle condizioni più antiche. Da quando si è cominciato a capir qualcosa di netto della origine della lingua, se non dal momento che fu inteso, non aver noi altro terreno di esperienza in proposito, se non nel modo come i fanciulli imparano tuttodì a parlare?

Per molti il problema della origine del cristianesimo rimane poi oscurato da un altro pregiudizio; che qui, cioè, si tratti di una formazione primissima, e quasi di una creazione ex nihilo. Costoro non pensano, che quelli che divennero cristiani giunsero a quel punto partendo da altre religioni; e che il problema della origine si riduce prosaicamente innanzi tutto a rintracciare, come gli elementi preesistenti siansi derivati in nuova forma, per entro all'ambito dell'associazione, e in che stia il vero e proprio nocciolo nuovo della neoformazione. Siamo in tempi storici. Di quelle religioni precedenti ci è nota principalmente la forma del giudaesimo posteriore, che era in una parte della massa popolare di messianismo esaltato, e nella classe degli addottrinati di affilata casistica. Ci sono a un di presso noti i culti, le superstizioni, le credenze dei varii paganesimi dell'impero e ci è nota la disposizione religiosa di una buona parte dei filosofanti di quel tempo, che eran quasi tutti decadenti, come ci son note le inclinazioni delle moltitudini di allora, più che mai propense ad accettare nuove fedi, nuove promesse, e la buona novella.

Dunque si tratta non di creazione, ma di trasformazione e siamo allora sul terreno di ogni altra storia. Per es. (- perché parlo sommariamente e come per incidente -): come Gesù è diventato il Messia degli Ebrei (forma primitiva ebionitica), come il Messia degli Ebrei è diventato il redentore di tutti gli uomini dal peccato (Paolo), e da ultimo come s'è combinato col logo del neoplatonismo di Filone (quarto evangelo)? Questo lo schema del processo ideologico. E poi dall'altra parte: come la primitiva associazione comunistica (del comunismo, s'intende, del consumo), degli aspettanti la prossima fine del reo mondo e l'universale catastrofe (l'Apocalissi), è diventata una consociazione (chiesa), che, rimandata in indefinito l'aspettativa del millennio (seconda epistola di Pietro), cresce in una organizzazione, che svolge una economia, e progressivamente si complica di attribuzioni e di ufficii?

In questo processo dalla setta alla chiesa, dalla ingenua aspettazione alla complicata formula dottrinale, sta tutto il problema delle origini. Con l'allargarsi dell'associazione veniva in buon punto l'adattamento di essa alle varie forme di diritti vigenti, e col bisogno della dottrina collimava la diffusione del platonismo decadente. Certamente tutte coteste produzioni non possiamo riavvicinarcele agli occhi e all'osservazione nostra, in una intuitiva cronistoria. Non assisteremo al conversare di Filippo, di Matteo, di Pietro, di Giacomo, e loro prossimi successori, e così via, come se stessimo ad ascoltare Camillo Desmoulins, a ore 3 p. m. la domenica del 12 luglio 1789, in un caffè del Palais Royal. Non seguiremo l'originarsi e il fissarsi dei dogmi, come se si trattasse della messa insieme degli articoli della Enciclopedia. Siamo in tempi di impressioni confuse, e di non mai più viste fermentazioni. Delle grandi epidemie morali invadono gli spiriti. I rapporti più elementari della vita entrano in un periodo di acuta crisi.

Al di sotto di quella civiltà della cerchia mediterranea che unificava il potere politico-amministrativo dell'impero e ciò che v'era di più utile e raffinato nell'Ellenismo, vegetavano mille forme di barbarie locali e di decadenze putride e verminose. Pensare che il cristianesimo si formò, di fatto e di nome, come cosa per sé stante, proprio nella molle Antiochia, sentina di tutti i vizii; e pensare che Paolo dirigeva ai Galati, ossia a Giudei dispersi in un paese di veri e proprii barbari, le sue sottili meditazioni, che ce lo rivelano non molto difforme da quegli Ebrei, che più tardi misero assieme il Talmud! Il cristianesimo si è diffuso fra gli umili, fra i reietti, fra le plebi, fra gli schiavi, fra i disperati di quelle grandi città, la cui tenebrosa vita c'è appena appena in qualche piccola parte dichiarata dalla satira di Petronio e di Giovenale, dai volterriani racconti di Luciano e da quei macabrici di Apuleio. Che cosa sappiamo noi di preciso su la condizione di quegli Ebrei della città di Roma, in mezzo ai quali si diffuse dapprima nell'Occidente la nuova trista superstizione, come ebbe a dir Tacito; quella superstizione, che nel volger dei secoli crebbe nel più potente organismo sociale che conosca la storia? Quelle prime origini non ci è lecito di ridurle in intuitivo racconto, e noi siam costretti a rifarle per congettura e per combinatoria. Questa è la ragion principale della interminabile letteratura in proposito; specie per opera dei dotti di Germania, che, anche quando non sian per nulla credenti, usano di chiamar teologia cotesta letteratura critica ed erudita.

La relativa oscurità delle prime origini fa nascere nelle menti di molti la curiosa credenza in un cristianesimo vero che sarebbe stato assolutamente difforme da quanto altro ha preso poi nome di cristiano in seguito. Quel cristianesimo vero, anzi originario, che poi viceversa è tanto oscuro, che ognuno può intenderlo a modo suo, fa soventi le spese della polemica di quei razionalisti, i quali, dopo d'aver coverto d'invettive cotesta empirica chiesa, a noi nota per la storia o per l'esperienza nostra, per rinforzo di argomentazione retorica si appellano alla chiesa ideale, che sarebbe stata la primitiva comunione dei santi. Questo è un mito storico, come la Sparta dei retori ateniesi, come la Roma antica dei ghibellini decadenti del XVI secolo, come tutte le creazioni fantasmagoriche di un passato paradisiaco, o d'un futuro non raggiungibile ancora. Questo mito storico ha assunto forme diverse. I settarii che si ribellarono alla cattolicità, o appena avviata o già trionfante da un pezzo, quei settarii, dico, che con ispirito di vera eguaglianza democratica, in determinate circostanze storiche, dai montanisti agli anabatisti, si sollevarono contro la chiesa profanamente terrena, e ortodossamente gerarchica, ebbero bisogno di rifarsi nella fantasia il cristianesimo vero, ossia la semplice vita protoevangelica, mentre proclamavano decadenza, aberrazione, opera di satana, tutto l'accaduto dappoi. A questo cristianesimo vero verissimo si appellarono assai spesso i comunisti ingenui, cui giovava, in difetto di ogni altra adeguata idea sul modo d'essere di questo ingiusto mondo delle misere disuguaglianze, di farsi delle proprie aspirazioni come un quadro, e questo potea trovare, come in tanti altri ricordi veri o fantastici, i motivi e il colorito nella poesia evangelica. Così accade fino a Weitling, che anche lui compose un: Evangelo del povero peccatore. E perché dovrei non ricordare quei Saint-Simoniani, che favoleggiando di un cristianesimo più vero, di là da venire, in quello proiettarono tutte le aspirazioni della loro riscaldata fantasia?

Per tutte queste, e per tante altre cause, sta come campata in aria, nella mente di molti, l'immagine fantasiosa di un cristianesimo ultraperfettissimo, che sarebbe difforme, anzi per alcuni è assolutamente difforme - da tutto ciò che la volgare storia conosce e dà per cristiano; da che Stefano fu lapidato, fino alla Santa Inquisizione, che spedì all'altro mondo tante caterve d'infedeli; da che lo scalzo pescatore Pietro nei suoi paurosi dinieghi fece la parte dell'accorto Sancio Panza, fino a che papa Pio s'è compensato, con la infallibilità, del potere terreno che andava perdendo; dall'agape ebionitica dei poveri visitati dal Paracleto, ai gesuiti che armano delle flotte e fanno imprese commerciali, da precursori arditi della politica coloniale dell'evo borghese; dal Rabbi di Nazareth, che dice non esser di questo mondo il regno suo, ai vescovi ed altri prelati occupanti in nome suo per secoli, come proprietarii e come sovrani, dal quinto al terzo delle terre secondo i paesi, compresovi in alcuni luoghi il ius primae noctis, Chi per una ragione o per l'altra, e sia pure per semplice ipocrisia letteraria, crede a quel cristianesimo verissimo, è naturale sia imbrogliato a spiegare donde sia poscia nato questo men vero, o assolutamente aberrato, che noi tutti conosciamo. E si capisce, inoltre, come quel vero verissimo diventi un miracolo, se non proprio della rivelazione, della ideologia umana per lo meno; - e noi dal canto nostro non siamo obbligati a date la spiegazione di tale miracolo, né in nome del materialismo né in nome di qualunque altra dottrina, per la stessa ragione, per la quale la meccanica razionale non ha il dovere di spiegare, né il volo di Icaro, né quello dell'ippogrifo dell'Ariosto.

Conviene, nondimeno, non dimenticare, che quel cristianesimo vero, così idealmente contrapposto da tanti a questo assai positivo e realisticamente umano, che s'è svolto in condizioni accessibili al nostro ordinario intendimento, ha esercitato anch'esso la sua funzione storica, e giova ora a noi come di chiave per entrare più addentro nello stato d'animo e nei rapporti di vita dei cristiani primitivi. Fu quel cristianesimo vero come il simbolo delle varie ribellioni dei proletarii, delle plebi, della umile gente, dei manomessi, dei servi, degli sfruttati, fino al secolo XVI.

Ebbi occasione, come dissi già in altra lettera, di occuparmi quest'anno in modo circostanziato, nel mio corso accademico, precisamente di Fra Dolcino, nel quale culmina, e nel cui insuccesso declina il movimento della setta degli Apostolici. Poi che ebbi dichiarate le condizioni generali dello sviluppo economico e politico dell'Italia settentrionale e media, e quelle più particolari dell'ambito (ossia delle classi sociali) nel quale gli Apostolici sorsero e si diffusero, a un certo punto mi convenne di spiegare la dottrina, per la quale e con la quale Dolcino tenne ferma la compagine dei suoi seguaci, tenacissimi ed impavidi nel combattere fino all'ultimo da eroi, da martiri e da precursori di un nuovo ordine di cose nella vita dell'umanità. Quella dottrina è anch'essa uno dei tanti ritorni apocalittici al cristianesimo puramente evangelico; - è, ossia, la negazione di tutto ciò che la gerarchia abbia stabilito e fatto da papa Silvestro (da quello almeno della leggenda), in poi, negazione rinforzata dall'ardore apostolico, che il sentimento della lotta trasmuta in dovere di combattimento.

Gli è naturale, che la spiegazione prima di quelle idee, come direbbero i letterati, vada cercata nei movimenti affini delle ribellioni antigerarchiche più prossime. Per un verso si risale agli Albigesi, e per un altro verso a quei confusi e variopinti moti di plebe, che hanno il comune nome di patarìa; e poi per un altro lato bisogna rifarsi su tutta quella agitazione mistica ed ascetica, che più volte accenna a dilacerare l'imperio papale, dal comunismo ideologico di Gioacchino di Fiore alle resistenze attive dei Fraticelli. Facendo un passo più addentro in cotesta ricerca, non è difficile di ritrovare, di dietro ai mistici veli dell'ascetismo, e all'esaltata passione per il cristianesimo vero, le materiali condizioni e i materiali moventi, per cui convengono intorno ad alcuni simboli di rivolta gl'infimi del cenobitismo, i contadini di quei paesi dove la feudalità è ancor viva, i contadini di quelle altre terre, che, francate dal feudo, per la rapida formazione dei liberi comuni furon violentemente proletarizzati, e poi la minutissima gente dei comuni stessi così spietatamente corporativi, e da ultimo, come sempre, gl'idealisti, che trasmutano in causa propria la causa dei derelitti: - gli elementi tutti di una rivoluzione sociale. Da questa spiegazione prossima si risale ad una spiegazione più generale, e direi tipica.

Il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei momenti più acuti furon portate alla inevitabile conseguenza dell'aspettazione del comunismo. Il caso classico, la forma strepitosa, per le circostanze di tempo e per la estensione e per la durata del moto, è di certo la sollevazione degli Anabatisti. Ma non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana; specie per le condizioni di precoce modernità economica in cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV.

Ora, l'istinto dell'affinità portava le menti dei rappresentanti e dei condottieri delle plebi in rivolta a tornare verso l'immagine, o verso il confuso ricordo, o verso l'approssimativa riproduzione fantastica di quel cristianesimo primitivo, che fu tutto di minuto popolo, di gente afflitta e sofferente, aspettante la redenzione dalle miserie di questo reo mondo. Il cristianesimo vero, verso del quale, per simpatia procedente da similarità di condizioni, quei ribelli esaltati tornavano con tanto ardore di fede e di fantasia, fu una realtà: non nel senso dell'ideale e del tipico, da cui l'umana debolezza abbia deviato per aberrazione o per malizia, ma nel senso del fatto poveramente empirico. Il cristianesimo primitivo, mutatis mutandis, fu nel tipo, nell'insieme, nella fisonomia e nei moventi, più affine a ciò che Montano, o Dolcino, o Tommaso Münzer vollero, in tempi a ciò non adatti, ristabilire, che non a tutti i dogmi, liturgie, gradi gerarchici, dominii e demanii, lotte politiche, supremazie, inquisizioni ed altre simili miserie, in cui s'aggira la storia umanamente terrena della chiesa. Nei tentativi di cotesti ribelli, si rivede, come se essi avessero voluto dare in ispettacolo un esperimento del passato, quale debba essere stata, a un di presso, la figura originaria del cristianesimo come setta di perfetti santi, ossia di assolutamente eguali, senza differenze di clero e di laici, tutti parimenti capaci dello spirito divino, sanculotti e devoti al tempo stesso, tutti ad un modo.

Il problema più grave e più scabroso in tutta la storia del cristianesimo è appunto questo: d'intendere, cioè, come dalla setta degli assolutamente eguali sia nata, nel termine di men che due secoli, una associazione di differenziati per gerarchia, in guisa, che da una parte sta il popolo dei credenti e dall'altra stanno gl'investiti di potestà sacra. Questa differenziazione gerarchica si completa col dogma, il che vuoi dire con un dettame, che sopprime la immediatezza del credere nei singoli fedeli qual fatto di personale vocazione. La gerarchia vuol dire sacerdozio, amministrazione di cose, e governo delle persone. Di qui nasce la possibilità di una politica; e su la ricerca di questa politica s'aggira la storia della chiesa del III secolo. L'incontro della chiesa e dell'impero nel IV secolo non è se non il resultato del compenetrarsi di due politiche, per cui poi la religione e il maneggio degli affari da ultimo si confondono. In questo passaggio dalla libera associazione all'organamento semistatale, il quale fa che la chiesa abbia sempre da allora in poi esercitata una azione politica, o d'accordo con lo stato, o contro lo stato, o diventando essa stessa lo stato, si avvera il caso comune ad ogni associazione, la quale, dal momento che ha cose da amministrare ed ufficii da adempiere, diventa di necessità un governo.

La chiesa ha riprodotto dentro di se stessa i contrasti proprii ad ogni stato, cioè le opposizioni di ricchi e di poveri, di protettori e di protetti, di patroni e di clienti, di proprietarii e di sfruttati, di principi e di soggetti, di sovrano e di sudditi. Quindi essa ha avuto nel suo proprio seno particolari lotte di classe - per es. di patriziato gerarchico e di plebe cenobitica, di alto e basso clero, di cattolicità e setta. Le sètte furono in gran parte ispirate, fino al secolo XVI, dal pensiero del ritorno al cristianesimo primitivo, e per ciò spesso colorirono i disegni attinti alle condizioni del presente di una ispirazione ideologica che rasenta l'utopia. La chiesa che è riuscita, è invece solo quella la quale, seguendo i modi di procedere che son proprii dello stato laico, anziché una società di eguali nello spirito santo, è divenuta una gerarchica consociazione di disuguali, con esercizio di formali diritti, con mezzi d'imposizione e di violenza, con perfetto imperio, o con parte d'imperio ceduto da altri imperanti, e col governo delle anime, che, come ogni altro governo spirituale, si svolge innanzi tutto col dominio su le cose senza delle quali le anime non han modo di esistere. Questi attributi umani, i quali, data la condizione di disuguaglianza economica degli uomini, riavvicinano la consociazione religiosa ad ogni altra maniera di governo delle cose di questo mondo, mostrano per un verso come l'associazione dei santi non potesse avere in alcun tempo una forma di esistenza che non fosse utopia, e per un altro verso ci spiegano la costante tendenza alla intolleranza ed alla cattolicità nelle varie sue forme, in quanto essa associazione, smentendo l'ingenuo martire di Nazareth, lasciato malinconicamente in croce su gli altari, ha fatto di questa terra il regno suo.

Per rimaner nell'esempio, che mi è più familiare pei miei recenti studii, il papato superimperiale precipitò sì nella persona di Bonifacio VIII, secondo la profezia di Dolcino, che di tre anni gli sopravvisse; ma non precipitò per dar luogo all'Apocalisse. Fu inflitta al papato sì l'umiliazione dell'esilio avignonese, ma non per dar luogo a un nuovo impero di Cesari, secondo l'utopia dell'Alighieri. C'erano allora già i prodromi dell'evo moderno, cioè i preannunzii del regno della borghesia. Filippo il Bello, che di lontano arieggia al principato civile, nel quale due secoli dopo la borghesia percorse la prima tappa del suo dominio politico su la società, mandava all'estremo supplizio i Templari, come per dire che l'epopea delle crociate finisse per opera dei cristiani stessi. E perché il motto della situazione ci fosse perfino nell'aneddoto, che sempre denuncia e smaschera gli stridenti passaggi dell'ironia della storia, il commissario del sire di Francia a preparare l'umiliazione di Anagni non fu un capitano di banda feudale, ma un legista, che negoziò il danaro occorrente alla bisogna in una cambiale rilasciata a un banchiere di Firenze.

Furono questi legisti, e principi usurpatori di diritti storici, e banchieri accumulatori del danaro, che poi divenne più tardi il capitale, quelli i quali iniziarono la moderna società così trasparente nella prosaica struttura degli intenti e dei mezzi suoi. Come su le altre rovine della società corporativa e feudale, così anche su le rovine del patrimonio ecclesiastico s’è assisa questa crudele borghesia, che, sfidatrice delle potenze misteriose, ha inaugurata l'èra del pensiero e della libera ricerca. E aspetta che altri la tolga di seggio: ma non sarà di certo, né il cristianesimo vero, né quello verissimo.

Se poi quegli uomini dell'avvenire, dei quali noi socialisti ci diamo assai spesso soverchio pensiero, produrranno o non produrranno ancora della religione, io, né so, né non so: e lascio ad essi soli la briga della vita loro, che sarà, spero, non lieve, perché non divengano degl’imbecilli nella paradisiaca beatitudine. Ciò che io vedo chiaro è solo questo: che il cristianesimo, che nel suo complesso è la religione dei popoli fino ad ora più civili, non lascerà luogo dopo di sé ad alcun’altra religione nuova. Chi d’ora innanzi non sarà cristiano, sarà irreligioso. E poi, in secondo luogo, noto, che i socialisti han fatto assai bene a scrivere nei loro programmi, che la religione è cosa privata. Spero che nessuno vorrà intendere coteste parole nel senso di una veduta teoretica, su la quale si possa poi ricamare una filosofia della religione. Quel comma del tutto pratico vuol semplicemente dire, che al presente i socialisti han troppe cose da fare di più utili e serie, da non doversi confondere con quegli hebertisti, blanquisti, e bakuninisti, e simili, che decretavano l'abolizione del divino, e Dio decapitavano in effigie. I materialisti della storia pensano però, dal canto loro, e fuori d'ogni apprezzamento subiettivo, che gli uomini dell'avvenire rinunzieranno molto probabilmente ad ogni spiegazione trascendente dei problemi pratici della vita di tutti i giorni, perché: Primus in orbe deos fecit timor! Antica la sentenza: di valore perpetuo l'enunciato!

X.

Resina (Napoli), 15 settembre ‘97

Caro Sorel,

Nel rileggere, nel rivedere, nel ritoccare - giacché ho fatto disegno di darle alle stampe - le lettere, che io v’andai scrivendo dall'aprile al luglio ultimi, m'è parso formino come una certa tal quale serie, e nel tutt'insieme dicano qualcosa. Di certo i pensieri di semplice accenno, gli enunciati appena appena sviluppati, le osservazioni il più delle volte incidentali, e le bizzarre critiche disseminate qua e là, -. tutte le cose, insomma, che mi venne di dire, nel modo che è proprio di chi scriva currenti calamo, assumerebbero ben altra forma, entrerebbero in tutt'altra disposizione, passerebbero per una nuova e meditata elaborazione, se io avessi in animo di comporre un libro degno d'un titolo altisonante come, per es.: Il socialismo e la scienza; o Il materialismo storico e l’intuizione del mondo, e così via. Ma, come io, nel conversar con voi a distanza, ho usato in larga misura delle libertà che son proprie della facoltà discorsiva, così, ora che mi son risoluto a raccogliere quelle fugaci lettere nella forma d'un libercolo, imporrò a questo un modesto ed appropriato titolo di: Discorrendo di socialismo e di filosofia, Lettere a G. Sorel.

Devo agl'insistenti consigli del mio amico Benedetto Croce, di commettere cotesto nuovo peccato di letteratura minuscola. Questo mio benedettissimo amico è diventato il mio tormento e la mia croce. Dacché lesse quelle lettere, non m'ha dato più pace; e ha voluto gli promettessi di renderle pubbliche, nella forma di un opuscolo. Se io stessi a sentir lui, ai miei anni non verdi, diverrei un continuo e perpetuo produttore di carta stampata: mentre a me è piaciuto sempre, in passato, di lasciar dormire nei cassetti i non pochi catafasci di carta scritta, che m'è toccato di accumulare, per anni ed anni, nella qualità di insegnante e di appassionato estensor di lettere. In questo caso speciale il Croce poi mi andava dicendo, esser dover mio, ora che il socialismo s'allarga in Italia, di concorrere alla vita del partito, che cresce e si fortifica, coi mezzi e nei modi che son più rispondenti alle attitudini mie. E sia pur così; - ma poi tutto sta a vedere, se i socialisti di tale aiuto e di tale sussidio sentano proprio il bisogno e il desiderio.

A dir le cose come sono, io non ebbi mai una troppo grande inclinazione allo scrivere per il pubblico, e all'arte e a prosa non ci attesi mai; tanto è, che ho scritto di solito come vien viene. Fui sempre e sono, invece, appassionatissimo dell'arte dell'insegnamento orale, in tutte le sue forme; e l'attendere a cotesta opera, con molta intensità, mi ha distolto per lunghi anni, in passato, dal ridire per iscritto (- e chi potrebbe veramente ridirlo dal vivo? -) ciò che, insegnando, vien detto spontaneo di forma, duttile, pronto, adattato al caso, ricco di attinenze e pieno di riferimenti. Abbracciando poi, più in qua, il socialismo, in corale rinascenza dello spirito io divenni più desideroso di comunicar col pubblico, per mezzo di opuscoli, di lettere d'occasione, d'indirizzi e di conferenze, che mi si moltiplicarono per anni quasi a mia insaputa. Non son forse questi i doveri e gli oneri del mestiere? Ed è qui che due anni fa venne precisamente in buon punto il mio benedetto signor Croce, col consiglio che mi dette, che io pubblicassi dei saggi di socialismo scientifico, come per porre alla mia attività di socialista un obiettivo più solido. E, come da cosa vien cosa, anche queste lettere d'occasione possono passare per un saggio sussidiario e complementare di materialismo storico.

Come è chiaro, caro Sorel, questo discorso non riguarda punto voi, ma me soltanto; perché cerco quasi quasi delle scuse alla pubblicazione di un nuovo libercolo, e in quanto io da italiano vivo in Italia. Probabilmente se queste mie lettere, oltre che da voi, saranno lette da altri in Francia, costoro diranno, che io non li ho persuasi lo stesso del materialismo storico, e forse ripeteranno ragionevolmente le osservazioni di alcuni critici dei miei saggi, che, con le traduzioni, cioè, da una lingua straniera, non si riesce a cambiare gli umori intellettuali di una nazione.

Pur così scrivendo, come per metter la chiusa a questa faccenda epistolare, temo ancora non mi venga la voglia di continuare. Non son forse le lettere moltiplicabili all'indefinito, come le favole e i racconti? Per fortuna, però, io m'ero proposto fin dal principio di rispondere, così all'ingrosso, ai quesiti che voi, sfiorando dei tèmi della massima difficoltà, ponete nella vostra Prefazione; cosicché una ragione di finire m'è pur data dai termini stessi del vostro scritto, al quale mi sono andato via via riferendo. Se m'abbandonassi poi all'estro della conversazione, chi sa dove andrei a finire! - le lettere diverrebbero una letteratura. Di ciò voi non mi sapreste grado; per quanto potesse allietarsene il signor Croce, il quale vorrebbe mettere in tutti il suo istinto di prolificazione letteraria. Lui fa un curioso contrasto con le dolci abitudini di questa dolce Napoli, nella quale gli uomini - come i Lotofagi che ogni altro cibo aveano in dispregio - vivono immersi nel solo presente, e par che, proprio in cospetto della statua di G. B. Vico, allegramente faccian le fiche alla filosofia della storia.

Ma, pur volendo una buona volta finire, mi conviene di mettere in carta alcune altre brevi note ancora.

Mi pare, innanzi tutto, che voi, non per curiosità vostra, ma quasi mettendovi ad arte nei panni del comune dei lettori, domandiate: c’è mai modo di fare intendere, per via facile e piana, in che consista quella dialettica, che così spesso s’invoca a dilucidazione dell'intrinseco del materialismo storico? E potreste, credo, aggiungere, che il concetto della dialettica riesce ostico, ai puri empiristi, ai metafisici sopravvissuti, e a quei popolari evoluzionisti, i quali così volentieri s'abbandonano alla generica impressione di ciò che è e trapassa, apparisce e sparisce, nasce e muore, e nella parola evoluzione non esprimono, da ultimo, l'atto del comprendere, ma l'incomprensibile: mentre, all'incontro, nella concezione dialettica s'intende di formulare un ritmo del pensiero, che riproduca il ritmo più generale della realtà che diviene.

Ma io - se l'ora stanca di queste lettere non me ne facesse divieto - ove mai volessi ricominciare, prima di rispondere a così grave quesito, ricorrerei con la mente al ricordo del poeta greco, che, alla domanda del tiranno di Siracusa: che cosa fossero gli dèi? - chiese prima uno, poi un altro, e poi un altro giorno di tempo, e così senza fine. E dire, in verità, che, ai poeti, che li creano, li inventano, li lodano e li celebrano, gli dèi devono essere assai più familiari, che non possa esser la dialettica a me, se altri mi mettesse fra l'uscio e il muro, con l'obbligo di rispondere a un imperioso quesito! E piglierei tempo - il che non è alieno dal pensare dialetticamente - dicendo (il che è una implicita risposta): - noi non possiamo renderci conto adeguatamente del pensiero, se non pensando in atto; - alle maniere di procedimento del pensiero bisogna adusarcesi con successivi sforzi; - ed è sempre assai pericoloso il saltare a pie' pari, dall'uso concreto di una maniera di concezione alla generica definizione formale di essa. Messo ancora alle strette, per non gravare l'interrogatore di studii troppo lunghi, ardui e complicati, lo rimanderei all'Antidühring, e segnatamente al capitolo intitolato: Negazione della negazione.

Ivi, e in tutto quel libro, si vede come Engels fosse, non solo inteso con l'animo a spiegare ciò che espone, ma preoccupato ancor più del mal uso che può farsi dei procedimenti mentali, quando, chi vi rivolge l'attenzione, più che essere portato a pensare qualcosa di concreto in cui la forma del pensiero si riveli viva e vivente, sia disposto a cadere negli schematismi a priori, ossia nello scolasticismo, che non fu - sia detto con buona pace degl'ignoranti - la nota esclusiva dei dottori del Medioevo, come se fosse soltanto roba da preti. Dello scolasticismo se ne può fare sopra ogni dottrina. Il primo scolastico fu Aristotele in persona; che fu, inoltre, tante altre cose in più, e fu soprattutto un genio della scienza. Dello scolasticismo se ne fa già in nome di Marx. Di fatti la maggior difficoltà d'intendere e di continuare il materialismo storico non istà nella intelligenza degli aspetti formali del marxismo, ma nel possesso delle cose in cui quelle forme sono immanenti; delle cose, che Marx per conto suo seppe ed elaborò, e di quelle altre moltissime, che tocchi a noi di conoscere e di elaborare direttamente.

Nei molti anni che ho speso nell'insegnare, io fui sempre persuaso del gran danno che si fa alle menti giovanili, quando, invece d’immergerle, con opportuna e pieghevole arte, in una determinata provincia della realtà, perché osservando, comparando e sperimentando, poco per volta arrivino alte formule, agli scherni, alle definizioni, si comincia dall'usar subito di queste ultime, come se fossero i prototipi delle cose esistenti. Insomma, la definizione da cui s’incomincia è vuota, mentre è solo piena quella cui si arrivi, geneticamente. Nell'insegnare si vede quanto il definire sia cosa pericolosa; secondo il senso plebeo che molti dànno ad una sentenza del diritto romano, la quale dice, in verità, tutt'altro. La didattica non è quella attività, che produca un nudo effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella attività, che generi altra attività. Insegnando noi riconosciamo, come il nocciolo primo di ogni filosofare è sempre il Socratismo; ossia la virtuosità generativa dei concetti.

Rimandando all'Antidühring, e a quel capitolo segnatamente, non intenderei, per ciò, di rinviare ad un catechismo, ma solo ad un esempio di abilità didattica. Le armi e gl'istrumenti son tali solo all'opera; e non quando sian visti in armadio da museo.

Inoltre, se non dovessi pur finire una buona volta, vorrei fermarmi ad illustrare le parole dove dite, che l'Italia meriti, come culla comune della civiltà, l'omaggio di tutti. Può parere che queste parole siano una stonatura, mentre discorrete proprio del socialismo, che all'Italia veramente non deve molto. Ma, se è vero che il socialismo è il frutto della civiltà adulta, i maturi e provetti degli altri paesi non faran male a rivolgere, di tanto tanto, gli occhi loro a questa culla. Ripensando all'Italia, che ha fatto per secoli la più gran parte della storia universale, tutti avranno sempre qualcosa da impararci; e poi dopo s'avvedono, che l'avean già a casa loro quest'Italia, come il presupposto di ciò che essi presentemente sono. Ad altri francesi è parso in passato, che questo paese fosse, da culla, diventato tomba della civiltà; e per tal tomba devon tenerla la più parte dei forestieri, che la visitano qual museo, ignari sempre del nostro presente. E in ciò hanno torto; e, per dotti che siano, cotesti visitatori di musei rimangon sempre ignoranti - dico ignari della vita attuale di questo paese, che par la vita del morto risorto, il che è almeno un caso degno di nota.

In che veramente consiste questo rinascimento d'Italia, e che aspettativa può dar di sé, a quelli che guardino la generalità del progresso umano, senza pregiudizii e senza preconcetti? Per tacere delle grandi difficoltà che c'è a trattare, con intenti obiettivi, e con criterii non desunti dai soli impulsi della personale opinione, la storia attuale di qualunque paese; nel caso speciale d'Italia bisognerebbe risalire fino al secolo XVI, quando l'iniziale sviluppo dell'epoca capitalistica - che qui avea sede principale - fu spostato dal Mediterraneo. Bisognerebbe arrivare, attraverso alla storia della successiva decadenza, alle premesse positive e negative, interne ed esterne, delle presenti condizioni d'Italia. Non occorre io dica che le mie forze sarebbero impari all'impresa; perché non avrei la più lontana tentazione di misurarmici, a proposito e nella occasione di un discorso familiare, come è questo. Chi un simile studio sapesse concretare in un libro, potrebbe dire d'aver concorso ad esprimere, in forma riflessa, la presente situazione, e l'attuale coscienza degl'italiani. Qui da noi si è spesso assai ciecamente ottimisti o ciecamente pessimisti, nel senso che si dà dai non-filosofi a coteste parole; specie perché in Italia c'è una grande ignoranza del vero stato degli altri paesi, cosicché molti le condizioni indigene valutano, non alla stregua comparativa e pratica dell'ora presente, ma ad una tutta ideale, ipotetica, e spesso utopistica. Ed è singolare il caso, che qui da noi, in tanto risorgere delle scienze della osservazione nel campo della natura - le quali scienze vengono veramente coltivate con intenti particolaristici e dirò antifilosofici - sia così scarso l'intelletto positivo delle cose sociali attuali, mentre è così stragrande in questo paese stesso il numero dei sociologisti, che somministrano definizioni ai sitibondi di verità. Ma si sa, i sociologisti hanno in tutto il mondo una certa curiosa antipatia per gli studii della storia; che poi sarebbe, secondo il senso dei profani, quella tal cosa nella quale la società s'è svolta.

Pochi, in conclusione, vedon chiaro in questa circostanza di fatto; che, cioè, la borghesia italiana, la quale è già oggetto, come in ogni altro paese, alle ire, e agli odii degli umili, dei manomessi, degli sfruttati, e per un altro verso è stretta e premuta dal popolo minuto, è essa stessa in se stessa instabile, inquieta, incerta, perché l'è impedito di mettersi alla pari con quella degli altri paesi, nel campo della concorrenza. Per questa ragione, come per l'altra, che dall'altro lato essa ha il papa, con quel suo non indifferente bagaglio di cose, che solo i teorici dell'utopismo liberalesco proclamano trapassate per sempre, questa borghesia, che deve ancora ascendere, è intimamente rivoluzionaria, come direbbe il Manifesto. E come non ha potuto esser giacobina, quanto sarebbe stato il naturale istinto suo, s'è acquetata nella formula del re per la grazia di Dio e della nazione ad un tempo. Non potendo questa borghesia fare assegnamento sul rapido sviluppo di una grande industria, che tarda difatti a venire, e nella conseguente rapida conquista di un grande mercato esterno, dato il progresso lento ed incerto della economia nazionale, per la massima parte agraria, fa la politica mezzana degli espedienti, e consuma nell'abilità l'ingegno. Ecco la parte che fa la flotta italiana da più mesi in Oriente: par la volpe, che, secondo la favola, dichiari immatura l'uva che non può afferrare; ma questa volpe qui, con divario da quella della favola, si trova tra altre volpi, che l'uva afferrata custodiscono, o dell'uva stanno per afferrare! Ed ecco che la volpe si fa idealista, per manco di positivo. Questa borghesia italiana, di fronte all'astensionismo, o reazionario o demagogico dei clericali, e per il lentissimo sviluppo dell'opposizione proletaria, si è sentita e si sente come se fosse tutta la nazione, e nel difetto di partiti che dividano la società, dà il nome di partiti alle fazioni che si raccolgono intorno a capitani e proconsoli, o ad intraprenditori ed avventurieri di varie sorti. Al primo apparire del socialismo essa rimase attonita.

D'altra parte, s'ingannano quelli i quali credono, che l'agitarsi delle moltitudini sia sempre indizio o prodromo da noi, com'è di fatto alcune volte e in alcuni punti d'Italia, di quel moto proletario che, come lotta economica su base concreta, o come aspirazione politica, volge più o meno esplicitamente al socialismo in altri paesi. Qui il più delle volte questo agitarsi è come la ribellione delle forze elementari contro di uno stato di cose in cui esse forze non trovano la necessaria coercizione, quella coercizione, dico, che è propria di un sistema borghese atto ad irreggimentare i proletarii. Si guardi, per es., all'acuita forma di emigrazione, che è, salvo poche eccezioni, di uomini atti ad offrire le braccia, l'incomparabile sedulità, e lo stomaco capace d'ogni privazione, allo sfruttamento del capitale straniero in terra straniera: - sono, in una parola, lavoratori uscenti dai campi, dove son di soverchio, o dall'artigianato in decadenza, che la ferula educativa del capitale ridurrebbe in isquadre di addetti alle fabbriche, se la grande industria si affrettasse a svolgersi, o che il patrio capitale menerebbe nelle patrie colonie, se ce ne fosse, e se non fosse venuta la pazzia di crearne là dove pare presso che impossibile il farne.

L'Italia è diventata - ed è ben naturale, - negli ultimi anni, la terra promessa dei decadenti, dei megalomani, dei critici a vuoto, degli scettici per fastidio e per posa. Alla parte sana e verace del movimento socialistico (al quale non è dato per ora dalle circostanze altro ufficio da quello in fuori di preparare la educazione democratica del popolo minuto) si mescolano, di conseguenza, parecchi, i quali, se volessero mettersi la mano su la coscienza, avrebbero da confessare, che essi son decadenti, e che li sospinge a dimenarsi, non la fattiva volontà del vivere, ma l'indistinto fastidio del presente: - essi, leopardiani annoiati!

Devo finalmente finire; ma mi pare mi arrivi all'orecchio come una leggiera voce di protesta da parte di quei compagni, che son così pronti ad obiettare; e che quella voce dica: coteste son sofisticherie da dottrinarii, e noi abbiam bisogno di pratica. Sicuro, d'accordo, avete ragione. Il socialismo è stato per così lungo tempo utopistico, progettistico, estemporaneo e visionario, che è bene ora di dire e di ripetere ogni momento, che ci occorre la pratica; perché gli animi di quelli che lo professano sian rivolti di continuo a misurare le resistenze del mondo effettuale, e a studiar di continuo il terreno, sul quale ci è imposto di aprirci la non facile né morbida via. Badi però il mio ipotetico critico di non far proprio lui la parte del dottrinario; la qual parola, per chi se ne intenda, designa una certa disposizione delle menti, viziate dall'astrazione, a ritenere, che le idee proclamate per sé eccellenti, e i frutti delle esperienze raccolte in determinati tempi e luoghi, sian cose da applicare difilato al concreto, e inoltre buone per ogni tempo e luogo. La pratica dei partiti socialistici, a confronto d'ogni altra politica fino ad ora esercitata, è ciò che più risponde, non dirò alla scienza, ma ad un procedimento razionale. È la dura prova di una costante osservazione, e di un adattamento da tentar di continuo; - è la dura prova d'indirizzare sopra una linea di moto unitario le tendenze, spesso difformi e spesso antagonistiche, del proletariato; - è lo sforzo di condurre ad esecuzione dei disegni pratici col sussidio della chiara visione di tutti i rapporti che legano, con complicatissimo intreccio, le varie parti del mondo in cui viviamo. E se cosi non fosse, per che ragione e a che titolo si parlerebbe del vantato marxismo? Se il materialismo storico non regge, vuol dire che l'aspettativa del socialismo è caduca, e che il nostro pensiero della società futura è creazione da utopisti!

Pur troppo gli è vero, in fatto, che in tutto il socialismo contemporaneo c'è sempre latente un certo che di neoutopismo; come è il caso di coloro, che, ripetendo di continuo il dogma della necessaria evoluzione, questa poi confondon quasi con un certo diritto ad uno stato migliore, e la futura società del collettivismo della produzione economica, con tutte le conseguenze tecniche e pedagogiche che dal collettivismo risulterebbero, dicono che sarà perché deve essere, - e quasi dimenticano, che cotesto futuro devono pur produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in cui sono, e per lo sviluppo delle attitudini loro. Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione su la vita!

Cotesti dogmatici delle idee a buon mercato dimenticano diverse cose. In prima, che il futuro, appunto perché è il futuro, che sarà il presente quando noi saremo il passato, non può costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiam fare al presente. Sarà ciò cui si arriverà, - ma non è la via per arrivarci. In secondo luogo, l'esperienza di questi ultimi cinquant'anni deve indurre gli atti al pensiero ed alla pratica in questa persuasione: che, cioè, a misura che cresce nei proletarii e nel minuto popolo la capacità ad organizzarsi in partiti di classe, la prova stessa di questo complicato movimento ci porta a intendere lo sviluppo dell'èra nuova secondo una misura di tempo, che è assai lenta a confronto del rapido ritmo che concepivano una volta i socialisti intinti di giacobinismo rivissuto. Or sopra a una distesa così grande di tempo la nostra previsione non può non correre incerta; tenuto conto della enorme complicazione del mondo attuale, e in tanto allargarsi del capitalismo, ossia della forma borghese1. Chi non vede, che oramai il Pacifico soppianta l'Atlantico, come questo a suo tempo fece passare in seconda linea il Mediterraneo? Cosicché, in terzo luogo, la scienza pratica del socialismo consiste nella chiara notizia di tutti cotesti complicati processi dell'orbe economico, e, parallelamente, nello studio delle condizioni del proletariato, in quanto esso via via diventa atto a concentrarsi in partito di classe, e porta in questa successiva concentrazione l'animo che gli è proprio, data la lotta economica in cui s'inradica quella politica, che gli è mestieri di fare. Su cotesti dati più prossimi la nostra previsione può correre con sufficiente chiarezza di calcoli, e può raggiungere il punto nel quale il proletariato divenga prevalente, e poscia predominante politicamente nello stato. E da quel punto, che deve coincidere con la impotenza del capitalismo a reggersi, da quel punto, dico, che nessuno può immaginarsi come un rumoroso patatrac, sarebbe il cominciamento di ciò che molti, non si sa perché, come se tutta la storia non fosse la serie delle rivoluzioni della società, chiamano enfaticamente la rivoluzione sociale par excellence. Spingersi oltre di quel punto, coi ragionamenti, gli è come voler confonder questi con gli artifizii della immaginazione.

Il tempo dei profeti è trapassato. Beato te, Fra Dolcino, che nelle tue tre lettere potesti trasfigurare gli accidenti politici del momento (papa Celestino e papa Bonifacio VIII, Angioini ed Aragonesi, Guelfi e Ghibellini, misere plebi e patriziati dei comuni, e così via) in tipi già simboleggiati dai profeti e dall'Apocalisse, misurando ad anni, a mesi ed a giorni, con successive correzioni, i tempi della provvidenza. Ma fosti un eroe; la qual cosa dimostra, che quelle fantasie non furon la causa del tuo operare, ma l'involucro ideale, nel quale tu rendevi conto a te stesso, come fecer tanti altri, per tutto un secolo innanzi a te, e Francesco d'Assisi compreso, del disperato moto delle plebi contro la gerarchia papale, contro la borghesia già forte nei comuni e contro il nascente monarcato. Ora tutti quegli involucri furon lacerati, compresa la religione delle idee, come dicon quelli che usano un gergo da ipocriti, per mostrare una certa superstiziosa reverenza per la religione degli altri. Ora, presentemente, non è lecito di essere utopisti, se non ai soli imbecilli. L'utopia degli imbelli, o è cosa ridicola, o è dilettanza da letterati che vadano visitando quel falansterio di ninnoli di cui è architettore il Bellamy. Quell'umile Marx, tutto prosa di scienza, andò raccogliendo modestamente nella società presente i primi indizii delle transizioni a quella che diverrà, come per es., il sorgere delle cooperative (vere!) in Inghilterra e cose simili, e fu rassegnato (specie nell'opera spesa nella Internazionale) alla parte di ostetrico, che non è proprio quella di un artefice del futuro. Lui ed Engels dissero della società dell'avvenire - data la ipotesi della dittatura politica del proletariato - non sotto l'aspetto intuitivo, del come essa parrebbe a chi la vedesse, ma sotto l'aspetto del principio direttivo della forma, ossia della struttura economica, e segnatamente in antitesi a questa società presente.

Del resto, se c'è chi abbia il bisogno di vivere fin da ragazzo nel futuro, come da sentirlo e da provarlo su la propria pelle; e, papeggiando in nome delle idee, voglia investire dei loro diritti e doveri i componenti la società dell'avvenire - s'accomodi pure. Permetta quindi a me, che pure ho un qualche diritto d'inviare la mia carta di visita ai posteri, di esprimere la speranza, che quei del futuro, non trasumanati tanto da non esser più comparabili a noi del presente, serbino tanto della gaia dialettica del ridere, da farsi beffe umoristicamente dei profeti dell'oggi.

Finisco per davvero; e toccherebbe ora a voi, se mai vi piace, di ricominciare.


Appendici.

I.

Postscriptum all'edizione francese.

Frascati (Roma), 10 settembre ‘98

Sebbene fino ad ora il Sorel non abbia dato segno di ricominciare, può sempre darsi ci si provi in seguito. Ho però ragione di temere, che, ricominciando, s'incamminerebbe per una via per me inaspettata, dal momento che mette in iscena: La crisi del socialismo scientifico (cfr. suo articolo nella “Critica Sociale”, del I° maggio 1898, pp. 134-38), proprio a proposito di quelle stesse pubblicazioni del Merlino, che egli avea l'anno innanzi così aspramente criticato nel “Devenir Social” (ottobre 1897, pp. 854-888).

Ma che egli ricominci, o che non ricominci ad occuparsi di questi problemi generali avendo riguardo a ciò che io ho scritto in queste lettere a lui indirizzate, mi preme di dire qui, a scanso di fraintesi, e perché i lettori non cadano in equivoco, che io non lo seguirei nelle sue immature e premature elucubrazioni su la teoria del valore (“Journal des Economistes”, Paris, I° maggio 1897; “Socialistische Monatshefte”, Berlin, agosto 1897; “Giornale degli Economisti", Roma, luglio 1898). Senza entrare nel merito di tali elucubrazioni, la qual cosa non si può fare per incidente o per passatempo, io non vorrei, per la compagnia non ben definita del Sorel, vedermi poi citato fra gli esempii della crisi del marxismo (cfr. Th. Masaryk: Die Krise des Marxismus, Vienna, 1898; trad. franc. nella “Revue de sociologie”, luglio 1898; dove è citato il sig. Sorel in appoggio di tale preziosa scoverta letteraria). A mio credere in cotesta pretesa crisi entrarono molte dramatis personae, che, o non hanno ancora bene appresa la parte, o hanno paura di apprenderla, o la recitano maledettamente male.

Coteste medesime riserve io devo estendere, ma con una certa insistenza, anche al Croce, per quanto riguarda la sua memoria: Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, Napoli 1897 (riprodotta nel “Devenir Social”, anno IV, fascicoli del febbraio e marzo 1898).

 Sebbene quello scritto paia concepito (e così appunto dice l'autore stesso a p. 3) qual libera recensione del mio Discorrendo; il fatto è che esso, oltre a parecchie utili osservazioni di metodologia storica, e ad alcune sagaci note di tattica politica, contiene enunciati teoretici, che nulla han da vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie, anzi a queste son diametralmente opposte. Dovrei io forse mettermi per le vie di una esplicita polemica ex-professo contro tutto l'insieme di quella dissertazione, che per tanti altri rispetti è degna d'esser letta? Ma perché mai; e a che pro? Lascio volentieri al libero recensente la libertà delle opinioni sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori per un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato.

Non posso, però, fermarmi alla generica riserva, che basta per il Sorel; e, anzi, devo indugiarmi in alcuni appunti sommarii di critica.

Passerei senz'altro sopra alle sottili distinzioni scolastiche, in cui il Croce s'impiglia insistendovi tra la scienza pura e la scienza applicata, tra l'uomo oeconomicus e l'uomo morale, tra l'egoismo e il tornaconto, tra l'essere e il doveressere, e così via, perché tanto appartiene al mio mestiere di professore la tolleranza dello scolasticismo tradizionale, che può in certi casi servire al primo addestramento degli ingegni giovanili, ma non è mai la scienza piena e concreta. Come potrebbe mai l'astronomo impedire che la gente parli del sole, che sorge, e tramonta? Caso mai potrei rimandare, in via analogica e in linea approssimativa, ai capp. VI e VIII del mio Materialismo storico: ove pian piano si dimostra come i fattori, indispensabili alla cognizione empirica ed immediata, a un certo punto si trasformino, o in aspetti o in momenti (secondo i casi) di un complesso conoscitivo unitario. Ma, domando io per la più spiccia, come mai colui che abbia il cervello ancor chiuso in tali strettoie della logica dell'immediato intendimento empirico, fa poi ad abbordare proprio il problema del marxismo, che è, o almeno (per usar cortesia agli avversarii) pretende di essere al di sopra di tali volgari distinzioni? Non è questo un combattere ad armi troppo disuguali? Inviterei quasi quasi il Croce a rifar la prova della sua arte critica in altro campo di studii, a leggere sbrigativamente un trattato di Energhetica - quello per es. recente dell'Helm - di mandare al diavolo tutti gli Helmoltz e i R. Mayer di questo mondo, per rimettere in onore, secondo il senso comune, la luce che è sempre luminosa, ed il calore che è sempre caldo.

Ma donde il Croce - e proprio nell'atto che s'occupa di Marx! - trae la persuasione, che oltre alle varie economie succedutesi nella storia, rispetto alle quali l'economia capitalistico-industriale è, per così dire, un caso particolare (ma è quel caso, si noti, che solo fino ad ora ha la sua teoria, e questa esiste in molte varianti di scuole e sottoscuole), ci sia poi una economia pura, che da sola dà luce e indirizzo generale d'interpretazione a tutti questi casi, o, diciamo meglio, a tutte queste forme di prosaica esperienza? Un animale in sé, oltre a tutti gli animali visibili ed ostensibili? E che cosa dovrebbe mai contenere codesta economia dell'uomo superistorico e supersociale, che finisce per essere più noioso dei superuomini della letteratura e della filosofia? Forse la nuda dottrina dei bisogni e degli appetiti, data la sola natura ambiente, ma senza esperienza di lavoro, senza istrumenti, e senza correlazioni precise, o di comunanza, o di società? Tanto per la psicologia congetturale della preistoria la tesi potrebbe andare. Ma no: - questa economia dell'uomo in sé è perpetua ed attuale; - e qui proprio mi ci perdo.

Ecco qua (p. 19): “Io tengo fermo alla costruzione economica dell'indirizzo edonistico, all'utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e finalmente alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri! Ma ciò non appaga il desiderio di una spiegazione sociologica del profitto del capitale; e questa spiegazione, con le altre della medesima natura, non si può trovarla se non su la via per la quale la cercò il Marx”.

Il mio amico Croce è un uomo a dirittura incontentabile; e la sua incontentabilità potrebbe farlo apparire, a chi altrimenti non lo conosca, quale uomo alquanto capriccioso. Accetta d’emblée tutto un sistema d’economia, un sistema che pretende di abbracciare tutto il conoscibile economico. È questo un sistema, inoltre, assai noto in Italia, dove ha rappresentanti notevoli, e anzi continuatori e perfezionatori, come dicono sia il caso del Barone per la dottrina della distribuzione. A conferma della sua profession di fede, che non può non essere di gran letizia essendo edonistica, mette un tanto di punto ammirativo ove dice che accetta la spiegazione economica (o che avrebbe a essere non-economica?) del “profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri!”. E che gli mancherebbe dunque per dare dell'imbecille e del perditempo a Marx, che per vie del tutto diverse s'è affannato a ricercare l'origine, il processo e la spartizione del sopravvalore; alla qual cosa, alla fin fine, si riduce nell'essenziale l'attività sua specifica di critico e d'innovatore dell'economia? La benedetta formola del D D', ossia del danaro che si ritrova in danaro con tanto di più, fu come il chiodo fisso nella testa di Marx ricercatore, come il pernio della sua ricerca. Ora il Croce, fatta la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi avendo già bevuto e mangiato a sazietà, voglia ribere e rimangiare, si volge a Marx a chiedergli una teoria sociologica, che sia complementare a quella economica, nella quale lui Croce è tanto fermo e deciso; - e che altro può dirgli Marx se non questo: mandate al diavolo quella vostra filastrocca edonistica, se no è inutile interroghiate me su tali quisquilie, ché io non posso offrirvi che l'assolutamente opposto.

Di fatti il Croce è costretto a farsi un Marx diverso - non dirò se molto o poco - dal vero, perché sia quello i cui principii possano apparire conciliabili con gl'indiscutibili dati dell'edonismo. Discorrendo del come Marx “poté giungere a scovrire e definire l'origine sociale del profitto, ossia del sopravvalore”, esce in questa sentenza (p 12): “Sopravvalore, in pura economia, è una parola priva di senso, come è mostrato dalla denominazione stessa, giacché un sopravvalore è un extravalore, ed esce fuori dal campo della pura economia. Ma ha bene un senso e non è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragone che si fa tra una società economica con un'altra, un fatto con un altro, o due ipotesi tra di loro”. E poi aggiunge in nota: “Faccio ammenda di un errore nel quale incorsi in una mia precedente memoria, nella quale, pur dicendo rettamente che il sopravvalore non è un concetto puramente economico, lo definivo inesattamente un concetto morale; e dovevo dire, come dico ora, un concetto di differenza di sociologia economica e di economia applicata, e non di economia pura. La morale qui non ha parte, come non ha nessuna parte in tutta l'indagine del Marx”.

Auguro al Croce, che giungendo alla sua terza memoria in argomento confessi poi, che del primo errore egli poté fare ammenda, perché quello almeno era la generalizzazione di una opinione ovvia nel socialismo volgare, che il sopravvalore sia cioè il compendio delle proteste degli sfruttati; ma che del secondo errore non può scusarsi, perché lui stesso non è più in grado di decifrare plausibilmente il pensiero suo. Né solo per la continua equivocazione di profitto, interesse e sopravvalore; ma perché in più luoghi assume il concetto di una società lavoratrice come di una forma a sé (ma, dico io, in contrapposto a quale altra, forse a quella dei santi in paradiso?) e dice: “Marx faceva il paragone della società capitalistica con una parte di se stessa isolata ed elevata ad esistenza indipendente; ossia il paragone tra la società capitalistica con la società economica in se stessa (ma solo in quanto società lavoratrice)” e poi: “Dunque l'economia marxista è quella che studia l'astratta società lavoratrice” (pp. 12 e 13).

Se c'è chi senta il bisogno di liberarsi dal malefico bacillo metafisico, che induce a tali ragionamenti, io gli consiglierei come rimedio la lettura, non già delle polemiche degli economisti, e di quelle segnatamente che in Germania ebbero occasione dalle pubblicazioni del Dietzel, che possono parer sospette, ma della Logica del Wundt (vol. II, parte II, pp. 499-533), nella qual Logica, a dirlo per incidente, più in là delle pagine testè citate si adduce come esempio tipico di legge sociale (pare incredibile! e il Wundt non è dolce di sale, né coi sociologisti, né con le così dette leggi sociali) proprio il sopravvalore secondo Marx (ibidem, pp. 620-22).

Al postutto cotesta economia pura - come è in uso di chiamarla in Italia, che è sempre il paese dell'enfasi e della esagerazione - ossia cotesto indirizzo di ricerca e di sistema, che su gl'inizii, o insufficienti, o ignorati, o dimenticati del Gossen, del Walrass e del Jevons. s'è venuto sviluppando in ciò che ora ha (vulgo) il nome di scuola austriaca, non è, così nelle premesse come negli andamenti, se non una variante teoretica nella interpretazione di quegli stessi dati empirici della vita economica moderna, che han sempre formato l'obietto degli studii delle altre scuole. Si distingue dalla scuola classica (che non fu tanto antistorica, come è parso a molti, e come ha dimostrato R. SCHÜLLER: Die klassische Nationalökonomie, Berlin 1895), per la tendenza a un più alto grado di astrazione e di generalizzazione. Si prova a mettere in maggiore evidenza gli stati psichici, che precedono ed accompagnano gli atti ed i rapporti economici. Usa ed abusa degli espedienti matematici. Non è la superistoria, sebbene metta assai spesso in iscena le robinsonate, che dissimula però sotto la veste di una sottile psicologia individualistica: anzi è tanto poco la superistoria, che da questa storia attuale assume due dati, facendone dei presupposti estremi, ossia la libertà del lavoro e la libertà di concorrenza spinte per ipotesi al massimo. Per ciò essa è, in ciò che reca, afferrabile, comprensibile e discutibile; perché è confrontabile con l'esperienza della quale è spesso una forzata ed unilaterale interpretazione. (Alla generalità del pubblico francese ora è dato di leggere in forma chiara e piana la esposizione sommaria della teoria del valore di cotesta scuola nel libro di E. PETIT: Etude critique der différentes théories de la valeur, Paris 1897).

Tornando al Croce non saprei nascondere la mia maraviglia, che egli (note I e 2 a p. 14) trovi a ridire contro l'Engels, perché questi una volta chiami storica la scienza dell'economia, e un'altra volta poi parli di economia teoretica. Per chi si fermasse alle parole sole basterebbe di dire, come storico in quel caso li è l'opposto del naturale nel senso del fisso e dell'immutabile (le famose leggi naturali della economia volgare), e il teoretico è detto in opposizione al conoscere grossolanamente descrittivo ed empirico. Ma c'è dell'altro. Ogni teoria non è se non la rappresentazione, per quanto più si può perfetta, dei rapporti di reciproca condizionalità di quei fatti, che in un determinato campo dell’esperienza appariscano omogenei, riavvicinabili e connessi. Ma tutti questi varii gruppi di fatti sono momenti di un divenire. Or se un fisiologista, dopo d'avervi esposta la teoria fisico-meccanica della respirazione polmonare, esca a dirvi, che la respirazione non è legata all'esistenza del polmone, e che il polmone stesso è un fatto particolare di genesi nella storia generale degli organismi, vorreste voi forse cotesto fisiologista tradurlo, nel-la qualità d'imputato, innanzi al fòro di un'altra economia pura, cioè volevo dire, innanzi a quello di una fisiologia purissima, che studii l'ente vita, anziché i viventi?

Di fatti il Croce muove querela (passim) a Marx, per non aver questi stabiliti i rapporti fra la sua indagine e i concetti di economia pura, per mostrare (p. 3) “con metodica esposizione come i fatti apparentemente più diversi del mondo economico siano retti in ultimo da una medesima legge, o, ch'è lo stesso, come questa legge si rifranga variamente passando attraverso organizzazioni varie, senza mutar se stessa, che altrimenti mancherebbe il modo ed il criterio stesso della spiegazione”. Qui Marx, se avesse pur voglia di rispondere, non saprebbe che cosa rispondere. Qui Marx non c'entra più. E non si tratta nemmen più delle generalizzazioni, per dir vero troppo astratte della scuola edonistica, che pur sempre rientrano nei processi leciti di astrazione e d'isolazione proprii ad ogni scienza, che partendo dalla base empirica tenti la via dei principii. Qui ci troviamo in presenza di una legge economica, che a guisa di un quasi-ente attraversa misteriosamente le varie fasi della storia, perché non s'abbiano a scucire. Questo è il puro possibile, che è poi, in realtà, l'impossibile. Il signor Dühring - che qua e là è in un certo modo direttamente difeso - è oltrepassato.

Qui si tratta di riaffacciare delle difficoltà nella concezione preliminare di ogni problema scientifico, per le quali rimangon fuori della comprensibilità, non solo Marx, ma tre quarte parti del pensiero contemporaneo. La logichetta formale, di felice memoria, diventa l'arbitra del sapere. Teniamoci pure al testo, che in passato ebbe tanta diffusione in Francia, il Port-Royal. Si parta da un concetto della massima estensione e del minimo contenuto, e per incremento di meccanica notazione si arrivi ad un concetto di minima estensione e di massimo contenuto. E se ci capita poi fra mani un processo reale, il passaggio per es., dall'invertebrato al vertebrato, o dal comunismo primitivo alla proprietà privata del suolo, o dalla indifferenza delle radici alla differenziazione tematica di verbo e nome nel gruppo ario-semitico, invece di fermarsi in tali fatti, come in casi di epigenesi faticosamente e realiter accaduta, scriveremo in un concetto già bello e preconcepito, per via di un facile metodo di notazione, prima un A, poi un a, poi un a¹, poi un a2, poi un a³, e così via: - e tutto sarà bello e fatto. E mi pare che basti di ciò.

Eccoci, per conseguenza, ad alcuni enunciati alquanto curiosi (p. 2): “È una società (s'intende quella studiata da Marx nel Capitale) ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi, che potrebbero anche non essersi presentate mai corso della storia”. Qui Marx diventa l'illustratore teorico di una quasi-utopia. E poi (p. 4): “Marx assunse, fuori del campo della pura teorica economica, una proposizione, che è la famigerata eguaglianza di valore e lavoro”. E di dove dunque l'ha presa? forse (secondo alcuni) c'è arrivato “spingendo alle estreme conseguenze un concetto poco felice di Ricardo”. Il quale Ricardo bisognerebbe espellerlo a dirittura dalla storia della scienza, perché qualcos'altro di più felice non l'ha veramente fatto. In un certo punto il Croce (p. 20, in nota) se la piglia col Pantaleoni, perché questi “combatte il Böhm Bawerk, domandandosi donde il mutuatario del capitale riesca a prendere di che pagare l'interesse”. Di fatti il Pantaleoni (Principii di economia politica, p. 301) dice: “la causa generativa dell'interesse sta nella produttività del capitale come bene complementare in un processo tecnico vantaggioso, richiedente un certo tempo, e non nella virtù del tempo, che lascerebbe le cose come le ha trovate”. Qui, e per tutto un capitolo, il Pantaleoni, con l'andamento del ragionare che è proprio al suo indirizzo, ripiglia a modo suo quella spiegazione dell'interesse per via della produttività del (danaro-) capitale, che, uscita vittoriosa già nel secolo XVII dalle polemiche coi moralisti e coi canonisti, apparisce nella sua formola elementarmente economica per la prima volta in Barbon e Massey. Quella spiegazione è la sola che l'economista possa enunciare, fino a che la produttività del capitale, che prima facie pare evidente, non è fatta essa stessa oggetto di una critica; la qual cosa ha menato poi Marx alla formola più generale e al principio genetico del sopravvalore. In quello stesso capitolo Pantaleoni abilmente polemizza contro il Böhm, che, come direbbe il Croce “dà la spiegazione (economica) del profitto del capitale, come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri”.

Ma volete forse per vostro passatempo mettere in iscena una farsetta ideologica concepita così: - si assume da una parte la legittima aspettazione del creditore, e dall'altra parte la onesta promessa del debitore; - questi due attributi psicologici, che tanto fanno onore alla eccellenza dell'animo loro, vengon messi nella dovuta evidenza; poi si suppone, che debitore o creditore siano homines oeconomici tanto perfetti, quanto è necessario di tener per fermo che siano, dal momento che nacquero coi diagrammi del Gossen stampati nel cervello; - poi si aggiunge la nozione del tempo astratto; - e, costituita la santa trinità di aspettazione, promessa e tempo, si attribuisce a questa trinità la virtù di trasmutarsi in quel più di valore, che deve essere poniamo, per es., nelle scarpe prodotte col denaro mutuato, perché il mutuante, in ultimo, e guadagnando pur lui qualcosa, se nel frattempo non vuol morir di fame, solvat debitum cum usura. Ma questa è proprio la scienza messa alla gogna. In verità il tempo non è nella economia, come non è nella natura, se non la misura di un processo: ed è nell'economia la misura del processo della produzione e della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell'economia per questo rispetto, il tempo è anche misura dell'interesse. Un tempo che in quanto tempo operi come causa reale è un mitologhema. (Su gli avanzi mitici nella rappresentazione del tempo leggere: Zeit und Weile nelle Ideale Fragen di M. Lazarus, Berlin 1878, pp. 161-232). Se fino alla mitologia dobbiamo risalire, rimettiamo a dirittura lassù nel cielo, più in su dell'Olimpo, quell'antichissimo Kronos, che il volgo greco confondeva con chronos (tempo): e se speranze, aspettazioni e promesse son per sé cause reali di fatti economici, diamoci a dirittura alla magia.

Parrebbe quasi che perfino in questa, o per inavvertenza, o per una certa tal quale bizzarria di forma letteraria, il Croce rischi di dare una capata, quando scrive (p. 16): “E se nell'ipotesi del Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro, o lavoro cristallizzato, perché in altra ipotesi non potrebbero apparire come gelatine di bisogni, o quantità di bisogni cristallizzate?” Santi numi! Marx non fu veramente un modello di ciò che chiamasi dizione classica, specie nella plasticità, nella trasparenza e nella continuità delle immagini. Marx fu un seicentista. Ma le sue immagini, spesso bizzarre, ma che non son mai né ghiribizzi né facezie, dicon sempre qualcosa di profondamente realistico. Se quella immagine della gelatina, che del resto non ha niente di sacramentale né di obbligatorio per nessuno, l'andate a ripetere al primo calzolaio che vi capiti innanzi, egli, accennando forse alle mani incallite, alla schiena ricurva, e al sudore della fronte, vi dirà che a un dipresso ha capito, perché nelle scarpe che produce ci mette via via una parte di se stesso, le sue energie meccaniche, dirette dalla volontà, ossia dirette dall'attenzione volontaria, secondo la forma preconcetta, nella quale si assomma, come in intento ed in proposito, la sua attività cerebrale in quanto egli è in atto di lavorare. Ma finora fu dato solo ai fattucchieri di credere o di dare a credere, che coi soli desideri si riesca a conglutinare una parte di noi stessi con alcun bene in genere, prodotto o non prodotto che esso si sia.

Con la psicologia non è lecito di scherzare. Non saprei dire in poche parole quanta parte di essa debba entrare nei presupposti della economia. So di certo però, che la più parte dei concetti psicologici, che edonisti e non-edonisti vanno cacciando dentro all'economia, ha un certo che di messoci a posta ad usum delphini, un certo che di escogitato e non di trovato, un certo che di accidentalmente tratto dalla volgare terminologia e non di criticamente vagliato; onde è il caso di ripetere tractent fabrilia fabri. E so anche questo, che dal bisogno al lavoro ci corre tutta la formazione psicologica dell'uomo; ci corre quanto ci corre dal sentimento privativo della sete, che è il bisogno del bere, che il bambino non associa ancora, non dirò ai movimenti che gli occorrono, per procurarsi da bere, ma nemmeno alla rappresentazione dell'acqua, sino all'atto del lavoratore provetto, il quale per matura volontà d'intelletto, per volontà nella quale esperienza ed immaginazione, imitazione ed inventiva fanno uno, scava un pozzo, o apre una fontana. Ridurre e scheletrizzare cotesta viva formazione in un'arida nomenclatura, questo fu il difetto della psicologia vulgaris, e questa il più delle volte gli economisti, anche ai giorni nostri, prendono a premessa delle loro speciali elucubrazioni. La psicologia del lavoro, che sarebbe il coronamento della dottrina del determinismo, è ancora da scrivere.

A quoi bon questo post-scriptum? dirà forse il lettore. Ecco qua: io non sono il paladino di Marx, ammetto tutte le critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un critico, non smentisco la sentenza: comprendere è superare; ma mi conviene pur d'aggiungere, che superare è aver compreso.

II.

Prefazione all'edizione francese.

Roma, 31 decembre 1898

Questo mio piccolo libriccino - come è chiaro anche dal post-scriptum illustrativo - dovea venir fuori a Parigi nel settembre ultimo. La stampa ne è stata ritardata per cause accidentali.

Nel frattempo il Sorel s'è dato anima e corpo alla Crisi del marxismo e la tratta, la espone, la commenta, con amore, un po' da per tutto, per es., nella “Revue parlementaire" del 10 decembre, pp. 597-612 (dove anzi la crisi diventa a dirittura quella del socialismo) e nella “Rivista critica del socialismo”, Roma, fasc. I, pp. 9-21; e per di più la fissa e la canonizza nella Préface da lui messa al libro del Merlino: Formes et essence du socialismo. Ci si minaccia per fino un congresso di secessionisti ben pensanti.

Siamo decisamente alla guerra della Fronda!

Che dovrei io fare? Ricominciare da capo? Scrivere l'anti-Sorel dopo d'aver scritto l'avec-Sorel. Non cado punto in tale tentazione. Gli è vero che questa mia composizione d'insolita fattura s'intitola: Discorrendo; - ma si discorre quando ci piace, e non a comando.

Desidero solo che il lettore guardi alle date di queste lettere, ossia di queste piccole monografie di stile sciolto, intitolate al signor Sorel: - e le date corrono dal 20 aprile al 15 settembre 1897. Io mi rivolgevo a quel Sorel - non a quest'altro; - a quello insomma che avevo conosciuto su le pagine del “Devenir Social”, che avea presentato me ai lettori francesi nell'assisa di marxista, che mi scriveva lettere piene di fine osservazioni, e di considerazioni critiche apprezzabili. Era dubitoso, sì, e mi parve qualche volta intinto d'esprit frondeur, ma nello scrivere rivolgendomi a lui, io non pensavo nel 1897, ch'ei diverrebbe in così breve tempo l'araldo di una guerra di secessione. O come di questo saranno lieti i déclassés dell'intelligenza, e coloro che hanno bisogno dell'alibi della vigliaccheria. Se non che il Sorel ci lascia qualche barlume di speranza quando scrive: "Io e qualche amico ci sforzeremo dì utilizzare i tesori di riflessioni e d'ipotesi che Marx ha raccolto nei suoi libri. Questo è il miglior modo di trarre partito da un'opera geniale rimasta incompiuta" ("Revue parlementaire", ibid., p. 612). Dunque tanti auguri per l'anno nuovo - comincia domani - in tale opera benigna e pietosa di salvataggio... della quale del resto io e molti altri come me non sentivamo il bisogno.

Senza rancore: - ma non certo senza mortificazione per me. Nel licenziare al pubblico francese queste pagine di composizione alquanto insolita io temo che dei lettori di spirito - la Francia ne abbonda più di ogni altro paese - abbiano a dire di me: ecco lì un tollerabile conversatore, ma che pedagogista pessimo; apre da erudito un dialogo didattico con un amico ed ecco che questi passa difilato dall'altra parte!

Non è vero, signor Sorel? Ebbene, accomodiamo le partite: - questo dialogo era un monologo; e alla buon'ora di dio!