Avvertenza alla seconda edizione.
Ich bin des trocknen Tons nun satt,
Muss wieder recht den Teufel spielen.
“Mi parrebbe di far cosa poco men che assurda, se premettessi alla
stampa di queste lettere delle parole di introduzione.
Perché vengano alla luce, nella forma di un volumetto,
è spiegato nell'ultima.
Noto qui soltanto, che queste pagine recano un qualche
complemento, e aggiungono una certa chiarezza ai miei due saggi
intitolati: In memoria del
Manifesto dei comunisti [2° ed., Roma 1895]; e Del materialismo storico, Dilucidazione preliminare
[Roma 1896].
A quei due saggi io portai qualche lieve correzione, e feci
qualche piccola aggiunta, ma solo in pochi punti, nella edizione
francese apparsa quest'anno. [Questa contiene in più
dell'originale la riproduzione integrale del testo del Manifesto.] Eccone il titolo:
Essais sur la conception
matérialiste de l’histoire, par Antonio Labriola;
avec préface de G. Sorel, Paris 1897, chez V. Giard et E.
Brière".
Con così breve Avvertenza apparve - e precisamente il 6
dicembre 1897 - la prima edizione italiana di questa raccolta di
lettere, che ora io ristampo con alcune modificazioni nel testo e
nelle note, che son quasi tutte ripigliate dall'edizione francese
venuta fuori nel 1899.
Se non che, tra quelle due edizioni, e ossia tra il 1897 e il
1899, accadde che il signor Sorel, al quale queste lettere furono
indirizzate, e il mio amico Croce che m'incoraggiò a
pubblicarle, portassero di tali critiche alle dottrine del
materialismo storico, che io mi credetti in obbligo di risponder
loro con le aggiunte che introdussi, così in fine come in
principio, dell'edizione francese appunto. Quelle aggiunte ora io
riporto qui in Appendice (I e II).
Roma, 30 maggio 1902.
I.
Roma, 20 aprile '97
Caro signor Sorel,
da un pezzo vo pensando d'intrattenermi con voi in una specie di
conversazione per iscritto.
Sarà questo il modo migliore, e il più acconcio,
onde io v'attesti la mia gratitudine per la Prefazione, della
quale mi avete onorato. Va da sé, che, così dicendo,
io non mi fermo con la mente a ricordare soltanto le parole
cortesi, delle quali mi siete stato prodigo con tanta profusione.
A quelle parole io non potevo non risponder subito, e sdebitarmene
nella forma della lettera privata. Né ora sarebbe
più il caso, che io mi andassi diffondendo con voi in
complimenti; proprio in lettere, le quali, o a voi, o a me,
potrà parere più in là opportuno di
pubblicare. Che varrebbe, del resto, che io venissi ora a far
proteste di modestia, schermendomi dalle vostre lodi? Voi mi avete
oramai costretto a rinunciare a tali sforzi. Che i miei due saggi,
appena rudimentali, di materialismo storico corrano in Francia
nella forma di un quasi libro, ciò è tutto merito
vostro; per averli voi rnessi e prcsentati al pubblico in tale
assisa. Non fu mai nelle inclinazioni mie di faire le livre,
secondo il senso che voi francesi, ammiratori e seguaci sempre
della classicità letteraria, date a cotesta espressione.
Sono io, anzi, di quelli i quali vedono in cotesto continuarsi del
culto per la forma classica una specie d'impaccio - come sarebbe
di un abito che mal s'attagli alla persona - alla espressione
propria, adeguata e conveniente dei resultati del pensiero
rigorosamente scientifico.
Passando, dunque, sopra a tutti i complimenti, intendo di rifarmi
su le cose che voi dite in quella Prefazione; e di tornarci su per
discuterne liberamente, senza star proprio ad aver lì
innanzi alla mente il disegno o il prospetto di una meditata
monografia. Scelgo la forma delle lettere, perché solo in
queste un procedere interrotto, spezzato e a volte saltuario, che
ritragga quasi quasi la conversazione, non par cosa impropria ed
incongrua. Non me la sentirei, in verità, di scrivere tante
dissertazioni, memorie od articoli, quanti ne occorrerebbe per
rispondere alle molte domande che voi movete, alle molte questioni
che voi ponete a voi stesso, in così breve giro di pagine,
come chi dubitando e dubbiosamente pensi.
Scrivendo, direi quasi, come vien viene, non intendo però
di sottrarmi alle responsabilità di ciò che mi
verrà di dire, e andrò dicendo; ma voglio come
prosciogliermi dai doveri di prosa serrata e legata, che son
proprii del discorrere e del dissertare a tesi. Oramai non
c'è dottorucolo al mondo, il quale, per minuscolo che ei si
sia, non creda di monumentarsi innanzi ai presenti e innanzi ai
posteri, ove riesca a consacrare in pesante opuscolo, o in dotta
ed involuta disquisizione, uno di quei tanti pensieri o di quelle
tante osservazioni, che nella viva conversazione, o
nell'insegnamento che sia retto da indubbia virtuosità
didattica, tornan sempre di più intuitiva efficacia, per la
naturale dialettica, che è propria di chi sia in atto di
cercare da sé, o d'insinuare per la prima volta negli
altri, la verità.
Ma già, si sa: - in questa fin di secolo, tutta business,
tutta faccende, tutta affari e tutta merci, il pensiero non si
presta a circolar per il mondo, se non fissato e fermato anch'esso
nella riverita forma di merce, cui faccia compagnia la fattura del
libraio, e giri attorno, da agile messaggera di sincerissime lodi,
la onesta réclame editoriale. Forse nella società
dell'avvenire, in quella nella quale noi c'infuturiamo con le
nostre speranze, e assai più con certe illusioni, che non
sempre son frutto di una ben plasmata fantasia, cresceranno a
dismisura, da parer legione, gli uomini atti a discorrere con la
divina gioia della ricerca e con l'eroico coraggio della
verità, che ora ammiriamo in Platone, in Bruno, in Galilei,
e si moltiplicheranno in infiniti esemplari i Diderot capaci di
scrivere le profonde capestrerie di Jacques le fataliste, che per
ora abbiamo la debolezza di credere insuperate. Nella
società dell'avvenire, nella quale l'ozio, ragionevolmente
cresciuto per tutti, darà a tutti, con le condizioni della
libertà, i mezzi per civilizzarsi, le droit à la
paresse - la felicissima trovata del nostro Lafargue - farà
spuntare ad ogni angolo di strada dei perditempo di genio, che,
come il nostro maestro Socrate, saranno operosissimi di
operosità non messa a mercede. Ma ora... in questo mondo,
nel quale solo i matti da manicomio hanno le traveggole del
prossimo millennio, molti sfaccendati sfruttano, come per proprio
diritto e professione, la pubblica stima coi loro ozii
letterarii... e lo stesso socialismo non può a meno di
accogliere nel suo seno una discreta frotta, non che di
sfaccendati, di faccendoni e di faccendieri.
E così, quasi celiando, mi avvicino all'argomento.
Voi lamentate la poca diffusione che ha avuto fino ad ora in
Francia la dottrina del materialismo storico. Anzi lamentate, che
a tale diffusione mettano ostacolo e oppongano resistenza i
pregiudizii derivanti dalla boria nazionale, le pretese letterarie
di alcuni, l'albagia filosofica di altri, la maledetta voglia del
parere senza essere, e da ultimo, poi, lo scarso avviamento
intellettuale, e i molti difetti che si riscontrano anche in certi
socialisti. Ma tutte coteste cose non sono da considerare come dei
meri accidenti! Vanità, orgoglio, desiderio di parere
senz'essere, iomania, megalomania, voglia e smania di prevalere,
tutte queste ed altre passioni e virtù dell’uomo civile non
son certo le bagattelle della vita, anzi assai più spesso
possono parere come la sostanza e il nerbo di questa. Si sa che la
chiesa non è riuscita, il più delle volte, a
suggestionare gli animi cristiani ad umiltà, se non facendo
di questa nuovo titolo a novello e rincalzato orgoglio. E via...
cotesto materialismo storico esige, da chi voglia consapevolmente
e schiettamente professarlo, una certa curiosa maniera di
umiltà: che, cioè dire, nell'atto che ci sentiamo
legati al corso delle cose umane, e di questo studiamo le
complicate linee e le tortuose pieghe, ci tocchi pur di essere
insiememente e medesimamente, non già rassegnati ed
acquiescenti, ma anzi operosi di conscia e ragionevole opera.
Ma... venire al punto da confessare a noi stessi, che il nostro
proprio io individuo, al quale ci sentiamo così
strettamente legati da un ovvia e casalinga consuetudine, senza
esser proprio una mera evanescenza, un nonnulla, come parve
agl'invasati teosofi, per grande che esso si sia, o ci paia,
è assai piccola cosa nel complicato ingranaggio dei
meccanismi sociali: - ma doversi adattare alla persuasione, che i
propositi o i conati subiettivi di ciascun di noi dànno
quasi sempre di cozzo nelle resistenze dell'intricato intreccio
della vita, cosicché, o non lascian traccia di sé, o
ne lasciano una affatto difforme dal primitivo intento,
perché alterata e trasformata dalle condizioni
concomitanti: - ma dover convenire di questo enunciato, che noi
siamo come vissuti dalla storia, e che il nostro contributo
personale a questa, per quanto indispensabile, è sempre un
dato minuscolo nell'incrocio delle forze, che si combinano,
completano ed elidono a vicenda: - ma tutte queste vedute sono una
vera e propria seccatura, per tutti quelli che han bisogno di
confinare l'universo intero nei termini della loro individua
visuale! Dunque si serbi alla storia il privilegio degli eroi,
perché ai nani non sia tolta la fiducia di potersi mettere
a cavallo delle proprie spalle per farsi vedere; anche quando
essi, secondo il detto di Jean Paul, non sian degni di arrivare
all'altezza delle proprie ginocchia!
E, di fatti, non si va a scuola da secoli, per sentirsi a dire,
che Giulio Cesare fondò l'impero, e Carlo Magno lo rifece;
che Socrate quasi quasi inventò la logica; e Dante, cosi a
un di presso, creò la letteratura italiana? Gli è da
assai poco tempo, che alla immaginazione mitologica degli autori
della storia s'è andata sostituendo, e fino ad ora in modi
non sempre precisi, la nozione prosaica del processo
storico-sociale. La Rivoluzione Francese non l'han voluta e fatta,
secondo le varie versioni della inventiva letteraria, i varii
santi della leggenda liberalesca; e santi di destra, e santi di
sinistra, santi girondini e santi giacobini? Tanto è, che
il signor Taine - del quale non ho mai capito come, con la poca
rassegnazione che mostra alla cruda necessità dei fatti, si
dica che ei fosse un positivista - ha potuto spendere una parte
non piccola del suo poderoso ingegno a dimostrate, come chi
scrivesse l'errata-corrige della storia, che tutta quella bagarre
potea anche non accadere. Per buona fortuna loro, la più
parte di cotesti vostri santi paesani si onorarono e si coronarono
a vicenda, e a tempo debito, del dovuto martirio; ond'è che
le regole della classicità tragica rimasero per essi
gloriosamente intatte: - se no, chi sa quanti imitatori di
Saint-Just (uomo sommo per davvero) non sarebbero finiti fra i
manutengoli del turpe Fouché, e quanti complici di Danton
(un grande uomo di stato mancato) non avrebbero contesa al
Cambacérès la cancelleresca livrea, quando altri
molti non si fossero contentati di disputare all'avventuroso
Drouet, e a quel bieco commediante del Tallien, i modesti galloni
del sottoprefetto.
Insomma, affannarsi ad occupare i primi posti è cosa di
rito e di prammatica per tutti quelli, che, avendo imparato la
storia di vecchio stile, s'accordano ancora con quel retore di
Cicerone nel proclamarla maestra della vita. E a ciò fare
bisogna moraliser le socialisme. La morale non ha forse insegnato
per secoli, che bisogna rendere a ciascuno secondo il merito suo?
Un tantino di paradiso non volete serbarcelo? - mi pare di sentire
a dire; - e se anche s'ha da rinunciare al paradiso dei credenti e
dei teologi, non ci si ha da serbare un po' di pagana apoteosi in
questo mondo? Non barattiamo, dunque, tutta la morale degli onesti
compensi: - almeno una buona poltrona, od un palco di prima fila,
nel teatro delle vanità!
Ed ecco perché le rivoluzioni, per tante altre ragioni
necessarie ed inevitabili, anche per questo rispetto sono utili e
desiderabili: perché, a guisa di grossa scopa, spazzano dal
terreno i primi occupanti, o per lo meno rendono l'aere più
respirabile, come accade dei temporali per cresciuto ozono.
Non dite voi forse, e assai giustamente, che tutta la questione
pratica del socialismo (e per pratica intendete, senza alcun
dubbio, quella che piglia lume dai dati intellettuali di una
coscienza rischiarata dal sapere teoretico) si riduce e compendia
in questi tre punti: a) il proletariato ha esso di già
raggiunta la coscienza chiara della sua esistenza come classe
indivisibile? b) ha esso tanta forza da poter entrare in lotta con
le altre classi? c) è esso in grado di rovesciare, insieme
con la organizzazione capitalistica, tutto il sistema della
ideologia tradizionale?
E sta benissimo!
Ora il proletariato che arrivi a conoscere perspicuamente
ciò che esso può, ossia che s'avvii a saper volere
ciò che può: - quel proletariato, insomma, che si
metta in carreggiata per riuscire a risolvere (qui uso il gergo un
po' sciatto dei pubblicisti) la così detta questione
sociale, quel proletariato dovrà proporsi di eliminare, fra
le altre forme di sfruttamento del prossimo, eziandio questa della
vanagloria e della presunzione, e della singolare concorrenza che
c'è tra coloro, che s'inscrivono da sé sul libro
d'oro dei benemeriti della umanità. Anche quel libro va
messo in falò, con tanti altri che han titolo di libri del
debito pubblico.
Ma per ora sarebbe opera vana il provarsi a fare intendere, a
tanti e tanti di costoro, questo principio schietto di etica
comunistica: che, cioè, la gratitudine e l'ammirazione
conviene aspettarsele come doni spontanei dal prossimo nostro; -
né molti di costoro si tratterrebbero dal mettere le mani
avanti, per sentirsi a ripetere, in nome di Baruch Spinoza, che la
virtù è premio a se stessa. En attendant, dunque,
che in una società migliore della nostra non rimangano
altri oggetti all'ammirazione degli uomini, se non quelli
degnissimi - che so dire? -, per es., le linee del Partenone, i
quadri di Raffaello, i versi di Dante e di Goethe, e quanto di
utile, di certo, di definitivamente acquisito presenti la scienza,
non ci è dato per ora d'impedire a quanti abbiano fiato da
spendere, e carta stampata da mettere in circolazione, di
pavoneggiarsi in nome di tante e tante belle cose -
umanità, giustizia sociale e simili - e anche in nome del
socialismo, come accade specie a quelli che s'inscrivono da
concorrenti a l'ordre pour le mérite e alla legion d’onore,
della futura, ma non molto prossima, rivoluzione proletaria.
Figurarsi se costoro non dovessero subodorare nel materialismo
storico la satira di tutte le loro vuote arroganze e futili
ambizioni, e non avessero da avere in uggia questa nuova specie di
panteismo, dal quale, con licenza parlando, è sparito -
appunto perché esso è ultraprosaico - perfino il
riverito nome di dio.
Una grave circostanza è qui da aggiungere. In tutte le
parti dell'Europa civile gl'ingegni - veri o falsi che si siano -
han molti e molti modi di occuparsi nei servizii dello stato, e in
tutto ciò che di proficuo e di onorifico può loro
offrire la borghesia; la quale, per dir vero, non è tanto
prossima a tirar le cuoia, come si dànno ad intendere
alcuni allegri facitori di strampalate profezie. Non è
dunque da meravigliare che Engels (pag. IV della prefazione al III
vol. del Capitale - notate bene - in data del 4 ottobre 1894)
scrivesse così: “Come nel secolo XVI, così nel
nostro tempo tanto agitato, non vi ha nel campo degl'interessi
pubblici dei puri teorici se non dal lato della reazione”. Queste
parole, per quanto chiare altrettanto gravi, basterebbero da sole
a turar la bocca a quelli che vanno sbraitando, esser già
tutta l'intelligenza passata dalla parte nostra, e che la
borghesia abbassi oramai le armi. Il vero è precisamente il
contrario: nelle nostre file c'è da per tutto scarsezza di
forze intellettuali, per quanto gli operai genuini, per
ispiegabile sospetto, spesso strepitino qua e là contro i
parleurs e lettrés del partito. Non c'è dunque da
inarcar le ciglia, se il materialismo storico sia così poco
progredito dalle prime e generali enunciazioni. E volendo pur
passar sopra a quelli che ne han fatto argomento di semplici
ripetizioni o di travestimenti, che qualche volta rasentano il
burlesco, ci tocca di confessare, che nella somma di tutto
ciò che se n'è scritto di serio, di congruo e di
corretto, non c’è ancora l'insieme di una dottrina uscita
già dallo stadio della prima formazione. Non è chi
oserebbe fra noi di far confronti col darwinismo, che in poco men
di quarant'anni ha avuto tale e tanto sviluppo intensivo ed
estensivo, che oramai, per la copia dei materiali, per la
molteplicità dei riattacchi ad altri studii, per le varie
correzioni metodiche e per la interminabile critica sortavi dentro
e dattorno, quella dottrina ha giù una storia gigantesca.
Tutti quelli che son fuori del socialismo ebbero ed hanno
interesse a combattere, a svisare o per lo meno ad ignorare questa
nuova dottrina; e ai socialisti, e per le ragioni dette e per
altre molte, non è stato dato di spenderci attorno il
tempo, le cure e gli studii che occorrono, perché un
indirizzo mentale acquisti ampiezza di sviluppi e maturità
di scuola, come accade delle discipline, che protette, o per lo
meno non combattute dal mondo ufficiale, crescono e prosperano per
la cooperazione assidua di molti collaboratori.
La diagnosi del male non è una mezza consolazione? Non
usano forse così ora con gli ammalati i medici,
dacché divennero, come sono difatti al presente, più
ispirati nella pratica terapeutica al sentimento scientifico dei
problemi della vita?
Al postutto, dei varii effetti che il materialismo storico
può produrre, alcuni soltanto si prestano a raggiungere un
grado notevole di popolarità. Di certo, con l'aiuto di tale
nuova orientazione dottrinale, si riuscirà a scrivere dei
libri di storia meno inconcludenti di quelli che di solito
scrivono i letterati addestrati a cotesta arte coi soli mezzi
della filologia e della erudizione. E, passando sopra alla
consapevolezza che i socialisti d'azione possono ritrarre
dall'analisi accurata del terreno su cui lavorano, non c'è
dubbio che il materialismo storico, o per diretto o per indiretto,
ha già esercitato su molte menti un grande influsso, e ne
eserciterà col tempo uno ancor maggiore, per quanto si
attiene agli studii veri e proprii di storia economica, e a quelli
di interpretazione prammatica dei moventi e delle ragioni intime,
e per ciò più remote, di una determinata politica.
Ma tutta la dottrina nel suo intimo, o nel suo insieme, tutta la
dottrina, intendo dire, insomma, come filosofia - e adopero questa
parola con molta apprensione di poter esser frainteso, ma non ne
saprei trovare di altra, e, se scrivessi in tedesco, direi
più volentieri Lebens-und Weltanschauung, ossia concezione
generale della vita e del mondo - non mi pare che possa entrare
tra gli articoli della coltura popolare. Oltre che ad apprendere
cotesta filosofia occorre un discreto sforzo di menti già
addestrate alle difficoltà e alla combinatoria del
pensiero; il maneggiarla, poi, può esporre gl'ingegni
troppo facili e troppo correnti alle comode conclusioni a
spropositare di santa ragione; e noi non vorremmo renderci,
né promotori, né complici di tal nuova ciarlataneria
letteraria.
II.
Roma, 24 aprile ‘97
Ed ora permettetemi di passare alla considerazione di certe cose
prosaicamente piccole, ma che, come assai spesso accade delle cose
piccole nelle faccende grosse del mondo, hanno assai peso nel
fatto nostro.
Gli scritti di Marx e di Engels - tanto per tornare a loro, che
sono principalmente in causa - furon essi mai letti per intero da
nessuno, il quale si trovasse fuori della schiera dei prossimi
amici ed adepti, e quindi, dei seguaci e degl'interpreti diretti
degli autori stessi? Furono mai quegli scritti fatti tutti oggetto
di commento e di illustrazione, da gente che si trovasse fuori del
campo, che s'è formato intorno alla tradizione della
deutsche Socialdemokratie; nella quale impresa di lavoro
applicativo ed esplicativo ha per anni primeggiato soprattutto la
“Neue Zeit”, magazzino indispensabile delle dottrine del partito?
Intorno a quegli scritti, in brevi parole, non si è
formato, fuori che in Germania, ed anche ivi assai parzialmente, e
qualche volta con modi non pienamente critici, ciò che i
neologisti chiamano ambiente letterario.
E poi la rarità di molti di quegli scritti, e anzi la
irreperibilità di alcuni di essi! C'è molta gente al
mondo, che abbia la pazienza di mettersi per degli anni, come
toccò a me, alla ricerca di un esemplare della
Misère de la philosophie, che fu solo assai di recente
ristampata a Parigi, o di quel singolare libro che è la
Heilige Familie; e che sia disposta a durar più fatica per
avere a disposizione un esemplare della “Neue Rheinische Zeitung”,
di quella non tocchi, in condizioni ordinarie, a qualunque
filologo o storico presentemente per leggere e studiare tutti i
documenti dell'antico Egitto? A me che pure ho una certa pratica
alquanto notevole dei libri e del modo di ricercarli, non è
toccata mai briga più fastidiosa di cotesta. Il leggere
tutti gli scritti dei fondatori del socialismo scientifico
è parso fino ad ora come un privilegio da iniziati!().
Che maraviglia, dunque, se fuori della Germania, e quindi anche in
Francia, e anzi in Francia segnatamente, molti e molti scrittori,
e specie fra i pubblicisti, abbiano avuto la tentazione di
ritrarre, o da critiche di avversarii, o da citazioni incidentali,
o da frettolose illazioni ricavate da brani speciali, o da vaghi
ricordi, gli elementi per foggiarsi un marxismo di loro invenzione
e maniera? Tanto più, poi, che, col sorgere in Francia ed
in Italia di partiti socialistici, che dal più al meno sono
in voce di rappresentare una esplicazione del marxismo, il che
pare a me invero designazione inesatta, ai letterati d'ogni
maniera si offerse la comoda opportunità di credere o di
far credere, che in ogni discorso di propagandista o di deputato,
in ogni enunciato di programma, in ogni articolo di giornale, in
ogni atto di partito, ci fosse come l'autentica e ortodossa
rivelazione della nuova dottrina, esplicantesi nella nuova chiesa.
Alla Camera Francese non si fu due anni fa quasi quasi sul punto
di discutere della dottrina del valore di Marx... come se fossimo
a Bisanzio? E che dirvi di tanti professori italiani, che han
citato e discusso per anni libri ed opuscoli, che notoriamente non
eran mai giunti in questi nostri paraggi; e specie dappoi che il
signor Giorgio Adler() scrisse quei suoi due libri alquanto
superficiali quanto inconcludenti, nei quali però egli
offerse ai ricercatori di comoda erudizione e ai facitori di
plagio i facili tesori della bibliografia e delle copiose
citazioni: perché, a dir vero, quel signor Adler ha molto
letto come ha molto peccato.
Il materialismo storico, che poi in un certo senso è tutto
il marxismo, prima che entrasse nell'ambiente critico letterario
degli atti a svolgerlo e continuarlo, è passato qui, fra
noi popoli di lingue neolatine, attraverso ad una infinità
di equivoci, di malintesi, di alterazioni grottesche, di strani
travestimenti e di gratuite invenzioni: tutte cose coteste, che
nessuno vorrà mettere a carico della storia del socialismo,
ma che, in tutti i modi non poteano non tornare d'impaccio ai
volenterosi di farsi una coltura socialistica, specie se son
persone che escano dalle file degli studiosi di professione.
Voi sapete la fantastica storiella del biondo Marx inauguratore
della Internazionale a Napoli nel 1867, che fu raccontata dal
Croce nel “Devenir Social”. Io di quelle storielle potrei
narrarvene parecchie. Che dirvi dello studente corso anni fa a
casa mia a vedere, una volta almeno de visu, la famigerata
Misère de la philosophie! Rimase sbalordito: “dunque -
diceva - è un libro serio di economia politica?” – “E oltre
che serio - soggiunsi io - di dicitura difficile, e in molti punti
oscuro”. Non si poteva capacitare. “Vi aspettavate - gli dissi -
un poema su gli eroi della soffitta, o un romanzo come quello del
giovane povero?” Per fino quel bisbetico titolo di Heilige Familie
(Sacra Famiglia) ha dato ad alcuni occasione di stranamente
almanaccare. Singolare ventura di quella coterie di posthegeliani
- tra i quali, del resto, era un uomo notevole e di valore, Bruno
Bauer - che le sia toccato di passare ai posteri nel curioso
persiflage che ne fecero i due giovani scrittori! E dire che quel
libro - che alla più parte dei lettori francesi apparirebbe
duro, intricato ed incondito - non è veramente notevole, se
non perché ci mostra come Marx ed Engels, liberi già
dallo scolasticismo hegeliano, si andassero districando
dall'umanitarismo del Feuerbach, e, mentre s'avviavano a quella
che fu poi la dottrina loro, fossero ancora in certo tal quale
modo intinti di quel socialismo vero, che più tardi essi
stessi volsero in satira nel Manifesto.
Ma a canto a queste storielle, tutte da ridere, qui in Italia se
n'è svolta una, che veramente non fa ridere: e intendo dire
del caso Loria. Proprio in questi ultimi anni, nei quali, tra
difficoltà grandissime, s'è andato formando da
noi un partito socialistico, che nei programmi e negl'intenti, e,
per quanto la condizione del paese lo consente, alla men trista
anche nelle opere, risponde alle tendenze del socialismo
internazionale, proprio in questi ultimi anni venne in capo a
parecchi, o studenti, o quasi ex-studenti, di fare del signor
Loria, ora l'autentico autore delle dottrine del socialismo
scientifico, ora l'inventore della interpretazione economica della
storia, ora tante e tante altre cose diverse, contrarie e
contraddittorie: di modo che il Loria, a sua insaputa e senza
merito o colpa sua, è passato a un tempo stesso ora per
Marx, ora per anti-Marx, ora per vice-, per sopra-, o per
sotto-Marx. Anche cotesto equivoco è oramai trapassato: e
sia pace alla memoria sua. Da che i Problemi Sociali del signor
Loria furono tradotti in francese, parrà strano a molti dei
vostri compaesani, che quello scrittore sia potuto passare, non
che per socialista in genere, la quale opinione può parere
in fin delle fini atto o segno d'ingenuità, ma anzi per un
continuatore e correttore di Marx; il che è veramente
sproposito da far rizzare i capelli.
Dunque, per tali aneddoti d'intuitiva esemplarità,
consolatevi per ciò che riguarda la Francia; perché,
non solo è vero, che intra Iliacos muros peccatur et extra,
ma perché, in fin delle fini, nessuno che non appartenga
alla categoria di quei folli, che sono i genii incompresi,
può non convenire di questo principio: che non si arriva
mai tardi al mondo per fare il dover suo. E anzi qui, in questo
caso, si arriva tanto poco tardi, che, come Engels mi scriveva
poche settimane prima di morire: noi siamo al primo cominciamento
ancora!
E tanto, perché in questo primo cominciamento sia dato agli
studiosi di occuparsi della dottrina in questione con piena
cognizion di causa, col minimo d'incomodo e col preciso possesso
delle prime fonti, pare a me, che sarebbe dovere del partito
tedesco di procurare una edizione completa e critica di tutti gli
scritti di Marx e di Engels; una edizione, voglio dire, che sia
corredata, caso per caso, di prefazioni dichiarative, di indici di
riferimento, di note e di rimandi. Sarebbe già un'opera
meritoria il togliere agli antiquarii di libri il modo di
esercitare una indecente speculazione - ne so io qualcosa - su le
rarissime copie degli scritti più antichi. Agli scritti
già apparsi in forma di libri o di opuscoli converrebbe
aggiungere gli articoli di giornali, i manifesti, le circolari, i
programmi, e tutte quelle lettere, che, per essere di pubblico e
di generale interesse, per quanto dirette a privati, hanno
importanza politica o scientifica.
A tale impresa non possono mettersi se non i socialisti di lingua
tedesca. Non già che Marx ed Engels appartengano alla
Germania soltanto, nel senso patriottico e sciovinistico, che ha
per molti la parola di nazionalità. La forma dei loro
cervelli, l'andamento delle loro produzioni, l'assetto logico dei
loro modi di vedere, il loro senso scientifico e la loro
filosofia, furono il portato ed il resultato della coltura
tedesca: ma la sostanza di ciò che essi han pensato ed
esposto è tutta nelle condizioni sociali, che s'eran svolte
fino agli anni più che maturi di loro vita per la massima
parte fuori della Germania e segnatamente in quelle della grande
rivoluzione economico-politica, che dalla seconda metà del
secolo XVIII ebbe base e svolgimento soprattutto in Inghilterra ed
in Francia. Essi furono, per ogni rispetto, spiriti
internazionali. Ma, nulladimeno, solo fra i socialisti di lingua
tedesca si trova, a cominciare dalla Lega dei Comunisti fino al
programma di Erfurt e fino agli ultimi articoli del cauto, e
ponderato Kautsky, quella continuità e persistenza di
tradizione, e quel sussidio di costante esperienza che occorrono,
perché l'edizione critica trovi nelle cose stesse e nella
memoria degli uomini i dati occorrenti a farla piena e viva.
Né si tratta di scegliere. Tutta la operosità
scientifica e politica, tutta la produzione letteraria, sia pur
essa occasionale, dei due fondatori del socialismo critico, deve
esser messa alla portata dei lettori. Non si tratta già di
compilare un Corpus juris, né di redigere un Testamentum
juxta canonem receptum; ma di mettere insieme una elaborata
raccolta di scritti, perché essi parlino direttamente a
chiunque abbia voglia di leggerli. Solo così gli studiosi
di altri paesi potranno avere a loro disposizione tutte le fonti,
che altrimenti apprese, per via di incerte riproduzioni o di vaghi
ricordi, han dato luogo a questo strano fenomeno, che non c'era
fino a poco tempo fa quasi scritto alcun di lingua non tedesca sul
marxismo, che procedesse da una critica documentata; specie se
tali scritti uscivano dalla penna degli scrittori di altri partiti
rivoluzionarii, o di altre scuole socialistiche. Il caso tipico
è quello degli scrittori anarchisti, pei quali, specie in
Francia ed in Italia, l'autore del marxismo pare il più
delle volte non sia esistito se non per essere lo staffilatore di
Proudhon e l'avversario di Bakunin, quando non divenga il semplice
caposcuola di quella che agli occhi loro è la massima delle
reità, ossia il rappresentante tipico del socialismo
politico, e quindi - o infamia! - anche parlamentare.
Tutti cotesti scritti hanno un fondo comune; e questo è il
materialismo storico, inteso nel triplice aspetto, di tendenza
filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di
critica dell'economia, che ha modi di procedimento riducibili in
leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica,
e di interpretazione della politica, e soprattutto di quella che
occorre e giova alla direzione del momento operaio verso il
socialismo. Questi tre aspetti, che qui enumero astrattamente,
come accade sempre per comodo di analisi, faceano uno nella mente
degli autori stessi. Perciò quegli scritti, che, tranne il
caso dell'Antidühring di Engels e del primo volume del
Capitale, non parranno mai ai letterati di tradizione classica
come condotti secondo i canoni dell'arte di faire le livre, sono
in verità delle monografie, e nella più parte dei
casi dei lavori d'occasione. Ossia, sono i frammenti di una
scienza e di una politica che è in continuo divenire; e che
altri - e non dico che ciò sia l'affare del primo venuto -
deve e può continuare. Per intenderli, dunque, a pieno,
bisogna ricollegarli biograficamente; e in tale biografia è
come la traccia e l'orma, e a volte l'indice e il riflesso della
genesi del socialismo moderno. Chi cotesta genesi non è in
grado di seguire, cercherà in quei frammenti ciò che
non c'è, e non ci ha da essere: per es., delle risposte a
tutti i quesiti che la scienza storica e la scienza sociale
possano mai offrire nella loro vastità e varietà
empirica, o una soluzione sommaria dei problemi pratici d'ogni
tempo e d'ogni luogo. A proposito ora, per es., della questione
d'Oriente, nel discutere la quale alcuni socialisti offrono lo
spettacolo singolare di una lotta fra l'idiotismo e
l'avventataggine, si sente d'ogni parte fare appello al marxismo!.
Difatti i dottrinarii e i presuntuosi d'ogni genere, che han
bisogno degl'idoli della mente, i facitori di sistemi classici
buoni per l'eternità, i compilatori di manuali e di
enciclopedie, cercheranno per torto e per rovescio nel marxismo
ciò che esso non ha mai inteso di offrire a nessuno.
Costoro intendono il pensato ed il saputo come cose che esistano
materiatamente; ma non intendono il pensare ed il sapere come
operosità che siano in fieri. Costoro son metafisici,
secondo il senso che Engels attribuisce a cotesta parola, e che,
veramente, non è il solo che quella parola abbia o possa
avere: secondo il senso, in somma, che Engels le attribuisce per
via d'una insistente amplificazione della caratteristica che Hegel
applicava agli ontologisti come Wolf e simiglianti.
Ma che forse Marx, nello scrivere da pubblicista insuperato, nel
periodo di tempo dal 1848-60, i suoi saggi di storia contemporanea
e i suoi memorabili articoli di giornale, ebbe mai la pretesa di
atteggiarsi a compiuto istoriografo; la qual cosa non gli sarebbe
forse riuscito d'esser mai, non essendo questa la vocazione e
l'attitudine sua? O che forse Engels, nello scrivere
l'Antidüring, che fino all'ora presente è il
più compiuto libro di socialismo critico, il quale reca a
un di presso tutta quella filosofia che occorre alla intelligenza
del socialismo stesso, s'è mai sognato di descriver fondo,
nel giro di così breve e squisitissimo lavoro, all'universo
scibile, e di segnare in perpetuo i termini della metafisica,
della psicologia, dell'etica, della logica e come altro si
chiamino, o per ragioni intrinseche di obiettiva partizione, o per
ripiego e comodo e vanità dei professanti l'insegnamento,
le sezioni dell'enciclopedia? O che è forse il Capitale una
di quelle tante enciclopedie di tutto lo scibile economico, delle
quali ora precisamente i professori, specie se tedeschi, van
riempiendo il mercato?
Quell'opera, per quanto vasta di tre volumi in quattro non piccoli
tomi, può parere, a confronto di tali enciclopediche
compilazioni, come rassomigliante ad una colossale monografia. Il
suo soggetto principalissimo è la origine ed il processo
del sopravvalore (nell'orbita, s'intende, della produzione
capitalistica), poi, dopo combinata la produzione con la
circolazione del capitale, la spartizione del sopravvalore stesso.
Sta come presupposto del tutto la teoria del valore, portata a
compimento su la elaborazione che ne avea fatta la scienza
economica per un secolo e mezzo: teoria che non rappresenta mai un
factum empirico tratto dalla volgare induzione, né esprime
una semplice posizione logica, come qualcuno ha almanaccato, ma
è la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non
è pensabile.
Le premesse di fatto, ossia il capitale preindustriale e la
genesi sociale del salariato, sono i capisaldi della spiegazione
storica dell'iniziarsi del capitalismo attuale: - il meccanismo
della circolazione, con le sue leggi secondarie e laterali, e da
ultimo i fenomeni della distribuzione, guardati nei loro aspetti
antitetici e di relativa indipendenza, formano il tramite e le
illazioni, attraverso il quale e per le quali, si arriva ai fatti
di configurazione concreta, come ce li porge il movimento
apparente della vita di tutti i giorni. Il modo di
rappresentazione dei fatti e dei processi è generalmente
tipico, perché si suppongon sempre come già tutte
esistenti in atto le condizioni della produzione capitalistica:
ond'è, che le altre forme di produzione vengono illustrate,
o solo in quanto furono superate di già, e per il modo come
furono superate, o in quanto, come residuo, tornan di limite e
d'impedimento alla forma capitalistica.
Di qui il frequente passare attraverso alle illustrazioni di mera
storia descrittiva per poi tornare, dalla dichiarazione delle
premesse di fatto, alla esplicazione genetica del modo come quelle
premesse, data la loro concorrenza e concomitanza, debbano
funzionare tipicamente, formando esse la struttura morfologica
della società capitalistica. Da ciò dipende, che
quel libro, che non è mai dommatico, appunto perché
critico, ed è critico, non nel senso subiettivo della
parola, ma perché ritrae la critica dal moto antitetico e
quindi contraddittorio delle cose stesse, anche nei punti nei
quali arriva alla descrittiva storica non si perde nello
storicismo volgare, il cui segreto è questo: rinunziare
alla ricerca delle leggi del variare, e alle varietà
semplicemente enumerate e descritte appiccicare l'etichetta di
processo storico, di sviluppo o di evoluzione.
Il filo conduttore di questa genesi è il procedimento
dialettico; ed è questo il punto scabroso, che mette in
tristissima condizione tutti i lettori del Capitale, che nel
leggerlo vi portino dentro gli abiti intellettuali degli
empiristi, dei metafisici, e dei padri definitori di entità
concepite in aeternum. La fastidiosa questione che si è
fatta da molti sulle contraddizioni, che, secondo loro,
correrebbero fra il III e il I volume del Capitale (qui intendo di
parlare dello spirito della disputa e non delle particolari
osservazioni perché, di fatti, il III volume è
tutt'altro che un lavoro compiuto, e può offrire materia di
critica anche a chi professi in genere gli stessi principii), si
vede come alla più parte di questi critici manchi la
nozione esatta del procedimento dialettico.
Le contraddizioni che essi notano non sono le contraddizioni del
libro col libro stesso, non sono le infedeltà dell'autore
alle sue premesse e promesse: ma sono le stesse condizioni
antitetiche della produzione capitalistica, che, enunciate in
formule, si presentano allo spirito pensante come contraddizioni.
Rata media di profitto in ragione della quantità assoluta
del capitale impiegato, e, cioè, indipendentemente dalla
varia composizione sua, ossia dalla proporzione fra capitale
costante e capitale variabile; - prezzi che si costituiscono sul
mercato per via di medie, che oscillano con assai difforme
oscillazione intorno al valore, e da questo si dilungano; -
interesse puro e semplice del danaro posseduto come tale, e
abbandonato a prestito all'industria degli altri; - rendita della
terra, cioè di ciò che non fu mai prodotto di alcun
lavoro; - queste ed altre smentite alla così detta legge
del valore (- gli è proprio quel termine di legge che
imbroglia i cervelli di molti! -) son le antitesi stesse del
sistema capitalistico.
Queste antitesi, ossia l'irrazionale, che, malgrado che paia
irrazionale, esiste - a cominciare dal primissimo irrazionale, che
cioè il lavoro del lavoratore salariato renda a chi lo
piglia a mercede un prodotto superiore al costo (salario) - questo
vasto sistema delle contraddizioni economiche (per tale
espressione sia reso onore a Proudhon!) è ciò che ai
socialisti sentimentali, ai socialisti semplicemente ragionatori,
e poi via via ai declamatori radicali, apparisce come l'insieme
delle ingiustizie sociali: - di quelle ingiustizie, che la onesta
gente fra i riformatori vorrebbe eliminare con degli onesti
ragionamenti di legge! Chi confronti ora, alla distanza di
cinquanta anni, la trattazione di coteste antinomie concrete nel
III volume del Capitale
con la Misère de la
philosophie, è bene in grado di riconoscere in che
consista il filo dialettico della trattazione. Le antinomie, che
Proudhon volea astrattamente risolvere (e per tale errore egli ha
un posto nella storia) come ciò che la ragion ragionante
condanna in nome della giustizia, sono in fatti le condizioni
della struttura stessa, in guisa che la contraddizione è
nella stessa ragion d'essere del processo. L'irrazionale
considerato come un momento del processo stesso, mentre ci libera
dal semplicismo della ragione astratta, ci mostra, al tempo
medesimo, la presenza della negatività rivoluzionaria nello
stesso grembo della forma storica relativamente necessaria.
Comunque sia di cotesta assai grave ed intricatissima questione di
concezione processuale, che io non oserei di trattare a fondo come
l'incidente di una lettera, sta il fatto, che non è dato ad
alcuno di distrarre le premesse, gli andamenti metodici, le
illazioni e le conclusioni di quell'opera, dalla materia in cui si
svolge e dalle condizioni di fatto cui si riferisce, per ridurne
la dottrina in una specie di volgata o di precettistica per la
interpretazione della storia di qualunque tempo e luogo. Né
si può dar frase più scipita e ridicola di quella
che proclama il Capitale la Bibbia del socialismo. Già, la
Bibbia, che è un insieme di libri religiosi e di
trattazioni teologiche, l'hanno fatta i secoli! E ci fosse pure la
Bibbia, col solo socialismo i socialisti non diverrebbero
onniscienti!
Il marxismo - giacché questo nome è oramai
adottabile come simbolo e compendio di un molteplice indirizzo e
di una complessa dottrina - non è e non rimarrà
tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels. Ci
vorrà, anzi, molto, prima che esso divenga la dottrina
piena e completa di tutte le fasi storiche già ridotte alle
rispettive forme della produzione economica, e regola al tempo
istesso della politica. A ciò fare occorre, o studio
accuratamente nuovo di fonti, per chi voglia ingegnarsi a studiare
il passato secondo l'angolo visuale della nuova veduta
storico-genetica, o speciali attitudini di orientazione politica
in chi voglia praticamente operare al presente. Come quella
dottrina è in sé la critica, così non
può essere continuata, applicata e corretta, se non
criticamente. Come si tratta di appurare e di approfondire
determinati processi, così non c'è catechismi che
tenga, non c'è generalizzazioni schematiche che valgano. Ne
ho fatto la prova io quest'anno.
Mi proposi di trattare all'Università della condizione
economica dell'Italia superiore e media in su la fine del XIII, e
in sul cominciamento del XIV secolo, col principale intento di
spiegare l'origine del proletariato di campagna e di città,
per trovar poscia una qualche prammatica spiegazione al sorgere di
certe agitazioni comunistiche, e per dichiarare da ultimo le
vicende assai oscure della eroica vita di Fra Dolcino. Fu certo
intento mio d'essere e rimanere marxista; ma non posso non
prendere sotto la mia responsabilità personale le cose che
dissi a mio rischio e pericolo, perché le fonti su le quali
mi toccava di lavorare son quelle che maneggiano tutti gli altri
storici, d'ogni altra scuola o indirizzo, e a Marx non aveva
niente da chiedere, poiché lui non aveva niente da offrirmi
nella fattispecie.
Mi par quasi di aver risposto sufficientemente - sebbene per altri
rispetti mi tocchi di continuare - alla domanda principale che
ricorre non solo nella vostra Prefazione, alla quale io
specialmente mi riferisco, ma in parecchi dei vostri scritti
inseriti nel “Devenir Social”. La vostra domanda s'aggira sempre
su questo punto: per quali ragioni il materialismo storico ebbe
fino ad ora così poca diffusione e così scarso
sviluppo?
Con riserva delle cose che dirò in seguito - guardate che
bella minaccia di ulteriore seccatura io vi faccio - voi non
dovreste trovar fatica a rispondere ad un'altra domanda, che vi
siete fatta, specie nello scrivere ceste recensioni, e che suona a
un di presso così - almeno in tali termini la tradurrei io
-: come va che in tale imperfetta cognizione ed elaborazione del
marxismo, tanti si sono affannati a completarlo, ora con Spencer,
ora col positivismo in genere, ora con Darwin, ora con ogni altro
ben di dio, dando segno di volere, chi sa mai, o italianizzare, o
infranciosare, o russificare il materialismo storico; mostrando,
vale a dire, di dimenticare due cose, che questa dottrina reca in
se stessa le condizioni e i modi della sua propria filosofia, ed
è, cosi nella origine come nella sostanza, intimamente
internazionale?
Ma anche per questo riguardo mi tocca di continuare.
III.
Roma, 10 maggio '97
Se i due autori del socialismo scientifico (- adopero cotesta
espressione non senza tema, che il mal uso che se ne va facendo
possa averla resa in certo qual modo presso che risibile specie
quando è usata a significare un certo che di scienza
universale -) fossero stati, non dirò santi di vecchia
leggenda, ma per lo meno facitori di progetti e di sistemi, che
per la forma classica dai precisi contorni si prestassero alla
facile ammirazione! Nossignore: essi furono critici e polemisti,
non solo nello scrivere, ma perfino nell'atto d'operare, e non
esibirono mai le proprie persone loro e le proprie idee ad
esemplare od a modello: dichiararon sì le cose stesse,
ossia i procedimenti storico-sociali, in senso rivoluzionario, ma
con animo di chi non misuri i grandi rivolgimenti storici alla
stregua della personale e fantastica impulsività. Inde le
irae di molti! Fossero stati per lo meno di quei professori
umanissimi, che scendono di tanto in tanto dal piedistallo, per
onorare di loro consigli il misero e meschino popolo, atteggiati,
or d'un modo or d'un altro, a protettori e mecenati della question
sociale! Tutt'all'incontrario: - identificando se stessi con la
causa del proletariato, essi furono tutt'una cosa sola con la
coscienza e con la scienza della rivoluzione proletaria.
Rivoluzionarii per ogni rispetto compiuti (ma non passionati e
passionali), pur nondimeno non suggerirono mai, né piani
combinatorii, né artificii politici, mentre del resto
spiegavano teoreticamente e aiutavano praticamente la nuova
politica, che il nuovo movimento operaio indica e precisa come una
necessità attuale della storia. In altre parole, e
può sembrare quasi incredibile, furon qualcosa di diverso e
di più che dei semplici socialisti: e di fatti, molti non
più che semplici socialisti, o rivoluzionarii ancor
più semplici, li ebbero spesso, non dirò in
sospetto, ma di certo in uggia e in avversione.
Non ci sarebbe da finirla a volerle enumerar tutte le cagioni, che
per lunghi anni ritardarono la discussione obiettiva del marxismo.
Voi sapete bene che in Francia il materialismo storico è
tutt'ora trattato da parecchi scrittori, che pur sono nell'ala
sinistra dei partiti rivoluzionarii, non come usa di un portato
dello spirito scientifico, sul quale la critica che attinga alla
scienza abbia, come ha di fatto, l'indubitabile diritto di
esercitarsi, ma come tesi personale di due scrittori, che, per
notevoli o grandi che si fossero, rimangon sempre due fra gli
altri capiscuola del socialismo, per es., due fra i tanti X…
dell'universo! Per spiegarmi meglio, dirò, che contro di
questa dottrina non si levarono soltanto tutte quelle buone o
cattive ragioni, le quali di solito tornan di ostacolo e d'indugio
alle innovazioni del pensiero, proprio fra i dotti di mestiere;
perché assai spesso, anzi, le obiezioni nacquero da uno
speciosissimo motivo, che cioè le teorie di Marx e di
Engels fossero considerate come opinioni di compagni, e misurate
quindi al sentimento di simpatia o di antipatia pratica che quei
compagni destavano. Ecco le bizzarre conseguenze della democrazia
prematura, che non ci sia dato di sottrarre proprio nulla al
controllo degl'incompetenti, nemmeno la logica!
Ma c'è dell'altro. All'apparizione del primo volume del
Capitale nel 1867, i professori e gli accademici, specie quei di
Germania, n’ebbero come un grave colpo sul capo. Era quello un
tempo di languore per la scienza economica. La scuola storica non
avea ancora prodotto in Germania i ponderosi e spesso utili lavori
venuti in luce più tardi. In Francia, in Italia, nella
Germania stessa, menavano vita rachitica i derivati volgarissimi
di quella economia vulgaris, che fra il '40 e il '6o avea
già obliterata la coscienza critica dei grandi economisti
classici. L'Inghilterra s'era acquetata in Stuart Mill; il quale,
sebbene fosse un loico di professione, come accade d'un noto tipo
della nostra commedia, fra il sì e il no rimase sempre, nei
punti decisivi, del parer contrario. Nessuno avrebbe pensato a
quel tempo a questa neo-economica degli edonisti, sorta ora assai
di recente. In Germania, dove, per ragioni evidenti, prima che
altrove Marx dovea esser letto, e dove Rodbertus rimaneva quasi
ignorato, spadroneggiavano i genii della mediocrità, e
sopra tutti gli altri quel famoso emarginatore di note erudite e
minute, via via apposte a paragrafi pieni zeppi di definizioni
nominali e spesso insensate, che fu il signor Roscher.
Il primo volume del Capitale
parea proprio fatto a posta per preparare ai cervelli dei
professori e degli accademici una triste delusione: essi, i dotti
en titre, proprio nel privilegiato paese dei pensatori, dovean
tornare a scuola! O smarriti nei minuti particolari della
erudizione, o vogliosi di convertire l'economia in una scuola di
apologetica, o imbarazzati a trovare le plausibili applicazioni di
una scienza venuta d'oltre mare alla vita assai difforme del
proprio paese, tutti cotesti professori della terra dei dotti per
eccellenza aveano dimenticata l'arte dell'analisi e della critica.
Il Capitale li costringeva a studiar daccapo; cioè a
rifarsi su gli elementi primi. Perché quel libro,
quantunque uscito dalla penna di un comunista estremo e risoluto,
non recava tracce in sé di proteste o di progetti
subiettivi, ma era l'analisi spietatamente rigorosa e crudelmente
obiettiva del processo della produzione capitalistica. Nel
giornalista rivoluzionario del 1848, nell'espatriato del 1849
c'era, dunque, qualcosa di assai più terribile che non la
continuazione o il complemento di quel socialismo, che la
letteratura borghese di tutto il mondo avea definito sogno da
trapassati, e vicenda politica esaurita del tutto, dopo la caduta
del Cartismo, e dacché trionfava in Francia il sinistro
uomo del Colpo di stato. Bisognava, dunque, ristudiare l'economia:
cioè, questa rientrava in un periodo critico.
A onor del vero, i professori di Germania, più tardi, e
cioè dal '70 in poi, e con crescendo dall'80 in qua, alla
revisione critica dell'economia ci hanno atteso con la diligenza,
con la persistenza, con la buona volontà, con la
laboriosità, che i dotti di quel paese rivelan sempre in
ogni ramo di studii. Sebbene quello che scrivono non possa esser
quasi mai accettato senz'altro da noi, gli è nondimeno
indubitato, che per opera loro fu rimosso nuovamente il terreno
dell'economia, fra quelli che la coltivano da professori e da
accademici, e che questa disciplina non può esser
più ora mandata a mente come una ovvia pigrorum doctrina.
Da ultimo, il nome di Marx è diventato tanto fashionable,
da risuonare nelle aule accademiche qual tema prediletto di
critica, di polemica e di rimando, e non più di semplice
rimpianto e di volgare invettiva. Del ricordo di Marx è
tutta inficiata al presente la letteratura sociale della Germania.
Ma ciò non potea accadere nel 1867. Il Capitale venne alla luce
proprio in quel tempo, nel quale la Internazionale cominciava a
far parlar di sé, e a breve andare apparve terribile, non
solo per quello che intrinsecamente essa fu, e per ciò che
sarebbe di fatti diventata, senza il grave colpo che le venne
dalla guerra franco-prussiana e dal tragico incidente della
Comune, ma anche per le focose amplificazioni di alcuni dei suoi
componenti, e per le mene stupidamente rivoluzionarie di parecchi
che v'entrarono da intrusi. Non era forse notorio che l’Indirizzo
inaugurale dell’Associazione dei Lavoratori (del quale Indirizzo
non è socialista che non abbia tuttora qualcosa da
imparare) era uscito dalla penna di Marx; e non s’avea forse
ragione di attribuire a lui gli atti e le deliberazioni più
praticamente e politicamente risolute della Internazionale stessa?
Ora, mentre un rivoluzionario di indubitata lealtà e di
singolare acume, quale fu Mazzini, potea permettersi di confondere
la Internazionale, cui Marx rivolgeva l'opera sua, con l'Alleanza
Bakuniniana, che maraviglia c’è, se i professori tedeschi
s'indugiassero tanto ad entrare nelle vie di una critica
dottrinale con l'autore del Capitale? Com'era possibile di venire
così presto a patti di discussione, a tu per tu, con un
uomo, che, mentre era, per così dire, impiccato in effigie
in tutte le leggi d'eccezione a uso Favre e consorti, ed era
tenuto qual complice morale di tutti gli atti dei rivoluzionarii,
compresi gli errori e le stravaganze di costoro, proprio nel
medesimo tempo dava alla luce un libro magistrale, qual novello
Ricardo, che studii impassibile i procedimenti economici, more
geometrico? Di qui un curioso metodo di polemica, cioè una
specie di processo alle intenzioni dell'autore; cioè il
tentativo di dare a credere, che quella scienza fosse stata, come
a dire, escogitata per colorire delle tendenze: insomma, per molti
anni, la polemica tendenziosa sostituita all'analisi obiettiva.
Ma il peggio gli è, che gli effetti di cotesta critica
grossolanamente errata si fecero sentire proprio nelle menti dei
socialisti, e specie in quelle della gioventù
intellettuale, che fra il '70 e l'80 si volse alla causa del
proletariato. Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo
lì, - e in Germania la cosa è più chiara,
perché ha lasciato tracce di sé nelle polemiche del
partito, e nella minuta letteratura - si misero su la via di
proclamarsi seguaci delle teorie marxiste, pigliando proprio per
moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli
avversarii. Il caso più paradossale di tutta la
equivocazione sta in questo: che i correnti alle facili illazioni,
come capita anche ora ai novellini, mescolando allora cose vecchie
a cose nuove, credessero, che la teoria del valore e del
sopravvalore, come si presenta di solito semplicizzata in facili
esposizioni, contenga hic et nunc il canone pratico, la forza
impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di
tutte le rivendicazioni proletarie. Non è forse una grande
ingiustizia, che milioni e milioni di uomini sian privati del
frutto del loro lavoro?
L'enunciato è tanto semplice e tanto pietoso, che tutte le
nuove bastiglie dovranno cadere d'un tratto innanzi alle nuove
trombe di Gerico, scientificamente intonate! Concorrevano in
cotesta così spiccia semplificazione molti degli errori
teorici di Lassalle; così quelli che gli furon proprii per
relativa inscienza (- la legge ferrea del salario! ossia una mezza
verità relativa che diventa un totale errore, per manco di
circostanziata specificazione -), come quelli che possono dirsi,
nel caso suo, espedienti da agitatore (- le famose cooperative
sussidiate dallo stato -). Del resto, per chi si metta su la via
di confinare tutta la profession di fede del socialismo nella
semplicissima illazione, dallo sfruttamento riconosciuto, alla
rivendicazione, sicura solo perché legittima, degli
sfruttati, non ha che a fare un passo sul terreno assai liscio
della logichetta, per ridurre tutta la storia del genere umano ad
un caro di coscienza, e lo svolgersi successivo di tante forme di
vita sociale come a tante variazioni di un continuato errore di
contabilità.
Fra il '70 e l'80, e poco dopo, insomma, si andò formando
intorno al vago concetto di un certo che, ossia del socialismo
scientifico, una specie di neoutopismo, che, come i frutti fuor di
stagione, fu veramente insipido. E che altro è l'utopismo,
cui manchi il genio di Fourier e l'eloquenza di
Considérant, se non cosa da ridere? Di questo neoutopismo,
che rifiorisce di tanto in tanto anche al presente, se ne sa non
poco in Francia: se non altro per le lotte sostenute con altre
sette e scuole da quei valorosi dei nostri amici, che nel
programma del partito operaio rivoluzionario intesero e seppero
pei primi condurre il socialismo su la linea della cosciente lotta
di classe, e della progressiva conquista del potere politico da
parte del proletariato. Solo nell'esperienza di tale giostra
pratica, solo nello studio cotidiano della lotta di classe, solo
nella prova e riprova delle forze proletarie raccolte già
in fascio e concentrate, ci è dato di verificare, les
chances del socialismo: se no, si è e si rimane utopisti,
anche nel riverito nome di Marx.
Contro di cotesti neoutopisti, non altrimenti che contro i
sopravvissuti delle vecchie scuole, e contro le varie deviazioni
del socialismo contemporaneo, i due nostri autori aguzzaron sempre
e di continuo gli strali della critica. Come nella loro lunga
carriera fecero della loro scienza la guida della loro pratica, e
dalla loro pratica trassero materia e indicazione ad una
più approfondita scienza, come non trattaron mai la storia
qual cavallo da inforcare e da mettere al trotto, né si
dettero alla ricerca di formule atte a destare le momentanee
illusioni; così furono, per la necessità delle cose,
portati a misurarsi in critica aspra, violenta, risoluta, con
tutti quelli, che agli occhi loro apparivano capaci di nuocere al
movimento proletario. Chi non ricorda? - i proudhonisti per
esempio, di qua, con la pretesa di distruggere lo stato
astraendone ad arte, come chi chiuda gli occhi e finga di non
vedere; - di là quei blanquisti d'un tempo, che lo stato
voleano togliersi in mano per forza, per poi fare la rivoluzione;
- e Bakunin che si caccia surrettiziamente nell'Internazionale, e
costringe gli altri a scacciarnelo; - e poi di qua e di là
la pretesa delle tante scuole del socialismo, e la concorrenza di
tanti capitani!
Da che Marx stritolò in una verbale polemica l'ingenuo
Weitling, fino alla sua terribile critica del programma di Gotha
(1875), apparsa poi invero assai tardivamente (1890), la sua vita
fu una continua lotta, non solamente con la borghesia e con la
politica che questa rappresenta, ma ancora con le varie correnti,
o rivoluzionarie o reazionarie, che a torto o per rovescio sono
andate pigliando il nome di socialismo. Queste lotte si acuirono
nella Internazionale, e dico di quella di gloriosa memoria, che
lascia fino ad oggi traccia così grande di sé in
tutta l'azione odierna del proletariato, e non della caricatura
che se ne fece dappoi. Lo strascico maggiore di polemiche contro
il marxismo, ridotto, nella fantasia di certi critici, ad una
semplice varietà di scuola politica, è dovuto alla
tradizione di quei rivoluzionarii, che, specie nei paesi latini,
riconobbero in Bakunin il loro duce e maestro. Gli anarchisti di
oggi, che altro ripetono se non le querimonie e gli errori di quei
tempi andati?
Forse venti anni addietro, fatta eccezione di quei dotti, che
rimasticano a casa le cose lette nei libri, dei due fondatori del
socialismo scientifico la generalità del pubblico italiano
non risapea, se non quel tanto che s'era serbato, per memoria,
delle invettive di Mazzini e delle malignazioni di Bakunin.
Ed ecco come il comunismo critico, che cosi tardi è stato
ammesso agli onori della discussione nella cerchia della scienza
ufficiale, ha avuto contro di sé, nel campo del socialismo
stesso, la più grave delle avversità: la inimicizia
degli amici.
Tutte coteste difficoltà, o furono già superate, o
sono in buona parte prossime a sparire.
Non per la virtù intrinseca delle idee, che non ebbero mai
né piedi per andare, né mani per afferrare, ma per
il solo fatto, che, da per tutto dove son nati dei partiti
socialistici, i programmi di questi partiti sono andati assumendo
un comune indirizzo, è da ultimo accaduto, che i socialisti
di tutti i paesi sian venuti a collocarsi, per la imperiosa
suggestione delle cose, nell'angolo visuale del Manifesto dei
Comunisti. Non vi pare che io sia giunto in tempo opportuno a
scrivere la commemorazione di questo? Le classi degli sfruttatori
van facendo alla massa degli sfruttati in ogni parte del mondo
condizioni quasi da per ogni dove identiche: ond'è, che da
per tutto i rappresentanti attivi di questi sfruttati entrano
nelle medesime vie di agitazione, e seguono gli stessi criterii di
propaganda e di organizzazione. Ciò molti chiamano marxismo
pratico e sia! Che giova di litigar su le parole?
Quando anche il marxismo per molti si riduca alla semplice
parola, anzi alla riverenza per il ritratto di Marx, per il suo
busto in gesso, o per la sua effigie sul ciondolo (- su cotesti
innocenti simboli la polizia italiana esercita così spesso
il suo buon umore -), il fatto è che cotesta unità
simbolica sta a significare, che l'unirà reale è per
lo meno avviata, e che il proletariato di tutto il mondo è
in atto di avvicinarsi, poco per volta, ad una certa
similarità di tendenze; ossia che in esso la
internazionalità si elabora di lunga mano per ragioni
obiettive. Coloro che usano il linguaggio dei decadenti della
borghesia, scambiando, com'è loro uso, la cosa col simbolo,
vanno ora dicendo, che questo è il trionfo del signor Marx;
tal quale come se altri dicesse, che il cristianesimo è il
trionfo (e perché non dire a dirittura il successo?) del
signor Gesù di Nazaret; di un signor Gesù, che,
deposto e destituito dalla qualità di figlio di dio fattosi
uomo, divenga, come nello stile tra il molle e lo sdilinquito del
vostro Renan un uomo così fanciullescamente divino da
parere un iddio.
Innanzi a questo esperimento intuitivo della politica del
socialismo, il che è quanto dire della politica del
proletariato, son cadute le vecchie divergenze delle scuole,
alcune delle quali erano in fatto divarii e screziature di
vanità letteraria, per cedere il posto alle utili
divergenze, che nascono spontanee dal vario modo di trattare i
problemi pratici. Nel fatto, in concreto, ossia nello svolgimento
positivo e prosaico del socialismo, poco importa se tutti i suoi
capi, condottieri, oratori e rappresentanti si conformino o non si
conformino ad una dottrina, e ne facciano o non ne facciano
professione palese. Il socialismo non è una chiesa,
né una setta, cui occorra il dogma o la formula fissa. Se
oggi da molti si parla del trionfo del marxismo, cotesta enfatica
espressione, quando sia ridotta ad una forma crudamente prosaica,
viene a dire che nessuno può essere d'ora innanzi
socialista, se non a patto di domandarsi ogni istante: in questa
data situazione, che cosa conviene di pensare, di dire o di fare
nell'interesse del proletariato? Non saran più possibili i
dialettici, che siano in verità dei sofisti, come fu
Proudhon, né gl’inventori di sistemi sociali subiettivi,
né i facitori di rivoluzioni private. La indicazione
pratica del fattibile è data dalla condizione del
proletariato, e questa è apprezzabile e misurabile appunto
perché c'è la stregua del marxismo (intendo qui la
cosa effettuale e non il simbolo) come dottrina progressiva. Le
due cose, ossia il misurabile e la misura, fanno uno dal punto di
vista generale del processo storico, specie quando siano
considerate a conveniente distanza.
E vedete di fatti, che, mentre i contorni del socialismo come
azione pratica si vanno precisando, tutte le antiche poesie e
ideologie si disperdono, lasciando dietro di sé la semplice
traccia fraseologica. Al tempo stesso è cresciuto nel campo
della scienza accademica, per tutti i versi e in tutti i sensi, il
criticismo della dottrina economica. L'esule Marx è
tornato, dopo morto, nell'ambito della scienza ufficiale; per lo
meno come avversario col quale non sia lecito di scherzare. E come
per tante vie i socialisti sono arrivati alla coscienza prosaica
di una rivoluzione, che non può esser macchinata, ma che si
fa perché diventa, così s'è andato lentamente
preparando il pubblico, per il quale il materialismo storico
risponde a un vero e proprio bisogno intellettuale. Negli
ultimissimi anni, come vedete, furon molti quelli che in questa
dottrina han messo bocca; sia pur male, od a sproposito. Dunque,
se guardate bene, non si arriva in ritardo. Da giovane io sentii
più volte ripetere questa storiella, che, cioè,
Hegel dicesse: un solo dei miei scolari mi ha capito. La storiella
non si presta a verifiche, perché quel tale scolaro
verissimo non fu fino ad ora identificato. Questa storiella
può ripetersi all'infinito, da sistema a sistema, e da
scuola a scuola. Come in fatto di attività intellettuale
non c'è luogo alla suggestione, e come il pensiero non si
trasfonde meccanicamente da cervello a cervello, così i
grandi sistemi non si diffondono, se non per la similarità
delle condizioni sociali, che vi dispongano e v'inclinino molte
menti in uno e medesimo tempo.
Il materialismo storico si allargherà, si
diffonderà, si specificherà, avrà esso stesso
una storia. Forse da paese a paese avrà modalità e
colorito diverso. E ciò non sarà gran male;
purché rimanga in fondo il nocciolo, che n'è, come a
dire, tutta la filosofia. Per es., dei postulati come questi: -
nel processo della praxis è la natura, ossia l'evoluzione
storica dell'uomo: - e dicendo praxis, sotto questo aspetto di
totalità, s'intende di eliminare la volgare opposizione tra
pratica e teoria: - perché, in altri termini, la storia
è la storia del lavoro, e come, da una parte, nel lavoro
così integralmente inteso è implicito lo sviluppo
rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini
mentali e delle attitudini operative, così, da un'altra
parte, nel concetto della storia del lavoro è implicita la
forma sempre sociale del lavoro stesso, e il variare di tale
forma: - l'uomo storico è sempre l'uomo sociale, e il
presunto uomo presociale, o supersociale, è un parto della
fantasia: - e così via.
E... qui faccio punto, principalmente per non ripetermi, e per non
ripetere a voi buona parte delle cose che ho messo nei due saggi:
- del che voi non sentite, mi pare, il bisogno, e io, veramente,
nemmeno.
IV.
Roma, 14 maggio '97
Mi pare - tanto per tornare al primitivo argomento - che a voi
stia in cima dei pensieri questa domanda: per quali vie, e in
quali modi, sarebbe dato di avviare in Francia una scuola del
materialismo storico? Non so se sia lecito a me di rispondere al
quesito, senza aver l'aria di gareggiare con quei giornalisti di
vecchio stampo, i quali davano, tanto sicuri di sé,
consigli all'Europa, col grave rischio di rimanere, e difatti
rimanevano, quasi sempre inascoltati. Mi ci proverò
modestamente.
Innanzi tutto mi sembra non debba esser cosa difficile si trovino
in Francia editori e librai, i quali stampino e diffondano delle
accurate traduzioni degli scritti di Marx, di Engels, e di quanti
altri occorra. Sarebbe, per cominciare, il cominciamento migliore.
Capisco che nell'arte del tradurre si va incontro a delle curiose
difficoltà. Sono oramai trentasette anni dacché
leggo in tedesco, e m'è parso sempre di osservare, che a
noi popoli di lingue latine capiti addosso uno strano smarrimento
delle attitudini linguistiche e letterarie, quante volte
traduciamo da quell'idioma. Ciò che in tedesco è
vivo, trasparente, efficace, diventa assai spesso, per es., in
italiano, frigido, senza rilievo, e qualche volta a dirittura come
di gergo. In coteste traduzioni, parlo s'intende delle comuni e
correnti, va perduto, con gli effetti della insinuazione,
l'affiato della persuasiva. In un vasto lavoro di
popolarizzazione, com'è quello cui accenno, occorrerebbe,
salva sempre la integrità testuale degli scritti da
tradurre, che le prefazioni, le note, i commenti offrissero i
surrogati a quel facile processo di assimilazione, che è
implicito e pronto già nelle scritture, le quali sian
native del paese stesso.
Le lingue non sono, in verità, le accidentali varianti
dell’universale volapük; e, anzi, sono assai più che
dei semplici mezzi estrinseci di comunicazione e di significazione
del pensiero e dell'animo. Son condizioni e limiti
dell'attività nostra interiore, la quale ha per ciò,
come per tante altre ragioni, modi e forme nazionali non di mero
accidente. Se ci sono internazionalisti che ciò ignorino,
costoro han da chiamarsi a dirittura confusionisti ed amorfisti;
come quelli che ritraggono i loro insegnamenti, non dai vecchi
apocalittici, ma da quello speciosissimo Bakunin, che invocava per
fino la egalizzazione dei sessi. Dunque, nella assimilazione delle
idee, dei pensieri, delle tendenze, dei propositi, che sian venuti
a maturità di espressione letteraria in terreno di lingue
straniere, c'è come un caso alquanto scabroso di pedagogica
sociale.
E, giacché cotesta espressione m’è uscita dalla
penna, permettetemi io vi contessi, che quando io esamino
dappresso la storia precedente e le presenti condizioni della
Socialdemokratie tedesca, non è l'incremento continuo dei
successi elettorali che mi riempia proprio principalmente l'animo
di ammirazione e di viva speranza. Più che almanaccare su
quei voti come arra dell'avvenire, secondo i calcoli qualche volta
fallaci della illazione e della combinatoria statistica, mi sento
ripieno di viva ammirazione per questo caso veramente nuovo ed
imponente di pedagogica sociale: e, cioè, che in
così stragrande numero di uomini, e segnatamente di operai
e di piccoli borghesi, si formi una coscienza nuova, nella quale
concorrono, in egual misura, il sentimento diretto della
situazione economica, che induce alla lotta, e la propaganda del
socialismo, inteso come meta o punto d'approdo. Questa divagazione
mi fa nascere un ricordo. Io fui qui in Italia, o il primo, o
certo fra i primi, a richiamare, con lo scritto e con la parola,
più volte e insistentemente, l'attenzione di quella parte
degli operai nostri, che erano e son capaci di muoversi su la
linea della moderna lotta proletaria, verso l'esempio della
Germania. Ma... non mi passò mai per il capo di credere,
che l'imitazione dispensi alcuno dalla spontaneità: non mi
son mai sognato si dovesse seguire l'esempio di quei frati e
preti, che furon per secoli i quasi esclusivi educatori
dell'Italia già decaduta, e allegramente fabbricavano i
poeti, dando ad imparare a mente l'Arte poetica di Orazio. Sarebbe
curioso, che tu, benemerito, operosissimo e sagacissimo Bebel,
apparissi qui fra noi in veste di novello Orazio! - ne
strabilierebbe perfino il mio amico Lombroso, che odia il latino
più della pellagra.
C'è delle altre difficoltà più intime, in
breve, e di maggior portata e di maggior peso. Dato pure il caso
che editori e librai, abili e solerti, si dessero la briga di
diffondere, non che nella sola Francia, negli altri paesi civili
ancora, le traduzioni di tutti gli scritti del materialismo
storico, ciò varrebbe solo a stimolare, ma non già a
formare e fermare nelle rispettive nazioni le energie fattive, che
producono e tengono in rigoglio un indirizzo del pensiero. Pensare
è produrre. Imparare è produrre riproducendo. Noi
non sappiamo bene e davvero, se non ciò che noi stessi siam
capaci di produrre, pensando, lavorando, provando e riprovando; e
sempre per virtù delle forze che ci son proprie, nel campo
sociale e dall'angolo visuale in cui ci troviamo.
E poi la Francia, con la sua grande storia, con la sua
letteratura, che fu così dominante per secoli, con la sua
ambizione patriottica, e con quella sua così propria
differenziazione etnico-psicologica, che si riflette per fino nei
prodotti più astratti del pensiero! Non starò
proprio, io italiano, ad assumermi le parti di difensore di quei
vostri sciovinisti, ai quali voi infliggete così meritato
biasimo. Ma ricordiamo pure ciò che accadde nel secolo
passato. Il pensiero rivoluzionario derivò da più
parti del mondo civile, dall'Italia, dall'Inghilterra, dalla
Germania, ma non fu europeo, se non a patto di plasmarsi in
ispirito francese; e la rivoluzione europea fu la rivoluzione
francese. Questa gloria imperitura della vostra nazione pesa, come
tutte le glorie su la nazione stessa, quale incubo di radicato
pregiudizio. Ma i pregiudizii non sono anch'essi delle forze, se
non altro in quanto sono degl'impedimenti? Parigi non sarà
più il cervello del mondo; anche perché il mondo non
ha cervello, se non nella fantasia di certi speciosi sociologisti.
Né Parigi è tuttora, né sarà
più in avvenire, la santa Gerusalemme dei rivoluzionarii
d'ogni parte del mondo - come parve un tempo che fosse. Già
la futura rivoluzione proletaria non avrà niente che la
riavvicini ad apocalittico millennio: e poi, oggi, i privilegi son
finiti non meno per le nazioni che per gl'individui.
Così giustamente osservava l'Engels; e del resto varrebbe
la pena che i francesi leggessero ciò che egli scriveva nel
1874 a proposito dei blanquisti, aizzanti all'immediata riscossa
proprio a poco andare dalla catastrofe della Comune. Ma tutto
sommato... e fatto calcolo delle condizioni proprie
dell'agricoltura e dell'industria francese, le quali han ritardato
per tanto tempo la concentrazione del movimento operaio, e data
pure la sua buona parte di torto ai varii capisetta e capiscuola,
che tennero per così gran tempo scisso e spartito il
socialismo francese, sta sempre il fatto, che il materialismo
storico non potrà farsi strada fra voi, finché
avrà l'aria d'essere il semplice elaborato mentale dei due
tedeschi di grande ingegno. Con questa espressione Mazzini appunto
acuiva i risentimenti nazionali contro i due autori; i quali, da
comunisti e materialisti com'erano, parean fatti a posta per
iscombussolare l'idealistica formula di patria e dio.
Fu per questo rispetto quasi tragica la sorte dei due fondatori
del socialismo scientifico. Passarono più volte pei due
tedeschi agli occhi di tanti, che furon sciovinisti per fino fra i
rivoluzionarii, anzi passarono per organi del pangermanismo nelle
invettive di quel Bakunin, che ebbe l'animo così disposto
ad inventare... per non dir altro: essi, i due tedeschi, che nella
patria, dalla quale usciron da esuli fin dagli anni della prima
gioventù, incontrarono lo studiato silenzio di quei
professori, ai quali è atto di patriottismo l'esercizio del
servilismo! Quei professori, in fondo, si vendicavano. Difatti nel
Capitale, nel quale tutta la trattazione s 'inradica nelle
tradizioni della economia classica, non esclusi gli scrittori
ingegnosi e spesso geniali che ebbe l'Italia nel secolo XVIII, non
si parla se non con sovrano disprezzo dei signori Roscher e
compagni. Engels, che con tanta cura e con tanta abilità di
ampliamenti espositivi si sforzò di rendere popolari i
resultati delle ricerche dell'americano Morgan, chiuso com'era
nella persuasione, che ciò che egli giustamente chiamava
filosofia classica fosse giunta alla sua dissoluzione in
Feuerbach, scrivendo l'Antidühring mostrò noncuranza,
dirò francamente eccessiva, per la filosofia contemporanea
(- noncuranza spiegabile in lui, ma non scusabile, anzi ridicola,
negli altri socialisti, che per imitazione l'affettano -), ossia
per la neocritica dei suoi connazionali.
Cotesta sorte tragica fu come insita alla missione loro. Essi
furon con l'animo e con la mente rivolti del tutto alla causa del
proletariato d'ogni nazione: e perciò i prodotti della
scienza loro hanno in ogni nazione quel pubblico soltanto, che vi
si vada reclutando tra quelli che sian capaci di una consona
rivoluzione intellettuale. In Germania, ove per condizioni
storiche speciali, e soprattutto perché la borghesia non
v'è mai riuscita a spezzare per intero la compagine
dell'Ancien Régime (vedete che quell'imperatore può
tenervi impunemente il linguaggio d'un vice-nume, e non è
poi in verità che un Federico Barbarossa fattosi commesso
viaggiatore dell'in German made), la democrazia sociale s'è
ridotta e fermata in serrata falange, era ben naturale che le idee
del socialismo scientifico trovassero favorevole il terreno alla
normale e progressiva diffusione loro. Ma nessuno dei socialisti
tedeschi - spero almeno - si sognerà mai di considerare le
idee di Marx e di Engels al semplice ragguaglio dei diritti e dei
doveri, dei meriti e dei demeriti, dei Camarades de Parti. Ecco
per es. che cosa Engels scriveva, e non è gran tempo:
Si noterà come in tutti
questi articoli io mi chiami, non democratico-sociale, ma
comunista. E ciò perché a quel tempo si davano il
nome di democratici sociali, in molti paesi, di quelli che non
aveano scritto su la loro bandiera l'appropriazione di tutti i
mezzi di produzione da parte della società. Per
democratico-sociale s'intendeva in Francia un repubblicano
democratico, che avesse delle simpatie più o meno
genuine, ma che rimanevano pur sempre indeterminate, per la
classe operaia; gente, insomma, come Ledru-Rollin del 1848, e
come i radicali socialisti del 1874, che erano intinti di
proudhonismo. In Germania chiamavansi democratici-sociali i
lassalliani: ma, sebbene la gran massa di essi andasse a grado a
grado riconoscendo la necessità della socializzazione dei
mezzi di produzione, pur nondimeno le cooperative di produzione,
sussidiate dallo stato rimanevano il punto essenziale del
programma del partito nella sua azione pubblica. Era dunque per
me e per Marx assolutamente impossibile di scegliere un termine
di tale elasticità a designazione dei nostro specifico
punto di vista. Oggi è tutt'altro, e la parola può
passare; sebbene sia pur sempre disadatta a significare un
partito il cui programma è, non genericamente
socialistico, ma direttamente comunistico, e la cui finale meta
politica è di superare ogni forma di stato, e quindi
anche la democrazia.
I patrioti - e non uso punto a dileggio cotesta parola - hanno, mi
pare, di che consolarsi e confortarsi. Non è detto in
conclusione che il materialismo storico sia il patrimonio
intellettuale di una sola nazione, o che debba rimanere in
privilegio d'una clique, d'una consorteria o d'una setta. Esso,
innanzi tutto, appartiene nella sua origine obiettiva alla
Francia, all'Inghilterra e alla Germania, in eguale misura. Non
starò qui a ripetere ciò che dissi in altra lettera,
della forma di pensiero che derivossi nella mente dei nostri due
autori per lo stadio a cui era giunta, nella loro giovinezza, la
coltura intellettuale dei tedeschi, e la filosofia in ispecie,
mentre l'hegelismo appunto, o si perdeva nei rigagnoli di una
nuova scolastica, o dava luogo ad un nuovo e più poderoso
criticismo. Ma era pur lì la grande industria inglese con
tutte le miserie che l'accompagnavano, e col contraccolpo
ideologico di Owen, e con quello pratico dell'agitazione cartista.
Ma eran pur lì le scuole del socialismo francese, e la
tradizione rivoluzionaria dell'Occidente, che si derivava
già nelle forme del comunismo d'indole modernamente
proletaria.
Che cos'è il Capitale,
se non la critica di quella economia, che, come rivoluzione
pratica e come rappresentazione teorica di questa stessa
rivoluzione, era venuta a piena maturità nella sola
Inghilterra, fin verso il '60, e in Germania cominciava appena?
Che cosa è il Manifesto
dei Comunisti, se non la chiusa e la esplicazione del
socialismo, o latente, o palese nei movimenti operai di Francia e
d'Inghilterra? Ma tutte queste cose furono continuate e portate a
compimento di critica, la filosofia di Hegel non esclusa, con
quella critica immanente, che è la dialettica con le sue
inversioni; ossia, per via di quel negare, che non è
contenziosa e avvocatesca contrapposizione di concetto a concetto,
di opinione ad opinione, ma che invece invera ciò che nega,
perché in ciò che nega e supera, trova o la
condizione (di fatto), o la premessa (concettuale) del procedere
stesso.
Francia e Inghilterra possono ripigliare, senza parere che
compiano un atto di mera imitazione, la loro parte nella
elaborazione del materialismo storico. Perché i francesi
non avrebbero oramai da scrivere dei libri veramente critici su
Fourier e Saint-Simon, in quanto furono, e nella misura in cui
furono, veri precursori del socialismo contemporaneo? Non
c’è occasione a lavorare letterariamente sui moti
rivoluzionarii dal 1830 al 1848, in modo si veda, che la dottrina
del Manifesto non fu la
negazione di quelli, ma il loro aboutissant è risolvente? A
riscontro di quel 18 Brumaio
di Marx, che, pur essendo uno scritto genialissimo, e nell'intento
suo insuperabile, riman sempre un opuscolo di occasione e di tinta
pubblicistica, non sarebbe il caso di comporre una meditata storia
del Colpo di stato? Ma la Comune non aspetta ancora la sua
definitiva trattazione critica? Ma la Grande Rivoluzione, intorno
alla quale esiste una letteratura colossale, quanto all'insieme, e
singolarmente minutissima quanto ai particolari, fu mai fino ad
ora trattata a fondo in tutto l'intrinseco del sommovimento delle
classi che vi presero parte, e come caso esemplare di sociologia
economica?
A farla breve, tutta la storia moderna di Francia e d'Inghilterra
non offre essa forse agli studiosi un più largo e sicuro
capitolo d'illustrazioni al materialismo storico, di quello che
non potessero fino a poco tempo fa offrirlo le condizioni della
Germania? Queste furono, nel fatto, dalla guerra dei trent’anni in
poi, grandemente intricate pei sopraggiunti impedimenti allo
sviluppo, e nelle teste di quelli, che sopra luogo le osservarono,
rimasero quasi sempre come involute in varie specie di
nebulosità ideologica - nebulosità che muoverebbe a
riso i cronisti fiorentini del secolo XIV.
Mi son fermato su questi particolari, non per darmi l'aria di
consigliere della Francia, ma per aver modo di osservare da
ultimo, che, data la forma dei cervelli di lingue latine, non
è cosa agevole il fare entrare in essi le nuove idee, se
altri s'indugi a rappresentarle esclusivamente come forme astratte
del pensiero; mentre riescono a penetrarvi, con pronto e
suggestivo effetto, quando vengano plasmate in racconti e in
esposizioni, che in qualche modo rassomiglino ai prodotti
dell'arte.
Torno per un momento su la questione del tradurre. L'Antidühring è il
libro che prima di ogni altro conviene che entri nella
circolazione internazionale. Pochi libri io conosco, che possano
stargli a paro, per densità di pensiero, per
molteplicità di punti di vista, per duttilità di
penetrazione suggestiva. Può essere una medicina mentis per
la gioventù intellettuale, che di solito si volge, incerta
di sé e con criterii assai vaghi, a ciò che
genericamente ha nome di socialismo: e così fu nel tempo in
cui apparve, come ne andò scrivendo un tre anni fa il
Bernstein, in una specie di commemorazione pubblicata nella “Neue
Zeit”. Nella letteratura socialistica rimane quello il libro
insuperato.
Ma quel libro non è tetico, anzi è antitetico. Salvo
i brani isolabili, come son quelli i quali presero corpo di
opuscolo per sé stante, che fa da un pezzo il giro del
mondo (Del passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza),
quel libro ha a suo filo conduttore la critica del signor
Dühring, in quanto ei fu inventore di una filosofia e d'un
socialismo a modo suo. Or qual persona, che non viva nella cerchia
dei professanti scienza, e quanti non tedeschi hanno proprio il
dovere d’interessarsi del signor Dühring? Ogni nazione ha,
pur troppo, i suoi Dühring. Un Engels di altra nazione, chi
sa quali altri anti-chi sa che cosa avrebbe scritto o scriverebbe.
L'effetto vero di quel libro mi pare debba esser questo su i
socialisti di altri paesi e lingue, che li abiliti a fornirsi di
quelle attitudini critiche, che giovano per iscrivere tutti gli
altri anti-x occorrenti a combattere ogni altra qualche cosa, che
imbarazzi od inficii il socialismo, in nome di tante sociologie
pullulanti d'ogni parte. Le armi e i modi della critica devono, da
paese a paese, subire la legge della variabilità e
dell'adattamento. Curare il malato e non la malattia; - in
ciò consiste la modernità della medicina.
A fare altrimenti di così, si rischia d'incorrere nella
sorte toccata agli hegeliani, che vennero su in Italia dal 1840 al
1880, e specie nel Mezzogiorno, anzi a Napoli. Furono in parte dei
semplici epigoni, ma alcuni furono pensatori di polso. Nel
tutt'insieme rappresentavano una corrente rivoluzionaria di gran
conto, a petto del tradizionale scolasticismo, dello spiritualismo
alla francese e della filosofia del così detto buon senso.
Di tal movimento pur qualcosa s'è risaputo in Francia;
perché fu uno di questi hegeliani, e non il più
profondo e forte di tutti, il Vera, che dette alla Francia appunto
le più leggibili traduzioni, con copiosissimi commenti, di
alcune delle opere fondamentali di Hegel. Di tutto quel movimento
s'è perduta ora da noi la traccia e la memoria, nel giro di
così pochi anni. Gli scritti di quei pensatori non si
trovano che dai rivenditori di anticaglie e di bagattelle
librarie. Cotesta dispersione nel nulla di tutta una
attività scientifica, non certo irrilevante, non è
solo dovuta alle vicende non sempre belle e laudabili della vita
universitaria, né al solo dilagare epidemico del
positivismo che manda qua e là frutti che paiono scienza da
demi-monde, ma a ragioni più intrinseche. Quegli hegeliani
scrissero, e insegnarono, e disputarono come se stessero, non a
Napoli, ma a Berlino, o non so dove. Conversavano mentalmente coi
loro Camarades d’Allemagne. Rispondevano dalla cattedra o negli
scritti alle obiezioni di critici noti a loro soltanto; facendo
così un dialogo, che a lettori e uditori parea monologo.
Non riuscirono a plasmare le loro trattazioni e la loro dialettica
in libri, che apparissero qual nuovo acquisto intellettuale della
nazione. Cotesto non piacevole e non lusinghiero ricordo mi stava
innanzi alla mente, quando, quasi repugnante, mi misi a scrivere
il primo dei due miei saggi di materialismo storico, ai quali ora
non c'è ragione io non ne faccia succedere degli altri. Mi
domandava più volte: ma da che parte devo rifarmi, per dir
cose, che ai lettori italiani non tornino ostiche, straniere e
strane? Mi dire che io son riuscito: e così sia. Non
sarebbe un caso singolare di scortesia, che io volessi ribattere,
ragionando, da arbitro, di me e delle lodi che voi mi fate?
Nel leggere - così scrivevo a un di presso cinque anni fa
ad Engels la Heilige Familie,
mi son ricordato degli hegeliani di Napoli, in mezzo ai quali io
vissi da giovanissimo, e mi pare di avere inteso e assaporato quel
libro, più che non possa riuscire a molti, cui mancano al
presente i dati proprii e intuitivi di quel curioso umorismo. Mi
parea di averla vista io stesso da vicino quella curiosa coterie
di Charlottenburg, da Marx e da voi così singolarmente
persiflée. Mi si ripresentava allo spirito, più che
tutti gli altri, un professore di estetica, originalissimo e
genialissimo uomo, che deduceva i romanzi di Balzac, costruiva la
cupola di S. Pietro e disponeva in serie genetica gl'istrumenti
musicali; e pian piano, di negazione in negazione, e con la
negazione della negazione, giunse da ultimo alla metafisica
dell'inconoscibile, che, ignaro come ei fu sempre dello Spencer, e
anzi a guisa di uno Spencer non glorificato, chiamò
l'innominabile. Anch'io da giovane vissi in quella specie di
palestra, e non me ne rincresce; vissi per anni con l'animo diviso
fra Hegel e Spinoza: di quello difesi, con giovanile
ingenuità, la dialettica contro lo Zeller che iniziava il
neokantismo; di questo sapevo a memoria gli scritti, e ne esposi,
con intendimento di innamorato, la teoria degli affetti e delle
passioni. Ora tutte coteste cose mi tornano nella memoria come
lontanissima preistoria. Avrò subita anch'io la mia
negazione della negazione? Voi mi spronate a scrivere di
comunismo: ma io temo sempre di far di cosa di nessun valore
quanto alle forze mie, e di poco effetto quanto all'Italia.
E lui a rispondermi...; ma qui faccio punto. Mi pare sia cosa
presso che incivile il riprodurre senza urgente ragione di
pubblico interesse, le lettere private, specie a breve tempo dalla
morte di chi le scrisse. In tutti i casi, anche stralciando da
tali lettere private ciò che può esservi di
puramente occasionale, e serbandone solo ciò che è
di dottrina e di scienza, esse fan sempre poca fede e son di poco
peso, a fronte degli scritti meditatamente destinati alla
pubblicità. Col crescere dell'interesse per il materialismo
storico, e nel difetto di una letteratura, che estesamente e
partitamente lo illustri, s'è dato il caso che Engels,
negli ultimi anni di sua vita, qual professore che non sieda in
cattedra, fosse interrogato, e anzi tormentato di continuo con
infinite domande da parte di molti, che si iscrivevano spontanei
da studenti liberi nella vagante ed eslege Università del
socialismo. Di qui le lettere che furon pubblicate, e quelle altre
molte, che son rimaste inedite. In quelle tre lettere, che il
“Devenir Social” riprodusse recentemente da una rivista di Berlino
e da un giornale di Lipsia, apparisce chiaro come fosse in lui una
certa temenza, che il marxismo diventasse troppo presto una
dottrina a buon mercato.
A molti dei professanti la scienza, non nella vagante
Università del popolo di là da venire, ma in questa
che realmente esiste nella presente società ufficiale,
capita d'esser messi fra l'uscio e il muro dagli studenti e dagli
studiosi, perché, uno pede stantes, rispondano ad ogni
quesito, come chi avesse stampata nel cervello la ragione
universale delle cose. I più vanitosi fra i professori, per
non ismentire la ieratica sacramentalità della scienza, e
come se questa consistesse del tutto nella materialità del
conosciuto, e non principalmente nella virtuosità e
correttezza formale dell'atto del sapere, rispondono difilato,
riuscendo a fare assai di sovente la satira di se stessi, da
imitatori del saporitissimo Mefistofele in maschera di maestro in
tutte e quattro le facoltà. Pochi hanno la socratica
rassegnazione di rispondere: non so, ma so di non sapere, e so che
si potrà sapere, ed io stesso potrò sapere, se
avrò compiuti gli atti di sforzo, ossia di lavoro, che
occorre per sapere, - e se mi date degli anni indefiniti, con
l'indefinita attitudine dell'applicazione metodica del lavoro, io
potrò indefinitamente saper quasi tutto.
Ed ecco in che cosa consiste quel capovolgimento pratico della
teorica della conoscenza, che è insito al materialismo
storico.
Ogni atto di pensiero è uno sforzo; cioè un lavoro
nuovo. A compierlo occorrono innanzi tutto i materiali
dell'esperienza depurata, e gl'istrumenti metodici, resi familiari
e maneggevoli dal lungo uso. Non c'è dubbio, che il lavoro
compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevoli i nuovi sforzi
diretti alla produzione di novello pensiero; in prima,
perché i prodotti precedenti rimangono obiettivati nei
mezzi intuitivi dello scritto e delle altre arti rappresentative,
e, in secondo luogo, perché l'energia in noi internamente
accumulata penetra e investe il nuovo lavoro, qual ritmo del
procedimento, nella qual cosa (ossia nel ritmo) consiste appunto
il metodo della memoria, del ragionamento, dell'espressione, della
comunicativa, e così via. Ma macchine pensanti non si
diventa mai! Tutte le volte che ci mettiamo nuovamente a pensare,
oltre che ci necessitano sempre i mezzi e gl'incentivi esterni ed
obiettivi della materia empirica, ci occorre ancora uno sforzo
adeguato per passare dagli stati più elementari della vita
psichica a quello stadio superiore derivato e complesso, che
è il pensiero, nel quale non possiamo mantenerci, se non
per atto di attenzione volontaria, che ha intensità e
durata di speciale e non sorpassabile misura.
Cotesto lavoro, che a noi si rivela nella nostra diretta ed
immediata coscienza, qual fatto, che ci concerna solo in quanto
siamo persone singole e circoscritte dalla nostra naturale
individuazione, non si avvera in ciascun di noi, se non in quanto
noi siamo appunto, nell'ambiente della convivenza, esseri
socialmente e quindi anche storicamente condizionati. I mezzi
della convivenza sociale, che sono, da un lato le condizioni e
gl'istrumenti, e dall'altro i prodotti della collaborazione
variamente specificata, costituiscono, al di là di
ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la
materia e gl'incentivi della nostra formazione interiore. Di qui
nascono gli abiti secondarii, derivati e complessi, pei quali, di
là dai termini della nostra corporea configurazione,
sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol
dire, in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una
istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria, di una
tradizione storica, e così via. In coteste correlazioni di
consociazione pratica, che corrono da individuo a individuo, han
la loro radice e hanno il loro fondamento obiettivo e prosaico
tutte quelle varie rappresentazioni ideologiche di spirito
pubblico, di psiche sociale, di coscienza etnica, e così
via, intorno alle quali, come gente che pigli per enti e sostanze
i rapporti e le relazioni, speculano, da metafisici di pessima
scuola, i sociologisti e psicologisti, che io chiamerei simbolisti
e simboleggianti. In questi medesimi rapporti pratici nascono le
comuni correnti, per le quali il pensiero individuo, e la scienza
che ne deriva, son vere e proprie funzioni sociali.
E così siamo daccapo nella filosofia della praxis, che
è il midollo del materialismo storico. Questa è la
filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Dalla vita al
pensiero, e non già dal pensiero alla vita; ecco il
processo realistico. Dal lavoro, che è un conoscere
operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a
quello. Dai bisogni, e quindi dai varii stati interni di benessere
e di malessere, nascenti dalla soddisfazione o insoddisfazione dei
bisogni, alla creazione mitico-poetica delle ascoste forze della
natura: e non viceversa. In questi pensieri è il segreto di
una asserzione di Marx, che è stata per molti un rompicapo,
che egli avesse, cioè, arrovesciata la dialettica di Hegel:
il che vuol dire, in prosa corrente, che alla semovenza ritmica
d'un pensiero per sé stante (- la generatio aequivoca delle
idee! -) rimane sostituita la semovenza delle cose, delle quali il
pensiero è da ultimo un prodotto.
In fine, il materialismo storico? ossia la filosofia della praxis,
in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette
termine ad ogni forma d'idealismo, che consideri le cose
empiricamente esistenti qual riflesso, riproduzione, imitazione,
esempio, conseguenza o come altro dicasi, d'un pensiero, come che
siasi, presupposto, così è la fine anche del
materialismo naturalistico, nel senso fino a pochi anni fa
tradizionale della parola. La rivoluzione intellettuale, che ha
condotto a considerare come assolutamente obiettivi i processi
della storia umana, è coeva e rispondente a quell'altra
rivoluzione intellettuale, che è riuscita a storicizzare la
natura fisica. Questa non è più, per alcun uomo
pensante, un fatto, che non fu mai in fieri, un avvenuto che non
è mai divenuto, un eterno stante che non proceda, e molto
meno il creato d'una volta sola, che non sia la creazione di
continuo in atto.
V.
Roma, 24 maggio '97
Ripigliando al punto dov'ero rimasto l'altra volta, mi pare voi
abbiate pienamente ragione di rimettere in campo il problema della
filosofia in generale. Mi riferisco, così dicendo, non solo
alla vostra Prefazione, che io vado quasi moltiplicando di effetto
in questo mio prolungato conversar per iscritto, ma anche ad
alcuni vostri articoli nel “Devenir Social”, e, inoltre, a
parecchie delle lettere private, che avete avuto la cortesia
d’indirizzarmi. Vi dà pensiero, in fondo, che il
materialismo storico possa apparire come campato in aria, fino a
che abbia di contro a sé delle altre filosofie, con le
quali non armonizzi, e fino a quando non si trovi modo di
sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che
è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse.
Ho capito bene?
Voi accennate esplicitamente alla psicologia, all'etica, e alla
metafisica. Con quest'ultimo termine intendete di significare
ciò che io, per effetto di altri abiti dello spirito e di
altre maniere di trattazione didattica, chiamerei per es.:
Dottrina generale, o della Conoscenza, o delle Forme fondamentali
del pensiero, e cosi via, a un di presso, o per eccesso di
cautela, o per tema di non incorrere in equivocazione, ed anche
per non urtare in certi pregiudizii. Passo, però, sopra a
cotesti accessorii terminologici; tanto perché noi, in
fatto di scienza, non siam tenuti a starcene al significato che i
termini hanno nella comune esperienza e nella comune intuizione
(quando, come nella vita ordinaria, non c'è dato di
chiamare altrimenti che pane il pane); ma quei significati
fissiamo noi stessi, ponendo e sviluppando i concetti, che
vogliamo compendiariamente formulare con una parola di
convenzione. Si starebbe freschi a voler dedurre il significato ed
il contenuto per es. della chimica dall'etimo di tal parola: ci
troveremmo di faccia all'Egitto antichissimo, anzi al nome che
significa la terra gialliccia dai due lati delle sponde del Nilo e
fino ai monti!
Vi lascio in pace in compagnia della parola metafisica, se in
questa v'accomoda d'acquietarvi. Frivolezze! Se un estensore di
catalogo cacciasse domani nella rubrica dei metà
physiká i Primi principii dell'oramai indispensabile
Spencer, non farebbe nulla di più e nulla di meno di quel
che fece il bibliotecario ai Pergamo nell'appiccicare cotale
etichetta a quei vani trattati di prima filosofia (Aristotele non
usa altro termine a denotarli), che nessuna cura di vecchi
commentatori, né di critici moderni, è riuscita a
ridurre mai alla trasparenza e conseguenza di libro giunto a
perfezione. Chi sa quanti sarebbero lieti ora di scovrire, che in
fin delle fini il vecchio Stagirita, che ha ingombrato di
sé le menti degli uomini per tanti secoli, ed è
stato insegna a tante battaglie dello spirito, non fu se non un
altro Spencer d'altri tempi, che, magari per sola colpa dei tempi,
scrisse in greco, e anche maluccio.
La tradizione non dee pesare sopra di noi come un incubo, come un
impedimento, come un impaccio, come oggetto di culto e di stupida
reverenza; e siamo bene intesi di ciò: - ma, d'altra parte,
la tradizione è ciò che ci tiene nella storia, il
che è quanto dire, che è ciò che ci ricollega
alle condizioni faticosamente acquisite, le quali agevolano il
lavoro nuovo e rendono possibile il progresso. A fare altrimenti
si è bestie; perché il solo lavorio secolare della
storia differenzia noi dagli animali. E poi, inoltre, nessun che
si metta a studiare, sia pur nel modo più concreto,
empirico, particolare, minuto e circostanziato, un qualunque lato
della realtà, può rifiutarsi mai di ammettere, che a
un certo punto si è come assaliti dal bisogno di ripensare
alle forme generali (ossia alle categorie), che son ricorrenti
negli atti particolari del pensiero (unità,
pluralità, totalità, condizione, fine, ragion
d'essere, causa, effetto, progressione, finito, infinito e
così via). Ora, per poco che in questa nuova
curiosità ci soffermiamo, i problemi universali della
conoscenza ci s'impongono; ossia, ci appariscono come
necessariamente dati: - e in questa inevitabile suggestione ha
origine e sede anche ciò che voi chiamate metafisica, e che
può chiamarsi altrimenti.
Tutto sta a sapere come cotesti dati vengano poi da noi
maneggiati. La nota caratteristica, parlando, s'intende, molto
genericamente, del pensiero classico (dico dei greci), è
una certa ingenuità nell'uso e nella trattazione di tali
concetti. La nota caratteristica della filosofia moderna, e qui di
nuovo molto per le generali, è il dubbio metodico, e quindi
il criticismo, che accompagna, a guisa di sospettosa cautela,
l'uso di tali forme, così nell'intrinseco, come nella
portata estensiva. Ciò che decide di tale passaggio dalla
ingenuità alla critica è la osservazione metodica
(scarsa per estensione e per sussidii negli antichi), e,
più che l'osservazione, l'esperimento volontariamente e
tecnicamente condotto (che mancò quasi del tutto agli
antichi). Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della
natura; - noi produciamo ad arte ciò che la natura da per
sé produce. Esperimentando ad arte, le cose cessan
dall'esser per noi dei meri obietti rigidi della visione
perché si vanno, anzi, generando sotto la nostra guida; e
il pensiero cessa dall'essere un presupposto, o un'anticipazione
paradigmatica delle cose, anzi diventa concreto, perché
cresce con le cose, a intelligenza delle quali viene
progressivamente concrescendo. L'esperimento ad arte e metodico
finisce da ultimo per indurci nella persuasione di questa
verità semplicissima: che anche prima che nascesse la
scienza, e in tutti gli uomini che alla scienza non arrivano, le
attività interiori, compreso l'uso della ovvia riflessione,
sono come un venir crescendo, per la sollecitazione dei bisogni,
di noi in noi stessi, e cioè un generarsi di nuove
condizioni, successivamente elaborate. Anche per questo rispetto
il materialismo storico è la chiusa di un lungo sviluppo.
Esso giustifica perfino il processo storico del sapere scientifico
facendo questo sapere qualitativamente consono e quantitativamente
proporzionale alla capacità del lavoro; cioè
facendolo rispettivo ai bisogni.
Torno a voi, e vi do ragione per la staffilata che aggiustate
all'agnosticismo. Esso è il pendant inglese del neokantismo
tedesco: con un notevole divario però. Questo, il
neokantismo, non rappresenta, in conclusione, se non una corrente
accademica, che ci ha dato, con una più chiara conoscenza
di Kant, una utile letteratura da eruditi; mentre quello,
l'agnosticismo, per la sua diffusione popolare, è un fatto
sintomatico della presente condizione di certe classi sociali. I
socialisti avrebbero tutte le ragioni di credere, che quel fatto
sintomatico sia uno degli indizi della decadenza della borghesia.
Fa, certo, un malinconico contrasto con la eroica securtà
del vero, che assiste il pensiero nei prodromi della storia
moderna (Bruno e Spinoza!), con l'asseveranza da Convenzionali,
che fu propria dei pensatori del secolo passato fino a venir poi
giù giù alla filosofia classica di Germania, ed
anche con la precisione dei metodi esplorativi, i quali hanno ai
tempi nostri allargato di tanto il dominio del pensiero su la
natura. Ha l'aria della paurosa rassegnazione. Manca del carattere
essenziale ad ogni filosofia, secondo Hegel, ossia del coraggio
della verità. Un qualcuno di quei marxisti, che inducono
così senz'altro, a bruciapelo, dalle condizioni economiche
ai riflessi ideologici, come chi issofatto traducesse i segni
stenografici, potrebbe quasi dire, che cotesto Inconoscibile,
tanto celebrato da una vasta setta di quietisti della ragione,
è segno già che lo spirito dell'epoca borghese non
è più atto a guardare perspicuamente
nell'ordinamento del mondo, perché il capitalismo, dal
quale esso toglie l'orientazione, è già in se
fradicio; e, per ciò, molti, nell'istintiva coscienza della
prossima rovina, si dànno ad una specie di religione
dell'imbecillità. Simile asserto potrebbe sembrare per fino
ingegnosamente bello, pur rimanendo non dimostrabile: sebbene poi
rassomigli a molte delle sciocchezze, che furon dette da tanti in
nome dell'interpretazione economica della storia.
E invece, io dico, che cotesto agnosticismo ci rende un grande
servigio. Fermandosi gli agnosticisti a dire e a ripetere, che non
è dato di conoscere la cosa in sé, l'intimissimo
della natura, la causa ultima e il fondo dei fenomeni, essi per
un'altra via, ossia a modo loro, come gente, cioè, che
rimpianga l'impossibile, vengono a quello stesso resultato al
quale arriviamo noi, non con rimpianto ma da realisti che non
cercano l’aiuto della immaginazione, e cioè: che non si
può pensare se non su quello che noi possiamo sperimentare,
in lato senso, noi stessi.
Guardiamo a ciò che è accaduto nel campo della
psicologia; fu fugata, da un canto, la illusione ideologica, che i
fatti psichici si spieghino assumendone a sostanziale subietto un
ente iperfisico; - fu bandita, dall'altro canto, la
volgarità, più materiale che materialistica, essere
il pensiero una secrezione del cervello; - fu fissata l'inerenza
dei fatti psichici nello specificato organismo, in quanto
l'organismo stesso è un processo di formazione, e in quanto
i fatti psichici sono la interiorità dell'attività
dei nervi, ossia questa attività in quanto è
coscienza; - fu respinta la grossolana ipotesi del materialismo
semplicistico, che cotesta interiorità, la quale si
conserva e si complica, per il solo fatto che noi ne scovriamo
giorno per giorno le rispettive condizioni nei centri nervosi, in
quanto è interiorità, ossia funzione di coscienza,
possa essere estensivamente osservata; - ed eccoci arrivati alla
scienza psichica, che è impreciso, per non dire erroneo, di
chiamare psicologia senza l'anima, ma bisogna denominare scienza
dei prodotti psichici senza il mito della sostanza spirituale.
Quando Engels nell'Antidühring
usava della parola metafisica in senso peggiorativo, intendeva
appunto di riferirsi a quelle maniere di pensare, ossia di
concepire, di inferire, di esporre, che son l'opposto della
considerazione genetica, e quindi (subordinatamente) dialettica
delle cose. Tali maniere son contrassegnate da questi due
caratteri: in prima dal fissare, come per sé stanti, e del
tutto indipendenti l'uno dall'altro, quei termini del pensiero, i
quali in verità son termini solo in quanto rappresentano i
punti di correlazione e di transizione ai un processo; e, in
secondo luogo, nel considerare quei termini stessi del pensiero
come un presupposto, un'anticipazione, o anzi un tipo od un
prototipo della povera e parvente realtà empirica. Nel
primo rispetto, per es., causa ed effetto, mezzo e fine, ragion
d'essere e realtà, e così via, si presentano allo
spirito soltanto come termini distinti, e quindi diversi, e alcune
volte opposti; quasiché si desser cose, che siano per
sé esclusivamente cause ed altre che siano per sé
esclusivamente effetti, e così di seguito. Nel secondo caso
pare come se il mondo dell'esperienza ci si andasse disintegrando
e scindendo innanzi agli occhi in sostanza ed accidenti, in cosa
in sé e fenomeno, in possibilità e in ovvia
esistenza. Tutta cotesta critica si risolve nell'esigenza
realistica di considerare i termini del pensiero, non come cose ed
entità fisse, ma come funzioni; perché quei termini
hanno valore, solo in quanto noi abbiamo qualcosa da pensare
attivamente, e siamo in effettivo atto di pensare, procedendo.
Cotesta critica dcll'Engels, che per molti rispetti è
specificabile e precisabile ancora, e soprattutto per ciò
che riguarda la origine di cotesto pensare metafisicamente, ripete
a modo suo la opposizione hegeliana fra l'intendimento, che fissa
gli opposti come tali, e la ragione, che gli opposti rimette in
serie di processo ascendente - (la divina arte di conciliare gli
opposti, direbbe Bruno - omnis determinatio est negatio, diceva
Spinoza).
Cotesta metafisica, sensu deteriori, ha alla lontana una qualche
analogia con la origine dei miti. S'inradica nella teologia, in
quanto questa è diretta a rendere plausibili al
ragionamento formale i dati (subiettivi sì, ma che
l'autoillusione fa parere obiettivi) del credere. Quanti miracoli
non ha fatto il quasi-mito dell'eterno logos? Tale metafisica, in
senso diremo oramai dispregiativo, come stadio e come intoppo di
un pensiero ancora in formazione, ricorre in ogni ramo del sapere.
Quanto sforzo non è costato alla riflessione dottrinale,
nel campo della linguistica, l'andar sostituendo alla illusione
paradigmatica delle forme grammaticali la genesi di queste: genesi
che va psicologicamente cercata ed accertata nel vario atteggiarsi
del parlare, che è un fare ed un produrre, e non un
semplice factum? Così fatta metafisica, in senso d'ironia,
esiste ed esisterà forse sempre nei derivati verbali e
fraseologici dell'espressione del pensiero; perché la
lingua, senza della quale noi non potremmo, né addivenire
alla precisione ai quello, né formularne la manifestazione,
al tempo stesso che dice, altera ciò che esprime, ed ha
perciò sempre in sé il germe del mito.
Sprofondiamoci pur quanto si voglia nella teoria più
generale delle vibrazioni, noi diremo sempre: la luce produce
questo effetto: il calore opera così. Si ha sempre la
tentazione, o per lo meno si corre il pericolo, di sostantivare un
processo, o i termini di esso. Le relazioni, per via di una
illusionale proiezione, divengono cose, e queste cose escogitate
divengono, alla volta loro, soggetti operanti. Se facciamo
attenzione, a questa così frequente ricaduta del nostro
spirito nell'esercizio prescientifico dei mezzi verbali, noi
ritroviamo in noi stessi i dati psicologici del modo come si
originarono, in altre circostanze e tempi, le obiettivazioni delle
forme del pensiero stesso in enti e in entità, come
è il caso tipico delle idee platoniche: e lo dico tipico
perché è il più plastico fra tutti. Di tale
metafisica, in quanto essa è la immaturità di una
mente non ancora scaltrita dall'autocritica, e non rafforzata
dall'esperimento, è piena tutta la storia; che appunto per
ciò, come per tanti altri motivi, è anche
superstizione, mitologia, religione, poesia, fanatismo delle
parole, e culto delle vuote forme. Lascia, cotale metafisica, le
sue tracce anche in ciò che ai tempi nostri chiamiamo
orgogliosamente scienza.
Non aduggia essa forse il campo della economia politica? Quel
danaro, che, da semplice mezzo di scambio qual è in prima,
si fa capitale, solo in quanto è in funzione col lavoro
produttivo, non diventa forse, nella fantasia degli economisti,
capitale ab origine, che per un diritto innato getti interesse?
Ecco il gran significato di quel capitolo di Marx, dove si parla
del capitale come di feticcio Di questi feticci è piena la
scienza economica. La qualità di merce, che è
propria del prodotto del lavoro umano, solo in un certo rispetto
storico, - e, ossia, in quanto gli uomini vivono in un certo dato
sistema di correlazione sociale, - diventa una qualità
intrinseca ab aeterno al prodotto stesso. Il salario, che non
è concepibile, se a determinati uomini non è imposta
la necessità di darsi a mercede ad altri uomini, diventa
una categoria assoluta, cioè un elemento d'ogni guadagno; e
perfino l'intraprenditore capitalista si adorna del titolo di un
che ritragga da se stesso un più alto salario! E poi la
rendita della terra: - della terra, dico! Non ci sarebbe da
venirne mai alla fine, se si volesse enumerarle tutte coteste
trasformazioni metaforiche dei rapporti relativi in eterni
attributi degli uomini o delle cose.
Ma che non è diventata la lotta per l'esistenza nel volgare
darwinismo? - un imperativo, un comando, un fato, un tiranno; e
addio le empiriche circostanze del topo e della gatta, della
nottola e dell'insetto, della erbaccia e del trifoglio.
L'evoluzione, ossia l'espressione compendiaria d'infiniti
processi, che dan luogo a tanti problemi circostanziati e non ad
un singolo teorema, non si trasforma spesso, fantasticamente,
nella Evoluzione? Per fino nelle volgarizzazioni della sociologia
marxista, le condizioni, i rapporti, le correlatività di
coesistenza economica acquistano - forse il più delle volte
per insufficienza stilistica degli espositori - un certo che di
fantasticamente soprastante a noi; come se nel problema ci fossero
altri dati da questi in fuori: persone e persone, cioè
inquilini e padroni di casa, proprietarii e fittaioli, capitalisti
e salariati, signori e servitori, sfruttati e sfruttatori,
cioè, in una parola, uomini ed uomini, che, in precise
condizioni di tempo e di luogo, trovansi in varia dipendenza fra
loro, per l'uso così e così distribuito e collegato
dei mezzi necessarii all'esistenza.
La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a
dirittura confina con la mitologia, ci dee rendere indulgenti
verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più
generalmente sociali, che per tanto tempo ritardarono in passato
l'apparizione del pensiero critico, coscientemente sperimentale e
cautamente antiverbalistico. Né vale di ricorrere alle tre
epoche del Comte. È questione, sì, di quantitativo
predominio della forma teologica o metafisica nelle diverse epoche
della storia, ma non di esclusività qualitativa, a fronte
della così detta epoca scientifica. Gli uomini non furon
mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non saranno mai
esclusivamente scientifici. Il più umile selvaggio che
paventa i feticci, sa che il fiume in discesa gli costa minor
fatica, che non il fiume su cui nuoti contro corrente, e nel suo
elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione
di esperienza e di scienza. Ai giorni nostri ci sono, viceversa,
degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La
metafisica, nel senso di ciò che sarebbe il contrario della
correttezza scientifica, non è già un fatto
precisamente così preistorico, da stare alla pari col
tatuaggio e con l'antropofagia!
Non è, spero, chi voglia mettere esclusivamente sul conto
attivo del materialismo storico la vittoria definitiva su la
metafisica, nella significazione usata qui innanzi, secondo
Engels. Esso è, anzi, un caso particolare, per rispetto
allo sviluppo del pensiero antimetafisico. Non sarebbe stato
veramente possibile, se l'intelletto critico non si fosse formato
già per l’innanzi. Qui c'è da fare i conti con tutta
la storia della scienza moderna. Quando il Don Ferrante dei Promessi Sposi (siamo,
s'intende bene, al secolo XVII) che fu, se Leone XIII non
vorrà per invidia di mestiere aversene a male, l’ultimo
scolastico veramente convinto, moriva di peste, negando la peste,
attesoché quella non rientrasse nelle dieci categorie di
Aristotele, lo scolasticismo avea ricevuto già i primi, e
fieri, e decisivi colpi. E da allora in qua è tutta una
storia di conquiste positive del pensiero, che hanno, o assorbita,
o eliminata, o altrimenti ridotta e combinata quella materia del
conoscere, che innanzi formava la filosofia per sé stante,
e quindi soprastante alla scienza.
In cotesto cammino del pensiero scientifico, noi c'incontriamo,
per es., nella psicologia empirica, nella linguistica, nel
Darwinismo, nella storia delle istituzioni e nel criticismo
propriamente detto. Direi anche nel positivismo, se non temessi
d'ingenerare equivoco. Difatti il positivismo, guardato
così in genere e per sommi capi, è una delle tante
forme in cui lo spirito s'è andato avvicinando al concetto
di una filosofia, che non anticipi su le cose, ma sia a queste
immanente. Non è quindi da maravigliare, se, per la
generica similarità che riavvicina il materialismo storico
a tanti altri prodotti dello spirito e del sapere contemporaneo,
molti di quelli che trattano la scienza alla maniera dei letterati
e dei leggitori di riviste, ingannati dalle impressioni, e
seguendo gl'impulsi della erudita curiosità, han creduto di
poter completare Marx, o con questa, o con quell'altra cosa. Di
coteste storpiature ne avremo per un pezzo. Induce soprattutto in
cotesto errore l'abito, comune a quasi tutta la scienza del nostro
tempo, della considerazione evolutiva o genetica: cosicché
agli inesperti e superficiali pare che da chiunque si parli di
evoluzione si dica lo stesso. Voi molto giustamente portate la
vostra attenzione su i caratteri differenziali e differenziati del
materialismo storico - i quali, aggiungo io, son proprii di una
scienza da comunisti dialetticamente rivoluzionarii - e non vi
proponete il quesito se il signor Marx possa andare a braccetto
del tale o tale altro filosofo, ma vi chiedete, invece, quale
filosofia sia a questa dottrina necessariamente e obiettivamente
implicita.
Gli è per questa ragione che io vi ho lasciato e vi lascio
anche l'uso della parola metafisica, nel senso non dispregiativo.
In fondo al marxismo ci son dei problemi generali; e questi si
aggirano, per un verso su i limiti e su le forme del conoscere, e,
per un'altra parte, su le attinenze del mondo umano col resto del
conoscibile e del conosciuto. Non è ciò che
intendete voi di dire? Tanto è, che io appunto alle
questioni più generali rivolsi l'attenzione mia nel secondo
dei miei saggi; ma con un modo di trattazione che dissimula
l'intento.
Chi consideri il materialismo storico nel suo insieme, può
trovarvi argomento a tre ordini di studii. Il primo risponde al
bisogno pratico proprio ai partiti socialistici, di andare
acquistando una adeguata conoscenza della specificata condizione
del proletariato in ogni paese, e di commisurare, congruamente
alle cause, alle promesse ed ai pericoli della complicazione
politica, l'azione del socialismo. Il secondo può menare, e
menerà di certo, a rinnovare gl'indirizzi della
storiografia, in quanto abiliti a ricondurne l'arte sul terreno
delle lotte di classe e della combinatoria sociale, che da quelle
risulta, data la relativa struttura economica, che ogni storico
deve d'ora innanzi conoscere ed intendere. Il terzo consiste nella
trattazione dei principii direttivi, a comprendere e svolgere i
quali occorre di necessità la generale orientazione da voi
invocata. Ora, pare a me - e ho dato di ciò la prova,
scrivendo - che quando non si cada nell'antiquato errore di
credere, che le idee stiano come degli esemplari al di sopra delle
cose, ammessa la inevitabile division del lavoro, il darsi alla
considerazione dei principii generali, presi per sé, non
implichi per forza, lo scolasticismo formale, ossia la ignoranza
delle cose dalle quali quei principii vengono astratti. Certo che
quei tre ordini di studii e di considerazioni faceano uno nella
mente di Marx, e, oltre che nella mente, fecero uno nell'opera
sua. La sua politica fu come la pratica del suo materialismo
storico, e la sua filosofia fu come inerente a quella sua critica
dell'economia, la quale fu il suo modo di trattare la storia. Ma,
lasciando stare che cotesta universalità di comprensione
è la nota specifica del genio che inizii un nuovo indirizzo
mentale, il fatto è che Marx stesso in un solo caso
portò a compimento la integrazione della sua dottrina, ed
è nel Capitale.
La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero
criticamente consapevole, con la materia del saputo, ossia la
completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e
filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che
il più delle volte rimane però un semplice
desideratum. Cotesta tendenza vorrebbero alcuni significare,
appunto quando dicono superata la metafisica (in ogni senso);
mentre altri, che son più esatti, suppongono che la scienza
giunta a perfezione sia già la filosofia riassorbita. La
medesima tendenza giustifica quella dicitura di filosofia
scientifica, che altrimenti sarebbe d'un risibile barocchismo. Se
cotesta espressione può mai aver un riscontro pratico di
evidenza probativa, gli è proprio nel materialismo storico,
come fu nella mente e negli scritti di Marx. Ivi la filosofia
è tanto nella cosa stessa, e in essa e con essa rifusa, che
il lettore di quegli scritti ne prova l'effetto, come se il
filosofare non sia se non la funzione stessa del procedere
scientificamente.
Devo io qui stare a fare delle confessioni; o mi tocca solo di
limitarmi a discorrer con voi obiettivamente, su quei punti che
possono riavvicinarci negli intenti? Se io dovessi fermarmi alle
espressioni aforistiche, che son proprie della confessione, io
direi così: - a) l'ideale del sapere deve esser questo, che
in esso cessi la opposizione fra scienza e filosofia; - b) ma,
come la scienza (empirica) è in continuo divenire, e si
moltiplica così nella materia come nei gradi,
differenziando in pari tempo gl'ingegni che i singoli rami ne
coltivano, e d'altra parte s'è accumulata e s'accumula di
continuo sotto al nome di filosofia la somma delle cognizioni
metodiche e formali; - c) così la opposizione tra scienza e
filosofia si mantiene e si manterrà, come termine e momento
sempre provvisorio, per indicare appunto, che la scienza è
di continuo in sul divenire, e che in cotesto divenire entra per
non poca parte l'autocritica.
Basta guardare a Darwin per intendere quanto occorra di
proceder cauti nell'affermare, che la scienza dell'ora presente
sia per se stessa la fine della filosofia. Darwin ha di certo
rivoluzionato il campo delle scienze dell'organismo, e con esse
l'intera concezione della natura. Ma in Darwin stesso non fu la
coscienza completa della portata delle sue scoverte: egli non fu
il filosofo della sua scienza. Il darwinismo, come nuova visione
della vita, e quindi della natura, e di qua dalla persona e
dagl'intenti dello stesso Darwin. Viceversa alcuni volgarizzatori
del marxismo hanno spogliato questa dottrina della filosofia che
le è immanente, per ridurla ad un semplice aperçu
del variare delle condizioni storiche per il variare delle
condizioni economiche. Osservazioni così semplici bastano
per persuaderci, che se noi possiamo affermare, che la scienza
arrivata a perfezione è già la filosofia, ossia che
questa non significhi se non l'ultimo grado della elaborazione dei
concetti (Herbart), noi non dobbiamo, con l'enunciazione di tale
postulato, autorizzar nessuno a parlare con dispregio di
ciò che in senso differenziato chiamasi la filosofia, come
non dobbiamo dare a credere a tutti gli scienziati, che, a
qualunque grado dello sviluppo mentale si arrestino, essi sian di
già i trionfatori o gli eredi di quella bagattella che fu
la filosofia. E voi, perciò, non avete posta una questione
che possa dirsi oziosa, mentre chiedete, a un di presso: - con
quale animo il cultore del materialismo storico guarderà la
rimanente filosofia?
VI.
Roma, 28 maggio '97
Nella biografia scientifica dei due nostri grandi autori
c’è una lacuna. Nel 1847 una loro opera viaggiava per la
stamperia; ma rimase poi inedita per ragioni accidentali.
In quel libro, che è rimasto un semplice manoscritto, e
che, per quanto io sappia, non fu visto dappoi da nessun altro
dagli autori in fuori, essi, come se facessero un esame di
coscienza, fissarono la loro veduta nel campo filosofico, a
raffronto delle altre correnti contemporanee. Che cotesto esame
fosse fatto in relazione principalmente ai derivati
dell'hegelismo, e al contraccolpo materialistico di esso nella
dottrina di Feuerbach, non v'è dubbio alcuno. Oltre alle
ragioni generali del movimento filosofico del tempo, stanno in
favore di questa opinione i brani di articoli di giornali e di
riviste, che, come reliquie del Marx polemista d'allora, furon di
recente pubblicati dallo Struve nella “Nene Zeit”. Ma quale era la
complessiva posizione mentale dei due scrittori? quale era il loro
orizzonte bibliografico? quale atteggiamento assumevano verso gli
altri fermenti della scienza, che son poi fioriti in tante
rivoluzioni, così nel campo della filosofia naturale, come
in quello della filosofia storica, e quale notizia vi aveano essi?
A tutte coteste domande non è dato di rispondere
adeguatamente. Si capisce, del resto, che, se a nessuno può
rincrescere d'aver pubblicato da giovane degli scritti, che da
vecchio non scriverebbe a quel modo, il non averli pubblicati a
suo tempo è grave impedimento agli autori stessi per
tornarci su; cosicché Engels diceva, che quell'opera avesse
in fondo prodotto tutto l'effetto suo: fissare, cioè,
l'orientazione di quelli che la scrissero.
E poi dopo di quel tempo, presa che ebbero la loro via, i due
autori non scrissero più di filosofia nel senso
differenziato della parola. Non solo le loro occupazioni di
agitatori pratici, di pubblicisti, e d'intesi a seguire il
movimento proletario, influendo sopra di esso, ma la stessa
vocazione mentale loro li distoglieva dal mestiere di filosofi en
titre. Sarebbe per ciò cosa vana l'andar passo passo
ricercando che opinione si facessero essi, nei loro studii e
letture, dei nuovi portati della scienza, in quanto questi
venivano o non venivano a recar sussidio al nuovo indirizzo di
filosofia storica da loro escogitato. Certo che nella psicologia,
come s'è da ultimo svolta, nell'acuito criticismo nel campo
della filosofia professionale, nella scuola dell'economia storica,
nel darwinismo, così nel senso specifico come nel senso
lato, nella cresciuta tendenza alla storicità nel
considerare i fenomeni naturali, nelle scoverte della preistoria
delle istituzioni, e nella inclinazione sempre più forte
verso la filosofia della scienza, ci è dato di riconoscere
come dei sussidii e come dei casi analogici al prodursi del
materialismo storico. Ma sarebbe cosa ridicola il voler misurare
alla stregua di ciò che è debito d'un redattore
d'una “Rivista critica", che è la bibliografia all'opera, o
del professore che sciorina agli scolari le impressioni successive
delle sue lettere, il lavoro di assimilazione della scienza
contemporanea, che potean fare, o effettivamente fecero, quei due
pensatori, i quali disponevano d'un così specifico e
specificato angolo visuale, e aveano nel materialismo storico un
individuato istrumento di ricerca e di riduzione. E in ciò
consiste, del resto, ciò che chiamiamo la
originalità; e fuori di tali confini questa parola
significherebbe l'assurdo.
Non scrivendo più di filosofia, nel senso
professionalmente differenziato e differenziale, finiron per
essere i più perfetti esemplari di quella filosofia
scientifica, che per molti è un semplice pio desiderio, per
altri è un mezzo di spiattellare in nuova dicitura
fraseologica le ovvie cognizioni della scienza empirica, alcune
volte è una forma generica di razionalismo, e al postutto
non è possibile, se non a chi entri nei particolari della
realtà con la penetrazione che è propria di un
metodo genetico inerente alle cose. Engels da ultimo scriveva:
“Dal momento che per ogni scienza diventa una necessità il
venire in chiaro su la sua propria posizione nell'insieme delle
cose e della conoscenza delle cose, la scienza speciale
dell'insieme diventa superflua. Ciò che della filosofia,
svoltasi fino ad ora, rimane tuttora come per sé stante,
gli è la dottrina del pensiero e delle sue leggi - la
logica formale e la dialettica. Tutto il resto si risolve nella
scienza positiva della natura e della storia”.
Agli eruditi, ai ricercatori di tèmi per dissertazione, ai
dottori novellini, tutto è possibile. Come han messo
assieme l'etica di Erodoto, la psicologia di Pindaro, la geologia
di Dante, l'entomologia di Shakespeare e la pedagogica di
Schopenhauer, così a fortiori, e a più giusto
titolo, potrebbero scrivere della logica del Capitale, anzi
costruire un insieme della filosofia di Marx, tutta specificata e
spartita secondo le sacramentali rubriche della scienza
professionale. Question di gusti! - io che, per esempio,
preferisco l'ingenuità di Erodoto e la poderosità di
Pindaro alla erudizione che ne stemperi gli unitarii prodotti in
amminicoli di postuma analisi, lascio volentieri al Capitale la
integralità sua, a produrre la quale concorrono
organicamente tutte le nozioni e conoscenze, che allo stato
differenziato han nome di logica, di psicologia, di sociologia, di
diritto e di storia nel senso ovvio; - e ci concorre anche quella
singolare flessibilità e flessuosità del pensiero,
che è la estetica della dialettica.
Rimane per ciò quel libro, e rimarrà sempre,
analizzabile sì nei particolari, ma inafferrabile
nell'insieme, per gli empiristi puri, per gli scolasticisti dalle
definizioni nette e non convertibili nel flusso del pensiero, per
gli utopisti d'ogni maniera, e soprattutto per gli utopisti del
liberismo e pei libertarii, che sono, dal più al meno,
anarchisti senza saperlo. Immergersi nel concreto delle
correlatività sociali e storiche gli è cosa per
molti intelletti di una difficoltà quasi insuperabile.
Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui
geneticamente si svolgono delle leggi, le quali sono relazioni di
movimento, molti han bisogno di rappresentarsi delle cose fisse,
per es., l'egoismo di qua, l'altruismo di là, e così
via. Il caso caratteristico è quello dei moderni edonisti.
Non si arrestano alla compagine sociale, come al dato specifico
della dottrina economica, ma risalgono ai giudizi di valutazione,
come alla premessa (logico-psicologica) della Economica. In questi
giudizii trovano una scala, e studiano (per la più parte in
forma tipica ed ipotetica) i gradi di essa; come chi studiasse
nell'estetica formale i soli gradi del compiacimento. Di fronte a
tali valutazioni (o gradi dell'apprezzamento del bisogno) stanno
le cose, che sono i beni; e queste cose vengono esaminate nella
loro relazione con gli apprezzamenti, tenuto conto della loro
quantità disponibile ed acquisibile, il che determina per
esse la qualità di valori, il limite dei valori ed il
valore-limite.
Costituita così la posizione astratta e generica della
economicità, indifferentemente, così per le cose di
cui la natura ci è prodiga, come per quelle che costano
agli uomini il sudore della fronte (e l'ingrato lavoro della
storia), la povera economia ovvia e comune, ossia la economia
della convivenza che ci è familiare, e su la quale si sono
travagliati i teoretici di scuola classica, e i critici del
socialismo, diventa come un caso particolare di un'algebra
universalissima. Il lavoro, che per noi è il nerbo stesso
del vivere umano, ossia l'uomo stesso che si svolge, diventa in
cotesta veduta, o lo sforzo per evitare una pena, o la minor pena.
In cotesta astratta atomistica delle conazioni, degli
apprezzamenti e delle quantità di beni, non si sa
più che cosa sia la storia, e il progresso si risolve in
una mera parvenza.
Se mai occorresse di formulare, non sarebbe fuori di luogo il
dire, che la filosofia implicita al materialismo storico è
la tendenza al monismo; - e uso la parola tendenza, accentuandola.
Dico tendenza, e aggiungo tendenza critico-formale. Non si tratta
già, insomma, di tornare alla intuizione teosofica o
metafisica della totalità del mondo, come se noi, per atto
di cognizione trascendente, giungessimo issofatto alla visione
della sostanza a tutti i fenomeni e processi sottostante. La
parola tendenza esprime precisamente l'adagiarsi della mente nella
persuasione, che tutto è pensabile come genesi, che il
pensabile, anzi, non è che genesi, e che la genesi ha i
caratteri approssimativi della continuità. Ciò che
differenzia cotesto senso della genesi dalle vaghe intuizioni
trascendentali (per es., Schelling) è il discernimento
critico, e quindi il bisogno di specificare la ricerca: ossia il
riavvicinamento all'empirismo per ciò che concerne il
contenuto del processo, e la rinuncia alla pretesa di recarsi in
mano lo schema universale di tutte le cose. I volgari
evoluzionisti fanno così: afferrata la nozione astratta del
divenire (evoluzione), ci caccian dentro ogni cosa, dal
concretarsi della nebulosa alla fatuità loro. Così
facevano i ripetitori di Hegel, col ritmo soprastante e perpetuo,
della tesi, antitesi e sintesi. Ragione precipua dell'accorgimento
critico, col quale il materialismo storico corregge il monismo,
è questa: che esso parte dalla praxis, cioè dallo
sviluppo della operosità, e come è la teoria
dell'uomo che lavora, così considera la scienza stessa come
un lavoro. Porta infine a compimento il senso implicito alle
scienze empiriche; che noi, cioè, con l'esperimento ci
riavviciniamo al fare delle cose, e raggiungiamo la persuasione,
che le cose stesse sono un fare, ossia un prodursi.
Il brano dell'Engels citato più innanzi potrebbe,
però, dar luogo a delle curiose illazioni; come chi si
pigliasse tutta la mano, quando altri gli ha offerto il dito. Dato
ed ammesso, che la logica e la dialettica continuino a sussistere
come per sé stanti, non può esser questa, si
direbbe, occasione propizia a rimettere a novo tutta la
enciclopedia filosofica? Rifacendo, a parte a parte, e per ogni
singolo ramo di scienza, il lavoro di astrazione degli elementi
formali che vi sono impliciti, si riesce a scrivere dei vasti e
comprensivi sistemi di logica, come son quelli esemplari del
Sigwart e del Wundt; le quali, in verità, son delle vere
enciclopedie della dottrina dei principii del sapere. Ora se
è questo il desiderio dei filosofi professionali, stiano
pur tranquilli, che le loro cattedre non saranno abolite. La
division del lavoro nel campo intellettuale si presta praticamente
a molte combinazioni. Se c'è chi voglia compendiare in
forma schematica i principii, coi quali noi ci rendiamo conto di
un determinato gruppo di fatti, per es., di un determinato
ordinamento giuridico, nulla osta che egli cotesta disciplina
chiami scienza generale del diritto o anche, se gli piace,
filosofia del diritto, purché si rammenti che riduce a
sistema (empirico) un ordine di fatti storici; ossia che coglie
una categoria storica come il divenuto del divenire.
Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte,
virtuosità a tenersi equilibratamente in un campo di
specializzata ricerca, dall'altra parte: - ecco il resultato. Per
poco che s'esca da questa linea, o si ricade nel semplice
empirismo (la nonfilosofia), o si trascende alla iperfilosofia,
ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l'Universo, come chi
ne possedesse la intuizione intellettuale.
Leggete, di grazia, se non l'avete già letta, la conferenza
di Haeckel sul monismo, che fu volgarizzata in Francia da un
appassionato darwinista della sociologia. In quell'insigne
scienziato si confondono tre attitudini diverse: una maravigliosa
capacità alla ricerca e dichiarazione dei particolari, una
profonda elaborazione sistematica dei particolari appurati, e una
poetica intuizione dell'Universo, che pur essendo della
immaginazione, alcune volte pare della filosofia. Ma mettere voi,
illustre Haeckel, tutto l'Universo, dalle vibrazioni dell'etere
alla formazione del cervello; ma che dico del cervello, anzi
giù giù, dopo questo, dalle origini dei popoli e
degli stati e dell'etica fino ai tempi nostri, compresi i
principotti protettori della vostra Università di Iena, ai
quali fate le riverenze, in sole 47 pagine in-8°, è
cosa superiore per fino all'eccellenza dell'ingegno vostro! Non vi
sovviene forse di quei tanti buchi, che l'Universo presenta anche
alla provetta scienza nostra: o avete a casa un grande armadio
pieno di quei berretti da notte, che Heine dicea usassero gli
hegeliani a covrire quei buchi? O non vi ricordate di cosa che
dovrebbe più direttamente scottarvi: quel tale batibio, che
prese nome da voi in una scoverta dell'Huxley, che era poi,
viceversa, un solenne qui- pro-quo?
Dunque, tendenza al monismo, ma al tempo stesso coscienza precisa
della specialità della ricerca. Tendenza a fondere scienza
e filosofia, ma, medesimamente, continuata riflessione su la
portata e sul valore di quelle forme del pensiero, che usiamo in
concreto, e che pur possiamo distaccar dal concreto, come accade
nella logica stricto jure, e nella teoria generale della
conoscenza (che voi chiamate metafisica). Pensare in concreto, e
pur poter riflettete in astratto su i dati e su le condizioni
della pensabilità. La filosofia c'è e non
c'è. Per chi non c’è ancora arrivato, essa è
come il di là dalla scienza. E per chi c’è arrivato,
essa è la scienza condotta a perfezione.
Oggi, come in passato, noi possiamo scrivere, su i dati astratti
da una determinata esperienza, dei trattati per es., di etica o di
politica, e possiamo dare alla trattazione tutta la
perspicuità del sistema: purché ci ricordiamo di
questo, che le premesse cioè si ricollegano geneticamente
ad altro; purché non cadiamo nella illusione (metafisica)
di considerare i principii come degli schemi ab aeterno, ossia
come le sopraccose delle cose dell'esperienza.
A questo punto nulla c'impedisce di enunciare una formula come la
seguente: tutto il conoscibile può essere conosciuto; e
tutto il conoscibile sarà, all'infinito, realmente
conosciuto; e di là dal conoscibile, a noi, nel campo della
conoscenza, non importa nulla di null'altro. Questo generico
enunciato, nel suo aspetto pratico, si riduce a dire: che la
conoscenza tanto importa per quanto ci è dato di realmente
conoscere, e che è una mera fantasticheria l'ammettere, che
la mente riconosca, come esistente in atto un'assoluta differenza
tra il limitato conoscibile e ciò che è per
sé inconoscibile: - un inconoscibile, che io dichiaro di
conoscere come inconoscibile! Come fate voi, von Hartmann, a
bazzicare da tanti anni con l'Inconsapevole, che voi così
consaputamente vedete operare; e voi, signor Spencer, a manovrate
di continuo col riconoscimento dell'Inconoscibile, che in fondo
voi in qualche modo sapete, se ne fate il limite del conoscibile?
In fondo a cotesta fraseologia dello Spencer si cela il dio del
catechismo; - c’è, insomma, il residuo di una
iperfilosofia, che rassomiglia, come la religione, al culto di
quell'ignoto, che, in uno e medesimo tempo si dichiara ignoto, e
pur si afferma di conoscere in certa guisa facendone oggetto di
riverenza. In tale stato d'animo la filosofia è ridotta
allo studio dei fenomeni (parvenze), e il concetto di evoluzione
non implica punto che la realtà stessa divenga.
Per il materialismo storico il divenire, ossia l'evoluzione, e
invece reale, anzi è la realtà stessa; come è
reale il lavoro, che è il prodursi dell'uomo, che ascende
dalla immediatezza del vivere (animale) alla libertà
perfetta (che è il comunismo). In questa inversione pratica
del problema della conoscibilità, noi ci rechiamo
interamente in mano la scienza, in quanto essa è il fatto
nostro. Una nuova vittoria sul feticcio! Il sapere è per
noi un bisogno, che empiricamente si produce, si raffina, si
perfeziona, si corrobora di mezzi e di tecnica, come ogni altro
bisogno. Noi via via conosciamo ciò che ci occorre di
conoscere. L'esperimentare è un crescere; e ciò che
chiamiamo il progresso dello spirito, non è se non un
accumularsi di energie di lavoro. In cotesto prosaico assunto si
risolve quell'assolutezza della conoscenza, che era per gli
idealisti un postulato di ragione, o una argomentazione
ontologica. Quella tal cosa (così detta in sé), che
non si conosce, né oggi, né domani, che non si
conoscerà mai, e che pur si sa di non poter conoscere, non
può appartenere al campo della conoscenza, perché
non si dà conoscenza dell’inconoscibile. Se un simile
assunto entra nella cerchia della filosofia, gli è
perché la coscienza del filosofo non è tutta fatta
di scienza, ma consta ancora di tanti altri elementi sentimentali
ed affettivi, da cui, sotto l’impulso della paura, e per tramite
della fantasia e del mito, si generano combinazioni psichiche, le
quali, come in passato impedirono lo sviluppo della cognizione
razionale, così ora adombrano il campo del sapere meditato
e prosaico. Pensiamo alla morte. Essa è teoricamente insita
alla vita.
La morte, che pare così tragica negli individui complessi,
che alla comune intuizione appariscono come i veri e proprii
organismi, è immanente agli elementi primissimi della
sostanza organica, per la estrema labilità e per la
circoscritta plasticità del protoplasma. Ma tutt'altro
è la paura della morte - ossia l'egoismo del vivere! E
così è di tutte le altre affettività e
tendenze passionali, che, nelle loro derivazioni mitiche, poetiche
e religiose, gettarono, gettano e getteranno in varia proporzione
le ombre loro sul campo della coscienza. La filosofia dell'uomo
puramente teoretico che tutte le cose contempli sotto l'aspetto
del proprio esser loro, gli è come il tentativo di far
passare il pensiero astratto su tutto il campo della coscienza,
senza che v'incontri, né deviazioni, né attriti.
Ecco Baruch Spinoza, il vero eroe del pensiero, che se stesso
contempla in quanto gli affetti e le passioni, a guisa di forze
della interiore meccanica, gli si trasmutano in obietti di
considerazione geometrica!
En attendant che in una futura umanità di uomini quasi
trasumanati, l'eroismo di Baruch Spinoza divenga la virtù
minuscola di tutti i giorni, e che i miti, la poesia, la
metafisica e la religione non ingombrino più il campo della
coscienza, contentiamoci che fino ad ora, e per ora, la filosofia,
così nel senso differenziato, come nell'altro, sia servita
quale istrumento critico e serva, per rispetto alla scienza, a
mantenere la chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti
logici, e per rispetto alla vita a diminuire gl'impedimenti che
all'esercizio del libero pensiero frappongono le fantastiche
proiezioni degli affetti, delle passioni, dei timori e delle
speranze; ossia giovi e serva, come direbbe precisamente Spinoza,
a vincere l'imaginatio e l'ignorantia.
VII.
Roma, 16 giugno '97
Mi capita un bel caso. Mentre pareami di non esser venuto al
termine ancora di queste mie epistole, m'è toccato di dover
discorrere delle stesse precise cose, delle quali mi vado
intrattenendo con voi, in altro luogo, in altra forma, e d'animo
men lieto.
In uno degli ultimi numeri della “Critica Sociale” apparve una
specie di messaggio, che il signor Antonio De Bella, sociologo
calabrese, dirigeva contro quei socialisti esclusivi, che per ogni
cosa ed in ogni questione, a quel che dice lui, se ne stanno al
verbo di Marx. Il De Bella ha mancato di farci sapere, se il Marx,
cui quelli che tartassa s'appellano, sia il genuino, o un altro
così per dire alterato, o a dirittura inventato, un Marx
biondo, o che so io altro. Il fatto è che m'ha concesso
l'onore di metterci anche me nel branco di cotesti ostinati, cui
rivolge i suoi moniti e i suoi consigli, perché si
completino d'altra più vasta coltura sociologica e
naturalistica. Cita invero il solo mio nome, senza dire a quale
mio scritto, detto o fatto intenda di richiamarsi: e poi
giù un pochino del solito catechismo della sociologia
intinta di darwinismo, con la inevitabile filastrocca di tanti
nomi di autori.
Credetti opportuno di rispondere; un po' per dire sommariamente,
come il socialismo scientifico non si trovi poi tanto a mal
partito, da aver proprio bisogno di certi consigli; per mostrare,
che i complementi suggeriti dal De Bella, o sono i sottintesi, o
sono il contrario del marxismo; e soprattutto perché,
trovandomi da un pezzo in qua in vena di conversare con voi di
socialismo e di filosofia, m'è parso opportuno di fissare
con note ad hominem parecchie delle considerazioni critiche, che
vado svolgendo tête-à-tête con voi, con una
certa tal quale bizzarria di forma.
Vi mando la mia risposta, come è apparsa nella “Critica
Sociale” di ieri. E anche questa è una lettera; e, sebbene
non sia diretta a voi, potete metterla nella collezione, come se
facesse seguito. Completa e riassume le altre, con qualche leggera
e scusabile ripetizione.
Questa lettera extra, che indirizzavo al direttore della “Critica
Sociale”, non è dolce di sale. Non la scrissi proprio con
l'intenzione di far cosa grata al signor De Bella. C'è del
cattivo umore. Forse questo umor di critica rivelante amarezza
m’è venuto dal fatto, che, standomene io con la mente
rivolta allo studio di questo grave problema dei rapporti del
materialismo sociale col rimanente della intuizione scientifica
contemporanea, m'è parso che i consigli del signor De
Bella, - che del resto non stava a spiare quel che io vado
scrivendo a voi, - fossero, per lo meno quanto a me, inopportuni;
se non altro perché non avrei la fantasia di chiedergliene.
Roma, 5 giugno '97
Caro Turati,
Non mi è ben chiaro se il De Bella, nominandomi, parli
proprio di me. Sarei anzi inclinato a credere, che egli rivolga la
sua tirata a un mannequin di sua fattura, al quale abbia,
commoditatis causa, appiccicato il nome mio. Comunque sia, dal
momento che mescola il mio nome alle sue meditazioni, io non posso
a meno di aggiungere alla vostra una nuova postilla.
Com'è risaputo, io entrai esplicitamente e pubblicamente
nelle vie del socialismo solo dieci anni fa. Dieci anni sono un
tratto di tempo non veramente lungo nella mia esistenza fisica,
giacché ne conto ormai quattro oltre il mezzo secolo; ma
sono un tratto a dirittura breve nella mia vita intellettuale.
Prima, insomma, di diventar socialista, io avevo avuto
inclinazione, agio e tempo, opportunità ed obbligo
d'aggiustar le mie partite ed i miei conti col darwinismo, col
positivismo, col neokantismo, e con quanto altro di scientifico si
è svolto intorno a me, e ha dato a me occasione di
svolgermi tra i miei contemporanei, poiché tengo cattedra
di filosofia all'Università dal 1871, e per l'innanzi ero
stato studioso di ciò che occorre per filosofare.
Volgendomi al socialismo, non ho chiesto a Marx l'abicì
del sapere. Al marxismo non ho chiesto, se non ciò ch'esso
effettivamente contiene: ossia quella determinata critica
dell'economia che esso è, quei lineamenti del materialismo
storico che reca in sé, quella politica del proletariato
che enuncia o preannuncia. Non chiesi al marxismo nemmeno la
conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo
senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed
è l'hegelismo, che rifioriva appunto in Italia nella mia
gioventù, e nel quale io m’ero come allevato. Manco a farlo
a posta, la mia prima composizione filosofica, in data del maggio
1862, è una: Difesa della dialettica di Hegel contro il
ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller! Per intendere il socialismo
scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima
volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si
voglia, essendo io vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che
pensatamente penso. Aggiungo anzi, che, mentre il marxismo non mi
tornava punto difficile nei suoi lineamenti intrinseci e formali,
in quanto metodo di concezione, mi tornava invece di faticosa
acquisizione nel suo proprio contenuto economico. E mentre io
andavo facendo, nel miglior modo che mi fu possibile, cotesta
acquisizione, non era né dato né permesso a me di
confondere la linea di sviluppo che è propria del
materialismo storico, ossia il senso che ha qui in questo caso
concreto l'evoluzione, con quella, direi quasi, malattia
cerebrale, che da anni già ha invaso i cervelli di quei
molti italiani, che parlano ora di una Madonna Evoluzione, e
l'adorano.
Che mi chiede, dunque, il De Bella? Che io, a guisa di giovane
seminarista, pur mo' svestito, ritorni a scuola! O vuole ch'io mi
faccia ribattezzare da Darwin, riconfermare da Spencer, reciti poi
la confessione generale innanzi ai compagni, e mi prepari a
ricevere da lui l'estrema unzione? Per quieto vivere lascerei
correre tutto il resto; ma contro all'appello alla coscienza dei
compagni protesto recisamente. I compagni rigidi e perfino
tirannici per ciò che si attiene alla condotta politica del
partito in una certa misura e in date condizioni, li ammetto. Ma i
compagni che abbiano autorità di pronunziare da arbitri in
fatto di scienza.. - solo perché compagni... via, la
scienza non sarà messa ai voti mai, nemmeno nella
cosiddetta società futura!
O vuole una più modesta cosa, che io, cioè, affermi
e giuri che il marxismo non è la scienza universale, e che
gli oggetti che contempla non sono l'Universo? Concedo subito. E
sfido che io possa non concedere. Mi basta di ricordarmi
dell'orario della Università, e dei moltissimi corsi che
enumera. Anzi concedo ancora di più. Ecco qua: “Questa
dottrina non è se non agl’inizii suoi, ed ha bisogno ancora
di molto sviluppo” (Del
materialismo storico, cap. I).
Difatti, ciò che tormenta il De Bella e tanti altri, gli
è appunto la caccia alla universale filosofia, nella quale
il socialismo possa poi essere bene allogato, come la parte nella
visione del tutto. S'accomodino! La carta è paziente:
così dicono gli editori tedeschi agli autori novellini. Ma
non posso risparmiarmi due avvertenze. La prima è, che
nessun sofo di questo mondo riuscirebbe mai a darci l'idea
dell'universa filosofia in due colonne della “Critica Sociale". La
seconda è affatto personale. Sono venti anni ormai che io
ho in uggia la filosofia sistematica, e come cotesta disposizione
d'animo mi ha reso più accessibile al marxismo che è
uno dei modi nei quali lo spirito scientifico si è liberato
dalla filosofia come per sé stante, cosi è causa
della mia inveterata diffidenza per lo Spencer filosofo, che nei
Primi Principii ci ha ridata una schematica del cosmo. E qui
occorre che citi me stesso:
“Io non ero venuto in questa
università, ventitré anni fa, qual rappresentante
di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di
novello sistema. Per le fortunate contingenze della mia vita, io
avevo fatta la mia educazione sotto l'influsso diretto e genuino
dei due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo la
filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; e ossia dei
sistemi di Herbart e di Hegel, nei quali era arrivata
all'estremo delle conseguenze l'antitesi tra realismo e
idealismo, tra pluralismo e monismo, tra psicologia scientifica
e fenomenologia dello spirito, tra specificazione dei metodi ed
anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica.
Già la filosofia di Hegel avea messo capo nel
materialismo storico di Carlo Marx, e quella di Herbart nella
psicologia empirica, che, a date condizioni, e dentro certi
limiti, è anche sperimentale, comparata, storica e
sociale. Eran quelli gli anni, nei quali, per la intensiva ed
estensiva applicazione del principio dell'energia, della teoria
atomica e del darwinismo, e col ritrovamento delle accertate
forme e condizioni della fisiologia generale, si rivoluzionava a
vista d'occhi tutta la concezione della natura. E in pari tempo,
l'analisi comparativa delle istituzioni, in concorrenza con la
linguistica e con la mitologia comparata, e poi la preistoria
tutta, e, da ultimo, la economia storica, rovesciavano la
più parte delle posizioni di fatto e delle ipotesi
formali, su le quali, e per le quali, si era per l'innanzi
filosofato sul diritto, su la morale e su la società. I
fermenti del pensiero, quei fermenti che sono impliciti nelle
nuove o nelle rinnovate scienze, non accennavano, come non
accennano ancora, allo sviluppo di una novella sistematica
filosofica, che tutto il campo della esperienza contenga e
domini. Passo sopra alle filosofie di privato uso ed invenzione,
com’è il caso dei Nietzsche e dei von Hartmann, e mi
risparmio ogni critica di questi
pretesi ritorni ai filosofi di altri tempi, che dànno per
resultato una filologia in cambio della filosofia, com'è
accaduto dei neokantiani.
Mi soffermo a notare il
quasi inverosimile equivoco verbale, per il quale molti
ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz'altro quella
specificata filosofia, che è il positivismo, col
positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile
nuova esperienza naturale e sociale. A costoro capita, per es.,
di non saper distinguere nello Spencer, ciò che è
merito incontrastabile in lui, d'aver cioè concorso a
formare la fisiologia generale, da ciò che è
impotenza in lui a spiegare un solo fatto storico concreto per
mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro
accade di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che
è dello scienziato da ciò che è del
filosofo; il quale, giuocando di scherma con le categorie
dell'omogeneo, dell’eterogeneo, dell'indistinto, e del
differenziato, del conosciuto e dell'inconoscibile, è
anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un
kantiano inconsapevole e a volte un Hegel in caricatura.
L'ordinamento della
Università deve anch'esso spiccatamente riflettere lo
stato attuale della filosofia, che ormai consiste nella
immanenza del pensiero nel realmente saputo; e, cioè,
consiste nell'opposto di ogni anticipazione del pensiero sul
saputo, per via della teologica o metafisica escogitazione”
(L'Università e la libertà della scienza, Roma 1897,
pp. 15, 16 e 17).
Al postutto poi cotesta filosofia, dirò così,
vagheggiata dal De Bella, non sarebbe, in fondo, se non una
riedizione della triunità Darwin-Spencer-Marx, messa in
giro con tanta suggestione di eloquenza, ma con tanto poca
fortuna, or son tre anni già, da Enrico Ferri. Ebbene, caro
Turati, io voglio fare onestamente la parte dell'avvocato del
diavolo, e riconosco, che in coteste incerte aspirazioni alla
filosofia del socialismo, (e poco manca, alcuni non credano che
debba essere una specie di filosofia a privato uso dei soli
socialisti) e perfino nei molti spropositi che qua e là si
vanno dicendo, c'è un nocciolo di sentimento giusto, che
risponde ad un reale bisogno. Molti di quelli che in Italia si
dànno al socialismo, e non da semplici agitatori,
conferenzieri e candidati, sentono che è impossibile di
farsene una persuasione scientifica, se non riallacciandolo per
qualche via o tramite alla rimanente concezione genetica delle
cose, che sta più o meno in fondo a tutte le altre scienze.
Di qui la mania che è in molti, di cacciar dentro al
socialismo tutta quella rimanente scienza di cui più o meno
essi dispongono. Di qui i molti spropositi e le molte
ingenuità, in fondo sempre spiegabili. Ma di qui anche un
grave pericolo; che, cioè, molti di cotesti intellettuali
dimentichino che il socialismo ha il suo fondamento reale soltanto
nella presente condizione della società capitalistica, e in
ciò che il proletario e il rimanente popolo minuto possono
volere e fare; - che per opera degli intellettuali Marx divenga un
mito; - e che, mentre essi discorrono, dall'alto al basso e dal
basso all'alto, tutta la scala dell'evoluzione, da ultimo in un
non lontano congresso di compagni si metta ai voti questo
filosofema: il primo fondamento del socialismo è nelle
vibrazioni dell'etere.
Per ciò mi spiego le ingenuità del De Bella. Se Marx
fosse ancora vissuto! Già si capisce: essendo nato il 5
maggio 1818, ed essendo morto il 14 marzo 1883, poteva umanamente
vivere ancora; e, vivendo - direi io – avrebbe portato a
compimento il III volume del Capitale, che c’è rimasto
così sgangherato e così oscuro. Nossignore, dice De
Bella, sarebbe diventato materialista. Ma santi numi; se era tale
dal 1845, e per ciò venne in uggia agli ideologi radicali
di sua conoscenza! E oltre che materialista sarebbe diventato
anche positivista. Il positivismo! Nella volgare cronologia
cotesto nome designa la filosofia di Comte e suoi seguaci. Ora
questa avea idealmente tirate le cuoia, già prima che Marx
fisicamente morisse. Che bel vedere: il materialismo - il
positivismo - e la dialettica in santissima trinità! E poi,
che altro bel vedere; il papato scientifico del Comte riconciliato
con la indefinita progressività del materialismo storico,
che risolve il problema della conoscenza in opposizione ad ogni
altra filosofia, ed enuncia:
- non esserci limitazione fissa, né a priori né a
posteriori, alla conoscibilità, perché
nell'indefinito processo del lavoro, che è esperienza, e
dell'esperienza, che è lavoro, gli uomini conoscono tutto
ciò che fa bisogno ed è utile di conoscere. Quel
Comte, che proclamava chiuso per sempre il ciclo della fisica e
dell'astronomia, proprio nel momento in cui si ritrovava
l'equivalente meccanico del calore, e pochi anni innanzi alla
strepitosa scoverta dell'analisi spettrale; quel Comte, che nel
1845 dichiarava assurda la ricerca circa l'origine della specie!
Ma il materialismo storico, continua De Bella, ha da contemplarsi
con la preistoria! E qui il diavolo ci mette proprio la coda.
L'Ancient Society del Morgan, pubblicata in America e giunta in
Europa in pochi esemplari con la ditta Mac-Millan di Londra
(1877), fu messa come sotto sequestro dalla spietata lega del
silenzio fattavi attorno dagli etnografi inglesi, o invidi, o
paurosi. I resultati delle ricerche del Morgan circolarono
però per il mondo precisamente per mezzo del libro
dell'Engels, che s'intitola: Della origine della famiglia, della
proprietà privata e dello stato (I° ediz. 1884, 4°
ediz. 1891), che è al tempo stesso recensione, esposizione
e complemento del testo, e reca in sé la tentata
ricongiunzione di Morgan e di Marx. E che dice Engels di Morgan? –
“aver questi novellamente scoverto il materialismo storico, nella
assoluta ignoranza di quanto Marx ne avesse scritto”; e quale fu
l’occasione del libro? - il desiderio di mettere a profitto le
note e le glosse lasciate da Marx!
Via, la volgare cronologia è qualcosa di assai
importante... anche pei socialisti.
E torniamo pure all'inevitabile Spencer. Chi è mai, che,
fuori d'Italia, si sia permesso di aggiudicarlo al socialismo?
È forse lo Spencer un filosofo dell’altro mondo? Di lui e
sopra di lui si può leggere ora in tutte le lingue, non
esclusa quella dell'ammodernato Giappone. Né pecca di
oscurità: anzi agli occhi miei, che amo la succosa
brevità, pecca di prolissa e di minuziosa
popolarità. Il primo scritto di lui che si conosca reca la
data del 1843. Eravamo, si noti bene, nel più forte
dell'agitazione cartista. Quello scritto s'intitola: Della sfera propria dello stato.
Spencer fu alle viste di tutto il mondo come ammirato
collaboratore dell'”Economist”, della “Westminster” e della
“Edinburg Review”; e notiamo nuovamente le date, precisamente
negli anni significativi dal 1848 al '59. Chi mai si è
fatto illusioni in Inghilterra sul senso e sul valore delle sue
vedute sociali e politiche? La Statica
sociale apparve nel '51, la Psicologia (l° ediz.) nel '55, il Trattato sulla educazione nel
'61, la l° edizione dei Primi
principii nel '62, la Classificazione
delle scienze nel '64, la Biologia dal '64 al '67, per non dire dei minori
Saggi, e tra questi
notevolissimi l'Ipotesi dello
sviluppo (1852), la Genesi
della scienza (1854), e il Progresso e la sua legge (1857). E qui chiudo la
filastrocca per arrestarmi alle pubblicazioni che precedono il
I° volume del
Capitale (25 luglio
1867).
Non occorreva invero il genio di Marx per scorgere in tali
scritti ciò che ero in grado di scorgervi io, da semplice
studioso della filosofia, già 30 anni fa: che, cioè,
la dottrina dell'evoluzione che vi si enuncia è schematica
e non empirica, che quella evoluzione lì è
fenomenale e non reale, e che essa ha di dietro lo spettro della
cosa in sé di Kant, dapprima onorata in tutte lettere col
nome di Dio o della Divinità (Statica, ediz. del 1851),
più tardi circonlocuita nel riverito nome
dell'Inconoscibile.
Metterei pegno, che, se mai Marx fra il '60 e il '70 avesse
recensito le opere dello Spencer, avrebbe usato del seguente
stile: “ecco l'ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del
secolo XVII; - ecco l'ultimo sforzo della ipocrisia inglese nel
combattere la filosofia di Hobbes e di Spinoza; - ecco l'ultima
proiezione del trascendente sul campo della scienza positiva; -
ecco l'ultima transizione fra il cretinismo egoistico del signor
Bentham e il cretinismo altruistico del Rabbi di Nazareth; - ecco
l'ultimo tentativo dell'intelletto borghese per salvare, con la
libera ricerca e la libera concorrenza nell'al di qua, un
enigmatico brandello di fede per l'al di là; - solo il
trionfo del proletariato può assicurare allo spirito
scientifico le condizioni piene e perfette di sua propria
esistenza, perché solo nella trasparenza dell'opera
può essere congruamente trasparente l'intelletto”.
Così Marx scrivea - cioè, volevo dire, così
avrebbe potuto scrivere: - ma lui avea da pensare allora
all'Internazionale, e di questa lo Spencer non ebbe tempo di
avvedersi.
Il 17 marzo del 1883 Federico Engels, parlando al cimitero di
Highate in memoria dell'amico Marx, morto tre giorni innanzi,
cominciava proprio così: “Come Darwin scovrì la
legge dello sviluppo della natura organica, così Marx
scovrì la legge dello sviluppo della storia umana”.
Non c'è da rimanerne proprio mortificati?
Né basta. Nell'Antidühring
(I° ediz. del 1878 - la terza è del '94) il medesimo
Engels avea già acquisito tutte le nozioni fondamentali del
darwinismo, che occorrono alla generale orientazione del
socialismo scientifico. A ciò fare erasi preparato con
dieci anni di novella educazione nelle scienze naturali, e
candidamente confessava: esser lui in queste più addentro
di Marx, che alla sua volta era forte in matematica. E nemmeno
ciò basta. Nella prima edizione del Capitale si trova una
nota caratteristica e originalissima sul nuovo mondo scoperto da
Darwin. S'intende già che quei due modesti mortali, che non
fecero mai le parti di sopracciò dell'Universo, inteso
sempre di riferirsi a quel prosaico darwinismo della Origine della
specie (1859), che è un gruppo di teorie tratte da un
gruppo di osservazioni e di esperienze sopra un campo circoscritto
della realtà, che rimane più in qua dalle origini
della vita e precede d'un buon tratto la storia umana. In quelle
teorie non poteano non iscorgere un caso analogico con la
concezione epigenetica della storia, che essi aveano in parte
definita, in parte adombrata appena. Non seppero però mai
di quel darwinismo, il quale ha scoperto le leggi della intera
umanità (De Bella); di quel darwinismo, insomma, buono per
tutto, che è una gratuita invenzione dei pubblicisti a
corto di scienza, e dei decadenti della filosofia. L'amico loro
Heine non avea forse detto: l'Universo è pieno di buchi, e
il professore tedesco hegeliano covre quei buchi col suo berretto
da notte?
E lasciando stare l'Universo e i suoi buchi, procuriamo, caro
Turati, di fare ciascuno il dover nostro. Mi ricorre sempre per la
mente questa grave invettiva che 30 anni fa pronunziava
l'hegeliano B. Spaventa: “Qui da noi si studia la storia della
filosofia nella geografia dell'Ariosto, e si citano alla pari,
Platone e l'abate Fornari, Torquato Tasso e Totonno Tasso”.
Credetemi sempre, etc.
VIII.
Roma, 20 giugno '97
Mi occorre come un post-scriptum, che rechi delle postille alla
penultima lettera, tanto grave di non facile filosofia.
Metto – com’è naturale - fra i prodotti delle
affettività nostre, dei quali dissi che adombrano
l'intelletto volgente alla scienza, anche quei complessi di
inclinazioni, di tendenze, di valutazione e di pregiudizii, che di
solito designiamo con le denominazioni antitetiche di ottimismo e
di pessimismo.
In tali modi di apprezzamento, che oscillano dal passionale al
poetico, e rivelan sempre la nota incerta di ciò che non
può ridursi in formula precisa, non è chi sappia
scorgere, né l'indirizzo, né la promessa di una
razionale interpretazione delle cose. Sono, nel tutt'insieme, la
estrinsecazione riassuntiva di infiniti particolari sentimenti, i
quali possono aver sede, come la cosa è più patente
nel caso del pessimismo, così nello specifico temperamento
di un singolo individuo (per es., Leopardi), come in una
situazione comune ad una intera moltitudine (alle origini per es.
del Buddhismo). Ottimismo e pessimismo nella somma, consistono nel
generalizzare le attività resultanti da una determinata
esperienza o situazione sociale, e nel prolungarle tanto fuori
dell'ambito della nostra vita immediata da farne come l'asse, il
fulcro, o la finalità dell'Universo.
In guisa che poi, in fine, le categorie del bene e del male, che
han realmente un senso così modestamente relativo alle
nostre contingenze pratiche, divengono come il criterio per
giudicare di tutto il mondo, ridotto in così piccola
immagine, da parer fatto qual semplice supposto e qual semplice
condizione della felicità o della infelicità nostra.
Così dall'uno come dall'altro dei due angoli visuali, par
che il mondo non possa intendersi se non come fatto, o a fin di
bene, o a fin di male, e costituito per la prevalenza o per il
trionfo, o dell'uno o dell'altro.
Nel fondo di cotesti modi di concepire c'è sempre la
originaria poesia, che non si scompagna mai dal mito; - e tali
modi di concepire forman sempre, dal crasso ottimismo maomettano
al raffinato pessimismo buddhistico, il midollo pratico e la forza
suggestiva dei sistemi religiosi. E ciò è
naturalissimo. La religione, che appunto per ciò e, per
ciò solo, è un bisogno, consta i tante
trasfigurazioni dei timori, delle speranze, dei dolori, delle
amarezze della vita cotidiana, in creduti e paventati
preordinamenti; in guisa che le lotte del così detto
quaggiù vengon tramutate in contrasti dell'Universo: - dio
e satana - la caduta e la redenzione - la creazione e la
palingenesi - la scala delle espiazioni ed il Nirvana.
Quell'ottimismo e quel pessimismo, che si presentano nella veste,
o meglio nelle apparenze di cosa pensata, nell'ambito di certe
filosofie, non son che residui più o meno consaputi della
religione come che sia trasformata, o di quella antireligione, che
nell'impeto passionato del non credere rassomiglia alla fede.
L'ottimismo di Leibnitz per es. non è certo la funzione
filosofica della sua ricerca del calcolo superiore, né
della sua critica dell’azione a distanza, e nemmeno del suo
monadismo metafisico, né della sua scoverta del
determinismo interno. Il suo ottimismo è la sua religione -
ossia quella religione che parve a lui come la perpetua e perenne
- quel cristianesimo, in cui tutte le chiese cristiane si
conciliano - quella provvidenza giustificata nella
rappresentazione di un mondo, che è l'ottimo che potesse
mai essere e sussistere. Quella poesia teologica ha il suo
pendant, dialettico perché umoristico, nel Candide di
Voltaire! E così il pessimismo di Schopenhauer non è
la resultante necessaria della sua critica della critica kantiana,
né la funzione diretta delle sue squisitissime ricerche
logiche; ma è la estrinsecazione della sua anima di piccolo
borghese, meschino e dispettoso, anzi ringhioso, che si completa
con la contemplazione (metafisica) delle cieche forze
dell'Inconsapevole (ossia del cieco conato all'esistere); si
completa, cioè, di una forma religiosa poco avvertita in
generale, la religione dell’ateismo.
Se, dalle configurazioni e dalle complicazioni secondarie e
derivate della religione o della filosofia teologizzante, noi
risaliamo all'origine prima ed immediata di quelle creazioni
ideologiche, che son l'ottimismo e il pessimismo, noi ci troviamo
in presenza di un fatto, tanto ovvio, per quanto semplice: che
ogni uomo, cioè, per la sua struttura fisica, e per la sua
posizione sociale, è portato ad una specie di calcolo
edonistico, ossia a misurare i suoi bisogni, e quindi i mezzi per
soddisfarli; e, in fine, per necessaria conseguenza, viene ad
apprezzare, in un modo, o in un altro, le condizioni della vita e
il pregio della vita stessa nel suo complesso. Ora, quando la
intelligenza è tanto progredita, da aver vinto
gl'incantesimi della imaginatio e della ignorantia, i quali legano
le sorti così poveramente prosaiche dell'ovvia vita
cotidiana alle (fantasticate) forze trascendenti, non è
più alla suggestione generica dell'ottimismo o del
pessimismo che si tenga dietro. L'animo si volge al (prosaico)
studio dei mezzi occorrenti a raggiungere, non quell'ente favoloso
che dicesi la felicità, ma lo sviluppo normale delle
attitudini; le quali, date le favorevoli condizioni sociali e
naturali, fanno sì che la vita trovi se stessa la ragione
dell'esser suo e della esplicazione sua. È qui il
cominciamento di quella saggezza, che sola può giustificare
la etichetta dell'homo sapiens.
Il materialismo storico, come è la filosofia della vita, e
non delle parvenze ideologiche di questa, sorpassa l'antitesi
dell'ottimismo e del pessimismo; perché ne supera i
termini, comprendendoli.
La storia è si una serie dolorosamente interminabile di
miserie; - il lavoro, che è la nota distintiva del vivere
umano, è diventato il tormento e la maledizione della
maggioranza degli uomini; - il lavoro, che è la premessa di
ogni umana esistenza, è diventato il titolo alla soggezione
del più gran numero degli uomini; - il lavoro, che è
la condizione di ogni progresso, ha messo le sofferenze, le
privazioni, i travagli e i patimenti del maggior numero degli
uomini in servizio della comodità di pochi. Dunque la
storia è un inferno: - anzi potrebb'esser rappresentata, in
un lugubre dramma, come la tragedia del lavoro!
Ma questa stessa storia lugubre ha tratto da cotesta stessa
condizione di cose, quasi sempre all'insaputa degli uomini stessi,
e non certo per la provvidenziale preordinazione di alcuno, i
mezzi occorrenti al relativo perfezionamento, prima di pochissimi,
poi di pochi, poi di più che pochi; - e ora pare ne prepari
per tutti. La gran tragedia non era evitabile. Non deriva da una
colpa o da un peccato, non da una aberrazione o degenerazione, non
dal capriccioso e peccaminoso abbandono della retta via; ma da una
necessità intrinseca al meccanismo stesso del vivete
sociale, e al ritmo processuale di questo. Questo meccanismo
poggia su i mezzi di sussistenza, che sono il prodotto del lavoro
stesso degli uomini, combinato con le più o meno favorevoli
condizioni naturali. Ora che si apre innanzi ai nostri occhi
questa prospettiva che la società, cioè, possa
essere organizzata in modo, da dare a tutti i mezzi di
perfezionarsi, noi vediamo chiaro, che tale aspettativa diventa
plausibile, precisamente perché, col crescere della
produttività del lavoro, si stabiliscono le condizioni
materiali occorrenti a comunicare a tutti gli uomini la
civiltà. In ciò sta la ragion d'essere del comunismo
scientifico, che non confida nel trionfo di una bontà, la
quale, chi sa in quali pieghe latenti di tutti i cuori di tutti i
trapassati gl'ideologi del socialismo sono andati a scovare, per
proclamarla l'eterna giustizia. Ma confida nel crescere di quei
mezzi materiali, che permetteranno crescan per tutti gli uomini le
condizioni dell'ozio indispensabili alla libertà: - la qual
cosa vuol dire, che le ragioni dell'ingiusto saranno eliminate,
ossia la signoria, la padronanza, il dominio dell'uomo su l'uomo;
le quali ingiustizie (ad usare il linguaggio degli ideologi)
suppongono come conditio sine qua non proprio quella miserabile
cosa materiale, che è lo sfruttamento economico!
Solo in una società comunistica, il lavoro, oltre che non
sfruttabile, può essere razionalmente misurato. Solo nella
società comunistica, il calcolo edonistico, non intralciato
dallo sfruttamento privato delle forze sociali, può aver
carattere di cosa precisabile. Rimossi gl'impedimenti al libero
sviluppo di ciascuno, quegli impedimenti, cioè, che
differenziano ora le classi e gl'individui fino al non
riconoscibile, ciascuno potrà trovare, nella misura di
ciò che occorre alla società, il criterio di
ciò che per lui è il fattibile e il necessario a
fare. Adattarsi al fattibile, e non per esterna costrizione, in
ciò sta la norma della libertà, che è una
cosa sola con la saviezza; perché non ci può esser
morale vera là dove non è la coscienza del
determinismo. In una società comunistica cadono da per
sé le antitetiche parvenze dell'ottimo e del pessimo,
perché la necessità del lavorare in servizio della
collettività e l'esercizio della piena autonomia personale
non formano più antitesi, anzi appariscono come una e
medesima cosa; - l'etica di cotesta società annulla la
opposizione fra diritti e doveri, che non è, in sostanza,
se non l'amplificazione dottrinale della condizione di questa
antitetica società presente, nella quale alcuni han
facoltà d'imporre ed altri hanno obbligo di prestare; - in
cotesta società, in cui la benevolenza non è
carità, non parrebbe utopistico il chiedere, che ciascuno
presti secondo le sue forze, e ciascuno riceva secondo i suoi
bisogni; - in simile società la pedagogica preventiva
eliminerebbe, in buona parte, la materia della penalità, e
la pedagogica obiettiva della convivenza e della collaborazione
razionale ridurrebbe al minimo il bisogno della repressione; -
ossia, in una parola, la pena apparirebbe come la semplice
garanzia di un determinato ordinamento, e spoglia perciò
del tutto d'ogni parvenza metaforica di superna giustizia da
vendicare o da ristabilire. In cotesta società non
allignerebbe più il bisogno di cercare alla sorte pratica
dell'uomo una spiegazione trascendente.
Per questo criticismo delle cause della storia, delle ragioni
della società presente, e dell'aspettativa razionalmente
misurata e misurabile di una società futura, si vede
perché l'ottimismo e il pessimismo, come tante altre
ideologie, dovessero e debbano servire di sfogo e di
estrinsecazione alle affettività delle coscienze
travagliate dalle lotte della esistenza sociale. Se è
questo che intendono di dire gli ideologisti, cui voi alludete; e,
se parlando di eterna giustizia, essi pensano di farsi
raccoglitori postumi dei sospiri e delle lagrime
dell'umanità attraverso i secoli, tal sia di loro; - le
licenze poetiche non son vietate nemmeno ai socialisti. Soltanto
non si provino poi a metter su le gambe al mito dell'eterna
giustizia, per ispedirlo in marcia contro il regno delle tenebre.
Quella gran benefica signora non ismuoverà una sola delle
pietre dell'edificio capitalistico. Ciò che gl'ideologi del
socialismo chiamano il male, contro di cui il bene combatte, non
è una astratta negazione, ma è un duro e forte
sistema di cose effettuali: è la miseria organizzata per
produrre la ricchezza. Ora i materialisti della storia son
così poco teneri di cuore, da affermare, che essi in questo
male trovano precisamente le molle dell'avvenire; ossia, nella
ribellione degli oppressi, e non nella bontà degli
oppressori.
Del facile ricadere nella metafisica, in senso non laudabile,
fanno fede assai spesso anche quegli studii, che, a detta degli
autori loro, rappresentano la quintessenza del procedere
scientificamente positivo. Questo è il caso, per es., di
molti dei divulgatori della disputata e disputabile antropologia
criminale.
Come intento e come tendenza essa rappresenta una parte notevole
di quella salutare critica del diritto punitivo, che pian piano
è riuscita a scuotere dai fondamenti tutta la costruzione
filosofica, e soprattutto etica, di un fatto così semplice
e così empirico, qual è quello della
inevitabilità del punire, data la esistenza di una
società. Nel metodo, però, di rado essa esce dai
confini della combinatoria statistica, e da quell'a un di presso
di verosimile, che è proprio del variopinto complesso di
studii, che chiamasi in genere antropologia. Quasi mai si
avvicina, per es., alla precisione di indagine, per la quale la
psichiatria, che parrebbe secondo alcuni affine, grazie ai
progressi maravigliosi dell'anatomia dei centri nervosi, e di
tutte le parti della medicina, ha contribuito allo sviluppo della
psicologia, nel giro di pochi anni, assai più non facessero
in venti secoli le discussioni sul testo di Aristotele, e le
ipotesi dello spiritualismo e del materialismo puramente
razionalisti.
Ma non è ciò che mi prema di notare.
In quella dottrina campeggia la tendenza a fissare, come
predisposizioni (innatistiche) le ricorrenze del delinquere in
quegli individui i quali presentino certi caratteri indiziali,
caratteri, che nell'aspetto obiettivo, del resto, non son sempre,
né ben raccolti, né ben fissati. E qui nulla di
male.
La teoria, che sta in fondo al diritto penale dei paesi su i quali
la rivoluzione borghese abbia esteso l'azione sua, ha di comune
con tutto ciò che chiamiamo liberalismo i pregi e i difetti
di quel principio egalitario, il quale, date le differenze
naturali e sociali degli uomini, non può non essere
puramente formale ed astratto. Questa teoria è stata di
certo un progresso su la giustizia di corpo, e su i privilegi del
clero e dell'aristocrazia; e per questo rispetto è una
vittoria storica l'enunciato: la legge è eguale per tutti.
Inoltre, cotesta teoria, riducendo il punire alla sola garenzia
giuridica dell'ordine legalmente costituito, si contenta di
colpire ciò che è un danno o una lesione all'ordine
stesso, e non s'addentra più nella coscienza. Spoglia
com'è di ogni carattere religioso, non colpisce il pensiero
e l'animo. Non è più l'istrumento di una chiesa, di
una credenza, di una superstizione. È prosaico cotesto
diritto penale, come è prosaica tutta la società
capitalistica. E questo è un altro trionfo - salvo alcune
lievi inconseguenze - del libero pensiero. In una parola, si
punisce l'atto, non l'uomo; si punisce il turbatore di
quell'ordine che si vuol difendere, non la coscienza, sia
irreligiosa, miscredente, atea e così via. Per giungere a
cotesto resultato, cotesta teoria ha dovuto costruire, su la base
media della volontarietà, ed esclusi gli estremi della
mancanza di consapevolezza e di direzione nell'operare, una tipica
responsabilità eguale per tutti gli uomini. Ed è
qui, che, come per ironia alla vantata e celebrata giustizia, il
principio della legge eguale per tutti si tramuta dialetticamente
nella massima ingiustizia: perché gli uomini sono in
realtà socialmente e naturalmente disuguali innanzi alla
legge.
Su questa dialettica si sono esercitati da un pezzo sociologisti,
e socialisti, e critici d'ogni maniera. C'è come una lunga
scala di opinioni, in contrapposto al diritto esistente: dal
paradosso intinto di misticismo, che la società punisca i
delitti che essa cova, alla esigenza umanitaria, che la educazione
eguale per tutti giustifichi, col porne le condizioni di
attuabilità, il principio della legge eguale per tutti. La
punta acuta di tutta la critica è quella dei socialisti
conseguenti: i quali, partendo dal concetto delle differenze di
classe, come essenziali al presente vivere sociale, non cercano
nel diritto del punire, come non cercano in nessun'altra parte del
diritto esistente, la giustizia eguale per tutti; perché
ciò sarebbe come cercare l'inverosimile, data questa forma
di società, in cui le differenziazioni sono le cause e il
contenuto della compagine stessa. Questo diritto di mezzana
giustizia, che contraddice il più delle volte a se stesso,
è insito ad una società, in cui il postulato della
eguaglianza deve smentire di continuo se stesso. La menzogna
è assai più palese in quella bella trovata degli
apologisti della forma capitalistica, quando dicono, che alla fin
fine i salariati son dei liberi cittadini, che liberamente si
dànno a mercede pattuendo alla pari con quei loro eguali,
che sono i capitalisti! - Ma noi socialisti cotesto principio in
sé contraddittorio non vogliamo abbandonarlo, per andar poi
a braccetto dei reazionarii, che per altre ragioni lo combattono,
e per altre vie vorrebbero eliminarlo: anzi noi l'accettiamo come
la negatività immanente alla società borghese,
ossia, come il suo storico corrosivo.
L'antropologia criminale è venuta in buon punto a
sussidiare dei suoi studii speciali la tesi critica, che mette in
evidenza l’inverosimile della legge eguale per tutti. In questo
senso essa è una dottrina progressiva. Alle differenze
sociali, che rendono assurdo il postulato della
responsabilità eguale per tutti, secondo la tipica forma
della volontarietà della mente sana, ha aggiunto lo studio
delle differenze presociali, che sono i limiti che la
bestialità contrappone, come forze invincibili, a qualunque
azione di adattamento educativo. Non occorre qui di vedere, se
essa abbia esagerata la estensione di cotesta bestialità,
interpretando male i casi che intendeva di studiare, e
amplificando alcune volte fantasticamente i resultati di parziali
e poco precise osservazioni. Ciò che importa qui è
di dire, che essa, per un certo rispetto metodico, ricade,
inconsapevolmente, nella detestata metafisica. Nella foga
legittima di combattere l'ente giustizia e l'ente
responsabilità, fissa poi dei fatti naturali, delle
disposizioni, cioè, a delinquere, la cui denominazione e
definizione va togliendo da quelle categorie della tutela sociale,
che rispondono soltanto alle condizioni di vita alle quali gli
uomini, in verità solo dopo che son nati, si vanno
assuefacendo. In natura, per ispiegarmi, ci sarà la
eccessiva e sfrenata libidine, ma non certo l'adulterio (questa
è una categoria arcirelativamente sociale!); la
rapacità, ma non il furto in tutte le sue economiche
specificazioni fino alla firma falsa su la cambiale; il
temperamento sanguinano, ma non il regicidio, e così via.
Né si dica che queste sian questioni meramente verbali.
Ciò tocca all'essenza della cosa. Ciò riguarda la
coscienza dei limiti metodici. Ciò importa a ricordare, che
la metafisica è un male atavistico, al quale non isfuggono
nemmeno quelli che di continuo gridano: abbasso la metafisica! In
altro campo di studii, cioè nella psicologia in genere e
nella psichiatria in ispecie, è accaduto per molto tempo lo
stesso. Molti che volean localizzare nel cervello i fenomeni
psichici, invece di tenersi ai fatti elementarissimi, che, in
verità, solo da poco tempo furono distintamente sceverati,
localizzavano (come accadde perfino all'insigne fisiologista
Ludwig) le facoltà dell'anima ed altre simili escogitazioni
del razionalismo filosofico; ossia davano un posto materiale al
non esistente. L'antropologia criminale deve ancora sceverar bene
e fissare criticamente le sue categorie, causando l'equivoco di
accettare come naturali ed innate quelle categorie, che il diritto
punitivo, avuto riguardo alle condizioni di mera esperienza
sociale, ha, per ragioni di pratica, fissate ed accettate.
IX.
Roma, 2 luglio '97
Voi accennate a quei critici, di varia indole e natura, i quali,
per varie ragioni di molto difformi fra loro, ritengono, che il
cristianesimo sfugga all'intendimento materialistico della storia,
e stimano che in tale obiezione sia come una difficoltà
insormontabile.
Devo io addentrarmi in cotesta selva, non dirò aspra e
selvaggia, ma di certo molto oscura per me? Voi sapete come io
respinga gli schematismi d'ogni sorta. Non mi pare - e pensare il
contrario sarebbe mera fatuità, - ci sia mai alcuna teoria
storica tanto buona ed eccellentissima per sé, che ne
abiliti alla sommaria cognizione di ogni storia particolare,
quando anche alla ricerca specializzata di questa non ci siamo per
l'innanzi addestrati con proprii e diretti studii nostri. Ora io
su la storia della chiesa cristiana non ho fatto fino ad ora
studii ex-professo, che mi conferiscano il facile maneggio della
cosa stessa; su la quale gli obiettatori di solito discettano e
discorrono come chi giudichi per generiche impressioni. Da
giovane, come accadeva allora di tutti quelli che si aggirassero
nella cerchia della filosofia classica di Germania, lessi lo
Strauss e i principali scritti della scuola di Tubinga; ed ora,
con tanti altri, potrei, con piccola variante, ripetere la
esclamazione di Faust: ich habe, leider, auch Theologie studiert!
Ma poi dopo... io di coteste materie non mi son più
occupato. Ho serbata però in me viva la persuasione, che,
come con la scuola tubingese cominciò, in definitivo e per
davvero, quella considerazione del cristianesimo, che sola
può dirsi storica, così gli ulteriori progressi
consistano principalmente nelle correzioni e nei complementi, che
furon già portati, o si vanno portando, ai resultati di
quella stessa scuola. La principale delle correzioni è, e
deve, a mio avviso, esser tuttora questa: che, mentre i tubingesi
mirarono, in modo prevalente sì, ma non esclusivo, a
studiare la genesi ed il processo delle credenze e dei dogmi, sia
poi occorso, e occorra al presente, di mettersi allo studio
obiettivo della formazione e dello sviluppo dell'associazione
cristiana. Per cotesto riavvicinarsi a quel modo di
considerazione, che, brevitatis causa, chiamerò
sociologico, si fa un passo innanzi nella obiettività della
ricerca: in guisa, che l'intendimento del come e del perché
l'associazione è nata e si è svolta, ci dà il
modo di vedere per quali ragioni e per quali vie gli animi, le
fantasie, le menti, i desiderii, i timori, le speranze, le
aspirazioni degli associati dovessero completarsi di certe
credenze, ricercare certi simboli, giungere alla escogitazione di
certi dogmi; - o come gli associati potessero mettere, in somma,
assieme tutto un mondo dottrinale ed ideologico. Fatta una tale
inversione, si è già su la via, che mena diritto al
materialismo storico; ossia siam prossimi al postulato generale,
che si debba considerare le idee come il prodotto e non come la
causa di una determinata struttura sociale.
Se non erro, - perché, come dicevo, di tali argomenti me ne
intendo relativamente poco - in questo indirizzo realistico
concorrono soprattutto gli studii recenti delle antichità
cristiane; nei quali, mi pare, primeggiano gli scrittori del
genere di Harnack e simiglianti. Cito incidentalmente,
giacché questo libro qui io l'ho studiato, quelle
notevolissime letture dell'inglese Hatch; nelle quali, con la
massima lucidezza di analisi documentaria, si va dimostrando, come
l'associazione cristiana, da un punto in qua dalle sue primissime
origini, si sviluppasse e si consolidasse per via dell'adattamento
alle varie forme di quel diritto corporativo, che fioriva nelle
varie regioni dell'impero, o nelle condizioni peculiarmente
proprie al giure pubblico romano, o in quelle altre degli altri
usi locali e nazionali, e segnatamente delle istituzioni greche ed
ellenistiche. I nostri vescovi non se ne abbiano a male. Lo
spirito santo ci sarà entrato per qualche cosa nel metterli
al di sopra del rimanente dei fedeli, da quando nella associazione
originariamente democratica si creò la differenziazione
gerarchica di clero e di laici (ossia popolani); ma il loro nome
stesso ricorda, che la organizzazione fu fatta sul preciso modello
di quei corpi di navicellai, pescivendoli, fornai e simili, che
aveano i loro episcopi (sopravveglianti) et reliqua.
A questo punto bisogna fare ancora un passo innanzi. Bisogna,
cioè, abbandonare il concetto astratto e generico di una
storia unica ed unitaria di tutto il cristianesimo, e venire alla
storia particolare, per tempi e luoghi, dell'associazione
cristiana: - la quale associazione ora è una parte soltanto
di quella più larga società civile, semicivile, o a
dirittura barbara, in cui essa s'andò svolgendo nei primi
tre secoli; - ora par che covra ed assorba tutti i rapporti della
complessiva società semicivile o semibarbara, come fu
nell'occidente latino del così detto Medioevo; - e da
ultimo, dopo quella dilacerazione dell'unità cattolica, che
è il protestantesimo, e riconosciuta la libertà di
coscienza, e assai più spiccatamente in seguito alla Grande
Rivoluzione, torna ad essere una parte del tutto nella convivenza
politico-sociale, una parte, o prevalente, o piccola, o minima, e
così via dicendo. Su cotesta traccia stessa va trattato il
problema dei rapporti fra chiesa e stato; che è questione
di relatività storica, e non di teoretica elocubrazione
formalistica.
Per questo modo d'intendere si è in fine in grado di
ricercare e di dichiarare quelle condizioni materiali, le quali,
come è accaduto di ogni altra convivenza umana, produssero
dapprima l'associazione cristiana, e poi la mantennero, la
perpetuarono, o la portarono alla parziale o locale dissoluzione,
con tutte le varie vicende, che nelle cause e ragioni loro
divengon poi senza difficoltà patenti. E si capisce che
credenze, e dogmi, e simboli, e leggende, e liturgie, e altre
simili cose debbano venire in seconda linea, come è proprio
di ogni altra soprastruzione ideologica.
Continuare a scrivere la storia dell'ente Cristianesimo (ne faccio
qui un solo sostantivo con la lettera maiuscola), gli è
come moltiplicare l'errore di concezione metodica, nel quale
incorrono i letterati e gli eruditi, quando compongono, in senso
affatto unitario, come se si trattasse di cose per sé
stanti, le storie della letteratura o della filosofia. In coteste
manipolazioni della dotta fabbrica, pare come se i poeti, gli
oratori, i filosofi di diversi tempi, isolati quasi dal resto del
mondo in cui realmente vissero, si porgano la mano attraverso o al
di sopra dei secoli, per comporre una illustre catena; - o come
se, non avendo essi tolta la materia e l'occasione al poetare o al
filosofare dalle condizioni della società in cui si
svolsero, e dal grado evolutivo di questa, si sforzassero di
entrare nella serie indipendente, che è lo studiato indice
della dotta compilazione. Si capisce quanto sia cosa comoda
l'avere a mano, nel manuale, la somma delle notizie su ciò
che chiamiamo letteratura francese, per es. dalla Chanson de
Roland ai romanzi del signor Zola: ma dall'una cosa all'altra non
corre soltanto il cronologico millennio, né da una cosa
all'altra intercede soltanto il semplice variare della
facoltà poetica; perché, anzi, c'è di mezzo
tutto il tramutarsi di tutti i rapporti della convivenza in tutti
i suoi principali aspetti, e in rispetto a cotesti sociali
tramutamenti le manifestazioni letterarie non son che relativi
indici, sedimenti specifici, e casi particolari.
Sarà comodo, specie per l'allevamento artificiale al
sapere, che è tanta parte delle nostre Università,
il ridurre in compendio la somma di ciò che nella storia
chiamiamo genericamente filosofia; ma chi è che riesca a
capir poi per davvero, per cotesta via, come i singoli filosofi
siano arrivati a pensare in modi cosi difformi, e spesso
contraddittorii? Come si fa a mettere in una sola linea di
processo continuativo, indipendente ed unitario, la filosofia
dell'antichità, che fu fino a Platone quasi tutta la
scienza, - e poi quel minimo di scienza che fu la Scolastica
sopraffatta dalla teologia, - e più in qua quella filosofia
del secolo XVII, che è una forma di esplorazione
concettuale parallela alla nuova scienza contemporanea della
osservazione e dell'esperimento - in fine questa neocritica, che
tende ora a far della filosofia una semplice revisione formale del
saputo nelle singole scienze, già di tanto differenziate
fra loro?
A potiori è assurdo l’andar scrivendo - salvo che per
ragioni di comodità accademica - delle storie universali
del cristianesimo. Non parlo di quelli che pensano con animo da
credenti; e, ossia, opinano che il filo conduttore di tali storie
unitarie consista nella missione provvidenziale della chiesa
stessa attraverso i secoli. A coloro, che così pensano, e
in vario modo intendono cotesta storia ideale eterna, che sarebbe
come una immanente o processuale rivelazione, noi non abbiamo
nulla da dire o da suggerire. Son fuori del campo nostro. Ma quei
critici, i quali scrivono le storie unitarie di tutto il
cristianesimo, pur sapendo e confessando di aver per le mani una
materia che fa parte delle variabili e più o meno
necessarie condizioni successive della vita umana, come non
vedono, che la loro rappresentazione continuativa si tien sopra di
un assai debole filo di tradizione, e riflette uno schema assai
vago di cose appena appena riavvicinabili?
Il nascere, l'ampliarsi, il diffondersi, l'organizzarsi e lo
sparire (in alcune parti, dico, del mondo, per es. l'Asia
anteriore e l'Africa settentrionale) dell'associazione cristiana,
e il vario atteggiarsi di essa verso il rimanente
dell'attività pratica, e i multiformi legami che ebbe con
le altre aggregazioni e potestà politico-sociali: - tutte
coteste cose, che son la storia vera e effettuale, non
s'intendono, se non si parte dalle condizioni complessive di
ciascun singolo paese, nel quale, o pochi, o molti, o tutti
gl'incoli, abitanti e cittadini, o da membri di modesta setta, o
nelle forme d'imperiosa cattolicità, o perseguitati, o
tollerati, o intolleranti e perseguitanti, si professarono e
professano cristiani. E di cui solo si comincia a metter piede sul
terreno solido, di ciò che è degno obietto
dell'intendimento storico; e di qui alla interpretazione
materialistica non occorre sforzo maggiore di quello che occorra
in ogni altro ramo delle nostre conoscenze della vita del passato.
In una parola, la storia effettiva è quella della chiesa,
anzi delle chiese; ossia di una società, che ha la sua
oikonomia, così nel senso generico di ordinamento, come in
quello specificato del modo di acquisizione, di produzione, di
distribuzione e di consumo dei beni (ahimè, terreni!) Se
altri intende per cristianesimo, in un senso esclusivo, il solo
complesso delle credenze e delle aspettazioni circa il destino
umano - credenze, che in verità varian tanto, quanto
è il divario, per dirne una sola, tra il libero arbitrio
del cattolicesimo postridentino e il determinismo assoluto di
Calvino! - bisogna si rassegni a capire e ad ammettere, che
cotesto complesso di vedute e di tendenze è nato e si
è svolto sempre per entro la cerchia di una associazione,
che ha variato di continuo in vario senso, ed è stata
sempre, dal più al meno, contenuta da un più vasto e
complicato ambiente storico-sociale, tanto per dirla con la
prediletta espressione dei neologisti.
Conviene aggiungere un'altra considerazione. In questo quarto
d'ora di prosa scientifica, in cui noi ci troviamo al presente,
non si dà a credere più a nessuno, che la massa dei
raccolti nell'associazione cristiana sapessero e capissero mai
nulla di preciso del variare dei dogmi, e delle sottili
discussioni dei sapienti e dei dottori. Delle plebi di Antiochia,
di Alessandria, di Costantinopoli, e così via, agitantisi
intorno alle bandiere di Ano e di Atanasio, noi non conosciamo
precisamente le passioni, gl'interessi, il modo cotidiano del
vivere, e l'ingenito e abituale idiotismo; - non possiamo
descriverle proprio come faremmo ora di Napoli o di Londra: - ma
non saremo mai così ingenui da credere, che capissero un
iota della lotta circa la sostanza, o semplicemente simile, o
affatto identica, del figlio per rispetto al padre. Né
misureremo la differenza reale degli artigiani di Ginevra da quei
d'Italia nel secolo XVI, dal divario dottrinale fra Calvino e
Bellarmino. Per ciò appunto la storia del cristianesimo
riesce in gran parte oscura, perché essa ci fu quasi sempre
tramandata attraverso agl'involucri e alle diciture ideologiche di
quelli che furono il riflesso dogmatico-letterario dello svolgersi
dell'associazione; in guisa che della vita pratica si sa
relativamente poco, e questo poco si assottiglia fino al minimo
quanto più si risale ai primi secoli.
Inoltre, la massa dei consociati ha sempre serbato in cuor suo, e
ha trasferito nelle minute credenze e nelle leggende, molte delle
superstizioni e moltissimi dei miti che recava in sé prima
di convertirsi, e tutte quelle altre superstizioni e tutti quei
miti, che le fu necessità di creare, per rendersi in
qualche modo plausibile le dottrine astratte e metafisiche del
cristianesimo dogmatico. Accadde ciò assai visibilmente fin
dalla seconda metà del secondo secolo, quando
l'associazione avea cessato da un pezzo dall'essere una
democratica setta di aspettanti il regno di dio, compenetrati
tutti dello spirito santo, e volgeva alla formazione di una
organizzata cattolicità, così nel senso della
ortodossia, come in quello di una semipolitica coordinazione
gerarchica di moltissimi non più santi, ma semplicemente
uomini. Cresce cotesto trasferimento di tutte le superstizioni
locali, regionali ed etniche nel seno del cristianesimo,
dacché, diventando la chiesa in definitivo ortodossamente
ufficiale e territoriale, era tolto il modo a qual si fosse
più zelante di andar sceverando, con scrupolosa epurazione,
i capaci di una persuasione, frutto di pedagogico addestramento,
dagli obbligati a credere, e a stare ai riti e alle forme come che
si fosse.
Rovinando poi l'Impero di Occidente, per le sommarie o forzate
conversioni dei barbari della Germania e della Slavia, s'accrebbe
il capitale delle credenze popolari da formare il pascolo
cotidiano delle masse, che eran tenute in obbligo di professare
simboli e credenze tanto superiori o estranee all'ambito di loro
menti, come quelle che rappresentavano un precipitato di molte
semi-filosofie. Tutte coteste popolazioni cristiane vissero e
continuarono a vivere delle loro variopinte credenze; per la qual
ragione, poi, esse effettivamente trasformarono i dati comunissimi
del cristianesimo in moventi ed in occasioni a nuove e speciose
mitologie. A riscontro di tal vita barbaramente ingenua, le
definizioni dei dottori e le decisioni dei concilii rimasero come
librate in aria, quale ideologia inattingibile alle moltitudini, e
a guisa di dottrinale utopia.
Da quali ragioni e cause, da quali moventi e mezzi i membri della
consociazione furon tenuti, dunque, assieme nei tempi dei quali si
dice che la religione fosse l'anima e il fulcro di tutta la vita?
Prescindo dalle prepotenze e dalle violenze, per non entrare in un
capitolo assai spinoso, che è quello cui s'appellano di
solito i passionati avversarii del cristianesimo; capitolo che
mette sotto gli occhi la storia delle più odiose tirannie,
delle più feroci ed inumane persecuzioni, e della
più raffinata ipocrisia. Tantum religio potuit suadere
malorum! Ciò che mi preme gli è di notare, che la
forza principale della coesione fosse appunto in quei disprezzati
mezzi materiali, l'uso il maneggio e il governo dei quali ha fatto
crescere l'associazione in una potente organizzazione economica,
coi suoi ufficii, con la sua gerarchia, col suo diritto, e coi
suoi servi, e schiavi, e dipendenti, e coloni, e ministri, e
protetti e beneficati. La proprietà ecclesiastica
rappresenta tutta una serie di variazioni, dall'obolo del
semicomunismo alla legale corporazione, e da questa alla raccolta
dei legati, alla costituzione dei complessi terrieri del
latifondo, e poi del feudo coi corollarii delle decime e della
finanza delle anime, e fino ai tentativi più moderni della
industria coloniale (i Gesuiti), e così via ad altre ed
altre cose. Ciò che mantenne la coesione degli umili furon
principalmente, come sono in parte tuttora, i beneficii
dell'elemosina, dell'assistenza dei malati, dei derelitti, degli
orfani, delle vedove e così via, della ordinata e metodica
gestione dei campi, del dissodamento delle terre di nuovo acquisto
alla coltura.
Questi i mezzi, che, come è accaduto di ogni altro ente
morale collettivo, fecero dell'associazione cristiana una cosa
vitale, e nel Medioevo soprattutto permisero ad un piccolissimo
ceto di addottrinati di far servire una vasta compagine economica
a fini relativamente più elevati, più nobili,
più altruistici e più progressivi, di quel che non
accadesse nell'ambito dei possedimenti strettamente feudali, e per
opera di sovrani taglieggiatori, razziatori, e pirati.
La borghesia, nelle sue diverse fasi, con modi più o meno
rapidi, e in forme più o meno rivoluzionarie, ha fatto
dappoi man bassa di cotesta economia della proprietà del
popolo cristiano, e l'ha in diversi modi incorporata alla
proprietà di pieno diritto privato, e l'ha resa fluida nel
sistema capitalistico. Dove cotesta proprietà di
ecclesiastica economia ha resistito parzialmente, e dove
parzialmente resiste ancora ai colpi dell'evo progressivo, gli
è perché essa adempie tuttavia alcuni ufficii, che
le altre organizzazioni pubbliche, e lo stato che le rappresenta,
o non assumono sopra di sé, o tollerano sussistano tuttora
nella chiesa, come in forma di concorrenza.
La storia di cotesta economia è il midollo di quella
interpretazione del variare del cristianesimo, che la critica
ulteriore dovrà elaborare. Quel Gregorio Magno, che par
già così persuaso, che il vescovo di Roma fosse
destinato a tener le parti del tramontato Impero dell'Occidente,
quel Gregorio, noto al comune delle persone colte per le sue
visioni, per il suo amore della musica e per l'apostolato
nell'Anglia, da economo dettò le leggi della condotta del
latifondo ecclesiastico. A parecchi secoli di distanza, per tutte
le traversie dei semistati e delle varie comunità
semi-politiche, che si andaron sviluppando entro l'ambito dal
sempre mal fermo e mal restaurato Impero d'Occidente, la
estesissima proprietà ecclesiastica, da per tutto diffusa e
da per ogni dove incuneata, dette luogo a tentare quella politica,
che, da Gregorio VII a Bonifacio VIII, mirò a fare del
successore di Pietro l'erede di Augusto. Questa politica non fu
tale qual fu, perché i frati clunacensi ne avessero
escogitata la dottrina, o perché com'è di fatti,
Gregorio VII ed Innocenzo III fossero uomini sommi, ma
perché solo in quel vasto sistema economico c’erano i dati
per tentare un gran disegno di organizzazione; al quale, come
è noto, si ribellarono in diversi modi, non solo gli altri
semipotentati politici d'allora, ma in alcuni punti di più
progredita operosità industriale e commerciale (Fiandra,
Provenza, Italia del nord) con diversi intendimenti, o di
cenobitica ascesi o di civile libertà cristiana, anche una
parte delle plebi e delle recenti borghesie. E difatti
l'umiliazione inflitta a Bonifacio VIII in Anagni, non è se
non il punto acuto di quella politica di Filippo il Bello, che, da
precursore molto alla lontana del principato rivoluzionario del
secolo XVI, mette per il primo arditamente la mano su la sostanza
del popolo cristiano.
E qui vorrei far punto a questa digressione; perché cotesta
storia economica non è stata ancora per davvero scritta, e
non sarò io ad avviarla con queste incidentali
osservazioni.
Mi pare, però, che i soliti obiettatori dicano: ma fatta
questa storia economica, tutto il resto sarà chiaro
chiarissimo? E qui saremmo al solito caso di quelli che si fanno
dei castelli di carta, per aver poi il gusto di distruggerli con
un bel soffio. Spiegare un processo consiste, in generale, nel
risolverlo nelle condizioni sue più elementari, fino al
punto che ci sia dato di scorgere e seguire (dal minimo del
discernibile in su) le fasi successive, come chi vada da premesse
a conseguenze.
Nessuno si sognerà di affermare per es., che quando si
conosca a fondo la struttura economica della città di Atene
tra la fine del V e il principio del IV secolo a. C., si possa poi
difilato passare ad intendere, così senz'altro, cioè
senza il sussidio critico degli elementi intellettuali raccolti
nella tradizione, tutto il contenuto ideologico di tutti e singoli
i dialoghi di Platone. Ciò che occorre in verità di
spiegare innanzi tutto è l'uomo Platone; ossia le sue
disposizioni estetiche e mentali, il suo pessimismo, la sua fuga
dal mondo, il suo idealismo e il suo utopismo. Tutto ciò
è il prodotto di quelle condizioni, che come si svolsero
ideologicamente nell’individuo Platone, si svolsero del pari in
tanti e tanti altri contemporanei suoi, che altrimenti non
l'avrebbero inteso, ammirato e seguito al punto da creare intorno
a lui una setta, vissuta poi per secoli con tante modificazioni.
Se altri si provi a distrarre quella formazione ideologica
dall'ambiente, in cui per l'appunto nacque come primo prodromo del
cristianesimo, essa diventa l'incomprensibile, ossia presso a poco
l’assurdo.
A potiori ciò vale di quelle disposizioni e inclinazioni, o
fantastiche, o mentali, che in una così grande convivenza,
qual è stata l'associazione cristiana coi suoi molteplici
ufficii e con le sue svariate attinenze, ingenerarono il bisogno
di tante credenze, di tanti simboli, di tanti dogmi, di tante
leggende. Ci torna di certo più facile di intendere i
rapporti, che in genere legano tutte coteste ideazioni a certe
determinate condizioni materiali della convivenza, che non di
spiegare poi partitamente tutte e singole quelle ideazioni nel
loro particolare contenuto. Cotesta difficoltà di adeguata
spiegazione è cresciuta dal fatto, che si tratta di tempi
di terribili catastrofi, di inauditi rimescolamenti, di decadenza
delle attitudini alla scienza corretta; di tempi, in breve, nei
quali manca quasi sempre la testimonianza spregiudicata, la
critica, l'opinione pubblica, e le menti più forti,
sequestrate dalla vita, inclinano all'astruso, al sottile e al
verbalistico.
Gli è difatti il difficile intendimento, del come le
ideologie nascano dal terreno materiale della vita, che dà
forza all'argomentare di coloro i quali negano la
possibilità di una piena spiegazione genetica del
cristianesimo. In generale gli è vero, che la fenomenologia
o psicologia religiosa che dir si voglia, presenta delle grandi
difficoltà, e reca in sé dei punti assai oscuri.
Come i dati empirici della natura e del vivere sociale si
tramutino, in certi determinati tempi e in certe determinate
disposizioni etniche, passando per il crogiuolo di una specificata
fantasia, in persone, in iddii, in angeli, in demoni, e poi in
attributi, emanazioni, e ornamenti di queste stesse
personificazioni, e da ultimo in entità astratte e
metafisiche come il logos, l'infinita bontà, la gomma
giustizia e così via - non è cosa sempre facile
d'intendere a pieno. In cotesto campo di derivata e complicata
produzione psichica, siam molto lontani da quelle condizioni
elementarissime, nelle quali, con l'osservazione e con
l'esperimento c'è per es., lecito di seguire il sorgere e
lo svolgersi delle prime sensazioni da un estremo all'altro, ossia
dagli apparati periferici fino ai centri cerebrali, nei quali
l'eccitazione e le vibrazioni si tramutano in noto alla coscienza,
cioè dire in coscienza.
Ma è forse cotesta difficoltà psicologica un
privilegio delle credenze cristiane? Non è essa propria del
generarsi di tutte le credenze, e ideazioni mitiche e religiose?
Ci son forse più chiare le creazioni tanto originali del
primissimo buddhismo, e quelle più di seconda mano, e quasi
sincretiche del maomettanismo? E risalendo poi in là da
questi sistemi delle grandi religioni, ci sono forse chiari e
trasparenti a prima vista i procedimenti della fantasia nella
creazione dei miti elementarissimi dei nostri protopadri ariani?
Ci è proprio facile di renderci conto per filo e per segno
di tutte le transizioni occorse alla fantasia di tante
generazioni, attraverso tanti secoli, perché il pramantha,
ossia il bastone da suscitare il fuoco fregandolo ed agitandolo in
altro legno, si svolgesse poco per volta nell'eroe Prometeo? E
pure questo è il mito più noto della mitologia
indo-europea; quello per il quale esistono più dati per
seguirne le successive fasi embriogenetiche, dagli antichissimi
inni vedici in onore del dio Agni (il fuoco), fino alla creazione
etico-religiosa della tragedia eschilea.
Gli è che coteste produzioni psichiche degli uomini dei
secoli trapassati presentano all'intendimento nostro delle
difficoltà tutte speciali. Noi non possiamo facilmente
riprodurre in noi le condizioni che occorrono, per approssimarci
allo stato interiore d'animo, che fu rispettivo a quei prodotti.
Occorre una lunga assuefazione perché si acquisti quella
attitudine interpretativa, la quale è propria del
glottologo, del filologo, del critico, del preistorista; ossia di
chi, col lungo esercizio e coi reiterati tentativi, si fa come una
coscienza artificiale, congrua e consona all'obietto da spiegare.
Se non che il cristianesimo (e qui intendo dire della credenza,
della dottrina, del mito, del simbolo, della leggenda, e non della
semplice associazione nella sua oikonomika), ci riesce
relativamente più facile, in quanto è a noi
più prossimo. Ci viviamo in mezzo, e ne abbiamo di continuo
a considerare le conseguenze e le derivazioni nelle letterature e
nelle varie filosofie a noi familiari. Noi possiamo tuttodì
osservare come le moltitudini combinino, all'ingrosso, tanto le
atavistiche come le recenti superstizioni con una mezzana o appena
approssimativa accettazione del principio più generale, che
unifica tutte le confessioni: - il principio cioè della
caduta e della redenzione. Noi l'associazione cristiana la vediamo
all'opera, così per ciò che essa fa, come per le
lotte che sostiene; e siamo in grado di rifarci sul passato per
combinazioni analogiche, che di rado ci riesce di adoperare nella
interpretazione delle credenze da noi remote. Assistiamo ancora
alla creazione di nuovi dogmi, di nuovi santi, di nuovi miracoli,
di nuovi pellegrinaggi; e, ripensando al passato, possiamo in
buona parte dire: tout comme chez nous! Disponiamo, voglio dire,
di un capitale di osservazione e di esperienza psicologica, che ci
permette di rivivere nel passato, con isforzo assai minore di
quello ci tocchi di fare, quando siam costretti a starcene alla
sola analisi documentaria delle condizioni più antiche. Da
quando si è cominciato a capir qualcosa di netto della
origine della lingua, se non dal momento che fu inteso, non aver
noi altro terreno di esperienza in proposito, se non nel modo come
i fanciulli imparano tuttodì a parlare?
Per molti il problema della origine del cristianesimo rimane poi
oscurato da un altro pregiudizio; che qui, cioè, si tratti
di una formazione primissima, e quasi di una creazione ex nihilo.
Costoro non pensano, che quelli che divennero cristiani giunsero a
quel punto partendo da altre religioni; e che il problema della
origine si riduce prosaicamente innanzi tutto a rintracciare, come
gli elementi preesistenti siansi derivati in nuova forma, per
entro all'ambito dell'associazione, e in che stia il vero e
proprio nocciolo nuovo della neoformazione. Siamo in tempi
storici. Di quelle religioni precedenti ci è nota
principalmente la forma del giudaesimo posteriore, che era in una
parte della massa popolare di messianismo esaltato, e nella classe
degli addottrinati di affilata casistica. Ci sono a un di presso
noti i culti, le superstizioni, le credenze dei varii paganesimi
dell'impero e ci è nota la disposizione religiosa di una
buona parte dei filosofanti di quel tempo, che eran quasi tutti
decadenti, come ci son note le inclinazioni delle moltitudini di
allora, più che mai propense ad accettare nuove fedi, nuove
promesse, e la buona novella.
Dunque si tratta non di creazione, ma di trasformazione e siamo
allora sul terreno di ogni altra storia. Per es. (- perché
parlo sommariamente e come per incidente -): come Gesù
è diventato il Messia degli Ebrei (forma primitiva
ebionitica), come il Messia degli Ebrei è diventato il
redentore di tutti gli uomini dal peccato (Paolo), e da ultimo
come s'è combinato col logo del neoplatonismo di Filone
(quarto evangelo)? Questo lo schema del processo ideologico. E poi
dall'altra parte: come la primitiva associazione comunistica (del
comunismo, s'intende, del consumo), degli aspettanti la prossima
fine del reo mondo e l'universale catastrofe (l'Apocalissi),
è diventata una consociazione (chiesa), che, rimandata in
indefinito l'aspettativa del millennio (seconda epistola di
Pietro), cresce in una organizzazione, che svolge una economia, e
progressivamente si complica di attribuzioni e di ufficii?
In questo processo dalla setta alla chiesa, dalla ingenua
aspettazione alla complicata formula dottrinale, sta tutto il
problema delle origini. Con l'allargarsi dell'associazione veniva
in buon punto l'adattamento di essa alle varie forme di diritti
vigenti, e col bisogno della dottrina collimava la diffusione del
platonismo decadente. Certamente tutte coteste produzioni non
possiamo riavvicinarcele agli occhi e all'osservazione nostra, in
una intuitiva cronistoria. Non assisteremo al conversare di
Filippo, di Matteo, di Pietro, di Giacomo, e loro prossimi
successori, e così via, come se stessimo ad ascoltare
Camillo Desmoulins, a ore 3 p. m. la domenica del 12 luglio 1789,
in un caffè del Palais Royal. Non seguiremo l'originarsi e
il fissarsi dei dogmi, come se si trattasse della messa insieme
degli articoli della Enciclopedia. Siamo in tempi di impressioni
confuse, e di non mai più viste fermentazioni. Delle grandi
epidemie morali invadono gli spiriti. I rapporti più
elementari della vita entrano in un periodo di acuta crisi.
Al di sotto di quella civiltà della cerchia mediterranea
che unificava il potere politico-amministrativo dell'impero e
ciò che v'era di più utile e raffinato
nell'Ellenismo, vegetavano mille forme di barbarie locali e di
decadenze putride e verminose. Pensare che il cristianesimo si
formò, di fatto e di nome, come cosa per sé stante,
proprio nella molle Antiochia, sentina di tutti i vizii; e pensare
che Paolo dirigeva ai Galati, ossia a Giudei dispersi in un paese
di veri e proprii barbari, le sue sottili meditazioni, che ce lo
rivelano non molto difforme da quegli Ebrei, che più tardi
misero assieme il Talmud! Il cristianesimo si è diffuso fra
gli umili, fra i reietti, fra le plebi, fra gli schiavi, fra i
disperati di quelle grandi città, la cui tenebrosa vita
c'è appena appena in qualche piccola parte dichiarata dalla
satira di Petronio e di Giovenale, dai volterriani racconti di
Luciano e da quei macabrici di Apuleio. Che cosa sappiamo noi di
preciso su la condizione di quegli Ebrei della città di
Roma, in mezzo ai quali si diffuse dapprima nell'Occidente la
nuova trista superstizione, come ebbe a dir Tacito; quella
superstizione, che nel volger dei secoli crebbe nel più
potente organismo sociale che conosca la storia? Quelle prime
origini non ci è lecito di ridurle in intuitivo racconto, e
noi siam costretti a rifarle per congettura e per combinatoria.
Questa è la ragion principale della interminabile
letteratura in proposito; specie per opera dei dotti di Germania,
che, anche quando non sian per nulla credenti, usano di chiamar
teologia cotesta letteratura critica ed erudita.
La relativa oscurità delle prime origini fa nascere nelle
menti di molti la curiosa credenza in un cristianesimo vero che
sarebbe stato assolutamente difforme da quanto altro ha preso poi
nome di cristiano in seguito. Quel cristianesimo vero, anzi
originario, che poi viceversa è tanto oscuro, che ognuno
può intenderlo a modo suo, fa soventi le spese della
polemica di quei razionalisti, i quali, dopo d'aver coverto
d'invettive cotesta empirica chiesa, a noi nota per la storia o
per l'esperienza nostra, per rinforzo di argomentazione retorica
si appellano alla chiesa ideale, che sarebbe stata la primitiva
comunione dei santi. Questo è un mito storico, come la
Sparta dei retori ateniesi, come la Roma antica dei ghibellini
decadenti del XVI secolo, come tutte le creazioni fantasmagoriche
di un passato paradisiaco, o d'un futuro non raggiungibile ancora.
Questo mito storico ha assunto forme diverse. I settarii che si
ribellarono alla cattolicità, o appena avviata o già
trionfante da un pezzo, quei settarii, dico, che con ispirito di
vera eguaglianza democratica, in determinate circostanze storiche,
dai montanisti agli anabatisti, si sollevarono contro la chiesa
profanamente terrena, e ortodossamente gerarchica, ebbero bisogno
di rifarsi nella fantasia il cristianesimo vero, ossia la semplice
vita protoevangelica, mentre proclamavano decadenza, aberrazione,
opera di satana, tutto l'accaduto dappoi. A questo cristianesimo
vero verissimo si appellarono assai spesso i comunisti ingenui,
cui giovava, in difetto di ogni altra adeguata idea sul modo
d'essere di questo ingiusto mondo delle misere disuguaglianze, di
farsi delle proprie aspirazioni come un quadro, e questo potea
trovare, come in tanti altri ricordi veri o fantastici, i motivi e
il colorito nella poesia evangelica. Così accade fino a
Weitling, che anche lui compose un: Evangelo del povero peccatore.
E perché dovrei non ricordare quei Saint-Simoniani, che
favoleggiando di un cristianesimo più vero, di là da
venire, in quello proiettarono tutte le aspirazioni della loro
riscaldata fantasia?
Per tutte queste, e per tante altre cause, sta come campata in
aria, nella mente di molti, l'immagine fantasiosa di un
cristianesimo ultraperfettissimo, che sarebbe difforme, anzi per
alcuni è assolutamente difforme - da tutto ciò che
la volgare storia conosce e dà per cristiano; da che
Stefano fu lapidato, fino alla Santa Inquisizione, che
spedì all'altro mondo tante caterve d'infedeli; da che lo
scalzo pescatore Pietro nei suoi paurosi dinieghi fece la parte
dell'accorto Sancio Panza, fino a che papa Pio s'è
compensato, con la infallibilità, del potere terreno che
andava perdendo; dall'agape ebionitica dei poveri visitati dal
Paracleto, ai gesuiti che armano delle flotte e fanno imprese
commerciali, da precursori arditi della politica coloniale
dell'evo borghese; dal Rabbi di Nazareth, che dice non esser di
questo mondo il regno suo, ai vescovi ed altri prelati occupanti
in nome suo per secoli, come proprietarii e come sovrani, dal
quinto al terzo delle terre secondo i paesi, compresovi in alcuni
luoghi il ius primae noctis, Chi per una ragione o per l'altra, e
sia pure per semplice ipocrisia letteraria, crede a quel
cristianesimo verissimo, è naturale sia imbrogliato a
spiegare donde sia poscia nato questo men vero, o assolutamente
aberrato, che noi tutti conosciamo. E si capisce, inoltre, come
quel vero verissimo diventi un miracolo, se non proprio della
rivelazione, della ideologia umana per lo meno; - e noi dal canto
nostro non siamo obbligati a date la spiegazione di tale miracolo,
né in nome del materialismo né in nome di qualunque
altra dottrina, per la stessa ragione, per la quale la meccanica
razionale non ha il dovere di spiegare, né il volo di
Icaro, né quello dell'ippogrifo dell'Ariosto.
Conviene, nondimeno, non dimenticare, che quel cristianesimo vero,
così idealmente contrapposto da tanti a questo assai
positivo e realisticamente umano, che s'è svolto in
condizioni accessibili al nostro ordinario intendimento, ha
esercitato anch'esso la sua funzione storica, e giova ora a noi
come di chiave per entrare più addentro nello stato d'animo
e nei rapporti di vita dei cristiani primitivi. Fu quel
cristianesimo vero come il simbolo delle varie ribellioni dei
proletarii, delle plebi, della umile gente, dei manomessi, dei
servi, degli sfruttati, fino al secolo XVI.
Ebbi occasione, come dissi già in altra lettera, di
occuparmi quest'anno in modo circostanziato, nel mio corso
accademico, precisamente di Fra Dolcino, nel quale culmina, e nel
cui insuccesso declina il movimento della setta degli Apostolici.
Poi che ebbi dichiarate le condizioni generali dello sviluppo
economico e politico dell'Italia settentrionale e media, e quelle
più particolari dell'ambito (ossia delle classi sociali)
nel quale gli Apostolici sorsero e si diffusero, a un certo punto
mi convenne di spiegare la dottrina, per la quale e con la quale
Dolcino tenne ferma la compagine dei suoi seguaci, tenacissimi ed
impavidi nel combattere fino all'ultimo da eroi, da martiri e da
precursori di un nuovo ordine di cose nella vita
dell'umanità. Quella dottrina è anch'essa uno dei
tanti ritorni apocalittici al cristianesimo puramente evangelico;
- è, ossia, la negazione di tutto ciò che la
gerarchia abbia stabilito e fatto da papa Silvestro (da quello
almeno della leggenda), in poi, negazione rinforzata dall'ardore
apostolico, che il sentimento della lotta trasmuta in dovere di
combattimento.
Gli è naturale, che la spiegazione prima di quelle idee,
come direbbero i letterati, vada cercata nei movimenti affini
delle ribellioni antigerarchiche più prossime. Per un verso
si risale agli Albigesi, e per un altro verso a quei confusi e
variopinti moti di plebe, che hanno il comune nome di
patarìa; e poi per un altro lato bisogna rifarsi su tutta
quella agitazione mistica ed ascetica, che più volte
accenna a dilacerare l'imperio papale, dal comunismo ideologico di
Gioacchino di Fiore alle resistenze attive dei Fraticelli. Facendo
un passo più addentro in cotesta ricerca, non è
difficile di ritrovare, di dietro ai mistici veli dell'ascetismo,
e all'esaltata passione per il cristianesimo vero, le materiali
condizioni e i materiali moventi, per cui convengono intorno ad
alcuni simboli di rivolta gl'infimi del cenobitismo, i contadini
di quei paesi dove la feudalità è ancor viva, i
contadini di quelle altre terre, che, francate dal feudo, per la
rapida formazione dei liberi comuni furon violentemente
proletarizzati, e poi la minutissima gente dei comuni stessi
così spietatamente corporativi, e da ultimo, come sempre,
gl'idealisti, che trasmutano in causa propria la causa dei
derelitti: - gli elementi tutti di una rivoluzione sociale. Da
questa spiegazione prossima si risale ad una spiegazione
più generale, e direi tipica.
Il moto dolciniano è uno dei momenti della gran catena
delle sollevazioni delle plebi cristiane, che, con varia fortuna e
con varia complicazione, si ribellarono alla gerarchia, e nei
momenti più acuti furon portate alla inevitabile
conseguenza dell'aspettazione del comunismo. Il caso classico, la
forma strepitosa, per le circostanze di tempo e per la estensione
e per la durata del moto, è di certo la sollevazione degli
Anabatisti. Ma non fu cosa di poco conto la rivolta dolciniana;
specie per le condizioni di precoce modernità economica in
cui trovavasi la valle del Po, in principio del secolo XIV.
Ora, l'istinto dell'affinità portava le menti dei
rappresentanti e dei condottieri delle plebi in rivolta a tornare
verso l'immagine, o verso il confuso ricordo, o verso
l'approssimativa riproduzione fantastica di quel cristianesimo
primitivo, che fu tutto di minuto popolo, di gente afflitta e
sofferente, aspettante la redenzione dalle miserie di questo reo
mondo. Il cristianesimo vero, verso del quale, per simpatia
procedente da similarità di condizioni, quei ribelli
esaltati tornavano con tanto ardore di fede e di fantasia, fu una
realtà: non nel senso dell'ideale e del tipico, da cui
l'umana debolezza abbia deviato per aberrazione o per malizia, ma
nel senso del fatto poveramente empirico. Il cristianesimo
primitivo, mutatis mutandis, fu nel tipo, nell'insieme, nella
fisonomia e nei moventi, più affine a ciò che
Montano, o Dolcino, o Tommaso Münzer vollero, in tempi a
ciò non adatti, ristabilire, che non a tutti i dogmi,
liturgie, gradi gerarchici, dominii e demanii, lotte politiche,
supremazie, inquisizioni ed altre simili miserie, in cui s'aggira
la storia umanamente terrena della chiesa. Nei tentativi di
cotesti ribelli, si rivede, come se essi avessero voluto dare in
ispettacolo un esperimento del passato, quale debba essere stata,
a un di presso, la figura originaria del cristianesimo come setta
di perfetti santi, ossia di assolutamente eguali, senza differenze
di clero e di laici, tutti parimenti capaci dello spirito divino,
sanculotti e devoti al tempo stesso, tutti ad un modo.
Il problema più grave e più scabroso in tutta la
storia del cristianesimo è appunto questo: d'intendere,
cioè, come dalla setta degli assolutamente eguali sia nata,
nel termine di men che due secoli, una associazione di
differenziati per gerarchia, in guisa, che da una parte sta il
popolo dei credenti e dall'altra stanno gl'investiti di
potestà sacra. Questa differenziazione gerarchica si
completa col dogma, il che vuoi dire con un dettame, che sopprime
la immediatezza del credere nei singoli fedeli qual fatto di
personale vocazione. La gerarchia vuol dire sacerdozio,
amministrazione di cose, e governo delle persone. Di qui nasce la
possibilità di una politica; e su la ricerca di questa
politica s'aggira la storia della chiesa del III secolo.
L'incontro della chiesa e dell'impero nel IV secolo non è
se non il resultato del compenetrarsi di due politiche, per cui
poi la religione e il maneggio degli affari da ultimo si
confondono. In questo passaggio dalla libera associazione
all'organamento semistatale, il quale fa che la chiesa abbia
sempre da allora in poi esercitata una azione politica, o
d'accordo con lo stato, o contro lo stato, o diventando essa
stessa lo stato, si avvera il caso comune ad ogni associazione, la
quale, dal momento che ha cose da amministrare ed ufficii da
adempiere, diventa di necessità un governo.
La chiesa ha riprodotto dentro di se stessa i contrasti proprii
ad ogni stato, cioè le opposizioni di ricchi e di poveri,
di protettori e di protetti, di patroni e di clienti, di
proprietarii e di sfruttati, di principi e di soggetti, di sovrano
e di sudditi. Quindi essa ha avuto nel suo proprio seno
particolari lotte di classe - per es. di patriziato gerarchico e
di plebe cenobitica, di alto e basso clero, di cattolicità
e setta. Le sètte furono in gran parte ispirate, fino al
secolo XVI, dal pensiero del ritorno al cristianesimo primitivo, e
per ciò spesso colorirono i disegni attinti alle condizioni
del presente di una ispirazione ideologica che rasenta l'utopia.
La chiesa che è riuscita, è invece solo quella la
quale, seguendo i modi di procedere che son proprii dello stato
laico, anziché una società di eguali nello spirito
santo, è divenuta una gerarchica consociazione di
disuguali, con esercizio di formali diritti, con mezzi
d'imposizione e di violenza, con perfetto imperio, o con parte
d'imperio ceduto da altri imperanti, e col governo delle anime,
che, come ogni altro governo spirituale, si svolge innanzi tutto
col dominio su le cose senza delle quali le anime non han modo di
esistere. Questi attributi umani, i quali, data la condizione di
disuguaglianza economica degli uomini, riavvicinano la
consociazione religiosa ad ogni altra maniera di governo delle
cose di questo mondo, mostrano per un verso come l'associazione
dei santi non potesse avere in alcun tempo una forma di esistenza
che non fosse utopia, e per un altro verso ci spiegano la costante
tendenza alla intolleranza ed alla cattolicità nelle varie
sue forme, in quanto essa associazione, smentendo l'ingenuo
martire di Nazareth, lasciato malinconicamente in croce su gli
altari, ha fatto di questa terra il regno suo.
Per rimaner nell'esempio, che mi è più familiare pei
miei recenti studii, il papato superimperiale precipitò
sì nella persona di Bonifacio VIII, secondo la profezia di
Dolcino, che di tre anni gli sopravvisse; ma non precipitò
per dar luogo all'Apocalisse. Fu inflitta al papato sì
l'umiliazione dell'esilio avignonese, ma non per dar luogo a un
nuovo impero di Cesari, secondo l'utopia dell'Alighieri. C'erano
allora già i prodromi dell'evo moderno, cioè i
preannunzii del regno della borghesia. Filippo il Bello, che di
lontano arieggia al principato civile, nel quale due secoli dopo
la borghesia percorse la prima tappa del suo dominio politico su
la società, mandava all'estremo supplizio i Templari, come
per dire che l'epopea delle crociate finisse per opera dei
cristiani stessi. E perché il motto della situazione ci
fosse perfino nell'aneddoto, che sempre denuncia e smaschera gli
stridenti passaggi dell'ironia della storia, il commissario del
sire di Francia a preparare l'umiliazione di Anagni non fu un
capitano di banda feudale, ma un legista, che negoziò il
danaro occorrente alla bisogna in una cambiale rilasciata a un
banchiere di Firenze.
Furono questi legisti, e principi usurpatori di diritti storici, e
banchieri accumulatori del danaro, che poi divenne più
tardi il capitale, quelli i quali iniziarono la moderna
società così trasparente nella prosaica struttura
degli intenti e dei mezzi suoi. Come su le altre rovine della
società corporativa e feudale, così anche su le
rovine del patrimonio ecclesiastico s’è assisa questa
crudele borghesia, che, sfidatrice delle potenze misteriose, ha
inaugurata l'èra del pensiero e della libera ricerca. E
aspetta che altri la tolga di seggio: ma non sarà di certo,
né il cristianesimo vero, né quello verissimo.
Se poi quegli uomini dell'avvenire, dei quali noi socialisti ci
diamo assai spesso soverchio pensiero, produrranno o non
produrranno ancora della religione, io, né so, né
non so: e lascio ad essi soli la briga della vita loro, che
sarà, spero, non lieve, perché non divengano
degl’imbecilli nella paradisiaca beatitudine. Ciò che io
vedo chiaro è solo questo: che il cristianesimo, che nel
suo complesso è la religione dei popoli fino ad ora
più civili, non lascerà luogo dopo di sé ad
alcun’altra religione nuova. Chi d’ora innanzi non sarà
cristiano, sarà irreligioso. E poi, in secondo luogo, noto,
che i socialisti han fatto assai bene a scrivere nei loro
programmi, che la religione è cosa privata. Spero che
nessuno vorrà intendere coteste parole nel senso di una
veduta teoretica, su la quale si possa poi ricamare una filosofia
della religione. Quel comma del tutto pratico vuol semplicemente
dire, che al presente i socialisti han troppe cose da fare di
più utili e serie, da non doversi confondere con quegli
hebertisti, blanquisti, e bakuninisti, e simili, che decretavano
l'abolizione del divino, e Dio decapitavano in effigie. I
materialisti della storia pensano però, dal canto loro, e
fuori d'ogni apprezzamento subiettivo, che gli uomini
dell'avvenire rinunzieranno molto probabilmente ad ogni
spiegazione trascendente dei problemi pratici della vita di tutti
i giorni, perché: Primus in orbe deos fecit timor! Antica
la sentenza: di valore perpetuo l'enunciato!
X.
Resina (Napoli), 15 settembre ‘97
Caro Sorel,
Nel rileggere, nel rivedere, nel ritoccare - giacché ho
fatto disegno di darle alle stampe - le lettere, che io v’andai
scrivendo dall'aprile al luglio ultimi, m'è parso formino
come una certa tal quale serie, e nel tutt'insieme dicano
qualcosa. Di certo i pensieri di semplice accenno, gli enunciati
appena appena sviluppati, le osservazioni il più delle
volte incidentali, e le bizzarre critiche disseminate qua e
là, -. tutte le cose, insomma, che mi venne di dire, nel
modo che è proprio di chi scriva currenti calamo,
assumerebbero ben altra forma, entrerebbero in tutt'altra
disposizione, passerebbero per una nuova e meditata elaborazione,
se io avessi in animo di comporre un libro degno d'un titolo
altisonante come, per es.: Il socialismo e la scienza; o Il
materialismo storico e l’intuizione del mondo, e così via.
Ma, come io, nel conversar con voi a distanza, ho usato in larga
misura delle libertà che son proprie della facoltà
discorsiva, così, ora che mi son risoluto a raccogliere
quelle fugaci lettere nella forma d'un libercolo, imporrò a
questo un modesto ed appropriato titolo di: Discorrendo di
socialismo e di filosofia, Lettere a G. Sorel.
Devo agl'insistenti consigli del mio amico Benedetto Croce, di
commettere cotesto nuovo peccato di letteratura minuscola. Questo
mio benedettissimo amico è diventato il mio tormento e la
mia croce. Dacché lesse quelle lettere, non m'ha dato
più pace; e ha voluto gli promettessi di renderle
pubbliche, nella forma di un opuscolo. Se io stessi a sentir lui,
ai miei anni non verdi, diverrei un continuo e perpetuo produttore
di carta stampata: mentre a me è piaciuto sempre, in
passato, di lasciar dormire nei cassetti i non pochi catafasci di
carta scritta, che m'è toccato di accumulare, per anni ed
anni, nella qualità di insegnante e di appassionato
estensor di lettere. In questo caso speciale il Croce poi mi
andava dicendo, esser dover mio, ora che il socialismo s'allarga
in Italia, di concorrere alla vita del partito, che cresce e si
fortifica, coi mezzi e nei modi che son più rispondenti
alle attitudini mie. E sia pur così; - ma poi tutto sta a
vedere, se i socialisti di tale aiuto e di tale sussidio sentano
proprio il bisogno e il desiderio.
A dir le cose come sono, io non ebbi mai una troppo grande
inclinazione allo scrivere per il pubblico, e all'arte e a prosa
non ci attesi mai; tanto è, che ho scritto di solito come
vien viene. Fui sempre e sono, invece, appassionatissimo dell'arte
dell'insegnamento orale, in tutte le sue forme; e l'attendere a
cotesta opera, con molta intensità, mi ha distolto per
lunghi anni, in passato, dal ridire per iscritto (- e chi potrebbe
veramente ridirlo dal vivo? -) ciò che, insegnando, vien
detto spontaneo di forma, duttile, pronto, adattato al caso, ricco
di attinenze e pieno di riferimenti. Abbracciando poi, più
in qua, il socialismo, in corale rinascenza dello spirito io
divenni più desideroso di comunicar col pubblico, per mezzo
di opuscoli, di lettere d'occasione, d'indirizzi e di conferenze,
che mi si moltiplicarono per anni quasi a mia insaputa. Non son
forse questi i doveri e gli oneri del mestiere? Ed è qui
che due anni fa venne precisamente in buon punto il mio benedetto
signor Croce, col consiglio che mi dette, che io pubblicassi dei
saggi di socialismo scientifico, come per porre alla mia
attività di socialista un obiettivo più solido. E,
come da cosa vien cosa, anche queste lettere d'occasione possono
passare per un saggio sussidiario e complementare di materialismo
storico.
Come è chiaro, caro Sorel, questo discorso non riguarda
punto voi, ma me soltanto; perché cerco quasi quasi delle
scuse alla pubblicazione di un nuovo libercolo, e in quanto io da
italiano vivo in Italia. Probabilmente se queste mie lettere,
oltre che da voi, saranno lette da altri in Francia, costoro
diranno, che io non li ho persuasi lo stesso del materialismo
storico, e forse ripeteranno ragionevolmente le osservazioni di
alcuni critici dei miei saggi, che, con le traduzioni,
cioè, da una lingua straniera, non si riesce a cambiare gli
umori intellettuali di una nazione.
Pur così scrivendo, come per metter la chiusa a questa
faccenda epistolare, temo ancora non mi venga la voglia di
continuare. Non son forse le lettere moltiplicabili
all'indefinito, come le favole e i racconti? Per fortuna,
però, io m'ero proposto fin dal principio di rispondere,
così all'ingrosso, ai quesiti che voi, sfiorando dei
tèmi della massima difficoltà, ponete nella vostra
Prefazione; cosicché una ragione di finire m'è pur
data dai termini stessi del vostro scritto, al quale mi sono
andato via via riferendo. Se m'abbandonassi poi all'estro della
conversazione, chi sa dove andrei a finire! - le lettere
diverrebbero una letteratura. Di ciò voi non mi sapreste
grado; per quanto potesse allietarsene il signor Croce, il quale
vorrebbe mettere in tutti il suo istinto di prolificazione
letteraria. Lui fa un curioso contrasto con le dolci abitudini di
questa dolce Napoli, nella quale gli uomini - come i Lotofagi che
ogni altro cibo aveano in dispregio - vivono immersi nel solo
presente, e par che, proprio in cospetto della statua di G. B.
Vico, allegramente faccian le fiche alla filosofia della storia.
Ma, pur volendo una buona volta finire, mi conviene di mettere in
carta alcune altre brevi note ancora.
Mi pare, innanzi tutto, che voi, non per curiosità vostra,
ma quasi mettendovi ad arte nei panni del comune dei lettori,
domandiate: c’è mai modo di fare intendere, per via facile
e piana, in che consista quella dialettica, che così spesso
s’invoca a dilucidazione dell'intrinseco del materialismo storico?
E potreste, credo, aggiungere, che il concetto della dialettica
riesce ostico, ai puri empiristi, ai metafisici sopravvissuti, e a
quei popolari evoluzionisti, i quali così volentieri
s'abbandonano alla generica impressione di ciò che è
e trapassa, apparisce e sparisce, nasce e muore, e nella parola
evoluzione non esprimono, da ultimo, l'atto del comprendere, ma
l'incomprensibile: mentre, all'incontro, nella concezione
dialettica s'intende di formulare un ritmo del pensiero, che
riproduca il ritmo più generale della realtà che
diviene.
Ma io - se l'ora stanca di queste lettere non me ne facesse
divieto - ove mai volessi ricominciare, prima di rispondere a
così grave quesito, ricorrerei con la mente al ricordo del
poeta greco, che, alla domanda del tiranno di Siracusa: che cosa
fossero gli dèi? - chiese prima uno, poi un altro, e poi un
altro giorno di tempo, e così senza fine. E dire, in
verità, che, ai poeti, che li creano, li inventano, li
lodano e li celebrano, gli dèi devono essere assai
più familiari, che non possa esser la dialettica a me, se
altri mi mettesse fra l'uscio e il muro, con l'obbligo di
rispondere a un imperioso quesito! E piglierei tempo - il che non
è alieno dal pensare dialetticamente - dicendo (il che
è una implicita risposta): - noi non possiamo renderci
conto adeguatamente del pensiero, se non pensando in atto; - alle
maniere di procedimento del pensiero bisogna adusarcesi con
successivi sforzi; - ed è sempre assai pericoloso il
saltare a pie' pari, dall'uso concreto di una maniera di
concezione alla generica definizione formale di essa. Messo ancora
alle strette, per non gravare l'interrogatore di studii troppo
lunghi, ardui e complicati, lo rimanderei all'Antidühring, e
segnatamente al capitolo intitolato: Negazione della negazione.
Ivi, e in tutto quel libro, si vede come Engels fosse, non solo
inteso con l'animo a spiegare ciò che espone, ma
preoccupato ancor più del mal uso che può farsi dei
procedimenti mentali, quando, chi vi rivolge l'attenzione,
più che essere portato a pensare qualcosa di concreto in
cui la forma del pensiero si riveli viva e vivente, sia disposto a
cadere negli schematismi a priori, ossia nello scolasticismo, che
non fu - sia detto con buona pace degl'ignoranti - la nota
esclusiva dei dottori del Medioevo, come se fosse soltanto roba da
preti. Dello scolasticismo se ne può fare sopra ogni
dottrina. Il primo scolastico fu Aristotele in persona; che fu,
inoltre, tante altre cose in più, e fu soprattutto un genio
della scienza. Dello scolasticismo se ne fa già in nome di
Marx. Di fatti la maggior difficoltà d'intendere e di
continuare il materialismo storico non istà nella
intelligenza degli aspetti formali del marxismo, ma nel possesso
delle cose in cui quelle forme sono immanenti; delle cose, che
Marx per conto suo seppe ed elaborò, e di quelle altre
moltissime, che tocchi a noi di conoscere e di elaborare
direttamente.
Nei molti anni che ho speso nell'insegnare, io fui sempre persuaso
del gran danno che si fa alle menti giovanili, quando, invece
d’immergerle, con opportuna e pieghevole arte, in una determinata
provincia della realtà, perché osservando,
comparando e sperimentando, poco per volta arrivino alte formule,
agli scherni, alle definizioni, si comincia dall'usar subito di
queste ultime, come se fossero i prototipi delle cose esistenti.
Insomma, la definizione da cui s’incomincia è vuota, mentre
è solo piena quella cui si arrivi, geneticamente.
Nell'insegnare si vede quanto il definire sia cosa pericolosa;
secondo il senso plebeo che molti dànno ad una sentenza del
diritto romano, la quale dice, in verità, tutt'altro. La
didattica non è quella attività, che produca un nudo
effetto di cosa fissa (come nudo prodotto); ma è quella
attività, che generi altra attività. Insegnando noi
riconosciamo, come il nocciolo primo di ogni filosofare è
sempre il Socratismo; ossia la virtuosità generativa dei
concetti.
Rimandando all'Antidühring,
e a quel capitolo segnatamente, non intenderei, per ciò, di
rinviare ad un catechismo, ma solo ad un esempio di abilità
didattica. Le armi e gl'istrumenti son tali solo all'opera; e non
quando sian visti in armadio da museo.
Inoltre, se non dovessi pur finire una buona volta, vorrei
fermarmi ad illustrare le parole dove dite, che l'Italia meriti,
come culla comune della civiltà, l'omaggio di tutti.
Può parere che queste parole siano una stonatura, mentre
discorrete proprio del socialismo, che all'Italia veramente non
deve molto. Ma, se è vero che il socialismo è il
frutto della civiltà adulta, i maturi e provetti degli
altri paesi non faran male a rivolgere, di tanto tanto, gli occhi
loro a questa culla. Ripensando all'Italia, che ha fatto per
secoli la più gran parte della storia universale, tutti
avranno sempre qualcosa da impararci; e poi dopo s'avvedono, che
l'avean già a casa loro quest'Italia, come il presupposto
di ciò che essi presentemente sono. Ad altri francesi
è parso in passato, che questo paese fosse, da culla,
diventato tomba della civiltà; e per tal tomba devon
tenerla la più parte dei forestieri, che la visitano qual
museo, ignari sempre del nostro presente. E in ciò hanno
torto; e, per dotti che siano, cotesti visitatori di musei
rimangon sempre ignoranti - dico ignari della vita attuale di
questo paese, che par la vita del morto risorto, il che è
almeno un caso degno di nota.
In che veramente consiste questo rinascimento d'Italia, e che
aspettativa può dar di sé, a quelli che guardino la
generalità del progresso umano, senza pregiudizii e senza
preconcetti? Per tacere delle grandi difficoltà che
c'è a trattare, con intenti obiettivi, e con criterii non
desunti dai soli impulsi della personale opinione, la storia
attuale di qualunque paese; nel caso speciale d'Italia
bisognerebbe risalire fino al secolo XVI, quando l'iniziale
sviluppo dell'epoca capitalistica - che qui avea sede principale -
fu spostato dal Mediterraneo. Bisognerebbe arrivare, attraverso
alla storia della successiva decadenza, alle premesse positive e
negative, interne ed esterne, delle presenti condizioni d'Italia.
Non occorre io dica che le mie forze sarebbero impari all'impresa;
perché non avrei la più lontana tentazione di
misurarmici, a proposito e nella occasione di un discorso
familiare, come è questo. Chi un simile studio sapesse
concretare in un libro, potrebbe dire d'aver concorso ad
esprimere, in forma riflessa, la presente situazione, e l'attuale
coscienza degl'italiani. Qui da noi si è spesso assai
ciecamente ottimisti o ciecamente pessimisti, nel senso che si
dà dai non-filosofi a coteste parole; specie perché
in Italia c'è una grande ignoranza del vero stato degli
altri paesi, cosicché molti le condizioni indigene
valutano, non alla stregua comparativa e pratica dell'ora
presente, ma ad una tutta ideale, ipotetica, e spesso utopistica.
Ed è singolare il caso, che qui da noi, in tanto risorgere
delle scienze della osservazione nel campo della natura - le quali
scienze vengono veramente coltivate con intenti particolaristici e
dirò antifilosofici - sia così scarso l'intelletto
positivo delle cose sociali attuali, mentre è così
stragrande in questo paese stesso il numero dei sociologisti, che
somministrano definizioni ai sitibondi di verità. Ma si sa,
i sociologisti hanno in tutto il mondo una certa curiosa antipatia
per gli studii della storia; che poi sarebbe, secondo il senso dei
profani, quella tal cosa nella quale la società s'è
svolta.
Pochi, in conclusione, vedon chiaro in questa circostanza di
fatto; che, cioè, la borghesia italiana, la quale è
già oggetto, come in ogni altro paese, alle ire, e agli
odii degli umili, dei manomessi, degli sfruttati, e per un altro
verso è stretta e premuta dal popolo minuto, è essa
stessa in se stessa instabile, inquieta, incerta, perché
l'è impedito di mettersi alla pari con quella degli altri
paesi, nel campo della concorrenza. Per questa ragione, come per
l'altra, che dall'altro lato essa ha il papa, con quel suo non
indifferente bagaglio di cose, che solo i teorici dell'utopismo
liberalesco proclamano trapassate per sempre, questa borghesia,
che deve ancora ascendere, è intimamente rivoluzionaria,
come direbbe il Manifesto. E come non ha potuto esser giacobina,
quanto sarebbe stato il naturale istinto suo, s'è acquetata
nella formula del re per la grazia di Dio e della nazione ad un
tempo. Non potendo questa borghesia fare assegnamento sul rapido
sviluppo di una grande industria, che tarda difatti a venire, e
nella conseguente rapida conquista di un grande mercato esterno,
dato il progresso lento ed incerto della economia nazionale, per
la massima parte agraria, fa la politica mezzana degli espedienti,
e consuma nell'abilità l'ingegno. Ecco la parte che fa la
flotta italiana da più mesi in Oriente: par la volpe, che,
secondo la favola, dichiari immatura l'uva che non può
afferrare; ma questa volpe qui, con divario da quella della
favola, si trova tra altre volpi, che l'uva afferrata
custodiscono, o dell'uva stanno per afferrare! Ed ecco che la
volpe si fa idealista, per manco di positivo. Questa borghesia
italiana, di fronte all'astensionismo, o reazionario o demagogico
dei clericali, e per il lentissimo sviluppo dell'opposizione
proletaria, si è sentita e si sente come se fosse tutta la
nazione, e nel difetto di partiti che dividano la società,
dà il nome di partiti alle fazioni che si raccolgono
intorno a capitani e proconsoli, o ad intraprenditori ed
avventurieri di varie sorti. Al primo apparire del socialismo essa
rimase attonita.
D'altra parte, s'ingannano quelli i quali credono, che l'agitarsi
delle moltitudini sia sempre indizio o prodromo da noi,
com'è di fatto alcune volte e in alcuni punti d'Italia, di
quel moto proletario che, come lotta economica su base concreta, o
come aspirazione politica, volge più o meno esplicitamente
al socialismo in altri paesi. Qui il più delle volte questo
agitarsi è come la ribellione delle forze elementari contro
di uno stato di cose in cui esse forze non trovano la necessaria
coercizione, quella coercizione, dico, che è propria di un
sistema borghese atto ad irreggimentare i proletarii. Si guardi,
per es., all'acuita forma di emigrazione, che è, salvo
poche eccezioni, di uomini atti ad offrire le braccia,
l'incomparabile sedulità, e lo stomaco capace d'ogni
privazione, allo sfruttamento del capitale straniero in terra
straniera: - sono, in una parola, lavoratori uscenti dai campi,
dove son di soverchio, o dall'artigianato in decadenza, che la
ferula educativa del capitale ridurrebbe in isquadre di addetti
alle fabbriche, se la grande industria si affrettasse a svolgersi,
o che il patrio capitale menerebbe nelle patrie colonie, se ce ne
fosse, e se non fosse venuta la pazzia di crearne là dove
pare presso che impossibile il farne.
L'Italia è diventata - ed è ben naturale, - negli
ultimi anni, la terra promessa dei decadenti, dei megalomani, dei
critici a vuoto, degli scettici per fastidio e per posa. Alla
parte sana e verace del movimento socialistico (al quale non
è dato per ora dalle circostanze altro ufficio da quello in
fuori di preparare la educazione democratica del popolo minuto) si
mescolano, di conseguenza, parecchi, i quali, se volessero
mettersi la mano su la coscienza, avrebbero da confessare, che
essi son decadenti, e che li sospinge a dimenarsi, non la fattiva
volontà del vivere, ma l'indistinto fastidio del presente:
- essi, leopardiani annoiati!
Devo finalmente finire; ma mi pare mi arrivi all'orecchio come una
leggiera voce di protesta da parte di quei compagni, che son
così pronti ad obiettare; e che quella voce dica: coteste
son sofisticherie da dottrinarii, e noi abbiam bisogno di pratica.
Sicuro, d'accordo, avete ragione. Il socialismo è stato per
così lungo tempo utopistico, progettistico, estemporaneo e
visionario, che è bene ora di dire e di ripetere ogni
momento, che ci occorre la pratica; perché gli animi di
quelli che lo professano sian rivolti di continuo a misurare le
resistenze del mondo effettuale, e a studiar di continuo il
terreno, sul quale ci è imposto di aprirci la non facile
né morbida via. Badi però il mio ipotetico critico
di non far proprio lui la parte del dottrinario; la qual parola,
per chi se ne intenda, designa una certa disposizione delle menti,
viziate dall'astrazione, a ritenere, che le idee proclamate per
sé eccellenti, e i frutti delle esperienze raccolte in
determinati tempi e luoghi, sian cose da applicare difilato al
concreto, e inoltre buone per ogni tempo e luogo. La pratica dei
partiti socialistici, a confronto d'ogni altra politica fino ad
ora esercitata, è ciò che più risponde, non
dirò alla scienza, ma ad un procedimento razionale.
È la dura prova di una costante osservazione, e di un
adattamento da tentar di continuo; - è la dura prova
d'indirizzare sopra una linea di moto unitario le tendenze, spesso
difformi e spesso antagonistiche, del proletariato; - è lo
sforzo di condurre ad esecuzione dei disegni pratici col sussidio
della chiara visione di tutti i rapporti che legano, con
complicatissimo intreccio, le varie parti del mondo in cui
viviamo. E se cosi non fosse, per che ragione e a che titolo si
parlerebbe del vantato marxismo? Se il materialismo storico non
regge, vuol dire che l'aspettativa del socialismo è caduca,
e che il nostro pensiero della società futura è
creazione da utopisti!
Pur troppo gli è vero, in fatto, che in tutto il socialismo
contemporaneo c'è sempre latente un certo che di
neoutopismo; come è il caso di coloro, che, ripetendo di
continuo il dogma della necessaria evoluzione, questa poi
confondon quasi con un certo diritto ad uno stato migliore, e la
futura società del collettivismo della produzione
economica, con tutte le conseguenze tecniche e pedagogiche che dal
collettivismo risulterebbero, dicono che sarà perché
deve essere, - e quasi dimenticano, che cotesto futuro devono pur
produrlo gli uomini stessi, e per la sollecitazione dello stato in
cui sono, e per lo sviluppo delle attitudini loro. Beati costoro,
che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano
quasi alla stregua di un certificato di assicurazione su la vita!
Cotesti dogmatici delle idee a buon mercato dimenticano diverse
cose. In prima, che il futuro, appunto perché è il
futuro, che sarà il presente quando noi saremo il passato,
non può costituire il criterio pratico di ciò che
noi dobbiam fare al presente. Sarà ciò cui si
arriverà, - ma non è la via per arrivarci. In
secondo luogo, l'esperienza di questi ultimi cinquant'anni deve
indurre gli atti al pensiero ed alla pratica in questa
persuasione: che, cioè, a misura che cresce nei proletarii
e nel minuto popolo la capacità ad organizzarsi in partiti
di classe, la prova stessa di questo complicato movimento ci porta
a intendere lo sviluppo dell'èra nuova secondo una misura
di tempo, che è assai lenta a confronto del rapido ritmo
che concepivano una volta i socialisti intinti di giacobinismo
rivissuto. Or sopra a una distesa così grande di tempo la
nostra previsione non può non correre incerta; tenuto conto
della enorme complicazione del mondo attuale, e in tanto
allargarsi del capitalismo, ossia della forma borghese1. Chi non
vede, che oramai il Pacifico soppianta l'Atlantico, come questo a
suo tempo fece passare in seconda linea il Mediterraneo?
Cosicché, in terzo luogo, la scienza pratica del socialismo
consiste nella chiara notizia di tutti cotesti complicati processi
dell'orbe economico, e, parallelamente, nello studio delle
condizioni del proletariato, in quanto esso via via diventa atto a
concentrarsi in partito di classe, e porta in questa successiva
concentrazione l'animo che gli è proprio, data la lotta
economica in cui s'inradica quella politica, che gli è
mestieri di fare. Su cotesti dati più prossimi la nostra
previsione può correre con sufficiente chiarezza di
calcoli, e può raggiungere il punto nel quale il
proletariato divenga prevalente, e poscia predominante
politicamente nello stato. E da quel punto, che deve coincidere
con la impotenza del capitalismo a reggersi, da quel punto, dico,
che nessuno può immaginarsi come un rumoroso patatrac,
sarebbe il cominciamento di ciò che molti, non si sa
perché, come se tutta la storia non fosse la serie delle
rivoluzioni della società, chiamano enfaticamente la
rivoluzione sociale par excellence. Spingersi oltre di quel punto,
coi ragionamenti, gli è come voler confonder questi con gli
artifizii della immaginazione.
Il tempo dei profeti è trapassato. Beato te, Fra Dolcino,
che nelle tue tre lettere potesti trasfigurare gli accidenti
politici del momento (papa Celestino e papa Bonifacio VIII,
Angioini ed Aragonesi, Guelfi e Ghibellini, misere plebi e
patriziati dei comuni, e così via) in tipi già
simboleggiati dai profeti e dall'Apocalisse, misurando ad anni, a
mesi ed a giorni, con successive correzioni, i tempi della
provvidenza. Ma fosti un eroe; la qual cosa dimostra, che quelle
fantasie non furon la causa del tuo operare, ma l'involucro
ideale, nel quale tu rendevi conto a te stesso, come fecer tanti
altri, per tutto un secolo innanzi a te, e Francesco d'Assisi
compreso, del disperato moto delle plebi contro la gerarchia
papale, contro la borghesia già forte nei comuni e contro
il nascente monarcato. Ora tutti quegli involucri furon lacerati,
compresa la religione delle idee, come dicon quelli che usano un
gergo da ipocriti, per mostrare una certa superstiziosa reverenza
per la religione degli altri. Ora, presentemente, non è
lecito di essere utopisti, se non ai soli imbecilli. L'utopia
degli imbelli, o è cosa ridicola, o è dilettanza da
letterati che vadano visitando quel falansterio di ninnoli di cui
è architettore il Bellamy. Quell'umile Marx, tutto prosa di
scienza, andò raccogliendo modestamente nella
società presente i primi indizii delle transizioni a quella
che diverrà, come per es., il sorgere delle cooperative
(vere!) in Inghilterra e cose simili, e fu rassegnato (specie
nell'opera spesa nella Internazionale) alla parte di ostetrico,
che non è proprio quella di un artefice del futuro. Lui ed
Engels dissero della società dell'avvenire - data la
ipotesi della dittatura politica del proletariato - non sotto
l'aspetto intuitivo, del come essa parrebbe a chi la vedesse, ma
sotto l'aspetto del principio direttivo della forma, ossia della
struttura economica, e segnatamente in antitesi a questa
società presente.
Del resto, se c'è chi abbia il bisogno di vivere fin da
ragazzo nel futuro, come da sentirlo e da provarlo su la propria
pelle; e, papeggiando in nome delle idee, voglia investire dei
loro diritti e doveri i componenti la società dell'avvenire
- s'accomodi pure. Permetta quindi a me, che pure ho un qualche
diritto d'inviare la mia carta di visita ai posteri, di esprimere
la speranza, che quei del futuro, non trasumanati tanto da non
esser più comparabili a noi del presente, serbino tanto
della gaia dialettica del ridere, da farsi beffe umoristicamente
dei profeti dell'oggi.
Finisco per davvero; e toccherebbe ora a voi, se mai vi piace, di
ricominciare.
Appendici.
I.
Postscriptum all'edizione francese.
Frascati (Roma), 10 settembre ‘98
Sebbene fino ad ora il Sorel non abbia dato segno di ricominciare,
può sempre darsi ci si provi in seguito. Ho però
ragione di temere, che, ricominciando, s'incamminerebbe per una
via per me inaspettata, dal momento che mette in iscena: La crisi
del socialismo scientifico (cfr. suo articolo nella “Critica
Sociale”, del I° maggio 1898, pp. 134-38), proprio a proposito
di quelle stesse pubblicazioni del Merlino, che egli avea l'anno
innanzi così aspramente criticato nel “Devenir Social”
(ottobre 1897, pp. 854-888).
Ma che egli ricominci, o che non ricominci ad occuparsi di questi
problemi generali avendo riguardo a ciò che io ho scritto
in queste lettere a lui indirizzate, mi preme di dire qui, a
scanso di fraintesi, e perché i lettori non cadano in
equivoco, che io non lo seguirei nelle sue immature e premature
elucubrazioni su la teoria del valore (“Journal des Economistes”,
Paris, I° maggio 1897; “Socialistische Monatshefte”, Berlin,
agosto 1897; “Giornale degli Economisti", Roma, luglio 1898).
Senza entrare nel merito di tali elucubrazioni, la qual cosa non
si può fare per incidente o per passatempo, io non vorrei,
per la compagnia non ben definita del Sorel, vedermi poi citato
fra gli esempii della crisi del marxismo (cfr. Th. Masaryk: Die
Krise des Marxismus, Vienna, 1898; trad. franc. nella “Revue de
sociologie”, luglio 1898; dove è citato il sig. Sorel in
appoggio di tale preziosa scoverta letteraria). A mio credere in
cotesta pretesa crisi entrarono molte dramatis personae, che, o
non hanno ancora bene appresa la parte, o hanno paura di
apprenderla, o la recitano maledettamente male.
Coteste medesime riserve io devo estendere, ma con una certa
insistenza, anche al Croce, per quanto riguarda la sua memoria:
Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del
marxismo, Napoli 1897 (riprodotta nel “Devenir Social”, anno IV,
fascicoli del febbraio e marzo 1898).
Sebbene quello scritto paia concepito (e così appunto
dice l'autore stesso a p. 3) qual libera recensione del mio
Discorrendo; il fatto è che esso, oltre a parecchie utili
osservazioni di metodologia storica, e ad alcune sagaci note di
tattica politica, contiene enunciati teoretici, che nulla han da
vedere con le pubblicazioni e con le opinioni mie, anzi a queste
son diametralmente opposte. Dovrei io forse mettermi per le vie di
una esplicita polemica ex-professo contro tutto l'insieme di
quella dissertazione, che per tanti altri rispetti è degna
d'esser letta? Ma perché mai; e a che pro? Lascio
volentieri al libero recensente la libertà delle opinioni
sue; purché queste non passino agli occhi dei lettori per
un complemento delle mie, e per un complemento da me accettato.
Non posso, però, fermarmi alla generica riserva, che basta
per il Sorel; e, anzi, devo indugiarmi in alcuni appunti sommarii
di critica.
Passerei senz'altro sopra alle sottili distinzioni scolastiche, in
cui il Croce s'impiglia insistendovi tra la scienza pura e la
scienza applicata, tra l'uomo oeconomicus e l'uomo morale, tra
l'egoismo e il tornaconto, tra l'essere e il doveressere, e
così via, perché tanto appartiene al mio mestiere di
professore la tolleranza dello scolasticismo tradizionale, che
può in certi casi servire al primo addestramento degli
ingegni giovanili, ma non è mai la scienza piena e
concreta. Come potrebbe mai l'astronomo impedire che la gente
parli del sole, che sorge, e tramonta? Caso mai potrei rimandare,
in via analogica e in linea approssimativa, ai capp. VI e VIII del
mio Materialismo storico: ove pian piano si dimostra come i
fattori, indispensabili alla cognizione empirica ed immediata, a
un certo punto si trasformino, o in aspetti o in momenti (secondo
i casi) di un complesso conoscitivo unitario. Ma, domando io per
la più spiccia, come mai colui che abbia il cervello ancor
chiuso in tali strettoie della logica dell'immediato intendimento
empirico, fa poi ad abbordare proprio il problema del marxismo,
che è, o almeno (per usar cortesia agli avversarii)
pretende di essere al di sopra di tali volgari distinzioni? Non
è questo un combattere ad armi troppo disuguali? Inviterei
quasi quasi il Croce a rifar la prova della sua arte critica in
altro campo di studii, a leggere sbrigativamente un trattato di
Energhetica - quello per es. recente dell'Helm - di mandare al
diavolo tutti gli Helmoltz e i R. Mayer di questo mondo, per
rimettere in onore, secondo il senso comune, la luce che è
sempre luminosa, ed il calore che è sempre caldo.
Ma donde il Croce - e proprio nell'atto che s'occupa di Marx! -
trae la persuasione, che oltre alle varie economie succedutesi
nella storia, rispetto alle quali l'economia
capitalistico-industriale è, per così dire, un caso
particolare (ma è quel caso, si noti, che solo fino ad ora
ha la sua teoria, e questa esiste in molte varianti di scuole e
sottoscuole), ci sia poi una economia pura, che da sola dà
luce e indirizzo generale d'interpretazione a tutti questi casi,
o, diciamo meglio, a tutte queste forme di prosaica esperienza? Un
animale in sé, oltre a tutti gli animali visibili ed
ostensibili? E che cosa dovrebbe mai contenere codesta economia
dell'uomo superistorico e supersociale, che finisce per essere
più noioso dei superuomini della letteratura e della
filosofia? Forse la nuda dottrina dei bisogni e degli appetiti,
data la sola natura ambiente, ma senza esperienza di lavoro, senza
istrumenti, e senza correlazioni precise, o di comunanza, o di
società? Tanto per la psicologia congetturale della
preistoria la tesi potrebbe andare. Ma no: - questa economia
dell'uomo in sé è perpetua ed attuale; - e qui
proprio mi ci perdo.
Ecco qua (p. 19): “Io tengo fermo alla costruzione economica
dell'indirizzo edonistico, all'utilità-ofelimità, al
grado terminale di utilità, e finalmente alla spiegazione
(economica) del profitto del capitale come nascente dal grado
diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri! Ma
ciò non appaga il desiderio di una spiegazione sociologica
del profitto del capitale; e questa spiegazione, con le altre
della medesima natura, non si può trovarla se non su la via
per la quale la cercò il Marx”.
Il mio amico Croce è un uomo a dirittura incontentabile; e
la sua incontentabilità potrebbe farlo apparire, a chi
altrimenti non lo conosca, quale uomo alquanto capriccioso.
Accetta d’emblée tutto un sistema d’economia, un sistema
che pretende di abbracciare tutto il conoscibile economico.
È questo un sistema, inoltre, assai noto in Italia, dove ha
rappresentanti notevoli, e anzi continuatori e perfezionatori,
come dicono sia il caso del Barone per la dottrina della
distribuzione. A conferma della sua profession di fede, che non
può non essere di gran letizia essendo edonistica, mette un
tanto di punto ammirativo ove dice che accetta la spiegazione
economica (o che avrebbe a essere non-economica?) del “profitto
del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei
beni presenti e dei beni futuri!”. E che gli mancherebbe dunque
per dare dell'imbecille e del perditempo a Marx, che per vie del
tutto diverse s'è affannato a ricercare l'origine, il
processo e la spartizione del sopravvalore; alla qual cosa, alla
fin fine, si riduce nell'essenziale l'attività sua
specifica di critico e d'innovatore dell'economia? La benedetta
formola del D D', ossia del danaro che si ritrova in danaro con
tanto di più, fu come il chiodo fisso nella testa di Marx
ricercatore, come il pernio della sua ricerca. Ora il Croce, fatta
la sua profession di fede di edonista convinto, quasi come chi
avendo già bevuto e mangiato a sazietà, voglia
ribere e rimangiare, si volge a Marx a chiedergli una teoria
sociologica, che sia complementare a quella economica, nella quale
lui Croce è tanto fermo e deciso; - e che altro può
dirgli Marx se non questo: mandate al diavolo quella vostra
filastrocca edonistica, se no è inutile interroghiate me su
tali quisquilie, ché io non posso offrirvi che
l'assolutamente opposto.
Di fatti il Croce è costretto a farsi un Marx diverso -
non dirò se molto o poco - dal vero, perché sia
quello i cui principii possano apparire conciliabili con
gl'indiscutibili dati dell'edonismo. Discorrendo del come Marx
“poté giungere a scovrire e definire l'origine sociale del
profitto, ossia del sopravvalore”, esce in questa sentenza (p 12):
“Sopravvalore, in pura economia, è una parola priva di
senso, come è mostrato dalla denominazione stessa,
giacché un sopravvalore è un extravalore, ed esce
fuori dal campo della pura economia. Ma ha bene un senso e non
è un assurdo, come concetto di differenza, nel paragone che
si fa tra una società economica con un'altra, un fatto con
un altro, o due ipotesi tra di loro”. E poi aggiunge in nota:
“Faccio ammenda di un errore nel quale incorsi in una mia
precedente memoria, nella quale, pur dicendo rettamente che il
sopravvalore non è un concetto puramente economico, lo
definivo inesattamente un concetto morale; e dovevo dire, come
dico ora, un concetto di differenza di sociologia economica e di
economia applicata, e non di economia pura. La morale qui non ha
parte, come non ha nessuna parte in tutta l'indagine del Marx”.
Auguro al Croce, che giungendo alla sua terza memoria in
argomento confessi poi, che del primo errore egli poté fare
ammenda, perché quello almeno era la generalizzazione di
una opinione ovvia nel socialismo volgare, che il sopravvalore sia
cioè il compendio delle proteste degli sfruttati; ma che
del secondo errore non può scusarsi, perché lui
stesso non è più in grado di decifrare
plausibilmente il pensiero suo. Né solo per la continua
equivocazione di profitto, interesse e sopravvalore; ma
perché in più luoghi assume il concetto di una
società lavoratrice come di una forma a sé (ma, dico
io, in contrapposto a quale altra, forse a quella dei santi in
paradiso?) e dice: “Marx faceva il paragone della società
capitalistica con una parte di se stessa isolata ed elevata ad
esistenza indipendente; ossia il paragone tra la società
capitalistica con la società economica in se stessa (ma
solo in quanto società lavoratrice)” e poi: “Dunque
l'economia marxista è quella che studia l'astratta
società lavoratrice” (pp. 12 e 13).
Se c'è chi senta il bisogno di liberarsi dal malefico
bacillo metafisico, che induce a tali ragionamenti, io gli
consiglierei come rimedio la lettura, non già delle
polemiche degli economisti, e di quelle segnatamente che in
Germania ebbero occasione dalle pubblicazioni del Dietzel, che
possono parer sospette, ma della Logica del Wundt (vol. II, parte II, pp.
499-533), nella qual Logica, a dirlo per incidente, più in
là delle pagine testè citate si adduce come esempio
tipico di legge sociale (pare incredibile! e il Wundt non è
dolce di sale, né coi sociologisti, né con le
così dette leggi sociali) proprio il sopravvalore secondo
Marx (ibidem, pp. 620-22).
Al postutto cotesta economia pura - come è in uso di
chiamarla in Italia, che è sempre il paese dell'enfasi e
della esagerazione - ossia cotesto indirizzo di ricerca e di
sistema, che su gl'inizii, o insufficienti, o ignorati, o
dimenticati del Gossen, del Walrass e del Jevons. s'è
venuto sviluppando in ciò che ora ha (vulgo) il nome di
scuola austriaca, non è, così nelle premesse come
negli andamenti, se non una variante teoretica nella
interpretazione di quegli stessi dati empirici della vita
economica moderna, che han sempre formato l'obietto degli studii
delle altre scuole. Si distingue dalla scuola classica (che non fu
tanto antistorica, come è parso a molti, e come ha
dimostrato R. SCHÜLLER: Die
klassische Nationalökonomie, Berlin 1895), per la
tendenza a un più alto grado di astrazione e di
generalizzazione. Si prova a mettere in maggiore evidenza gli
stati psichici, che precedono ed accompagnano gli atti ed i
rapporti economici. Usa ed abusa degli espedienti matematici. Non
è la superistoria, sebbene metta assai spesso in iscena le
robinsonate, che dissimula però sotto la veste di una
sottile psicologia individualistica: anzi è tanto poco la
superistoria, che da questa storia attuale assume due dati,
facendone dei presupposti estremi, ossia la libertà del
lavoro e la libertà di concorrenza spinte per ipotesi al
massimo. Per ciò essa è, in ciò che reca,
afferrabile, comprensibile e discutibile; perché è
confrontabile con l'esperienza della quale è spesso una
forzata ed unilaterale interpretazione. (Alla generalità
del pubblico francese ora è dato di leggere in forma chiara
e piana la esposizione sommaria della teoria del valore di cotesta
scuola nel libro di E. PETIT: Etude
critique der différentes théories de la valeur,
Paris 1897).
Tornando al Croce non saprei nascondere la mia maraviglia, che
egli (note I e 2 a p. 14) trovi a ridire contro l'Engels,
perché questi una volta chiami storica la scienza
dell'economia, e un'altra volta poi parli di economia teoretica.
Per chi si fermasse alle parole sole basterebbe di dire, come
storico in quel caso li è l'opposto del naturale nel senso
del fisso e dell'immutabile (le famose leggi naturali della
economia volgare), e il teoretico è detto in opposizione al
conoscere grossolanamente descrittivo ed empirico. Ma c'è
dell'altro. Ogni teoria non è se non la rappresentazione,
per quanto più si può perfetta, dei rapporti di
reciproca condizionalità di quei fatti, che in un
determinato campo dell’esperienza appariscano omogenei,
riavvicinabili e connessi. Ma tutti questi varii gruppi di fatti
sono momenti di un divenire. Or se un fisiologista, dopo d'avervi
esposta la teoria fisico-meccanica della respirazione polmonare,
esca a dirvi, che la respirazione non è legata
all'esistenza del polmone, e che il polmone stesso è un
fatto particolare di genesi nella storia generale degli organismi,
vorreste voi forse cotesto fisiologista tradurlo, nel-la
qualità d'imputato, innanzi al fòro di un'altra
economia pura, cioè volevo dire, innanzi a quello di una
fisiologia purissima, che studii l'ente vita, anziché i
viventi?
Di fatti il Croce muove querela (passim) a Marx, per non aver
questi stabiliti i rapporti fra la sua indagine e i concetti di
economia pura, per mostrare (p. 3) “con metodica esposizione come
i fatti apparentemente più diversi del mondo economico
siano retti in ultimo da una medesima legge, o, ch'è lo
stesso, come questa legge si rifranga variamente passando
attraverso organizzazioni varie, senza mutar se stessa, che
altrimenti mancherebbe il modo ed il criterio stesso della
spiegazione”. Qui Marx, se avesse pur voglia di rispondere, non
saprebbe che cosa rispondere. Qui Marx non c'entra più. E
non si tratta nemmen più delle generalizzazioni, per dir
vero troppo astratte della scuola edonistica, che pur sempre
rientrano nei processi leciti di astrazione e d'isolazione proprii
ad ogni scienza, che partendo dalla base empirica tenti la via dei
principii. Qui ci troviamo in presenza di una legge economica, che
a guisa di un quasi-ente attraversa misteriosamente le varie fasi
della storia, perché non s'abbiano a scucire. Questo
è il puro possibile, che è poi, in realtà,
l'impossibile. Il signor Dühring - che qua e là
è in un certo modo direttamente difeso - è
oltrepassato.
Qui si tratta di riaffacciare delle difficoltà nella
concezione preliminare di ogni problema scientifico, per le quali
rimangon fuori della comprensibilità, non solo Marx, ma tre
quarte parti del pensiero contemporaneo. La logichetta formale, di
felice memoria, diventa l'arbitra del sapere. Teniamoci pure al
testo, che in passato ebbe tanta diffusione in Francia, il
Port-Royal. Si parta da un concetto della massima estensione e del
minimo contenuto, e per incremento di meccanica notazione si
arrivi ad un concetto di minima estensione e di massimo contenuto.
E se ci capita poi fra mani un processo reale, il passaggio per
es., dall'invertebrato al vertebrato, o dal comunismo primitivo
alla proprietà privata del suolo, o dalla indifferenza
delle radici alla differenziazione tematica di verbo e nome nel
gruppo ario-semitico, invece di fermarsi in tali fatti, come in
casi di epigenesi faticosamente e realiter accaduta, scriveremo in
un concetto già bello e preconcepito, per via di un facile
metodo di notazione, prima un A, poi un a, poi un a¹, poi un
a2, poi un a³, e così via: - e tutto sarà bello
e fatto. E mi pare che basti di ciò.
Eccoci, per conseguenza, ad alcuni enunciati alquanto curiosi (p.
2): “È una società (s'intende quella studiata da
Marx nel Capitale) ideale e schematica, dedotta da alcune ipotesi,
che potrebbero anche non essersi presentate mai corso della
storia”. Qui Marx diventa l'illustratore teorico di una
quasi-utopia. E poi (p. 4): “Marx assunse, fuori del campo della
pura teorica economica, una proposizione, che è la
famigerata eguaglianza di valore e lavoro”. E di dove dunque l'ha
presa? forse (secondo alcuni) c'è arrivato “spingendo alle
estreme conseguenze un concetto poco felice di Ricardo”. Il quale
Ricardo bisognerebbe espellerlo a dirittura dalla storia della
scienza, perché qualcos'altro di più felice non l'ha
veramente fatto. In un certo punto il Croce (p. 20, in nota) se la
piglia col Pantaleoni, perché questi “combatte il Böhm
Bawerk, domandandosi donde il mutuatario del capitale riesca a
prendere di che pagare l'interesse”. Di fatti il Pantaleoni (Principii di economia politica,
p. 301) dice: “la causa generativa dell'interesse sta nella
produttività del capitale come bene complementare in un
processo tecnico vantaggioso, richiedente un certo tempo, e non
nella virtù del tempo, che lascerebbe le cose come le ha
trovate”. Qui, e per tutto un capitolo, il Pantaleoni, con
l'andamento del ragionare che è proprio al suo indirizzo,
ripiglia a modo suo quella spiegazione dell'interesse per via
della produttività del (danaro-) capitale, che, uscita
vittoriosa già nel secolo XVII dalle polemiche coi
moralisti e coi canonisti, apparisce nella sua formola
elementarmente economica per la prima volta in Barbon e Massey.
Quella spiegazione è la sola che l'economista possa
enunciare, fino a che la produttività del capitale, che
prima facie pare evidente, non è fatta essa stessa oggetto
di una critica; la qual cosa ha menato poi Marx alla formola
più generale e al principio genetico del sopravvalore. In
quello stesso capitolo Pantaleoni abilmente polemizza contro il
Böhm, che, come direbbe il Croce “dà la spiegazione
(economica) del profitto del capitale, come nascente dal grado
diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri”.
Ma volete forse per vostro passatempo mettere in iscena una
farsetta ideologica concepita così: - si assume da una
parte la legittima aspettazione del creditore, e dall'altra parte
la onesta promessa del debitore; - questi due attributi
psicologici, che tanto fanno onore alla eccellenza dell'animo
loro, vengon messi nella dovuta evidenza; poi si suppone, che
debitore o creditore siano homines oeconomici tanto perfetti,
quanto è necessario di tener per fermo che siano, dal
momento che nacquero coi diagrammi del Gossen stampati nel
cervello; - poi si aggiunge la nozione del tempo astratto; - e,
costituita la santa trinità di aspettazione, promessa e
tempo, si attribuisce a questa trinità la virtù di
trasmutarsi in quel più di valore, che deve essere poniamo,
per es., nelle scarpe prodotte col denaro mutuato, perché
il mutuante, in ultimo, e guadagnando pur lui qualcosa, se nel
frattempo non vuol morir di fame, solvat debitum cum usura. Ma
questa è proprio la scienza messa alla gogna. In
verità il tempo non è nella economia, come non
è nella natura, se non la misura di un processo: ed
è nell'economia la misura del processo della produzione e
della circolazione (ossia, in ultima analisi, e data la debita
analisi, del lavoro). E solo in quanto esso entra nell'economia
per questo rispetto, il tempo è anche misura
dell'interesse. Un tempo che in quanto tempo operi come causa
reale è un mitologhema. (Su gli avanzi mitici nella
rappresentazione del tempo leggere: Zeit und Weile nelle Ideale Fragen di M. Lazarus, Berlin 1878, pp.
161-232). Se fino alla mitologia dobbiamo risalire, rimettiamo a
dirittura lassù nel cielo, più in su dell'Olimpo,
quell'antichissimo Kronos, che il volgo greco confondeva con
chronos (tempo): e se speranze, aspettazioni e promesse son per
sé cause reali di fatti economici, diamoci a dirittura alla
magia.
Parrebbe quasi che perfino in questa, o per inavvertenza, o per
una certa tal quale bizzarria di forma letteraria, il Croce rischi
di dare una capata, quando scrive (p. 16): “E se nell'ipotesi del
Marx, le merci appaiono come gelatine di lavoro, o lavoro
cristallizzato, perché in altra ipotesi non potrebbero
apparire come gelatine di bisogni, o quantità di bisogni
cristallizzate?” Santi numi! Marx non fu veramente un modello di
ciò che chiamasi dizione classica, specie nella
plasticità, nella trasparenza e nella continuità
delle immagini. Marx fu un seicentista. Ma le sue immagini, spesso
bizzarre, ma che non son mai né ghiribizzi né
facezie, dicon sempre qualcosa di profondamente realistico. Se
quella immagine della gelatina, che del resto non ha niente di
sacramentale né di obbligatorio per nessuno, l'andate a
ripetere al primo calzolaio che vi capiti innanzi, egli,
accennando forse alle mani incallite, alla schiena ricurva, e al
sudore della fronte, vi dirà che a un dipresso ha capito,
perché nelle scarpe che produce ci mette via via una parte
di se stesso, le sue energie meccaniche, dirette dalla
volontà, ossia dirette dall'attenzione volontaria, secondo
la forma preconcetta, nella quale si assomma, come in intento ed
in proposito, la sua attività cerebrale in quanto egli
è in atto di lavorare. Ma finora fu dato solo ai
fattucchieri di credere o di dare a credere, che coi soli desideri
si riesca a conglutinare una parte di noi stessi con alcun bene in
genere, prodotto o non prodotto che esso si sia.
Con la psicologia non è lecito di scherzare. Non saprei
dire in poche parole quanta parte di essa debba entrare nei
presupposti della economia. So di certo però, che la
più parte dei concetti psicologici, che edonisti e
non-edonisti vanno cacciando dentro all'economia, ha un certo che
di messoci a posta ad usum delphini, un certo che di escogitato e
non di trovato, un certo che di accidentalmente tratto dalla
volgare terminologia e non di criticamente vagliato; onde è
il caso di ripetere tractent fabrilia fabri. E so anche questo,
che dal bisogno al lavoro ci corre tutta la formazione psicologica
dell'uomo; ci corre quanto ci corre dal sentimento privativo della
sete, che è il bisogno del bere, che il bambino non associa
ancora, non dirò ai movimenti che gli occorrono, per
procurarsi da bere, ma nemmeno alla rappresentazione dell'acqua,
sino all'atto del lavoratore provetto, il quale per matura
volontà d'intelletto, per volontà nella quale
esperienza ed immaginazione, imitazione ed inventiva fanno uno,
scava un pozzo, o apre una fontana. Ridurre e scheletrizzare
cotesta viva formazione in un'arida nomenclatura, questo fu il
difetto della psicologia vulgaris, e questa il più delle
volte gli economisti, anche ai giorni nostri, prendono a premessa
delle loro speciali elucubrazioni. La psicologia del lavoro, che
sarebbe il coronamento della dottrina del determinismo, è
ancora da scrivere.
A quoi bon questo post-scriptum? dirà forse il lettore.
Ecco qua: io non sono il paladino di Marx, ammetto tutte le
critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un critico,
non smentisco la sentenza: comprendere è superare; ma mi
conviene pur d'aggiungere, che superare è aver compreso.
II.
Prefazione all'edizione francese.
Roma, 31 decembre 1898
Questo mio piccolo libriccino - come è chiaro anche dal
post-scriptum illustrativo - dovea venir fuori a Parigi nel
settembre ultimo. La stampa ne è stata ritardata per cause
accidentali.
Nel frattempo il Sorel s'è dato anima e corpo alla Crisi
del marxismo e la tratta, la espone, la commenta, con amore, un
po' da per tutto, per es., nella “Revue parlementaire" del 10
decembre, pp. 597-612 (dove anzi la crisi diventa a dirittura
quella del socialismo) e nella “Rivista critica del socialismo”,
Roma, fasc. I, pp. 9-21; e per di più la fissa e la
canonizza nella Préface da lui messa al libro del Merlino:
Formes et essence du socialismo. Ci si minaccia per fino un
congresso di secessionisti ben pensanti.
Siamo decisamente alla guerra della Fronda!
Che dovrei io fare? Ricominciare da capo? Scrivere l'anti-Sorel
dopo d'aver scritto l'avec-Sorel. Non cado punto in tale
tentazione. Gli è vero che questa mia composizione
d'insolita fattura s'intitola: Discorrendo; - ma si discorre
quando ci piace, e non a comando.
Desidero solo che il lettore guardi alle date di queste lettere,
ossia di queste piccole monografie di stile sciolto, intitolate al
signor Sorel: - e le date corrono dal 20 aprile al 15 settembre
1897. Io mi rivolgevo a quel Sorel - non a quest'altro; - a quello
insomma che avevo conosciuto su le pagine del “Devenir Social”,
che avea presentato me ai lettori francesi nell'assisa di
marxista, che mi scriveva lettere piene di fine osservazioni, e di
considerazioni critiche apprezzabili. Era dubitoso, sì, e
mi parve qualche volta intinto d'esprit frondeur, ma nello
scrivere rivolgendomi a lui, io non pensavo nel 1897, ch'ei
diverrebbe in così breve tempo l'araldo di una guerra di
secessione. O come di questo saranno lieti i
déclassés dell'intelligenza, e coloro che hanno
bisogno dell'alibi della vigliaccheria. Se non che il Sorel ci
lascia qualche barlume di speranza quando scrive: "Io e qualche
amico ci sforzeremo dì utilizzare i tesori di riflessioni e
d'ipotesi che Marx ha raccolto nei suoi libri. Questo è il
miglior modo di trarre partito da un'opera geniale rimasta
incompiuta" ("Revue parlementaire", ibid., p. 612). Dunque tanti
auguri per l'anno nuovo - comincia domani - in tale opera benigna
e pietosa di salvataggio... della quale del resto io e molti altri
come me non sentivamo il bisogno.
Senza rancore: - ma non certo senza mortificazione per me. Nel
licenziare al pubblico francese queste pagine di composizione
alquanto insolita io temo che dei lettori di spirito - la Francia
ne abbonda più di ogni altro paese - abbiano a dire di me:
ecco lì un tollerabile conversatore, ma che pedagogista
pessimo; apre da erudito un dialogo didattico con un amico ed ecco
che questi passa difilato dall'altra parte!
Non è vero, signor Sorel? Ebbene, accomodiamo le partite: -
questo dialogo era un monologo; e alla buon'ora di dio!