INTRODUZIONE
Amoroso ti versa a raccontare
Questa storia di pianto, o pianto mio.
Anfossi.
Io quando vidi la immagine della Beatrice Cènci, che la
pietosa tradizione racconta effigiata dai pennelli di Guido Reni,
considerando l'arco della fronte purissimo, gli occhi soavi e la
pacata tranquillità del sembiante divino, meco stesso
pensai: ora, come cotesta forma di angiolo avrebbe potuto
contenere anima di demonio? Se il Creatore manifesta i suoi
concetti con la bellezza delle cose create, accompagnando tanto
decoro di volto con tanta nequizia d'intelligenza non avrebb'egli
mentito a se stesso? Dio è forse uomo, per abbassarsi fino
alla menzogna? I Magi di Oriente e i Sofi della Grecia
insegnarono, che Dio favella in lingua di bellezza. La età
ghiacciata tiene coteste dottrine in conto di sogni, piovuti dal
cielo in compagnia delle rose dell'aurora: lo so. Serbi la
età ghiacciata i suoi calcoli, a noi lasci le nostre
immagini; serbi il suo argomentare, che distrugge; a me talenta il
palpito che crea. I pellegrini intelletti illuminano di un tratto
di luce i tempi avvenire; per essi i fati non tengono i pugni
chiusi; su l'oceano dello infinito appuntando gli occhi della
mente, scorgono i secoli lontani come l'alacre pilota segnala il
naviglio laggiù in fondo, dove il mare si smarrisce col
firmamento. A questi sogni divini, che cosa avete sostituito voi,
uomini dal cuore arido? La verità, voi dite. Sia; ma la
dottrina di cui ci dissetate è tutta la verità?
È ella eterna, necessaria, invincibile, o piuttosto
transeunte e mutabile? No; le verità che deturpano la
creatura non formano la sua sostanza, del pari che le nuvole non
fanno parte del cielo. - O giovani generazioni, a cui io mi volgo;
o care frondi di un albero percosso dal fulmine, ma non
incenerito, Dio vi conceda di credere sempre il bello ed il buono
pensieri nati gemelli dalla sua mente immortale; - due scintille
sfavillate ad un medesimo punto dalla sua bontà infinita -
due vibrazioni uscite dalla stessa corda della lira eterna, che
armonizza il creato.
Così pensando io mi dava a ricercare pei tempi trascorsi:
lèssi le accuse e le difese; confrontai racconti, scritti e
memorie; porsi le orecchie alla tradizione lontana. La tradizione,
che quando i Potenti scrivono la storia della innocenza tradita
col sangue, che le trassero dalle vene, conserva la verità
con le lacrime del popolo, e s'insinua nel cuore dei più
tardi nepoti a modo di lamento. Scoperchiai le antiche sepolture,
e interrogai le ceneri. Purchè sappiansi interrogare, anche
le ceneri parlano. Invano mi si presentarono agli occhi uomini
vestiti di porpora: io distinsi dal colore del mollusco marino
quello del sangue, che da Abele in poi grida vendetta al cospetto
di Dio; - ahi! troppo spesso indarno. Conobbi la ragione della
offesa: e ciò, che persuase il delitto al volgare degli
uomini, usi a supporlo colà dove colpisce la scure, me
convinse di sacrificio unico al mondo. Allora Beatrice mi apparve
bella di sventura; e volgendomi alla sua larva sconsolata, la
supplicai con parole amorose:
«Sorgi, infelice, dal tuo sepolcro d'infamia, e svelati,
quale tu fosti, angiolo di martirio. Lunga riposa l'abominazione
delle genti sopra il tuo capo incolpevole; e non pertanto reciso.
Poichè seppi comprenderti, impetrami virtù che basti
a narrare degnamente i tuoi casi a queste care itale fanciulle che
ti amano come sorella poco anzi dipartita dai dolci colloquii,
quantunque l'ombra di due secoli e mezzo si distenda sopra il tuo
sepolcro.»
Certo, questa è storia di truci delitti; ma le donzelle
della mia terra la leggeranno: - trapasserà le anime
gentili a guisa di spada, ma la leggeranno. Quando si
accosterà loro il giovane che amano, si affretteranno,
arrossendo, a nasconderla; ma la leggeranno, e ti offriranno il
premio che unico può darsi ai traditi - il pianto.
Ed invero, perchè non la dovrebbero leggere? Forse
perchè racconta di misfatti e di sventure? La trama del
mondo si compone di fila di ferro. La virtù nel tempo pare
fiaccola accesa gettata nelle tenebrose latebre dello abisso. Fate
lieta fronte alla sventura; per molto tempo ancora siederà
non invitata alle vostre mense, e temprerà il vostro vino
col pianto. Quando cesserete di piangere voi sarete felici. E
giovino adesso le lacrime e il sangue sparsi; imperciocchè
il fiore della libertà non si nudrisca che di siffatte
rugiade. La virtù, disse Socrate, in contesa con lo
infortunio è spettacolo degno degli Dei. Bisogna pure che
sia così, dacchè troppo spesso se lo pongano dinanzi
ai loro occhi immortali.
Pensoso più di te, che di me stesso, io piango e scrivo.
Educato alla scuola dei mali, mi sono sacri i miseri. I fati mi
avvolsero fino dalla nascita la sventura intorno alla vita come le
fasce della infanzia: - la sventura mi porse con le mammelle
rigide un latte acerbo, ma la sventura ancora mi ha ricinto i
fianchi con la zona della costanza; per cui dentro il carcere
senza fine amaro incominciai questo racconto, e dentro il carcere
adesso io lo compisco.
Sopra la terra si levarono e si levano soli, nei quali la stirpe
dei ribaldi, per celare il pallore del rimorso o della paura,
s'imbrattano la faccia col sangue dei magnanimi, come gl'istrioni
della tragedia di Tespi se la tingevano di mosto. - Lo ricordino
bene le genti: quando l'amore di patria è registrato nel
codice come delitto capitale - la tirannide allaga a modo di
secondo diluvio.
Ma la storia non si seppellisce co' cadaveri dei traditi: essa
imbraccia le sue tavole di bronzo quasi scudo, che salva
dall'oblio i traditi e i traditori.
Nella sala grande di Palazzovecchio in Firenze, nella
estremità della parete volta a tramontana havvi un quadro,
dove scorgi un nano precursore del duca Cosimo dentro Siena, con
un fanale acceso nella destra. Cotesta immagine è simbolo,
o verità? Cotesto nano non è morto senza posteri:
sceso da serie lunghissima di antenati, ha dovuto lasciare una
discendenza che per ora non sappiamo quando sarà per
cessare.
Al tramonto del sole alcuni uomini hanno guardato la propria
ombra; e, vedutala lunga, si sono creduti grandi. Beati loro se
fossero morti a mezza notte! Però non senza intendimento la
fortuna gli ha conservati in vita: essi hanno insegnato che mille
uomini mediocri, uno aggiuntato all'altro, non formeranno mai un
grande uomo; - e molto meno un uomo di cuore.
Apolli di gesso vuoti, ma tristi; abietti, ma iniqui; - menzogna
di divinità. Quando atterrarono in Alessandria la statua
del Sole, trovarono la sua testa ricettacolo di ragnateli: quello
che troveremmo nella vostra non so; quel che conosco di certo si
è, che il vostro cuore racchiude un nido di vipere.
Le mani sono di Esaù, la voce è di Giacobbe, diceva
Isacco; in voi, voce mani e anima tutto è di Augustulo;
imperciocchè la debolezza si accoppii ottimamente con la
crudeltà. Giuda senza rimorso, Claudii senza impero -
uscite dalla mia mente per sempre.
Però mi contrista un pensiero, ed è: che dal mal
seme presto o tardi nasce un frutto pessimo. O Creatore, tu che
hai insegnato come il bene non sorga dai sepolcri, - disperdi, io
ti scongiuro, il giorno delle vendette.
Verrà un dì, e verrà sento, in cui i miei
conterranei daranno sepoltura onorata a questo corpo stanco
accanto alle ossa paterne. Colà in quel monte, a capo della
Terra ov'ebbi nascimento, la mia tomba vi appaia quasi una mano
distesa per benedirvi. A me giovi la pietà vostra dopo la
mia morte; io vi ho amato dal giorno che apersi gli occhi alla
vita; - e quando condurrete i vostri figli al Santuario della
Vergine, mostrando la mia lapide dite loro:
«Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino
dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo; tutta
la sua vita fu una lunga lotta con lei: ma le lotte con la fortuna
assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angiolo. Superato, non
vinto, amò, soffrì e si travagliò del
continuo pel decoro della Patria. Non provò amici popoli,
nè principi; - -lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso
gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le
carceri, parte l'esilio. Prigioniero meditò e scrisse;
libero si affaticò per la salvezza comune, e principalmente
per quella de' suoi nemici od emuli. Invano la ingratitudine
tentò riempirgli l'anima d'odio. Le acque dello affanno
lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore. Offeso gli
piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che tenne
la vendetta passione di menti plebee; nè perdonava
soltanto, ma (più ardua cosa assai) egli obliò(). La
spada della legge, confidata nelle sue mani, non convertì
in pugnale di assassino. Quando altro non potè fare, col
proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva essergli
stati, e che avrebbero durato ad essergli nemici. Il popolo un
giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo
gittarono alle moltitudini insanite come uno schiavo nel circo
delle fiere. Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio
di rovine e di speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle
genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno infelici.
Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra
questa terra desolata le parole: virtù,
libertà.»
CAPITOLO I.
FRANCESCO CÈNCI
Per tutti i cerchi dello Inferno oscuri
Spirto non vidi in Dio tanto superbo.
dante.
Non so se più soave, ma certamente simile alla Madonna
della Seggiola di Raffaello avrebbe dipinto un quadro colui, che
avesse tolto a imitare per via di colori il gruppo, che stava
aspettando Francesco Cènci nella sala del suo palazzo. Una
sposa di forse venti anni, seduta sopra i gradini di un
finestrone, teneva al petto il suo pargolo; e dietro alla sposa un
giovane di egregie sembianze, col volto basso, contemplava cotesto
spettacolo di amore: egli solleva le mani giunte e alquanto
piegate verso la spalla sinistra, per ringraziare Dio di tanta
prosperità che gli manda. La sembianza e lo atteggiamento
dimostrano come in quel punto lo commuovano tre affetti, che fanno
l'uomo divino. Le mani erano a Dio, lo sguardo al figlio, il
sorriso alla sposa. - Però la donna non vedeva cotesto
sorriso, chè lei assorbivano intera i doveri e la
dignità di madre. Il fanciullo sembrava un angiolo, il
quale avesse smarrita la via per tornarsene in cielo.
Ma dall'altra parie della sala stava disteso sopra un pancone un
uomo, che sembrava avesse fornito a Michelangiolo il modello di
taluno de' suoi famosi crepuscoli. Appena mostrava il volto,
celato sotto il cappello di larghe falde e conico di forma. La
barba avea lunga, rabbuffata e grigia; la pelle, simile a quella
che Geremia deplora nei figliuoli di Sion, tinta di cenere come il
pavimento del forno(). Si avviluppava dentro un ampio tabarro: le
gambe e i piedi, l'uno soprammesso all'altro, aveva calzati di
sandali, giusta il costume degli uomini del contado di Roma. Forse
egli era armato, ma teneva le armi nascoste; però che la
Corte Romana, dopo papa Sisto V, procedesse molto rigidamente in
simile faccenda.
Chiunque, in mezzo della sala, avesse posto mente prima al gruppo
dell'amorosa famiglia e poi a quell'uomo, avrebbe ricordato il
detto della Scrittura: divise le tenebre dalla luce().
Due giovani gentiluomini passeggiavano per la sala, taluni con
veloci e talora con tardi passi, ricambiando parole a voce alta, o
sommessa. Il primo aveva la pelle chiazzata di vermiglio come
macchie di erpete; dalle pupille nere, luccicanti traverso i cigli
infiammati, traluceva la ferocia, mescolata ad un certo
smarrimento mentale: rari ed irti i capelli: sozzi i denti: il
naso camuso e le guance flosce lo arieggiavano col cane da presa.
Le vesti, comecchè nobilissime, erano scomposte: la parola
usciva impetuosa e roca dai labbri riarsi: accenti impuri, cui
forse natura per rendere più laidi volle accompagnati con
fetido fiato: rotti e continui i moti delle spalle, dei bracci e
del capo. Il delitto stava là dentro come un vulcano
prossimo a prorompere.
L'altro poi era pallido, e di aspetto gentile: copiosa e ben
composta la chioma bionda, tardo e mesto a guardare e a parlare:
sovente distratto: qualche volta sospiroso: si fermava, trasaliva,
la commozione interna svelava col tremito del labbro superiore, e
coll'agitarsi degli estremi peli dei baffi. Le vesti, i nastri, le
trine del colletto e delle maniche elegantissime. Chiunque lo
avesse veduto avrebbe esclamato a prima giunta: costui sospira.
In tonacella senza ferraiolo, simile ad una gazza che inquieta ed
obliqua saltella per casa, ecco un prete guizzare qua e là,
dandosi la maggior pena del mondo per trarre a se l'attenzione
degli astanti, o almeno di taluno fra loro. Egli favellava della
state e del verno, del caldo e del freddo, della sementa e della
raccolta, ma nessuno gli attendeva: talora domandava se in quel
giorno avrebbe potuto avere la degnazione di parlare con sua
Eccellenza il clarissimo signor Conte; tal altra a quale ora egli
soleva levarsi, e a quale asciolvere; se costumava spendere molto
tempo attorno alle mondizie della persona, e se tutti i giorni
desse udienza; - era fiato gettato: nessuno gli rispondeva,
però che gli sposi rimanessero estatici nella loro letizia;
il villano paresse una statua di bronzo; il gentiluomo dal volto
vermiglio lo avesse squadrato così di traverso, da
mettergli i brividi addosso; il gentiluomo dal volto pallido lo
fissasse come uomo piovuto dalle nuvole. Il povero prete stava per
dare del capo nei muri: proprio per disperazione, di tanto in
tanto apriva il breviario e leggeva; ma col sembiante di chi
trangugia medicine amare: gli occhi gli sdrucciolavano giù
per le pagine: avresti detto che avesse recato seco cotesto libro,
come colui che va ad annegarsi si porta il sasso per legarselo al
collo.
Il volto dello sciagurato prete, per ordinario tinto del giallo
pallido dei mozziconi di cera avanzati al servizio dell'altare,
quasi per impazienza si era fatto acceso: non poteva darsi pace
che nessuno gli porgesse ascolto; e sì ch'ei meritava
essere avvertito, non fosse altro per indovinare se avesse
più logora la tonacella veste del suo corpo, o il corpo
veste della sua anima: logori entrambi, amici vecchi fra loro, e,
con rammarico grande del loro padrone, testimoni che nulla ha da
durare eterno nel mondo. -
Il curato (dacchè il prete fosse proprio un curato) dopo
aver fatto esperimento come non si verifichi sempre la sentenza
della Scrittura «picchiate, e vi sarà aperto,»
si era indirizzato per la terza o quarta volta a certo staffiere
di sala, il quale sembrava finalmente disposto a dargli retta,
quando il gentiluomo dalla trista figura chiamò con voce
arrogante:
- Cammillo!
La natura dei servi è, che quando non hanno motivo peggiore
per incurvarsi, obbediscono a cui comanda più superbo; e
Cammillo staffiere, comecchè tra la famiglia ampissima dei
servi non fosse dei più tristi davvero, tuttavolta, girando
quasi per iscatto di molla su i talloni, mutò la faccia per
le spalle davanti al prete; e, fatto arco della persona verso il
gentiluomo, con voce ossequiosissima rispose:
- Eccellenza!
- Avrebbe il nobil Conte per avventura mal dormito stanotte?
- Non lo so - ma non credo. Gli furono portate parecchie lettere
sul fare del giorno, massime di Spagna e del Regno: - potrebbe
darsi, ma non lo so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.
In questo punto un latrato infernale intronò le orecchie
degli astanti: poco dopo si aprono con impeto furiosissimo le
imposte della stanza del Conte, e ne prorompe fuori un mastino di
enorme grandezza tra spaventato e inferocito.
Il villano, giacente accanto la porta, in meno che si dice amen
è balzato su ritto; e, sviluppatosi dal tabarro, dà
di mano a un pugnale largo, e lungo bene due palmi, atteggiandosi
a difesa. La giovane madre si strinse il figlio al seno,
cuoprendolo con ambe le braccia. Il padre si parò dinanzi
al figlio e alla sposa schermendoli col proprio corpo. I
gentiluomini si scansarono con fretta decente, come chi non vuole
a un punto incontrare il pericolo, e non mostrar paura. Il curato
poi si mise a fuggire.
Il cane, seguendo suo istinto, si avventa contro il fuggitivo, lo
azzanna per gli svolazzi della tonaca, e gliene strappa un lembo;
e gli faceva peggio, se due staffieri correndo non lo avessero
trattenuto a gran pena afferrandolo pel collare. Il breviario era
rotolato per terra. Il povero prete traeva dolorosi guai; e,
stretto dalla medesima smania che spingeva lo ebreo Sylock a
gridare «la mia figlia! i miei danari!», esclamava:
- La mia tonaca! il mio breviario! -
Il cane infellonito abbaiava più forte che mai.
Sopra la soglia apparve un vecchio. Questo vecchio era Francesco
Cènci.
Francesco Cènci, sangue latino dell'antichissima famiglia
Cincia, annoverava fra i suoi antenati il pontefice Giovanni X,
quel sì famoso drudo della bella Teodora, la quale per
virtù di amore lo condusse vescovo prima a Bologna, poi a
Ravenna, e finalmente lo fece papa. E come nel tempo, così
era cotesta famiglia nel delitto vetusta; imperocchè, se la
storia porge il vero, Marozia sorella a Teodora, intendendo torre
a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa proditoriamente
la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il Laterano,
uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni stesso
chiude in carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase morto.
Corre fama eziandio, che lo rinvenissero cadavere nel letto di
Teodora; e la superstizione immaginò lo avesse strangolato
il diavolo, in pena dei suoi delitti. Morte obbrobriosa a vita di
vituperio!
Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di
fortuna, chè la sua entrata si stimò meglio di
centomila scudi; la quale per quei tempi era infinito, ed anche ai
nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava il padre,
che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre
questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio
Cènci attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi
entrambi nel diverso mestiere. Intorno al conte Francesco, male
sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra alcun uomo mai
corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo
predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto,
lo dicevano avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in conferma
così dell'una come dell'altra fama potevansi addurre
riscontri. Aveva sostenuto parecchi processi, ma n'era uscito
sempre assoluto ex capite innocentiæ: molti però non
si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano sussurrando
dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota Romana
condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se la
vita sua compariva al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe
a provarla senza fine spietata la sua misera famiglia, la quale
per pudore, e molto più per paura, non ardiva profferire
parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si compiacesse
immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla
opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente
graditi; e appena immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad
ogni costo; avesse a spendersi un tesoro, o commettere incendio,
od omicidii. Il suo volere, era il lampo; il fare, tuono.
Costumava (a tanto egli giunse di audacia!) tenere conto
esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro di
Ricordi si trovarono registrate le seguenti partite: - Per le
avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro.
Per la impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono
rubati. - Viaggiava a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo
stanco scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano
venderglielo ei se lo toglieva, dando qualche pugnalata per
giunta. Paura di banditi nol tratteneva da passare soletto le
foreste di san Germano e della Faiola; e spesso ancora, senza
punto posare, fu visto condursi a cavallo da Roma a Napoli. Quando
appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o incendio, o
assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere.
Forte fu della persona, e destro in ogni maniera di esercizii
maneschi, così che provocava sovente i suoi nemici con
soprusi e dileggi: ma di questi, palesi ne aveva pochi; chè
lo temevano assai, e a cimentarsi con lui ci pensavano due volte.
Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di bravi; il
cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di
banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.
Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere
carnefice) di Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i
Colonna, i Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i
più potenti dei nobili romani, dopo averli trattenuti
alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti
balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città,
disse ai circostanti: «O la mia vista, siccome suole per
vecchiezza, è diventata fosca, o di qualche strano
apparecchio vanno ornati stamattina i merli dei palazzi delle
Signorie vostre eccellentissime: andate a riscontrare, e in
cortesia fatemi assapere quello ch'è.»
Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti
signori riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e
tutti, senza misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.
Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo
ottimamente conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno
di tirarsi al largo; e finchè ei visse stette a Rocca
Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda. Il serpe aveva trovato a
mordere la lima.
Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli
anni, pure bene di salute disposto; se non che, offeso nella
diritta gamba, zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio,
avrebbe acquistato fama di oratore egregio se glielo avessero
conceduto i tempi e la lingua, che, ad ogni più leggiera
alterazione inciampandogli fra i denti, lasciava adito alla voce
come acqua rotta fra i sassi. Di laide sembianze non poteva
estimarsi per certo; e non pertanto sinistre così, che
giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo spesso
paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati
in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza
maggiore, e una tinta più gialla e biliosa, il suo volto
presentava la medesima aria della sua giovanezza. La fronte,
mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non profonda
quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì
sfumata, leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta
estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza che declina. Gli
occhi, mesti per ordinario, colore del piombo simili a quelli del
pesce morto, privi affatto di splendore, contornati da cerchi
cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne - pareano
cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le
rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente
bene a un santo e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello
della sfinge, o come la fama dello stesso Conte Cènci.
Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza:
più tardi m'ingegnerò esporre uno studio psicologico
intorno a questo prodigioso personaggio.
Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue
stanze, insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli
profferiva i consueti uffici, aveva risposto:
- Va' via: mi basta Nerone.
Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia. - Così lo
nominò il Cènci, meno in memoria del truce
imperatore, che per significare, nel vetusto linguaggio de'
Sanniti, forte, o gagliardo.
Coricato appena, prese a dare di volta pel letto:
incominciò a gemere d'impazienza: a mano a mano la
impazienza diventò furore, e si pose a ruggire. Nerone gli
rispondeva ruggendo. Indi a breve il Conte, balzando dalle odiate
piume, esclamò:
- Abbiano avvelenato le lenzuola! - Questo si è pur dato
altra volta, ed io l'ho letto in qualche libro. Olimpia! Ah! mi
sei fuggita, ma io ti arriverò: - nessuno ha da scapparmi
di mano - nessuno. - Quale silenzio è questo accanto a me!
Che pace qui in casa mia! Riposano:... - dunque non gli atterrisco
io? - Marzio.
Il cameriere chiamato accorreva prontissimo.
- Marzio, riprese il Conte, la famiglia che fa?
- Dorme.
- Tutti?
- Tutti; almeno sembra, poichè ogni cosa sia tranquilla in
casa.
- E quando io non posso dormire ardiscono riposare in casa mia? -
Va', guarda se veramente dormono; oreglia alle stanze, in ispecie
quella di Virgilio; sprangale pianamente per di fuori, e torna.
Marzio andò.
- Costui, continuava il Conte, sopra gli altri aborrisco; sotto
quella superficie di ghiacciata mansuetudine non iscorrono meno
veloci le acque della ribellione: aspide senza lingua, non
però senza veleno. Quanto mi tarda, che tu muoia! -
Marzio, tornando, confermava:
- Dormono tutti, anche don Virgilio; ma di sonno travagliato, per
quanto può giudicarsi dall'anelito febbrile.
- L'hai sprangata fuori?
Marzio col capo accennò affermativamente.
- Bene; prendi questo archibugio, sparalo traverso l'uscio della
stanza di Virgilio, e poi urla con quanto hai di fiato nella gola:
- al fuoco! al fuoco! - Così insegnerò a costoro
dormire mentre io veglio.
- Eccellenza....
- Che hai?
- Io non le dirò: pietà del ragazzo, che pare
ridotto in extremis....
- Continua....
- Ma la è cosa da mettere sottosopra il vicinato.
Il Conte, senza punto turbarsi, pose chetamente la mano sotto al
capezzale; e, trattane fuori una pistola, la spiana improvviso
contro il cameriere, che tramutò in volto per terrore, e
con voce soave gli disse:
- Marzio, se un'altra volta invece di obbedire attenterai
contradirmi, io ti ammazzerò come un cane: - -va'.
Marzio andò più che di passo ad eseguire il comando.
È impossibile descrivere con quanto terrore fossero destati
le donne e il fanciullo. Balzano da letto, si avventano contro gli
usci; ma non li potendo aprire urlano, pregano si dica loro lo
accaduto, per amore di Dio aprano, dalla tremenda ansietà
gli liberino. Nessuna risposta: spossati tornano a gittarsi sul
letto, travagliandosi per un sonno affannoso.
Dopo forse due ore il Conte chiama di nuovo il cameriere, e lo
interroga:
- Fa giorno?....
- Eccellenza no.
- Perchè non fa giorno?...
Marzio si strinse nelle spalle. Il Conte tentennando il capo,
quasi per irridere se stesso della domanda strana, riprese:
- E quanto tarderà ancora a spuntare l'alba?
- Un'ora. -
- Un'ora! - Ma un'ora è un secolo, è una
eternità per chi non può dormire, o mio... sta a
vedere, che per poco non aggiungeva - Dio. - Dicono il sonno amico
dei santi: se questo fosse, io avrei a dormire quanto i sette
dormienti insieme! Che fare adesso? Ah! spendiamo questo avanzo di
notte in qualche opera meritoria; - educhiamo Nerone. -
E ordinava a Marzio prendesse certo uomo di paglia, e lo portasse
in sala dove mettevano capo le camere delle donne e del fanciullo:
egli poi trasse Nerone in altra stanza, lo aizzò, lo
inasprì, e poi, spalancato allo improvviso l'uscio, lo
avventò contro l'uomo di paglia. Il cane, cieco di rabbia,
si lancia a balzi contro il simulacro, e lo strazia latrando
disperatamente. Il Conte traeva maraviglioso sollazzo a
contemplare le prove di cotesta belva, e a Marzio, che gli si era
accostato, così favellò:
- Questo è il figlio della mia predilezione, come disse la
voce sul Giordano; e lo educo, a Dio piacendo, a difendermi dai
nemici, ed anche dagli amici; in ispecial modo dai miei figli
dilettissimi; dalla consorte più diletta ancora, ed anche
un po' da te - e toccava la spalla al cameriere - mio lealissimo
Marzio.
Così empita di spavento e di terrore la casa tornò
alla stanza, dove la natura, vinta dalla spossatezza, lo costrinse
a breve sonno e interrotto. Quando si alzò era torbido in
vista.
- Ho fatto mal sonno, Marzio.... mi son sognato che stava a
mangiare co' miei defunti. Questo denota morte vicina. Prima
però ch'io vada a mangiare costà, bene altri,
Marzio, bene altri mi avranno preceduto ad apparecchiarmi la
tavola.
- Eccellenza, sono giunte lettere dal Regno per cavallari
apposta....
Il Conte sporse la mano per riceverle. Marzio continuava:
- E di Spagna col corriere ordinario; le ho messe tutte sul banco
dello studio.
- Bene: andiamo....
E sorretto da Marzio, accompagnato da Nerone, si avviava allo
studio.
Sorgeva appena un magnifico sole di agosto, il quale tingeva in
oro co' giovanetti raggi l'azzurro emisfero. Unica gloria,
dacchè la viltà nostra ci ha tolto perfino quello,
che sembrava a perdersi impossibile - il sentimento della nostra
abiezione. Dio! Oh come grandi hanno da essere le nostre colpe e
la tua ira, se nè pianto, nè sangue, nè nulla
vale a fecondare sopra questa terra un fiore di virtù!
Il Conte si appressò al balcone, e, fissato il maestoso
luminare, mormorò detti segreti. Marzio, letiziato a tanta
bellezza di cielo e di luce, non potè trattenersi da
esclamare:
- Sole divino!
A queste parole gli occhi del Conte, per ordinario spenti,
corruscarono a modo di baleno dentro una nuvola, e gli
avventò contro al cielo. Se è vero che Giuliano
l'apostata lanciasse contro il cielo il sangue, che gli scorreva
dalla ferita mortale, deve averlo gittato come quel guardo, e con
quella intenzione.
- Marzio, se il sole fosse una candela, che soffiandovi sopra
potesse spegnersi, la spegneresti tu?
- Io? Le pare, Eccellenza! - lo lascerei acceso.
- Io lo spegnerei.
Caligola aveva desiderato al popolo romano una testa sola, per
recidergliela con un colpo; il Conte Cènci avrebbe voluto
stritolare il sole. Povera creta! Se il sole si accostasse, la
cenere della terra non occuperebbe spazio nell'universo.
Si assise al banco; aprì, e lesse una, due e tre lettere,
pacato in prima, poi precipitosamente; al fine, scorsele tutte,
proruppe con orribile bestemmia:
- Felici tutti! Ah Dio! tu me lo fai proprio per dispetto.
E chiuso il pugno, abbassò il braccio con quanto aveva di
forza: caso volle che colpisse in mezzo alla fronte Nerone, il
quale col muso levato e gli occhi pronti seguitava i moti del suo
signore. Il cane diè un balzo di furore, poi irruppe contro
la porta, ne spalancò le imposte, e fuggì via
sbuffando. Il Conte gli mosse dietro richiamandolo, non senza aver
prima con un suo riso amaro osservato:
- Vedi, Marzio, s'ei fosse stato un figliuolo mi avrebbe morso! -
CAPITOLO II.
IL PARRICIDIO.
........tutta la Caina
Potrai cercare, e non troverai ombra
Degna più di esser messa in gelatina.
Dante.
Marzio invitò il gentiluomo dal volto chiazzato di sangue a
passare nello studio del Conte. Questi attendevalo in piedi; e
tostochè lo vide, con bella leggiadria di maniere lo
salutò dicendo:
- Benvenuto, Principe; in che cosa noi possiamo avvantaggiare le
comodità vostre?
- Conte, ho da parlarvi; ma qui dentro vi è uno di troppo.
- Marzio ritirati.
Marzio, inclinata la persona, usciva. Il Principe, andatogli
dietro, si assicura se avesse chiusa diligentemente la porta; tira
la tenda, e poi si accosta al Conte, che, maravigliando non poco
di coteste cautele, lo invita a sedere, e senza far motto attende
ad ascoltarlo.
- Conte! sarà Catilina adesso, che incomincerà la
sua orazione ex abrupto. Però io vi dico ad un tratto, che
estimando meritamente voi uomo di cuore e di consiglio, di mente e
di braccio, a voi mi rivolgo per l'una e per l'altro, e spero mi
sarete cortese di ambedue.
- Parlate, Principe.
- La svergognata mia genitrice, incominciò costui con voce
velata, vitupera con sozze opere la casa mia ed anche un poco la
vostra, pel vincolo di parentela che passa fra le nostre due
famiglie. La età, invece di spegnere, riarde le sue aride
ossa di libidine infame. Lo usufrutto ampissimo che gode, per
disposizione dello stolido mio padre, sperpera fra turpi drudi: -
per tutta Roma ne corrono le pasquinate: - vedo lo scherno dipinto
sopra i volti della gente: - dovunque passi mi feriscono detti
oltraggiosi.... il mio sangue ribolle nelle vene... il male
è a tal ridotto, che non patisce rimedio, tranne.... Or
via, ditemi, Conte, che cosa io mi debba fare.
- La clarissima donna Costanza di Santa Croce! Ma lo pensate voi?
Orsù; se voi fate per giuoco, io vi consiglio a torre per
lo scherzo argomenti meglio dicevoli; se poi favellate da senno,
allora, figliuolo mio, vi ammonisco a non lasciarvi andare alle
tentazioni del demonio, il quale, come padre di menzogna, conturba
le menti con immagini false....
- Conte, lasciamo il diavolo a casa sua. Io posso mostrarvi qui le
prove manifeste, ed obbrobriose pur troppo.
- Vediamo.
- Udite. Essa mi abbandona, per così dire, annegato nella
miseria, mentre con l'entrate di casa tira su fanti e staffieri, e
uno stormo dei loro figliuoli, che si sono annidati nel palazzo
peggio che rondini; - me dal suo cospetto bandisce; - di me non
vuol sentire favellare; - di me, Conte, intendete, di me che non
mi sarei dato un pensiero al mondo dei fatti suoi, se si fosse
comportata come madre benemerita verso figlio benemerente. E, per
palesarvi ogni cosa di un tratto, ieri sera giunse a cacciarmi via
di casa - dal mio palazzo - dalla magione dei miei illustri
antenati.
- Avanti, ecci egli altro?
- E parvi poco?
- Mi pare anche troppo: e veramente, a confessarvelo in secretis,
corre buon tempo che io mi sono accorto come la Principessa
Costanza nutra per voi, Dio la perdoni, naturale avversione.
Adesso fanno appunto otto giorni ch'ella mi tenne lungo proposito
di voi....
- Sì? - E che cosa mai vi disse cotesta sciagurata di me?
- Metter legna sul fuoco non è da cristiano; però
taccio.
- A quest'ora, Conte, lo incendio acceso dalle vostre parole
è tanto, che poco più vi potete aggiungere; - e
questo comprenderete di leggieri coll'ottimo vostro giudizio.
- Pur troppo! E poi il silenzio mi grava, imperciocchè le
mie parole vi serviranno di governo, e v'impediranno di farvi
capitare male. La signora Costanza dichiarò espressamente,
alla presenza di parecchi insigni prelati e baroni romani, che voi
sareste il vituperio della famiglia; voi ladro, - voi omicida -
voi, soprattutto, bugiardo....
- Ella disse? - E al Santa Croce, diventato per rabbia come tizzo
acceso, tremava la voce.
- E disse ancora, voi scialacquatore sciaguratissimo di ogni
vostra sostanza; voi aver tolto a usura danari dai giudei
sodandoli sul palazzo dei vostri illustri antenati, per cui ella
ha dovuto riscattarlo del suo per fuggire la vergogna di andare ad
albergare altrove; - disse avervi pagato più volte debiti,
e voi commetterne quotidianamente dei nuovi, e più grossi,
e più brutti che mai: voi giuocatore disperato; non darsi
laidezza nella quale non vi siate ingolfato fino alla gola; di Dio
spregiatore, e di ogni umano rispetto... Per ultimo, onde mettere
il colmo alla brutalità vostra, aver preso a imbestialirvi
col vino e con acqua arzente per modo, che spesse volte vi
riportarono su di una scala malconcio della persona.
- Disse?...
- E a tanto essere arrivata la inverecondia della vostra vita, da
non trattenervi la reverenza materna o il rispetto del luogo, di
condurre nel palazzo dei vostri illustri antenati femmine di
partito; con altre più infamie, che a rammentarle soltanto
mi sento salire il rossore sopra la fronte....
- Mia madre?...
- Ed aggiunse ancora, reputarvi di ogni correzione incapace; e,
per quanto al suo materno cuore riuscisse dolorosissimo, essere
ormai decisa di ricorrere a Sua Santità perchè vi
chiudesse in castello... a far visita allo Imperatore Adriano. In
fè di gentiluomo cotesto si chiama starsi in prigione con
ottima compagnia...
- Così ella disse?... Proseguiva a interrogare il Principe
con suono strozzato, mentre il Conte rispondeva con la medesima
voce acre ed irritante:
- O a Civita Castellana... a perpetuità.
- A perpetuità! - Propriamente ella disse a
perpetuità?
- E presto; - e ciò dovere alla memoria onorata
dell'inclito consorte, alla reputazione della prosapia clarissima,
ai nobili parenti, alla sua coscienza, a Dio...
- Egregia madre! Non ho una buona madre io? esclamava il Principe
con voce, che tentava rendere beffarda, quantunque male potesse
celare lo insolito terrore. - E i prelati che cosa rispondevano
eglino?
- Eh! voi sapete il precetto dello Evangelo? L'albero che non fa
buon frutto va reciso... ed essi lo ripetono con tale una voce
amorosa, che pare proprio v'invitino a bere la cioccolata.
- Or dunque, il tempo stringe più che io non credeva.
Conte, suggeritemi voi qualche consiglio... io mi sento povero di
partiti.... sono disperato....
Il Conte, crollando il capo, con voce grave rispose:
- Qui, dove scorre la fontana di tutte grazie, voi potrete
attingerne a secchi pieni. Ricorrete a monsignor Taverna
governatore di Roma, od anche, se avete danari molti e senno poco,
al clarissimo avvocato signor Prospero Farinaccio, che farebbe a
mangiar con l'interesse.
- Ahimè! non ho danari....
- Veramente senza danari vi potreste volgere ai colossi di Monte
Cavallo con maggior profitto....
- E poi la faccenda riuscirebbe contenziosa, ed io ho bisogno di
rimedii che non muovano rumore.... e soprattutto spediti....
- E allora umiliatevi ai piedi beatissimi: - perchè
avvertite bene, che nel corpo del Santo Padre ogni membro è
beatissimo, e però anche i piedi et reliqua del Pontefice:
lo predicano insignis pietatis vir, come Virgilio canta di Enea.
- Domine fallo tristo! Papa Aldobrandino nacque a un parto con la
lupa dell'Alighieri, che dopo il pasto ha più fame di pria.
Vecchio, spigolistro, e testardo peggio di un mulo delle Marche;
cupido di far roba per arricchire i suoi consorti, da provarsi a
scorticare il Colosseo. Anzichè ricorrere a costui mi
getterei nel Tevere a capofitto.
- Sì, cessato il tenue sorriso ironico, riprese a dire
turbato il Conte; sì, ora che penso, voi gettereste il
tempo e i passi. Dopo il solenne fallo di aver dato favore alla
mia ribelle figliuola contro me, sarà diventato più
difficile ad ascoltare i lamenti dei figli contro i genitori.
Chiunque voglia custodire illesa l'autorità, o spirituale o
regia, bisogna che studiosamente conservi la patria
potestà: tutte le autorità derivano da principio
comune, nè puoi offendere l'una, senza che se ne risenta
anche l'altra. Il padre e il re non hanno mai torto; i figli e i
sudditi mai ragione. Donde viene in essi il diritto di lagnarsi,
donde l'audacia di sollevare la fronte? Vivono perchè il
padre li generò, vivono perchè il re gli lascia
vivere. Guardate Ifigenia e Isacco; cotesti sono esempii della
vera subiezione dei figli, come Agamennone, Abramo, Jefet della
purezza della patria potestà. Roma si mantenne gagliarda
finchè il padre ebbe diritto di vita e di morte sopra la
sua famiglia. Quelle leggi delle dodici Tavole furono pure il
benedetto trovato! Per esse, che cosa mai rappresentava la
famiglia? La comunanza della moglie, dei figli e degli schiavi
sottoposta al dominio assoluto del padre. Secoli di oro, e mi
smentisca chi può, volsero per Roma quando poterono
vendersi i figli sanguinolenti.
- Dunque?.. domandò il Santa Croce, sbalordito da cotesto
impensato rabbuffo, lasciandosi cadere come disperato le braccia.
Il Conte Cènci, pentito per non aver potuto reprimere
quello sfogo impetuoso dell'animo suo, si affrettò a
rispondere:
- Oh! ma per voi è diversa la cosa.
Il Santa Croce, confortato da quelle parole, e più dallo
sguardo paterno che gli volse il Conte, accosta la sedia; e,
sporgendo in avanti la testa, gli sussurra dentro le orecchia:
- Aveva sentito dire... e si trattenne; ma il Conte, con maniera
beffarda imitando i modi dei confessori, lo animava:
- Via, figliuolo, dite su!
- Mi avevano supposto che voi, Conte, come uomo discreto e
prudente molto, eravate riuscito sempre... quando taluno
v'infastidiva, torvi cotesto pruno dagli occhi con garbo
maraviglioso. Versato nelle scienze naturali, voi non dovete
ignorare la virtù di certe erbe, le quali mandano al paese
dei morti senza mutare cavalli; e, quello che importa
massimamente, senza lasciar vestigio di carreggiata sopra la
strada maestra.
- Certamente è mirifica la virtù dell'erbe; ma come
vi possano giovare io non comprendo davvero.
- In quanto a questo giova che voi sappiate, come la clarissima
Principessa Costanza costumi prendere seralmente certo lattovaro
per conciliarsi il sonno...
- Bene...
- Voi potete comprendere che tutta la quistione sta in un sonno
breve, o in un sonno lungo; - un dattilo, o uno spondeo; una cosa
da nulla, in verità - semplice prosodìa: - e lo
scellerato si sforzava di ridere.
- Misericordia Domini super nos! Un parricidio, così per
cominciare. Elle sarebbono buone mosse per dio! Sciagurato uomo! e
lo pensate voi? Honora patrem tuum et matrem tuam. E qui non vi ha
cavillo, che valga, imperciocchè abbia detto così
chi lo poteva dire lassù sul Sinai.
Il principe, ostentando fermezza, riprese:
- In quanto a pensarvi andate franco, chè io vi ho pensato
delle volte più di mille: rispetto poi alle prime mosse, io
vo' che sappiate non essere mica questo il primo palio che corro.
- Lo credo senza giuramento: e allora fatevi qua, e ragioniamo di
proposito. L'arte di manipolare i veleni non si trova più
in fiore come una volta: della più parte dei tossici
stupendi, noti ai nostri virtuosissimi padri, noi abbiamo perduto
la scienza. I principi Medici di Firenze si sono molto
lodevolmente affaticati intorno a questo ramo importantissimo
dello scibile umano; ma, se consideriamo la spesa, con poco buon
frutto. Qui, come altrove, corre lo invitatorio del Diavolo: de
malo in peius venite adoremus. Ecci l'acqua tofana; buona a nulla
per un lavoro a garbo: cadono i capelli, si staccano le unghie, i
denti si cariano, la pelle vien via a stracci, e tutta la persona
si empie di luride ulcere - sicchè, come voi vedete, ella
lascia dietro a se tracce troppo manifeste e diuturne.
L'adoperò sovente la buona memoria di Alessandro VI; ma a
lui poco importava si lasciasse dietro le tracce. Per me faccio di
berretta ad Alessandro Magno; col ferro si taglia netto ogni nodo
gordiano, e ad un tratto...
- Ohimè, il ferro! O che non lascia dietro a se traccia il
ferro?
- Una volta ci era un re, e si chiamava Eduardo II, il quale
avendo di se, o di altri un figliuolo, amoroso a un dipresso come
voi, ebbe le viscere forate ed arse per suo comandamento, senza
che ne rimanesse vestigio. Curioso trovato in fè di Dio!()
Ma chi vi consiglia di tenere nascosta la morte di donna Costanza?
Anzi la dovete palesare, e voi dirvene apertamente autore.
- Conte, voi burlate....
- Non burlo io; anzi parlo del miglior senno che io mi abbia. Non
avete voi mai letto le storie, almeno le romane? - Sì, le
avete lette. Or bene; e a che pro leggete libri, se non ne fate
vostro vantaggio per ben condurvi nel mondo? Rammentatevi la
minaccia di Tarquinio a Lucrezia: egli, dove non gli assentisse la
moglie di Collatino, le dichiarò l'avrebbe uccisa, e poi
messo al fianco uno schiavo trucidato, pubblicando averla sorpresa
nel turpe adulterio, e morta per giusto dolore della offesa fatta
al parente, per vendetta della sacra maestà delle leggi;
con altre più parole assai, che si costumano dagli uomini
sinceri. Così voi, nè più nè meno, vi
avete a ingegnare di cogliere in fallo la Principessa con qualche
suo drudo, e ammazzateli entrambi. La gravità della
ingiuria scusa la strage: nel Codice (non mi rammento la pagina,
ma cercate e troverete) hanno ad essere leggi, che scolpano in
questo caso il misfatto...
- Ma io, rispose il Principe visibilmente imbarazzato, non so bene
s'ella si rechi in camera i suoi drudi.
- O dove volete, ch'ella li conduca?
- E poi, coglierli per l'appunto su l'atto reputo impossibile.
- O come mai! Le volpi si prendono sempre alla tagliola.
- No... a cotesto rischio di far le cose alla scoperta non voglio,
anche potendo, avventurarmi io...
- Dite piuttosto, interruppe il Conte con maligno sorriso, dite
piuttosto che i drudi di femmina sessagenaria voi gli avete nella
immaginativa vostra pescati pel bisogno di trovare in altri le
colpe, che scusino le vostre; dite, che la cagione che vi muove
sta nel desiderio, che l'usufrutto di vostra madre cessi;
nè in questo so darvi torto, imperciocchè conosca
come i padri eterni facciano i figli crocifissi se non co' chiodi,
almeno coi debiti; - il torto, che io vi do, è aver voluto
prendervi beffe di un povero vecchio - e giucare meco dello
astuto...
- Signor Conte, in verità io vi giuro...
- Silenzio co' giuramenti; io credo, o non credo; e i giuramenti
mi danno aria di puntelli alle fabbriche, segno certo che le
minacciano rovina: però a voi senza giuramenti non credo, e
co' giuramenti anche meno.
- Deh! via non mi abbandonate. - E questo disse costui tanto
avvilito, che parendo al Cènci avere ormai scosso a
sazietà cotesto sacco di farina ria, e volendo dar fine al
conversare, irridendo rispose:
O dignitosa coscïenza e netta,
Come ti è picciol fallo amaro morso!
Andiamo, riprendete animo: Minor vergogna, maggior colpa lava.
Però, a confessarvi il vero, non posso darvi consiglio che
valga. - Ricordo aver letto come in altri tempi, in certo caso
affatto simile al vostro, fosse veduto adoperare con ottimo
successo questo argomento. Notte tempo appoggiarono al muro del
palazzo una scala, che arrivava per l'appunto alle finestre della
camera da letto della persona, o delle persone che si volevano
ammazzare: s'involarono poi e si distrussero diligentemente alcuni
arnesi di oro, e di argento, o altre masserizie minute per
colorire la cosa, e dare ad intendere, che l'omicidio fosse
commesso in grazia del furto: finalmente si lasciò la
finestra aperta fingendo, che quinci i ladri avessero preso la
fuga. In tal guisa si allontanarono i sospetti dalla persona a cui
cotesta morte tornò utile; e lo erede ebbe fama di pio,
ordinando funerali magnifici e copia di messe. Tuttavolta egli non
si rimase qui, e volle acquistarsi eziandio nome di rigido
vendicatore del suo sangue: e allora assediò la giustizia
onde si facessero ricerche sottilissime; non rifinì mai di
lagnarsi della oscitanza della Corte, e giunse perfino a
promettere una taglia di ventimila ducati al denunziatore secreto,
o palese del colpevole. - Così i nostri virtuosi padri
ebbero in sorte di godersi in tempo utile il bene dei morti in
santissima pace.
- Ah!, dandosi del palmo della mano su la fronte, esclamò
il Santa Croce, voi siete pure il degno valentuomo, signor Conte!
Io mi vi professo schiavo a catena. Questo appunto è il
partito che mi sta proprio a taglio. Ma qui non è tutto;
voi porreste il colmo alla beneficenza vostra e all'obbligo mio,
se vi degnaste chiamare da Rocca Petrella qualcheduna di quelle
brave persone, che incaricate di simili lavori...
- Di che lavori, - di che persone andate farneticando voi? La
matassa è vostra; a voi sta trovare il bandolo per
dipanarla; badate che il filo non vi tagli le dita. Noi non ci
siamo visti, e non ci dobbiamo più rivedere. Da qui innanzi
io me ne lavo le mani come Pilato. Addio, don Paolo. Quello che
posso fare per voi, e farò, sarà pregare il cielo
nelle mie orazioni ond'egli vi assista.
Il Conte si alzò per accomiatare il Principe; e mentre con
modi cortesi lo accompagnava alla porta, andava ruminando fra se
questi pensieri: - e poi vi ha taluno che sostiene, che io non
avvantaggio il prossimo! Calunniatori! Maldicenti! Più di
quello che mi faccia io è impossibile. Contiamo un po'
quanti stanno adesso per guadagnare in grazia mia. Il becchino in
primis; poi vengono i sacerdoti, che sono il mio amore; succedono
i poeti per la elegia, e i predicatori per l'orazione funebre;
seguita mastro Alessandro il giustiziere, e finalmente il diavolo,
se diavolo vi ha. - Frattanto arrivati alla porta il Conte aperse
l'uscio, e, licenziando il Principe col solito garbo pieno di
urbanità, aggiunse con voce paterna.
- Andate, don Paolo, e Dio vi tenga nella sua santissima guardia.
Il Curato, udendo coteste parole, mormorò sommesso:
- Che degno gentiluomo! Si vede proprio che gli partono dal cuore.
CAPITOLO III
Il Ratto
Ma tutto è indarno: chè fermata e certa
Piuttosto era a morir, ch'a satisfarli.
Poichè ogni priego, ogni lusinga esperta
Ebbe e minacce, e non potean giovarli,
Si ridusse alla forza a faccia aperta.
Ariosto, Orlando Furioso.
Il Conte, dato uno sguardo nell'anticamera, accennando all'altro
gentiluomo favellò:
- Signor Duca, favorite...
Il giovane dal pallido sembiante entrò nella stanza a guisa
di smemorato: alla cortese proposta di sedersi o non intese, o non
volle tenere lo invito. Solo, come se lo avesse colto la
vertigine, con una mano si appoggiò al banco, e dalla parte
più lontana del petto disciolse un sospiro lunghissimo.
- Che sospiri, quali affanni sono eglino questi? domandò il
Conte con voce lusinghiera. - O come mai, alla età vostra,
può avanzarvi tempo per farvi infelice?
E il Duca, con un suono che parve lene sussurre di acque, rispose:
- Io amo.
E il Conte, per dargli spirito, giocondamente soggiunse:
- È la vostra stagione, figliuolo mio; e fate ottimamente
ad amare con tutta l'anima, ed anche con tutto il corpo: e se non
amate voi, giovane e bello, o chi dovrebbe amare? Forse io?
Vedete, gli anni mi piovono neve sopra i capelli, e mi stringono
il cuore di ghiaccio. A voi parlano di amore e cielo e terra; a
voi da tutta la Natura sorge una voce, che vi consiglia ad amare:
Le acque parlan d'amore, e l'ôra, e i rami,
E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l'erba
Tutti insieme pregando ch'io sempre ami;
cantava quel dolcissimo labbro di messer Francesco Petrarca. Su,
via, giovanetto, ella è cosa da vergognarsi questa?
Predicatela dai pulpiti, banditela di sopra i tetti; chè
buona novella è amore. Non si vergognava già
confessare il Petrarca, che pure fu uomo grave e canonico, come
amore lo avesse tenuto anni ventuno ardendo per madonna Laura
mentre era in vita, e più dieci dopo che la si volava al
cielo(). Misericordia! Amori erano quelli da disgradarne le
querce. Nè per avere insegnato l'amore suo in mille rime si
chiamava sazio, chè sul declinare degli anni
desiderò averle fatte dal sospirar suo prima:
In numero più spesse, in stil più rare().
A santa Teresa, vedete, fu perdonato molto perchè aveva
molto amato; e vi ha chi dice anche troppo. La stessa santa
chiamava infelicissimo il diavolo; e sapete perchè?
perchè non poteva amare. Amate dunque totis viribus;
chè altramente operando offendereste la Natura, la quale
è, come sapete, figliuola primogenita di Dio.
Il giovanetto, turandosi il volto con ambe le mani, e tratto un
altro lungo sospiro, esclamò:
- Ah! disperato è l'amor mio...
- Non dite questo, che senza speranza non sono neppure le porte
dello inferno. Ragioniamo. Vi sareste per avventura invaghito
della donna altrui? Avvertite, che allora incontreremmo uno
inciampo; anzi due; il marito prima, e poi il Decalogo. E' pare
che quando Dio promulgò la sua legge sul Sinai, si sentisse
forte corrucciato contro la sua figliuola Natura; però che,
a dirla fra noi, nè più nè peggio potevano
contrariarsi gli appetiti di lei. Non pertanto confortatevi di
questo: che quanto il Decalogo proibisce il cuore permette.
- Oh! no, signor Conte, il mio è diritto amore.
- E allora sposatela in facie Ecclesiæ, per filo e per
segno, secondo il sacrosanctum Concilium Tridentinum, e non mi
venite...
- Dio sa se io lo farei; ma, ahimè! un tanto bene mi
è tolto.
- E allora non la sposate.
- La donna, che amo, trasse troppo più che io non vorrei
umilissimi i natali; ma se si consideri il portento delle forme
leggiadre, o piuttosto l'altezza dell'animo, ella è in
tutto meritevole d'impero...
- Alma real degnissima d'impero, lo ha detto anche messer
Francesco Petrarca; e se così è, e voi sposatela.
- Freddo cenere ed ombra, durerà in me questo amore
eternamente.
- Di quanto tempo comporrete voi questa eternità? Nelle
donne, secondo i computi più accurati, la eternità
di amore dura una settimana intera: in alcune, ma rare, si
prolunga anche un poco al secondo lunedì, e basta.
Il giovane, tanto era sprofondato in cotesto suo amore, che
accorgendosi allora del modo beffardo col quale gli favellava don
Francesco, diventato in volto vermiglio per vergogna e per
dispetto, rispose:
- Signore, voi mi fate torto; sperava trovar consiglio; - mi sono
ingannato - scusate; - e fece atto di andarsene. Ma il Conte
ritenendolo, dolcemente favellò:
- Piacciavi rimanere, Duca; io vi ho parlato così per
provarvi: ora troppo bene mi accorgo, che vi accende passione
veemente davvero, e per avventura fatale. Versate il vostro animo
nel mio; saprò compassionarvi, e, potendo, ancora
sovvenirvi. Io ho sepolto i miei amori; sessanta e più anni
gli associarono alla fossa, e cantarono loro il miserere: per me
amore è memoria, per voi speranza; per me cenere, per voi
rosa che sboccia; ma non pertanto ravviso nel mio cuore i segni
della fiamma antica, e ragionando meco, bene potete ripetere i
versi del Petrarca:
Ove sia chi per prova intenda amore,
Spero trovar pietà, non che perdono:
Non ignara mali miseris succurrere disco; come disse Didone ad
Enea, venuto da Troia a fondare Roma per la maggior gloria dei
papi in generale, e di Clemente VIII in particolare.
Il Conte Cènci, malgrado la protesta, dileggiava; ma
sarebbe stato difficile indovinare s'ei favellasse da senno o da
burla, imperciocchè apparisse composto a gravità:
solo stringeva gli occhi, e la pelle reticolata gli si aggrinzava
dintorno come una nassa da pescare: le palpebre lungamente
tremolavano: egli rideva con le pupille il riso della vipera.
- La fanciulla, che io amo, dimora in casa Falconieri. Quale per
lo appunto sia il suo lignaggio io non saprei; ma comecchè
la tengano in parte di congiunta dilettissima, pure appartiene a
condizione servile. - Ahimè! Quando prima la vidi al
Gesù, ornata di onestà e di leggiadria, io ne persi
il sonno: ogni altra donna mi parve sozza e vile.
- Deh! parlate basso, Duca; guai a voi se le nostre superbe dame
romane vi ascoltassero. Farebbero di voi una seconda edizione di
Orfeo messo in pezzi dalle Baccanti, con note e appendici.
- Reputandolo facile amore, continuava il giovane infervorato, (e
Dio sa se me ne prende rimorso) non trascurai veruno dei partiti
che soglionsi usare per venire a capo degli amorosi desiderii. Me
misero! Che queste male pratiche le devono di certo avere persuaso
fastidio, e forse aborrimento di me. - Ella, chi sa, adesso mi
odia; - e si fermava per timore di singhiozzare; poi con voce
sommessa proseguiva: come mai devono aver suonato le vituperose
proposte all'orecchio della castissima donzella?
E il Conte, riguardandolo attonito, pensava: più nuovo
pesce di costui non vidi al mondo.
- I Falconieri, proseguiva il Duca, mi hanno fatto ammonire che io
smetta dalla usanza di passare sotto il palazzo, però che
la fanciulla non sia tale che io la debba condurre in moglie,
nè quale ella possa consentire a diventarmi amica.
- E voi allora?
- Io scelsi il partito di chiederla in isposa...
- Non ci è rimedio: io avrei fatto come voi.
- Il mio parentado, appena venne avvertito del mio proponimento
infuriò contro me, quasi fossi per commettere qualche gran
sacrilegio; e chi mi chiamò a considerare la ingiuria del
sangue, e chi la nobiltà della casa offuscata; taluno lo
sdegno dei congiunti, tale altro la rabbia dei colleghi;
sicchè con mille diavolerie mi hanno sconvolto il cervello
in modo, che poco mancò che io non mi sia dato per perduto.
- Eh! la è faccenda seria; ed io avrei detto come loro....
- Ma quando Adamo zappava ed Eva filava dov'erano i
gentiluomini?()
- Veramente; dov'erano? Io per me non lo so.
- Io vorrei che mi chiarissero in che cosa, noi gentiluomini,
differiamo dai popolani. Forse noi non bagna la pioggia, o non
riscalda il sole? Forse non ci toccano i dolori; la nostra culla
non è circondata di pianto; il nostro letto di morte non
è assediato dai singulti? Possiamo dire alla morte, come al
creditore importuno, tornate domani? Dormiamo meglio l'ultimo
sonno dentro un sepolcro di marmo, che il popolo sotto la terra?
Io vorrei che mi chiarissero un po' se i vermi, prima di
accostarsi a rodere il cadavere di un papa o di un imperatore, gli
fanno di berretta dicendogli: si contenta, santità? si
contenta, maestà? Il mio ducato semina, e raccoglie
contentezze? Amore non toglie via ogni differenza fra gli amanti?
- Cosi è: Ogni disuguaglianza amor fa pari, dice il poeta.
Qualche cosa di simile cantò con la solita eleganza il
signor Torquato Tasso, nella sua favola boschereccia:
ricordatevene Duca?
- Oh Dio! e che cosa volete che io mi ricordi? Io non ho
più memoria, nè mente, nè nulla. Per
pietà, umanissimo. Conte, voi che avete senno ed esperienza
di mondo, siatemi cortese a indicare un rimedio a tanta molestia!
- Mio caro, riprese il Conte ponendo la mano familiarmente sopra
la spalla del Duca, porgetemi ascolto. Voi avete ragione...
- Sì?...
- E i vostri parenti non hanno torto. Voi avete ragione,
però che fumo di nobiltà non valga fumo di pipa(). I
vostri parenti non hanno torto perchè essi vedranno, come
io vedo, qui dentro l'artifizio di femmina, per disposizione
naturale o per suggestione altrui, sparvierata. Non vi stizzite,
Duca voi veniste a consultare l'oracolo, e i responsi si hanno ad
ascoltare quantunque non garbino. Quella che sembra a voi ingenua
ritrosia, a me pare repulsa studiata sul fondamento, che gli
ostacoli irritano le passioni. Poichè le cose vietate tanto
più si appetiscono, così conta per avventura la
donna sopra l'ardore dell'animo vostro, onde precipitarvi
colà dove ella vi aspetta. Insomma, qui apparisce la rete
tesa per trarre guadagno dalla fiamma che vi accende. Umana cosa
è amare; lasciarne vincere dai ciechi moti dell'animo
appartiene ai bruti. Quando io era giovane, ed attendeva a
siffatte novelle, non si badava così al minuto. Un
gentiluomo come voi, quando lo prendeva capriccio di qualche
bellezza plebea, la persuadeva con danari ai suoi piaceri. Se
repugnava, e questo so dirvi che accadeva di rado, almeno ai tempi
miei, rapivala. Se il parentado latrava gli si gettava un pugno di
moneta in gola, e taceva; imperciocchè il volgo abbai, come
Cerbero, per avere l'offa. Quando la donna diventava fastidiosa, e
questo avveniva spesso, con alquanto di dote si allogava;
nè di partiti si pativa penuria, sì perchè
coteste creature compiacendo alle voglie di un gentiluomo non
saprei vedere in che cosa disgradino, e sì perchè
bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come fa la
luna....
Il Duca fece un gesto di orrore. Il Conte, imperturbato, sempre
più insisteva:
- No, figliuolo mio, non disprezzate il consiglio dei vecchi: io
delle cose del mondo ne ho viste assai più di voi, e so
come le vanno ordinariamente a finire. Badatemi, in grazia: io vi
propongo un partito di oro. Voi vi mettete, per così dire,
a cavallo al fosso. In primis voi riducete in potestà
vostra la ragazza; e qui sta il tutto, o almeno la massima parte,
e voi avete a convenirne; e poi, caso che la vi riuscisse o
Clelia, o Virginia, o la Pantasilea, e allora sposatevela in santa
pace, e buona notte, e buona guardia. Se potete schivare cotesto
scoglio del matrimonio, fatelo per quanto le forze vi bastino;
avvegnachè, sacramento a parte, il matrimonio sia proprio
la fossa dello amore; l'acqua benedetta lo spenge: quel sì
che egli pronunzia, ed è come il vagito dello imeneo,
è anche a un punto l'ultimo sospiro dello amore in agonia:
il matrimonio nasce dallo amore come l'aceto dal vino();
oltrechè fuggirete la indignazione dei parenti, e le
dicerie del mondo, che non è poco guadagno. Voi mi direte
che e' sono morsi di zanzare, ed io ve la do vinta; ma quando le
zanzare si avventano a migliaia vi conciano il viso, che Dio ve lo
dica per me; e non possiamo trarre guai delle ferite ridicole e
non pertanto moleste: i quali tutti fastidii un uomo discreto
cercherà sempre, potendo, evitare.
- No, Conte, no; io vorrei darmi piuttosto di un coltello nel
cuore...
- Adagio ai ma' passi; a gittarci via siamo sempre in tempo. Prima
di prendere il male per medicina, considerate prudentemente il
negozio. Voi vedete come la mia proposta vi presenti due casi, e
al tempo stesso due modi di risolverli. Voi, con quel sano
giudizio che vi trovate, governatevi a seconda delle circostanze.
- Ma e se la fanciulla mi prendesse in odio?..
- Vi rammentate l'asta di Achille? Ella sanava le ferite che
faceva: così amore sana la piaga di amore; e la bellezza ha
la manica larga per assolvere i peccati, che per virtù sua
si commettono. Perdonerà, non vi affannate,
perdonerà; o che ha da cominciare adesso il mondo a
procedere per ritroso? Non vogliate cascare sul vergone come
uccello di passo. Le donne, più che non credete, sovente vi
mostrano il viso dell'uomo d'arme per provare il valore dello
amante. A Sparta se il marito volea trovarsi con la moglie l'aveva
a rapire; nè ho rinvenuto storici che raccontino, che le
mogli se lo avessero a male. Ersilia forse non amò Romolo?
Dobbiamo spaventarci di un ratto noi altri romani, che nasciamo
dalle rapite Sabine?
Confuso il giovane, e aggirato da cotesti ragionamenti, si
trovò come strascinato giù per un terreno
sdrucciolevole. La cupidità cammina sempre con le tasche
piene di cotone, per cacciarlo nelle orecchie alla coscienza onde
non senta i suoi spasimi. Nel delirio della passione, il giovane,
senza pure pensarvi, rispose:
- E come avrei a fare io? Io non sono uomo da questo. Da qual
parte incominciare? Dove trovare uomini i quali volessero mettersi
per me a cotesto sbaraglio?
Il Conte pensò, che il dabben giovane senz'altri conforti
si sarebbe rimasto in mezzo alla via; e poi gli venne adesso alla
mente cosa, che non aveva avvertito avanti; onde si
affrettò di soggiungere:
- E gli amici che stanno a fare nel mondo? In questo bisogno posso
molto bene accomodarvi io. se non m'ingannava la vista.
Così favellando si accosta alla porta della sala, e,
apertala, chiamò:
- Olimpio!
Il villano, come bracco che all'appello del cacciatore leva il
muso, drizzatosi in piedi, rispose con disonesta
famigliarità:
- Ah! vi siete accorto finalmente che ci sono in esto mondo,
Eccellenza; - e brontolando soggiunse sommesso: - senza fallo vuol
mandare qualcheduno in paradiso.
- Vien qua.
E Olimpio andò. Quando fu entrato nella stanza, per quella
soggezione che anche i più impudenti plebei risentono dalla
vista di arnesi e di stanze signorili, si trasse il cappello, e
giù per le spalle gli cadde copia di chiome nere le quali,
mescolandosi co' peli della barba, gli davano sembianza di un
fiume coronato di canne, come sogliono effigiarlo gli scultori.
Volto duro come intagliato in pietra serena: occhi sanguigni
infossati sotto sopracciglia irsute, più che ad altro
somiglianti a lupi dentro la lana; voce cupa e arrotata.
- Siamo sempre vivi, nè gli domandò il Conte
sorridendo.
- Eh! proprio per miracolo di san Niccola. Dopo l'ultimo
ammazzamento, che commisi per vostra Eccellenza...
- Che vai tu farneticando, Olimpio? Che ammazzamenti, o non
ammazzamenti ti sogni?
- Trasecolo io? Per Cristo santissimo! di conto, ordine e
commissione vostra; - e battendo con la larga mano il banco.
aggiungeva: qui mi contaste i trecento ducati di oro, che non
furono troppi; - ma tanto è; io me ne contentai, e non ci
è a ridire sopra. Se presi poco, mio danno. Qui...
E siccome il Conte con le mani e con gli occhi ammiccava, che si
rimanesse da mettere più parole intorno a cotesto
fastidioso argomento,
- Oh! allora egli è un altro paro di maniche,
proseguì imperturbabilmente costui; potevate avvertirmi a
tempo. Io credeva che stessimo in famiglia, don Francesco;
scusate. Per tornare ai miei montoni, il Bargello mi si era
fasciato intorno alla vita più stretto della mia cintura;
la corda ha rasentato più volte il mio collo, che la mia
bocca la foglietta: vedete, tutti gli alberi mi parevano cresciuti
in forma di forca. Adesso, in questo arnese, io quasi non ravviso
più me stesso; epperò mi sono avventurato a
ritornare, perchè l'ozio, vedete, egli è
propriamente padre de' vizii: ed io, non avendo a fare più
nulla, mi era perfino ridotto a lavorare. Se in questo mezzo tempo
a qualche vostro nemico fosse cresciuta qualche gola di
più, che non vi piaccia ch'egli abbia, siamo qua agli
ordini di vostra Eccellenza.
E con la destra fece un atto orizzontale al collo.
- Tu arrivi, si può dire, come le nespole in ottobre; e
vedrò così adoperarti a trarre un fuscello,
dacchè travi per mano a quest'ora non ne abbiamo; - ma, te
lo ripeto, egli è quasi un nonnulla, una eleganza del tuo
mestiero, - tanto per rimetterti in filo.
- Udiamo, via. - E il masnadiero usando della terribile
domestichezza che il delitto suol porre fra i complici, si mise a
sedere. La gamba destra accavallò alla sinistra, e il
braccio sinistro puntò sul ginocchio alzato; sopra la mano
aperta appoggia la faccia, e quivi, con gli occhi chiusi, il
labbro inferiore sporgente in fuori, parve atteggiato a profondo
raccoglimento.
- Questo giovane gentiluomo, ch'è il clarissimo signor Duca
di Altemps..., incominciò a favellare don Francesco,
- Bè! - E senza schiudere gli occhi, appena fece il
masnadiero un lievissimo cenno col capo.
- Ha concepito un furioso amore per certa fanciulla...
- Delle nostre, o delle vostre?
- E che so io? Una camerista...
- Nè nostra, nè vostra; notò Olimpio, alzando
le spalle in atto di disprezzo.
- Ricercata di amore, si avvisa a starsi sul sodo. La proteggono i
Falconieri, che se stessero a patrimonio come a superbia, a noi
converrebbe far la sementa in mare. Ella ripara in casa loro, e
questo le cresce baldanza; forse, e senza forse, vi sarà di
mezzo qualche lussuria di prelato, la quale non ho voglia,
nè tempo verificare adesso: comunque sia, ciò fa
impaccio al signor Duca...
- Chi mi chiama?.. interrogò il Duca riscuotendosi a un
tratto.
- Povero giovane, ve' come lo ha concio la passione! Giuoco, che
voi non avete inteso parola di quanto abbiamo favellato fin qui
Olimpio ed io?
Il Duca abbassava la faccia, e arrossiva.
- Per concludere, Olimpio, bisogna che tu la levi, e la porti
colà ove ti verrà indicato.
- Comandate altro, Eccellenza?...
- Per ora no. Tu farai d'introdurti nel palazzo; e, non potendo
altramente, scasserai qualche porta, o ferrata terrena. Se anche
questo non ti riuscisse, ti aiuterai con una scala di corda...
- Azzittatevi; voi portate la febbre a Terracina. Il calzolaio,
salvo vostro onore, non ha a passare la scarpa. Queste cose io so
bene da me, con qualcheduna altra ancora che non sapete voi.
Lasciatemi contare... Uno... due... tre... mi vi abbisognano
quattro compagni.
- E tu li troverai...
- Bisognerà procurarci pistole e cavalli. - Quanto avete
disegnato spendere intorno a questa impresa?
- Ma! - Non ti parrebbe abbastanza un cinquecento ducati?
- No, signore, non bastano. Fatta la parte ai compagni, levate le
spese dei cavalli e delle armi, mi riviene una miseria.
- Orsù; non ci abbiamo a guastare fra noi. Vadano ottocento
ducati, oltre le grazie e i favori grandi, che puoi sperare da
me...
- Farò ammannire le carra per portarmeli a casa. Fatta la
festa si leva l'alloro. Don Francesco, diamo un taglio a queste
novelle; aspettate a pascermi di rugiada quando vi apparirò
davanti in sembianza di cicala. - Dove ho da portare la ragazza?
- Nel palazzo del signor Duca, o in qualcheduna delle sue vigne,
che t'indicherà...
- Ecco un granciporro, Eccellenza. Se la Corte prende fiato della
cosa, i primi luoghi che verrà a perquisire saranno le
dimore del signor Duca. Procurate dunque prendere a fitto, o farvi
imprestare da persona segreta qualche vigna remota in
città; ma meglio sarà torla a fitto, impiegandovi
persona che non sia punto dei vostri...
Il Conte aveva guardato in faccia Olimpio, e sorriso in modo
strano, quasi schernendolo di non essere stato compreso: poi erasi
accomodato al banco, e posto a scrivere. Il masnadiero mosse al
giovane Duca alcune interrogazioni brevi ed aspre. Questi
rispondevagli a modo di smemorato: sentivasi travolto come foglia
dal turbine: era caduto sotto la potenza del fascino, che alcuni
serpenti pur troppo gittano sopra gli animali vicini: voleva
protestare, si provava a fuggire, e non poteva. Quando gli
sembrava esser prossimo a rompere lo incantesimo con lo aiuto di
Dio, ecco affacciarglisi al pensiero la immagine dell'amata donna,
ch'ebbra anch'essa di amore gli gittava le braccia al collo...
Allora un diluvio di fuoco gli scorreva le vene; le arterie gli
battevano così, che per poco non gli si spezzavano; e se il
ratto fosse avvenuto subito, non gli sarebbe parso presto
abbastanza. La gioventù, il desiderio e la speranza
ordiscono tale una catena, dentro la quale l'anima onesta e
appassionata spesso si dibatte, ma di rado la spezza; se poi vi si
aggiungano eccitamenti, non è cosa umana potere resistere.
Il cattivo genio aveva vinto, e il buono si allontanava
cuoprendosi il volto con le ali. Il Conte, quantunque attendesse a
scrivere, pure sentiva la vittoria del vizio su la virtù
dello ingenuo giovane; sicchè soffermatosi ad un tratto,
domandò sbadatamente:
- A quando la impresa?
- Facendo i miei conti, ormai vedo che fino a domani notte non ci
posso entrare, - rispose Olimpio.
- Domani notte, eh! Ma tu non sai, che l'orologio a polvere, col
quale la passione misura il tempo dello aspettare, è la sua
fiaccola, di cui gitta le gocciole accese sul cuore del povero
amante? Tu invecchi. Olimpio, nè sei più quel desso.
Prima potevano stamparti sul viso: cito ac fidelis, ch'è la
impresa delle Decisioni della sacra Ruota Romana, la quale impresa
però non impedisce che le liti non durino quanto lo assedio
di Troia, e sieno traditrici da disgradarne Sinone. Dunque dopo il
trotto contentiamoci del passo: a domani. Brevi istanti appresso,
piegando il volto verso il Duca, domandava di nuovo:
- Quantunque per natura io rifugga da ogni maniera di indiscreta
curiosità, pure non posso resistere alla voglia di
conoscere il nome della vostra innamorata. Vorreste essermi
cortese di compiacermi, signor Duca?
- Lucrezia...
- Oh! Lucrezia. È par fatale, che queste Lucrezie abbiano a
mandar sempre sottosopra i nostri cervelli romani. Questa volta
però non farà cacciare i re da Roma: vi stanno i
papi, e con bene altre radici, che Dio li prosperi, e con bene
altre virtù, che non erano quelle di Tarquinio; e Rodrigo
Lenzuoli basti per tutti. - La Italia può fare a meno
piuttosto del sole, che del Papa; senza quelle benedizioni urbi et
orbi non crescerebbero i baccelli. - E riprendendo a scrivere,
quasi per eccesso di brio mormorava: - Crezia, Creziuccia,
Crezina, - ardo per voi la sera e la mattina... - Terminato lo
scritto, si levò in piedi dicendo:
- Olimpio, io mi figuro che tu abbia a recitare i tuoi rosarii;
sicchè sarà bene che tu te ne vada. Avverti che non
ti veggano uscire di casa mia; perocchè, quantunque tu sii
meglio del pane, e onesto a prova di maglio, tu capisci bene che
si possono avere amicizie migliori delle tue. - Marzio!
E Marzio comparve.
- Marzio, accompagna questo evangelista, per le scale di ritirata,
all'uscio del giardino che sta sul chiasso. Addio; mi raccomando
alle tue sante orazioni.
*
* *
- Come va, compare? - mentre Olimpio andava, così, battendo
sopra la spalla di Marzio, lo interrogò.
- Come piace a Dio, - rispose Marzio un po' duramente. E l'altro:
- Oe, che non mi ravvisate, Marzio?
- Io no...
- Guardatemi meglio, e vedrete che parrà a voi quello che
pare a me.
- E che par egli a voi?
- Pare che noi saremmo un magnifico paio di gioie attaccati alle
orecchie di donna forca.
- Olimpio, siete voi?
- Lo spirito della forca ci fa come lo aceto nel naso; rischiara
lo intelletto, e richiama la memoria...
*
* *
- Conte, prese a dire il giovane Duca esitando; io temo mostrarmi
ingrato al consiglio ed aiuto vostri... e non pertanto sento non
vi poter ringraziare. Dio... (ma io faccio male a invocare il suo
santo nome in questa trista faccenda, - sarebbe meglio ch'ei non
ne sapesse nulla). La fortuna dunque operi, che non vada a finire
in pianto.
- E la fortuna è per voi; perocchè, come femmina,
ella ama i giovani, e gli audaci. Se Cesare non passava il
Rubicone, sarebbe diventato Dittatore di Roma?
- Sì; ma neppure gl'idi di marzo lo avrebbero veduto
trucidato sotto la statua di Pompeo.
- Ogni uomo porta, nascendo, l'ascendente della sua stella. Avanti
dunque. Voi non potete fallire, che vi sovviene copia di autori
volgari, greci e latini. D'altronde perchè repugnate
commettervi alla fortuna? Ella governa il mondo. Vedete Silla, che
più di ogni altro seppe accomodare le differenze con la
scure, le dedicò il bel tempio di Preneste.
E così confortando accomiatava il male arrivato giovane, il
quale uscendo andava a balzelloni; tanto scompiglio gli avevano
messo nella mente le parole del Conte, e le cose alle quali egli
aveva assistito. Sentiva il male, presagiva peggio; ma ormai
spinto sul pendio del misfatto, non sapeva ritrarsene. La
passione, il boa feroce dell'anima, lo stringeva sempre più
veemente, e soffocava in lui l'ultimo alito di virtù.
Il Conte, appena partito il Duca, recatosi in mano il foglio
vergato poc'anzi leggeva, soffermandosi di tratto in tratto per
ridere clamorosamente:
«Reverendissimo, et illustrissimo Monsignore. - La maggiore
empietà, che abbia mai inquinato questa sede augustissima
et felicissima della vera nostra religione, sta per succedere. Il
duca Serafino D'Altemps, per compiacere a sfrenatissime voglie,
trama rapire domani notte, armata mano, dal palazzo dei Falconieri
la onesta fanciulla Lucrezia, camerista in casa dei prelodati
clarissimi signori. Accompagnano il Duca, complici del delitto,
tre o quattro dei più solenni banditi capitanati dal famoso
Olimpio, cercato da due anni dalla Corte per ladronecci e
assassinamenti, con la taglia di trecento ducati di oro. State su
l'avvisato, che si tratta di gente usa a mettersi ad ogni
sbaraglio, e il pericolo aumenta la fierezza. - Di tanto vi avvisa
un osservatore del buon governo, e zelante dell'ordine, e della
esaltazione di santa Madre Chiesa. Roma li 6 agosto 1598.»
- Va bene: la scrittura non può conoscersi per mia: questa
fra un'ora sarà nelle pietose mani di monsignor Taverna. -
La piegò, e la suggellò improntandovi sopra una
croce, e scrivendovi: A Monsignore Ferdinando Taverna governatore
di Roma.
- A tutto signore tutto onore: egli è Duca, e va proprio
trattato da pari suo. A cotesta perla del Principe Paolo penseremo
più tardi. E poi ci liberiamo da Olimpio, se pure non
giunge anche per questa volta a scamparla. La rete è tesa
nelle regole dell'arte; ma
Rade volte addivien, che alle alte imprese
Fortuna ingiuriosa non contrasti.
CAPITOLO IV
LA TENTAZIONE.
O male, o persuasore
Orribile di mali,
Bisogno......
Parini, Il Bisogno.
Entrarono i giovani sposi. L'uomo baciò affettuoso la mano
al Conte: la donna volle fare lo stesso; ma il fantolino, che
teneva in collo, gittando uno strido glielo impedì. Fu caso
quello, o piuttosto presentimento? L'uomo non conosce le arcane
virtù della natura. Il Conte guardò fisso la donna;
e vedendola maravigliosamente bella i suoi occhi si aggrinzirono,
e le pupille mandarono un baleno.
- Chi siete voi, buona gente, e in che cosa posso accomodare ai
bisogni vostri?
- Eccellenza, incominciò il giovane, o non mi ravvisa ella
più? Io sono il figliuolo di quel povero falegname... si
ricorda?.. rovinato, or fanno appunto quaranta mesi,... e se non
era la sua carità egli si sarebbe gettato nell'acqua.
- Ah! ora me ne sovviene. Voi vi siete fatto uomo, garzone mio; ed
il buon vecchio del padre vostro come si porta egli?
- Il Signore lo ha chiamato a se. Creda, Eccellenza, che il suo
ultimo sospiro fu per Dio, e il penultimo per la sua famiglia e
per lei: - non rifiniva mai di mandarle benedizioni, ed augurarle
dal cielo tutte le prosperità, che da uomini possano
desiderarsi maggiori.
- Dio lo abbia nella sua santa pace. E queste sono la moglie, e
creaturina vostre?
- Per l'appunto, Eccellenza. Appena mia moglie è rientrata
in santo, mi è parso bene di fare il mio dovere
conducendola a renderle reverenza e offrirle grazie col cuore,
perchè, dopo Dio, noi ripetiamo da lei la nostra
felicità.
- Voi siete felici?
- Felicissimi, Eccellenza, se la memoria del perduto genitore non
venisse di tratto in tratto a turbarmi; - ma i suoi anni erano
molti, e morì come un fanciullo che si addormenti... Egli
non aveva rimorsi su l'anima.... e le sue notti io le so dire
ch'ei le dormiva tranquille... povero padre! - E sì dicendo
si asciugava le lacrime.
- E voi, donna, vi sentite felice?
- Sì, prima la Vergine benedetta, e più che non si
può immaginare col pensiero, o riferire con parole. Michele
vuol bene a me; io lo voglio a lui; tutti e due ne vogliamo tanto
e poi tanto a questo bello angiolo nostro. Michele guadagna da
camparci, e ce ne avanza; - sicchè, Eccellenza, ella vede
che non chiamandoci soddisfatti sarebbe proprio un mormorare
contro la provvidenza di Dio. - Queste cose dicendo la donna
appariva sfavillante.
- Voi siete dunque felici? - domandò il Conte per la terza
volta con voce cupa.
- E si può dire in grazia sua, Eccellenza. Entrando in casa
di Michele io ho appreso a venerare il suo nome. La prima parola
che insegnerò al mio bello angiolo, sarà benedire il
nome del caritatevole barone Francesco Cènci.
- Voi mi riempite il cuore di dolcezza, disse il Conte
dissimulando la rabbia che lo soffocava; e per infingersi meglio
baciava in fronte, e vezzeggiava il fanciullo: - buona gente!
anime degne! Però quel poco, che io feci, non merita tante
grazie; e a fine di conto, a noi altri favoriti con copia di beni
corre obbligo grande sovvenire ai poverelli di Cristo. A che buono
il danaro, se non per riparare qualche sventura? Havvene forse del
meglio speso di questo? Non lo mettiamo a usura su le banche del
paradiso, dove ci vien reso a mille contanti il doppio? Sono io
dunque, carissimi, che devo ringraziarvi per avermi offerta
occasione di fare del bene. - Qui tratta fuori una cassetta del
banco, prese un pugno di ducati d'oro e gli offerse alla donna; la
quale, fattasi in volto tutta vermiglia, andava schermendosi; ma
il Conte insistendo, diceva:
- Prendete, figliuola mia, prendete. Voi mi avete fatto torto
quando non mi avvisaste della nascita di questo bel putto; che
toccava a me essergli compare. Compratevi una collana, e portatela
al collo in espiazione del peccato commesso: guardate di farvi
riuscire ancora un guarnelletto sfoggiato al fanciullino,
perchè quantunque per bello ci passi il segno, pure sapete
come dice il poeta?
Sovente accresce alla beltà un bel manto.
Io vo' che la gente, in vedendolo, esclami: oh avventurosa colei
ch'ebbe così bel portato; - e il vostro cuore di madre
esulterà.
La giovane madre dapprima sorrise; poi da quelle soavi parole, che
le fioccavano sul cuore, si sentì conquisa, e pianse, senza
però cessare il sorriso; come quando, in primavera, piove a
un punto e risplende il sole, mentre le gocce cadenti disegnano in
cielo l'arco maraviglioso, che noi reputiamo testimonianza del
patto di pace fermato da Dio con gli uomini... E fosse pur troppo
così!
- Continuate ad amarvi - prosegue il Conte con la voce solenne di
un padre; - la gelosia non turbi il sereno dei vostri giorni;
nè mai altra casa possa piacervi più della vostra:
vivete tranquilli e nel santo timore di Dio. Qualche volta
rammentatevi nelle vostre orazioni di me, povero vecchio, che non
sono... oh! credetemelo, non sono quale vi appaio per avventura
felice; ( - e qui il Cènci di pallido, come ordinariamente
egli era, diventò livido - ) e se in alcun bisogno vostro
penserete a me, siate persuasi che voi troverete viscere paterne.
I giovani sposi si chinarono per abbracciargli le ginocchia; ma
egli nol volle consentire affatto, e con voce ed atti benigni gli
rimandò con Dio. Passando per la sala essi non rifinivano
mai di esclamare:
- Oh il pietoso signore! Il caritatevole gentiluomo!
Gli staffieri udendo simili parole sogguardavano l'uno l'altro
facendo spallucce; ed uno fra loro, il più audace,
sussurrò fra i denti:
- Che il diavolo si sia fatto cappuccino?
- Felici! felici! - ruggì Francesco Cènci dando
libero sfogo alla collera male repressa; - e vengono a dirmelo
proprio in faccia! Lo hanno fatto a posta per tormentarmi con la
vista della loro contentezza! Questo giudico il più atroce
insulto, che io mi abbia sofferto da un pezzo a questa parte! -
Marzio! Va, corri tosto, e raggiungi Olimpio; riconducilo qui;
affrettati, dico; se torni, prima che suoni l'Angelus, insieme con
lui, ti do dieci ducati. - Io vi farò vedere se, senza
piangere lacrime di sangue, uom possa venire a dichiarare in
faccia al conte Francesco Cènci, ch'egli è felice.
In questo punto, e certo non gli fu ventura, ecco entrare pian
piano il degno sacerdote: Omnes sitientes venite ad aquas,
giubbilava dentro il cuor suo, comecchè stringesse in
fascio i lembi della toga stracciata; ma da cotesta beatitudine lo
trasse fuori il cupo brontolìo di Nerone. Il prete (tanto
scordevole egli era delle ingiurie più triste!) si
risovvenne allora del cane nemico, e parve la moglie di Lot quando
si volse indietro a guardare lo incendio di Sodoma.
- Silenzio, Nerone! - Reverendo, accostatevi senza sospetto.
Il Prete, ripreso alquanto di coraggio, mosse qualche altro passo
a sghembo come costumano i granchi; e, invitato a sedersi, si pose
sopra l'angolo estremo della sedia, rannicchiato a modo di civetta
sul canto del tetto.
- Parlate, Reverendo; sono ai vostri comodi.
- Ed io punto ai miei, - pensò il prete, ma non lo disse; e
invece favellò:
- La fama...
Nerone udendo la voce del prete torna a brontolare, e il prete
subito si drizza impaurito; sgridato il cane si riacqueta, e il
prete si attenta da capo ad aprire la bocca. Badando sempre con
occhio obliquo la bestia, che malediceva in cuor suo, egli
riprese:
- La fama, che suona delle magnanime vostre imprese per tutto il
mondo....
- E per Roma....
- Questo s'intende da se, caro lei, perchè Roma fa parte
del mondo...
- E per questo appunto io lo diceva...
- E vi pareggia a Cesare...
- A quale dei due, Reverendo, a Giulio o ad Ottaviano?
- Questo non ispiega bene la fama; ma io mi figuro a quello che
fece tanti regali al popolo romano in vita e in morte.
- E sapete voi perchè egli poteva donare tanto?
- Eh! mi figuro perchè ne aveva...
- Certo, ne aveva perchè gli rubò da tutto il mondo;
e questo debito è cascato addosso a noi altri nipoti, e ci
tocca a pagarlo con le usure, vi dico io...
- Ah! tocca a lei pagare i debiti di Giulio Cesare?
- E voi siete venuto qui in mia presenza a paragonarmi con cotesto
insigne ladrone di provincie e di regni?...
Il Prete confuso malediceva l'ora, che gli venne in mente recitare
una orazione di lunga mano composta: era meglio che avesse
favellato, secondo il solito, così alla buona. Ah! -
pensava - potessero farsi le cose due volte! - Poi tutto umiliato
sussurrava...
- Perdoni, per lo amore di Dio... io non credeva... avendo tolto a
imitare la orazione di monsignor Giovanni della Casa a Carlo V...
che...
- Ascoltatemi, favellò il Cènci, deposto a un tratto
il suono scherzevole, e assunto un cipiglio severo. Io sono
vecchio, e voi più di me: però del tempo non ne
avanza a me nè a voi: parlate dunque netto, e spedito.
Tutte le cose lunghe mi vengono a fastidio, - anche la
Eternità.
Il Prete, preso alla sprovvista, non sapeva da qual parte rifarsi;
quel subito trapasso dal dolce all'agro lo aveva sbalordito: in
oltre la ultima proposizione del Conte gli pareva mal sonante, ed
eretica. Finalmente, come uomo a cui un buffo di vento
sopraggiunga impetuoso a portar via le carte accomodate sul banco,
parlò con tronchi accenti:
- Eccellenza... lei vede in me un prete... e per di più
curato di campagna... La mia Chiesa rassembra proprio un
crivello... l'acqua piovana scende giù dal tetto, e si
mescola col vino delle ampolle... Un melogranato cotto in forno, a
paragone della mia Canonica sdrucita, può figurarsi una
pina verde... talora, quando piove, mi trovo costretto a starmi in
letto coll'ombrello aperto, e non basta. Sa ella con che cosa mi
tocca ad asciugarmi il viso?.. lo sa?
- No certo.
- Con Rodomonte.
- E ch'è egli questo Rodomonte?
- Il gatto della canonica; ma egli alla peggio la rimedia pei
tetti; a me e a Marco, che non possiamo andare a procacciarcelo
sul tetto, spesso manca il desinare e la cena; ed io sospiro, e
Marco raglia. - Ho una tonaca sola... o piuttosto, come dice
Cremete negli Autontimerumeni, ignaro se il suo figlio tuttora
viva, - non saprei più dire se io l'abbia, o se io non
l'abbia: - veramente ella era lustra da potermivi guardare dentro;
ma alla fine con qualche rammendo poteva tirar su fino a
dicembre... ed ora il cane di vostra Eccellenza miri come me l'ha
concia!.. E sporgendo il lembo, la sua voce prendeva la
intonazione dello stabat Mater dolorosa.
- Non pronunziaste voi il voto di povertà? Perchè vi
lagnate di uno stato, che tanto si accosta alla perfezione? Ah!
questa perfezione non vi piace; amereste meglio essere imperfetto
con qualche migliaio di scudi di entrata, che perfetto, e
più che perfetto in povertà? Prendetevela con
l'Autore di questa grammatica, che voi altri preti non volete
capire. Gesù Cristo vi ha predicato non essere i vostri
beni sopra questa terra: guardate il cielo, e sceglietevi
là il vostro campo; lo spazio, grazie a Dio, non manca. Ma
voi fate orecchie di mercante, e dite in cuor vostro: la doppia
è il Padre, la mezza doppia il Figlio, il terzo di doppia
lo Spiritossanto, e credo fermamente che una discenda dall'altra.
Godete, Preti, poichè il vostro Cristo
Dai Turchi e dai Concilii vi difende().
Vergogna, Reverendo; vergogna questo darsi continuo pensiero di
cose mondane! Quando la Chiesa costumava calici di legno possedeva
sacerdoti di oro; e questo dice san Clemente di Alessandria. Ora
ch'ella ha calici di oro, i preti son diventati di legno: - e
sapete voi, Reverendo, di quale legno? Del legno, che il santo
Evangelo dichiara doversi recidere perchè infecondo, e
gittare sul fuoco...
Il povero Curato sostenne cotesta bufera di male parole come un
veterano la scarica delle palle nemiche; poi con un sospiro
esclamò:
- Ah! san Clemente Alessandrino era un santo dottissimo; ma non
credo che gli bisognasse stare a letto con l'ombrello aperto
quando pioveva...
- Sia; patite difetto di cose necessarie alla vita? Ebbene,
ricorrete agli opulenti prelati. Forse non ebbero assai? Ma che
volete da noi, l'ultima stilla di sangue? Andate, picchiate ai
palagi dei Vescovi; bussate alle porte degli Abbati... bussate, vi
dico, e vi sarà aperto; chiedete, e vi sarà dato:
pulsate et aperietur vobis, è stato detto da cui non
può fallare.
- E' pare che cotesti dignitarii spesso si trovino per faccende
fuori di casa, perchè io mi son provato a battere alle
porte loro; ma vedendo che potevo rompermici le noccola prima che
da qualcheduno mi venisse aperto, me ne sono rimasto.
- Voi, clero minuto, siete proprio gregge; e così sogliono
chiamarvi i grassi prelati, perchè verso di voi si
comportano da veri pastori. Infatti qual è la parte di
pastore, per cui diritto vede, che seco voi non adoperino? Forse
non vi mungono? non vi tosano? non vi arrostiscono scorticati, e
vi mangiano? - Orsù, ardite ribellarvi contro la iniqua
gerarchia: pubblicate al mondo in qual modo sopra un solo capo, o
per simonia, o per patto di lussuria, o in modo altro più
turpe, si cumulino benefizii, prebende e abbadie, le quali da un
lato fanno preti oziosi, superbi, viziosi, e ribaldi; dall'altro
poveri, vili, abietti, e ribaldi: palesate che le riforme dei
Concilii non hanno riformato nulla: manifestate come questo tristo
collegio d'ipocriti farisei ad altro non attende, che a impastar
pane con la farina del diavolo. Costringete i parasiti a tenervi a
parte della mensa, che lautissima da lungo tempo imbandiscono, e
per lungo tempo ancora imbandiranno loro la ignoranza e la follia
degli uomini.
Il Curato, atterrito da quel turbine di eresie, volse attorno gli
occhi con riguardo, e poi sotto voce osservò:
- Eccellenza, per lo amore di Dio voglia rammentarsi che qui in
Roma vi è una qualche cosa, come sarebbe il Santo Uffizio,
e il castello Sant'Angiolo.
- Avete paura? Bene; ma se imparaste a tremare, apprendete ancora
a soffrire. La pecora lecca la mano che le taglia la gola. Esempio
sublime, e lodato meritamente, della perfetta obbedienza. O
piuttosto, perchè disertaste voi la bandiera della natura?
Perchè abbandonaste la vanga paterna per comandare dalla
polvere? Quando voi preti vi allontanate dalla campagna vi
piangono dietro le viti, e gemono i solchi. Tornate a lavorare
l'altrui podere, servi fuggitivi. La terra vince di amore
qualsivoglia tenerissima madre; ella vi nutre, ella vi veste, ella
vi seppellisce: che cosa volete di più, indiscreti? Vi
lagnate che la natura vi abbia diseredato: bugiardi! vi è
mai forse mancata la terra? Dove stanno sepolte le migliaia di
generazioni, che vi precederono? Sotto terra. A cui di voi,
nascendo, madre natura non destina tre braccia di terra, e a
taluno anche più? - A voi questa storia non garba. Il
breviario pesa meno della zappa. Voi volete godere qui il
paradiso, che agli altri promettete di là. Scalabroni, vi
piace gustare senza fatica il mele raccolto dalle api? Ma le api
adoprano l'aculeo per cacciar via i ladri; l'uomo non sa valersi
del suo giudizio per liberarsi da voi altri. Ditemi un po',
Reverendo, non vi pare che l'aculeo dell'ape, tutto bene
considerato, meriti più pregio assai della ragione umana? -
Orsù; vivete come vi aggrada, morite come vi piace, ma
levatevi dintorno a me. Da me voi non avrete uno scudo. Da
camparvi vi fu dato. Io non ho danaro per sopperire alle
morbidezze vostre; - io non posso fare le spese ai vizii vostri; e
voi ne avete più, che figli Giacobbe, quantunque un vizio
costi più di tre figliuoli.
Credete voi però, Sardanapali, Potervi fare hor
femine, hor mariti, E la Chiesa hor spelonca, et hor
taverna; E far tanti altri, ch'io non vo dir, mali, E saziar
tanti, e sì strani appetiti, E non far ira alla lenta
superna?()
Il povero Prete era come colui, che, essendo lontano da casa,
sorpreso da un rovescio di acqua nell'aperta campagna, piega le
spalle, e sta a pararne quanta Dio ne manda. Però, percosso
dall'abbominazione dell'ultimo rimprovero, levò gli occhi
al cielo, e non potè trattenersi da dire:
- In quanto a Verdiana, Eccellenza, ch'è la fantesca la
quale io tengo in casa, le giuro per Quello, che non vuol che
giuriamo, ella è si antica, da potere aver portato sassi
quando fabbricavano il Colosseo. Ma pare a lei, che un uomo della
mia età e del mio carattere possa attendere a siffatte
scostumatezze? Poh!
- Perchè no? Ossa vecchie e legna secche avvampano
più presto.
.........i' sarei preso ed arso Tanto più, quanto son men
verde legno,
diceva messer Francesco Petrarca; e delle cose di amore il
canonico Petrarca intendeva assai addentro, e più
disonestamente, che non ci vuol dare ad intendere il vecchio
peccatore - perocchè ei fosse dei vostri...
E il Prete, levando in alto le mani e il viso, esclamò
pietosamente:
- Gesù! che cosa mi tocca a udire!
Il Conte Cènci con l'indice della mano destra
all'improvviso descrisse un segno orizzontale sopra la fronte,
quasi disegnasse mutare registro allo strumento, e con voce
più mansueta riprese:
- Oh! non lo diceva mica per voi, povero sacerdote, che siete
così attrito dallo stento, da assomigliarvi a san Basilio.
Quando mi capitasse la voglia di palesare i fatti miei a
qualcheduno, fate conto che non vorrei confessarmi ad altro
sacerdote che a voi. Or via, tregua alle parole, Curato mio dolce.
Quanto danaro vi abbisogna per restaurare chiesa o canonica,
comperarvi una tonaca nuova per riparare la fellonia di Nerone, ed
una mezza dozzina di asciugamani per lasciare in riposo la pelle
di Rodomonte?
- Dirò... Verdiana ed io abbiamo fatto le mille volte il
conto; ella su le fodere del lunario, io sopra i margini del
breviario, e non ci siamo messi mai d'accordo; ch'ella dice
più, ed io meno: ma io crederei che con un dugento di
ducati ci si potrebbe incastrare.
- Dugento ducati! Misericordia! ma che sono eglino diventati
prugnòli?
- E con meno non ci è propriamente a rimediarla, - riprese
il Prete incrociando le dita delle mani e appoggiandosele alla
pancia; - e noti, che ci aggiunterei una quarantina di ducati che
conservo nello inginocchiatoio accanto al letto, e che mi costano
da quarantamila digiuni non comandati.
- Uditemi, Reverendo; io non sono ricco abbastanza da accogliere
la presunzione di restaurare la casa di Dio. Egli è padrone
del buon tempo e del cattivo; e se lascia piovere in casa sua,
segno è certo che l'acqua piovana gli piace. Io vi
darò cento ducati, ma ad una condizione.
- E quale, Eccellenza?
- Che voi, insieme ai quaranta vostri, gli adoperiate unicamente a
restaurare la canonica, corredarvi di masserizie necessarie, di
asciugamani, di una tonaca per voi, ed anche di una veste per
Verdiana...
- Mai no, Eccellenza, mai no; piacemi la casa risarcita,
piaccionmi le masserizie, e la vesta per Verdiana mi piace assai
più della tonaca mia; ma le cose del Signore hanno da
andare innanzi ad ogni privata comodità. Su questo punto
Verdiana ed io siamo di un medesimo cuore, e non ci patirebbe
l'animo di fare nostro prò neppure di un bagattino, se non
avessimo provveduto prima alla casa di Dio....
- Che cosa andate voi bestemmiando di casa di Dio? Ha egli
mestieri di casa per ricovrarsi dalla pioggia, o dalla bruma della
notte come noi altri? Casa di Dio è l'universo; sono le
stelle, il sole, la luna, e tutto quanto vive, vegeta e cresce
quaggiù. Tutto è Dio. In tutto penetra, da tutto
emana la Divinità. Dio vuolsi adorare nelle magnificenze
della natura, nelle opere dello intelletto, nella innocenza e
nella sensibilità dell'uomo.
- Signor Conte, rispose il Curato mettendosi la destra sul cuore,
e con dignitosa semplicità, io sono un uomo povero
d'intelletto: credo quello che i miei padri credevano, e non cerco
più oltre. Io so eziandio che lo spirito umano spesso si
spinge temerariamente a tal punto, dove non comprende più
nulla; e allora, fra il dubbio che tormenta e la fede che consola,
parmi cosa savia attenermi alla fede. -
Queste schiette parole punsero sul vivo il Conte Cènci, il
quale studiando dissimulare la ferita con la moltiplicità
degli empii discorsi, si affrettò a replicare:
- Voi già, secondo l'usanza dei sofisti, ve la svignate
fuori del seminato. Io non vi contrasto la credenza, ma il modo
del credere. O come volete voi che a Dio incresca l'acqua piovana
dentro la vostra parrocchia, poichè s'egli ve l'avesse a
uggia sarebbe padrone di non la mandare? Egli ha creato l'acqua, e
il fuoco altresì: ora, se quando è bagnato vuole
asciugarsi, non ha a far altro che prendere con le molle uno
degl'infiniti soli del cielo, e metterselo nel cammino. Può
temere l'acqua Colui, che vi cammina sopra come se fosse un
selciato? Egli che apre e chiude le cateratte dei cieli come fo io
di questa cassetta? - Via, via, Curato mio, almeno confessatemi
questo, che a lui nulla importa di nuvoloso, nè di sereno.
- Ecco qua; questi sono ducati, e sfolgoranti... ( - e qui preso
un pugno di scudi d'oro, gli distendeva dinanzi agli occhi del
prete - ) io voglio che sieno vostri; a patto però, che gli
spendiate solamente per voi e per Verdiana. Dio è ricco
abbastanza per farsi le spese da se.
E sì favellando protendeva il viso tentatore come il
Diavolo a santo Antonio. Il Prete covava la moneta con gli occhi,
e da tutti i pori del corpo gli trasudava la cupidigia della
miseria. Una molto terribile battaglia si combatteva in quella
povera anima. Il Conte però, notando come il Prete girava
nel manico, insisteva alacremente:
- E questa ultima ragione sopra le altre vi muova, che se voi non
accettate il patto io gli ripongo in cassetta...
- Eccellenza!...
- Ma via, mettiamo da parte le ragioni che vi ho esposto: a voi
non garbano, ed io non vi voglio chiudere il Limbo che vi aspetta.
Non è egli vero, che voi dovete provvedere a due cose: alla
chiesa ed alla canonica? Poniamo dunque che la chiesa sia santa;
la canonica voi non impugnerete già che sia religiosa! Ora
chiaritemi un po' come possiate commettere questo grossissimo
peccato, incominciando dalla seconda piuttostochè dalla
prima? - Voi troverete tanto cammino fatto nello adempimento dei
vostri doveri. Non vi ostinate; ricordatevi che vi ha tal giusto,
che per la sua giustizia perisce; e questo ha detto re Salomone...
- Eccellenza... veramente... in questa maniera... mi parrebbe... e
nondimeno...
- Su, via, dunque; accettate, e promettete adoperarli unicamente
per voi. Considerate, in grazia, quest'altro: se Dio è,
come voi ed io crediamo, eterno, non gli dorrà aspettare
quattro o sei anni, e potrei dire secoli. Se voi foste diverso da
quello che siete, vi direi: facciamo un poco come lui, che non
pensa mai a noi... - Sicchè; li volete, o non li volete?
- Ah signore! la tentazione è grande; ma io temo commettere
un grossissimo peccato...
- Li volete, o non li volete?
- Ma mi lasci riflettere. Non è mica cosa da niente uno
scrupolo di peccare, per un parroco che ha la cura delle anime...
- Ebbene; ponete tutto a debito dell'anima mia. Tanto io ho conto
lungo col paradiso... - Ah! li prenderò...
L'angiolo dell'Accusa portò questo peccato alla cancelleria
del cielo e lo registrò nel libro maestro delle colpe
umane, senza che l'angiolo della Misericordia vi lasciasse cader
sopra una lacrima, e ve lo cancellasse per sempre come sul pietoso
giuramento dello zio Tobia.
- Ecco il danaro; promettete dunque?
- Prometterò.
- Ora avvertite di non mancare; manderò, o verrò io
stesso a vedere se avrete attenuto il patto: se troverò
altrimenti, guai! Mi chiamo Francesco Cènci, e basta.
Il Curato fra lieto e tristo intascò la moneta; e,
profferte umilissime grazie, con copia di riverenze si
allontanò dal male visitato barone.
*
* *
Marzio tornava in compagnia di Olimpio. Ebbe Marzio la promessa
mercede, ed ordinandolo il Conte si ritirò nell'anticamera.
- Che c'è egli di nuovo, Eccellenza?
- Ci sono altri centoquaranta ducati da metterti nella cintura...
- Voi mi volete far morire d'indigestione...
- Mi era parso, poc'anzi, tu ti partissi pessimamente soddisfatto,
ed io ho voluto richiamarti perchè tu abbi la miglior
giunta alla buona derrata.
- Questo è proprio un diluvio di tenerezza per me!
- Tristo cavaliere è colui, che non ha cura del suo
cavallo; e non vi ha favore ch'io non mi mostrassi parato a farti,
per torre via dal tuo cuore quella po' di ruggine che potresti
avere concepito contro di me.
- Ruggine, io? Ma che vi pare, don Francesco; io vi ho voluto
sempre più bene che al pane.
- Che si fa a morsi, eh? Vien qua, piacevolone, ch'ella è
appunto una burla quella che ti propongo. I ducati, di che io ti
diceva, già sono tuoi...
- Dove son eglino?
- Non manca altro, che tu le li vada a pigliare. Non torcere il
muso. Hai tu veduto quel corvo di prete? Ebbene; io glieli ho
donati secondo la tua intenzione. Ora hai da sapere come costui
sia curato a santa Sabina, piccola chiesa lontana dall'abitato. In
casa tiene una vecchia, un gatto, e, a quanto pare, un asino:
faccenda agevole, e da compirsi stanotte. Troverai i danari dentro
allo inginocchiatoio accanto al letto del prete.
- O perchè glieli donaste voi, se avevate in mente di
ritorgli sì presto a quel poveraccio?
- Quando io pretesi insegnarti la maniera di entrare nel palazzo
Falconieri, tu mi avvertivi non ispettare a me mescolarmi in
simili bisogne.... te ne ricordi? Adopera dunque verso me la
discretezza, che volesti io usassi teco.
- Avete ragione: non fa neanche una grinza. Volete, altro, don
Francesco?
- Ah! sì; un altro servizietto da poco. Conosci il
falegname, che abita presso Ripetta? Quel desso, che rifece la
casa co' miei danari?()
- Quel giovane, che stava dianzi in sala ad aspettare? Sicuro che
lo conosco, e so dove sta di casa; perchè quando la faceste
rifabbricare di nuovo andai a vederla, per ingegnarmi a spiegare
su la faccia del luogo lo indovinello della vostra beneficenza.
- E non sono uso a fare del bene io? Ed anche adesso non ti
benefico? Non aggiungere la ingratitudine agli altri tuoi peccati,
perchè egli è quello che più dispiaccia
all'angiolo custode. - Domani notte...
- Non posso servirvi: sono impegnato col signor Duca... non
rammentate?
- Farò le tue scuse...
- Abbiate pazienza; l'onore del mestiere non permette che io
manchi...
- Procurerò che egli ti dia licenza di propria bocca...
- Oh! allora va bene.
- Domani notte, dunque, t'introdurrai come potrai nella bottega
del falegname. Prendi gli arnesi e i legni che troverai là
dentro, ed alzane una catasta: poi mettivi sotto i fuochi
lavorati, ch'io ti apparecchierò; e verrai per essi domani
dopo l'Ave Maria, presentandoti alla porta del chiasso: accendili,
e vientene via dopo aver chiuso di nuovo la porta della bottega.
Avrai per questa opera pia cento ducati. Servi fedelmente, che in
breve intendo farti ricco. In vero, dove potrei impiegare il mio
danaro meglio che con te? - E tu devi convenirne meco. Allontanati
per la via del giardino, e procura che nessuno ti veda all'andare,
nè al tornare.
Olimpio obbediva.
*
* *
Francesco Cènci rimasto solo, forte si stropicciava le mani
in segno di profonda soddisfazione, e con parole rotte favellava:
- Stamane fu pasqua. Questo si chiama vivere davvero! Un
parricidio tramato, un ratto ammannito, un furto ed uno incendio
apparecchiati; poi i traditori traditi, e per giunta fatto cascare
un santo. Finchè io sto in questo mondo il diavolo
può andarsene in villeggiatura. Io sono il rovescio di
Tito: costui gemeva se passava il giorno senza fare qualche bene:
io arrovello se non ho commesso una ventina di mali. Tito! -
Cerretano di umanità, gesuita del paganesimo! Giudea lo
dica, e lo incendio spento dall'onda del sangue umano; e la
moltitudine dei crocifissi, per cui mancava il terreno alle croci,
o le croci ai corpi; e gli undicimila prigioni morti di fame; e le
migliaia dei gettati alle belve in odio di avere difesa
divinamente la patria(). Va, va, natura di stoppa, che non sapevi
odiare, nè amare; piangendo lasciasti uccidere un milione e
mezzo di uomini, e piangendo ti lasciasti strappare dal fianco la
bella Berenice. Domiziano, tuo fratello, era fuso con bene altro
metallo: cuore di acciaio; fronte di bronzo: immagine augusta di
re. Il fulmine non sa distruggere cotesti semidei; se li tocca, li
consacra. L'Apostata ti chiama belva d'imperatore(): belva tu, che
andasti a farti scannare in Persia, mentre potevi condurre vita
beatissima a Roma o a Bisanzio. A cui buona la vita se, dopo
morte, i posteri non tremassero al nostro nome, e temessero
vederci ricomparire, sbucati fuori della tomba, ad ogni tratto?
Tutti rammentano il diluvio. La credenza di Dio si fonda sopra la
paura, e quindi egli ebbe vittime di sangue. I tiranni si sono
detti immagini del Dio di Mosè, che soffia con la sua
propria bocca nel fuoco dello inferno; epperò furono
temuti, ed ebbero anch'essi vittime di sangue, e tuttavia ne
avranno. Se il Papa si fosse mantenuto ministro del Dio Agnello, a
quest'ora lo avrebbero arrostito: le paterne viscere di Sua
Santità si struggono di emulazione, perchè la piazza
del Vaticano sia superata in meriti da quella di Vagliadolid. Il
bene e il male tengono le mani dentro ai capelli della
umanità; ma il bene glieli arriccia, il male glieli
strappa. Io adoro la forza. Tutto è menzogna, tranne la
forza: ella arroventa il suo marchio, ne segna alla gota le
generazioni, e a furia di flagelli le disperde pel mondo:
Tremate, maledite, e obbedite:
Così quaggiù si vive,
E la porta del ciel si trova aperta!()
Se mi fossi trovato alla battaglia, che gli Angioli ribelli
combatterono contro Dio! - Dio! Dio! - Questa parola mi torna
addosso come un tafano importuno, invano cacciato. Ma chi ha
veduto questo Dio? chi gli ha mai favellato? Corrono oggimai
cinquanta e più anni che io con ogni maniera di offese
l'oltraggio, e la sua maledizione m'ingrassa i campi.
Perchè mi creava egli così? Egli metteva le forbici
sopra la pezza intera, e poteva tagliarmi a modo suo. E s'ei non
mi creava, o perchè egli, Creatore, sofferse in pace che
altri gli rubasse, e guastasse il mestiere? Anima mala: sono
elleno anime malvagie le nostre? Sia; io per certo non ho
ragionevole fondamento per impugnarle: ma non istava in
facoltà sua farla buona, o cattiva? Poenituit! Sì?
Se ei si pentiva, segno è certo ch'egli aveva sbagliato; e
se sbagliò, perchè mai portiamo il peso dei suoi
errori? E dove è allora la sua ogniscienza, dove la
onnipotenza sua, dove lo infinito suo amore? Che penseremmo noi di
cotesta femmina, la quale si avvisasse percuotere il suo figliuolo
perchè lo ha partorito gobbo? E posto che egli abbia
errato, come questo libro del mondo ci mostra palesemente ad ogni
facciata; ma fosse poi buono davvero, secondochè ci danno
ad intendere quelli che lo conoscono; o non poteva tirar di frego
su l'uomo e la natura intera, e incominciare da capo? Meglio
così, che impacciarsi in quel laberinto del riscatto, che a
fin di conto non ha riscattato nulla. Egli fu nebbia: ha lasciato
il tempo come lo trovò: - e se gli uomini prima andavano
allo inferno di passo, ora ci vanno di corsa. Inferno! E sia; ed
io vi andrò, per la ragione che la sentenza verrà
profferita da chi è giudice e parte, e per di più
senza appello. Tutti i giudici iniqui condannano senza appello.
Deus autem fecit nos, non ipsi nos. Non importa: se l'anima
è morta col corpo, mi piace; se sopravvive, anche di questo
mi contento; a patto che non mi venga tolta la facoltà, da
me fino a questo punto esercitata, di maledire per omnia saecula
saeculorum; amen.
CAPITOLO V.
ANCORA DI FRANCESCO CÈNCI.
«A cagione del tuo cuore di ghiaccio, e del tuo
ghigno di vipera; a cagione delle perfide tue
iniquità, e per la ipocrisia della tua anima...
pel piacere che trovi nel dolore altrui; per la
tua fratellanza con Caino, io ti condanno ad
essere il tuo proprio inferno».
Byron, Manfredo.
Di Francesco Cènci non dissi abbastanza. Così
strano, complesso, ed anche mostruoso comparisce il suo ingegno da
quanto fu esposto, e da quanto verrò esponendo nel corso
della storia, che merita fermare il pensiero sopra di questo
personaggio.
Non so se adesso; ma respiravasi un giorno per l'aere di Roma tale
una ebbrezza, che toglieva l'uomo dalle consuete abitudini della
indole umana. I fati ordinarono, che per un tempo tutto si
presentasse costà fuori della consueta misura delle cose, e
piuttosto immane, che grande. Chi più valoroso di Cesare?
Chi più virtuoso di Catone? Chi o più politico di
Augusto, o dissimulatore di Tiberio, o truce di Nerone, o stupido
di Claudio? E, per non rammentare di soverchio nomi, chi
più magnanimo degli Antonini? Le donne stesse toccano la
cima della libidine e della castità, della perfidia e della
fede. Lucrezia, Cornelia, Porzia, Arria, Eponina() ebbero
nascimento nella medesima città che produsse Livia, Poppea
e Messalina. Gli edifizi stessi, invece di essere dominati, pare
che dominino il tempo: stanno; e malgrado le ingiurie dei secoli,
e quelle più nocive assai degli uomini, non furono potuti
disfare. Per la Europa, per l'Asia e per l'Affrica occorrono
reliquie di questo popolo portentoso, come ossa di cadavere che
abbia avuto il mondo intero per sepoltura. L'Aquila romana,
logorando le ale nello immenso volo di conquista, ne sparse le
penne per tutto l'universo. Roma gittò dalla cima del
Campidoglio una rete di ferro sopra i viventi; più tardi
tentò gittarne un'altra di credenze e di paura, e
conquistarli di nuovo. I Papi all'ombra del Colosseo soltanto
poterono concepire il pensiero di farsi re dell'anima. Quando
consentirono a ridursi in Avignone diventarono davvero servi dei
servi(). Il Papato nello schiaffo di Bonifazio VIII patì un
oltraggio, dal quale sarebbesi rilevato difficilmente: pure anche
Gesù l'ebbe, e non di manco vive e regna; ma il processo,
che per paura sostenne si facesse alla memoria di Bonifazio il
codardo Clemente V, fu ferita insanabile all'autorità
pontificia.
Roma guerriera si avventa a modo di leone, e sbrana, o perdona la
jena nemica: Roma sacerdotale seguita, come la fiera, i barbari
alla lontana; ma il giorno della battaglia ella stende la mano sul
bottino di guerra. - Roma galeata invia Proconsoli, che
costringono i Re dentro un cerchio tracciato sul terreno; Roma
mitrata invia frati con la testa scoperta e i piedi nudi a
mettersi fra il taglio della scure del barbaro e i popoli
oppressi. Perchè furono spediti cotesti frati? Forse per
riparare i percossi sotto la veste di Cristo, o piuttosto per
andare d'accordo, prima che la scure calasse, intorno alla parte
delle spoglie e della carne? Lo dica la storia. Roma cade o come
gladiatore combattente, o come rettile pestato: in ambedue i casi
ella manifesta tremendo lo spirito di vita; imperciocchè,
per quanto sia dato antivedere ad intelletto umano, essa non deva
spegnersi, bensì trasformarsi. Il gladiatore cadde,
allagò di sangue la terra, si rialzò,
combattè ancora, e giacque quando le ultime gocce gli
stillarono dalla ferita lente, pese, e rare come le prime della
procella(). Il serpe tronco su le vertebre dura ad agitare le
membra lacerate: gli basta vivere, quand'anche la sua vita non
dovesse manifestarsi che con l'estreme convulsioni dell'agonia. La
fiaccola romana, due volte accesa dalla destra dei fati,
finchè le bastò la resina mandò di tratto in
tratto vampa capace d'incenerire, o illuminare una generazione.
Adesso Roma compie i suoi secondi destini: non avendo saputo,
nè voluto gittare via la soma, che la incurva alla terra,
ad ogni passo vacilla, ed accenna cadere. Chi fu una volta, e
pretese sempre essere signore, deve sporgere limosinando la mano
agli antichi suoi servi? - Temi i doni del nemico; esso si
prostra, ma ridendo, ai tuoi piedi: egli venera l'autorità
religiosa per tesserne un filo, e, attorto all'altro della
autorità violenta, rinforzare le catene del mondo. Non
trovando diritto sopra la terra, egli s'ingegna, mercè del
Sacerdote, derivarne uno dal cielo. Napoleone rialzò il
Pontefice perchè lo ungesse Imperatore e sparisse. Una
macchina religiosa messa fuori in un giorno di festa e poi
riposta, o distrutta. Quando Bonaparte prese in fastidio la sua
vera, la sua gloriosa origine - quella del Popolo - evocò
il Papato, come Saulle l'ombra di Samuele, onde gli fingesse
origine divina. Se i diacci del settentrione non erano, adesso si
troverebbero le chiavi della Chiesa in qualche museo con le altre
spoglie fatte in guerra(). E così sempre avvenne dalla
parte di Francia; talora si presentò come alleata,
tal'altra come figlia devota: ella ha mentito sempre. Il suo grido
è stato quello di Diogene esposto al mercato per esservi
venduto schiavo: «chi vuol comprare un padrone?»
Ma così non può durare, nè durerà.
Tutte le cose nostre hanno lor morte. Il dubbio aveva roso il
tronco dell'albero, ora ha prodotto un frutto di odio; le genti lo
hanno raccolto, e se ne sono saziate: staremo a vedere se i
vassalli di Filippo il Bello, educati alla scuola di Voltaire,
faranno rigermogliare all'antico albero frutti di vita. Errore
fatale! Cesare che fu spento alla sprovvista, e Dionisio a cui
consentirono prolungasse la vita con pane di obbrobrio, non
morirono finalmente di pari morte entrambi? - Morirà Roma
sacerdotale, non però la Chiesa di Cristo. Come il nostro
Redentore, gittato lontano da se il coperchio del sepolcro
proruppe fuori luminoso dei raggi della eternità,
così la Chiesa lanciati nel fiume gli ornamenti terreni,
che la fanno scambiare con la donna dell'Apocalisse(), inebriata
del sangue dei santi si porrà dinanzi alle generazioni
avviandole su pel cammino del cielo.
Dal ribollimento portentoso della barbarie, che tenne dietro al
naufragio della civiltà romana, non dovevano galleggiare
due teste coronate, nè nuovi tormenti e nuovi tormentati:
sibbene la Croce vincolo comune di popoli fratelli, benedizione a
tutte le genti che vivono in pace nella terra dei loro maggiori.
Se ad ogni modo il Padre dei fedeli voleva presentarsi incoronato,
Cristo aveva insegnato di che cosa dovesse comporsi la sua corona;
tutte le gemme del mondo non valgono una spina della corona di
Cristo! -
Queste verità furono predicate ab antiquo dal senno
italiano; ma comunque ripetute a sazietà, non riescono meno
pericolose a cui le dice, nè meno odiate a cui le dovrebbe
ascoltare, e non le ascolta. Molti dei nostri grandi, che le
professarono, riposano adesso in Santa Croce sotto monumenti
fastosi; se vivessero sarebbero travagliati in carcere; dove ora
io mi trovo vicino a cotesto Tempio, sperando a mia posta nel
sepolcro, se non fama, riposo.
Giudici e Sacerdoti affermano essere gravi errori cotesti; e non
solo lo affermano, ma lo provano con le prigioni e gli esilii: a
lasciarli fare brucerebbero ancora. Lo ammonimento: Amate la
giustizia, o voi che avete a giudicare la terra, non trovò
eco nei loro orecchi. Aghi calamitati vòlti sempre al polo
della tirannide e dello errore, un giorno saranno a posta loro
giudicati. - Beati quelli di cui il peso sarà trovato
giusto in quel giorno!
Francesco Cènci fu alito corrotto di antico genio romano;
alito latino uscito fuori da un sepolcro scoperchiato, ma pur
sempre alito latino; ebbe indole indomata, talento schernitore,
anima implacabile, e cupidità dello immane, del mostruoso,
e del grottesco. Se fosse vissuto ai tempi di Giunio Bruto non
solo avrebbe condannato i suoi figliuoli, ma, spingendo la
violenza contro la natura oltre il possibile, gli avrebbe
decapitati di propria mano. Fu vaghissimo di scienza, che poi,
come Salomone, dileggiò, chiamandola vanità e
travaglio di spirito; ovvero se ne giovò nella guisa, che i
Sibariti adoperavano le rose come istrumento di morte. Ebbe
ricchezze, e le profuse senza poterle distruggere. Con immensa
potenza di sentire, pensare ed operare egli vide pararglisi
innanzi le due vie del bene e del male. Breve, a cagione dei
tempi, il cerchio del bene: qualche affetto domestico,
facoltà di fondare chiese o monasteri, sollevare la
povertà con la elemosina, che la perpetua; vita placida;
morte oscura; memoria durevole quanto l'eco della voce del monaco,
che ti canta il miserere per le navate della parrocchia.
Nè il secolo in cui viveva consentiva estendere le forze
portentose dell'anima sua a prove maggiori: cotesti erano giorni
di agonia per lo intelletto italiano; il cielo nostro vestiva la
cappa di piombo degl'ipocriti di Dante, la quale permetteva a
quelli che vegetavano sotto di andare in cento anni appena
un'oncia. Nonostante si provò a operare grandemente; uomini
e cose gli si strinsero intorno come la camicia di Agamennone,
sicchè presto il bene gli venne in fastidio, poi gli parve
abbietto, finalmente l'odiò. Si volse al male, e gli disse,
come il Demonio, - sii il mio bene! - Gli piacque la parte di
Titano, e gli parve magnifica audacia levare la fronte ribelle
contro il cielo, e sfidarlo. Riposto nel male ogni suo desiderio,
siccome ogni mezzo per salire in fama, lo amò col delirio
dello ebbro e con l'ostinazione del calcolatore: oltrepassare le
nequizie fino a lui conosciute immaginò che fosse
trasportare altrove le colonne di Ercole, e scuoprire nuovi mondi:
strinse vincoli di famiglia per la voluttà di lacerarli
scelleratamente: coltivò affezioni più care per
ispegnerle o sotto il soffio di un crudele scherno, o meno
dolorosamente col pugnale: a Dio non credeva, ma lo sentiva come
un chiodo in mezzo al cuore; e allora lo bestemmiava brutale a
modo dell'orso, che morde lo spiedo che lo ha trafitto pensando
sanare la piaga; empio miscuglio, insomma, d'Ajace, di Nerone e di
bandito volgare, don Giovanni Tenorio è un frammento del
suo carattere(). Visse tormento a se e ad altrui: odiò, e
fu odiato; si nudrì di male, e il male lo uccise.
Morì come forse avrebbe scelto morire; imperciocchè
tanto erano giunte le sue scellerate passioni a soffocare la
natura, ch'è lecito supporre, che sentendosi ormai grave di
anni, e di forze più poco adattato a nuocere, almeno per
lungo tempo, il suo truce spirito esultasse della strage del corpo
nel pensiero, che varrebbe a precipitare nel sepolcro per via di
sangue la sua intera famiglia. Io immagino vedere cotest'anima
trista soffiare nei carboni che arroventarono le tanaglie, le
quali straziarono le carni del suo figliuolo Giacomo; abbrivare la
mazzola che gli ruppe le tempia; e a piene mani raccogliere il
sangue grondante dalla scure che recise la testa dei suoi, per
bagnarsene il petto come rugiada rinfrescante. E fermamente credo
che sarebbe stata opera meritoria non pure disperderne la cenere
pei quattro venti dalla terra, ma condannarne la ricordanza a
perpetuo oblio, se il Consiglio divino non avesse posto la
innocenza accanto al delitto, il vizio accanto alla virtù,
il dolore al piacere, la luce alle tenebre;... e però le
immanità sue non servissero a dimostrare quale e quanto
bello angiolo di amore fosse Beatrice sua figlia, la più
semplice, la più fiera, e la più infelice delle
donzelle italiane.
Poichè giustizia mi muove a penetrare in cotesta antica
sepoltura, io la scoperchio; sicuro di trovarvi la vergine
sepolta, come già fu rinvenuto nelle catacombe romane il
corpo di santa Cecilia() intatto, vestito di una veste bianca
simbolo di purità; atteggiata a dolce riposo, con un nastro
vermiglio intorno al suo collo di cigno: - cotesto nastro
vermiglio è la traccia della scure, che recise un capo
divino da un corpo divino!
CAPITOLO VI.
NERONE.
Fanciulla del dolore, o tu che sai
Piacere anco sepolta, e ricoperta
Dal silenzio di trecento anni, bella
Sai tornare alla idea come nel giorno
Che te lo Amor rapiva, o tu delizia
Dei racconti di queste itale care
Fanciulle, che spirar sai dalle stesse
Dipinte tele, onde l'occhio fatato
Dal tuo sguardo, in imago ancor ti cerca
Rediviva per Roma, abbi il mio pianto.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Era bella come il pensiero di Dio, quando mosse innamorato a
creare la madre dei viventi: - era cara quanto i suoi ricordi.
L'Amore con le mani di rosa delineò le curve soavissime del
suo volto dilicato; ed appoggiandole il dito sul mento per
contemplare la sua gentile fattura, vi lasciò la fossetta;
- segno veramente di amore. La sua bocca rassomiglia un fiore
testè colto in paradiso, tutto fragrante di
divinità; la quale diffondendosi intorno alla persona fa
reputarla non terrena creatura: così gli antichi cantarono,
un senso di ambrosia rivelasse ai mortali la presenza di un Dio. I
suoi occhi spesso cercavano il cielo, e lunga pezza ve li teneva
fissi con immenso desiderio, sia per contemplare la patria, della
quale ben presto tornerebbe cittadina; sia per iscorgervi
spettacoli misteriosi rivelati a lei sola; sia, finalmente, che
l'amata immagine materna quinci con la voce la chiamasse e co'
cenni. Certo fra gli occhi della inclita fanciulla e lo emisfero
nostro quando esulta sereno traluceva, dirò quasi, una
parentela, imperciocchè entrambi apparissero formati col
medesimo azzurro: - entrambi annunziassero la gloria del Creatore.
Quando, declinandoli alla terra, ella considerava cosa o persona,
gli apriva splendidi ed acuti per modo, che paresse dilatare
l'anima e la intelligenza con quelli: allora chiunque le stava
davanti, se non si sentiva innocentissimo di cuore portava
frettoloso la mano sul petto, dubitando che lo involucro della
carne non bastasse a celarle i pensieri riposti della colpa; altri
poi per tenerezza lacrimava: per ogni dove li girasse l'aria
diventava più chiara, il cielo più lieto. Se
interveniva a balli notturni, ecco la luce delle fiaccole per
virtù dei suoi occhi raddoppiava; le note armoniche
sfavillavano più melodiose, e il piacere si versava a onde
sopra i giovani capi. In qualunque punto del festino ella fosse
scomparsa, la noia soffiava un alito ghiacciato sulla universale
esultanza. La sventura certo aveva battuto le ale intorno cotesta
fronte bianca di giglio; ma l'era venuto meno lo ardimento per
lasciarvi sopra una traccia inamabile, e passò oltre. La
preghiera dei mortali avrebbe potuto riposare su quella fronte,
per librarsi quinci più pura verso il trono di Dio. Nei
giorni giocondi, ahi rari!, della sua vita ella si compiacque
talora sciogliere con giovanile baldanza il volume delle chiome
bionde, e apporle al sole; quasi volesse instituire gara co' raggi
di lui: ma il sole le circondava amoroso di tale uno splendore,
che la gente tremava di reverenza e di piacere a riguardarla,
reputandola una santa scesa dal cielo circonfusa dal nimbo
radiato().
O Bellezza! Io dai primi anni ti ho alzato un altare nell'anima,
dove ti sacrifico i più dolci dei miei pensieri; - pensieri
che, me levando da questa creta mortale, mi avvicinano al Creatore
di tutta bellezza; ma nè io ho parole, nè credo che
veruno umano eloquio le possieda, capaci di significarti
degnamente: se potessi appormi la carta sul cuore, e improntarla
dei suoi palpiti, forse aprirei alle genti concetti non mai
più uditi: però questo nè a me, nè ad
altri fu concesso, e le mie immagini è forza che si
rivelino incomplete, vaghe, e confuse; onde se la fantasia di chi
legge non supplisce al difetto, io dispero farmi comprendere. Oh
da quante catene è stretta quaggiù l'anima
immortale!
Bellezza, Amore, voi eravate ai fianchi di Dio nel giorno della
creazione; egli vi lasciò suoi primi vicarii sopra la
terra. La bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville
scoppiate insieme dal primo fulmine che Dio avventò contro
l'uomo, quando lo condannava allo affanno e alla morte. Il culto
della Bellezza e dello Amore riconduce la nostra schiatta
diseredata alla sua origine divina.
O Francesco Petrarca, tu che per prova intendesti amore; dopo
tanti dolci concetti, con quale amaro liquore ti bagnò il
labbro Calliope quando dettasti questi versi ingiocondi:
Ei nacque d'ozio, e di lascivia umana,
Nudrito di pensier dolci e soavi,
Fatto signore e dio da gente vana?()
E senza amore dove sarebbe adesso il tuo nome? L'Africa certo, e
il dotto favellìo delle tue epistole non farebbero cercare
il tuo volume. Tu saresti, come tanti altri scrittori, posto a
modo di medaglia antica dentro lo scaffale, per informare chi
avesse voglia di saperlo, che tu vivesti un dì. Se amore
nasce da lascivia, o come avviene che nel muovere degli occhi
onesti e tardi della tua donna tu vedevi il dolce lume, che ti
mostrava la via che al ciel conduce? Se in cuore umano fuoco di
amore poco dura dove occhio e tatto spesso nol raccenda, o come,
dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa nei raggi di sua
stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì, or
no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto
vaneggiare, dicevi alla tua mente:
..... tu se' ingannata;
Sai che in mille trecentoquarantotto
Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima,
Del corpo uscìo quell'anima beata?()
Ah! se la terra avesse sepolto a un punto la bella vesta delle
membra di Laura e la memoria del suo amore, i tuoi canti
suonerebbero esercitazioni di gaia scienza, eco delle canzoni dei
Trovatori, gemiti mentiti di cuore bugiardo; e se così
fosse, io ti compiangerei perchè avresti tradito i posteri,
e te.
Beatrice stava seduta sopra un verone del palazzo Cènci,
che guardava il giardino: in grembo ella teneva un fanciullo, che
dagli occhi, dai capelli, da tutte le sembianze appariva esserle
fratello: ella gli accarezzava amorosa i capelli, e di tratto in
tratto gli baciava la fronte. Il fanciullo riposa il suo capo sul
seno della sorella, e affissa in lei le pupille immote, ma senza
intenzione, a guisa di persona assorta nel pensiero di qualche
cosa fuori di questo mondo. La infermità aveva appassito il
fiore della giovanezza: la sua pelle era tenue, e candida di un
bianco pallido e dilicato così, che i raggi del sole
cadente gli tralucevano in vermiglio traverso le orecchia e le
dita: talora sospirava, più spesso schiudeva la bocca con
isbadiglio convulso: pareva un angiolo in pena. Beatrice
sconsolata gli disse:
- A che pensi, mio diletto Virgilio?
- Penso, che sarebbe pure stata la grande carità non farci
mai venire al mondo!
- Ah! Virgilio...
- E poichè a questo non trovo più rimedio, il meglio
sarà uscirne presto.
- Uscirne! E perchè?
- E perchè restarci? Il mio cuore qui dentro è morto
da tempo; e quando il cuore è morto, oh come pesa che gli
sopravviva il corpo!
- Tu, si può dire, ti affacci appena, fratello, alla vita,
e già favelli parole disperate; ciò non istà
bene: vivi e rallegrati, perchè non sai quali rose educhi
per te la fortuna.
- Rose! fortuna! Adesso la morte coglie i fiori per la ghirlanda
della mia bara. La fortuna mi abbandonò quel giorno che
perdemmo la madre...
- Ma noi non ci possiamo considerare orfani affatto: forse
l'ottima signora Lucrezia non ci mostra viscere di madre?
- Sì, ma non è nostra madre.
- E poi non hai anche me, che ti amo tanto?
- Sì, sì, buona sorella, rispose il fanciullo
gittandole le braccia al collo e piangendo dirotto; - ma nè
anche tu sei la mamma mia.
- Ed oltre a me, ti mancano forse fratelli? Non hai tu padre?
- Chi padre?
Beatrice, atterrita dallo improvviso rimescolarsi del fanciullo a
cotesta parola, si tacque. Solo, dopo lungo silenzio, con voce
esitante soggiunse:
- Francesco Cènci non è per avventura tuo padre... e
mio?
Il fanciullo abbassò il capo, chiuse gli occhi, fece delle
braccia al petto croce, e con suono velato rispose:
- Sorella, guardami su la fronte alla radice dei capelli; vedi la
cicatrice che vi porto? - La vedi? - Sai tu chi mi ha ferito? - Io
non tel dissi fin qui; ma ora, che mi sento vicino a morire, io te
lo posso confessare. Ripensando fra me come Francesco Cènci
mi tenesse in dispregio, e sovente mi guardasse di traverso,
nè a me parendo di meritarlo, un giorno, fattomi cuore, gli
caddi davanti, e tentai prendergli la mano per recarmela alla
bocca. Egli gridò: «va via, bastardo!» e mi
diè così forte un pugno nel petto, che mi spinse
giù a precipizio a percuotere col capo nello angolo dello
armario, ch'ei tiene nel suo studio. - Francesco Cènci mi
vide svenuto, e tutto intriso di sangue; - mi vide, e non mi
rilevò. - Di qui la ferita; di qui la infermità, che
mi consuma le viscere...
Beatrice rabbrividì, nè potè formare parola.
Il fanciullo con passione crescente scuoprendo dalla manica un
braccio scarno, e sporgendolo verso la sorella:
- Guarda, aggiunse, la traccia di questo morso. Sai tu chi me lo
ha fatto? Nerone; e senti come. Un giorno io colsi in giardino una
bella pesca, e dissi: andiamo ad offrirla al signor padre, che
forse la gradirà. In questo pensiero mi avvio alla sua
stanza, apro l'uscio, e vedo ch'ei legge. Timoroso di disturbarlo,
mi accosto pian piano; quando Nerone mi si avventa addosso e mi
morde il braccio: - io spasimava per dolore... mio padre rideva.
Il seno di Beatrice palpitava così, che parea volesse
spezzarsi.
- E se Marzio non era, egli mi lasciava sbranare. Mira anche qui -
e il fanciullo si spartiva i capelli al sommo del capo - vedi
questa piazzetta? Manca una ciocca di capelli. Sai tu chi me gli
ha strappati? Il padre mio. Poco dopo il colpo percosso dentro
l'armario, col capo tuttora fasciato, preso dalla passione che mi
affogava, mi presentai risoluto dal padre, e gli dissi:
«Padre mio, in che cosa vi offesi? perchè mi odiate
voi? Beneditemi in nome di Dio, benedite il figliuolo vostro, che
vi ama». Egli, avvoltasi prima una ciocca dei miei capelli
alle dita, mi rispose così; - senti bene, proprio
così: «Se tu avessi il capo di zolfo, e le mie parole
fossero di fuoco, io ti benedirei per bruciarti: va, vipera,
perchè io ti odio tu devi odiarmi; io non so che cosa farmi
del tuo amore, bastardo!» E tirò tanto forte, che mi
parve tutta la pelle del cranio si distaccasse con immenso dolore:
la ciocca dei capelli gli rimase in mano; ed infuriando, lo
spietato, nella ira, come se egli soffrisse, non io, il dolore,
soggiunse: «Io maledico te e i tuoi figliuoli, se mai arrivi
a procrearne; possiate tutti vivere di miseria, nudrirvi di
delitto, e morire di patibolo». - Ora, Beatrice, fammi
grazia di dirmi un po' come posso desiderare di vivere io? Mia
madre mi ha lasciato; mio padre mi ha maledetto: non è egli
dunque meglio, che io muoia? Non dico il vero, sorella? - E qui il
fanciullo singhiozzava convulso.
Cotesti dolori non potevano consolarsi. Beatrice lo sentì,
e si tacque; la sua fronte si coperse di sudore, e le gocce
succedendosi cadevano spesse come le lacrime dagli occhi dolenti.
Poichè fu trascorso spazio lungo di tempo in silenzio
affannoso, Beatrice, comprimendo la passione che le traboccava
dall'anima, si provò a confortarlo con voce mansueta:
- Quietati, Virgilio, tu avrai colto il mal tempo...
- No, egli era tranquillo...
- Forse turbato da qualche cura segreta...
- No, egli era lieto; - dopo che il cane mi ebbe morso egli si
pose a scherzare con lui... col cane, che stette per isbranargli
il figliuolo! - Adesso anch'io non lo amo più... sai?
Quando lo vedo m'entra il tremito nelle vene, e la sua voce mi
dà il dolore di capo. Spesso con gli occhi della mente io
vedo non lontano un luogo oscuro, dond'esce rumore di bestemmie e
d'imprecazioni scellerate; e una voce irrequieta mi tintinna nelle
orecchie: «Cotesta è la contrada dell'odio, tu sei
aspettato colà». Io non vi voglio andare; io non
voglio odiare persona... molto meno mio padre... piuttosto voglio
morire.
Beatrice, tramutata nella faccia, si sentiva venir meno; ma con la
forte volontà domando la natura, si vinse: levò gli
occhi al cielo, si sforzò favellare, e non potè; -
invece di parola, dalla gola attenuata mise un singulto.
Soprastette alquanto, e poi con voce, che studiò rendere
soave, disse:
- Virgilio mio, non disperiamo; ma supplichiamo l'Eterno onde
voglia ispirare sensi più mansueti per noi nella mente del
nostro genitore.
- O Beatrice! E pensi tu, che io non lo abbia supplicato? Oh
quante volte l'ho fatto! La notte precedente al giorno in cui
Francesco Cènci respingendomi da se mi ruppe la testa, io
mi levai cheto da letto in camicia, scalzo, e me ne andai
giù in cappella; dove, inginocchiato davanti la reliquia di
santo Felice protettore della nostra famiglia, supplicai con tutto
il fervore perchè l'anima del padre ammollisse, e lo
persuadesse a ricambiare con un poco di amore lo svisceratissimo
bene che gli portavamo noi. Vedi eh! come mi esaudirono i santi!
E trattenendosi alquanto sopra di se, poco dopo riprese:
- Ma un'altra preghiera conosco avermi esaudito Dio, e fu quando
mi rilevai da letto, e per la seconda volta andai a prostrarmi
davanti al Crocifisso miracoloso, e: Abbi misericordia, dissi, o
divino Redentore, di me, e tu o mi dona lo affetto del padre, o
richiamami alla tua pace. A queste parole Gesù piegò
il capo, come per rispondermi: Sarai esaudito...
- Ci esaudirà tutti, inspirando benignità nel cuore
del padre...
- Io so di certo che fu esaudita la seconda parte della preghiera,
e non la prima; imperciocchè, quando mi ricondussi a
giacere, una voce distinta mi chiamò: «Virgilio!
Virgilio!» Mi alzai, apersi la porta, e non vidi persona;
tornai a coricarmi, e la voce di nuovo gridò:
«Virgilio! Virgilio!» Per questa volta io non mi era
ingannato di certo, e risposi: «chi mi chiama?» E la
voce: «Io ti chiamo dal paradiso». Eccomi pronto, mio
Dio»; ma la voce: «No, la tua ora non è venuta
ancora, ma si avvicina».
- Coteste sono immaginazioni che dà la febbre; su, via, non
lasciarti rodere dalla tristezza; io ti voglio veder lieto...
- Perchè le chiami immaginazioni? Forse non si legge nella
santa scrittura, che il Signore fece sentire la sua voce a
Samuele? Anche ieri notte, tenendo gli occhi aperti, vidi a un
tratto empirsi la stanza di luce, ed entrare una bellissima
gentildonna vestita di celeste, tutta ingemmata, la quale
essendosi fatta accosto al letto si curvò, pose il suo
volto accanto al mio, mi baciò in fronte, e sparve: le sue
labbra erano ghiacciate, e il freddo mi strinse il cervello. Vuoi
sapere, Beatrice, a cui rassomigliava la gentildonna? -
Rassomigliava al ritratto della signora Madre, che sta appeso in
sala grande. Tutto mi parla di morte. Forse non sento che io manco
a poco a poco, come candela giunta al verde? La vita mi fugge da
tutti i pori. Guarda queste mani scarne, e bianche al pari del
marmo; guarda queste unghie colore di viola; guardami qui in mezzo
della fronte, e vedi il segno espresso ove ha deposto il suo bacio
la morte.
E più non potè dire.
Un uccello in questo momento venne a riposare le stanche ale sopra
il parapetto della terrazza: volgeva il capo in qua e in
là, come sospettoso d'incontrare molestia; ma presto
assicurato, si pose a saltellare - a beccare; finalmente parve
fissasse il fanciullo; poi sciolse un dolcissimo canto, aperse le
penne, e fuggi via.
- Oh, esclamava Virgilio, potess'io seguitarlo! Forse, chi sa!,
egli conosce suo padre, e sua madre dall'aperta frasca tende lo
sguardo ansiosa del suo ritorno. O madre mia! Beatrice, dimmi,
dov'è nostra madre adesso?...
- Nostra madre? - È lassù in paradiso.
- Lo so, la sua anima alberga nella patria dei giusti; ma io
vorrei conoscere in qual parte riposino le sue ossa. Sapresti tu
indicarmelo, Beatrice? Il Conte Cènci non volle permettere
mai, che mi conducessero a visitare il sepolcro di nostra madre...
Beatrice, studiando deviare il doloroso colloquio in obbietti
alquanto meno tristi, si levò pronta per appagare il
desiderio del fanciullo; e, postolo a sedere sul parapetto della
terrazza, si prostese fuori col busto.
Il pianeta del giorno stava per tramontare, e mandava i mesti
raggi dello addio a questa terra, che, sebbene infelice, gli
è sì cara. Ogni digradare della luce presentava una
nuova maraviglia: colori soavemente più languidi, come lo
spirare dei suoni per la superficie delle acque. Le vette dei
campanili, le cime dei monti, le nuvole lontane pareva si
affaticassero a ritenere un palpito di raggio, in quella guisa
stessa che i cari parenti, da balcone da loggia o da colle,
sventolano al pellegrino che si allontana un panno bianco,
finchè la sua forma non si confonda con la bruma della
sera... Oh Dio! Egli è presso a sparire; gli occhi della
madre, offuscati dalle lacrime, non lo distinguono più;
ella se gli asciuga col velo per rimirarlo ancora: - adesso ella
li tende più alacri che mai... ahimè! il suo
figliuolo è sparito: - quando lo rivedrà? Voci
misteriose mormoravano pel cielo e per la terra: dalle piante e
dalle acque uscivano sussurri di gemiti segreti, eco di quelli che
si diffusero lungo le marine alla morte di Cristo, e piangevano:
Il gran Pane è morto!()
Questa terra, anticamente mesta e vocale più di ogni altra,
rivela il dolore del mondo al dileguarsi del sole. Nati gemelli
nel giorno della creazione, essi spireranno insieme.
Comecchè la terra sappia che il sole tornerà domane
a portarle luce e calore, pure ella conosce ugualmente, che i
giorni dalla mano del tempo cadono irrevocabili nello abisso della
Eternità. Molto certamente hanno vissuto insieme prima che
l'uomo nascesse, e molto vivranno ancora dopo che la nostra razza
sarà scomparsa; passeranno secoli e secoli, avanti che si
rompano sfasciati a rovinare in corsa disordinata per le miriadi
dei mondi superstiti; ma ogni secolo come ogni minuto si
avvicinano al punto, dove il Creatore per ogni cosa creata ha
scritto: basta. Se l'uomo pensasse che questi eccelsi luminari,
che queste belle luci di amore, portento delle notti serene, hanno
a chiudere le palpebre nella morte; che tutto, anche le rocce di
granito, ossatura della terra, ha da sformarsi... Se l'uomo, dico,
a queste cose pensasse... atomo infelice balestrato dall'utero
della donna nel seno della morte, tormenterebbe egli per essere
tormentato? - O grano di sabbia maligno! tu ardisci perfino
avventarti dentro gli occhi di Dio, e farli lacrimare di
spasimo... -
Ma intanto questa bella e magnifica natura non può rimanere
lungamente desolata; ed ecco non per anche il sole è
scomparso da una parte dello emisfero, che dall'altra si affaccia
la luna. - Benvenuta, amica delle anime afflitte; benvenuta,
compagna dei nostri trionfi: anche vestiti della tua luce si
mostrano maestosi alle genti il Campidoglio e il Colosseo; anche
al lume dei tuoi raggi negli archi di Tito, di Costantino, di
Severo, e nella colonna Trajana si vedono le immagini dei popoli
vinti. Ahimè! Luna, che percorri frettolosa il cielo di
Roma, tu non vedrai più nemici vinti, se non iscolpiti
sopra i monumenti degli antichissimi capitani.
Nella notte, al chiarore di questa luna, quando Roma dorme
più profondo il sonno dal quale sarebbe misericordia che
non si destasse mai più, le larve dei famosi capitani
scoperchiano le vetuste sepolture, e vengono silenziose a visitare
la terra donde dettarono leggi ai re del mondo; la rupe, che
seppero difendere; il luogo dove Cammillo vide la spada di Brenno
gittata su la bilancia per aggravare il peso della nostra
vergogna...: la vide, ma nessuno dei barbari passò i monti
a raccontarlo alla sua moglie. All'alba si dileguano perchè
odiano la vista dei viventi, e aborrono esser vedute piangere! -
È fama che sul fare del giorno, quando i morti rientrano
nelle antiche sepolture, si spanda lungo pei campi un gemito, che
lamenta così: «Grande fu la gloria, ma l'abiezione
è senza misura maggiore; e tu, o Re del mondo, e fino a
quando?..»
La miseria di Roma vince la desolazione dei sepolcri. Beati i
morti! Perchè ti chiami Città eterna? - Oh!
rammenta, che ai tempi della tua antica religione tu credevi
eterno anche il marito dell'Aurora. - Eterno, ma caduco, Titone
venne in tanto odio di se, che reputò grazia somma dei Numi
essere convertito nello stridulo animale, fastidio dei giorni di
estate: fu un lieto giorno per lui quando potè scambiare la
sua miserabile eternità con la vita di una cicala.
Perchè ti chiamano Città eterna? - La religione, a
cui tu credi adesso, t'insegna come vestirono Cristo con le
insegne reali per vituperarlo più crudelmente. Dio nel suo
furore sembra ti abbia condannato, pur troppo, ad una
eternità... ma è quella del pianto.
Beatrice prostese il busto fuori del parapetto dicendo:
- Là, là oltre cotesti colli avvi una terra feconda,
che la Madre nostra portò in dote a Francesco Cènci:
ivi è una chiesa dedicata ai santi apostoli Pietro e Paolo.
In cotesta chiesa, dentro un sepolcro di marmo - a mano diritta di
coloro che entrano - lungo la parete giacciono le ossa della
nostra madre benedetta.
E mentre, levato il braccio, additava il luogo acconsentendo con
tutta la persona all'atto, fortuna volle che dal seno le uscisse
una lettera e un medaglione, e cadessero giù nel giardino.
- Oh Dio, il mio segreto! urlò la giovane con grido
straziante, divampando in volto per la vergogna.
Francesco Cènci, appiattato dietro un bosco di lauri, da
gran tempo stavasi a contemplare coteste due creature fisso
così, che pareva volesse avvelenarle col guardo. Appena
egli ebbe visto cadere il foglio e il medaglione, si mosse
frettoloso per prenderli; non tanto presto però quanto lo
spronava il desiderio, che la gamba offesa gli arrecava
impedimento. Beatrice lo scòrse costernata, e con suprema
smania ripetè due volte:
- Il mio segreto! il mio segreto! La mia vita a chi mi salva il
segreto!
Il fanciullo guardò lei, fattasi in volto del colore della
morte, - e guardò il vecchio; - quindi risoluto, e pieno di
ardimento, con disperato sforzo attaccandosi alle bozze sporgenti
della terrazza, discese nel giardino, e pronto come il baleno ebbe
ricuperato il foglio ed il ritratto.
- Vieni qua, urlava il vecchio rabbioso... vieni qua... portami
cotesta roba...
E poichè Virgilio, fingendo non lo sentire, prendeva la via
per tornarsene difilato a casa, il Conte imbestiando nel suo
furore muggiva:
- Vipera maladetta! Portami il foglio... e tosto... Se ti
raggiungo, ti strappo il cuore con le mie proprie mani.
Il fanciullo più, e più sempre affrettava il passo.
Francesco, cieco d'ira,
- Nerone! - grida - Qua, Nerone... su... addosso... - e con
ambedue le mani aizza il cane contro il figliuolo - addosso...
addosso...
Il cane si slancia furiosamente, invano però; chè
Virgilio quantunque avesse già percorso buon tratto di via,
pure, sembrandogli sentirsi le zanne del mastino nelle vive carni,
aveva messo le ali alle piante: - non fuggiva, volava. Salì
i gradini a due a due; e con terribile anelito, estenuato di
forze, giacque sul pavimento, depositando ai piedi di Beatrice la
lettera e il ritratto. La fanciulla l'una e l'altro ripose
precipitosa nel seno.
Poco dopo ecco il cane irrompere sopra la terrazza latrando: aveva
gli occhi di brace: esalava il fiato fumoso. Beatrice, improvvida
a qual partito appigliarsi, volge attorno lo sguardo, e scorge
dentro una nicchia un trofeo di armi antiche posto ad ornamento
della loggia: afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente
fratello. Il mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per
isbranarlo: la fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un
colpo così potente, che penetrandogli il petto gli fende il
cuore. Il cane si rotola nel proprio sangue, e traendo doloroso
guaito spirò.
Sovrasta nuovo pericolo, e più grave. Francesco
Cènci sopraggiunge tempestando, con lo stile alla mano:
balbuziente per furore, egli grida:
- Dov'è la mala vipera? Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato
Nerone?... Chi?
- Io. -
- Ebbene; anche tu... ma no, prima la vipera. -
E si china sul figliuolo per iscannarlo. Beatrice solleva la spada
insanguinata, e, puntatala contro il petto di Francesco
Cènci, con espressione impossibile a riferirsi dice:
- Padre... non ti accostare...
- Scellerata! Da parte; dico, - e si provava di arrivare il
giacente.
Beatrice con voce tremendamente pacata ripetè:
- Padre, non ti accostare!
A cotesto suono, che conteneva a un punto una suprema preghiera ed
una suprema minaccia, Francesco Cènci si ristette a
contemplarla.
Dov'è la vergine dal dolce sembiante? Gli occhi di
Beatrice, dilatati in guisa strana, pare che avventino fiamme: le
narici aperte sussultano: le labbra compresse, il seno palpitante,
i capelli sciolti le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra
ferma, e tesa in avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso,
e la destra accosto al fianco armata di spada con la punta in
alto, in atto di ferire. Nè pittore mai nè scultore
varrebbero ad effigiare cotesto portentoso simulacro, nè la
parola lo può. La fanciulla appariva tale, da non
sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada,
che difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe
dir niente; perchè come fosse quel cherubino noi non
sappiamo: ella era quale si mostra anche oggi la vergine romana,
quando rammenta che nasce del sangue di Clelia. Francesco
Cènci ne rimase percosso; si pose estatico a contemplarla,
lasciò calare la mano armata, gittò via lo stile;
sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa
gittò lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di
lei le braccia aperte, esclamando teneramente:
- Sei pur bella fanciulla!... Oh! perchè non mi ami?...
- Io? - Vi amerò... e gli si avventò al collo.
Il padre e la figlia si strinsero in religioso abbracciamento.
Ma il bene durava nell'empio vecchio quanto un baleno. Egli
provava per un sentimento di umanità la paura stessa, che
altri proverebbe per un rimorso. A un tratto ecco apparire i segni
del parossismo del delitto: gli si corrugano gli occhi, le
palpebre tremano di quel riso sinistro che faceva abbrividire; le
palpa i capelli, il collo le stazzona e le spalle; baciolla e
ribaciolla, e nello accostare la bocca al suo orecchio vi
sussurrò dentro una parola...
Beatrice declina la faccia livida; si scioglie dallo amplesso del
padre, si reca in collo il fratello giacente, e nel partirsi manda
contro Francesco Cènci uno sguardo lungo - un fulmine di
disprezzo - ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a
colui, che non temeva uomini, nè Dio.
Egli rimase lungamente immobile, chiuso dentro un profondo
pensiero: colà nel suo spirito prese a imperversare una
tremenda procella. Ma la voce del male vinceva il muggito
dell'uragano; la voce del bene disperata era, e fuggitiva come
quella del naufrago. Quali pensieri gli si avvolsero nella mente?
Di che cosa dubitò? Che cosa statuì? Chi lo sa!
Forse lo stesso Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo
inferno dell'anima di Francesco Cènci, avrebbe volto
altrove impaurito la faccia. Però è da credersi, che
in cotesta vertigine di maligni partiti egli si appigliasse al
peggiore; conciosiachè battendosi forte della palma destra
la fronte, digrignasse fra i denti:
«Or come va? Io, che presumerei comandare al giorno quando
si affaccia all'orizzonte: «addietro! splenderai quando te
ne darò licenza...» ecco io mi sento arrestare in
mezzo del mio cammino da meno, che da un filo di paglia, dalla
volontà di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il vetro
potrà egli resistere, sotto al martello del fabbro? Tutto
ha piegato fin qui nella stretta della mia mano di ferro; e tu
pure piegherai - o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa.
CAPITOLO VII.
LA CHIESA DI SAN TOMMASO.
.....E Belzebub in mezzo.
Petrarca, Sonetti.
«Tanto egli odiava questi suoi figliuoli, che aveva
fatto nel cortile del suo palazzo una chiesa dedicata
a san Tommaso, col solo pensiero di seppellirveli
tutti».
Novaes, Storia.
La chiesa di san Tommaso dei Cènci, comecchè in
parte mutata da quello che era, sta tuttavia. Lo dicono monumento
vetustissimo, e già ebbe nome: De Fraternitate, ed anche in
Capite Molae, o Molarum. Questa notizia ricavasi dal diploma di
papa Urbano III ai Canonici di san Lorenzo in Damaso. La
chiamarono poi in Capite Molarum come quella che sorgeva prossima
al molino della Regola, là dove il Tevere rimase interrato
fino dal 1775; e De Fraternitate, ed anche Romanae fraternitatis
caput, forse perchè quivi fondarono la prima confraternita
donde trassero in successo di tempo esempio e titolo le altre
confraternite di Roma. Narra la fama, che il Cincio, vescovo di
Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la concedeva
in giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di
restaurarla; cosa che, per essere soprappreso dalla morte, egli
non potè adempire; laonde Pio IV nel 1565 spedì
nuovamente la Bolla d'investitura a favore di Francesco
Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il medesimo
carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la seguente
iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:
Franciscus Cincius Christophori filìus
Et Ecclesiae patronus, Templam hoc
Rebus ad divinum cultum et ornatum
Necessariis ad perpetuam
Rei memoriam exornari ac perfici
Curavit. Anno Jubilei 1575().
Quel marmo attestava a chiunque passasse quale, e quanta fosse la
pietà di Francesco Conte dei Cènci! - Cosi quasi
sempre riscontriamo sinceri gli epitaffi, le iscrizioni, le
gazzette officiali, e le orazioni funebri dei cappellani di Corte.
La chiesa ha forma, a un dipresso, quadrata. Condotta di un
miscuglio di ordine dorico, presenta cotesta sconcia depravazione
dell'arte, che gli artisti costumano significare col nome di
barocco. Contiene cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove
anche nei giorni che corrono possiamo osservare l'arme dei
Cènci, che fa per impresa campo squartato di bianco e di
rosso, con tre lune rosse in campo bianco, e tre lune bianche in
campo rosso.
All'altare maggiore si vede un quadro dipinto a olio della maniera
del secolo sesto, o di poco anteriore: è di buona scuola, e
rappresenta san Tommaso che tocca la piaga a Gesù. A
sinistra dello altare stesso venerano un Crocifisso dipinto, opera
del secolo decimo secondo, e a questo alludeva Virgilio nel suo
colloquio con Beatrice.
Intorno a lui raccontami mirabilissime cose. Certo manoscritto
antico conservato una volta, e forse anche adesso, nel Campidoglio
(non però commesso alla custodia delle oche che salvarono
la rupe Tarpeia), firmato da Giacomo Cènci, dichiara come
il padre Guardiano in Araceli donasse la prefata devota immagine
al medesimo Giacomo, e con giuramento gli affermasse avere davanti
a quella più e più volte fatta orazione san Gregorio
Magno: nè il buon padre Guardiano si fermava qui; che,
proseguendo nella narrazione, attestavagli, cotesto Cristo avere
usanza tratto tratto operare miracoli. Se anche di presente la
immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia trasferita in
altre, come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che
apre e chiude gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un
punto e ride(), io non saprei accertare per ora; ma quando prima
sarò, se piace a Dio, liberato dal carcere, mi propongo
raccogliere più ampie notizie, e ragguagliarne i miei
devoti lettori. Quello però che conosco di certo si
è, che il Cristo di san Gregorio Magno per tutto il tempo
che durò la vita di Giacomo Cènci si ostinò a
non fare miracoli; ed ecco come andò la faccenda.
Fra Brancazio, (tale era il nome del Guardiano di Araceli) senza
che faccia nemmeno mestieri dichiararlo, non donava mica il Cristo
per nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: primo, che
restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi
Padri Francescani in Araceli, il che fu adempito; secondo a
rifornire la sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti,
roccetti e simili altri arredi, ed anche questo fu fatto; terzo a
fondare una messa quotidiana perpetua all'altare di san Francesco
con la elemosina di un ducato, ed anche la messa quotidiana fu
fondata: e così i dabbene Padri, avendo trovato il terreno
morvido, presero ad avviarsi alla casa di Giacomo spessi ed
oscuri, simili in tutto alla schiera delle formiche quando
s'imbattono in un mucchio di grano lasciato su l'aia, e non
rifinivano mai di cavargli di sotto ora questo, ed ora quell'altro
benefizio: dandogli ad intendere, che per quanto ei donasse,
già non presumesse risarcire il Convento per la perdita
inestimabile del Crocifisso, davanti al quale aveva pregato san
Gregorio Magno; imperciocchè, senza contare il pregio del
dipinto, ch'era pure d'illustre magistero, gl'infiniti miracoli
che soleva operare procacciavano elemosine abbondantissime, e
reputazione di santità al luogo e a chi l'abitava non meno
proficua. Messere Giacomo Cènci, con tutto che santissimo
uomo si fosse, preso nonostante da stizza per la pretesa
improntitudine, certo giorno gli disse: «Padre Brancazio,
che il Crocifisso di san Gregorio Magno alle sue mani abbia
operato miracoli, sarà: lo dice lei, e non ho motivo per
dubitarne; però dopo ch'è entrato nella mia cappella
le posso giurare da gentiluomo di onore, che non ne ha fatti
più». E il Frate, voltandogli bruscamente le spalle,
gli rispose: «Mi rincresce dirglielo, spettabile signor
Conte; ma questo è segno, che nè lei nè la
sua casa sono degni di ricevere queste grazie.» E
così messer Giacomo rimase saldato da fra Brancazio.
Di reliquie poi cotesta chiesa non pativa difetto, e tutti questi
tesori ecclesiastici si conservavano dentro un'urna di marmo posta
sotto l'altare maggiore. Lascio dei Santi di seconda
qualità, chè troppo ci vorrebbe a favellare di
tutti, e ricorderò soltanto la piegatura del collo di san
Felice dove venne trafitto da un colpo di lancia in Calamina, ora
detta Madapor, ed anche Città di san Tommaso, nella India:
de pandone circa collum eius in percussione ipsius, come ne fa
fede la iscrizione posta sopra la porta minore della medesima
chiesa. Ma vedete dove quel benedetto Santo girava per cercare la
morte, mentre questa è sicuro che sarebbe andata a trovarlo
anche standosene quieto e tranquillo a casa sua!()
Chiedo licenza ai miei lettori (i quali so che non me la
negheranno) di passare sotto silenzio le altre cappelle; molto
più che, gli assicuro io, non meritano speciale menzione.
Non pertanto piacemi ricordare come la chiesa e le case dei
Cènci fossero erette sopra le rovine del Teatro Balbo...
Una chiesa sopra un teatro! I secoli trapassano come i vetri
dipinti della lanterna magica; il mondo è la parete dove si
riflettono le immagini loro, e nel continuo passaggio le cose
più strane si succedono senza dar tempo a compire un
pianto, o un riso. Noi fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri
padri; le generazioni future s'impazientano di fabbricare su
quelli di noi. Cenere sopra cenere; e l'universo si allarga e si
feconda per queste incessanti alluvioni della morte. Dove gli
umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano; forse vi
decapiteranno domani, domani l'altro danzeranno. La Fortuna,
gittata via la benda, all'antica follia aggiunse la ebbrezza
nuova; e, fatta Menade, percuote orribilmente un suo crotalo
infernale, eccitando al ballo tondo Grazie, Furie, Satiri e Muse.
Marte balla anch'egli; Nemesi co' flagelli di vipere batte la
misura. E l'uomo presume mettere il chiodo a questa ruota, che
affatica il cielo e la terra? Ah! ella è pretensione
cotesta da far morire di riso lo stesso dio del Riso, il vecchio
Momo.
Assicurano taluni, che quando la fede rimane vedova convoli
facilmente a seconde nozze; e dicono ancora, che abbia dato il
medesimo anello a parecchi mariti. Io per me mi astengo da simili
argomenti, che putono di abbrustolito... per fuoco infernale di
certissimo, e per fiamme di Santo Offizio non lo sappiamo per ora
di certo, ma in breve lo sperano. Intanto i reverendi Padri
Gesuiti s'insinuano piamente fra i Popoli ad apparecchiare i
fornelli. - Quello, che a me pare poter dire, senza pericolo della
salvazione dell'anima nell'altra vita e del Regio Procuratore in
questa (però che si tratti di pretta storia) si è,
che parecchi dei nuovi Numi s'introdussero nel tempio degli
antichi; nè più nè meno come gli Austriaci,
col biglietto di alloggio, in casa dei buoni borghesi toscani.
Veteres migrate coloni! Molti altri inquilini dell'Olimpo di Giove
migrarono con armi e bagaglio nel Paradiso di Santa Madre Chiesa;
e, offrendo esempio da imitarsi agli uomini politici dei nostri
tempi, voltato mantello continuarono a deliziarsi nel profumo
delle adorazioni(). Anche su i riti accaddero, più che non
si crede, transazioni, e per opera degli stessi Pontefici.
Nè in ciò sembra che meritino punto biasimo,
perchè, i più astuti scrittori affermano pericoloso
stravincere, e doversi accettare qualunque accomodamento: basta
che si assicuri un guadagno (pei Numi, bene inteso); però
che, in quanto ai Sacerdoti, se ne stieno contenti a quello che
loro invia la Provvidenza: e questo sanno tutti, insegnandolo il
Vangelo di Cristo... Svergognati! Quando mai fu fatta penuria di
moneta spirituale per acquistare beni temporali? Lo spirito,
predicato più nobile della materia, in diritto le ha sempre
ceduto nel fatto. La Chiesa, donna e madonna del Paradiso celeste,
si accinse a cercare anche il terrestre. La investigazione non
sembrava difficile. solo che avesse badato e perlustrare il paese
che giace tra i fiumi Pisone, Ghilone, Hiddechel, e l'Eufrate();
ma non le venne fatto, o non potè trovarlo. Allora si mise
con maggior profitto a cercarlo fra le spoglie di guerra dei
Franchi e dei Normanni, o nelle transazioni tra l'Inferno (di cui
è procuratrice del pari, o per lo meno ne tratta i negozii
senza mandato) e il rimorso e la paura dei peccatori,
perchè coll'oro si fanno anche arrivare l'anime in
paradiso, come affermava Cristofano Colombo scrivendo a Ferdinando
e ad Isabella cattolicissimi regnanti(); e così dicendo non
iscuopriva l'America. Affermano eziandio, che la Chiesa per
mettersi in possesso del Paradiso terrestre si avvantaggiasse a
fabbricare carte false; ma queste sono cose che non si devono
credere: almeno io non le credo. Nel mille predicavano i Chierici
la fine del mondo, e nonostante ciò facevansi instituire
eredi. I beni terreni di cui dovevano astenersi, tanto,
all'opposto, piacquero loro, che pretesero ritenerli anche dopo la
fine del mondo! Considerata a dovere questa clericale
improntitudine, farà meno maraviglia l'avaro Ermocrate, che
instituì erede se stesso.
Qui dentro, e mi si può credere, non vi sono biblioteche
per comporre dotti discorsi; ed anche libri vi fossero, io non ho
avuto tempo per leggerli: pure ricordo che in Roma, il tempio che
fu di Vesta la Dea del fuoco, oggi è consacrato alla
Madonna del sole; quello di Remo e Romolo gemelli, ai santi Cosimo
e Damiano gemelli; l'altro della Salute, a Santo Vitale: su l'orlo
del lago Numicio, dov'è fama che si precipitasse la sorella
di Didone Anna Perenna, adesso si venera la cappella di santa Anna
Petronilla: ed oggi ancora, a Messina nel giorno dell'Assunzione,
come la Cerere sicula andava in traccia della sua figlia
Proserpina rapita da Pluto, la Madonna, tratta in processione, va
per le strade cercando il suo divino figliuolo: quando poi, dopo
un lungo errare, le mostrano la immagine del Salvatore, ella
trema, storna, e dodici uccelletti proromponle dal seno spandendo
pel cielo la esultanza del suo cuore materno. Nel foro Boario,
presso l'ara massima dove i Romani pronunziavano il giuramento
solenne, ora sorge la chiesa di santa Maria Rocca della
verità. Il Panteon è diventato Santa Maria della
Minerva. Qui fra noi, San Giovanni era il tempio di Marte: la
Cattedrale di Pisa, il palazzo di Adriano fabbricato di ruderi di
case e di tempii. Uno dei pilastri della parete esterna da
mezzogiorno notai composto in parte d'un architrave di granito col
nome di Cerere Eleusina. Del monte Soracte hanno fatto il monte
Santo Oreste, e a canto la cassa di Santo Ranieri ho veduto una
statua di Marte convertita in San Potito (il quale, insieme a
Santo Efeso, fu solennissimo operatore di miracoli) con la lieve
variante di torle dalla destra la spada, e sostituirvi un libro. I
Gesuiti nell'Indie consentivano l'adorazione degl'Idoli si
continuasse; solo a piè dei mostri ponessero o crocellina,
o cuore di Gesù, o altro segno della religione nostra; anzi
nella China giunsero perfino a velare la immagine di Cristo
confitto in croce, per paura che i popoli si scandalizzassero di
un Dio morto coll'ultimo supplizio: e Gregorio VII manda lettera a
Santo Agostino apostolo della Brittania, con la quale lo conforta
a sopportare i sagrificii di vittime co' riti pagani per
acquistare a mano a mano terreno(). Gesù Cristo
predicò non potersi servire a Dio ed a Mammone, e
cacciò via risoluto i profanatori dal tempio. I suoi
vicarii hanno proceduto più blandamente; bene o male
abbiano fatto, ne renderanno conto al Mandante. A me basta aver
detto la verità quando affermai, che i Chierici andarono
corrivi anche troppo per acquistare impero... Ahi tristo aere del
carcere! non mancherebbe altro, ch'ei mi facesse diventare
teologo. Io mi affretto a tornare più che di passo alla
storia, lasciando molte cose per via che furono dette, e che sono
state dimenticate con iscandalo di tutti i professori del
progresso umano.
La cappella di san Tommaso dei Cènci nel giorno dieci di
agosto compariva parata a lutto: lungo le pareti pendevano lugubri
gramaglie: da per tutto si vedevano ghirlande di fiori intrecciate
con rami di cipresso: sette sepolcri di marmo nero scoperchiati
aspettavano i morti, a guisa di bocche co' labbri aperti ansiose
di bevanda: avevano tutti una iscrizione medesima, ed era questa:
Mors parata, vita contempta().
E più oltre un ottavo sepolcro sopra gli altri cospicuo, di
marmo bianco finissimo, con quest'altra iscrizione:
Si charitem, caritatemque quaeris
Hinc intus jacent
Non ingratus haerus
Neroni cani benemerentissimo
Franciscus de Cinciis hoc titulum
Ponere curavit.....().
In mezzo alla chiesa stava collocata una bara coperta di velluto
chermisino ricamato di oro, cosparsa anch'essa di freschi fiori.
Intorno alla bara ardevano sei ceri sopra candelabri d'argento
lavorati con artifizio mirabile.
Un coro di preti, parati di pianete e di dalmatiche di damasco
nero, aspettavano un morto per recitargli le ricche esequie.
Nè stette guari, che si fecero sentire passi misurati; e
poco dopo, alzata la tenda della porta laterale, comparve una
barella portata da due uomini e da due donne.
Giacomo e Bernardino Cènci tenevano le stanghe davanti, le
posteriori Lucrezia Petroni e Beatrice.
Il morto era Virgilio. Dio aveva accolto la seconda parte della
preghiera dello sventurato fanciullo: egli dormiva nella sua pace.
Seguivano alcuni servi di casa vestiti magnificamente a lutto, con
torcie accese. Non senza dolore misto a maraviglia poteva
osservarsi, come le vesti dei famigli fossero troppo meglio in
punto, che quelle di Giacomo e di Bernardino: segnatamente di
Giacomo, squallido così, da disgradarne il più
povero gentiluomo di Roma. Scarmigliati aveva i capelli, lunga la
barba, le maniche e il colletto luridissimi: portava bassa la
faccia umiliata, la fronte aveva rugosa, le guance pallide e
macilenti: dagli occhi accesi versava lacrime amare, e gli si
vedeva il palpito del cuore di sopra il farsetto. Dal suo volto
tralucevano due passioni contrarie: pietà, e rabbia male
repressa. Bernardino anch'egli piangeva. ma così per
imitazione, piuttosto che per impulso spontaneo;
imperciocchè se non era diventato affatto stupido di cuore,
la sua mente era ottenebrata dalla paura del padre, e dalla
ignoranza di tutte le cose, nella quale costui compiacevasi
conservarlo. Lucrezia, quantunque matrigna si fosse, lasciava
l'adito al pianto: - però, essendo piuttosto pinzochera che
devota, si rassegnava facilmente e presto; togliendosi le sciagure
in pazienza, e attribuendo al santo volere di Dio ogni evento
così buono come tristo della vita. Io per me lodo la
costanza, ch'è quasi zavorra, la quale fa stare in
equilibrio la nave nelle procelle della vita; credo ancora io, che
delle cose che avvengono in giornata molte dovessero per
necessità succedere: ma quando le idee religiose si
adoprano a insugherire il cuore, allora cotesta
insensibilità non è virtù; si rassomiglia
troppo al vestibolo della morte: l'uomo, finchè vivo, ha da
vivere con le sue passioni. Io so che alcuni chiamano le passioni
venti contrarii alla vita serena, e jene e lioni e simili altri
animali ruggenti, e cercanti cui si abbiano a divorare. Marco
Antonio per le vie d'Alessandria fu visto seduto su di un carro
tratto da lioni. Se le similitudini addotte sieno acconce, o no,
poco importa conoscere; di questo si persuada la gente, che se
l'uomo può domare le belve, e governare la procella, molto
più potrà le passioni; egli ha da reggere, non
lasciarsi impietrire.
Francesco Cènci condusse in moglie cotesta femmina appunto
perchè gliela dissero tenerissima della religione, e
perchè certa volta, avendo ella udito favellare della
empietà di lui, aveva esclamato: «Signore! io terrei
piuttosto maritarmi col diavolo, che col Conte Cènci(). -
Egli allora le si pose dintorno; finse costumi esemplari;
frequentò chiese, imparò a piegare il collo, e a
levare in molto commuovente maniera gli occhi e le mani al cielo:
sopra tutto si mostrò largo donatore ai preti, degni
guardaportoni del paradiso. Sapeva raccontare leggende dei Santi,
discuteva della gratia gratis data, e della forma e della sostanza
dei sacramenti meglio del Definitore sinodale dei Padri
Francescani. La donna incominciò a credere lo avessero
calunniato. In ogni caso, o non poteva essersi convertito? Non
poteva avere la Beata Vergine impartito a lei la virtù di
strappare cotesta anima dagli artigli del demonio? Oh! è
così dolce, così altera cosa per donna devota
guadagnare un'anima in contrasto col demonio, che, parlando
generalmente, le femmine pie davvero non si contentano della prima
conversione, che con lodevole zelo si affaticano per la seconda, e
questa diventa impulso alla terza; e se durasse in loro la potenza
come la volontà, non è da dubitarsi che
sagrificherebbero la vita intera in opera tanto meritoria(). Tra
per queste ragioni e i conforti dei parenti, le ricchezze grandi e
la nobiltà di casa Cènci, la donna condiscese ad
accettare il Conte Francesco per suo secondo marito.
Appena il Conte ebbe menato a casa Lucrezia, come per ischerzo, le
disse: «Voi volevate maritarvi col demonio piuttosto che con
me: io vi ho presa per provarvi che avevate ragione»; - e le
tenne parola.
Ogni giorno le si poneva accanto su lo inginocchiatoio; e mentre
ella recitava responsorii e rosarii, egli cantava versi osceni, od
empii: ella sfogliava un libro di orazioni, ed egli le incisioni
turpissime di Marcantonio Raimondi commentate da Pietro Aretino:
si studiò sovvertire in lei ogni idea di religione e di
morale, a empirle l'anima di dubbio e di paure; ma Lucrezia di
coteste diavolerie non intendeva niente, e spesso non vi attendeva
nemmeno. Talora, quando il tristo marito stanco di favellare
taceva, incominciava ella, o riprendeva a recitare il rosario: per
la qual cosa avvenne che Francesco Cènci, invece di
aspreggiare altrui, se medesimo tormentasse; invece di spingerla
alla disperazione mordesse le sue labbra di rabbia, e stesse per
impazzare di furore. Riuscito invano questo partito, scelse altro
disegno. Prese a costringerla di ascoltare i suoi quotidiani
adulterii: nè ciò valendo punto a irritarla,
empì la casa di cortigiane; non si astenne da parole e da
atti capaci di offendere la sua dignità di donna e di
sposa; ma ella con inalterabile dolcezza gli diceva: «Dio vi
ravveda, e vi perdoni come io vi ho perdonato». Francesco
non trovava maniera di commuovere cotesta fredda, ed ineccitabile
natura. Spesso, acciecato dalla ira, ei la umiliò al
cospetto dei servi; la bistrattò, la percosse; le fece
patire penuria di vesti e di cibo; le fece portare in volto i
segni di furore, peggio che bestiale. Tempo perduto: tutto ella
soffriva con rassegnazione, tutto ella presentava al sacro cuore
di Gesù in isconto dei suoi peccati. Francesco, per non
darsi della testa nel muro, cessò di perseguitarla,
essendosi (cosa a dirsi incredibile) più presto stancato il
talento di tormentare in lui, che in lei la pazienza: ond'è
che reputandola stupida, la lasciò da parte come natura
morta, che non merita essere straziata nè blandita.
Beatrice sola non lacrimava; teneva gli occhi fitti sul morticino,
e immemore seguiva i passi altrui con moto macchinale.
Quando giunsero al catafalco Beatrice si recò lo estinto
fanciullo nelle braccia, ed ella fu che con le proprie mani ve lo
acconciò sopra, gli assestò i capelli, gli pose sul
petto il crocifisso, e il mazzetto delle viole; poi, remosso
alquanto uno dei candelabri, con la faccia declinata nel palmo
della destra appoggiò il gomito sul canto della bara,
tenendo sempre fisso lo sguardo sul morto.
Un famiglio puntava Beatrice con gli occhi come due lingue di
fiamma, e talora trasaliva: il famiglio era Marzio.
Oltre i quattro rammentati, nacquero a Francesco Cènci tre
altri figli; Cristofano e Felice, ch'egli mandò a studio in
Salamanca, e Olimpia. Questa fanciulla, che destra era molto ed
animosa, non potendo più reggere alle paterne persecuzioni
scrisse un memoriale, dove espose molto accomodatamente i carichi
del padre suo; e poi, nonostante il carcere domestico nel quale si
trovava ristretta, seppe così bene industriarsi, che lo
fece pervenire nelle mani di Sua Santità, supplicandola che
si degnasse collocarla in convento finchè non l'avesse
provveduta di onesto matrimonio. L'accorta fanciulla delle infamie
paterne rivelò le più credibili, e facili a
verificarsi; delle altre tacque, avvisandosi che l'enormezze
quanto più superano l'ordinario tanto meno si conciliano
fede: sicchè le inverosimili, quantunque vere, screditano
le verosimili; e pensò inoltre che un figlio, ricorrendo
contro il padre per propria salvezza, non deve oltrepassare i
termini del bisogno; imperciocchè, in questo caso, la
difesa troppo ardente degenerando in offesa manifesta, faccia
nascere il sospetto che l'accusatore sia condotto da odio
snaturato contro il suo sangue. Il Papa pertanto, ammirando la
moderazione della giovane, deliberò venire in soccorso di
lei; e, fattala trarre dalla casa paterna e mettere in convento,
non andò guari che la maritò col Conte Carlo
Gabbrielli gentiluomo onoratissimo di Gubbio, a cui il Papa
costrinse don Francesco Cènci sborsare conveniente dote. I
ricordi dei tempi narrano come il Cènci, furibondo per
questo successo, giunse perfino a promettere centomila scudi a
chiunque, viva o morta, la odiata figliuola nelle sue mani
riportasse: ma il Pontefice poteva troppo più di lui; ed
anche per questa volta egli ebbe a mordere il freno. Non si
potendo sfogare contro la fuggitiva, moltiplicò la rabbia
della persecuzione contro ai figliuoli rimasti in casa; e tanto
cotesto cordoglio gli cuoceva il riposto animo, che sovente, come
Augusto quando ebbe perduto le legioni di Varo(), fu visto
aggirarsi per le camere del suo palazzo; e battendo palma a palma,
od appoggiando la fronte febbricitante a qualche stipite,
esclamava:
- Ahi! Papa, Papa, rendimi Olimpia. Principi, Preti, e Padri hanno
a sostenersi ad ogni costo, e sempre, se vogliono mantenere
l'autorità nel mondo reverita e temuta...
I Sacerdoti celebrarono gli ufficii divini con la esattezza dei
nostri soldati quando fanno la carica in dodici tempi, e presso a
poco col medesimo entusiasmo. Beatrice a nulla badò, nulla
intese: solo quando il sacerdote asperse la bara di acqua
benedetta, uno spruzzo dalla fronte del morticino le
rimbalzò sopra la faccia. Rabbrividì, diventò
più cupa, poi sospirò queste parole:
- Accetto lo augurio!
- Morire... non tocca a voi...
Tali accenti percossero improvvisi le orecchie di Beatrice, come
se si fossero dipartiti dalla bara del morto: volse subito il
capo, ma non vide alcuno prossimo a lei. La calca dei famigli e
degli incappucciati si allontanò dalla chiesa seguitando i
sacerdoti; poi a mano a mano quella dei cristiani accorsi dal
vicinato. I Cènci rimasero soli col morto. Il popolo di
buone viscere piange facilmente alle sventure altrui; ma dura
poco, perchè le proprie gli consumano tutto il suo pianto,
e qualche volta non basta.
Stavano tutti genuflessi, riposando il corpo sopra le calcagna,
col capo dimesso, e le braccia, con le mani incrocicchiate,
pendenti giù lungo le cosce. Beatrice sola, che non aveva
lasciata un momento la pristina sua positura, scuote ad un tratto
la testa, guarda con occhi torvi quei miseri, e con gesto
imperioso esclama:
- A che piangete voi? Alzatevi! Sapete voi chi ci ha ucciso questo
fratello? Lo sapete voi? Voi lo sapete, sì; ma tremate di
pensarne perfino il nome dentro il vostro cervello. Quello, che
non ardite pensare nel vostro segreto voi, io lo rivelerò a
voce alta: lo ha ucciso suo padre... il padre nostro... Francesco
Cènci.
I prostrati non si mossero, ma raddoppiarono i singhiozzi.
- Levatevi su, vi comando; qui ci vuole altro, che pianto! Bisogna
provvedere alla nostra salute, e subito, se non vogliamo che
nostro padre ci ammazzi tutti.
- Pace, figliuola mia, pace; che è peccato lasciarsi
vincere dalla collera, rispose Lucrezia: vieni, inginocchiati
anche tu, e sottomettiti al santo volere di Dio.
- Che dite voi, signora Lucrezia? Credete servire Dio, e lo
bestemmiate. A sentirvi, Dio avrebbe creato l'acqua per annegarci,
il fuoco per arderci, il ferro per tagliarci? Dove avete letto che
il dovere dei padri sta nel tormentare i figliuoli, quello dei
figliuoli nel lasciarsi tormentare? - Dunque non vi è
limite, oltre il quale venga concesso di opporci? Qualunque
ribellione è illegittima? La natura ha segnato le
generazioni degli uomini col marchio in fronte: soffri, e taci? Vi
ha qualche cosa peggio del parricidio? Ditemelo, perchè io
conosco molte, ma per avventura non tutte le iniquità, che
si commettono sotto il sole. Tre cose io comprendo che non si
possono annoverare: le stelle nel firmamento, i pensieri maligni
nel cuore dell'uomo, e le angosce dei disperati...; forse sono
più... ditemelo. Signora Lucrezia, come amavate poco il
povero Virgilio!...
- Come! non l'amava io? Questo caro figliuolo mi era diletto come
se fosse nato di me.
- Davvero? Queste parole presto sono pronunziate, ma in fatto non
è così. Amore di madre non s'immagina. Se voi lo
aveste portato nelle viscere, se partorito con dolore, non
piangereste, ruggireste adesso. Ma qual maraviglia se la voce del
sangue non è più ascoltata dagli uomini, mentre non
la intende neanche il cielo? Il grido di Abele oggi non
arriverebbe più al cospetto del Vendicatore: perchè
questo? Forse l'Eterno infastidito si tura le orecchie, o il grido
del sangue si fece più fioco? - Ma se il cielo è
diventato di bronzo, il mio cuore si mantiene di carne, e geme e
freme e palpita come il cuore vergine di uno dei primi viventi...
E voi, Giacomo, che pure siete uomo, o non sentite voi nulla qui
dentro? - E la donzella si percosse il seno dal lato manco.
- O Beatrice, rispose una voce dal pavimento, e la profferiva
Giacomo Cènci, io non sono più quello di prima: la
parte migliore di me periva: io paio appena un'ombra, una memoria
di me medesimo. Guardami... ti pare egli questo il sembiante
d'uomo di venticinque anni? Che cosa posso io contro il destino?
Mi sono dibattuto, più che non pensi, dentro la catena
della necessità; l'ho morsa finchè non mi ha
stritolato i denti; tu la vedessi! Ella è affatto nera pel
mio sangue rappreso...
- Ma la mano trova un legno, ed ecco una leva capace a rovesciare
una torre; - trova anche un ferro, ed ecco un martello per
rompere, una spada per isgombrarci il cammino davanti; e poi
l'amicizia moltiplica i capi e le mani...
- La sventura, sorella mia, è come una notte di dicembre;
t'investe delle sue tenebre in guisa, che tu non vedi più
alcuno, nè alcuno vede più te.
- Alza la voce nel buio; la conosceranno almeno i parenti: ho
inteso dire che il peggior parente vale l'amico migliore.
- Vi sono sventure, come vi sono infermi a cui non vale
virtù di senno, nè virtù di farmaco. Io non
nego la pietà, la parentela, l'amore... io nulla nego; ma
tutto in mano al potente diventa arme atta a percuotere, e in mano
del debole diventa vetro per ferirlo. Contempla, sorella, quale e
quanta sia l'abiezione a cui mi trovo condotto. Io non ho vesti
per cuoprirmi; mi mancano perfino camicie: io non ho modo per
curare la mondizie del corpo, di cui il difetto tanto umilia il
gentiluomo. Ma questo sarebbe poco dolore se affliggesse me solo;
ho quattro figli, e spesso mi manca tanto da sostentarli, non che
d'altro, di pane. Dei due mila scudi annui, che il padre dovrebbe
pagarmi per decreto del Papa, appena, ed a stento, mi dà la
ottava parte; i frutti della dote di Luisa mi nega(); onde io
sovente, tornando a casa, trovo i miei figliuoli nudi, la madre
piangente, e tutti domandare del pane... Ah! che cosa posso darvi?
Prendete, mangiate le mie carni. Sì, per Dio, le mie carni!
egregio cibo, in verità, le mie carni estenuate dal
digiuno, e riarse dalla febbre! Fuggo da casa mia per sottrarmi a
cotesti gridi; ma la disperazione viene meco, e mi ricinge a mille
doppi la vita con le sue spire orribili di serpe, mentre i suoi
denti avvelenati mi mordono il cuore.
- Ma perchè non ricorriamo al Papa? Vi ricorse pure
Olimpia, e con ottimo successo?
- E non vi ricorsi io? Mi prostrai ai suoi piedi; bagnai il
pavimento di lacrime; pregai pei figli miei, per voi, ed anche per
me: gli esposi a parte a parte le paterne enormezze; non gli
nascosi nè anche le più riposte, e più
infami; lo supplicai, per quel Dio che presume rappresentare in
terra, a volerci prendere sollecito ed efficace riparo. L'austero
vecchio non si commosse, non battè ciglio; mi pareva
raccomandarmi alla statua di bronzo di san Pietro, di cui i piedi
sono logori dai baci; e sempre freddi. Mi ascoltò con
faccia di pietra; tenne ognor fitti nei miei gli occhi suoi grigi,
e pesi come di piombo; poi pronunziò lento queste parole,
che mi caddero su l'anima a modo di fiocchi di neve: «Guai
ai figli, che manifestano le vergogne paterne! Cam per questo fu
maledetto. Sem ed Jafet, che usarono reverenza al padre loro,
furono all'opposto dilatati, e le loro generazioni abitarono nei
tabernacoli di Canaan. Leggesti mai che Isacco mormorasse contro
Abramo? La figlia di Jefet si ritirò forse su i monti per
maledire suo padre? I padri rappresentano Dio in questo mondo. Se
tu avessi tenuto reverente la faccia inclinata per adorare, non
avresti veduto le colpe del tuo genitore, e non lo accuseresti: va
in pace». E così favellando mi dimise dal suo
cospetto. Ora tu lo vedi a prova: Olimpia adoperando gli argomenti
medesimi potè trovare la via della grazia nel cospetto del
Papa: io, invece, trovai quella della indifferenza, o dello
sdegno: qui dentro vi ha un destino, che vuole così. Che
cosa può l'uomo contro il destino?
- Può morire.
- Sì, eh! Ma tu non hai figli, Beatrice; tu non hai sposo,
come ho io sposa amante, ed amata. Se non fossi padre, chi sa da
quanto tempo avrebbero ripescato il mio cadavere ad Ostia; ma un
giorno o l'altro, pur troppo! vedo che cotesta sarà la
maniera di liberarmi da questa quotidiana, ed insopportabile
disperazione. Davvero mi sembra nuotare a ritroso alla corrente di
un fiume, e a mano a mano sento venirmi meno la lena alle braccia,
e i piedi farmisi ogni ora più pesi. - Oh! tu sapessi,
quando passo vicino al Tevere, come il fiotto dell'acqua, che si
rompe per le pigne del ponte, mi pare che dica: - quanto tardi! -
Ma certo in questo modo ha da finire... anche Beatrice me ne
conforta... un sepolcro di acqua!
Beatrice alle parole di Giacomo aveva mutato colore più
volte: una forza interna visibilmente la spingeva a parlare; pure
si trattenne finchè, riassunta una mesta
tranquillità, abbassò il capo, stese la mano verso
Giacomo, e favellò pacata:
- La empietà allaga la terra come il diluvio universale! -
Fratello, io ho profferito stolte parole... perdona, ed oblia.
- Ora sorgi... Chi troppo si curva alla terra, i suoi consigli si
risentono di fango... Vieni, e sii uomo. Io nell'impeto del mio
dolore diffidai della misericordia di Dio; egli mi ha perdonato,
perchè sento scendermi su l'anima la serenità,
foriera del buon consiglio...
- Tra l'altare e i sepolcri si congiura qui...?
Un brivido ricercò le ossa dei Cènci: volsero la
faccia spaventata, e videro il vecchio Conte, come se fosse uscito
fuori del pavimento, livido in volto, tutto abbigliato di nero,
col tòcco vermiglio in capo secondo che allora costumavano
i patrizii romani. La sembianza del fiero vecchio era quieta di
paurosa tranquillità; impenetrabile e sinistra come quella
della sfinge. Si restrinsero insieme, tacquero; non osarono levare
gli occhi, nella guisa che gli uccelli, tacendo acquattati sotto
le foglie, allo accostarsi del falco s'immaginano non essere
veduti. Sola Beatrice gli stette ferma, e risoluta davanti.
- Testimoni i santi, egregi figli congiurano la morte del padre
scellerato. - Fatevi oltre... chi vi trattiene, via? Di che
temete? Quale può opporvi resistenza un vecchio inerme, e
solo? Acconcio è il luogo... presente il Dio... preparato
l'altare... pronta la vittima... dove avete, sciagurati!, il
coltello?
E poichè tutti, presi da stupore, stavano muti, Francesco
con voce pacata continuò:
- Ah! voi non osate... i miei occhi vi spaventano?... a veruno di
voi basta il cuore per guardarmi in volto? Poveri figliuoli! Or
via, se nol sapete, v'insegnerò io il modo per consumare il
vostro disegno con sicurezza piena... con tutta la viltà di
cui siete capaci. Quando la notte è cheta, e vostro
padre... Francesco Cènci... insomma, io dormo... allora i
miei occhi non vi metteranno spavento... cacciatemi presto presto
un ferro ben tagliente - un pugnale bene appuntato da voi tra un
rosario e un altro - qui - sotto la mammella manca... vedrete come
penetra agevolmente. È un filo la vita del vecchio: anche
la mano di un fanciullo... anche la zampa di questo ragnatelo ( -
e così favellando sollevò la destra del morticino,
che poi rilasciò cadere con infinito disprezzo sopra la
bara - -) potrebbe tagliarlo.
E siccome alcuni, come inorriditi, si nascondevano la faccia, il
Conte colla stessa orribile ironia riprese:
- Capisco... anche tacendo vi fate intendere. A voi la morte non
basta... volete godere il frutto del vostro delitto. Sta bene, e a
me pure importa l'onore della famiglia; nè per cosa al
mondo sosterrei, che la mia stirpe rimanesse infamata con la
pena... il delitto è nulla. Uditemi dunque... noi siamo fra
parenti... non vedo alcuno, che ci possa tradire: - porgetemi una
bevanda medicata... che faccia dormire... il regno della natura va
copioso di piante che hanno siffatta virtù! O natura, alma
parens, tu fino dai primi giorni della creazione producendo tante
erbe venefiche presentisti i bisogni futuri, e i desiderii dei
figli... come questi, che uscirono dal mio fianco amorosi, e
dabbene... Provvidissima madre! Vedete... precipitarmi giù
dai balconi, a meno che non fossero altissimi, io non vi
consiglierei; avvegnadio il caduto di rado rimanga morto sul
colpo, e la forza del dolore potrebbe allora strapparmi dalla
bocca un segreto, che il cuore invano si affaticherebbe a
nascondere. - Potreste ancora... sì, per san Felice patrono
della nostra famiglia... questo parmi un partito veramente
imperiale e reale; - potreste imitare il re Manfredi, il quale se
non può celebrarsi affatto come un santo, nemmeno si
può dire demonio, poichè Dante lo pone nel
Purgatorio; e il fatto seguente ve lo chiarirà. Tardava a
Manfredi eredare il regno della Sicilia, e allo imperatore
Federigo suo padre non tardava punto morire: come si fa? La vita
degli autori sta in contradizione con quella degli eredi. Vi ha
chi fa professione di aiutare il parto: qual danno trovereste
dunque ad aiutare la morte? Tutto sommato, chi sa se
ringraziereste più la balia del primo, o la balia della
seconda; e se la viltà non tenesse la bocca del sacco alla
vita, la ragione non lascerebbe vincersi dalla disperazione per
gittarla al diavolo: - ma via, mettiamo questo da parte...
compatisco la vostra impazienza... e voi perdonatemi la mia
prolissità; non fosse altro in grazia della lezione per
liberarvene perpetuamente. Manfredi leggeva accanto al letto del
padre; gli occhi del vecchio erano diventati gravi... si
addormentò profondamente così, che un lieve alito ne
svelava la vita... un alito capace appena di appannare un
cristallo, di muovere una piuma... lembo estremo di ruscello, che
si perde fra la sabbia... Il padre aveva torto a conservarlo; al
figlio non correva obbligo di rispettarlo... insomma, un fiato
come il mio... Manfredi prese un piumino di sotto al capo del
padre, e glielo pose sopra... cosa, come vedete, di nessun
momento... un moto a quo, come insegnano i grammatici; e poi
saltò sul letto, e con ambedue le ginocchia gli compresse
il seno, con ambedue le mani il piumaccio contro le narici e la
bocca... e così stette finchè non ebbe perduto un
padre che non gli premeva nulla, ed acquistato una corona che
gl'importava moltissimo...
- Orribile! orribile! esclamò Beatrice.
- Orribile! ripeterono gli altri atterriti.
- E che vi spaventate voi? Voi temete scottarvi le dita co' tizzi
dello inferno, e presumete sostenere le parti di demonii nel
mondo? E non sapete, che per essere demonii bisogna nuotare
scherzando sopra un mare di fuoco, e ridere fra i tormenti? Allora
l'uomo si conosce valoroso di forbirsi le mani dal sangue come le
labbra dal vino, e dire, anche al cospetto di Dio: «Non ho
peccato». Farfalle!... presumete commettere il delitto a
colpi di ale? Lasciate a me la rigida parte di Satana,
perocchè io mi senta scellerato nella pienezza delle mie
facoltà. Guardate questi sette sepolcri... io gli ho
preparati per voi, per Olimpia, per Cristofano e per Felice... non
vi trovate il mio perchè io voglio morire dopo di voi. - O
Dio cui non conosco, e che non so se tu sia; dove ti piaccia avere
uno adoratore di più, che ti confessi, quale ti vide
Moisè, prepotente e geloso persecutore della quarta, e
della quinta generazione di quelli che ti odiano - concedimi la
grazia di potere assistere all'agonìa di tutti i miei
figliuoli; chiudere loro gli occhi, e comporli in pace dentro
questi sepolcri; e poi giuro da gentiluomo onorato di bruciare il
palazzo, e farne un fuoco di gioia: e se questo tu non mi puoi
concedere, ecco io consento morire prima di costoro, a patto che
mi sia dato di sporgere la mano fuori dalla mia fossa, e
strascinarveli dentro per morte sanguinosa. Ma tu non ascolti, e
dormi su le piume celesti un sonno d'oro. - Provvederò da
me stesso, e fie meglio così; perchè l'uomo,
finchè il fiato gli dura, non deve commettere il pensiero
delle sue vendette a nessuno - neanche a Dio. - Andate; liberatemi
dalla vostra presenza. - Andate.
E con la mano fece segno respingerli da se: ma ad un tratto,
mutato pensiero, accorse dietro Giacomo, e, afferratolo pel
braccio manco, lo costrinse a tornare indietro; poi guardandolo
fisso, accostato il suo al volto di lui, gli favellò:
- Tu ti sei lamentato, che non hai camicie:... infingardo! Va al
sepolcro di colei che ti fu madre; scoperchialo, levane il
lenzuolo dentro il quale venne avvolta, e portalo a tua moglie
onde ne faccia camicie ai tuoi figliuoli: così potessero,
come quella di Nesso, incenerirli tutti! - Tu le dirai che ne
faccia avanzare due pezzi: uno per cuoprirti il viso quando
morirai di mala morte, e l'altro per asciugarsi le lacrime, - se
sarà così stolida di spargerne per tanto vile -
tanto abietto - tanto schifoso uomo come sei tu...
- Per Dio! lasciatemi, Conte... urlava Giacomo tremando e
fremendo, mentre adoperava gli estremi sforzi per isvincolarsi
dalle mani del truce vecchio.
- No, io non ti lascerò finchè non ti abbia
insegnato a procacciare quanto fa d'uopo al tuo bisogno. Vuoi pane
pei tuoi figli? Portati a casa un pugno di cenere di tua madre, ed
empine loro la bocca... i serpenti si nutriscono di terra. O
piuttosto va, e porta la mia maledizione, di cui faccio loro dono
irrevocabile inter vivos... tu la spargerai sopra i loro capi
infantili... sta di buono animo, essa non cadrà su pietre,
nè sopra spine... non torcere il viso... io ti dico la
verità: è costume della nostra famiglia, che i
figliuoli odiino il padre; dal diavolo nasciamo, al diavolo
ritorneremo(); la maledizione, che avrai sparsa alla sementa, ti
sarà resa moltiplicata a raccolta. Fra la tua moglie e te
d'ora in avanti non corrano altre parole, che di obbrobrio e di
rissa: ti respinga da letto, te lo contamini; ti diventi la vita
un supplizio, la morte un sollievo...
E più diceva se Giacomo, con una violenta strappata
liberando il braccio, non fuggiva turandosi con le mani le
orecchie.
- Va... va - continuava il fiero vecchio; - invano ti chiudi le
orecchie; le mie parole sono della natura delle stimate del mio
serafico patrono San Francesco: bruciano le carni, forano le
ossa..... dopo morte ancora se ne distingue il segno....
Lucrezia e Bernardino tutti tremanti si erano cacciati a corsa
dietro a Giacomo; Beatrice rimase sola, immobile, a capo della
bara.
- E tu non tremi? - le domandò il padre.
Beatrice senza rispondergli, volgendosi con pietosissimo atto a
mani giunte verso l'altare, disse:
- Santissimo Crocifisso usate misericordia a quella povera
anima...
- Stolta! Che parli tu di Crocifissi? Qui non vi è Cristo,
nè Dio...
- Silenzio, vecchio; pensate che da un punto all'altro potreste
comparire davanti il suo tribunale; ed egli solo... egli solo
può perdonarvi, e salvarvi...
Il vecchio ridendo, come lo consiglia il suo fiero talento,
digrigna:
- Vuoi tu avere una prova che non vi è Cristo, nè
Dio? Eccola. -
E saliti i gradini dell'altare, forte percuotendo col pugno chiuso
la tavola di marmo, proseguiva:
- Cristo, se sei sopra questo altare, consacrato da un vescovo che
dicono, e che io non credo, santo, dinanzi al tuo ciborio, alla
presenza della ostia dentro la quale ti confina la
stupidità dei credenti(), io ti rinnego dieci volte e
cento: confesso il mio peccato di non averti offeso abbastanza fin
qui, e mi propongo fermamente, d'ora in poi, offenderti in
pensieri, in opere e in omissioni con tutti i sentimenti del
corpo, tutta la forza della volontà, tutte le potenze
dell'anima... Se sai, e se puoi, inceneriscimi:... io ti sfido a
fulminarmi... - E qui piegava il collo sull'altare; e,
trattenutosi alquanto, per bene tre volte gridò: non odi? -
In fine levò audacemente il capo maledetto: le membra gli
tremavano, non l'anima. Guardò la figlia: gli occhi
grinzosi a mano a mano gli si stringevano, e ridevano il riso
della vipera; si mosse minaccioso contro a lei, che lo
aspettò senza battere ciglio, e con parole forsennate
volubilmente favellò:
- Che cosa è Dio? Deus erat verbum: Dio è una parola
- niente altro che una parola; e san Giovanni lo ha detto. -
Questo morto non è morto (e con la mano percuoteva forte la
fronte del morto figliuolo). Gli enti mutano forma, non si
disperdono mai. La materia fu prima della creazione, e sarà
dopo lo scioglimento del mondo. Da questo cadavere nasceranno
migliaia di viventi, e, morti anch'essi, ne diverranno altri vivi:
perpetua vicenda di vita e di morte, ecco tutto. La vera sapienza,
o figlia del mio cuore, la vera sapienza, intendimi bene, consiste
nel ricavare la somma maggiore di piaceri dalla forma che la
natura ci destina attualmente. - Vieni, Beatrice, te sola amo...
tu sei lo splendore della mia vita».... te...
E più, e più sempre, invaso da diabolica insania, si
accosta lo iniquo vecchio a Beatrice; e già la tocca, e
già fa prova di gittarle smanioso le braccia al collo;
quando la donzella dà indietro un passo inorridita, e forte
spingendo la bara, esclama:
- Tra me e voi io pongo il vostro parricidio. -
La bara urlata si rovescia portando seco le ghirlande dei fiori,
il morticino, e parecchi candelieri co' ceri accesi: i quali
cadendo a rifascio addosso a Franceseo Cènci, ebbero
virtù di stramazzarlo per terra. Il capo del cadavere
percosse sul capo dei vecchio; la bocca fredda di quello si
allacciò ai labbri di questo; i capelli biondi del
giovanetto trapassato, e i capelli canuti del vecchio vivo, si
confusero insieme; - la fiammella di un cero appiccò fuoco
in cotesta chioma mescolata di vita e di morte; la vampa
dilatandosi arde ad un punto la guancia e la tempia di Virgilio, e
la guancia e la tempia del Conte: da entrambi usciva un leppo
nauseabondo di carne abbrustolita; uno solo sentì lo
spasimo. Il vecchio, scuotendosi come serpente calpestato,
trafitto da angoscia ineffabile ruggiva:
- Il morto mi brucia!...
Con disperato sforzo il vecchio si liberò dal cadavere;
giunse a mettersi a sedere; poi a stento in piedi. Oh quanto era
orribile a vedersi Francesco Cènci! Le chiome arse, e
tuttora fumanti; la guancia e la tempia gonfiate per la
scottatura; le pupille rientrate tutte nel ciglio, sicchè
degli occhi non si vedeva altro che il bianco chiazzato di sangue,
e giallo in parte di colore bilioso: le membra tutte tremendamente
convulse.
- Ah Francesco Cènci! - battendo i denti sussurrava costui;
- voi avete avuto paura! Codardo! tu hai avuto paura. Una
fanciulla e un morto mi hanno messo paura... adesso io vedo, che
tu sei vecchio davvero!
Beatrice era scomparsa. Il vecchio brancolando si ridusse alle sue
stanze, chiuso in pensieri di spavento e di sangue.
CAPITOLO VIII.
DISPERAZIONE.
Che fai? Che pensi? A che pur dietro guardi
Nel tempo, che tornar non puote omai,
Anima sconsolata!....
Cerchiamo il ciel, se qui nulla ne piace.
Petrarca.
Il vento di scilocco umido e grave soffia dalla marina, spingendo
contro Roma nuvole sopra nuvole, che si succedono paurose e
sinistre come i cavalli dell'Apocalisse. Coteste nuvole sono
pregne d'ira di Dio, però che portino in grembo la
gragnuola, la malaria, e forse il fulmine per qualche testa
consacrata. Intanto a quel soffio molesto i corpi s'indeboliscono,
e s'irritano; le pareti e le masserizie grondano umidità; i
capelli si attaccano giù alle guance; intorno al collo ti
reca fastidio un senso di freddo sudore: le anime facilmente
trascorrono alla ira, le parole suonano amare, le voci più
dolci ci rabbrividiscono come il raschiare dei marmi, o il
disanellare dei chiavacci: - invenzioni infernali! Stando chiusi
ti opprime l'affanno; aprendo le finestre fogli, panni ed oggetti
altri siffatti si aggirano a rifascio per tutta la casa; oltre la
polvere fine che penetra nei capelli, nelle pieghe della camicia,
e logora gli occhi. Durante simile notte, entro povera stanza si
trattenevano ragionando moglie e marito: in mezzo a loro era posta
una tavola rozza di legno bianco senza tingere, e su la tavola si
consumava tristamente, a modo di tisico, una candela di sego,
scarsa a rischiarare il luogo, e non per tanto bastevole a
palesare scambievolmente le loro sembianze. Quelle dell'uomo erano
abbattute; aveva il braccio steso su la tavola, e la mano
giù penzoloni, come persona scorata; la donna attrita dai
patimenti, ma con un tal quale piglio di fierezza romana, che in
quel punto si faceva più manifesto, imperciocchè
sembrasse aver udito o sofferto cose che l'accendessero tutta.
Infatti con gesti e voce impetuosi ella diceva:
- No, voi non mi darete ad intendere queste scelleratezze mai...
Ma che vi pare egli? fermerebbero il sole...
L'uomo era Giacomo Cènci, la donna Luisa Vellia. Giacomo,
come avvertimmo, toccava appena gli anni ventisei; di persona era
piuttosto grosso e corto, che no; ma adesso dimagrato fuori di
modo. Crebbe alla scuola dei crucci paterni; e, male istruito
nelle discipline gentili le quali hanno virtù di mansuefare
il cuore, sarebbe per avventura, in forza del tristo esempio,
riuscito poco dissimile dal padre, se lo amore non avesse
inspirato tempestivamente nell'anima sua dolcissimo affetto.
S'invaghì di Luisa leggiadra e valorosa fanciulla, ma di
piccolo, quantunque agiato, lignaggio; ed ella gli corrispose non
perchè appartenesse a potente famiglia, ma perchè lo
sapeva fuori di misura infelice.
Così è, bisogna pur dirlo; non vi ha creatura che
tanto si esalti pel sagrificio quanto la donna. Ente dilicato, di
leggieri s'infiamma per tutto quello le apparisce generoso: per
lei è gloria consolare i pianti altrui, e curare lo infermo
di malattia disperata: - quando il medico e il prete lasciano il
giacente, chi rimane intorno al suo guanciale? la donna. Ella fu
sua gioia, forse anche dolore, in vita; ma nella sventura l'ebbe
divina compagna; e dopo la sua morte, genuflessa accanto al letto,
gli recita le orazioni dei defunti. La donna si allontana dal
fianco dell'uomo ultima - anche dopo la speranza. - Il servo di
rado sente affetto, che oltrepassi il giro della moneta del suo
salario. Gli antichi finsero il dio del Commercio con le ali al
capo e ai piedi: fecero male; perchè si sbaglia, almeno pei
tempi che corrono, col dio dell'Amicizia: - questo alcione della
sventura, appena vede sul confine dell'orizzonte il segno
precursore della procella apre l'ale, e fugge via. Quante donne
contemplate a piè della croce di Cristo, e quanti uomini?
Per tre Marie contate un san Giovanni, solo. Che Dio mi perdoni,
ma io sono forte tentato di riprendere d'ingratitudine il primo
uomo che dipinse gli angioli adolescenti. Chiunque ricordi
l'affetto religioso della madre, le cure amorevolissime della
sorella, e i sospiri della fanciulla desiderata, e le ardenti
consolazioni della sposa, di leggieri converrà meco che gli
angioli hanno ad essere giovanette; e se mai ciò non
fossero, bisognerebbe farle ad ogni modo. Non mica di bellezza
procace, col riso lascivo, e l'occhio umido e sfavillante come le
Uris di Maometto: cessi Dio questo turpe pensiero di continuazione
di voluttà terrestre; ma semplici e schiette quale dipinse
il Beato Angelico, con occhi bassi, con la tinta del pudore su le
gote; sollecite a volare per soccorso colà dove un'anima,
pure ora uscita dal suo carcere mortale, pende incerta a qual
parte indirizzarsi per trovare la via del paradiso.
Se la causa della libertà e della religione vanta
più uomini per combattere, ella ebbe troppe più
donne per predicare, e per soffrire. Vergini, e liete di
giovanezza, esultando tinsero le bianche rose delle loro ghirlande
in vermiglio col proprio sangue. Sarebbe per avventura peccato,
credere che uno sguardo di vergine cristiana, diffuso sopra le
turbe mentre la scure vibrata per reciderle il collo fendeva
l'aria, abbia convertito più gente alla fede di Cristo, che
le prediche di san Giovanni Crisostomo? Se mai fosse peccato, io
me ne confesserò.
Povere donne! Invano fra voi scelse lo Eterno il tempio del suo
figlio Gesù; invano lo accompagnaste nella sua via di
dolore; nulla vi giovò versargli sul capo il prezioso
unguento; nulla il coraggio di asciugargli la fronte mentre lo
traevano al supplizio. Senza pro vi fermaste sotto la croce a
consolarne l'agonìa; lo riceveste nelle vostre braccia
deposto, lo componeste nel sepolcro, e vi sedeste di contro a
quello. Chi, se non voi, cercò di Cristo poichè fu
morto? Chi, prima di voi, apprese la sua resurrezione per la bocca
dell'Angiolo? Chi reputò degno Cristo di essere, dopo la
sua morte, visitato da lui, se non voi altre donne?() Le migliaia
di eroine martiri; la copia infinita delle pie monache; santa
Orsola stessa con le sue undicimila vergini non valsero a
procacciarvi rispetto, o almeno dimenticanza, davanti al consiglio
spietatamente cupido e duramente ingrato dei nostri sacerdoti,
quando Gregorio VII, aspirando allo impero del pensiero del mondo,
intese a comporre una rigida armata di uomini, i quali ogni
potenza dell'anima concentrassero a promuovere il concetto di
Roma. Allora voi foste perseguitate senza pietà; nessuna
bestia, o sozza o feroce, venne dai santi stessi vilipesa quanto
voi create da Dio, perchè conobbe «non esser bene che
l'uomo fosse solo()». San Piero Damiano correva forsennato
le terre d'Italia chiamandovi: «esca di Satana, schiuma del
paradiso, veleno delle anime, barbagianni, lupe, civette,
mignatte, sirene, streghe, capezzali di spiriti maligni» con
altre più cose, che si lasciano per lo migliore. È
vero che il Santo non si curò risparmiarle; ma egli era
santo, e le poteva dire: io, che non sono santo, per pudore devo
tacerle(). Nè si rimasero agli obbrobrii; ma con ogni
maniera di tormenti s'ingegnarono disertarvi. Chi non conosce la
miseranda storia di Elgiva, sfregiata in volto da Odone
arcivescovo di Cantorbery con ferro rovente, e poi uccisa col
taglio doloroso dei garetti perchè amata troppo dal regio
consorte, ed ella amante di lui così, che nè per
minaccia, nè per prego sofferse di vivergli lontana()? I
Preti potranno ordinare: vade retro, Satane, e saranno ancora
ubbiditi; su ciò io non contrasto; ma alla Natura non si
dice: addietro, perchè ella manda a gambe levate chiunque
avverso le si para davanti.
L'uomo trovò nella colpa di Eva circostanze attenuanti; ad
ogni modo gli piacque piuttosto esporsi perpetuamente alla
tentazione, che rimanere privo della sua amabile tentatrice. La
fiamma di amore, secondo la ragione del fuoco, divampò
più gloriosa quanto più compressa. La donna di
compagna diventò signora, e regina. Sedè giudice dei
Tornei, presiedè le sfide di poesia, e le Corti di Amore.
Un nastro della donna fu preferito a un capello di san Pietro().
Gl'illustri baroni di guerra, dopo il piacere di scavalcare emuli
famosi, e mandarli vinti a rendere omaggio alla Dama dei loro
pensieri, non n'ebbero altro più grato che ricevere buoni
colpi di lancia o di spada, per sentirsi medicare dalle mani della
donna diletta: questo pei laici. Se i chierici poi, impediti nei
legittimi connubii, cercassero mescolarsi in amore alla spartita
empiendo le famiglie di vergogna, e il mondo di scandalo, potrete
domandarlo agli stessi scrittori di cose ecclesiastiche().
Le figlie della terra, che furono una volta cagione di peccato per
gli Angioli(), scalarono il cielo; e, più felici dei
Titani, se non balzarono di seggio il sommo Giove, n'equilibrarono
il culto. Maria fu salutata deipara, madre di Dio: a lei si
volsero i cuori di tutti, appellandola con dolcissimi nomi; i
buoni l'amarono per la sua bontà, i tristi per la sua
misericordia: orgoglio delle vergini, esempio delle madri; a lei
si volgono i marinari pericolanti invocandola stella del mare; a
lei i cuori dolenti perchè consolatrice degli afflitti; a
lei i colpevoli perchè avvocata dei peccatori. Non
bastò sostenerla immacolata dopo il parto, ma la vollero
immacolata da macchia originale unica tra i viventi; e il mondo,
malgrado la opposizione di san Bernardo e dei Domenicani, volle
credere così, e così sia(). Quante chiese occorrono
consacrate al Padre Eterno, e quante a Maria? Davvero ella non
volse mai in cuore pensieri, che non fossero tutti umiltà;
pure è forza confessare, che poche preci s'innalzano a Dio
se non per mezzo della consolatrice degli afflitti. Conoscete voi
titolo di umana grandezza, che possa paragonarsi a questo? Il
Sommo Sacerdote, geloso degli affetti del sacerdote, e tutto
intento a impedire che si disperdessero in famiglia, mentre su
questa terra vitupera, perseguita e calpesta la donna, consente
poi che sia venerata regina dei cieli. Insano consiglio! In cielo
e in terra la donna impera regina del cuore degli uomini.
Altre volte, (io lo rammento gemendo) agitato da cattive passioni,
scrissi male parole contro le donne: me ne confesso colpevole, e
me ne pento; cancellatele via: si abbiano per non iscritte; io le
ritratto, e intendo farne, come ne faccio, ammenda onorevole. Se
ad emendare il fallo abbisognasse presentarsi con la croce in mano
e la corda al collo, mi chiamo parato a tutto; non mi tratterrebbe
neppure replicare la penitenza dello imperatore Enrico III, quando
Gregorio VII, prima di togliergli la scomunica, lo fece stare tre
giorni a piedi nudi sopra la neve fuori dei muri di Canosa,
mentr'egli si tratteneva dentro davanti al fuoco a ragionare con
la Contessa Matilde. O secoli di oro pel Pontificato, deh! dove
siete or voi? - Io intanto, per non menomare la grazia vostra, che
spero avere recuperata intera, tacerò come il bene che ho
detto delle donne non si trovi mica in tutte; anzi talvolta
neppure nella medesima donna sempre: anche il cuore ha le sue
tavole meteorologiche; ed ora fa sereno, ora nuvoloso, ed ora
piove a dirotta. Altri dica, non io, come quando le donne furono
giudici nelle Corti di Amore pronunziassero sentenze poco
edificanti; a modo di esempio quella di Ermengarda contessa di
Narbona, la quale dichiara che il marito divorziato può
benissimo essere accolto Amante dalla sua moglie maritata ad un
altro; e quella di Eleonora di Guienna, che decide non poter
durare amore tra sposi, e doversi scegliere un secondo amante per
provare la costanza del primo. - Molto meno riferirò il
celebre parallelo fra la donna e Diana; con la sola differenza, in
ultimo, che Diana porta la mezza luna sopra la fronte, e la donna
la fa portare. Queste, ed altre simili novelle vanno cacciate via
come tentazioni del demonio; la fede non ammette dubbio; e in
fatto di femmine, ora che mi sento vecchio, io mi son reso
credente. Sembrami tempo di tornare alla storia. E le amabili
leggitrici mi perdonino la digressione: io ho peccato per colpa
loro.
Dal matrimonio di Luisa Vellia con Giacomo Cènci nacquero a
breve intervallo di tempo quattro figli, i quali dalle carte di
famiglia ricavo avere avuto nome Francesco, Felice, Cristofano ed
Angiolo. Vivevano nella via di san Lorenzo Panisperna dentro casa,
lontana certo dallo splendore che desiderava l'alto lignaggio di
Giacomo; pure una volta secondo i bisogni della famiglia con
discreta convenienza fornita: ma Francesco Cènci, passata
che gli fu la paura incussagli da papa Clemente VIII quando lo
costrinse a somministrare al suo figlio 2000 scudi annui di
pensione, e conoscendo come (quantunque egli stesse su l'austero)
bene altra fosse la sua dalla mente di Sisto V, incominciò
prima a stentargliela, poi a ridurgliela, e infine non gli dava
quasi più niente; onde la famiglia vivevasi in angustia
grande, stretta da ogni necessità.
Luisa comecchè molto soffrisse, e meno per se (come di
leggieri può credersi) che per la famiglia, tuttavolta si
aiutava come meglio le riusciva; mostrava ilare il volto al
marito, e lo confortava a starsi di buona voglia, chè le
cose si sarebbero mutate in bene. Dopo le nuvole apparisce il
sole, ella gli diceva, e ogni giorno passa il peggio; nè a
un modo solo può durare; con altri simili luoghi comuni che
il labbro profferisce, e il cuore non crede: imperciocchè,
pur troppo! la fortuna ghermisca l'uomo a' capelli, e lo strascini
dentro la tomba, e non lo lasci se prima non lo abbia calcato bene
nella fossa, e calpestato la terra sopra che lo copre. Le
tribolazioni della animosa donna stavano tra Dio e lei: e
sì che si sentiva scoppiare il cuore quantunque volte
contemplava il suo nobile consorte tanto non pure dimesso, ma
abietto di abbigliamenti; i figli quasi nudi, e talora affamati.
Alle frequenti scosse la sua anima però si era non poco
mutata; un senso di dubbio serpeggiava là dentro; soffocava
non senza sforzo una voce di rimprovero, che suo malgrado vi
sorgeva di tanto in tanto a riprenderla della sua troppa pazienza.
Incominciava a pentirsi del sagrifizio sofferto: chi l'avesse
osservata sottilmente poteva comprenderlo di leggieri dal volto, e
dalla voce con la quale profferì le ultime parole.
Ma Giacomo, oppresso dalla tristezza, non aveva comodo a
instituire coteste osservazioni, e:
- Luisa mia, soggiungeva in suono di mistero, bene altre... bene
altre ne ha commesse costui... Senti... accostati, affinchè
i bambini non odano. -
- E siccome ella repugnando non si accostava, Giacomo
avvicinò la sua alla sedia della consorte.
- Tu hai da sapere, che la madre mia fu onesta quanto bella...
angiolo mio, come te... Però se mantenne purissimo sempre
alla fedeltà coniugale il suo cuore, tu capisci ch'ella non
potè impedire che altri s'innamorasse di lei. Il signor
Gasparo Lanci, nostro gentiluomo, ne concepì altissimo
affetto; e procedendo meno discretamente che a bene avvisato
cavaliere non convenga, pubblicò la sua passione stampando
un funesto sonetto, che mi rammento benissimo, e diceva
così:
Posciachè amor per voi mi accese il core
Forse di troppo a me onrata fiamma,
Così di fuoco ho la sinistra mamma,
Che non ho refrigerio al fiero ardore.
Mi nutrisco di pianto, e di dolore;
E bench'io mi consumi dramma a dramma,
Mi restaura il calor, che sol m'infiamma;
Così mi ancide, e mi ravviva amore.
Virginia il guardo onde tanto arso fui
Ei tanto fisso nella mente siede,
Che non posso pensar se non a lui.
Se da voi non impetro hormai mercede
Cenere mi farà, chè non di altrui
Si può smorzar l'ardor che ogni altro eccede().
Questo sonetto, che può considerarsi come un crimenlese di
poesia, forse fu assoluto dallo amore, non da mia madre. Il giorno
dopo, che il signor Gasparo glielo ebbe mandato in dono impresso
sopra mantino rosso, egli venne, secondo la usanza, a visitarla,
assente Francesco Cènci. La signora madre tostochè
lo vide si levò in piedi; e, fattagli reverenza, con voce
alquanto alterata prese a favellargli così:
«Carissimo signor Gasparo; dopo la pubblicità del suo
sonetto, speravo che vossignoria comprendesse come una gentildonna
onorata non potesse riceverla più oltre; e poichè il
suo buon giudizio qui le ha fatto fallo, non posso risparmiarmi
d'insegnarglielo di mia propria bocca». Poi, mossa a
pietà del pallore del gentiluomo, con suono più
dolce aggiungeva: «Che sia benedetto, signor Gasparo; ma
perchè vossignoria offre a me uno amore che, sposa altrui,
non potrei partecipare senza colpa; mentre presentato ad una
fanciulla da par suo sarebbe prezioso, e la colmerebbe di
giubbilo? Giri, di grazia, l'occhio intorno, e veda come Roma sia
copiosa di fanciulle per bellezze e per costumi rarissime; dirizzi
a qualcheduna fra loro le sue fiamme pregiate, e viva pure
tranquillo che saranno accolte, come meritano, più che
volentieri».
Il signor Lanci interdetto si sprofondava in inchini; la voce gli
negava l'ufficio consueto, ma le lacrime gli sgorgavano dagli
occhi. Però, siccome amore si pasce di sospiri, di pianto e
di speranza, non per questo smetteva il costume di farsi vedere
sotto il palazzo, pago di contemplare almeno la dimora della donna
amata. Certo giorno, poco innanzi l'alba, udii sotto le finestre
di camera mia parecchie voci, che gridavano: «Misericordia,
Gesù!» Scesi subito per la via con la spada in una
mano ed un torchietto nell'altra, e vidi presso l'arco di casa il
corpo del signor Gasparo trapassato da un coltello che dalla
spalla destra gli riusciva sotto la mamma sinistra, dove aveva
cantato di sentirsi il fuoco. Ma questo è nulla. Mia madre,
già logora dai sofferti dolori, diventò più
trista pel caso avvenuto al signor Gasparo buona anima; parendole,
come pur troppo era chiaro, che per cagione sua egli avesse
incontrata la mala morte. Già anche prima di cotesta strage
poco ella usciva di casa; adesso poi non si lasciò
più veder fuori, vivendo ritiratissima tutta chiusa nelle
sue afflizioni. Così travagliata da nuovi e vecchi
dispiaceri decadde per modo, che a quanti conversarono con esso
lei parve che ormai pochi giorni le rimanessero a dimorare sopra
la terra: inoltre la voce della sua prossima morte veniva sparsa a
sommo studio da Francesco Cènci, novellamente accesosi,
piuttostochè d'amore, di furore per la Lucrezia Petroni
nostra matrigna. Certo dì, quando reputò il tempo
opportuno, Francesco Cènci, colto il destro che mia madre,
seduta a mensa al suo fianco, volse il capo per chiamare uno
staffiere, egli, pronto come la lingua dell'aspide, gittò
una presa di polvere nel suo bicchiere. La madre bevve; e, provato
un gusto amaro, ne rimproverò il credenziere. Il Conte
premuroso si fece recar la boccia, saggiò il vino con
accuratezza, e accertò parergli lo squisito alicante che
sempre aveva trovato. Io già era per aprir bocca e dire
della polvere, quando il Conte, troncatami la voce in gola con una
occhiata tagliente, così prese a favellare soave:
«Signora Virginia, non ve ne fate caso; allorchè ci
sentiamo male disposti, la prima cosa che ci venga a fastidio
è sempre il vino.» Quindi, senz'altro aggiungere, si
levò da tavola. Tre giorni dopo alla medesima ora mia
madre, che Dio abbia in pace, moriva; e senza imbalsamarla, per
motivo della subita corruzione, ben chiusa dentro tre casse la
trasportavano in fretta a lontana sepoltura.
Luisa aveva ascoltato questo racconto con viso arcigno, e a modo
d'incredula. Finito ch'egli ebbe, così alla trista riprese:
- Io non vo' dire, che il Conte sia un santo. Dio me ne guardi! Ma
questo perpetuo vituperare che voi fate vostro padre, non vi ha
recato altro che danno...
- E come lo vitupero io?
- E' non fu per simili obbrobrii che Sua Santità, tenendovi
figlio senza cuore e desideroso della morte del padre, vi dimise
dal suo cospetto sconsolato?
- La buona fortuna di cotesto demonio è pari alla sua
perversità.
- Vergogna!... Rammentate che discorrete di vostro padre, e i
vostri figliuoli vi potrebbero sentire.
- E se sentissero, che mal sarebbe? È bene, anzi, che
sappiano quanto lo avo loro sia diverso dal padre.
- Voi? - Ah! se fosse vero quanto raccontate del Conte, voi
avreste comune con lui l'odio dei figli...
- L'odio dei miei figli! Luisa, sei folle stasera? - E Giacomo
sollevò la testa come trasognato...
- Sì, sì - gittate finalmente l'argine prorompeva
Luisa con traboccante passione - l'odio del vostro sangue: ecco le
vostre creature che hanno fame, e voi non le sapete cibare di
pane; eccole ignude, e voi non procacciate vestirle: di me non
parlo. La casa, che già vi fu cara, adesso v'incresce; rado
venite, torbido state, presto partite, e non vi prende pensiero
alcuno di noi, che fra le angosce vi aspettammo intere notti
invano...
- Luisa! l'anima, che potrebbe forse sostenere le vostre strida,
non regge allo spettacolo del muto dolore della mia famiglia: - io
non posso sopportare la vista di tanta miseria. Sposa mia, vuoi
attribuirmi a colpa la soverchia tenerezza?
- Dite, Giacomo, la vostra lontananza profitta meglio ai
figliuoli? Quando non vi veggono, piangono essi meno? La vostra
assenza gli alimenta, li cuopre, li consola? Perchè lasciar
me, povera donna, desolata, senza consiglio e senza soccorso? Non
ci siamo congiunti per sollevarci scambievolmente? Perchè
dunque voi fate portare la croce a me sola?
- Luisa hai ragione; ma non troverà perdono presso di te la
mia tenerezza, e, se vuoi ancora, la mia pusillanimità?
- Uomo finto, e crudele... la tua tenerezza!... la tua
pusillanimità! E dove consumi la pensione di tuo padre?
- Ch'è questa furia? Non ti diss'io le mille volte, ch'ei
me l'ha cessata, ed ora mi getta tre scudi, ora quattro come la
elemosina al mendico importuno?
- Sì, eh!... la pensione ti ha tolta? Ti getta la elemosina
di tre scudi o quattro! E le tue cortigiane, di', con che le
mantieni? E i tuoi bastardi con che cosa gli nudrisci?
- Luisa tu deliri...
- Oh! di me nulla m'importa, vedi, perchè io tornerò
a casa dei miei parenti; e quantunque abbiano provato la fortuna
contraria, pure so che mi accoglieranno di cuore; e poi a me non
duole guadagnarmi, lavorando, da sostentare la vita. Non ti
rimprovero la mia bellezza sfiorata, la mia gioventù logora
teco: - certo esco da casa tua troppo diversa da quello che io vi
entrai... ma che importa? Siamo fiori, noi altre donne, troncati
per gusto passeggiero; odorati, e gittati via. Io non ti auguro
male, me ne guardi Dio!; che lo augurerei al padre dei miei
figli...
- Luisa mia... deh! che nuova passione ella è questa? Ma
parlami pacata... ascoltami...
Inutile; - tanto era possibile impedire con le mani che il Tevere
straripasse quando è pieno, che reprimere cotesta fiumana
di passione...
- Va in braccio di altra donna... va... tanto non troverai
creatura che ti ami quanto ti ho amato io... Ma queste sono parole
di donna, e tu non le hai a badare... attendi, ti scongiuro, a
quelle altre, che sono di madre: Ti prenda pietà di questi
sciagurati fanciulli...guardali in volto... guardami in volto,...
e il cuore ti dirà che sono tuoi figli... sangue del tuo
sangue... amali almeno quanto i figli che avrai avuto da altra
donna: non li condannare a morire di fame. Il bimbo Angiolino,
finchè ho potuto ho nudrito col mio latte... adesso, vedi,
incomincia a mancarmi... O Vergine del pianto benedetta! Anche il
latte mi si è inaridito nel seno... misericordia di una
misera madre...
Giacomo girava gli occhi stralunati dintorno, e con quel suo
profondo sbigottimento, anzichè dissipare, confermava i
sospetti della moglie. Alla fine, come avvilito esclamò:
- Ah! chi mi avvelena il cuore della mia donna? chi divide la
carne dalla mia carne? Quello che unì il volere di Dio
discioglie la malignità di Francesco Cènci.
Francesco Cènci, io ti sento qui dentro! Il tuo alito
m'investe sottile, irreparabile, e mortale come il contagio...
Luisa di', chi fu colui che mi calunniò al tuo cuore? -
- Calunnie! Quanti sono i colpevoli che si battono il petto
dicendo: peccavi? E la collana comprata alla tua druda è
calunnia? Calunnia ancora il guarnello di broccato d'argento al
tuo bastardo? La casa rifabbricata al marito compiacente è
ella calunnia?
- Se la passione non mi stringesse il cuore, in verità di
Dio le tue parole mi farebbero ridere. - Basta via, Luisa; sono
menzogne coteste...
- Menzogne, dici? Or via, leggi.
E trattasi un foglio dal seno, glielo gettò sopra la
tavola. Giacomo lo spiegò, e lo lesse. Era una lettera
anonima scritta di pessimo carattere in istile plebeo, con la
quale si dava contezza a Luisa della infedeltà di suo
marito con la moglie del falegname di Ripetta, e del gran
profondere di moneta ch'ei faceva con cotesta femmina, acciecato
nello amore di lei: la informava ancora averle il signor
Cènci rifabbricato la casa, e provveduto il marito di
danaro pei suoi interessi; non taceva dei gioielli preziosi e
delle vesti sfoggiate donate alla donna; e di più ancora, e
questa era stata la trafitta maggiore per l'anima della povera
madre, da questo illecito commercio essere nato un figliuolo
bellissimo, a cui Giacomo voleva il più gran bene del
mondo. Sul dono del guarnello di broccato d'argento trattenevasi
con maligna compiacenza. -
Giacomo rese con atto languido e lento il foglio alla consorte, e
scuotendo mestamente la testa disse:
- E come mai Luisa, consorte mia, con quel buon giudizio che ti
trovi, hai potuto prestar fede a così infame e stupido
scritto?
- Perchè è vero - rispose la donna petulante con
singhiozzo convulso.
- Luisa, e vorrai tu credere piuttosto al calunniatore a cui manca
perfino il coraggio di manifestare il suo nome, - che può
avere, ed ha certo mille fini ingiustissimi operando così
proditoriamente; come alienarmi il tuo cuore, turbarmi la pace
domestica, rapirmi l'unico bene che mi resta, l'amor tuo, - e non
a me.....che ti amo come la pupilla degli occhi miei, che ti onoro
come madre dei miei figli... e che questo ti affermo, e ti giuro
su l'anima mia?
- Io credo più al foglio che a te, perchè il foglio
dice la verità, e tu sei un bugiardo.
- Luisa, in miglior punto io vi ricordo lo insegnamento che
presumeste testè darmi: avvertite che i vostri figliuoli
non già possono ascoltarvi, bensì vi ascoltano, e
che io sono il loro padre.
- Io te lo dico a posta in loro presenza affinchè imparino
a conoscerti per tempo.
- Silenzio! - Donna - silenzio! Quanto andate fantasticando
è falso; io ve lo giuro su la fede di gentiluomo onorato, e
basta.
- Davvero, voi siete un gentiluomo senza macchia; vi avanza ad
essere senza paura per rassomigliare al Cavaliere Bajardo! E
quando a me e alla mia famiglia voi deste ad intendere come il
consenso di vostro padre concorresse alle nostre nozze, non
giuraste del pari su la fede di gentiluomo onorato?
Giacomo arrossì fino alla radice dei capelli, poi ridivenne
pallido; all'ultimo disse con parole di amarezza:
- Veramente, colei per amore della quale commisi un fallo... non
dovrebbe così severa rimproverarmelo;... allora la passione
per voi mi tolse il senno...
- E adesso, che cosa vi toglie essa? - Insisteva sempre e
più sempre la donna, improvvida a frenare l'animo acceso. -
Giacomo inasprito duramente ordinava:
- Tacete...
- E se io non volessi tacere?...
- Troverei modo a chiudervi la bocca - io - .
- Tu troverai... oh! tu hai già trovato questo... Quando
poniamo i nostri capi sul medesimo guanciale, chi sa quante volte
hai pensato di farvi scomparire il mio!...
- Luisa! -
- Ora la serpe ha cacciato fuori il suo veleno. Uomo crudele! Non
ti basta la vittima? Tu vuoi ch'essa taccia; non mandi un sospiro,
che turbi la voluttà che senti della sua morte. Abbi almeno
la cortesia degli antichi sagrificatori... incorona la tua vittima
di fiori, e cuoprila di porpora...
- Ma taci una volta, per amore del tuo Dio...
- No... non voglio tacere io... no; io voglio parlare... voglio
accusarti della tua empietà agli uomini e a Dio - traditore
- mentitore... marrano.
Lo sdegno fece ribollire la passione nel petto di Giacomo
già inacerbito dalla sventura così, che, come acqua
per soverchio calore ribocca impetuosa dagli orli del vaso, egli
proruppe cieco e tremendo. Cacciò la mano convulsa sotto il
farsetto; ma, come piacque alla fortuna, aveva perduto il pugnale:
aggirandosi per la stanza frenetico gli capitò uno di quei
stocchi lunghissimi, taglienti da quattro lati, che si chiamavano
verduchi(), e impugnatolo si gittò cieco di furore contro
la moglie.
Luisa presi in fretta i figli, si pose intorno i maggiori; il
pargolo si recò al collo, e, caduta in ginocchio dinanzi al
marito che le veniva incontro, senza battere palpebra disse:
- Nudriscilo del mio sangue, dopo che il latte mi è venuto
meno... carnefice! -
Giacomo stette; come persona percossa sul capo traballò,
gittò via lo stocco, e tese smanioso le braccia alla
moglie; la quale volgendo altrove il volto esclamò:
- No... mai...
Allora Giacomo ricorse ai figli tutto smarrito, e con senso di
tenerezza ineffabile scongiurava:
- Deh! figli miei, persuadete voi vostra madre che s'inganna;
ditele che l'ho amata sempre, e l'amo. Voi almeno corrispondete al
mio amplesso - venite al mio seno... consolatemi voi... che il mio
cuore è inebriato d'infinita amarezza.
- No - tu hai fatto piangere mamma.
- Volevi tirare a mamma - va...
- Noi non ti vogliamo più bene, cattivo...
- Va via: - va via... gridarono a coro i tre fanciulli.
- Va via? Sta bene. I miei figli mi scacciano dal seno loro... mi
bandiscono dalla mia casa - andrò. - Ma tu almeno, -
soggiunse Giacomo volgendosi al fantolino che Luisa aveva riposto
nella culla, - innocente creatura, che gli uomini non hanno ancora
potuto avvelenare... tu che sentirai vergine il grido della
natura, ricevi il mio amplesso, e tienlo come la unica
eredità che possa lasciarti il tuo padre infelice.
Il bimbo, spaventato dal sembiante sconvolto e dagli atti
concitati di lui, sollevò ambedue le manine facendosene
schermo al viso, e mandando fuori strilli di paura. Giacomo si
fermò - lo contemplò - piegò le braccia in
croce sul petto, e con accento concentrato profferì queste
parole:
- Ecco; il padre mi perseguita a morte - la moglie mi rinnega - i
figli, mi scacciano - la stessa natura rovescia le sue leggi per
me, e il fantolino mi abborrisce come cosa, che lo istinto gli
addita malefica. A questi fati non dovrebbe mai condursi l'uomo...
ed io soffersi valicarne il termine estremo! A modo di tronco in
mezzo alla via, io mi attraverso alla vita dei miei, ingombro
odiato e insidioso. - A che più stai, anima sconsolata? Ora
la tua partita giova a me e ai figli miei: - un giorno gli educai
sotto le mie fronde, adesso la mia ombra toglie loro il sole:...
velenose sono le rugiade, che cascano da me: - andiamo; - devo
benedirli, o no? Vorrei... e non ardisco... No... chè le
mie parole potrebbero, prima di scendere sul capo loro, convenirsi
in maladizione. - Vita acerba, morte miserabile, memoria aborrita.
- Tu, Dio, queste cose vedi? Le vedi, e le consenti? - Tu hai
rotto la canna inclinata... ed io mi chiamo vinto... oh! oh!
E così mormorando, con la morte nell'anima e le mani nei
capelli, traendo dolorosi guai abbandona la casa. Chiunque lo
avesse visto, e gli fosse pure stato nemico, avrebbe detto:
«il Signore abbia misericordia di questo sciagurato!»
La moglie, sebbene la procella continuasse a scompigliare il suo
spirito, sentiva levarsi in cuore un'aura mite foriera di pianto
appassionato, mercè la spontaneità dello amore
mostratole dai suoi cari figliuoli; e se per questo le venissero
mille volte più cari non è da dire.
Vive nei genitori, io non dirò senza accorgersene, ma senza
che lo confessino a se stessi, una emulazione nello affetto dei
figli, la quale suole procedere ordinariamente così. Alle
madri riesce farsi amare in preferenza del padre dalle femmine, ed
anche dai maschi fino a tanto che si sentono deboli ed infermi; ma
quando la vita rifiorisce in loro vigorosa, vaghi dei campi aperti
o del fragore delle città, dalle madri mano a mano si
scostano, e si avvicinano al padre. Ora i figli di Giacomo si
trovavano nella età in che il bisogno gl'inclina meglio
alle carezze, ed agli aiuti materni: quindi natural cosa era, che
tutti per la madre parteggiassero.
Luisa non avvertì la partenza del marito, o, se pure
l'aveva avvertita, poco le calse; sazia, per così dire, di
amore filiale. I baci ardenti e le focose carezze che in quel
punto riceveva, e più partecipava, le fecero obliare che il
vincolo più forte di famiglia giaceva infranto.
Ahimè! Quanto le costerà amaro il mal momento in cui
ella, incauta, commise la sua anima in balìa di cieca
passione!
CAPITOLO IX.
IL SUOCERO.
............il maligno
Che in lei strada sì larga aprir si vede,
Tacito in sen le serpe, ed al governo
Dei suoi pensieri lusingando siede:
E qui più sempre l'ira, e l'odio interno
Inacerbisce......
Tasso, Gerusalemme Liberata.
- Io mi vo' chiarire da me stessa, esclamò Luisa con gesto
risoluto. Poi si acconciava alla meglio le vesti dimesse: trasse
fuori della cassa una mantiglia di seta nera per avvilupparvisi
dentro; e, raccomandati i fanciulli alla unica fantesca che teneva
in casa, ammonendola più e più volte che non li
perdesse di vista, se ne andò difilato al palazzo del
suocero.
Giunta nell'anticamera notò come gli staffieri la
sbirciassero sott'occhio, reputandola femmina di piccolo affare; e
forse già stavano per straziarla con motteggi plebei,
quando la gentildonna troncò a mezzo cotesti sguardi, e
favellii villani; imperciocchè andando loro incontro, con
signorile atteggiamento comandasse:
- Avvertite il Conte don Francesco, che donna Luisa Cènci
sua nuora si è recata al suo palazzo per visitarlo... e che
adesso sta aspettando in anticamera...
Ora sì che parve ai servi essere usciti dalla padella e
saltati su la brace. Non sapevano se dovessero annunziarla, o no:
l'un partito e l'altro pieno di pericolo. Tanto era arabico il
carattere del padrone, che, se non la indovinavano, il meno che
potesse andarne loro stava nel perdere il pane.
Il pane! Ago magnetico, che conduce più bestialmente delle
stesse bestie l'armento dei figli di Adamo.
Il pane! Nutrimento quotidiano, che gli uomini o più
infelici o più bassi dei bruti, troppo spesso non sanno
procacciarsi senza delitto, o senza viltà.
Il pane! Sasso, che la necessità lega al collo ad ogni
nobile sentimento per affogarlo nello inferno del male. - Certo fu
grande la sapienza, che insinuò nella preghiera domenicale
la domanda a Dio di somministrarci il nostro pane quotidiano; ma
poichè la troviamo sovente inesaudita, gioverebbe
grandemente aggiungervi queste altre parole: e se non puoi, o non
vuoi darmi pane, dammi almeno la costanza per morire di fame senza
viltà.
Intanto l'uomo non vuol morire di fame, e stende la viltà
sul pane come burro; nè pare che gli turbi lo appetito, o
gli guasti la digestione.
I servi più vecchi, ormai per tre quarti diventati carne di
volpe, si restrinsero insieme per avvisare il da farsi, e fu il
consiglio corto; imperciocchè uno di loro, ch'era stato
cantiniere al Convento del Gesù in Roma, ammiccando degli
occhi certo giovane staffiere preso da pochi giorni agli stipendii
del Conte, di natura vanitoso anzichè no, profferisse la
sentenza: «loda il folle, e fallo correre». A questo
fine gli dissero:
- Ciriaco... da bello... tocca a voi: - vi lasciamo il campo di
affiatarvi col padrone; - e poi voi siete giovane, e garbato - noi
siamo vecchi, e dei modi che costumano oggi con le Signore non
sappiamo niente... sicchè la presentazione della
gentildonna vi spetta proprio de jure.
I vecchi servi tesero la insidia per malignanza, il giovane
v'incappò dentro per vanità; - forse col concetto
segreto di supplantarli un giorno nel favore del padrone. Tristi
tutti, come per ordinario avviene della famiglia dei servi guidata
sempre dallo iniquo istinto del pane.
- Eccellenza, inchinata la persona come il primo quarto di luna,
parlò Ciriaco pervenuto al cospetto del Conte; - sta qui
fuori certa gentildonna, la quale si annunzia per nuora della
Eccellenza vostra, e desidera udienza.
- Chi, dite voi? -
Gridò il Conte dando un balzo sopra la sedia. Egli
procedeva verso i servi con sembianze sempre severe: oggi poi
comparivano paurose; molto più che teneva il volto
avviluppato dentro fasce di tela, e nella guancia tumefatta
sentisse acerbissimo il dolore della scottatura.
- La nuora di vostra Eccellenza...
Il Conte squadrava il servo con occhi così truci, ch'egli
sentì venirsi addosso il freddo della quartana: pure,
sostenuto dalla virtù del pane, e vie più curvandosi
verso terra, soggiungeva Ciriaco:
- Quantunque non mi sia sfuggito d'occhio che la sua gente, per
cento motivi uno più plausibile dell'altro, non va a genio
di vostra Eccellenza...
- Voi avete osservato questo?
- Questo ed altro, perchè egli è proprio il mio
gusto non lasciare nulla inosservato nelle voglie dei miei padroni
per antivenire i desiderii loro; ciò nonostante mi parve
villania rimandarla, attesa la riverenza della clarissima casa di
cui la gentildonna afferma portare lo illustrissimo nome.
Don Francesco sorrise un tal suo riso di sdegno considerando come
quel gaglioffo, a prova di lusinghe, s'ingegnasse insinuarglisi
nel cuore; e poichè quegli ebbe posto fine al parlare, egli
tenendogli gli occhi fitti nel volto così prese a dire:
- E qual cosa vi ha dato motivo di supporre che i parenti miei, ed
in ispecial modo donna Luisa mia signora nuora, potessero
riuscirmi molesti? Voi spiate gli andamenti dei vostri padroni, ed
è gran male; voi interpretate alla rovescia le loro
intenzioni, e questo è peggio. Andate dal mio maestro di
casa; fatevi pagare l'annata intera, e spogliate la mia livrea; -
stasera non avete a dormire in palazzo().
Il servo rimase come colui, che cercando sotto un albero rifugio
dalla pioggia, sente cascarsi sul capo un ramo rotto dal fulmine;
volle prostrarsi, s'ingegnò parlare, e così con voce
e con cenni domandare mercede; se non che il Conte, mal sofferendo
che il servo si trattenesse dopo il suo comando, con suono al
quale era impossibile resistere aggiunse:
- Uscite...
- Ah! clarissima ed illustrissima donna Luisa, - diceva il servo
con parole ardenti - vede... per aver fatto entrare vostra
signoria tocca adesso uscire a me. Lascio considerare a lei se sia
giusta. Io mi trovo proprio per le strade: - non dirò per
colpa sua, Dio me ne guardi!; ma finalmente per renderle servizio
mi capita addosso questo male: - veda un po' di ripararlo: mi
raccomando a lei, gliene va di coscienza...
L'anima del servo, mezzo supplicando e mezzo rinfacciando, stretta
dalla agonia del pane, si attaccava a donna Luisa (disprezzata
poco anzi) come ultima àncora di speranza.
Luisa per vero dire sentì stringersi al cuore pel duro
caso, e più per quel meschino; e stette in forse se dovesse
andare oltre, o ritornarsene a casa; come quella a cui pareva
avere avuto schiarimento abbastanza, ed essercene di avanzo:
tuttavolta prevalse in lei il consiglio peggiore, ed entrò.
I vecchi servi furono attorno al compagno disgraziato, e
sottilmente deridendolo gli medicavano la ferita con l'olio di
vetriolo.
Luisa, con atto nè umile nè superbo, si fece accosto
al banco dove il suocero l'aspettava in piedi; e poichè,
ella per onorarlo come padre, voleva prostrarglisi davanti, egli
non lo permise; ma rilevandola prontamente, con voce benigna
favellò:
- No, figlia mia, io non ho le orecchie nei piedi. Non sia per
rimprovero; ma la creatura umana non deve prostrarsi ad altri, che
a Dio.
- Signor padre, poichè voi così benigno mi concedete
il diritto di adoperare questo nome, permettete che innanzi tratto
vi domandi perdono di non essermi mai presentata al vostro
cospetto. Mi avevano assicurato che voi mi avreste bandita da casa
vostra... questa onta, voi intendete, è insopportabile per
una gentildonna romana...
- Certo, farvi moglie del mio figliuolo primogenito sul quale
aveva riposto ogni mia tenerezza come ogni mio orgoglio, - senza
pure impetrare il mio consenso, - anzi senza domandarmi la
benedizione paterna: - ma che parlo di benedizione e di consenso?
senza pur farmene un semplice motto, - parmi tale oblìo di
ogni autorità, - tale un disprezzo di qualunque reverenza,
che il cuore di un padre non può astenersi di gemerne
profondamente. In quanto poi al cacciarvi dalla mia presenza,
perdonate, - ma la mia nuora, come colei che sente essere
gentildonna romana, dovrebbe sapere, che un barone romano non
può mai mancare di cortesia verso una donna, anche quando
potesse riuscirgli per avventura molesta...
E siccome Luisa, punta dalla sottile allusione al suo umile
lignaggio, stava per rispondere con vivezza, l'astuto vecchio, che
bene se ne accorse dal colore vermiglio che le si diffuse su per
le guance, si affrettava soggiungere con voce soavissima:
- Molto più che avendo voi sortito onesti natali, e
predicandovi la fama valorosa donna, io non avrei trovato
ragionevole causa per oppormi a queste nozze. Neppure avrebbero
fatto ostacolo le mediocri sostanze della vostra famiglia sia
perchè la mia casa non ne abbisogni, sia perchè la
fortuna faccia delle ricchezze come il mare delle acque, che ne
cuopre e ne discuopre i lidi senza posa; e a me talentò
sempre piuttosto virtù senza danaro, che dovizie con
superbia, con malignità, o con istolidezza...
- Don Francesco, duolmi per iscolpare me dovere appuntare altrui;
ma importa che sappiate come Giacomo, vinto dalla sua passione,
m'ingannasse affermandomi, sotto parola di gentiluomo onorato, voi
sciente e consenziente le nostre nozze: solo per certi particolari
riguardi desiderare, che i nostri sponsali rimanessero per alcun
tempo celati...
- Ed ecco come - esclamò il Conte percuotendo di forza con
un piede il pavimento - il disprezzo del primo dovere di
gentiluomo, ch'è la lealtà, conduce sempre in
miserabili rovine. Voi pertanto foste ingannata; io tradito. Forse
potrei riprendervi di soverchia facilità a credere; - forse
potrei chiamare incauti i vostri parenti, e voi; - ma, in
qualunque caso, qual colpa mai avrebbero i vostri figliuoli?
- Ed è appunto per questi, che pure sono sangue vostro, e
devono continuare la vostra discendenza...
- E ne avete?...
- Quattro, e leggiadrissimi tutti - angioli d'innocenza e di
beltà - rispose vivacemente Luisa mentre le pupille le
sfolgoravano traverso due grosse lacrime, figlie dell'orgoglio
materno...
- Com'è feconda la razza delle vipere! - pensò nel
suo segreto il Conte Cènci; - poi con labbra sorridenti
riprese:
- Dio ve gli salvi...
- Padre mio le vostre parole mi ridonano gli spiriti. Ascoltatemi
dunque, perocchè io sia venuta appunto per favellarvi dei
vostri nepoti. Voi vedete in me una madre desolata, una vera madre
del Pianto. Di me non parlo. Non badate a questo abbigliamento
vilissimo, per cui divenni favola poco anzi dei vostri medesimi
staffieri.....ma sappiate che i figliuoli miei, i nepoti vostri,
non hanno vesti che bastino a cuoprire la loro nudità; -
mancano spesso di pane per saziare la fame. -
E le lacrime d'orgoglio, che versava poco anzi liete e rare, si
convertirono nella povera madre in pianto dirotto, e pieno di
dolore.
- Come può essere questo? Certo io non vorrò negare
di essermi mostrato sempre a Giacomo piuttosto scarso, che no;
però che la esperienza mi avesse ammaestrato, com'egli
crescesse nei costumi poco lodevoli in proporzione della
facoltà ch'ei possedeva per alimentarli. La botte delle
Danaidi fu favola, ma la prodigalità di mio figlio è
vizio pur troppo irreparabile. A me repugnò sempre
contribuire a renderlo peggiore di quello ch'ei sia. Mi ha ognora
trattenuto dal mostrarmi largo soverchiamente con lui una sorte di
rimorso, e il timore di doverne rendere un giorno conto a Dio. Se
i nostri antenati non avessero fondato i fidecommissi, ed io non
attendessi a imitarli in questa lodevolissima pratica, ma sapete
mia cara Signora, e spettabile nuora mia, che io andrei pensoso -
ma pensoso davvero intorno alla sorte dei vostri figli, e miei
nepoti? - Nonostante ciò, mi sembra che con duemila ducati
annui si possa provvedere alle necessità, ed anche alle
comodità della vostra famiglia.
- Ma Giacomo afferma che voi gliela trattenete, e che gli gettate
pochi scudi, così di tanto in tanto, piuttosto in segno di
oltraggio, che in sollievo della sua miseria...
- Egli lo afferma? E forse anche lo giura con la stessa parola di
gentiluomo onorato con la quale vi accertava me sciente, e
consenziente del vostro matrimonio? - Io non vi giuro,
perchè mi è stato insegnato che il parlare del
Cristiano ha da essere: sì, sì; no, no...Ma ecco,
chiaritevi di per voi stessa sopra i libri di casa (e preso un
libro di ricordi lo aperse, glielo pose sott'occhio segnandole col
dito diverse partite, che la nuora si astenne di leggere) se gli
sia stata pagata, o no, la pensione pattuita. Poichè questo
sciagurato riduce il suo genitore alla umiliazione di
giustificarsi, le pietre stesse insorgeranno per fare
testimonianza contro di lui. - Calunnia - e sempre calunnia
ingiustissima; eppure non è la più trista delle
colpe, che deva rimproverare a Giacomo il mio cuore paterno! Ma i
miei dolori devono rimanere sepolti qua dentro. Ahimè!
Francesco Cènci, quanto sei misero padre, ed infelice
vecchio...Ahimè! - E si cuopriva con ambedue le mani la
faccia.
Luisa alla venerabile sembianza, allo accento di uno affanno
così profondo si sentiva commossa. Il perverso, sempre con
voce di lamento, proseguiva dicendo:
- Potessi almeno trovare un cuore col quale sfogare la immensa
amarezza dell'anima mia!...
- Padre mio! - Signor Conte...ed io pure sono madre e sposa
infelicissima, - sfogatevi...noi piangeremo segretamente
insieme...
- Egregia donna! Mia buona figliuola! No - no - la religione della
moglie consiste nello stare attaccata come osso a osso all'uomo,
che scelse a suo compagno nella vita: - però io devo
astenermi dalle parole, e forse ne ho favellate troppe, chè
potrebbero farvelo amare meno... O Giacomo! quanta notte di
angoscia tu versi sopra gli estremi anni del tuo povero padre!
Ecco mi è ignota la faccia dei miei nepoti - gentile
orgoglio degli avi. - Noi potremmo vivere tutti sotto il medesimo
tetto, uniti nella benedizione di Dio! Questo palazzo è
troppo vasto per me; io lo percorro solitario, e assiderato; io,
che dovrei specchiare le mie sembianze rinnuovate nelle sembianze
dei miei nepoti - io, che dovrei riscaldarmi nelle loro carezze;
tra i cuori nostri, che anelerebbero accostarsi, e le nostre
persone sorge un muro di bronzo; e tu, sciagurato Giacomo, ne sei
stato l'artefice!
Luisa, considerando la sembianza del vecchio tinta nella cenere
dell'odio, temè avere aggravata soverchiamente la sorte del
marito. Onde cauta si ritrasse domandando pacata:
- E tanto vi offendono, Padre mio, le colpe del vostro figlio, che
la speranza di un meritato perdono non possa scendere mai dentro
il vostro cuore paterno?
- Io lascio giudicarlo a voi. Vi rammenterò cosa, la quale
per essere conosciuta universalmente mi dispensa da rinnuovarne
l'acerbo racconto. E chi fu quegli che condusse Olimpia a dettare
lo scellerato memoriale al Papa, per cui mi svelsero dalle braccia
cotesta figlia traviata con tanta ferita al mio cuore, e danno
della mia reputazione? - Giacomo. - Chi procurò che cotesto
libello infamatorio pervenisse nelle mani di Sua Santità? -
Giacomo. - Chi fu che, prosteso ai piedi del Vicario di Cristo, lo
scongiurò con sospiri e con lacrime della mia morte? - Chi?
- Un nemico, forse? L'erede di uno, a cui io avessi dato la morte?
- No - Giacomo - l'uomo, che mi deve la vita...
- O Padre mio, deh! via, placatevi: forse vi riportarono di
Giacomo più, e peggio di quello ch'ei dicesse o facesse. Il
vostro antico senno conosce l'usanza pessima dei servi di mettere
male del caduto in disgrazia presso il padrone, ingegnandosi di
venirgli in grado coll'aggiungere legna al fuoco. - E se anche i
falli del vostro figliuolo fossero gravi come voi dite,
risovvengavi ch'egli è vostro sangue; - risovvengavi che il
nostro Signore Gesù Cristo perdonò a coloro che lo
avevano crocifisso, perchè non sapevano quello che
facevano...
- Ma Giacomo sa troppo bene quello che si faccia. Ogni giorno egli
cresce nella sua empietà: - ogni ora egli si affatica a
togliermi la fama, e questo avanzo infelice di vita ... -
Ferocemente impaziente il figliuolo meraviglia della lentezza
della mia morte, a cui crebbe le ali con tanti desiderii. - Senti,
figlia mia; e se lo impeto gitta l'argine e trabocca, tu vogli
perdonarmelo. Però questi orrori, io ti raccomando stieno
fra Dio, me e te: soprattutto i miei nepoti gl'ignorino sempre,
onde non imparino ad aborrire il padre loro. - Ora sono pochi
giorni egli venne qui a pervertirmi Beatrice e Bernardino,
persuadendoli perfidamente avere io procurato la morte di
Virgilio; come se cotesto infelice fanciullo, per somma sventura
sua e di me, non fosse colto dal male insanabile del tisico.
Nè questo è tutto: giù nella Chiesa di san
Tommaso, eretta dalla pietà dei nostri avi, e da me
restaurata, mentre si celebravano esequie solenni all'anima del
defunto figliuolo, convertita la bara in cattedra di abominazione,
senza rispetto alla santità del luogo, ai sacri altari,
alla religione del rito, al Dio presente, congiurava con gli altri
traviati figliuoli e la consorte - la morte mia... - Tu fremi,
buona Luisa? - Sospendi il tuo orrore, chè avrai a fremere
di bene altre cose poi. Quando io, misero padre! mi faccio a
piangere sul cadavere dell'angelica creatura, avanti tempo
chiamata a vita migliore, io non so quale o nuova insania, o
inaudita rabbia gli strascinasse... ecco mi rovesciano addosso il
morticino... mi percuotono... mi feriscono... Guarda, figlia, di
per te stessa, esamina... io porto impressi nel volto i segni del
sacrilego attentato...
Qui si fermò come rifinito dall'atroce memoria; quindi, in
suono di pianto, riprese a favellare:
- D'ora in avanti, quando mi verranno incontro i miei figliuoli...
Giacomo sopra tutti... sai tu, che cosa mi toccherà a fare?
Tentare se mi abbiano bene affibbiato il giaco... frugare se mi
sia dimenticato il pugnale. Tra lui e me porre un cane fedele, che
dal suo furore mi preservi la vita... Sì, un cane;
poichè il mio sangue mi procede siffattamente nemico.
Sfiduciato della razza umana, bene è forza che io cerchi la
mia difesa fra le bestie: - anzi questo cane io aveva, e
fedelissimo a prova... ed essi me lo hanno ammazzato di un colpo
di spada nel cuore... truce presagio di ciò che riserbano
al padre loro. - Già da qualche tempo m'invade un
pensiero... che, nato sul mio doloroso guanciale, ha preso a
impadronirsi di me come idea fissa... ed è se io debba
permettere ch'essi consumino il parricidio, o piuttosto, troncando
con le mie proprie mani questa misera vita, risparmiare in un
punto a loro la infamia e la pena del delitto, a me il supplizio
incomportabile di vivere. Ah! Signore, quanto è dura
necessità questa di perdere l'anima loro, o la mia!
Qui piegata alquanto la faccia fissava certa lettera di Spagna, la
quale gli porgeva notizia della morte che si presagiva imminente
di Filippo II, da lui sopra ogni altro re ammirato, e nel suo
segreto pensava: - lui avventuroso che prima di morire potè
fare strangolare il figliuolo, e ne fu benedetto da Santa Madre
Chiesa!() -
Intanto fu bussato pian piano all'uscio della stanza. Il Conte,
rialzato il capo, con voce ferma ordinava:
- Avanti...
Comparve Marzio, il quale dopo qualche esitanza, veduta ch'ebbe la
donna, favellò:
- Eccellenza... il tabellione...
- Aspetti. Fatelo passare nella stanza verde onde possa assettarsi
a bell'agio...
- Eccellenza, egli mi ha commesso annunziarle, che faccende
urgentissime lo chiamano altrove...
- Per dio! Chi è costui, che ardisce avere una
volontà diversa dalla mia - e per di più in mia
casa? - Quasi, quasi io sarei tentato fargli come a Conte Ugolino,
e gittare le chiavi nel Tevere. Andate, e non gli permettete
uscire senza il mio consenso...
La rabbia appena repressa con la quale il Conte fremeva queste
parole, avrebbe fatto avvertito agevolmente chiunque vi avesse
posto mediocre attenzione, della ipocrisia da lui adoperata nei
suoi colloquii fin qui; ma Luisa teneva la mente rivolta altrove,
e lunga ora stette col capo dimesso al pavimento come persona
affatto avvilita, incapace a formare un concetto, o profferire una
parola. Il Conte la sogguardò sospettoso, e poi
riassicurato riprese:
- Però non mi diparto dal mio proponimento, che i figli non
hanno a portare il peso delle iniquità paterne. Questa
legge, severa troppo, venne mitigata dalla dottrina di Cristo...
ed io sono cristiano. Voi mi cogliete nel punto in cui vado a
ridurre ad effetto questa mia convinzione. Ho disposto instituire
eredi delle mie facoltà libere i vostri figliuoli: pei
fidecommissi sto sicuro perchè non possono essere
ipotecati, molto meno alienati; dalle rendite dei fidecommissi in
fuori altro non può sprecare Giacomo vostro, e dovrà
suo malgrado rendere un giorno i fondi inalterati al maggiorasco.
Voi nominerò amministratrice dei beni liberi; e spero, che
dopo aver provveduto onoratamente alla famiglia, potrete avanzare
tanto che valga a crescere il patrimonio. Io desiderava
consultarvi in proposito; ma non poteva rivolvermi a mandarvi a
chiamare, dubbioso se voi avreste tenuto lo invito. Ora poi che
siete venuta spontanea, confesso che Dio vi ha proprio ispirata.
Anche i ciechi dovrebbero vedere qui dentro il dito della
Provvidenza.
Quantunque Luisa, come tutte le madri, sentisse maravigliosa
compiacenza delle ottime disposizioni dell'avo a favore dei suoi
figliuoli, pure, come donna virtuosa, non potè trattenersi
da osservare:
- E la signora Beatrice, e don Bernardino?...
- Beatrice ha già stanziata la dote, sufficientissima a
qualsivoglia gran dama. Bernardino ha da tirarsi innanzi per la
prelatura, e Casa Cènci possiede in copia giuspatronati fra
i più cospicui di Roma.
- E gli altri figli?
- Chi figli?...
- Don Cristofano e don Felice...
- Essi? Oh! essi, la Dio mercede, sono già provveduti, e
non hanno bisogno di niente - rispose il Conte; e i suoi occhi si
raggrinzarono, e la pupilla costretta mandò fuori un lampo
di riso maligno...
- Don Francesco non mi muove curiosità, ma voglia di non
comparire alla mia coscienza cupida del bene altrui, nello
insistere a sapere come venne provveduto ai miei signori
Cognati...
- Essi hanno sposato una potentissima dama che fa loro le spese, e
come a loro le può fare, e le fa ad altri ben molti... - Di
ciò, se vi piace, parleremo altra volta, donna Luisa, e con
agio maggiore...
- Signor Conte, prima di lasciarvi - e donna Luisa esitò
uno istante; poi amore di madre vincendo la donnesca alterezza,
fattasi coraggio riprese: - io vorrei esporvi la causa, che mi
persuase di venire a inchinarvi...
- Ditela...
- Se i miei voti saranno ascoltati in cielo voi vivrete anche
cento anni; e i miei figli, intanto, stremi di tutto...
- Ah sono pure il solenne smemorato! - incominciò a dire
don Francesco toccandosi lieve lieve il capo, e come se favellasse
seco medesimo. - Povera donna! ha ragione. - Sopra il piatto di
cotesto sciagurato ella non può fare assegnamento,
dacchè ei lo spende fuori di casa con altra femmina che
ama; con altri figli, che più dei legittimi formano la sua
tenerezza...
- Come! come! - proruppe Luisa afferrando con ambedue le mani il
braccio destro al suocero. - Dunque, don Francesco, lo sapete
anche voi?
- Signora nuora - replicò il Conte con volto austero - io
vo' che sappiate, il cuore d'un padre non essere meno geloso della
fama dei figli, di quello che il cuore delle mogli nol sia per lo
affetto dei loro mariti; ma nel naufragio di ogni onesto
sentimento di Giacomo tutti dovevamo perdere... voi uno sposo...
io un figlio.
- Luisa mandò un profondo sospiro.
- Ora uditemi, donna Luisa. Io vi somministrerò volentieri
il danaro necessario ai bisogni della vostra famiglia; se non che
intendo che voi vi leghiate con giuramento ad osservare certa
condizione, che vi dirò. Io poi non esigo che voi
v'impegniate a chiusi occhi; mai no: io vi dichiarerò la
condizione, e la causa della medesima; onde se voi troverete, come
non dubito, quella discreta, e questa tendente al bene dei vostri
figliuoli, voi la giuriate con libertà e coscienza.
- Don Francesco vi ascolto.
- Voi altre buone femmine, comprese interamente da un solo amore,
presto ponete giù l'ira che v'infiamma contro l'oggetto
delle vostre legittime affezioni: - voi siete vele, che vi
sgonfiate ad ogni lieve calare del vento... Oh! so bene io quanta
virtù abbiano due lagrimette e un bacio a placare le
più fiere procelle matrimoniali. Giacomo già parmi
vederlo assoluto, e a mille doppii più amato da voi
amantissima sposa: allora voi gli confiderete il danaro, e il modo
col quale lo avete ottenuto da me; ed egli (lasciate fare a lui!)
troverà bene la via di carpirvi la moneta; - ed io, invece
che serva ad alimentare i miei nepoti, vedrò con dolore
averla data ad alimentare i suoi laidi costumi. D'altronde io
presagisco, che anche da questo atto trarrà argomento di
calunnia contro di me: ed io non vorrei che un benefizio mi
fruttasse nuove amarezze. Non paionvi sufficienti quelle che
patisco? Sono indiscreto forse, se io procuro non crescerne il
carico? Ora io desidero, che per cosa al mondo voi non gli
riveliate possedere moneta; e molto meno poi la parte dalla quale
vi viene. Sembravi questa condizione tale, che possa rifiutarsi da
voi?
- No certo; voi mi consigliate perbene, ed anche senza condizione
io mi sarei comportata nel modo che vi piacque indicarmi.
- Tanto meglio. Ecco qua una santa reliquia. - Così dicendo
il Conte si trasse dal seno una crocellina di oro, e, presentatala
alla nuora, aggiunse: - giurate per questa croce benedetta sul
sepolcro del nostro Signore, per la salute dell'anima vostra, per
la vita dei vostri figliuoli, che voi osserverete la promessa...
- Non fa mestiero di riti tanto solenni, rispose Luisa sorridendo
a fiore di labbri: - ecco, io ve lo giuro...
- Sta bene: adesso togliete quanto vi aggrada; e sì dicendo
aperse uno scrigno pieno di monete d'oro di varia ragione; - e
siccome la gentildonna vergognando si peritava, il Conte
insisteva: - ma prendete - prendete... sarebbe strana davvero, che
tra padre e figlia si facessero tanti rispetti. Orsù, via,
farò da me; - e riempita una borsa gliela consegnò.
La gentildonna diventata vermiglia, lo ringraziava con un cenno
affettuosissimo del capo.
- Prima però che prendiate commiato, mia cara signora
nuora, udite un'altra parola... - perchè voi comprendete
ottimamente come malgrado le ingiurie atroci con le quali Giacomo
mi ha offeso - e continuerà pur troppo ad offendermi - egli
sia sempre mio sangue. - Non vi stancate di tentare ogni mezzo per
ricondurre cotesto traviato al mio seno... chiudete l'occhio alle
sue infedeltà... soffrite gl'insulti... obliate ch'egli ha
procreato altri figli, che non sono vostri;... che mentre ai
legittimissimi vostri fa mancare le cose al vivere necessarie,
prodiga ai figli naturali altrui - anzi adulterini - moneta, onde
compaiano vestiti di broccatello di argento, e di oro...
Perdonatelo, convertitelo, riconducetemelo insomma; le mie braccia
stanno sempre aperte per lui.... il mio cuore sempre pronto a
dimenticare ogni cosa in un amplesso sincero: - affaticandovi a
ridonarmi un figlio voi ricupererete in un punto il padre ai figli
vostri, lo sposo a voi. Oh se questo potesse accadere prima che i
miei occhi si chiudessero!... Certo la mia vita non è stata
altro che affanno, e già sta presso a cessare.... ma
qualche volta accade che i giorni procellosi si rasserenino verso
sera, e un raggio di sole languido, ma benedetto, - tardo, ma
desiderato, - venga a salutare con uno addio di amico colui che
sta per partire....
- Don Francesco, voi mi avete riempito così di maraviglia,
di tenerezza e di gratitudine, che io non so in qual modo
significarvelo con parole. Valga in difetto questo bacio, che io
imprimo con tenerezza di figlia sopra la vostra mano paterna. Ma
quantunque io senta che dei tanti benefizii, di cui mi avete
colma, non sarò per potermene sdebitare giammai, pure vi
supplico a degnarvi d'aggiungerne un altro - ed è: di
compiacervi a raffermare quel famiglio, che voi avete licenziato
per colpa mia...
- Egregia donna! - Non io, Luisa, ma voi gli rimettete il fallo;
avvegnachè io lo avessi congedato a cagione della mancanza
di rispetto con la quale mi aveva favellato di voi.
Qui agitava il campanello, e apparve uno staffiere di sala.
- Ciriaco.
Ciriaco veniva, umiliando il capo fino a terra.
- Ringraziate donna Luisa dei Cènci mia clarissima nuora,
che vi permette rimanere graziandovi il fallo commesso. D'ora
innanzi emendatevi, e siate più riverente co' vostri
superiori.
- Mia buona padrona e signora, disse Ciriaco gittandosele
giù di rifascio in ginocchioni davanti, Dio le ne renda
merito per me e per la mia povera famiglia, che senza la sua
carità si sarebbe ridotta ad accattare.... e non avrebbe
pane...
Luisa gli sorrise. Don Francesco accompagnò lei, invano
supplicante a rimanersi seduto, con onesta cortesia fino alla
porta; e quindi tornando addietro con presti passi, pose una mano
su la spalla di Ciriaco; e squadratolo con biechi sguardi gli
favellò così:
- Non solo adesso tu te ne andrai di casa mia; - ma di Roma
altresì, - ma da tutti gli stati Pontificii ancora, - e
subito; - se domani io ti sapessi qui, penserò da me stesso
al tuo viaggio. Va senza guardare indietro: io non ho la potenza
di convertirti in istatua di sale; possiedo semplicemente quella
di convertirti in morto. Mettiti un sigillo su la bocca, la paura
di me nell'anima; se i piedi ti venissero meno, continua il tuo
cammino con le ginocchia carponi. Tu, che hai avuto la pericolosa
curiosità di esaminare i costumi del tuo padrone, avrai
notato com'egli non manchi mai a quello che promette. Esci, e
ricorda che Dio non si osserva, ma si adora; ed ogni padrone, pei
suoi servi o sudditi, ha da essere un Dio.
Coteste minacce e cotesto piglio gettarono tanto avvilimento nel
cuore al servo, che si partì ratto da Roma insalutata la
propria famiglia. Ad ogni muovere di foglia gli pareva avere alle
costole qualche bravo del Conte Cènci; nè si
quietò il suo affanno finchè ei non fu di molte
miglia lontano da Roma.
*
* *
- Ai comandi di vostra Eccellenza, disse il Notaro (con la
familiarità servile consueta alla gente di toga) entrando
nella stanza...
Il Conte, con superbia magnatizia rispose:
- Vi ho chiamato, Sere, per consegnarvi il mio testamento
olografo: stendete l'atto di recezione, intanto che mando per
testimoni idonei: fate bene, e spedito.
I testimoni vennero, e s'inchinarono; l'atto fu celebrato, e i
testimoni partirono, e s'inchinarono senza parole; impassibili,
piuttostochè ad uomini somiglievoli ad ombre. Il tabellione
mentre ripiegava i suoi scartafacci si sentiva proprio morire non
isciogliendo il freno alla garrulità, vizio che aveva
comune a tutti i suoi confratelli in protocollo.
- Per bacco!, proruppe il Notaro, io so che vostra Eccellenza non
ama osservazioni, epperò mi sono affrettato a servirla di
coppa e di coltello: tutta volta però mi pareva, che vostra
Eccellenza non fosse in termini dirimpetto alla età per
devenire a questo atto, et voluntas hominis ambulatoria est usque
ad mortem; sicchè in tanto si raggiunge meglio lo scopo
della testamentifazione, in quanto più si aspetta a farlo.
Simili disposizioni patiscono della natura dei meloni, che stando
molto colti senza mangiarli infracidano.
- L'uomo è egli padrone del domani? E gli uomini alla
età mia si assomigliano agli ebrei nel giorno di Pasqua,
col bastone in mano e i calzari in piedi pronti a partire. A me
pareva non avere mai pace, finchè non avessi assicurato in
modo fermo il destino dei miei figli e nepoti.
Il tabellione, che aveva un muso appuntato a modo di volpe, e il
cervello eziandio, gli ficcò addosso due occhini lustri che
parevano fatti col succhiello; e stringendo le labbra rise un tal
sorriso di sorba acerba, che voleva dire: che con lui coteste
lustre non valevano un lupino, e che quando al diavolo del Conte
legavano il bellico, il suo andava ritto da se senza bisogno di
ciuffolo.
- In quanto a questo poi, Eccellenza, osservò l'astuto
notaro, non faceva mestiero che il suo cuore paterno si mettesse
in ambasce, imperciocchè la legge provvidissima ripari a
tutto. Sa ella, signor Conte, come noi altri, che ce ne
intendiamo, si costuma definire il testamento? Atto illegittimo,
col quale il padre di famiglia leva la roba a chi va.
Il Conte gli lanciò un'occhiata da tagliargli la faccia; ma
il Notaro aveva mutato sembiante: adesso compariva semplice, come
se egli avesse mosso coteste osservazioni più per
dabbenaggine, che per malizia. Don Francesco non trovò a
fare meglio, che imitarlo; sicchè con volto beato rispose:
- O guardate!... che mi troverò ad avere fatto un atto
inutile? Ma utile per inutile non vitiatur, come mi pare che
insegnate voi altri curiali; e poi, quando non avesse servito ad
altro, avrà procurato a me il piacere di essermi trattenuto
con voi, a voi il piacere di avere guadagnato qualche ducato...
E largheggiando, come suoleva, nella mercede, don Francesco si
levò prontamente dintorno cotesto importuno scrutatore
delle cose sue, che si allontanò strisciando come una
serpe, e ripetendo col pugno pieno di moneta:
- Troppo generoso! sempre magnifico! Dio la mantenga sano, e
verde.
Rimasto solo, il Conte così andava mulinando da se:
- Ora i Cènci non godranno più della mia
eredità libera: ho diseredato tutti i miei figli, nel caso
che qualcheduno sopravviva(); - peraltro io farò in guisa,
per quanto sta in me, che questo non avvenga. La causa della
diseredazione è la principale delle quattordici indicate da
Giustiniano. Le mie volontà saranno rispettate. Per dio! Se
i miei nepoti non si conducessero a divorarsi le mani per fame, io
risusciterei per istrozzare i giudici che sentenziassero a loro
vantaggio... E poi ho istituito eredi luoghi pii, corporazioni
religiose, e simili mani morte. Mani morte! - Chiedea mattoni, e
gli portavan rena... che torre di Babele è mai questa?
Ormai bisogna riformare la lingua. Mani morte! Ne furono mai
vedute in questo mondo più vive a prendere, e più
dure a ritenere? Avanzano i fidecommessi! Immenso tesoro! Ora come
adopererò io per svincolarli, e disperderli?
Bisognerà che io me la intenda col Cardinale Aldobrandino:
costui prenderebbe anche lo inferno per raccattarvi cenere. Quale
avarizia feroce! Trama di prete romano, e orditura di mercante
fiorentino! Io credo fermamente, ch'egli abbia provato a trarre
sangue dai sassi del Colosseo. Ma per levare ai lupi mi è
d'uopo gettare alle jene... fiere contro fiere... dura
necessità! ma sia; - purchè rimangano ignudi i miei
figliuoli, venga anche il diavolo, e si vesta del mio mantello. -
La onorevole figura che farebbe il diavolo, col mio mantello
scarlatto trinato di oro! Nessuno presuma accusarmi di non aver
lasciato sostanza ai miei figliuoli e nepoti, chè avrebbe
torto. Come Timone lasciava agli Ateniesi il fico del suo campo
onde vi si potessero impiccare a loro bell'agio, io lascio in
retaggio ai miei discendenti il Tevere perchè vi si
affoghino dentro().
CAPITOLO X.
IL CONVITO.
Cènci. «Benvenuti, amici e gentiluomini; benvenuti,
principi e cardinali, colonne della Chiesa, che
onorate il nostro festino con la vostra presenza ... quando
avremo ricambiato insieme
un brindisi o due, voi vorrete reputarmi
carne e sangue come siete voi, peccatore invero;
da Adamo in poi siamo tutti così; ma
compassionevole, mansueto e pietoso».
Shelley, Beatrica Cènci.
È bello vedere il tremolio azzurro e di oro delle acque
marine, però che esse abbiano senso d'amore, e voce
fatidica. - Al raggio della luna, che di loro s'innamora,
palpitano di piacere. - Parlano, quando si succedono come lacrime
lungo le sponde, una lingua di pianto, composta dei gridi dei
naufraghi raccolti per tutta l'ampiezza della sua superficie: pei
liti del mare Egèo ripetono un lene lamento di lira,
poichè Saffo immergendosi in coteste acque vi lasciasse la
sua vita ed il suo amore.
È bello vedere il Sole prorompere nella magnificenza dei
suoi raggi dai patrii colli, e accendere con uno sguardo la vita
per la terra e pel cielo; ed è pur bello, affacciati da una
balza, mirarlo quando tramonta, e lascia dietro a se una nebbia
dorata, come un monile che donava alla donna dei suoi pensieri il
cavaliere in procinto di partire per terre lontane; o nuvole tinte
in porpora, quasi mantello reale consegnato alle ore sue ancelle
prima di andare a giacere, per ripigliarlo al suo svegliarsi
domani. Allora gli uccelli traversano rapidi i cieli chiamando la
famiglia a raccolta, e raddoppiano il canto o per amore della luce
che si spenge, o per paura delle tenebre che nascono: pei campi il
tintinno dei campanelli raduna gli armenti alle stalle: dall'alto
dei campanili la squilla con tocchi dolenti annunzia essere giunta
l'ora delle gioie domestiche e delle memorie. Invano! Non tutti
gli uomini amano il focolare di famiglia, e la preghiera pei
morti; molti, all'opposto, spiano dallo spiraglio della finestra
quando il giorno cessa, e respirano più liberi al calare
della notte, però che i pensieri e le opere loro sieno di
tenebre. Ed io, che pure non amo le tenebre, non rispondo alla
chiamata. Qual è la stanza che mi attende? La cella del
prigione solitaria, nuda, gelida, dove non odo altro che il gemito
di qualche infermo, o l'agonia di un morente perchè fa
parte d'un ospedale di condannati().
Sopra lo spalto dell'antica fortezza di Volterra contemplo i colli
lontani di azzurri e lieti farsi neri e minacciosi, simili ad
amici che ti abbiano tradito, o di beneficati che, giusta il
costume, ti paghino il debito in moneta d'ingratitudine. Le
nuvole, poco fa sfavillanti dei colori della madre perla,
diventano fosche come i ricordi della passata felicità; si
affacciano oscuri al travagliato dalla presente sciagura. Alcune
vele bianche passano, e si perdono per la caligine del mare
Tirreno a modo dei pensieri, che si sprofondano nel buio della
meditazione. Il fiume antico della Cecina avvolgendosi con
infinite curve per la campagna, par che fugga di perdersi nel
mare, come la vita tenta ogni sforzo per sottrarsi alla morte
irreparabile. Scorri, o fiume, più rapido dove ti spinge
necessità di natura, e non trattenere con inani conati le
tue acque, - perchè tutto incalza un fato supremo. Come
rami di albero, o manipoli di paglia, sopra la tua corrente reami
e popoli galleggiano sul fiume del tempo per traboccare nella
Eternità.
Poichè tutto muore, deh! possa sovvenire a noi miseri il
conforto di poter volgere nella fossa alla cenere, che ci sta
accanto, queste parole: «Tu sei formata di ossa felici, non
innocenti; godesti assai - fatti in là - e non usurparmi le
lacrime di cui mi consolano i superstiti come me miseri - e come
me pietosi. A Dio piaccia, almeno nei sepolcri, separare le ossa
innocenti dalle ossa malvagie!»
Molte sono le cose che appaiono belle nel creato: o perchè
veramente tali sieno per se stesse, o pei pensieri che suscitano;
ma nessuna riesce più stupenda all'occhio del padre quanto
la faccia dei suoi figliuoli. Gli occhi dell'uomo furono
inebbriati, quando prima contemplarono le care sembianze della
donna che adesso è madre dei suoi figli, e se ne rallegrano
ancora; ma o lo splendore della bellezza si offuscò, o la
virtù degli occhi decrebbe, avvegnadio egli possa di
presente guardarla senza che l'anima dentro gli tremi; - ma la
gioia, che nasce dalla vista dei figli, non viene mai meno. Come
la sostanza odorosa che si ricava dal muschio per emanare di
effluvii non diminuisce di volume o di peso, così lo
affetto paterno non menoma la sua intensità. I figli sono
la corona della vita dei padri; essi ci sopravvivono a modo del
profumo che avanza dallo incenso consumato dal fuoco; essi vanno
ai posteri messaggeri e testimonianza dello ingegno e delle
virtù degli avi. - Amati, se non leggiadri (perchè
la luce dell'anima rende gioconda qualsivoglia sembianza); -
doppiamente amati se belli; - dilettissimi sempre se la Sapienza
toccò con le ali infiammate le loro teste, o se ebbero,
nascendo, meno benigno il raggio delle stelle, purchè
virtuosi di cuore, e d'anima intemerata; - imperciocchè il
grande intelletto sia grazia di Dio; ma la rettitudine è
retaggio, che ogni creatura può, e deve comporre con le
forze dell'anima propria».
*
* *
Don Francesco Cènci aveva imbandito un sontuoso banchetto
un festino reale in verità. Dentro vastissima sala, di cui
la volta appariva dipinta stupendamente dai migliori maestri di
cotesta età non ancora interamente corrotta, stavano
dirizzate le mense. Intorno alla sala ricorreva un cornicione
bianco e dorato, sostenuto a uguali intervalli da pilastri
parimente bianchi frastagliati d'arabeschi di oro. Gli spazii da
un pilastro all'altro erano coperti di specchi alti meglio che
otto braccia; ma perchè l'arte, che allora fioriva a
Venezia, non sapeva anche fabbricarli di un pezzo solo, erano
connessi insieme in più frammenti; e per cuoprire le
giunture con leggiadro trovato vi avevano dipinto amorini, e
fronde, e frutti, e fiori, e uccellini di varia ragione, oltre
ogni credere vaghissimi: otto porte andavano guarnite di portiere
di broccato, di cui il fondo bianco di raso, gli orli in rilievo a
fiorami di oro, in mezzo lo scudo gentilizio co' suoi colori
bianco e vermiglio.
Tutto, insomma, appariva magnifico; stoffe, specchi e dipinti; se
non che la pittura, di scuola bolognese, ostentava dovizia, non
potendo oggimai più comparire bella nella sua
semplicità.
La Pittura, toccato ch'ebbe con Raffaello il grado supremo della
perfezione, decadde secondo il fato naturale di tutte le cose
quaggiù. Però in talune la decadenza avviene
inevitabilmente, imperciocchè abbiano perfettibilità
definitiva; in tali altre, all'opposto, la decadenza è
accidentale, essendo di perfettibilità indefinita. La
poesia deve annoverarsi fra le seconde, la pittura fra le prime.
La ragione poi della differenza parmi questa, che scopo della
pittura essendo riprodurre in immagine gli oggetti, tanto
più apparisce pregievole quanto meglio esattamente gli
ritrae:
Morti gli morti, i vivi parean vivi; Non vide me' di me chi vide
il vero().
Ma la poesia si feconda non solo dalla percezione fisica degli
obietti, sibbene ancora da argomenti del pensiero, e dagl'impeti
della passione. Irradiando gli occhi, il cuore e lo intelletto con
iride perpetuamente screziata di moltiplici colori, fa sì
che sempre varii e sempre inesausti si diffondano i suoni della
lira immortale. Raffaello sta come Signore della Pittura,
nè per ora alcuno seppe superarlo, e forse nol
supererà giammai, essendo singolare la via che conduce a
cotesta eccellenza. Molti poi scintillano astri maggiori del
canto, però che i pellegrini intelletti nello sterminato
firmamento della poesia possano percorrere il volo che il genio
loro consiglia, e le ali sopportano.
Io non mi tratterrò a descrivere lo incanto, che nasceva
dal profumo dei fiori e dallo sfolgorare dei torchi di cera bianca
fitti su candelabri di argento ripercosso le miriadi di volte per
gli specchi, pei vassoi, bacili, boccali, urne, vasi, statuette,
grotteschi, e argenterie d'infinite ragioni ammirande per dovizia,
e per lavoro stupende. I tempi di questo racconto non distano
tanto da noi, che di simili masserizie chiunque ne avesse vaghezza
non possa farne esame nei pubblici musei. Nelle case dei nostri
patrizii adesso non se ne vedono più, o rare; però
che le abbiano vendute allo straniero. Che cosa non venderebbero
essi, i nostri patrizii, se trovassero il compratore? Presso a
questo turpe mercato, benedetto... io sto per dire... sì,
benedetto il saccheggio dello aborrito nemico! Il soldato ladro
non ti porta via la speranza di ricuperare il mal tolto, nè
il desiderio di adoperartivi con tutti i nervi; ma lo straniero
che ti compra a patto le reliquie paterne ti compra a un punto un
brano del tuo cuore, e tu gli vendi un pezzo di patria! La rapina
dispone gli animi a libertà ed a vendetta; la vendita
volontaria a servitù. Così gli Spartani punivano
meno la violenza fatta alla vergine, che la seduzione(); e
rettamente: imperciocchè con la violenza si contamini il
corpo, con la seduzione il corpo a un punto e l'anima. Oggi nelle
leggi è alla rovescia; prova fra mille, che la materia ha
vinto lo spirito, e da per tutto se ne vedono segni manifesti. -
Ma io torno allo argomento; chè la mia tragedia desidera
discorso non di suppellettili, sibbene di anime e di passioni.
*
* *
Don Francesco, con la gentilezza che si addiceva al suo nobile
lignaggio, e con la grazia che gli veniva dal suo spirito, accolse
i convitati. Eranvi diversi di casa Colonna; eranvi i due Santa
Croce, Onofrio principe Dell'Oriolo, e don Paolo di cui fu parlato
sul principio di questa storia; eravi monsignore Tesoriere; e poco
dopo vennero i cardinali Sforza e Barberini amici, o consorti di
casa Cènci, con parecchie altre persone che non rammenta la
storia; finalmente, dietro l'ordine del Conte, assisterono donna
Lucrezia, Bernardino e Beatrice.
Beatrice vestiva a scorruccio. S'ella non avesse indossato cotesto
abito a modo di protesta contra la gioia paurosa del convito
paterno, sariasi sospettato che lo avesse fatto con accorgimento
donnesco; tanto egli giovava a dare risalto al candore
maraviglioso della sua pelle. Per tutto ornamento ella portava
intrecciata nelle chiome bionde una rosa appassita, simbolo pur
troppo degl'imminenti suoi fati.
- Benvenuti nobili parenti, ed amici: benvenuti eminentissimi
Cardinali, colonne di santa madre chiesa, e splendore urbis et
orbis. Se il cielo mi desse cento lingue di bronzo e cento petti
di ferro, come invocava Omero, non li crederei bastanti a rendervi
grazie per l'onore, che vi degnate compartire con la vostra
presenza alla mia famiglia.
- Conte Cènci, la vostra inclita casa si trova così
in alto locata, che davvero non abbisogna di altri raggi per
isplendere lucidissima stella in questo cielo romano - rispondeva,
giusta il costume dei tempi, concettosamente il signor Curzio
Colonna.
- Voi, nel tesoro della vostra benevolenza, mi procedete parziale
oltre il dovere, onorandissimo don Curzio: comunque sia, gran
mercè dello amor vostro. Io, Signori miei, vi era quasi
diventato straniero: temeva che il mio apparirvi dinanzi vi
spaventasse, come di uomo tornato dall'antro di Trofonio; ma che
volete? Me rodeva una immensa tristezza... l'iniquo male! Ed io,
che provo com'egli trapani le viscere, l'ho portato sempre
studiosamente chiuso nel petto, per tema che mi avvenisse come a
Pandora quando aperse incautamente il vaso, e versò, senza
volerlo, sul mondo la famiglia infinita dei malanni. La tristezza
è la polvere sottile che solleva il vento di levante; da
per tutto s'insinua, a tutto si attacca, e opprime di sgomento
anime e corpi. Il malinconico, per causa più forte del
lebbroso, ha da cacciarsi fuori dei tabernacoli d'Israele, e dai
festini degli eredi di Anacreonte - io parlo per voi, chierici, a
cui mi piace professare venerazione e rispetto: in quanto a voi
altri laici, forse avrei proceduto senza cerimonie... ma no... ho
pensato che se io aveva causa sufficiente a gittarmi via, alberi e
fiumi per appendermi, od affogarmi mercè di Dio non ne
mancavano; e non doveva pormi indiscretamente tra il sole e voi
per abbuiarvi la vita. - Io poi non mi sono impiccato
perchè, bene considerata la cosa, la morte è un
brutto quarto di ora - e di più, su le cose che si fanno
una volta sola, ho inteso sempre dire ch'è savio pensarci
sopra due; - ma neppure volli contristarvi con la mia presenza.
Adesso, che un filo di luce viene a rischiarare obliquamente il
buio della mia anima, scoto la chioma da questa cenere; colgo
anche una fiata - forse l'ultima - una rosa, e ve la intreccio
dentro. - Certo durante il verno non si vorrebbe nudrire vaghezza
di rose, nè il gentil fiore si educa in mezzo alla neve...
pure in questa alma Italia, e ve ne fa prova Beatrice mia, in ogni
stagione crescono le rose; e se non ne trovi nel tuo giardino, va
in quello altrui, e coglile o strappale. Sì, strappale a
forza; perchè, qual legge condannerà il vecchio che
prima di morire ha involato una rosa in ricordo della
gioventù spenta, e in conforto della vita che si spegne?
Tanto varrebbe, che Sua Santità scomunicasse un moribondo
perchè manda lo sguardo estremo alla luce che fugge. E tu,
Beatrice, quale strana fantasia ti prese di mettere una rosa
appassita nei tuoi capelli? Temi per avventura il paragone delle
tue guance con le foglie della rosa fresca? - Cessa dalla paura,
donzella; - tu puoi provocare siffatto genere di confronti,
perchè sei nata a vincerli tutti. -
La fanciulla gli dardeggiò uno sguardo a guisa di saetta;
egli lo ricevè stringendo gli occhi, e facendo sfavillare
le pupille. Don Onofrio Santa Croce rispose:
- Noi siamo venuti, Conte, come parenti ed amici a prendere parte
delle contentezze vostre; e bene mi auguro, che le abbiano ad
essere grandissime; imperciocchè io non vi conobbi mai di
umore sì gaio, da pretendere di emulare il buon vecchio di
Teo. -
- Ed io ebbi torto a non procurarmi cotesto umore, Principe; e
quello ch'è peggio, io me ne sono accorto tardi. La Parca,
- voi lo sapete - o piuttosto non lo sapete - perchè voi
altri eminentissimi Cardinali tenete queste storie in conto di
eresie. Eminentissimi, rispettate i vinti; gli esuli ritornano, e
la fortuna non ha inchiodato l'asse della ruota: anche Giove fu
Dio, e conosce la via che conduce in paradiso. In trono o fuori,
Dii e Principi sono cosa sacra; e non appartiene a Dii e a
Principi insegnarne il disprezzo alle moltitudini. Assai queste lo
imparano da se! E poi non v'incollerite mai contro chi crede
troppo... prendetevela con chi crede poco; - perseguitate chi
crede punto: - anzi io non arrivo a capire come mai vi siate
legate le mani, restringendo a tre le persone delle quali va
composto il vostro Dio - e mio; - dovevate instituire un palio fra
chi credeva di più, e premio un milione di anni
d'indulgenze per colui che giungeva primo. -
- Ma dove era io rimasto? - Attendete... alla Parca. Ora dunque la
Parca ci fila giorni di lana nera, mescolati con altri pochi di
colore di oro; il senno umano sta nel separarli: piangiamo nei
tristi, esultiamo nei lieti, altrimenti convertiremo la vita in
uno eterno ufficio da morti. Omnia tempus habent... e sebbene io
non ammetta, col sapientissimo re Salomone, che possa esservi
anche il tempo di uccidere, mi unisco al suo avviso quando
dichiara tutte cose vanitas vanitatum, se togliete forse un
bicchiere d'acqua pura quando siete assetati... a patto
però che non sia della tofana, che fabbricano a Perugia, o
dell'altra di cui sapeva il segreto il sommo pontefice Alessandro
VI di santissima memoria.
Monsignor Tesoriere osservò maligno:
- Questa vostra giocondità - forse soverchia - è
solita a manifestarsi così intemperantemente dalle persone
che ella visita di rado: essa ritiene del febbrile; e in
ciò tanto più mi confermo quando penso, che la morte
contristava non ha guari la vostra casa.
- Ah! Monsignore, che cosa mi rammentate voi? Noi non ci possiamo
lasciar cadere qualche memoria per terra, senza che un amico,
importunamente pietoso, ve la raccolga e ve la restituisca
dicendo: «Badate, v'è caduta un'amara rimembranza dal
cuore; rimettetela al suo posto». E poi a veruno è
lecito maravigliarsi di ciò, meno che a Monsignore, il
quale nelle cose divine è quella cima di uomo che noi tutti
sappiamo. Infatti non ho io imitato re David? Voi vedete, che io
tolgo i miei esempi da buona famiglia; come lui, morto il
figliuolo, ho esclamato «Digiunai, e piansi finchè
visse» pensando: forse chi sa non me lo renda il Signore!
Ora poichè è morto, perchè digiunerei io?
Forse potrò revocarlo indietro? Io andrò sempre
più verso di lui; ma egli non verrà più verso
di me....()
La pelle di Beatrice a cotesta tremenda ipocrisia fremè di
un brivido doloroso.
- Ma dunque, via, gridarono a coro tutti i convitati: toglieteci
dall'ansietà. Ci tarda entrare a parte della vostra
allegrezza con conoscenza intera.
- Nobili amici! Se voi aveste detto ci tarda soddisfare questa
nostra curiosità, che ci arrovella, voi avreste favellato
certamente più credibile, forse più sincero. -
Comunque sia, voi vi affaticate invano; chè io non intendo
guastare la mia buona notizia sopra corpi digiuni. Mai no; Iddio
manda le rugiade a mattino e a sera sopra i calici dei fiori
disposti a raccoglierle, non già a mezzogiorno sopra pietre
riarse. Preparatevi prima co' doni di Cerere e di Bacco, come
direbbe un poeta laureato, e poi udirete il mio annunzio,
l'evangelo secundum Comitem Franciscum Cincium. A mensa, dunque;
nobili amici, a mensa.
- Signora Lucrezia, sussurrò Beatrice nell'orecchio alla
matrigna, - oh qualche terribile infortunio ci pende sopra la
testa! - I suoi sguardi non ischizzarono mai tanta
malignità quanto oggi. Egli rideva come la faina, quando ha
cacciato i denti nella gola del coniglio per succhiargli il
sangue.
- Dio mi perdoni; non so neppure io da che cosa provenga, ma le
gambe tremano anche a me.
- Chi vi ha detto, signora madre, che mi tremino le gambe? A me le
gambe non tremano, nè l'anima. -
E sedettero a mensa: il Conte Cènci a capo della tavola,
secondo il costume, che allora correva, di dare al padrone di casa
il posto più onorevole; a canto, distribuita a destra e a
mancina, teneva la propria famiglia; succedevano poi i convitati
come il maggiordomo li distribuiva, osservato il grado di
dignità d'ognuno di loro. Squisite e moltiplici furono le
vivande, tutte apprestate sotto fogge diverse; imperciocchè
taluna presentasse l'aspetto del Colosseo, tale altra una galera:
qua vedevi uno scoglio di carne di vitello combattuto da flutti di
gelatina: una fortezza di marzapane tagliata aperse il varco a
uccelli vivi, che spandendosi per la sala la riempirono di giulivi
gorgheggi: da un pasticcio enorme uscì fuori il nano di
casa vestito da papa, che dette gravemente ai convitati la
benedizione apostolica, e fuggì via. Strani concetti
insomma, o empii, secondo suggeriva al Conte la sua schernitrice
natura: e ond'io non mi dilunghi soverchiamente, terminerò
(per somministrare saggio di quanto osasse costui) narrando come
non aborrisse rappresentare davanti Cardinali della Chiesa il
simbolo della Eucarestia mercè una grossissima anatra lessa
che teneva disposti intorno a se certi pavoncelli arrostiti, in
modo da figurare il mistico Pellicano, che si apre il petto per
alimentare i suoi figli col proprio sangue().
I bicchieri andarono in volta spessi, e veloci come la spola in
mano del tessitore: bebbero di più maniere vini così
nostrali come stranieri, cipro, greco, e soprattutto keres,
alicante, ed altri vini di Spagna; perocchè i nostri padri,
bene o male facessero, i vini spagnuoli educati sotto gli ardenti
soli anteponevano ai francesi e ai renani, nati piuttosto dai
sospiri, che dagli sguardi del pianeta della vita.
Poichè - per adoperare una espressione classica, la quale
come sempre vale a dimostrare acconciamente il soggetto - ebbero
sazio il naturale talento di cibo e di bevanda, i convitati, punti
dalla curiosità, ad una voce esclamarono:
- Parvi egli tempo adesso di far cessare la nostra ansietà?
Su, via, Conte Francesco, manifestateci il motivo della vostra
allegrezza!
- Venne il tempo - disse il Conte con voce solenne; poi, composto
il volto ad austero atteggiamento, proseguì: - Però,
miei nobili amici, vi supplico a rispondere innanzi a questa mia
domanda: - Se Dio, scongiurato tutte le sere prima di adagiare le
mie membra sopra le piume, e tutte le mattine aperti appena gli
occhi alla luce - ardentemente, - lungamente per un voto, che sul
capezzale lasciava, e sul capezzale io rinveniva: - se Dio, che
udiva la mia preghiera raccomandata dai Sacerdoti in mezzo al
santo sagrifizio della messa, dai canti delle vergini sacrate,
dalle orazioni dei suoi poverelli: - se Dio, dopo avermi disperato
di concedermi ascolto, allo improvviso, per un tratto della sua
misericordia infinita, i miei desiderii oltre la speranza
adempisse, non avrei, dite, ragione di esultarne io? - Se
così fosse, com'è certamente, esultate, rallegratevi
meco - perchè io sono uomo in tutta la pienezza della
parola - felice!...
- Beatrice - figlia mia - sorreggetemi... ho paura....
- Aiutatevi, rispose Beatrice a Lucrezia, come potete...
perchè io non posso... la testa mi va in giro, e tutti i
convitati mi pare che nuotino nel sangue!
- O Dio! o Dio!, soggiunse la Lucrezia, mi prende il freddo nelle
ossa come al venire della febbre quartana. -
- Immagino, nobili amici e parenti, che voi tutti sappiate, e se
taluno lo ignora lo apprenda, prosegue il Conte, - nella chiesa di
san Tommaso essersi fatti da me costruire sette sepolcri nuovi di
marmo prezioso, per lavoro pregiati, - e poi pregai il Signore,
che prima di morire mi concedesse la grazia di seppellirvi dentro
tutti i miei sette figliuoli; e finalmente votai, che avrei
abbruciato palazzo, chiesa, masserizie e arredi sacri come un
fuoco di gioia. - Se fossi Nerone, avrei giurato incendiare Roma
una seconda volta.
I convitati guardavano l'un l'altro piuttosto attoniti, che
atterriti; poi miravano il Conte, vergognando per lui che si fosse
lasciato prendere dal bere soverchio. - Beatrice teneva declinato
su la spalla destra il volto, pallido come la rosa appassita che
le pendea dai capelli. Il Conte infernale con maggior lena
gridava:
- Uno già ve ne ho sepolto: due altri a un tratto, la Dio
mercè, mi è dato seppellirveli adesso: due stanno in
mia mano, ch'è quasi giacere nel sepolcro: ci avviciniamo
al termine. Dio, che mi compartisce segni così manifesti
del suo favore, vorrà certo, prima che io muoia, adempire
al mio voto.
- O Conte! avreste bene dovuto scegliere argomento di scherzo meno
lugubre di questo.
- Egli è pure il tristo vezzo ridere mettendo spavento!
- Rido io? Leggete....
E cavatesi dal seno alcune lettere, le gittò sopra la
mensa.
- Leggetele.... esaminatele a bello agio; - chiaritevi di tutto;
io ve le ho date apposta. Voi apprenderete come due altri dei
detestati figli sieno morti a Salamanca(). Come sono eglino morti?
- Questo a me non importa niente; - quello che mi preme moltissimo
si è, che sieno morti, chiusi, e confitti dentro due casse
di quercia come ho ordinato di fare. - Adesso pochi più
scudi mi avanza a spendere per essi, - e questi spendo
volentieri.... due ceri.... due messe.... se fossero carrette di
calce viva, e le anime loro potessero restarne scottate.... io ne
farei gettare sopra la fossa loro anche due mila. O Papa Clemente,
che mi condannasti a pagare loro quattromila ducati di pensione
annua, mi costringerai a pagargliela tuttavia? I vermini non ti
porgeranno memoriale, no; - a suo tempo divoreranno anche te. - O
pietoso Aldobrandino, vuoi tu farti vincere dal nepotismo anche
pei vermi? - Onnipotente Dio! ricevi la espressione della mia
profonda riconoscenza; tu esaltasti la mia anima non secondo i
miei meriti, ma secondo i tesori della tua misericordia infinita.
-
Monsignore Tesoriere, tremante di emozione, favellò:
- Deh! nobili Signori, non gli badate perchè la sua ragione
si è sommersa nel vino, o maggiore sventura lo ha colto.
Segno manifesto che egli mentisce, voi uomini cristiani abbiatevi
in questo, che Dio non sopporterebbe ricevere simili
ringraziamenti contro natura; e se fosse vero quello che trabocca
fuori dai labbri di questo forsennato, Dio avrebbe fatto
crollargli le volte sopra la testa.
- Ei non lo ha fatto per amore della pittura, che andrebbe
perduta; e poi perchè ci siete voi, eminentissimi
Cardinali, colonne di Santa Chiesa, che per sopportare cose gravi
disgradereste Milone crotoniate. Sapete che Dio non sempre tira
diritto; e talora mandando giù fulmini alla impazzata
uccise il prete che celebrava messa, e risparmiò il ladro
che rubava. Tesoriere, tesoriere! tu hai da esser lieto, che Dio
guardi tanto alle mie parole quanto alle tue mani. Borsaiolo di
santa Madre Chiesa, se per me giova ch'ei sia sordo, a te importa
che sia cieco.... Ma quando ancora egli mi udisse, io l'ho
avvezzato ad ascoltarne bene altre!
I convitati guardando il Conte pareva avessero provato gli effetti
della vista di Medusa. L'odioso ospite, compiacendosi del terrore
che inspirava, continuò esultante in faccia:
- A me importa soltanto, che i miei figliuoli sieno morti; forse a
voi potrebbe premere eziandio conoscere il modo col quale furono
morti. Favete aures. Felice, ch'era giovane religioso, stava certa
sera a recitare molto devotamente il rosario nella chiesa della
Madonna del Pilastro. La Mater misericordiae, per fargli capire
che le sue preghiere erano esaudite da lei, gli lasciò
cascare sopra la testa il trave maestro del soffitto, e gli
troncò dolcemente il nodo del collo. Nella medesima sera,
anzi pure, secondo che me ne scrivono, nella medesima ora,
Cristofano fu ammazzato di coltello da certo marito geloso il
quale lo tolse in cambio dello adultero, che in quel punto si
teneva a sollazzo nelle braccia sua moglie. Per le quali cose,
considerando il tempo, l'ora e il modo della morte uguali, io
dichiaro eretico insanabile, e incorso nella scomunica maggiore
chiunque fra voi presumesse temerariamente negare, che ciò
sia avvenuto senza espresso consiglio della Provvidenza....
Beatrice, come se tutta l'anima avesse trasfusa negli occhi, con
le pupille dilatate orribilmente lo guardava fisso: e il
Cènci di tratto in tratto gittava uno sguardo obliquo sopra
di lei, e cotesti raggi s'incontravano, si percuotevano, e
corruscavano come ferri nemici cozzanti tra loro. Bernardino come
assonnato nascondeva il capo nel grembo a donna Lucrezia, la quale
con le gote lacrimose e le braccia aperte presentava la sembianza
della Madonna dei sette dolori. Dei convitati alcuno, teso il
pugno chiuso sopra la tavola, minacciava con fiero cipiglio; altri
sporgeva il braccio e il dito accusatori contro il Conte: chi si
mostrava incredulo; chi si turava gli orecchi; chi guardava
pauroso verso il cielo, sospettando che qualche fulmine non
iscendesse. Insomma nè tanti, nè tanto varii sono
gli atteggiamenti effigiati da Leonardo da Vinci nella stupenda
composizione del Cenacolo, quando il Signore profetizza: Amen dico
vobis, quia unum vestri me traditurum est().
Primi furono i Cardinali e il Tesoriere, che si levarono, e
dissero:
- Andiamcene! andiamcene! Salvatevi tutti, perchè l'ira di
Dio non può tardare a rovesciarsi sopra questa casa di
empietà.
Un sussurro inquieto - crescente come di vento foriero della
tempesta, - un fremito mal represso ingombrarono dapprima la sala;
- poi ad un tratto scoppiarono gridi d'obbrobrio e di rampogna,
gemiti e pianti: finalmente, sopraffatti tutti da una medesima
passione, gittavano da lungi con le mani contro lo iniquo Conte le
maladizioni come si lanciano sassi per lapidare i sacrileghi.
- Fermatevi, - grida trucemente beffardo Francesco Cènci. -
Che fate voi? Qui non vi ha scena, qui non vi sono spettatori;
sicchè se pretendete recitare la tragedia, voi vi
affaticate invano. Sta a voi, eminentissimi Cardinali, ostentare
ribrezzo pel sangue? E perchè dunque, ditemi, voi vestite
di rosso? Non forse perchè la macchia del sangue umano non
si distingua sopra la vostra porpora? Via cerretani, che vendete
Cristo come orvietano in fiera. Via Farisei, che se Cristo
tornasse al mondo lo costringereste rifuggire per orrore nella
Mecca a farsi turco. E voi, Principe Colonna, non vi affannate: io
vi consiglio a calmarvi, perchè mi sono trattenuto quanto
basta alla Rocca Petrella per conoscere i vostri detti e gesti; e
se voi non lo sapete, io vi dirò che conosco più che
non desiderereste di negromanzia, per avere potenza di far parlare
certe sepolture e certi morti.... Voi m'intendete, Principe; e
quel che mi hanno appreso sul conto vostro, ve lo
bisbiglierò dentro l'orecchio. - Ora mi rivolto a voi,
egregio amico monsignore Tesoriere:... io vi conforto a non
dimenticarvi giammai, che io sono figlio di mio padre; e che mio
padre, Dio lo abbia in pace, fu tesoriere; e in fatto di conti mi
basta l'animo di tener fronte al primo computista della Camera
apostolica. Avventuroso voi, Tesoriere, se altre faccende mi
tengono distratto - non importa quali! Avventuroso voi se non mi
avanza tempo, o mi prende vaghezza di condurre il nostro comune
amico Cardinale Aldobrandino col filo di Arianna in mezzo al
laberinto del tesoro. Tesoriere rammentati la donnola di Esopo, e
trema di dover ripassare dal buco. - Coprite per altri il padule
di erbe insidiose ond'egli, incauto, vi ponga il piede sopra, e
sparisca quietamente. - ecclesiasticamente. - Io sono il cavallone
fragoroso e spumante: bene posso spezzarmi dentro gli scogli della
sponda; ma prima travolgo, e annego tutto quanto mi si para
dinanzi. Rispettate il vostro signore; cadetemi ai piedi, e
adoratemi.
I convitati con segni espressi di disgusto si avvicinano alle
porte per abbandonare cotesta casa scellerata; ma il Conte
Cènci gridava di nuovo:
- Nobili parenti ed amici, senza che io vi accomiati di casa mia
non potete uscire. Deh! siatemi anche un momento cortesi della
vostra compagnia.
Qui presa una tazza faccettata di tersissimo cristallo la
empì fino al colmo di vino di cipro; e alzandola dicontro
alla vivida fiammella delle torcie, sicchè parve l'avesse
riempita di fuoco, in questa maniera favellò ad alta voce:
- O sangue della vite, che cresciuto ai raggi del sole scintilli e
gorgogli alle fiammelle della luce come l'anima mia
scintillò - esultò alla nuova della morte dei miei
figli - oh! fossi tu il sangue loro maturato al fuoco della mia
maledizione, e sparso in olocausto alla mia vendetta, io vorrei
bevervi devotamente quanto il vino della Eucarestia; e propinando
a Satana, dirgli: «Angiolo del male, prorompi fuori dello
inferno; avventati dietro le anime di Felice e di Cristofano miei
figliuoli prima che si avvicinino alle porte del paradiso, e
rovinale giù nel pianto eterno, e tormentale con i tormenti
più atroci, che mai abbia saputo inventare la tua diabolica
immaginazione. Che se tu non sapessi trovarne di più,
consultami: io confido suggerirti nuovi supplizii, ai quali la tua
fantasia non arriva. - O Satana! alla tua salute m'inebrio in
questo abisso di gioia. Nel mio trionfo trionfa! - Adesso, nobili
amici e parenti, non ho più bisogno della vostra compagnia;
se volete torre commiato da me, siavi concesso; e lascio in
potestà vostra andare o restare, senza però donarvi
resta, nè pallafreno().
- Costui, pei santi Apostoli, diventò pazzo furioso.
- Ah! che io lo reputai sempre perverso da far piangere gli
Angioli....
- Dite piuttosto da far digrignare i denti ai demonii...
- Ad ogni modo è una belva feroce, e bisognerebbe
legarlo....
- Sì, bene.... legarlo.... leghiamolo....
Francesco Cènci, compita ch'ebbe la sua diabolica
invocazione, si era posto a sedere placidamente, e con mollette di
argento si recava alla bocca alcuni pezzi di treggèa
masticandoli a suo grandissimo agio. Quando alcuni dei convitati
con gesti minaccevoli gli si strinsero attorno, egli, senza
neanche sollevare il capo, chiamò:
- Olimpio!
A quella chiamata uscì fuori il masnadiero, che lo astuto
vecchio per ogni buon riguardo aveva tenuto celato, e seco lui
apparvero bene altri venti compagni di sinistra sembianza, vestiti
ed armati da bravi. Questi circondarono i convitati coi pugnali
ignudi, aspettando il cenno del fiero Conte per far sangue.
Il Cènci si rimase alquanto continuando a mangiare
treggèa, e compiacendosi a vedere la paura, che impallidiva
tutti cotesti volti: poi si alzò da mensa, e recatosi in
mezzo ai gentiluomini con lenti passi, si pose a guardarli
stringendo gli occhi malignamente, e non senza riso favellando:
- Voi altri, che siete dotti, dovreste rammentarvi del festino
apprestato da Domiziano ai Senatori(). Però, non dubitate,
io vi prometto di non ordinare: fuori le frutta(). Incauti! E non
sapete voi, che se il Cènci non è più come in
sua gioventù ferro rosso, pure si mantiene rovente quanto
basta da bruciare? - anzi più spesso l'uomo si scotta al
ferro mezzo arroventato, che al ferro rosso: - notatelo bene. La
mia vendetta si assomiglia alla lettera suggellata dei re. Una
morte essa contiene di certo; quando, dove, e su cui
scoppierà s'ignora. Lasciatemi in pace, e passato che
abbiate cotesto limitare obliate tutto. Siavi l'accaduto come un
sogno, che l'uomo aborre ricordarsi desto. Avvertite, la parola
è alata: simile al corvo dell'Arca, non torna più
addietro; ma si trattiene fuori spesso a pascersi di cadaveri, e
qualche volta ne fa. Se poi vi dilettaste di sentirvi la gola
mutata in canna da flauto - allora parlerete. -
I convitati a viso basso, quale fatto stupido per orrore, quale
con la rabbia nell'anima, ma spaventati tutti, si dipartivano.
Beatrice scossa la testa, e, come costumava, dalla fronte
rigettatesi con impeto dietro le spalle le chiome, gli rampognava
gridando:
- Codardi! Sangue latino voi! Voi figli degli antichi Romani?
Sì, come i lombrichi sono figli del cavallo spento in
battaglia! Un vecchio vi atterrisce? Pochi masnadieri vi
agghiacciano il sangue? Voi partite... partite, e lasciate due
deboli donne e un misero fanciullo in mano a costui... tre cuori
palpitanti sotto gli artigli dello avvoltoio. Udiste? Ei non lo
dissimula... - ci farà morire - e nonostante ciò -
deh! gentiluomini, ponete mente alle mie parole, e intendete
più che esse non possono... non devono dirvi - e nonostante
ciò, egli è questo il minor male che io pavento da
lui. Di voi altri Sacerdoti non parlo; ma voi, Cavalieri, quando
cingeste la spada o non giuraste voi difendere la vedova e
l'orfano?.. Noi siamo peggio che orfani... essi non hanno padre,
noi abbiamo per padre un carnefice... rammentate le vostre figlie,
nobili Cavalieri... rammentate le vostre figlie, Padri
cristiani... ed abbiate pietà di noi... conduceteci a casa
vostra.
- Giovanetta, il tuo dolore mi rende tristo, ma io nulla posso per
te... rispose un convitato; e un altro:
- Aspetta, e spera. La speranza farà sbocciare anche per te
le rose della contentezza. - Un Cardinale riprese:
- Se preghiere e voti, cara figliuola, potranno giovarti, noi non
cesseremo di raccomandarti nelle nostre orazioni.
E gli altri via via profferivano di siffatte parole... gelide e
lugubri come spruzzi di acqua benedetta gittati sopra la bara. I
convitati si partirono, e parve loro di respirare liberamente sol
quando uscirono all'aria aperta fuori del palazzo. Alcuno,
allontanandosi, di tratto in tratto si voltava con lo affetto del
marinaro,
Che uscito fuor del pelago alla riva
Si volge all'acqua perigliosa, e guata.
Tutti sgombrarono la sala: rimasero don Francesco e Beatrice, e,
non avvertito, anche Marzio; chè prossimo ad una credenza,
faceva sembiante di attendere a raccogliere i vasellami di
argento.
- Ora ti sei di per te stessa chiarita? - interroga Francesco
Cènci Beatrice con labbra riarse. - Hai tu conosciuto
l'aita di Dio quale sapore si abbia? L'aita degli uomini ti sembra
da farne maggior capitale? Non importa, no, che tu bendi gli occhi
a la giustizia affinchè non si commuova; lasciaglieli pure
aperti... fa che ci vegga... non per questo essa si
commuoverà. La forza è il diritto; il diritto e la
forza nacquero gemelli ad un parto, ed abbracciati insieme. Io lo
so; l'ho provato, e tutto giorno, e sempre io lo vedo e lo sento:
il diritto è la forza. - Guarda per tutto, fanciulla, e tu
vedrai come in cielo e in terra altro non ti rimanga rifugio, che
nel mio seno: ricovrati qua dentro, e troverai l'asilo che Dio e
gli uomini, sordi del pari e spietati, ti ricusano. - Se io ti ami
immensamente, tu pensalo - da te in fuori, io odio tutto in cielo
e sopra la terra. Abbandonati pure in balìa di me: tu
cercheresti invano un altr'uomo che mi valga: io ho ereditato i
doni di tutte le età. La gagliardìa della
gioventù non mi abbandona ancora: in me il consiglio della
età matura: in me la tenacità della vecchiezza...
Amami dunque, Beatrice;... bella... e terribile fanciulla...
amami. -
- Padre! se vi affermassi che vi odii, io non vi affermerei il
vero; che io vi tema, neppure. Io vedo che il Signore ha creato in
voi un flagello come la fame, la peste e la guerra, e questo
flagello egli ha rovesciato sopra di me. Io piego, senza
mormorare, la testa ai suoi misteriosi decreti; onde sfiduciata di
ogni soccorso umano vie più mi accosto a Dio, e confido le
mie sorti nella sua misericordia. - Padre, per carità
uccidetemi!
Qui la desolata si prostrò davanti al Conte a braccia
aperte, quasi aspettando il colpo.
Perchè Beatrice balza in piedi allo improvviso, e si
avviticchia intorno alla vita del padre suo? Perchè con
ambe le mani gli cuopre la testa? Perchè ha spinto fuori un
grido di terrore, - ella che non teme niente, - il quale risuona
di eco in eco nelle stanze più remote dello ampio palazzo?
Marzio, che inosservato era rimasto nella sala, udendo le parole
che svelavano più apertamente il disegno infernale di
Francesco Cènci, si era accostato pian piano tenendo nelle
mani un vaso pesantissimo di argento; e, levate le braccia con
quanto aveva di forze, accennò spezzargli il cranio; - e lo
facea, perchè il Conte, improvvido, stava come tratto fuori
di se a contemplare la divina fanciulla.
Don Francesco, commosso al grido e agli atti di Beatrice,
levò involontariamente la faccia al cielo, e gli parve
vedere, e vide certo, uno sfolgorìo balenargli su gli
occhi.... Ah! fosse il fulmine tanto tardato di Dio? Cotesta idea
durò quanto un lampo, ma comprese una eternità di
tormento per quell'anima scellerata. Non per questo il fiero
vecchio si scosse; e assicurato in breve, volse le torbide pupille
dintorno a se e vide Marzio, che impassibile ordinava i vasi sopra
la credenza.
- Marzio..... tu qui?
- Eccellenza!
- Tu qui?
- Agli ordini di vostra Eccellenza.
- Vattene.
Il servo inchinavasi; e partendo faceva un segno a Beatrice, quasi
volesse significare: «Ah! perchè mai mi avete
impedito?»
Ma Beatrice, durando in lei lo impeto di amore, stringe con forza
sovrumana il braccio di don Francesco come per istrascinarlo, ed
esclama:
- Vieni, sciagurato vecchio - tu non hai un momento da perdere: la
morte ti cuopre con le sue ali. Vieni, la bilancia delle tue colpe
precipita giù nello inferno. - Vesti il cilizio - vecchio!
- Cuopriti i capelli di cenere..... tu hai peccato abbastanza. La
penitenza è un battesimo ardente; ma il fuoco purifica
più, e meglio dell'acqua. Se la tua prece non giungesse ad
inalzarsi fino al trono di Dio, e minacciasse ricaderti sul capo
in grandine di maledizione; io ti starò al fianco, e
aggiungerò la mia, e saranno ascoltate insieme; ambedue
accolte, o ambedue rejette. Che se ad ogni modo la giustizia vuole
vittime di espiazione..... ecco, io volentieri offro la mia vita
in riscatto dell'anima tua: - ma affrettati, vecchio... l'orlo
della fossa è sdrucciolevole.... vecchio, pensa che te ne
va della tua eterna salute....
Don Francesco stavasi ad ascoltarla sorridendo. Quando ella ebbe
finito, con voce beffarda le rispose:
- Bene sta, mia diletta Beatrice; - tu sola puoi educarmi alle
gioie celesti del paradiso... Verrò a trovarti stanotte....
e pregheremo insieme....
Beatrice lasciò cadere il braccio paterno. Coteste parole,
e gli atti pieni d'infamia ebbero la maligna virtù di
assiderarle ogni gentile entusiasmo, e respingerla nella dura
realtà della vita. Ella quinci dipartivasi con faccia
dimessa, gemendo queste parole:
- Perduto! - perduto! Oh, senza rimedio perduto!
Don Francesco si versava precipitoso un'altra tazza di vino, e la
bevve di un sorso.()
CAPITOLO XI.
LO INCENDIO.
Satanasso (perchè altri esser non puote)
Strugge, e ruina la casa infelice.
Volgiti, e mira le fumose ruote
Della rovente fiamma predatrice;
Ascolta il pianto, che nel ciel percuote.
Ariosto.
Oh quanto fu gran dolore il caso, che incolse al misero falegname
ed alla sua famiglia! - Moglie, marito e pargoletto dormivano
tutti insieme nella medesima stanza sopra la bottega.
Dormivano..... ma un sogno spaventoso travagliava la moglie, e le
parea che un mostro immane, con occhi infuocati, peloso nel corpo
composto di nodi flessibili come il verme, e di ale scure a modo
di vipistrello, le tenesse le branche deretane fitte nei fianchi e
le anteriori nella gola, affaticandosi di strangolarla: tentava
muoversi, la meschina, e non poteva: s'ingegnava gridare, e non le
riusciva. In ultimo si voltò con supremo sforzo sopra un
fianco: gli occhi sentiva gravi così, da non li potere
schiudere; eppure la facoltà visiva l'era assorta
dolorosamente da due globi di luce ora violetta, ora cerulea, come
fiamma di spirito di vino. Le arterie delle tempie le battevano
con ispasimo, non altrimenti che se fossero tese, e un demonio
stringendole con pinzette infuocate si dilettasse a farle vibrare
di angoscia. Nella gola durava un raschìo acerbo, quasi
cagionato da arìsta di grano tranghiottita(): pure
finalmente ella giunse a schiudere gli occhi, e vide per terra una
rete di fuoco che trapelava fuori dalle commessure dei mattoni, e
la stanza tutta appariva ingombra di fumo: insopportabile calore
accendeva l'aria; quindi a poco a poco il pavimento si screpola, e
dai vani aperti per la caduta dei mattoni ecco sbucar fuori lingue
di fiamma, le quali dopo pochi secondi crescono in orribile
incendio.
- Al fuoco! al fuoco! - grida la donna, girando attorno gli occhi
spaventati; e si precipitava giù dal letto per prendere
nella culla il suo figliuolino.
- Al fuoco! - risponde il marito esterrefatto; e così
ignudo com'era corse all'uscio della stanza, e lo aperse. Schiuso
l'adito, ecco il fuoco allagare la camera: già tutta la
casa andava in fiamme: rifece i passi, con un braccio ricinse la
vita alla moglie, con l'altro al figliuolo, e via di corsa si
tuffa senza rispetto nel fuoco per guadagnare le scale. Le pietre
degli scalini arroventate si spaccano strepitosamente: lo incendio
nel piano terreno infuriava in vortici a mo' di turbine, e mandava
un rombo come di uragano. I pannilini della madre e del figliuolo
già avevano preso fuoco; ma la madre, comunque strascinata,
tendeva sollecita le mani e andava estinguendolo su le carni del
fantolino. I capelli dei miseri fumavano abbronziti; nei piedi,
nelle braccia e nel viso essi pativano angosciose scottature. -
Avanti! avanti! purchè possano giungere alla porta di casa!
- Già vi stanno presso; - anche un passo, e la toccano; -
l'hanno toccata...
Oh dolore! non la possono aprire: - la squassano; la scrollano;
invano... l'avevano sprangata per di fuori.
Circondato da vortici di fiamma, il misero padre ansante in
così orribile guisa, che stava per iscoppiargli il cuore
dal petto, riprende fra le braccia il figlio.... la moglie
lasciò stare.... si sentiva rifinito di forza....
Mugolando, improvvido di quello che si faccia, gira e rigira per
l'andito;... poi, senza consiglio, si prova a risalire le scale.
La moglie gli trae dietro da vicino per modo, che dove egli alza
il piede ella mette l'orma; e il marito sentiva dall'alito
affannoso di lei rinfrescarsi l'aria infuocata dietro le spalle; -
sempre schermendo dalle fiamme il figliuolo, e qualche volta il
marito.
Questi rientra in camera... ma qui giunto sente mancarsi la lena
ed il coraggio: gli balenano gli occhi nella morte, e barcolla per
cadere; pure in quell'ultimo istante gli bastò l'animo di
riporre il bambino nelle braccia della madre prima di spirare: -
parole non potè profferirne..... solo con lo sguardo, lungo
come quello della lampada prima di spengersi, rivelò una
desolazione, che labbro non può dire; - una desolazione,
che se avesse potuto manifestarsi avrebbe dichiarato così:
Io non te lo raccomando, perchè tu non lo puoi salvare!
Poi, squilibrato, correndo su le calcagna ei dette indietro
quattro passi o sei, e percosse aspramente il muro tentando
ghermirlo con le mani pendenti.
La mattina furono viste le impronte nere di sangue delle mani e
dei piedi su la parete e sul pavimento.
In mezzo alle strette della necessità così avviene
degli appetiti fisici come delle passioni dell'animo, che le
più intense divorino le meno profonde; epperò la
donna già più non bada all'uomo che le fu sì
caro, ma con tutta l'anima circonda il corpo della sua creatura; -
apre la finestra, e si affaccia.
I capannelli raccolti per la via videro una figura, in sembianza
di Eumenide, disegnarsi in nero sopra un colore di fuoco, e
n'ebbero compassione e paura. - Ella spinse fuori dalla gola un
grido - uno solo - ma così desolatamente acuto, così
stridentemente disperato e selvaggio, che le viscere degli
spettatori si sentirono trafitte come da una spada. - Avrebbero
voluto aiutarla, e ne consultavano i pratici; ma i vecchi, con la
tremenda pacatezza romana, sporto il labbro inferiore, le braccia
incrociate sul petto, guardavano obliquamente lo incendio, e
dicevano: Non ci possiamo far nulla; acqua non basta; e, a meno di
essere diavoli dello inferno, in coteste fiamme non si entra.
Sapete, che cosa resta a fare? Vedere spengersi il fuoco da se, e
poi suffragare quelle povere anime uscite dal mondo senza
sacramenti.
Ora è da sapersi come Luisa Cènci, persuasa dalla
gelosia, travestita da uomo erasi aggirata da più notti, ed
anche in cotesta si aggirava intorno alla casa del falegname per
sorprendere suo marito; ma fino a lì eranle tornate le
speculazioni inutili. Nonostante ciò neppure per ombra
piegava la mente al dubbio, che altri l'avesse tratta in inganno;
ma sì piuttosto molinava coi suo cervello, che forse
Giacomo non vi praticasse di notte, o che gli amanti convenissero
altrove, o in quel momento fossero corrucciati: insomma; ingegnosa
a trovare mille modi di tormentarsi con lo errore, anzichè
consolarsi per la piana via della verità! Condizione
tristissima degli uomini in generale, e delle donne in
particolare, di compartire facilmente fede al male, e ritenere
tenaci i concetti che si sono formati, comunque lesivi della
propria dignità, o dannosi alla propria persona.
Ella pertanto accorse, come gli altri, richiamata dagli urli e dal
chiarore dello incendio intorno alla casa; - e quando la
ravvisò, il suo cuore ne sentì maravigliosa
esultanza: - quello che dà la colpa, ella pensava, la
giustizia ritoglie. -
Ella rimase immobile a contemplare il caso; e se col desiderio non
attizzò coteste fiamme, nemmeno - sia lode al vero - ella
le spense.
Prima che lo incendio si manifestasse nella sua indomita rabbia
alcuni borghesi erano andati in traccia di corde e di scale, e
già tornavano provveduti di una scala da paratori, trovata
nella prossima parrocchia: l'appuntellarono al muro, e poi
voltarono la faccia in su senza muoversi, perchè la copia
delle fiamme irrompenti di sotto e di sopra chiariva disperata la
impresa.
Ma quando la madre, sbucando fuori dal fuoco, e sorreggendo il
pargolo con le braccia tese, gridò: salvatemi il figliuolo!
- Oh! allora una persona - una persona sola - sentì
sciogliersi il cuore, e questa fu Luisa Cènci. Tacque in
lei la donna, e favellò la madre: fattasi di un balzo a
piè della scala, così parlò con favella
spedita:
- Orsù; breve è il tratto, non difficile la impresa;
Romani, chi di voi salisce a salvarli avrà cento ducati
d'oro.
E siccome nessuno mostrava muoversi, ella dinuovo:
- Cristiani... animo... via... a cui gli salva duecento ducati....
Nè anche questo premio bastò a scuoterli; chè
la paura del pericolo superava la cupidigia. Luisa si trattenne un
momento a pensare come non le rimanessero a disporre che altri
cento ducati, i quali spesi non ne avanzava pure uno per suoi
figliuoli; nè dal suocero forse avrebbe potuto per allora
ottenere altro soccorso. Non importa, pensò il momento
dopo; e con voce più forte, quasi volesse rimettere il
tempo perduto, con raddoppiata prestezza gridò:
- Trecento ducati a cui gli salvi... trecento ducati d'oro,
dico... trecento ducati servono per maritare due figliuole...
Romani! - Nessuno si allenta? Sgombratemi davanti... davanti,
dico... Cristo mi aiuti!
E leggiera come un uccello salì su per la scala, mentre le
stanghe, appoggiate al muro su in cima, già abbronzite
fumavano. Arrivata in prossimità della finestra, nel
medesimo punto ella disse:
- Datemi... e le fu risposto:
- Eccovi il figlio.
Si erano indovinate. Madri entrambi, sapevano come supremo anelito
pel cuore materno sia la salvezza della sua creatura. Scese. Un
giovane popolano, vergognando che altri non si fosse mosso, si
attentò a salire fino a mezza scala, raccolse il pargolo, e
lo portò in luogo di salvazione.
E Luisa risalì mentre su per le stanghe delle scale
scorreva la fiamma come lingua di vipera; cessava dove poneva la
mano, ritornava più vivida appena levata. Giunta faccia a
faccia della donna, che supponeva le avesse tolto lo amore del suo
marito, tese valorosamente le braccia... le braccia a lei, che
aveva stretto nelle sue il padre dei suoi figliuoli... l'altra vi
si gittò delirante di affanno.
La Madre di Cristo contemplò dall'alto dei cieli cotesto
amplesso, e si compiacque essere donna. Certo, non occhi umani
nè celesti avevano veduto da secoli un tanto prodigio di
carità.
Luisa stringe di forza la cintura della rivale, e scende...
- Presto, Luisa, chè la scala arde;... presto, Luisa,
chè crepitano carbonizzati le stanghe, e i piuoli della
scala. Oh Santa Vergine! perchè si ferma ella? Un secondo
è funesto. - Immemore di se, immemore del pericolo
imminente, immemore di tutto, non potè resistere alla
cupidità immensa, che sentiva di guardare in volto la sua
rivale al chiarore dello incendio, e conoscere se la superasse in
bellezza. - Cuore di donna!
Quantunque ella apparisse stravolta orrendamente dal dolore e
dallo spavento, i capelli avesse in parte bruciati e la pelle
offesa da disoneste scottature, pure le sembrò, com'era,
leggiadrissima.
- Ah, gridò, come è bella! - e vacillò su la
scala.
Era giunta vicina a terra tre scalini, quando con orribile
fracasso sprofondò giù il pavimento; le fiamme
scomparvero, globi di fumo mescolati a miriadi di faville
avvolsero la casa, la scala e le donne. Un urlo spaventoso
echeggiò fino all'altra sponda del Tevere, chè
reputarono coteste creature spente dal fuoco e dalla rovina.
Indi a breve ecco lo incendio, come l'orgoglio un momento
umiliato, divampare più terribile di prima, e di mezzo alle
fiamme uscire Luisa incolume con la donna nelle braccia.
Gridi di giubbilo, acclamazioni frenetiche ferirono il cielo: -
chi è l'animoso giovane? - Non lo so. - Ricordati averlo
visto mai? - Mai. - E sì che non ha barba in viso, e per
uomo da tali fatti è piuttosto scarso di vita, che no. Viva
il valente giovane, vero sangue latino. - E più alti
sorgevano lo entusiasmo e gli applausi.
Il Signore ebbe misericordia della moglie del falegname, la quale
tratta fuori di se non conobbe il fato lacrimevole del marito.
Luisa sempre più infervorandosi nella sua
generosità, siccome avviene ai buoni, non patì che
la donna salvata fosse tratta all'ospedale; e risovvenendole di
certa vedova sua casigliana, che le aveva raccomandato, capitando,
di appigionarle due stanze, fece conto di accomodarla là
dentro: molto più, che essendosi messa a risico di spendere
per cotesta famiglia fino a trecento ducati, e trovandosi adesso
ad averli risparmiati, pensava, che quando anche per condurre a
fine la opera buona avesse dovuto impegnarcene attorno un
centocinquanta, le ne avanzava l'altra metà pei fatti suoi.
E per mandare subito ad effetto la presa determinazione
ordinò che stendessero la donna sopra un lenzuolo tratto
fortemente dai lati da quattro uomini robusti, i quali si
prestarono volonterosi a cotesto ufficio. Ella si recò in
collo il bambino sorreggendolo col braccio destro, e chiese di
alcuno che caritatevolmente sostenesse anche lei; però che
le girasse il capo, e le paresse che di sotto i piedi le venisse
meno la terra. Dalla folla stipata intorno a lei uscì un
uomo membruto, ed aiutante della persona, coperto il capo, il
collo e il viso di copia grande di capelli e di barba, vestito a
mo' dei ciociari dei contorni di Roma.
- Prendete su! - egli disse profferendole il braccio con voce
assai più commossa, che non lasciassero sperare le sue
sembianze dure, e bronzate. - Appoggiatevi pur sopra, che
reggerebbe la colonna trajana. Se non vi da fastidio, mi basta
l'animo di portare voi e il putto ad un tempo.
- Lo credo. Dio ve ne renda merito. Basta così. Ora voi
altri avviatevi pian piano in via san Lorenzo Panisperna a casa
Cènci.
- Casa Cènci! - dando di un passo indietro esclamava il
ciociaro.
- In che trovate motivo di maravigliarvi? Forse credete voi tanto
straniera da casa mia la carità, da levarne stupore? - Che
cosa vi dà, in grazia, diritto di pensare così,
villano?
E siccome il ciociaro tentennava il capo e non rispondeva, donna
Luisa, come punta sul vivo, aggiunse:
- E se volete sapere chi fu che ardì salire la scala,
mentre voi uomini rimanevate tutti immobili dalla paura, - io vi
dirò che fu una donna; però che in me vediate la
moglie di don Giacomo Cènci, e nuora del Conte don
Francesco.
Il ciociaro adesso traballò visibilmente: con la manca si
Strinse forte la fronte tenendovela per un pezzo, quasi volesse
costringere le sensazioni e i pensieri a non prorompere fuori
della testa.
Io non vi farò mistero dello essere di questo ciociaro.
Voi, lettori miei, avete potuto chiarirvi a prova come io non ami
la maniera sospensiva del raccontare; però, continuando a
procedere per la via piana vi dirò a un tratto che il
ciociaro era Olimpio, e i quattro pietosi reggitori i lembi del
lenzuolo erano suoi compagni, e complici dell'orribile incendio. E
non crediate già che sentimento alcuno d'ipocrisia gli
sospingesse a cotesti atti, o astutezza per celarsi meglio;
conciosiachè avessero commesso il delitto con tale
accorgimento, da non lasciare luogo a sospetto che fosse avvenuto
piuttosto per malizia, che per fortuna; ma proprio sinceri essi
erano, ed esaltati dallo esempio magnanimo di Luisa. L'uomo, per
quanto tristo egli sia, contiene sempre qualche parte di buono; e
fra persone da arti lodevoli, o triste non assuefatte a
contenersi, o a fingere, il trapasso dal male al bene, e ai modi
di significarli avviene inopinato ed improvviso. Io non so se
l'uomo nasca con anima prava. Questo si trova nelle Sacre carte, e
santi Dottori della Chiesa lo hanno approvato; ma io ne dubito, e
affermarlo decisamente non potrei. Solo parmi che dentro noi di
queste due cose succeda l'una: o la bontà ricama sopra un
velo di scelleraggine, o la scelleraggine ricama sopra un velo di
bontà. Chi meno ha pratica di fare i conti con la sua
anima, e si lascia più trasportare dai subiti moti del
sangue forse sarebbe il migliore, se o la ignoranza troppa, o le
abitudini inique, o gli stimoli altrui non gli chiudessero la via
a ben fare, o in quella del male nol sospingessero.
Veramente, per sostenere questa sentenza, in me fa mestieri fede
di bronzo; perchè uomo al mondo, io penso che non fosse mai
scorticato vivo come me dal Popolo, il quale appunto argomenta
poco, e sente molto.
Il Popolo, dopo avermi salutato amico e padre, ad un tratto mi
disse vituperio; mi caricò di catene, e mi chiamò a
morte! Con questi miei orecchi udii i figli del Popolo, che io mi
studiai sempre, come potei meglio, onorare e avvantaggiare,
allagando il Palazzo della Signoria spartirsi poca moneta al lume
dei lampioni, e dire l'uno all'altro: «A te si perviene
meno, perchè sei piccolo; nè ti è bastato il
fiato a urlare quanto me MORTE! MORTE!»
Giuoco Roma contro uno scudo, che cotesta moneta e coteste
istruzioni vennero da tali, che saranno stati a un punto fratelli
della misericordia, guardie civiche, membri di mutuo insegnamento,
e degli asili infantili... Oh come si allarga l'albero della
ipocrisia sopra la terra, e l'aduggia tutta con l'ombra maledetta!
Avete ammazzato il cane - sussurroni! - Godetevi i lupi.
Povero Popolo! Tu hai perseguitato ben altri uomini, che non sono
io. Dove giacciono le ossa di Giano della Bella e di Benedetto
Alberti? Io non lo so: quelle dei Medici hanno sepolcro reale in
san Lorenzo. - Dove riposeranno le mie? Chi può saperlo?
Pure non ti chiamerò ingrato, nè maligno, come
Dante; sebbene tu abbia perpetuata la voce, che correva ai suoi
tempi:
Vecchia fama nel mondo ti chiama orbo,
Sarebbe carità percuotere il fratello perchè giace
infermo? Questo argomento venne adoperato un giorno, e con ottimo
successo; ma da un Russo, e con Russi(): ed io, per la grazia di
Dio, nacqui italiano. Malattia d'ignoranza è più
grave di malattia di corpo; e i popoli si hanno da sanare, non
già maledire e percuotere.
Chiunque si apparecchia a travagliarsi pei suoi simili sappia che
non riceverà altra mercede, che d'affanni. Prima assai di
Prometeo lo avvoltoio divorava il cuore degli amici della
umanità. Il destino dei mortali progredisce lento rotando
come una macina immensa, e nel passare frange intelligenze e vite,
lasciando dietro a se una traccia di polvere d'uomini. Cemento
tremendo composto di particelle di cuore, di sangue e di lacrime,
che vince in durezza lo stesso granito.
E se la morte fisica arriva precoce per gli anni, anche troppo
tarda sopraggiunge per le cure rodenti, per le passioni che
limano, e per gli occhi diventati ciechi nel contemplare una luce
che consuma. Quando poi l'uomo sopravvive a se stesso, che cosa
attende dal suo cervello e dal suo cuore? Ahimè! Una
congestione, od uno aneurisma.
Noi siamo morti; ma dentro al nido composto d'odio, di vendetta e
di vergogna mette l'ale adesso una generazione di aquile,
destinate forse alla vittoria.
Invero la parola ha seminato abbastanza; ora tocca mietere, alla
forza. Il pensiero può dare l'albero della scienza, ma
l'albero della vita è per le mani gagliarde; e la
libertà è la vita. Cessi una volta la generazione
dei sofisti, e sorga la generazione dei guerrieri. I retori non
hanno mai combattuto una battaglia. Maledetta la civiltà,
che insegna a portare le catene come i monili da eunuchi. Bolzari,
Odisseo, Colocotroni, ed altri molti eroi, che strapparono un
lembo di terra dalle mani sanguinose del Turco, erano klefti. - Io
ritorno alla storia.
La sconsolata vedova era tratta molto soavemente a casa di donna
Luisa Cènci, la quale aveala preceduta insieme ad Olimpio;
e con la sagace sollecitudine di cui le donne sole possiedono il
tesoro, aveva già fatto apparecchiare il letto, e cera, e
olio, e cotone sodo, e altri tali rimedii, che a quei tempi, e
forse anche ai nostri, si reputano meglio efficaci per le
scottature: mandò eziandio pel cerusico, e per una balia.
Questa, per buona ventura, fu rinvenuta nella contrada, e venne
subito. Udito il caso, e interrogata se si sentisse capace ad
allattare la creaturina finchè la madre fosse risanata, la
buona popolana rispose «magari!»; e senza altro invito
prese il pargolo nelle braccia, e trattasi in disparte se lo
recò alle mammelle.
La madre delirò tutta la notte ora piangendo sommessa, ora
gridando disperatamente, secondochè alla sconvolta fantasia
si affacciavano immagini pietose, o terribili. Il giorno appresso
non istette meglio; il sopravvegnente ricuperò alquanto
delle sue facoltà mentali, e subito cercò il figlio.
Risposerle che le dormiva al fianco; volle muoversi, ma non
potè, e con voce languida favellò di nuovo:
- Per amore della gran Madre di Dio non m'ingannate!
L'assicurarono con giuramento. Allora pianse: poi domandò
del marito, e le dissero, con pietosa menzogna, giacersi malconcio
assai della persona nell'ospedale, ma non senza speranza di
guarigione.
Luisa, che travestita da uomo la vegliava del continuo, la
confortò a tacersi, e a starsi di buono animo; avvegnadio
da cotesto smaniarsi non gliene potesse venire se non che aumento
di male, e ritardo del giorno desiderato di stringersi al collo il
figliuoletto; ed ella allora non flato più.
Luisa aveva posto maraviglioso affetto alla desolata vedova, la
qual cosa non ha da parere strana; chè siccome la offesa
pei petti mortali somministra ragione per offendere, così
il benefizio antico persuade il nuovo; e noi amiamo altrui meno
pel bene che ci fa, che per le cure che ci costa. Se poi questo
muova da costanza o da presunzione, o da altre buone o cattive
qualità, io non saprei affermare: bene io so, che
quantunque riesca arduo, più che altri non pensa, rinvenire
la origine vera delle nostre azioni, il motivo non è quasi
mai solo, ma complesso e attorto di fili forniti in parte dagli
Angioli, e in parte dai demonii. Quale poi fosse la proporzione di
questi fili nell'animo di donna Luisa non è dato giudicare;
giova credere fossero angelici tutti; a me basti accertare, che
ella amava cordialmente la vedova.
Se forte pungesse la donna il desiderio di conoscere i particolari
del commercio, ch'ella supponeva avesse mantenuto seco lei il suo
marito, non è da dire; ma la trattenevano dall'appagarlo
molte considerazioni. E prima di tutto non le pareva onesto
prevalersi dello stato di cotesta misera per istrapparle il
segreto: poco cristiano, e meno che consentaneo alla
generosità fin lì dimostrata da lei, tribolare,
forse non senza danno della sua guarigione, la inferma per farla
parlare; e finalmente avendo accolto un dubbio, comunque
debolissimo, intorno alla verità dei suoi sospetti,
amò piuttosto oscillare in cotesta incertezza, che
disperarsi nella odiata realtà.
Ma non vi è misura che tanto presto si colmi, quanto quella
della impazienza. Certo giorno ella sedeva accanto al letto della
vedova. Angiolina, che tale parmi aver detto si chiamasse la
vedova, contemplava il volto di Luisa con l'adorazione dei devoti
verso le immagini miracolose, e mormorava per lei benedizioni e
preghiere. Luisa la guardò fisso a sua volta; vide che le
tornavano i floridi colori della salute per la faccia, le
scottature non lasciavano segno veruno, e la donna ridiveniva
bella più che mai fosse stata. Il cuore palpitò alla
gelosa impetuosamente nel seno, e sorridendo un cotal suo riso
amaro la interrogò:
- Ma sono io l'unico vostro protettore davvero?
- E chi volete che si prenda cura di una povera femmina come sono
io, se non voi per vostra carità?
- E sì.... e sì che la memoria, io credo, non vi
aiuta a rammentar bene le cose.... in questo momento.
- Ah! voi dite la verità, esclamò Angiolina,
facendosi vermiglia come per vergogna di fallo commesso. Signore!
O come possiamo, senza volerlo, diventare ingrati?
- Dunque.... tu hai un altro protettore?
- Un altro protettore, come voi dite, il quale ci ha beneficato
assai....
- Sì, eh! E come si chiama egli?
- Egli? - Il Conte Cènci.
- Cènci? Cènci hai tu detto? Cènci? -
gridò Luisa come se l'aspide l'avesse morsa nel cuore, e si
tacque. Ma l'altra, secondo che la consiglia affetto, e il
desiderio di ammendare il fallo involontario, aggiungeva
appassionata:
- Cavaliere sopra quanti altri conobbi, eccetto voi, compitissimo
e gentile. Per lui ci venne restaurata la casa, che, guasta prima
dall'acqua, adesso ha distrutto il fuoco: - egli volle che io mi
comprassi vesti sfoggiate, - orgoglio di una ora; - ed ebbi a
toccare da lui solenne rimprovero perchè non lo scelsi
compare del mio figliuolo.
Luisa si morse le labbra in modo che spicciarono sangue, e la
interruppe con aspra voce dicendo:
- Basta!
E mentre per non tradirsi si allontanava a precipizio, combattuta
da passioni diverse mormorava:
- Sfacciata! E nemmeno si rattiene da palesare la propria
vergogna. Signore! Ma tu veramente comandi di allevare le serpi
che ci mordono il cuore?
CAPITOLO XII.
DELLO ASINO.
Sol l'Asino gentil, l'Asino fino
Lodar si debbe, e mi par che sia quello
Da scriverne in volgar, greco, e latino.
Gab. Simeoni, Cap. dell'Asino.
E Verdiana si era fatta venti volte alla finestra; altrettante si
era posta ad annoverare i passi, che secondo i suoi calcoli la
canonica distava da Roma. Scese sul prato; e comecchè
tremolante su le gambe, si stese boccone, ed accostò le
orecchie a terra per udire qualche lontano rumore, che le
annunziasse il ritorno del Curato; - niente. Sorse, cantò
le litanie, lo stabat Mater recitò dieci volte il rosario,
e poi si spazientì.
- Oh! vedete, borbottava, quanto mai tarda quel benedetto uomo
stamani.... ma che stamani? Ormai è passato vespro, e qui
la minestra diventa tutta una pania. Io per me non so chi mi
trattiene da desinare sola; e se poi giunge, e non potrà
mangiare, suo danno. Ma forse sarà trattenuto da qualche
faccenda.... o forse qualche malanno sarà capitato addosso
a Marco (Marco era l'asino che cavalcava il curato)... od anche al
povero reverendo. Ahimè! meschina, che cosa io vado
immaginando? E perchè non potrebbe essere questo? Se male
può incogliere a Marco, non ci è ragione
perchè non possa succedere anche al curato. Santissima
Vergine! pur troppo in fatto di disgrazie non corre differenza
alcuna fra Marco e il Curato, e per tutti, o vogli uomini o vogli
bestie, elleno stanno sempre apparecchiate come le tavole degli
osti.
Qui tolse i suoi ferri dai quali pendeva una calza mezza fatta, e
si mise a proseguirla con molta prestezza; ma chi l'avesse
osservata poteva accorgersi di leggieri, che nella sua mente si
formava un pensiero dolente come nei suoi occhi adagio adagio
andavano crescendo due lacrime, e le lacrime e il pensiero
proruppero in un medesimo punto; però che gittando smaniosa
da parte e ferri e calza, esclamò:
- Sicuro eh! se qualche disgrazia fosse avvenuta a cotesto povero
uomo, non avrebbe altrimenti bisogno di calze nè di
solette.... E perchè non ne avrebbe più bisogno? o
che forse tutte le disgrazie rendono inutili le calze?
E qui stesa la mano riprendeva i ferri, cacciandone uno dentro al
bacchetto.
- E poi, proseguiva, o morto o vivo, le calze a qualcheduno
saranno sempre buone...
Intanto riponeva in tasca il gomitolo del refe.
- Buone per qualche poverello di Dio,... ed anche per me...
Diciamolo a gloria del vero. Verdiana aveva pensato a se dopo il
curato e la sua cavalcatura, dopo il prossimo, dopo di tutti; la
sua carità si era estesa fin dove poteva estendersi, e
dalla periferia ritornava al centro. Per altra parte col medesimo
amore d'imparzialità dobbiamo aggiungere, che le sue mani
non si erano mostrate mai tanto sollecite come quando ebbe
avvertita la probabilità che le calze potessero rimanere
per se.
Allo improvviso l'aria dintorno rintronò dei ragli di
Marco. Verdiana corse alla finestra, e di là dalla siepe le
comparvero entrambi i cari capi del Curato e dello Asino: non
già che volesse mettere l'uno a fronte dell'altro; Dio ne
liberi! Ma alla fine se al curato non potevano negarsi meriti
grandi, anche l'asino aveva i suoi; e per di più il curato,
come Marco, non aveva bevuto la luna.
Bevuto la luna? Così almeno crederono un tempo in casa del
curato, e fuori; poi per le persuasioni di lui Verdiana
incominciò a concepirne qualche dubbio; ma in quanto a
Giannicchio non ci fu verso a farlo ricredere, e lo avrebbe
giurato anche sotto la corda.
Giannicchio era un garzone più povero di Lazzaro; portava
vesti di cui metà era mota, e l'altra toppe di ogni
maniera, colore, e misura; una soprammessa all'altra come la calca
degli accattoni si affolla su la punta dei piedi a sporgere la
pentola alla porta del convento dove il cappuccino dispensa la
minestra. Giannicchio era uno di quei poveri figliuoli, i quali
dalla madre natura non hanno ricevuto altra benedizione, tranne
uno schiaffo. Quanto si poneva a fare, tanto gli riusciva a
traverso: se prendeva una stoviglia la rompeva; se correva per
soccorrere, o urtava col capo nel muro, o andava a dare di cozzo
nel naso della persona che intendeva sovvenire; a chiedergli acqua
avrebbe portato fuoco. Il Curato affermò più volte,
ch'egli doveva essersi trovato alla torre di Babele a fare da
manovale. Nonostante ciò Giannicchio malanno, chè
tale gli avevano appiccato nomignolo, era di così buona
pasta, tanto serviziato e amoroso, che sempre stava per casa al
curato, e da campare alla meglio ogni giorno rimediava.
Ora è da sapersi come fuori della canonica si trovasse un
pozzo, e accanto al pozzo la pila da abbeverare le bestie, e
lavare i panni. Certa sera Marco tornò tardi a casa
perchè il Curato lo aveva imprestato al Dottore, al quale
in quel giorno la cavalla erasi azzoppita dalla terza gamba; e fu
deciso che ormai nessuno potesse salirvi sopra, senza la quasi
sicurezza di fiaccarsi il nodo del collo. Nè Marco
tornò solamente a casa tardi, ma vi tornò trafelato.
Trivia rideva nel plenilunio sereno, come dice Dante, e
vagheggiava il tondo disco nella poca acqua avanzata nel fondo
della pila come una ricca dama si contempla, in difetto di meglio,
dentro uno specchio da quattro soldi. Giannicchio menò
Marco alla pila, e volgendo gli occhi in giù vide la luna.
L'Asino assetato bevve avidamente fino all'ultima stilla l'acqua
raccolta nella pila, e la luna scomparve. Allora Giannicchio,
preso da maraviglia e da spavento, si dette a gridare che Marco
aveva bevuto la luna. Tale era Giannicchio.
- O cari! o desiderati! - esclamava la buona Verdiana, e si
affrettava affannosa verso l'Asino e il Curato. Abbracciò
Marco pel collo nè più nè meno con lo affetto
di Sancio Panza; baciò la mano al Curato, e lo aiutò
a smontare. Siccome nella povera gente il dolore della perdita si
fa sentire più acuto assai che la speranza del guadagno, io
non saprei ridire quali, e quante suonassero le lamentazioni della
Verdiana vedendo la tonaca lacerata, e le altre cose più
riposte sotto in pessimo arnese, fatte manifeste in virtù
dello strappo della tonaca: molto più che dal volto
nuvoloso del curato le pareva potere argomentare, che il viaggio
fosse riuscito indarno.
- Già m'immagino, incominciò Verdiana, che anche per
questa volta avrà fatto fallo la promessa del chiedete, e
vi sarà dato: - e intanto che andava forbendo il curato
dalla polvere, continuava: - il santo Evangelo avrà inteso
parlare della grazia gratis data, non già dei ducati del
sole.
- Silenzio, Verdiana; non mormorate contro la Provvidenza,
ch'è peccato; ho bussato, e mi fu aperto; ho chiesto, e mi
furono dati cento scudi...
- Cento scudi! E allora facciamo i fuochi...
Il Curato sospirò; si pose a cena; poco mangiò,
bevve meno, e rispose rade e tronche parole alle frequenti domande
di Verdiana, la quale standogli attorno non rifiniva mai
d'interrogarlo così:
- Vi sentireste per avventura incomodato, Reverendo? - Vi è
forse accaduto qualche malanno in cammino? - Avete avuto paura? -
Benedetto uomo, ma parlate! Volete che io vi faccia un po' d'acqua
di salvia col miele.... o piuttosto un cotogno cotto nel vino....
o veramente lo pezzette di aceto sopra le tempie? Un senapismo....
un pediluvio.... un semicupio.... un cristeo?
- Ouf! - soffiò il Curato, e disse poi: - fate tutta questa
roba per voi, Verdiana, se ne avete bisogno; sto bene, prima Dio,
ed ecco i cento ducati...
- Ve' belli... belli! E' non hanno mica torto a tenerseli stretti
coloro che li possiedono.
- Date retta, Verdiana, questi sono cento ducati; ma non bastano a
gran pezza per la canonica, per le masserizie di casa, e per la
chiesa...
- Pazienza! Rifacciamoci intanto dalla chiesa; alle altre cose il
buon Gesù provvederà...()
- Provvederà, sì; ma vedete bene, Verdiana mia, che
se non prendiamo cura della canonica, un giorno o l'altro ci
troveremo a nuotare in casa.
- Meglio nuotare noi in casa, che Cristo in chiesa.
- Sì; ma se il sacerdote annega, il servizio divino rimane
interrotto con danno gravissimo dei parrocchiani.
- Già, in primis, non rimane interrotto per nulla,
dacchè, e Dio vi faccia campare mille anni, morto un papa
se ne fa un altro, come dice il proverbio; e poi in casa ci piove,
è vero, ma non vi si nuota, nè vi si affoga, che io
sappia...
- Sì; ma il savio Ippocrate insegna: principiis obsta sero
medicina paratur; la quale sentenza sapete che cosa vuol dire,
Verdiana? Vuol dire che se non si ripara in tempo, la buca diventa
fossa. Inoltre la veste abietta fa cascare nello avvilimento chi
la porta. Per colpa del sozzo servo talora venne in dispregio
anche il padrone.
- Ma egli è troppo peggio, che prendano in odio il servo
per la ingratitudine che mostra al suo signore; e pensate un po'
voi di quale signore si tratta.
Al curato pareva giacere sopra la gratella di san Lorenzo, e
sospirando ruminava fra se: come diascolo tutto ad un tratto
è capitato tanto giudizio a Verdiana! - E Verdiana
proseguiva:
- Io ho detto begli ai ducati, perchè davvero mi piacciono;
ma non mi paiono più belli della mia coscienza, nè
del mio obbligo, e molto meno poi del mio Gesù; chè
se niente niente temessi che vi avessero a far prevaricare, vedete
come io ne userei? - Verdiana ne prese due pugni, e mostrò
volerli gittare fuori della finestra - io li butterei per
granturco alle galline...
- Verdiana! Verdiana! - gridò il Curato abbracciando forte
la fantesca a mezza vita, e respingendola addietro, - ma che siete
spiritata?
Quante fossero le parole dette dalla Verdiana, e come pungessero
acerbamente il Curato io tralascio; basti sapere, che il Curato
piegò il capo e pregò mentalmente che se poteva
farsi quel calice amaro, cioè Verdiana, fosse rimosso da
lui; sospirò; si pentì ripetendo dieci volte l'atto
di contrizione; deliberò rendere i ducati. Allo improvviso
fissandoli, gli parvero i trenta danari di Giuda; e, spaventato
dal fine di cotesto traditore, guardò tutto rabbrividito il
fico dell'orto della canonica, e si scostò dalla finestra;
ma nel punto in cui stava per darsi in balìa della
disperazione, ecco balenargli un pensiero nella mente:
esultò come Archimede, quando ebbe trovato il modo di
conoscere se nella corona di oro avessero mescolato rame; si
sarebbe per l'allegrezza dato un bacio, se con le labbra avesse
potuto toccarsi le gote; e sollevando la testa umiliata, a mo' di
cervo che ripresa lena continua la corsa, egli disse:
- Uditemi, Verdiana; voi avete parlato molto e male, Dio vi
perdoni. E chi vi ha insegnato a pensare tanto tristamente del
prossimo... di un curato... di me?... Parvi essere io stato, per
tutto il tempo che vivete con me, cosiffatto uomo da meritarmi
simili rabbuffi? E se nol fui, come da un punto all'altro di vino
sarei diventato aceto? Uditemi. Dal campo ha da uscire la fossa.
Io e Giannicchio scerremo gli embrici e i tegoli sani dal tetto
della canonica, e gli adatteremo sul tetto della chiesa: alla
canonica gli riporremo nuovi: potremo tagliare sei camicie
alquanto lunghe, e quando ne occorrerà bisogno per chiesa
aggiunteremo una striscia di trina a qualcheduna di quelle, e
serviranno per camici: dalla coperta di cataluffo ricaveremo due
pianete; una gialla, e l'altra faremo tingere in rosso; le lampade
e le ampolline si adoperano così in Chiesa come in casa: -
farò ancora raschiare, ritingere, riconficcare, insomma
riporre a nuovo il Crocifisso che tengo accanto al letto, e per le
feste lo esporremo in chiesa.
Il buon prete col suo cervello aveva armeggiato in questa guisa:
il patto fatto mi obbliga a non impiegare nemmeno uno scudo in
chiesa. Maladetto quel patto! Ma se tolgo le tegole e gli embrici
dalla canonica impedisco che l'acqua coli in chiesa, e osservo la
promessa: bene è vero, che così mi tocca a rifare il
tetto alla canonica; sia: ma potrò sempre sostenere, che
per la chiesa non ho speso un papetto. e rifiutare addirittura il
danaro. Ma no... perchè se non accettava non poteva
sguarnire la casa per addobbare la chiesa. Quando il lenzuolo
è corto, il capo o i piedi hanno da restare scoperti.
Dunque ho fatto benissimo... benone!
E contento di se, si voltava sul fianco sinistro. Oh curiosa! Qui
trovava tutt'altra opinione: una voce, che pareva nascosta nel
capezzale, lo rampognava così: - garbuglione, imbroglione,
cavillatore, tu vorresti servire mezzo a Dio, mezzo a Mammone.
Signor no; o tutti a Dio, o tutti a Mammone: qui non vi ha strada
di mezzo. Sono questi gli esempii che ti porgevano il profeta
Elisèo e san Pietro? La tua sorte sarà quella di
Simone Mago, che salì per aria in virtù del diavolo,
e cascò in terra per virtù di Dio fiaccandosi le
gambe; o per lo meno quella di Ghehazi, quando diventò
bianco da capo a piedi di lebbra(). Bella figura se ti presentassi
in pulpito come maestro Biagio il molinaro! E che cosa direbbe
Verdiana? Le offerte presentate senza il cuore puro vengono
respinte dal cielo: informi Caino; e tu accettasti danaro con
patto espresso di non adoperarlo nel servizio di Dio. Non è
questo peggio della simonia, e della geezzia? Chi non adora Dio
egli è già diventato servo del Maligno. Levati...
levati e va al letto di Verdiana, e chiedile perdono; cotesta
donna ha tanta carità da vendertene. Levati... torna a
Roma, magari in camicia; rendi i ducati al Cènci, e digli:
lasciatemi la mia povertà con la mia innocenza; ricchezza
col peccato non è affare che mi garbi. - Ouf! che caldo,
esclamava ad alta voce il curato; stanotte non mi riesce a
prendere sonno; e dando un gran voltolone pel letto tornò
sul lato destro. Da questa parte lo aspettava sempre il suo buon
Genio, e: - consolati, gli mormorava soavemente dentro gli
orecchi, perchè la intenzione giustifica la opera, e in
questo mondo chi è savio si governa secondo il vento e la
corrente; chè se Verdiana continuasse a darti fastidio, tu
le potrai allegare lo esempio degli Ebrei, i quali prima di uscire
dall'Egitto tolsero in prestanza i vasellami di oro e di argento
degli Egiziani, e verosimilmente gli adoperarono nella
fabbricazione dell'Arca: e le potrai citare eziandio il caso dei
figliuoli di Giacobbe, i quali per vendicarsi della sorella rapita
persuasero i Sichemiti a tagliarsi()... ma no... cosiffatti
esempii non sono da raccontarsi a Verdiana... gliene racconterai
un altro più accomodato... e più decente. Insomma la
intenzione giustifica le opere, se non presso gli uomini, almeno
presso a Dio. - Dunque ho fatto benissimo, benone! E a cui non
piace mi rincari il fitto; - e si addormentò.
Egli era un bel pezzo che dormiva, quando allo improvviso gli
venne rotto il sonno dalla testa da non so quale insolito rumore:
balzò a sedere sul letto, e gli parve udire un lieve
imprimere di orme sul pavimento; ond'egli ritenendo che il gatto
di casa avesse inciampato in qualche masserizia, allungò un
braccio fuori della sponda del letto, e presa una scarpa grave di
chiodi di ferro e per le fibbie d'argento, la gittò dalla
parte donde gli parve che il rumore muovesse; la scarpa
colpì in pieno uno armario, che suonò come un
tamburo, perchè era vuoto. Verdiana destatasi allo
strepito, incominciò a strillare dalla stanza accanto:
- Reverendo, reverendo. Trista moneta è quella che disturba
i sonni, e Dio le mandi il mal giorno, e il male anno: quando
eravate più povero riposavate fino a giorno; adesso non
dormite, nè lasciate dormire.
Il curato messe il capo sotto le lenzuola, e si turò le
orecchia con le coperte per non udire cotesta persecuzione.
La mattina don Cirillo, quando si levò, guardò prima
il cielo, e poi sott'occhio Verdiana; quello gli prometteva una
buona, questa una trista giornata. Si pose a cantare a mezza voce
matutino e le laudi, e prese a darsi grandissimo moto per
provocare qualche parola amica; ma e' fu tutto uno: a colezione,
così per rompere il ghiaccio, incominciò a domandare
con disinvoltura il prezzo ora di questa, ora di quell'altra cosa,
e poi bravamente, con un tratto da disgradarne ogni più
arguto diplomatico, allo improvviso osservò, come per tanta
roba centocinquanta ducati gli paressero pochi. Verdiana, colta
alla sprovvista sul tasto delle biancherie, per le quali ogni
buona massaia sente tanta passione, dimenticata la origine degli
scudi, si pose a fare i conti con don Cirillo. - Questi, sebbene
fosse non mediocremente istruito, pure di conti non sapeva nulla;
onde la somma non tornava mai. Verdiana annoverava toccandosi i
labbri con le dita, ma anch'ella in abbaco andava poco innanzi.
Allora il curato divisò prendere i ducati, e separarli in
tanti mucchii quante erano le cose da provvedere, giudicando ad
occhio: propose, insomma, lo scacchiere().
Don Cirillo ebbe a congratularsi del trovato strattagemma,
imperciocchè riuscisse a mansuefare l'umore della Verdiana,
e a sollevare se stesso; chè la vista del danaro letifica
il cuore dell'uomo. Di ciò porgono testimonianza gli stessi
testoni di Clemente XII, dove si trova la leggenda: videant
pauperes, et laetentur(). Ora i poveri vorrebbero introdurre nella
leggenda una variante, intorno alla quale fin qui non se la sono
intesa co' ricchi, e credo che vogliano stare ancora un pezzo
prima d'intendersi. La variante consisterebbe nel surrogare
habeant al videant; e certamente bisogna confessare che, non
ostante la leggenda di Sua Santità, i poveri dalla sola
vista del danaro non pare possano avere motivo di menare
sterminata allegrezza.
E per mettere in pratica il consiglio, il curato si avviò
alla camera seguìto da Verdiana, la quale gli andava dietro
ripetendo:
- Vedrete che al conto, che fate voi, ce ne mancheranno una
diecina... o una ventina.
- Ed io sostengo, ch'essi hanno a bastare, - e piegò la
persona per sollevare il coperchio dello inginocchiatoio; ma ad un
tratto si raddrizzò interrogando:
- Verdiana, che diamine mi diceste ieri sera? - Che la farina del
diavolo se ne va in crusca?
- E' lo dicevo, perchè in gioventù sentii raccontare
da un frate predicatore, che il Demonio fece il patto con un
contadino di comprare la sua anima per mila scudi: sottoscritto il
foglio e pagato il danaro, il contadino andò a casa col
sacco; ma la mattina fu trovato morto nel letto, e il sacco pieno
di carbone: così perse l'anima e i quattrini.
- State sicura, Verdiana, che questa moneta non mi viene da parte
del diavolo, bensì da un fiore di gentiluomo romano:
però io so una storia di scudi volati senza opera
diabolica; e se a voi piace ascoltarla, io ve la
racconterò.
- Giusto! ho tempo di ascoltar novelle! A mano a mano siamo a
mezzo giorno, e non ho anche messo la pentola al fuoco...
- Ci è più di un'ora a mezzodì, Verdiana; e
poi la è storia breve... storia, intendete bene, non
novella...
- Via, fate presto, che io vi ascolterò.
Il curato appoggia i reni al saccone, e punta entrambi i piedi sul
pavimento: poco oltre, davanti a lui, Verdiana stava ritta ad
ascoltare: in mezzo ad essi era lo inginocchiatoio.
- Dovete dunque sapere, incominciò don Cirillo, che ci fu
una volta un vecchio avaro, il quale quando del danaro prestato
prendeva l'usura del cinquanta per cento gli sembrava regalarlo.
Ora costui non volendo per la sua tristizia fare la spesa di un
forziere di ferro, comprò una cassa da morto; la
cerchiò da se, come seppe meglio, di bandelle di ferro, e
vi adattò una vecchia serratura; poi la nascose sotto il
letto, e di mano in mano andava a depositarvi la male acquistata
moneta. Quantunque poco temesse di ladri, per essere casa sua
guardata diligentemente, pure onde allontanare ogni sospetto
quando mai pervenissero nella stanza, scrisse sopra la cassa
«Hic est Christus Dominus meus»(): quasi volesse dare
ad intendere che quella fosse una reliquia, e così
rinforzare la debolezza della serratura con la reverenza della
religione. La Provvidenza, certamente per punirlo della sua
cattiveria, gli dava un figliuolo sprecone quanto egli era avaro,
e bevone da vincere il palio con le spugne; giuocatore poi - da
mettere su lanzichenetto in mezzo alla brace accesa; nè qui
si fermava; che possedeva certe altre taccherelle, le quali, voi
capite Verdiana mia, che le si vogliono tacere honestatis causa,
et caetera. Se il vecchio spigolistro tenesse il figliuolo allo
stecchetto non importa dire, e se questi lo avesse in fastidio
importa dire anche meno. Il figlio spiando il padre, un giorno lo
vide entrare in camera, chiudersi dentro, e, messo l'occhio al
foro della serratura, vide ancora com'egli aprisse la cassa, e vi
riponesse dentro buona quantità di danari. Al giuocatore
venivano a un punto i sudori caldi e freddi addosso: appena il
vecchio uscì di casa, ecco quel tristo con suoi ferri e
grimaldelli arrovellarsi intorno ai serrami; aperti che gli ebbe
si empiva le tasche, e prestamente si allontanava, non senza
però avere scritto prima sotto la cassa questa altra
iscrizione «Resurrexit, et non est hic»(); e
così il malvagio vecchio imparò a sue spese a
profanare i testi del santo Evangelo.
- E fosse finita qui!, aggiunse la divota Verdiana; ma il peggio
tocca di là, e pochi ci pensano...
- Sicuramente; e quando se ne avvedranno sarà tardi...
Dunque voi persistete a sostenere, che ne manca una diecina...
- O dieci... o venti...
- Ora lo vedremo... Io tengo per fermo, che devano arrivare...
E sollevò la predella... Il danaro era sparito.
Don Cirillo rimase giù curvo della persona, con la predella
sollevata, la testa e il collo volti verso Verdiana. Verdiana
chiuse gli occhi, e allungò ambedue le braccia con le mani
giunte sul capo a sesto acuto: parevano colpiti da catalessi.
Così stettero lungo spazio di tempo, senza dire parola,
senza battere palpebra. Una molto acerba battaglia si
combattè nell'animo di don Cirillo mentre tenne curvata la
persona. In quel turbinìo di passioni grande era il dolore
della somma perduta, grandissima la maraviglia di vederla sparita,
ma fuori di misura più grande il rimorso di averla
accettata a condizioni sicuramente non pie. Don Cirillo
raddrizzandosi lentamente, parve avere vissuto dieci anni in un
minuto: però senza amarezza alcuna disse alla serva.
- Verdiana mia, voi siete stata profetessa.
- O meschina me! non avessi mai parlato...
- E adesso, che cosa ci avanza a fare? - domandò il Curato
dandosi della palma aperta sopra la fronte.
- Rassegnarci ai voleri di Dio...
- Donna, voi avete parlato una savia parola. - Però, e
notatelo bene, Verdiana, qui dentro non ci ha a vedere il demonio.
Queste orme polverose per la casa, la finestra che dà su
l'orto rotta, e il rumore che stanotte ci ha desti, chiariscono
apertamente che qualche ladroncello del vicinato ci ha fatti
tristi. Dio gli perdoni, e possano cotesti danari giovargli meglio
che a me.
Ma oh! come l'affanno di queste povere creature toccò il
limite estremo quando, scese nella stalla, non rinvennero
più neanche Marco! Di quali pianti non risuonò la
canonica, di quali disperati guai? Marco co' più dolci nomi
chiamavano, Marco invocavano, Marco dal cielo con ardentissime
preci e con supplici voti chiedevano, e i campi intorno si
sentivano risuonare: Marco! Marco!
Si univa al lamentevole coro anche Giannicchio, il quale
provandosi consolare quel supremo dolore si era adattata al collo
la cavezza dell'Asino, e postosi davanti alla mangiatoia, proprio
nel luogo già occupato da Marco, andava dicendo
così:
- Don Cirillo non piangete, Verdiana mia asciugatevi le lacrime; -
io vi terrò luogo di Marco, vi servirò come Marco.
Reverendo, quando vorrete andare a Roma io vi porterò a
cavalluccio su le spalle comodamente come Marco.
Un'angoscia cupa subentrò, come avviene, allo affanno
clamoroso; nè sembra che le consolazioni di Giannicchio
trovassero grazia presso don Cirillo, nè presso Verdiana.
Non si parlò di mangiare: non già che Verdiana
omettesse apparecchiare; ma nel servire a tavola il Curato di
tratto in tratto voltava altrove la faccia per non mostrargli
qualche lacrima, che suo malgrado le scappava dagli occhi. Don
Cirillo guardava fisso il piatto, ma non toccava la vivanda; o se
pure ne prendeva un boccone con la forchetta per recarselo alla
bocca, appena aveva alzato il braccio lo riposava, e poi con un
grosso sospiro rimoveva da se intatta la pietanza. Ah pur troppo
è amaro a inghiottirsi il pane bagnato di pianto! Don
Cirillo si levò, scese, e si mise a sedere sopra il
muricciòlo a destra della porta di casa; e per fare
qualchecosa, si pose con un bastoncello a segnare di linee il
terreno. Si vedeva chiaro che cotesti erano moti puramente
macchinali, e il suo pensiero galoppava le mille miglia lontano di
là; ma o sia che la passione non abbia sede particolare, o
sia che le membra conservino spontanee il moto che in loro
impresse lo affetto, fatto sta, che le mani del curato tracciarono
su l'arena il profilo di Marco. Verdiana sul muricciòlo a
sinistra guardava le galline, - le guardava; ma con le mani in
tasca non udiva la costoro petizione collettiva, che domandava il
solito sussidio di grano turco. Giannicchio seduto sotto il
pagliaio piangeva, e si sfogava col pane dandogli tali morsi da
far temere anche pel pagliaio, caso che il pane non gli fosse
bastato.
Il pensiero del prete dopo avere viaggiato per diverse regioni, si
fermò finalmente su Giobbe: considerò innanzi tratto
ch'egli non aveva moglie, e questo gli parve un primo argomento di
consolazione; poi pensò che non aspettava amici, e conobbe,
che se uno solo di quei di Giobbe, o il Temanita o il Suhita, gli
fosse cascato addosso sarebbe bastato a farlo gittare a capo fitto
nel pozzo: e finalmente la coscienza questa volta, sgombra da
passione, discorrendo schietta e senza garbugli, gli dichiarava
ch'egli aveva commesso peccato grave contro Dio, e che doveva
ringraziarlo di cuore se lo sottoponeva a cotesta ammenda
leggiera: onde si levò da sedere con volto mestamente
sereno rimanendogli dentro una umiliazione, la quale se avessimo
voluto decomporre nei suoi elementi avremmo trovato per lo
appunto: che per un quarto vi entrava il rimorso della mala
accettata moneta; per un altro quarto la vergogna delle parole
scandalose adoperate con Verdiana, e per una buona metà il
dolore della perdita del povero Marco.
- Dio me lo ha dato, sospirò don Cirillo, Dio me lo ha
tolto; sia fatta la volontà di Dio: pel peccato che ho
commesso, la tua mano, o Signore, mi punisce soavemente.
Appena il buon curato aveva posto fine a coteste parole, come se
la Giustizia divina soddisfatta volesse aprirgli di nuovo la fonte
delle misericordie, ecco rimbombare dintorno per le valli e pei
colli il raglio glorioso e trionfale, che pareva - o
voluttà celeste! - ed era certo di Marco; e appena ebbero
tempo di dirselo, che Marco, incoronato di verdi fronde la testa,
scavalca secondo l'usato costume la siepe, e come saetta volante
corre verso il padrone. O come incoronato? domanda il lettore, e
aggiunge: queste le sono bizzarrie di romanziere. Sì
signore, incoronato; e il come vi sarà detto poi. Intanto
compiacetevi, signor lettore, meco di contemplare Marco
incoronato; non dico di alloro perchè, voi lo sapete, di
questo
.......rado se ne coglie
Per coronare o Cesare o Poeta,
Colpa, e vergogna delle umane voglie();
ma di varia maniera fronde corbezzolo, e quercia; e la quercia era
pure nobile corona da stare a petto con l'alloro,
imperciocchè nell'antica Roma si destinasse a colui che
salvava in battaglia la vita a un cittadino romano, e si chiamasse
civica. A questo pensa, lettore, e riponti in mente, che là
dove si onora la virtù vera, supremo ufficio civico
è salvare un cittadino in battaglia, e non tradirlo in
pace. - Marco pertanto apparve con la corona civica, ed era un
Asino.
Gli abbracciamenti, i baci, e i colpi lieti(),
i risi, i pianti di tenerezza, i parlari confusi, e simultanei
erano una pazza cosa. Marco anch'esso si sentiva commosso come gli
altri; non affermerò che ancora egli piangesse e ridesse,
quantunque con l'autorità di scrittori gravissimi io potrei
sostenere anche questo, e la commozione interna egli manifestava
con voce potente a superare ogni altro grido. Marco era il
Lablache di cotesto coro. Don Cirillo lo liberò dalla sella
e dalle bisacce, senza avvertire se fossero vuote, o piene.
Giannicchio prima di tutto lo abbracciò e lo baciò;
poi lo stregghiò, lo lavò, gli rinettò la
coda dai pungitopi e dai pruni. Verdiana gli apparecchiò
paglia fresca ed erbette; anzi volgendo gli occhi da un lato
dell'orto vide un magnifico cavolo cappuccio, che pareva un
senatore: stette fra due se lo dovesse serbare per una minestra di
riso pel curato, o darlo a Marco; ma vinse amore per questo, e
risolutamente lo svelse, lo lavò, e lo sminuzzò
nella mangiatoia di Marco. Era il ritorno del figliuolo prodigo,
ed ella uccideva la vitella grassa. Cotesto giorno, si può
dire che l'Asino facesse pasqua.
E per Asino, bisogna aggiungere, che Marco ebbe in cotesta
solennità convivale quasi gli stessi onori di papa
Bonifazio VIII al banchetto della sua incoronazione;
conciosiachè se lui servirono due re, l'Ungherese e il
Siciliano, in regio ammanto, e la corona in capo, il Curato e
Verdiana ministrassero a Marco. Vero è bene che il curato
non vestiva il piviale; ma in compenso Giannicchio gli fece da
coppiere, conducendolo alla pila dov'egli già bevve la
luna. Sazio, non stanco, di mangiare, Marco sentì alfine il
bisogno di riposarsi: egli veramente non disse: buona notte a
nessuno; ma lo fece capire abbastanza stendendosi sopra la paglia,
chiudendo gli occhi, e declinando il capo. Usciti dal presepio, il
curato raccolse le bisacce; e questa volta essendo sgombro da
passione, notò come pesassero gravissime, e v'immerse
dentro la mano. Potere del mondo! Sognava, od era desto? Gli parve
toccare moneta: le rovesciò per terra... scudi! ducati! - e
quanti! Don Cirillo e Verdiana si stesero sul prato; e fatto
cumulo del danaro, parve loro che fosse quattro e cinque volte
tanto quello di prima. Oro, argento da mandare in visibilio ogni
cervello sano: conta e riconta, vennero a capo di conoscere che
dovevano essere circa quattrocento cinquanta ducati.
- Ora mi sembra, che c'incastri ogni cosa - disse don Cirillo; ma
Verdiana, alzando il dito, rispose:
- Egli è ben nostro questo tesoro? Badiamo, Reverendo,
badiamo che Dio non ce lo abbia mandato per provarci una seconda
volta.
- Verdiana, dapprima ho pensato come voi; ma poi mi sono persuaso
che questo danaro ha da appartenere al ladro; egli non può
essere qui del vicinato, ma sarà sicuramente qualcheduno
dei banditi che bazzicano per la campagna. Ora voi capite, che
renderlo a lui sarebbe peccato, e ai derubati impossibile. Io
proporrei - e questo disse con esitanza - che per noi spendessimo
un cento cinquanta di ducati, ed ogni rimanente per la chiesa, e
pei poverelli di Dio; - sicchè faremmo restaurare ambedue i
Crocifissi - quello di chiesa, e l'altro di canonica.
Parve che la proposta garbasse a Verdiana, perchè soggiunse
senza obiezione:
- E lasceremo stare la coperta di cataluffo sul letto, e
compreremo le pianete di bel damasco nuovo.
- E le camicie non trasformeremo più in camici.
- E i tegoli della canonica rimarranno alla canonica, e quelli
della chiesa alla chiesa.
- È giusta; a Cesare quello ch'è di Cesare, a Dio
quello ch'è di Dio.
- Ma ieri non aveva ad essere così...
- Non ci pensiamo più, via. Il Signore ha perdonato, e voi
volete conservare amarezza? Verdiana, sareste meno misericordiosa
del Signore?
- Me ne guardi Maria Santissima! Voi avrete due tonache nuove; una
per la state di cammellotto, e l'altra pel verno di panno; e
ancora due para di calzoni, perchè ieri... mi parve veh! di
vedere quelli che portate ridotti in pessimo arnese...
- E voi due gonnelle; una di stame, e l'altra di lana.
- E le stoviglie?
- E gli asciugamani?
- Le stoviglie sono proprio necessarie - perchè, ora che ve
lo posso dire senza affliggervi, avete a sapere, che da un pezzo
in qua voi mangiate sempre nel medesimo piatto; e quando andavo in
cucina io lo lavava presto presto, e ve lo riponeva su la tavola
per modo, che non ve ne poteste avvedere.
- E con gli asciugamani lasceremo stare in riposo il gatto.
- O Signore, come siamo poveri! Io non me n'era mai accorta come
adesso, che, avendo danaro da spendere, penso a provvedere le cose
che mancano.
- Così è; il danaro fa come il sole; scuopre la
miseria, e la rallegra.
- Ma a noi abbiamo pensato anche troppo.
- Giannicchio avrà di una stoffa sola la prima vesta, che
abbia portata nel mondo.
- E Marco la cavezza nuova.
- Anzi... gran benedetta bestia è quel Marco! - e voi,
Verdiana, la benedetta cristiana, perchè ambedue mi porgete
occasione di fare un'opera buona. Veronica, la povera lavandaia,
ha perduto il suo asino, ed ora se ne sta maninconiosa non sapendo
a qual santo votarsi. Ella non può andare a Roma pei panni,
e i suoi garzoni non guadagnano più il pane con la
carretta. Orsù; datemi una ventina di ducati, che io me ne
andrò senza porre tempo fra mezzo a consolare la desolata,
e nello stesso viaggio menerò meco i suoi figliuoli, ed il
suo cane perchè ci facciano un po' di guardia stanotte. Voi
capite, Verdiana, che se il ladro venne pei miei danari, molto
più si proverà a tornare pei miei e pei suoi; ed
è bene ch'ei sappia, che quaggiù non tira vento
buono per lui.
E come disse fece il dabbene don Cirillo; nè male
gl'incolse essersi armato di provvidenza, imperciocchè
durante la notte successiva il cane non cessò mai di
brontolare e latrare: in seguito fu pace.
Marco diventò vecchio; e il Curato e Verdiana, com'è
da credersi, non ringiovanirono certo. Un giorno il curato, dopo
cena, levò la mano, secondo il suo costume quando voleva
annunziare qualche solenne novella. Verdiana incrociò le
mani sul petto per udirlo più raccolta. Giannicchio si
rimase a mezza stanza con un piatto in mano che riportava in
cucina, tenendo il corpo rivolto verso la porta e il capo indietro
verso il curato per non perdere le sue parole. Don Cirillo
incominciò così:
- I nostri antichissimi progenitori...
- Quanti anni sono?...
- Più di millanta.... ma non m'interrompete, Giannicchio...
- Mandarono in Grecia savii ed avvisati uomini perchè
prendessero notizia delle leggi con le quali si governavano
costà, essendo predicate dalla fama giustissime e
religiosissime, per reggere con rettitudine pari questa nostra
contrada...
- Ma Grecia non è paese di Turchi?
- Verdiana non m'interrompete... In cotesti tempi non si
conoscevano Turchi... non sapete che io parlo di quando Virginio
ammazzò la sua figliuola honestatis causa? I Greci pertanto
come somministrarono ai progenitori nostri notizia delle ottime
leggi, così dettero a noi esempio umanissimo del modo da
praticarsi verso il nostro antico compagno Marco. Gli Ateniesi,
dopo avere fabbricato un magnifico tempio, chiamato Ecatompedone,
a Minerva, ch'era, come sarebbe a dire, una santa per cotesti
tempi...
- O adesso, che cosa ne hanno fatto di cotesta santa?
- Giannicchio, non m'interrompete... i Greci affrancarono da ogni
fatica gli Asini e i Muli che si erano travagliati intorno a quel
lavoro, e li dichiararono signori e padroni di vagare e pascere
dove meglio venisse loro talento; e si legge eziandio in certo
libro stampato, come uno di cotesti Asini vivesse interi
ottant'anni().
- Quasi quanto noi...
- Che maledetto vizio! Ma Verdiana non...
- Sarà stato un miracolo di santa Minerva...
- Ma Giannicchio non m'interrompete. Minerva non poteva operare
miracoli - perchè adesso ella sarebbe, come dire, un
diavolo.
- Come un diavolo? O a Roma non ci è pure Santa Maria della
Minerva? Possibile che, secondo voi, vi fosse adesso una Santa
Maria del diavolo?
- Ma Verdiana, per l'amor di Dio, lasciatemi parlare; queste altre
cose vi spiegherò a suo tempo per filo e per segno...
- Purchè facciate presto...
- Omnia tempus habent, cara mia; ogni frutto ha la sua stagione.
- Sì, ma ponete mente che noi abbiamo anni quanto lo Asino
di Atene...
Don Cirillo, per liberarsi da cotesto fastidio delle interruzioni,
male oggimai diventato incurabile in casa sua, precipitò il
discorso, aggiungendo:
- Per le quali considerazioni ed esempii io propongo che si abbia
a giubbilare Marco, facendogli le spese come buono e fedele
servitore finchè a Dio piaccia di tenerlo fra noi.
E Verdiana di rimando:
- Sentitemi, don Cirillo, io non leggo libri stampati come leggete
voi; ma la ragiono così: vecchi siamo anche noi, pure per
la grazia di Dio non impediti in verun membro, o sentimento del
corpo: però, finchè la Provvidenza ci mantiene
destri, vuol dire, che secondo le facoltà nostre intende
che qualche cosa facciamo. Tempo per riposarci, Reverendo, ce ne
avanzerà anche troppo quando anderemo a dormire nel campo
santo. Contro alla opinione di vostra Reverenza io dichiaro, che
Marco essendo vecchio può affaticarsi nei lavori che
convengono ai vecchi; non più sassi egli deve portare,
nè mattoni, nè calcina; non più grano al
molino, nè some di vino al mercato; non più il
Dottore, ch'è più peso di tutte queste robe; ma gli
basteranno molto bene le forze per portare erbe in Roma, e
ritornare carico di qualche coserella che ci potesse abbisognare.
Ciò lo conserverà sano, e a noi sempre gradito;
perchè vedendolo ozioso a ingrassare, chi sa che non ci
cadesse in disgrazia come un disutilaccio mangiatore di pane a
tradimento.
- Verdiana, voi siete la erede vera della Sibilla Cumana.
Come poi successe il caso dell'Asino tornato, e del danaro
cresciuto potranno sapere tutti coloro, i quali si compiaceranno
leggere il veniente capitolo.
CAPITOLO XIII
IL TRADIMENTO
Poichè si vide il traditore uscire
Quel che avea prima immaginato invano,
O da se torlo, o di farlo morire
Nuovo argomento immaginossi, e strano.
Ariosto, Orlando Furioso.
La notte era alta, e don Francesco Cènci se ne stava
ridotto nel suo studio, leggendo con molta attenzione il libro di
Aristotele intorno alla natura degli Animali; e ad ora ad ora si
soffermava meditando, e notando sopra i margini con minutissima
scrittura le riflessioni, che gli si affacciavano allo spirito. Ad
un tratto batterono le due dopo la mezza notte: lo squillo
percosse l'aria acuto come una domanda superba. Pareva che
interrogasse: «chi ardisce vegliare in questo tempo di
morte?»
- Veglio io, rispose don Francesco, ma senza pro. I misteri della
natura si tentano invano. - Gira, rigira; io te lo do per giunta,
se riesci a ritrovare la porta donde sei entrato. - Chi
inventò a distinguere il tempo, che fugge in ore, in minuti
e in secondi, io per me tengo che fosse uno dei peggiori tristi
che mai abbiano vissuto nel mondo. Capisco ancora io che,
viaggiando per Roma o per Napoli, l'uomo possa mettere il capo
fuori della carrozza onde procurarsi il piacere di leggere sopra
le colonne migliarie di quanto spazio ha accorciato il termine del
suo viaggio; ma quando la città a cui ci avviciniamo
è Necropoli, il Campo-santo, oh! allora vada allo inferno
chi mi dice: «siamo per arrivare; ecco l'ultimo
miglio!» Queste ore battute, allorchè sono passate ci
percuotono come il rumore di un frammento di vita, che ci caschi
da dosso per non ritornarci mai più. Forse in giovanezza,
quando un orecchio tintinna pei sonagli che vi squassa vicino la
follìa, e l'altro ronza d'inviti che vi sussurra dentro la
bocca lasciva, il mal suono o non giunge, o giunge fioco. Adesso
poi, nella età in cui mi sono condotto, mi pare che le ore
scappino più veloci, come i fantini raddoppiano le sferzate
all'ultimo giro del palio: Motus in fine velocior. Ora pertanto
bisogna attendere con ogni studio... a che attendere? Tutto
è contrasto, disordine e confusione nel mondo: noi siamo in
guerra contro noi stessi. Io, che dai primi anni ho abbracciato un
partito, e mi vi sono confermato con la riflessione, e ostinato
con le opere;.. io pure, quando meno me lo aspetto, sento dentro
di me uno spirito che discorda da me, e sempre contradice, e
perfidia, e con lusinghe, o per forza vorrebbe strascinarmi in
parte ove io non voglio andare: se fosse un occhio, o una mano
ribelle potrei strapparlo, o tagliarla; ma come arrivare a mettere
le mani addosso a questo spirito di rivolta? - Se però non
posso strangolarlo, posso ben vincerlo. O spirito di rivolta,
perchè ti consigli trattenere il torrente della mia
volontà con i tuoi dicchi di ragno? Se tu sei un angiolo,
da' retta a me, torna a casa tua perchè predichi al
deserto; se demonio, vattene, non m'infastidire adesso: faremo i
conti tutti in una volta. Beatrice pensò atterrirmi quando
minacciava, che i posteri diranno di me: «ai tempi del
profeta Natan i flagelli di Dio erano tre, poi diventarono
quattro: fame, peste, guerra, e il Conte Cènci»; e
nessun cortigiano mai trovò blandizie più piacenti
con la sua lingua dorata. - E così fosse! Ma i posteri non
sapranno neppure che tu sei vissuto. Tutto è vecchio,
consumato; tutto casca a pezzi quaggiù. I nostri terribili
genitori ci hanno divorato tutto; essi ci hanno diseredati persino
della facoltà d'infamarci. - O Tiberio, o Nerone, o
Domiziano, voi ci avete tolto il diritto di poterci chiamare
scellerati. - Voi tuffaste la bocca nel fiume della lussuria e
della ferocia mentre a noi avanzano poche stille per saziare la
sete. Eppure io mi sentirei cuore e mente da superarli; e se la
fortuna mi avesse dato uno impero, o il soglio pontificio, avrei
così spigolato nel vostro campo, o Imperatori augustissimi,
da non invidiarvi la raccolta. L'arte può supplire, ed
anche superare la forza: vi sono diamanti i quali, sebbene
piccoli, vincono con la limpidità della loro acqua gemme di
mole maggiore. Peccato galoppa, galoppa; poca è la via che
rimane... portami nello inferno di carriera serrata...
Un bussare precipitoso alla porta segreta interruppe il corso
delle sue malvage riflessioni: credendo fosse Marzio venuto per
qualche subito caso, si accostò in fretta, ed aperse.
Olimpio anelante, col capo bendato di una tela sanguinosa proruppe
dentro la stanza, volgendo il capo indietro come uomo che sospetti
essere inseguito, e si gettò a sedere asciugandosi col
braccio il sudore della fronte. Don Francesco, comecchè
peritissimo a dissimulare, male poteva nascondere la sorpresa e il
dispetto alla vista di costui; pure fingendo alla meglio, che
potè, lo andava interrogando:
- E qual diavolo ti sbalestra in questo arnese, e in questa ora
quaggiù? Tu sei ferito! Quale stroppio è egli
accaduto?
- Traditi, don Francesco, traditi; ma giuro a Dio e agli apostoli
Pietro e Paolo, che prima di morire io vo scannare quel brutto
Giuda traditore, fosse anche mio padre.
- Traditi! E come può essere? Ma tu grondi sangue!
- Non vi badate; egli è un nonnulla, come sarebbe a dire
una sopraccarta di pistolettata... la palla mi ha fregato la
testa, e nulla più.
- Bene; dunque, Olimpio, accomodati a tuo grande agio, e narrami
distesamente quello che ti avvenne.
- Stanotte correva la impresa di sua Eccellenza il Duca di
Altemps, dalla quale mi sconsigliava una voce, che sentiva
mormorare qui dentro... e se non era cotesto Asino dannato io
aveva deciso di provare un po' se, adoperandovi i piedi e le mani,
mi fosse riuscito tornare uomo dabbene, o lì per lì;
ma nel più bello la secchia è ricascata nel pozzo.
L'Asino sta fra me e il paradiso...
- Olimpio, tu hai sofferto nel capo; povero uomo! vaneggi.
- Per Dio! io non, isvagello, don Francesco; dico la
verità. Aveva compita la impresa del falegname, ma con una
apostilla che non ci avevamo messa io nè voi; fu il diavolo
in persona che fece bruciare quel disgraziato falegname.
- Certo fu il diavolo, che mise di fuori alla porta una spranga
inchiodata per traverso.
- Cotesto feci io; ma vi giuro da bandito di onore, che non altro
volli, che impedirlo di saltare subito fuori di casa, e destare
tutto il vicinato per aiutarlo a spegnere le fiamme: io non
credeva che i vostri fuochi lavorati ardessero così
terribili; nè poteva supporre che il maestro perdesse il
cervello, da aggirarsi per tutta la casa in fiamme prima di
affacciarsi alla finestra. Insomma, io non credei, oh! non credei,
che avesse ad uscirne tanto dolore. - Don Francesco, avete sentito
il fatto di donna Luisa vostra signora nuora? Quanto ci corre tra
noi e lei! Vero sangue latino!
- Anche questo conosco. Certo ella è valorosa femmina... ho
io detto valorosa? Sì, e non mi disdico: ogni creatura ha
le sue virtù; e se io non fossi Francesco Cènci, non
vorrei essere altri che Luisa Cènci: in casa mia le donne
superano i maschi di assai. Se i miei figliuoli avessero
assomigliato a Olimpia, a Beatrice, o a Luisa; se il secolo
paludoso avesse dato luogo ad acquistare fama con qualche onesto
studio, con qualche atto o di mano o d'ingegno... forse allora...
chi sa?... mi avrebbe preso vaghezza di altra strada;... ma
adesso... non ci pensiamo più...
- A me parve, che mi si franasse il cuore; sentii cascarmi
giù ogni tristezza, e piansi, piansi come un fanciullo. Per
la prima volta pensai a mia madre quando mi nascondeva dietro la
gonnella, e prendeva per se le busse che volea darmi mio padre; -
pensai alla mia povera Clelia, quando mi aspettava alla fontana; -
pensai all'oste di Zagarolo, che ha il vino tanto fresco nella
estate; - alla corda di mastro Alessandro, tanto innamorata del
mio collo... e veruno di questi cari ricordi m'intenerì
tanto, quanto la famosa donna Luisa Cènci. Deliberai mutare
vita, e doveva tagliare reciso; ma io volli lasciarvi lo
addentellato, e mi sconciai. - Aveva fatto tanto male nel mondo,
che pure bisognava attendere a ripararvi con qualche bene; ma il
male potei fare da me solo, il bene no. Pensai ad acquistare i
centocinquanta scudi del curato per farne dire tante messe per
l'anima del maestro e degli altri che ho morti, i quali spero in
Dio che non saranno per cagione mia in peggiore luogo che nel
purgatorio, ed anche per provvedere alla meglio alla povera
vedova; nè levarglieli mi pareva alla fin fine peccato
perchè, a vostro dire, voi glieli avevate donati per burla;
e per la parte ch'egli poteva averci di suo, la è cosa
vecchia che lo accessorio seguita il principale. Mi travestii da
accattone, esaminai diligentemente i luoghi, e nottetempo quatto
quatto penetrai in casa, e m'impadronii del danaro. Nel ritirarmi
entrai dentro un armario; il curato si sveglia, mi scambia pel
gatto, e mi scaglia contro una scarpa, che parve una bombarda; ma
non gli successe di cogliermi. Avevo notato come il degno
sacerdote possedesse un Asino giovane e forte, e disegnai
torglielo a imprestito per fornire più comodamente il
cammino. Andai per esso: lo sciolgo dalla mangiatoia, gli metto la
bardella, ed egli quieto; lo conduco allo aperto, ed egli sempre
agevole: quando però si accorse che io volevo montargli
sopra, prese a sparare calci da spezzare un monte di ferro. Ah!
vuoi battaglia? e battaglia avrai, io dico. Egli calci, e calci
io; egli morsi, ed io bastonate da levare il pelo: alla fine egli
chinò gli orecchi, e sospirando chiese capitolare. Perdono
ai vinti, purchè si lascino cavalcare. Io vi salii sopra, e
ce ne partimmo insieme da buoni amici, come se neppure avessimo
avuto contesa fra noi. Su lo albeggiare conobbi pendere dalla
bardella le bolgette; e dandomi molestia la moneta che portava
addosso, vi riposi dentro gli scudi del prete e i miei, che tra
argento e oro formavano un valsente di trecento ducati, e
più. Cresciuto il giorno io m'inselvai, disegnando
rientrare in Roma su la bruna: dell'Asino pensava ormai potermi
fidare... ma sì, vatti a fidare dell'Asino! - Però
lo lascio andare a suo talento, poco curando ch'ei piegasse la
testa a sterpare qualche fronda, o pascere erba. Giungemmo ad un
rio assai copioso di acque a cagione di una serra da mandare il
molino. L'Asino vi si tuffa dentro: io ritiro le gambe per non
bagnarle: ad un tratto la terra si sprofonda sotto di me, l'Asino
scomparisce, ed io mi ritrovo nell'acqua fino alla cintura. Il
caso improvviso, il diaccio che mi corse per la persona, e
più i pensieri che tenevanmi legata la mente, mi resero
incapace a prendere su quel subito un partito che mi giovasse.
Stendendomi sotto i piedi la bardella vi sbalzai sopra, e quinci
spiccai un salto, che mi fece toccare la sponda opposta. L'Asino
tristissimo, che si era lasciato andare a posta giù per
liberarsi da me appena si conobbe scarico, si levò,
voltò le groppe, e via come un cervo. Ahi! Asino
giuntatore, Asino ladro! - Ripassai il rio, gli corsi dietro; non
ci fu verso raggiungerlo; e' pareva Baiardo che fuggisse davanti
Rinaldo(): saltava macchie, sbarattava fratte, menava tronchi e
sassi; sicchè tenni allora, ed anche adesso io credo, gli
fosse entrato il diavolo in corpo. Nella ventura notte,
immaginando che l'Asino fosse tornato alla sua stalla, mi provai a
penetrare di nuovo in casa al Curato; ma costui la faceva guardare
da cani e da villani. E ora? - pensava tra me, - invece di
guadagnare ho perduto, e non mi avanza più un baiocco per
farne un bene, o un male: ed ecco come io mi trovai, quasi con la
mano alla gola, strascinato nella impresa del Duca. Da una parte
mi determinò il pensiero, che si trattava di bazzecola...
un ratto di donzella! - Signore! e' ci hanno tanto gusto ad essere
rapite! E poi coteste le sono faccende che si aggiustano, e il
Duca parendomi acceso molto, chi sa che non la togliesse per sua
legittima donna, e un giorno ella non me ne avesse obbligo grande?
Dall'altra parte, come beneficare senza danari? Dalla impresa del
Duca in fuori, non mi sovveniva sul momento altro partito per
procurarmene. Chi si è dannato per femmine, chi per terre,
o baronìe, chi per moneta: destino di Olimpio era, ch'ei si
dannasse per un Asino...
Il Conte guardava sovente fisso in volto colui, immaginando dalla
giocondità del racconto che Olimpio favellasse per burla;
ma egli mostrava le sembianze compunte così, che venne di
leggieri nella contraria sentenza. Olimpio pertanto
continuò:
- E' non ci fu rimedio; mi presentai al Duca per concertare la
impresa. Aveva studiato l'ora, i luoghi e le abitudini di casa:
andammo quattro compagni; io cinque. Il Duca aspettava in istrada
con la carrozza. Entrai nel cortile, e dissi al portiere:
«Compare, fammi il servizio di chiamarmi su in casa la
Crezia, e dille che venga abbasso, che Gioacchino l'aspetta per
farle una ambasciata da parte di sua madre... e to' questo papetto
per bere». Il portiere andò difilato, e i compagni
s'introdussero presto presto nel cortile, ingegnandosi di
nascondersi dietro le colonne del porticato. La ragazza scese di
volo, cantando come una rondinella: in meno che si dice ave Maria
la incamuffammo, e mettemmo in carrozza al Duca, il quale
l'accolse a braccia aperte. Ordinai muovessero i cavalli, e noi
scortavamo dietro: procedevamo di passo per non destare sospetto,
e non incontriamo anima vivente. Ogni cosa va d'incanto, mi disse
sottovoce un compagno; a me, pratico di simili negozii, pareva
troppo bene, e non m'ingannava; perchè sul punto di
sboccare dalla contrada eccoci venire incontro la Corte
rinforzata. Sbigottirono gli altri, io - niente paura: - gira
cocchiere, grido, e per questa volta corri alla disperata.
Dannazione! Un nugolo di sbirri ci piove addosso anche da
quest'altra parte. «Giovanotti, mastro Alessandro ha teso il
paretaio e se non volete essere arrostiti bisogna rompere le reti;
mano a' ferri». Detto fatto; e il Duca stesso scese di
carrozza traendo bravamente la spada. Non lo stimava da tanto... O
andate, via, a fidarvi delle acque quiete! - Ma gli sbirri non
aspettarono che noi ci accostassimo per fare loro i nostri
convenevoli, e ci pagarono uno acconto di archibugiate. Chi cadde,
e chi rimase in piedi? Davvero io non poteva pensare agli altri,
ed il buio era fitto. La beghina, trattasi il bavagliolo dalla
bocca, si spenzolava fuori dello sportello della carrozza
strillando: misericordia! come se avessimo voluto levarle la vita.
La corte urlava anch'essa gridando: ammazza! ammazza! ed io zitto
rasentava il muro, e menava colpi che non davano luogo neanche a
un sospiro: - mi feci largo.... e via per quanto le gambe mi
aiutavano. Andava premendo appena dei piedi la terra,
perchè, come sapete, chi corre corre, ma chi fugge vola; e
nonostante ciò due sbirri, certamente lacchè smessi,
mi stavano alla vita come levrieri: l'ansare di costoro mi
sollevava i capelli dietro le spalle, più volte mi
strisciarono con le mani le vesti. Svolto un canto, e sempre via;
ne svolto un altro, e un altro poi: incominciava a sentirmi il
fiato grosso; ma essi pure erano stanchi, e uno più
dell'altro, perchè non mi percuoteva uguale lo strepito
delle loro pedate. Allora mi sovvenne la storia di Orazio il prode
paladino; e parendo a me, che mi avessero accompagnato oltre il
dovere, mi fermo, mi volto allo improvviso, e dico addio a quello
che mi stava più addosso con una pistolettata in mezzo del
petto. Costui girò tre o quattro volte come il cane che si
corre dietro alla coda, e poi dette del naso in terra. L'altro
capì subito che io intendeva prendere congedo da loro, ed a
sua posta, prima di allontanarsi, mi sparò un saluto di
un'oncia di piombo, la quale strisciandomi il capo mi ha toccato
l'orecchio sinistro, - Non per questo cessai di correre: dopo buon
tratto mi fermai speculando attorno per conoscere ove io mi fossi,
e mi trovai per avventura presso alle vostre case. Tornare sopra
la strada percorsa era perdermi, però che fino a questa
parte mi venisse il rumore lontano del brulichìo del popolo
commosso, come fanno le acque del Tevere nelle pigne di ponte
Santo Angiolo. Decisi appigliarmi al partito, che la fortuna mi
aveva posto avvisatamente davanti: mi arrampico su pel muro del
giardino, e tentoni tentoni sono venuto fino a voi seguendo la via
per la quale mi condusse Marzio... Ora, don Francesco,
nascondetemi fino a domani notte perchè, con lo aiuto di
Dio, conto tornarmene alla macchia.
Il Cènci, che attentissimo lo aveva ascoltato, gli
domandò allora:
- E tu sei propriamente sicuro, che nessuno ti abbia veduto
entrare qua dentro?
- Nessuno. Ma voi capite che la corte stando all'erta, su questi
primi bollori è bene scansarla; - e poi qui in Roma io
respiro un'aria di forca, che mi scortica la gola... davvero non
mi si confà.
- E mi assicuri non averti conosciuto persona?
- Nessuno - nessuno. O non vedete, che io mi sono travestito da
gentiluomo?
Infatti Olimpio aveva mutato abbigliamento.
- Sta' di buono animo; se la cosa va come tu dici, poco male ci
è dentro. - Bisogna però provvedere con diligenza,
perchè i servi non ti hanno a vedere; io non mi fido
affatto di loro; sempre stanno con l'occhio aguzzo, e le orecchie
tese: siamo circondati da spie: essi amano il padrone come i lupi
l'agnello, per divorargli la carne.
- Come, neppure di Marzio vi fidate voi?
- Prima di rompersi egli era sano - dice il proverbio. -
Così, così; ma io l'ho mandato in villa per
faccende. Ti adatterai pertanto - (e vedi che io lo faccio
più per te, che per me) - a starti per questo po' di tempo
nascosto nei sotterranei del palazzo.
- Come sotterranei?
- Sotterranei, così per dire... Cantine, via; e tu ti
troverai con onorevole, e gradita compagnia - quella delle botti;
- io ti autorizzo a spillarle, e a bevere l'oblio dei mali
finchè ti piaccia: a un patto solo però, che dopo
bevuto tu rimetta lo zipolo al posto.
- Quando non si può avere meglio, accetto la stanza per la
compagnia.
- Tu non vi starai da principe, ma neppure da bandito; troverai
paglia in copia; in meno di un'ora ti porterò da mangiare,
e lume, e certo mio unguento, che ti torrà dalla ferita
ogni dolore. Possa io morire di mala morte, se in breve tu
sentirai più nulla. Consolati, non tutte le imprese
riescono a salvamento; non la fortuna, ma la costanza viene a capo
di tutto. I Romani dopo la rotta di Canne venderono il terreno
occupato dal campo cartaginese, e alla fine presero Cartagine. -
Porgimi braccio... fa piano veh! - guarda non farti male - andiamo
adagio.
E al buio lo condusse per infiniti avvolgimenti nei sotterranei
del palazzo.
- Qui non mi trova neanche il demonio.
- Oh! per questo sta' securo, nessuno ti troverà!
- E poi nessuno sa, che io sto qua dentro.
- Nè mai lo saprà.
- A me basta, che la corte non lo sappia fino a domani l'altro;
poi non me ne importa nulla.
- Abbassa il capo, e avverti di non urtare nella soglia... qua...
da questa parte... entra..
- Entra! - disse Olimpio trattenendo il passo, mentre sentiva
un'aria fresca e umida ventargli in faccia, - e don Francesco
ridendo forte gli domandò:
- Sta a vedere, che tu hai paura!
- Io? No; ma penso che nei luoghi chiusi sappiamo sempre quando ci
entriamo, non mai quando ne usciremo.
- Come! Domani notte, - tu lo hai detto.
- E se voi non veniste più per me?
- E qual profitto avrei dalla tua morte? Dove troverei un altro
Olimpio per servirmi di coppa e di coltello?
- Ma se non veniste?
- Tu urleresti. Le cantine sono presso la strada, e i passeggieri
ti udrebbero.
- Bel guadagno! Dalla cantina Cènci sarei traslocato nelle
carceri di Corte Savella.
- Avverti, che io me ne andrei in castello per avere dato ricetto
a un patriarca come se' tu.
- In questo, che dite, trovo qualche cosa di vero: per ogni buon
riguardo lasciatemi la porta aperta.
Ed entrò; ma la porta girò sopra gli arpioni, e si
chiuse a mandata.
- Don Francesco, come va che la porta si è chiusa?
- Vi ho inciampato non volendo.
- Portatemi presto il lume, e apritemi la porta.
- Ora vado per la chiave, e ritorno.
- E badate a non dimenticarvi del lume.
- Lume! Oh per lume non te ne mancherà, se non falla il
detto: et lux perpetua luceat eis; - cantarellava il Cènci
in suono di requiem allontanandosi con passi frettolosi.
- Pare impossibile! - aggiungeva poi tornato nella sua camera; - e
costoro si vantano di sottile ingegno! Qual volpe mai non pose
industria maggiore a fuggire la tagliola, di questo bandito? - Ora
aspettami, Olimpio; tu puoi aspettarmi un pezzo; perchè se
non viene voglia all'Angiolo di aprirti nel giorno del giudizio,
io non verrò di certo. Tu imiterai nella morte lo epicureo
romano Pomponio Attico, lo elegante amico di Cicerone. Pare che
nel morire di fame si nasconda una certa voluttà;
imperciocchè costui, sentendosi sollevato dalla dieta,
volle continuare il digiuno fino alla morte; non gli parendo bene,
poichè tanto cammino aveva percorso per andarsene fuori di
questo mondo, rifare i passi per tornare indietro. Se non mi
cascava addosso così improvviso, io avrei messo Olimpio in
parte da potere osservare gli effetti di questa morte... Pazienza!
Sarà per un'altra volta, se Dio mi assiste. Ormai io mi
getto in braccio alla fortuna, perchè, considerata ogni
cosa, meglio vale un grano di fortuna che uno staio di senno. In
guerra, in amore e in negozii, nelle arti stesse governa assoluta
la fortuna. Io aveva ordito una trama con filo di senno, e la
fortuna me la rompe come fa delle reti il pesce cane; poi di sua
propria mano lo riconduce in potestà mia, quasi dolce
rimprovero di avere diffidato di lei: e sì che doveva
rammentarmi il fatto di Arona quando il capitano Rense minò
le mura, le quali per virtù della fortuna andarono in aria,
e poi tornarono ad assidersi sopra gli antichi fondamenti come se
mai fossero state smosse(). Sacrifichiamo pertanto un giovenco
alla Fortuna, e una pecora alla Sapienza. - Addio, Olimpio, buona
notte. Il mio saluto non suona strepitoso quanto quello del birro;
il mio è più placido, ma più sicuro. Dormi in
pace, Olimpio; ancora io ho sonno: io ti auguro un riposo uguale a
quello dell'uomo innocente - uguale al mio. - »
Dei quattro masnadieri compagni di Olimpio tre rimasero morti sul
luogo; il quarto, malamente ferito, nel trasportarlo allo spedale
spirò per la strada. Il Duca anch'egli rilevò una
palla nel braccio diritto, ma sopravvisse. Dopo lunga procedura,
dove confessò pianamente ogni particolarità del
fatto, tacendo quanto concerneva il Conte Cènci, il Papa
stette in dubbio se avesse a condannarlo nel capo, o alle galere.
Però le raccomandazioni, che il Duca aveva in Corte
potentissime, e soprattutto la moneta largamente spesa tra i
famigliari del palazzo, disposero il Pontefice a considerare la
gioventù del Duca, la sua vita fino a quel punto
incolpevole, la causa che lo spinse a mal fare prava sì non
esecranda, e il non consumato delitto; per cui ebbe commutata la
pena. Quale siffatta commutazione si fosse, io trovo, non senza
sorpresa, nei Consigli di Prospero Farinaccio, che lo difese. - Fu
inviato ad Avignone - governatore pel Papa!
Siccome le cose strane difficilmente si acquistano fede dove non
vengano manifeste le cause che le rendono ordinarie, e naturali,
così i ricordi dei tempi raccontano come Papa Clemente
fosse condotto ad abbracciare simile partito dalla solenne
avarizia che lo dominava, imperciocchè non assegnò
stipendio di sorta alcuna al Duca; anzi lo aggravò di tante
spese oltre a quella di sostenere la carica con la splendidezza
conveniente a gentiluomo romano, che tra per queste e tra il
danaro impiegato per liberarlo dalla condanna, la nobilissima casa
D'Altemps ne sentì scapito tale, che indi in poi non si
è più mai riavuta.
CAPITOLO XIV.
MONSIGNORE GUIDO GUERRA.
......... Quello amico
Non chiama. Invoca un Dio, che l'abbandona
E la condanna a disperarsi. È desta,
E delira.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Pallida, pallida, bianco vestita con una lampada nelle mani,
Beatrice rassembra una vestale compagna di Eloisa, che muova per
la notte sotto le volte del Paracleto a piangere sul sepolcro
dell'amica defunta; - ella rade la terra con passi presti e fugaci
come quelli della felicità nelle dimore dei figliuoli di
Adamo.
Depone la lampada sul pavimento, apre guardinga una porta, si
guarda sospettosa dintorno, e si slancia nel giardino.
Dove va a questa ora Beatrice Cènci, l'animosa fanciulla?
Forse a vagheggiare il volume dei cieli, dove Dio ha scritto la
sua gloria in caratteri di stelle?() Il cielo è ingombro di
nuvoli neri, e l'aria mormora inquieta agitata dallo incubo della
tempesta. - Fors'ella scende per non perdere alcuna delle meste
note di cui l'usignòlo empie i silenzii della notte? Ma i
tuoni squarciano i fianchi dello emisfero, e spaventano tutti gli
animali che si stringono paurosi nelle caverne, o si appiattano
sotto le fronde della foresta. La invoglia forse desìo del
mormorare delle acque, che per la notte sembra un pianto arcano
sopra le miserie degli uomini, - ora soltanto felici - ora
perchè in balìa del sonno fratello della morte? Ma
le acque flagellate dalla sferza del vento si arricciano come le
vipere della testa di Medusa. Il riso della primavera, ch'è
l'anima dei fiori, andò a rallegrare quella parte di mondo
dove lo invita la gioventù dell'anno. L'autunno qui dona ai
primi aliti gelati le sue foglie inaridite e gialle, - simile al
vecchio avaro il quale sul letto di morte, tardamente liberale,
spartisce il suo retaggio ai parenti accorsi all'odore del
sepolcro - belve affamate, che divorano brontolando.
Ella viene, misera! in traccia di un astro, che la guidi per
tenebre più buie del cielo di questa notte infernale. Ella
viene a cercare un fiore caduto dai giardini celesti nell'anima
umana - la speranza. Fiore troppo spesso appassito nel calice,
prima che dalle aperte foglie mandi profumo: - fiore troppo spesso
roso dal verme sopra lo stelo, sicchè colto appena lascia
cadere tutte le sue foglie ludibrio dei venti, mostrando su la
nuda corolla una goccia di rugiada infeconda, - lacrima di
amarezza pianta dal disinganno. E perchè esiterò io
a traccia di un fidato amatore.
E come, e quando ella sentiva amore? In qual modo l'amore
potè mettere radice in cotesta anima desolata? - Sopra una
roccia di granito incognita ad orma mortale, dove lo smergo si
sofferma talvolta a riposare le ali, lieta e gentile io vidi
ondulare la viola alla brezza del mattino. Chi portò
lassù quel pugno di terra vegetale onde ricavasse
nutrimento il fiore pudico? La Provvidenza; - che non volle creare
deserto senza una fontana, alpe senza fiore, sventura senza
conforto di consolazione.
Ed il suo amore era degno di lei. Monsignore Guido Guerra, secondo
che ci vengono narrando le storie dei tempi, nato d'illustre
lignaggio, fu grande e bello e di gentile aspetto; e, come
Beatrice, di bionda chioma e di occhi azzurri. I costumi allora,
io non saprei dire se più sciolti o meno ipocriti dei
nostri, non si adontavano grandemente di prelati vaghi delle cose
di arme, o di amore. Sovente i grandi dignitarii della Chiesa
spogliavano l'abito clericale; le case delle amanti scalavano:
cappa e spada vestivano; si trovavano nelle battaglie ad
armeggiare; davano, o ricevevano di buone stoccate. I concilii non
approvavano, anzi da tempo rimotissimo riprendevano acremente
coteste pratiche; ma il costume vinceva i concilii. Il coadiutore
dello Arcivescovo di Parigi de' Gondi, che fu poi cardinale di
Retz, travestito da cavaliere si condusse notte tempo a visitare
Anna di Austria reggente di Francia, e in pieno giorno comparve in
corte con la daga sotto il roccetto; pel quale successo cotesta
arme indi in poi acquistò il nome di breviario di monsignor
coadiutore().
Però Beatrice, purissima donzella, avrebbe rifuggito da
qualunque amore il quale non fosse stato laudabile in tutto; e
sappiamo come cosa certa, che sebbene monsignore Guido Guerra
usasse abito prelatizio, non fosse però vincolato con la
Chiesa mediante voti, ed ordini sacri; sicchè spogliando la
mantellina egli poteva condurre sposa quando meglio gli fosse
piaciuto: possedè copia non mediocre di beni, e rimase
unico figlio di madre vedova. Le storie ce lo dicono ancora
fornito di sottile intendimento; destro a qualsivoglia opera
avesse tolto ad imprendere, cultore delle buone discipline, e
tanto avventuroso, che non aveva mai meditato disegno, che non gli
fosse riuscito di portare a felice compimento. La fortuna parve
volesse riunire sopra di lui, in due tempi separati, tutto il bene
e tutto il male che per lei possa farsi, e ch'ella sperpera
ordinariamente sopra molti capi di uomini con infinite, e continue
alternative. La signora Lucrezia Petroni, consapevole di cotesto
affetto, lo aveva favorito con ogni studio per la pietà
grande che sentiva verso la fanciulla, la quale desiderava salvare
dalle persecuzioni oscenamente feroci del padre, e vederla felice.
Nei brevi intervalli che don Francesco si allontanava pei suoi
negozii da casa o da Roma, Guido, avvertito da messi fedeli,
saliva tosto in palazzo, e visitate le donne, come meglio poteva
le consolava. Quantunque avesse data, con giuramento, fede di
sposo a Beatrice, pure godendo la grazia del Papa, e conoscendolo
d'indole severa, e desideroso ch'ei non lasciasse lo stato
ecclesiastico, dove gli prometteva amplissime promozioni, andava
così trattenendosi accortamente di giorno in giorno,
cercando il destro di scuoprire l'animo suo al Pontefice senza
inimicarselo, e riportare l'approvazione di quello. Ma don
Francesco dalle sue spie, fu informato dei disegni di monsignore
Guerra, o forse gli sospettò soltanto; e questo gli
bastò per ammonirlo, che cessasse da visitare la sua
famiglia e deponesse ogni pensiero su Beatrice, se gli era cara la
vita. Il nome del Conte Cènci dissuadeva i più
audaci da accattare briga con lui, e chiunque avesse avuto
inimicizia con esso non si sarebbe reputato sicuro neanche nel
letto; ma è da credersi che monsignore Guido avrebbe
sfidato le sue minacce, se la fama della fanciulla amata, che ad
ogni caldo amatore deve tornare sopra tutte cose carissima, non lo
avesse trattenuto da muovere scandalo: però la vedeva rado,
ed alle accese voglie davano i male arrivati amanti scarso
refrigerio di lettere, che, come avverte il Pope,
Trasportano un sospir dall'Indo al polo().
Chi, di voi che leggete, non ha, almeno una volta durante la sua
vita, ricevuto simili lettere? Vi ricordate come le toccaste
tremanti, come le spiegaste tremanti, e come impazienti d'indugio
tentaste leggerle allo incerto albore del crepuscolo, o al fievole
raggio della luna crescente? Vi rammentate come vi battessero le
tempie, tintinnassero le orecchie, e per gli occhi vi girassero
globi di atomi infuocati? Vi rammentate come con un baleno del
guardo le percorrevate tutte, e poi rileggendole a bello agio
parola per parola, riscontravate in molto tempo quello che avevate
compreso in un attimo solo? Baciate e ribaciate ce le riponevamo
in seno, rimedio di zolfo allo ardore che ci divorava; così
lo incauto fanciullo Spartano, per nascondere la volpe se la
riponeva nel seno.
Era a questo termine ridotta la condizione degli amanti, quando
certa sera monsignore Guerra travestito passava sotto le finestre
del palazzo Cènci: egli procedeva a testa alta, cercando
scuoprire nella camera di Beatrice un lume, che gli sarà
desiato più del faro al nocchiero nella notte di procella.
Mentre si accosta all'arco dei Cènci, donde per mezzo della
cordonata si arriva alla chiesa di san Tommaso, ecco che sente
investirsi di fianco da un uomo che corre. Stette per rimanerne
rovesciato; ma raffermatosi su le gambe afferrò il
sopraggiunto pel collo, minacciandolo con voce sdegnosa. L'altro,
appena parve riconoscerlo, disse:
- Zitto, per amore di Dio. Prendete questa lettera: vi viene da
parte di donna Beatrice; - e svincolandosi da lui fuggì
via.
Guido, diventato incauto per soverchia passione, si guardò
attorno per iscorgere un lume, che in cotesta ansietà lo
sovvenisse. In fondo all'arco, al termine della cordonata, gli
occorse una lampada che ardeva davanti la immagine della Madonna.
Senz'altro pensare colà si avvia, apre il foglio, e appena
conosce i caratteri dell'amata donzella, tanto comparivano vergati
con mano tremante. Lo scritto breve supplicava: per quanto amore
portava a Dio, in quella stessa notte procurasse all'un'ora
penetrare nel giardino, e l'attendesse nel boschetto degli allori.
Se voleva non saperla morta, non mancasse.
Guardingo ripose la lettera, e si allontanò. Recatosi a
casa tolse la spada, e una scala uncinata, e quando gli parve
tempo opportuno uscì solo: pervenne sotto al recinto del
giardino dei Cènci, lo scavalcò, ed attese celato
nel luogo del convegno.
Di tratto in tratto Guido, tese le orecchie, credeva intendere
stormire le fronde del bosco; muoveva un passo fuori del
nascondiglio, girava gli occhi intorno, e non vedendo comparire
persona si ritirava con un sospiro. L'ora indicata passò.
Oh Dio! La sciagura, accennata misteriosamente nella lettera,
sarebbe ormai senza rimedio accaduta? Sentì mancarsi, e si
appoggiò a un albero vacillando.
Ma una voce lo riscosse: «Guido! - Beatrice!» La
donzella stringe tremante la mano del suo amatore, che tremava
come foglia sbattuta del lauro a cui si appoggiava; di repente
Beatrice, come percossa da cosa che le mettesse incomportabile
paura, dimentica del verginale ritegno gli si avvinghia alla vita,
e sì favella a modo di delirante:
- Guido, amor mio, salvami. - Guido, conducimi via - subito -
senza frapporre un minuto di tempo... qui il terreno mi brucia i
piedi,... l'aria che respiro è veleno... Guido... andiamo.
- Beatrice!...
- Non parole... partiamo, ti scongiuro, prima che cessi il battere
di occhio della occasione. - Se non mi vuoi sposa, non importa...
mi riporrai dentro un convento... qualunque... anche in quello
delle Clarisse, dove si mura la porta dietro alla votata;... ma
salvami, ti comando, da questo luogo maledetto...
- Oh Dio, diletta mia, che cosa è mai questo furore? - Le
carni ti scottano come per febbre.
- Qui... qui dentro ho la morte. Toglimi alla disperazione... alla
dannazione eterna... Che cosa ho io? Immagina delitti, che fanno
impallidire uomini di sangue... delitti, che drizzano i capelli
sopra la fronte ai parricidi... che stringono le ossa di ghiaccio,
- che fanno battere i denti come pel ribrezzo della quartana, -
che impediscono il varco alla voce, e impietrano le lacrime: -
immagina tutti i delitti, che la favola racconta della famiglia
degli Atridi... che fanno balzare l'Eterno sopra il suo trono
immortale, e stendere le mani al fulmine... che avvampano di
vergogna le gote dello stesso demonio... immagina... immagina
ancora... tu non troverai le infamie, che si tramano e si compiono
in Roma - qui - dentro il palazzo dei Conti Cènci.
- Tu mi empi di terrore... ma parla... ma dimmi...
- E potrei dirle io, e tu ascoltarle? Se io le palesassi, tu
vedresti il mio rossore rompere il buio della notte che ne
circonda... io morirei di vergogna ai tuoi piedi. Ti basti saperne
questo, che io vergine e gentil donzella romana... io dai cui
labbri non uscì parola che vereconda non fosse, - io che
non concepii pensiero il quale non potesse confidarsi all'Angiolo
Custode... torrei vivere piuttosto la vita infame della
cortigiana, che rimanere più oltre un'ora, un minuto dentro
queste soglie, traboccanti della ira di Dio. - Misteri di orrore
che non devono rivelarsi, nè possono. -
- Ma dove potrai venire meco così? Come farai a salire,
ingombra dalle vesti? Aspetta a domani...
- Domani! Ahi sciagurato! forse è già tardi adesso.
- Io non ti lascio... a te mi attacco come tanaglia infuocata...
Via... via... corri, chè io ti tengo dietro.
- Sia dunque come vuoi; andiamo con lo aiuto di Dio...
- Insalutato il padrone di casa? - Questa non è cortesia...
gridò una voce beffarda, e al tempo stesso un gran colpo di
scure venne abbrivato contro la persona di Guido. Per buona
ventura lui non colse, chè lo avrebbe fesso pel mezzo; ma
dette in pieno nel tronco dello alloro presso il quale si
trattenevano gli amanti, e lo recise non altrimenti che un giunco
si fosse; rovinò il legno, e cadendo percosse, e disgiunse
le mani per cui Guido e Beatrice stavano uniti. - Infausto
auspicio di amore sventurato!
Guido fieramente commosso, non atterrito, errava tentoni per
l'aere nero in traccia della mano di Beatrice, quando un fiero
urto lo sospinse per molti passi lontano, e ad un punto un uomo
gli fu sopra dicendogli con voce sommessa:
- Sconsigliato! fuggite, o siete morto. Io v'inseguirò per
salvarvi - e poi a voce alta - Ah! traditore, non iscamperai... a
te... to' quest'altra botta...
Per tutto il giardino confusi al fragore del vento si udivano
gridi di contumelia, e terribili minacce. La voce stridula del
Conte Cènci, come l'uccello di sinistro augurio, strillava
continua:
- Carne!... carne!... scannatelo come un cane...
Guido correva stordito dal fiero caso: però, vergognando a
un tratto di avere lasciato sola Beatrice esposta alla rabbia del
terribile genitore, sebbene improvvido del come poterla aiutare,
si ferma, volta di repente la faccia, e mette mano alla spada; ma
prima che l'avesse potuta cavare lo raggiunge il persecutore, e
gli dice:
- A che state? Per dio, perchè non fuggite?
- E la donzella?...
- Vi è chi veglia sopra di lei. Via - presto - voi non
potete salvare lei, e perdete voi. - E lo spinse contro la scala,
che gli tenne ferma onde fosse più destro a salire; poi
menò un colpo così violento di daga nel muro, che la
lama si ruppe in minutissime schegge mandando faville; aggiungendo
urli, e sacramenti da far tremare le volte del cielo.
Ranchettando smanioso sopraggiunge don Francesco, e domanda:
- Dov'è l'ammazzato? Lumi, qua, lumi - che io possa
vedergli le ferite; - lume, che io possa strappargli il cuore dal
petto e sbatterglielo nel viso: dov'è l'ammazzato?
- Egli è fuggito - rispose dolente Marzio.
- Come fuggito! Non è vero; egli ha da essere qui... egli
deve essere scannato. Fuggito! Ah! cani traditori... voi lo avete
lasciato fuggire. Di chi mai fidarci? La mano destra fa da Giuda
alla sinistra... e di te, Marzio,... di te da gran tempo
sospetto... badati... chè i miei sospetti si traducono in
punte di ferro... - Appena questa parola era volata, il Conte
conobbe quanto incautamente l'avesse profferita; si morse le
labbra per castigarle di averla lasciata fuggire, e ingegnandosi
subito di ripararne gli effetti, con voce più mite
soggiunse: - Marzio, tu da un pezzo in qua mi riesci meno
diligente a servirmi: io non ti tengo: - quantunque se tu mi
venissi a mancare mi parrebbe far senza una mano, pure amo meglio
perderti, che provarti servo poco attento e poco fedele.
Parola detta, e sasso lanciato non tornano mai indietro. I
rabeschi sul fodero e le cisellature sopra la impugnatura non
rendono meno tagliente il filo del pugnale. La parola del
Cènci si era immersa nel cuore di Marzio come pietra
nell'acqua; ma la superficie turbata appena, ritornò piana,
ed egli rispose in suono di lamento:
- Dite piuttosto, Eccellenza, che vi ha preso fastidio di me.
Questa è la sorte comune dei servi. Non vi è
inchiostro che valga a scrivere durevolmente nel cuore dei padroni
la lunga, e fedele servitù. Per una volta che la fortuna ti
tradisca, ecco là la ingratitudine che con la spugna
cancella ogni cosa: pazienza!... domani mi torrò la vostra
livrea.
Corre un proverbio trito che dice, che in pellicceria non vi sono
altro che pelli di volpe, e dice bene; imperciocchè gli
uomini presuntuosi confidino troppo nello ingegno, nella forza, o
nella fortuna loro; onde avviene che spesso, quando meno e da cui
meno se lo aspettano, si lascino avviluppare. Cesare non
dubitò di Bruto, e fu spento. Enrico di Guisa credeva che
Enrico Valesio non avrebbe ardito, nonchè ammazzarlo,
guardarlo, e lo ammazzò. Il Cènci ebbe fede avere
ingannato Marzio, e Marzio, come vedremo, ingannò lui.
- Marzio... che cosa sono le parole pronunziate nella ira? Vento
che passa. Io ti tengo pel più leale servitore che io mi
abbia, e adesso intendo provartelo.
Il Conte, accompagnato dai famigli che portavano torcie di bitume,
si dava a cercare Beatrice, e in breve, gli venne ritrovata;
dacchè percossa dall'accaduto si era rimasta immobile.
Appena ei la vide riarse in lui il bestiale furore; onde
abbrancatala forte nelle braccia, e squassandola
rabbiosissimamente, incominciò a dirle con amaro sarcasmo:
- E tu se' la pudica, cui le parole di amore e di voluttà
suonano incomprensibili come voci di lingua ignorata? E tu la
casta, che custodisci il giglio che deve accrescere le glorie del
paradiso? Svergognata!... ribalda!... tu accoglitrice di segreti
amanti... provocatrice tu d'infami piaceri... non cercata
ricerchi. - Dimmi, chi era costui col quale ti mescevi poco anzi
in osceni abbracciamenti?
Beatrice lo guardava e taceva. Il vecchio, inviperito da cotesta
calma, ed era stupidità, replicava urlando:
- Dimmelo, se non vuoi che io ti scanni; - ma persistendo Beatrice
nel silenzio, colui preso da rabbia le caccia le mani entro i bei
capelli, e glieli straccia a ciocca a ciocca; nè qui
restando, imperversava a dirle vituperio quale mai non fu detto a
rea femmina, e con isconce percosse pestarla pel seno, pel collo e
per la faccia. Oh! per pietà volgiamo altrove lo sguardo;
imperciocchè chi, senza fremito, potrebbe vedere la fronte
dilicata e le guance solcate da profonde graffiature, e gli occhi
divini gonfi di nere ecchimosi, e dal naso ammaccato scendere su i
cari labbri un rivo di sangue, e miste col sangue insinuarlesi in
bocca le lacrime? La rovesciò sul terreno, la
strascinò per le chiome, e di tratto in tratto si riposava
da quello strazio per cominciarne un altro - per conculcarla, ed
essa sempre tacque; solo una volta le uscì dal profondo del
petto una parola, e fu questa:
- È fatale!
- Sgombrate tutti di qua - ordinava il Conte ai famigli; - tu,
Marzio, rimanti... Senti! aveva divisato darti in custodia costei,
in prova della fede che in te ripongo... ma sarà meglio la
guardi io stesso, onde ella non ti affascini... Tu va su nel mio
studio; nel banco, nella prima cantera a mano destra, troverai un
mazzo di chiavi; prendile, e portamele... Affrettati... va... e
non se' tornato ancora?
Marzio, costretto a rimanere spettatore dolente dello iniquo caso,
andò, e tornò in un baleno con le chiavi: egli
rialza la donzella, e, interponendosi fra lei e il padre, finge
spingerla aspramente davanti a se dentro i sotterranei.
Aveva Marzio lasciato di alcuno spazio lontano Francesco
Cènci, quando un doloroso guaìto gli giunse agli
orecchi, che lamentava:
- Morire così... senza pane, e senza sacramenti. Ah Conte
traditore!...
Marzio conobbe come altri misteri di delitto rinchiudessero
cotesti sotterranei oltre quelli che contemplava, e drizzò
il volto dalla parte donde veniva la voce; ma Francesco
Cènci sopraggiunge ansante in quel momento, e lancia contro
il servo temuto uno sguardo pieno di bile e di sangue; - sprillo
di veleno uguale a quello che getta il rospo inacerbito.
- Hai tu inteso un lamento? - interrogò il Conte.
- Lamento!
- Sì, come di anima in pena...
- Mi è parso... cigolìo di vento, che fa molinello
in questi sotterranei...
- No... no... sono lamenti... perchè qui dentro tenne
prigione il mio avo un suo nemico, e ve lo fece morire di fame.
Indi in poi è voce, che nei sotterranei si veggano spettri;
ed io ci credo...
- Domine aiutami! Io per me non entrerei qua dentro nè
anche con l'Agnus Dei in tasca.
- E tu faresti bene. Apri quell'uscio, là... a destra... il
terzo... cotesto... va bene.
- Marzio lo aperse, e il Conte vi cacciò dentro Beatrice
con una impetuosissima spinta.
- Va' maledetta, tu proverai adesso di che sappia il pane della
penitenza, e l'acqua del dolore.
Beatrice spinta dall'urto precipitò sul pavimento;
nè tanto potè la misera aiutarsi con le braccia, che
non desse con la bocca sopra un sasso sporgente, facendosi nuova
ferita su le labbra: vinta dallo spasimo, svenne. Quando l'anima
della desolata tornò agli uffici consueti della vita si
alzò da terra; si trovò sola, in mezzo alle tenebre;
onde sostenendo il corpo alla parete, meditò:
- Fatale! fatale! Dio mi ha abbandonata. Vivente alcuno non
ardisce, o può aitarmi; - alcuno. Il destino mi rovina
addosso come la volta di San Pietro. Oh! troppo vento adunato per
rompere una canna; e poichè tuoi sono, o Signore, i furori
della tempesta, non mi condannerai se al suo impeto io mi sono
prostrata. - Guido... ahimè! anch'egli adesso sarà
morto di certo... adesso ragionerà di me con Virgilio... ed
entrambi mi aspettano. Deh! Guido, non m'incolpare della tua
morte... ora, che senza vergogna io posso parlarti, - io ti
chiarirò quanto immenso, quanto infinito fosse l'amore mio
per te. Ma perchè, Dio ti perdoni, Guido, hai voluto unire
il tuo destino al mio? Non ti aveva detto che i miei giorni
scorrevano come acque di desolazione, le quali ovunque si spandano
portano la morte? Non te lo aveva detto?... puoi negarlo? Oh!
perchè io sono viva? E non posso morire? Dicono che noi non
ci possiamo distruggere! No? L'anima deve sentire, soffrire, e non
volere. Le generazioni umane hanno da essere onde, spinte dalla
mano del destino a cuoprire e a scuoprire le rive del mondo senza
volerlo, senza nè anche saperlo. Ed io sopporterei queste
sorti, se non mi conoscessi seme di sventura nato a crescere in
messe di pianto a tutti coloro che mi amano... Ecco, i miei anni
si dilatano come i rami dell'albero maligno, che uccide lo
sciagurato il quale si riposa alla sua ombra(). È
carità sradicarmi pianta maledetta da questa terra,
spegnermi torcia accesa nello inferno, che si consuma
consumando... di cui ogni goccia infuocata suscita uno incendio?
Ma l'anima! - E che? Dio vorrà tenerla a bersaglio del suo
furore in questa vita e nell'altra? Dio, di misericordia per
tutti, si ostinerà soltanto ad essermi persecutore
finchè dura la eternità? E quando dovessi soffrire i
tormenti dei dannati... supereranno forse quelli che io patisco in
questa vita? Nello inferno almeno non sarò avvilita...
dannata, non farò dannare altrui. Signore, io non ti
accuso. Tu ponesti sopra le spalle del tuo figliuolo una croce di
legno, ed egli vi cadde sotto tre volte; sopra le mie tu
l'aggravasti di piombo... io non ho forza per sopportarla, e la
getto per terra. - Abbia chi vuole quest'anima desolata... il
patto della mia vita è troppo duro, ed io lo rompo. -
Così favellando, un desiderio inenarrabile di distruggersi
le invase la mente; deliberata, con la morte dipinta sopra la
faccia, l'anima traboccante di fredda disperazione si slancia di
piena corsa contro il muro, e vi percuote la testa...
Ahimè! - vacilla, apre le braccia, e cade irrigidita a
piè della muraglia.
CAPITOLO XV.
L'AMMAZZATA DI VITTANA.
«Vendetta ampia ed intera, che, simile al fuoco,
distrugga tutto come in quel giorno in cui il
mare morto agghiacciò le ceneri di due città».
Byron, Marino Faliero.
Sarebbe pure stata pietà accogliere cotesta anima dolente,
la quale, dopo il breve pellegrinaggio di sedici anni sopra la
terra, non trovava altro asilo fuorchè nella ombra della
morte! A Dio piacque altrimenti. Il volume delle chiome
copiosissime ammortendo il colpo, impedì che riuscisse
mortale. Quante ore nel miserrìmo stato ella durasse, male
sapremmo dire: quando risensò si pose a stento a sedere
là dove era caduta appoggiando le spalle al muro, immemore
del luogo e del come vi fosse stata condotta. Con le mani si
comprimeva dolcemente il capo e la bocca che le dolevano forte, e
non sapeva il perchè. Ode profferire il suo nome; tende
ansiosa le orecchie, e la chiamata si rinnuova: allora
ricordò il racconto di Virgilio, quando gli parve che lo
chiamasse sua madre; e la voce, che adesso ascoltava, aveva in se
un suono misto di quella del fratello, e della materna. Tenne che
per intercessione loro la misericordia divina l'avesse fatta salva
dalla eterna dannazione, e consolata in questa idea si levò
in piedi esultante; e, battendo palma a palma, con sentimento
ineffabile di gioia esclamò:
- Gran mercè, Madre mia; gran mercè, Virgilio, amor
mio: comparitemi davanti, via!... che io vi vegga!... Apritemi le
braccia... io vi terrò stretti con amplesso eterno. Guido
mio perchè non è con voi? Com'è morto
giovane! Ma se viene qui con voi... con me, che sono sua sposa,
non gli dorrà essere morto; ed io adesso potrò
baciarlo. È vero, Madre, potrò baciarlo, anche al
cospetto vostro, perchè è mio sposo?
Ma la voce facendosi sempre più prossima insisteva:
- Signora Beatrice... su, scuotetevi... non vi perdete di animo...
O Signora Beatrice, coraggio, sono io... è Marzio che vi
chiama.
- Marzio! Questo nel mondo di là era il nome di certo
fante, che mi voleva bene... egli fu, che voleva rompere il capo
al Conte Cènci il giorno del convito... era delitto... ma
la pietà di me lo aveva vinto: - preghiamo tutti Dio che lo
perdoni; metta piuttosto il peccato sul conto mio, e lo faccia
scontare a me nel purgatorio.
- Oh fanciulla mia! io temo, sì, che Dio mi castighi, ma
per non averlo levato dal mondo.
- E adesso Marzio che fa? È morto egli pure? La
fatalità, che usciva da me, provò ancora egli come
fosse contagiosa? Ha imparato, misero, come ferisse mortale la
jettatura dei miei occhi?
- Signora Beatrice non vaneggiate, per amore di Dio... tornate in
voi stessa... aiutatevi... venite qua... udite... lo scellerato
vecchio... il Conte Cènci, adesso dorme... volete voi che
non si svegli più?
- Che parlate, Marzio? Io non ho compreso bene... qui nel capo ho
come una nebbia...
- Colui, che vi generò per tormentarvi - quegli, che si
dice vostro padre... quegli, che vivendo vi farà morire...
volete voi che muoia... stanotte... fra cinque minuti? - La sua
vita sta nel taglio del mio coltello.
- No, no - proruppe Beatrice, recuperando di subito la pienezza
del suo intelletto - Marzio... guardatevene, per lo amore di
Dio... io vi odierei... io vi accuserei. Viva, e si penta... egli
si pentirà un giorno - forse.
- Pentirsi! Si sono mai veduti lupi a confessione? Io ve l'ho
detto; egli vivrà, e voi morrete.
- Che importa? Non aveva forse io tentato morire? Quanto è
grande dolore tornare a vivere! Marzio... mio fedele, - io non ho
più lena... io vorrei dissetarmi nella morte. Hai tu mai
sentito raccontare dei nostri antichi, i quali si tenevano attorno
qualche amico o servo sviscerato, onde se la necessità
imponesse uscire da questo mondo, con pietosa ferita gli
uccidessero? Marzio, - io non chiedo tanto da te... portami solo
un sugo di erba che abbia virtù di chiudere gli occhi ad
una pace, che non ho mai goduto in vita.
- No, per l'anima santa di Anna Riparella; se io basto, vivrete.
Sciagurata fanciulla! non vi lasciate cogliere dalla disperazione.
In breve tornerò da voi; adesso mi è forza andare
dal vostro orribile genitore... s'egli si svegliasse e noi
sorprendesse, non vi sarebbe più luogo a scampo. - E si
allontanava piangente, tanta pietà lo vinse vedendo il
misero stato in cui si trovava ridotta Beatrice. - Tutto assorto
in cotesto pensiero stava per uscire dai sotterranei, quando gli
risovvenne del lamento udito nella notte decorsa; rifece
prestamente i passi, ma non udì più nulla: allora
prese a percuotere lieve lieve gli usci che gli si paravano
davanti, ed ecco ad un tratto ricominciare il pianto più
doloroso che mai.
- Ahimè! Muoio di fame - muoio di sete; così non
aveva da essere... impiccato a suo tempo, andava bene; io ci aveva
fatto il mio assegnamento sopra... ma confessato, e comunicato; -
col cappuccino accanto... ogni cosa secondo le regole...
- Chi sei? Rispondi, e fa' presto...
- Eccellenza, oh! non lo sapete chi sono io? Apritemi, per
carità, che io mi sento voglia di mangiarmi le mani...
- Rispondi breve, ti dico, o che io ti lascio.
- Sono un uomo che ha conto aperto con la giustizia; ma in
verità per bazzecole... nel rimanente bandito onorato, e
soprattutto fedele: mi chiamo Olimpio. Qui mi ha chiuso il Conte
Cènci; da due giorni, credo, perchè qui non vedo
quando sorge, nè quando tramonta il sole; promise tornare,
e lo aspetto ancora. Deh! se tu sei cristiano battezzato dammi un
po' d'acqua... un po' di pane... un po' di lume... in
carità.
- Orribile! Far morire un cristiano di fame, e senza sacramenti!
L'anima di cotesto scellerato è come l'inferno, di cui non
si trova mai il fondo. Olimpio, per ora non posso aiutarti: abbi
pazienza, presto tornerò per te; adesso mi manca la chiave.
- E voi chi siete?
- Sono Marzio.
- Tu sei venuto a godere della mia agonìa?
- Io non ho mai tradito nessuno; sta' di buon animo... addio.
- Una volta fra noi non ci tradivamo. Aspetterò...
spererò... soffrirò in silenzio; ma deh! Marzio,
torna presto se vuoi trovarmi vivo... ho fame... ho freddo... la
sete mi consuma.
Il sangue acceso dalla ira, e il moto violento avevano gonfiato al
Conte Cènci la gamba offesa per modo, che non poteva
muoversi da giacere. Aveva chiuso gli occhi a torbido sonno;
quando si svegliò si provava ad alzarsi, ma la doglia
acerbissima non glielo concesse. Digrignava i denti per rabbia, e
fra le bestemmie esclamava: e' mi bisognerà fidarmi di
cotesto traditore! Allora chiamò Marzio, e questi accorse
pronto e taciturno.
- Marzio, vedi se di te mi fido; prendi la chiave del carcere di
Beatrice, e portale pane e acqua....
- Altro?
- No... Marzio; mettiti addosso qualche santa medaglia per
cacciare via gli spiriti, se mai ti apparissero. Dove qualche voce
ti giungesse all'orecchio, non la badare; coteste sono illusioni
del demonio: soprattutto scansa i sotterranei a mano manca ...
lì moriva di fame il nemico di mio nonno....
- Eccellenza, perchè non andiamo insieme?
- Non vedi, morte di Dio! che non posso muovermi?
- Se vostra figlia fosse ferita l'ho da medicare?
- No. Ma la credi ferita?
- Mi sembra, e la sua bellezza potrebbe rimanerne guasta.
- Io no voglio, per ora, che perda la sua bellezza; più
tardi. Costà nell'armario vi è balsamo e terra
sigillata(); se farà bisogno la medicherai.
Marzio s'impadronì destramente delle altre chiavi,
chè quella del carcere di Beatrice aveva sottratto mentre
il Conte dormiva, e ritornò nel sotterraneo.
- Signora Beatrice, tostochè la vide Marzio disse
amaramente, ecco i doni che vi manda vostro padre; e levata la
lanterna contemplò quella angelica sembianza insanguinata.
Compresse un ruggito di sdegno, e quanto seppe meglio amorevole
soggiunse: - venite qua - permettete che vi lavi il volto ... vi
faccio male? - Intanto le andava astergendo le ferite, le medicava
con la terra sigillata, e gliele fasciava. Ahi! Dio, di tratto in
tratto ripeteva, vedi tu queste empietà? E se le vedi, come
puoi patirle?
Compita l'opera, Marzio riprese a dire:
- Fanciulla mia, eccovi i doni che vi manda colui, che chiamate
vostro padre - pane ed acqua; io, contro il suo espresso divieto,
vi ho aggiunto altri cibi; ma io davvero non so confortarvi a
prolungare una vita, che supera ogni più crudele supplizio;
- e quello che maggiormente mi trapassa il cuore è, che da
ora in poi io non potrò giovarvi più in nulla,
perchè - e qui la voce gli diventava fioca - oggi ho
deliberato lasciare casa vostra.
- Beatrice declinò il capo come persona tanto sazia di
affanno, che ormai, se sente, non sa più lagnarsi dello
strale di nuovi dolori.
- Guido è morto, e tu mi abbandoni?
- E chi vi ha detto, che monsignor Guido sia morto?
- Vivrebbe forse?
- Vive, e sano e salvo.
Beatrice piegò la faccia sopra la spalla di Marzio; ve la
tenne lungamente, poi sommessa gli disse:
- Guido vive, e tu mi abbandoni?
- Ma siete voi che abbandonate voi stessa. Sentite; io voglio
confessarvi cosa, che non paleserei a mio padre se tornasse di
là dai morti. Io sono entrato in casa Cènci per
adempire un voto; e sapete voi qual voto? Quello di ammazzare il
Conte Cènci. Le scelleraggini quotidiane di cotesto
maledetto mi hanno sempre più confermato nel mio
proponimento; perchè levandolo dal mondo, oltre a satisfare
la mia vendetta, mi parrà acquistarne merito presso gli
uomini e presso Dio. Ma poichè questo caso vi addolora, io
nol commetterò sotto i vostri occhi: di più non
posso fare per voi... non vi affaticate a parlare... nessuno
potrebbe dissuadermi - nessuno; ciò che deve compirsi si
compirà: di ferro ha ucciso, di ferro ha da morire... sono
parole di Cristo.
- E come potè recarvi offesa il Conte? Quando veniste ad
accomodarvi in casa, sua, io penso che voi gli eravate sconosciuto
del tutto.
- Ma io conoscevo lui. Se mi avesse oltraggiato, se ferito, io
avrei saputo perdonargli. Certo, gran peccatore sono; ma pure una
volta ebbi cuore di cristiano. Egli mi ha ucciso l'anima, e mi ha
lasciato la vita: ora io sono morto a tutto, tranne ad una cosa
sola, e questa io vi ho detto. Sentite, veh! se io conosceva
Francesco Cènci prima di entrare in casa sua; ciò
non varrà a dimostrarvelo più iniquo, perchè
in lui delitto più, delitto meno non conta; ma
tratterrà forse su le vostre labbra le imprecazioni contro
il suo uccisore. Io poco so di lettere; vi racconto così
come mi porge il cuore, e voi potete credere a tutto come se fosse
evangelo. Nacqui in Tagliacozzo; mio padre morì quando io
era fanciullo, e mi lasciò selve ed armenti: mia madre
cadde inferma, sicchè poco potè guardarmi. Crebbi;
presto mi si misero attorno tristi compagni; mi avviluppai per
ogni maniera di vizii come dentro un mantello; in breve, tra per
danari rubatimi al giuoco, tra per le ingorde usure io venni al
verde di ogni mia sostanza: con l'ultimo bicchiere di vino bevuto
in casa mia gli amici bevvero l'oblio di me; sparirono col fumo
dell'ultima vivanda; ma allo sparire di costoro comparvero altre
genti, e furono i creditori; mi spogliarono di tutto, mi
cacciarono di casa ... spietati! di pieno giorno ebbi a caricarmi
la mia povera madre sopra le spalle per trasportarla all'ospedale;
i fanciulli maligni mi beffarono per la via; qualcheduno
tirò sassi contro di me, e la inferma.... Iniqua stirpe
è l'uomo! - Nè qui l'agonìa finisce: prima di
arrivare all'ospedale mi circondano gli sbirri, mi tolgono dalle
braccia la madre, la depongono in mezzo della strada, e me
traggono in prigione. I creditori, non sazii di ogni mia sostanza,
volevano anche bevermi il sangue: - udiva un singhiozzare
soffocato... ed era mia madre che piangeva: mi voltai per
consolarla, ma non la potei vedere perchè i miei occhi
erano pieni di lacrime di sangue. Tentai parlare... neppure... sta
bene. -
Marzio tacque alquanto; poi, asciugatosi il sudore dalla fronte,
riprese:
- Ruppi la prigione, presi la macchia, mi vendicai di tutti. Al
fanciullo, che gittò sassi contro mia madre, ruppi il
cranio sopra una pietra; sta bene. Indi in poi segnai il
calendario con la punta del mio coltello - ogni giorno fu un rigo
di sangue: mi ardeva la pelle; il sangue ubbriaca peggio del vino.
Dio giudicherà se io avrei potuto resistere al demonio, che
prese possesso dell'anima mia; io non addurrò scusa; se
merito pietà voglia perdonarmi, se no mi condanni; ma di
quello che ho fatto, e dell'altro che intendo fare, io non so
pentirmi... il compito che la vendetta ha posto in mano della
morte non è ancora terminato; al mio rosario manca un
paternostro - una testa di morto - quella del padre vostro. Nel
regno faceva mal'aria per me; venni su quel della Chiesa, ed
entrai nella compagnia di Marco Sciarra.
Quanto commisi da bandito non importa che voi sappiate;
così non lo sapesse la Giustizia eterna! Un giorno di
sabato, al tramontare del sole, seduto sopra una selce fuori le
ultime piante della macchia, teneva le gomita appoggiate su
l'archibugio, l'archibugio traverso alle ginocchia, e la faccia
appuntellata ai pugni. Aspettava i compagni presso la quercia
della Rocca Odorisi per fare le nostre preghiere della sera
davanti alla immagine della Madonna attaccata alla querce, e
metterci d'accordo su le faccende del domani. L'aria pareva una
bocca di forno; il sole, che tramontava, aveva sembianza di un
cuore insanguinato dentro un catino di sangue; i capelli lunghi mi
si erano rovesciati su gli occhi; e, visti così traverso i
raggi vermigli, apparivano anch'essi pieni di sangue come per
certa infermità, della quale ho udito ragionare un compagno
che ha dimorato un tempo nelle parti della Polonia(): me li tirai
dietro le orecchie; invano. Tutte le cose mi si mostravano
vermiglie: il cielo, i campi e gli animali; i tronchi degli alberi
erano colore di rame, e le foglie, lucide di un verde smeraldo,
riflettevano pure raggi di sangue: ebbi orrore di me! Fosse una
itterizia di sangue! - Ho paura, mormorai; perchè sono
solo? Oh avessi qui la compagnia di una creatura vivente per
liberarmi dai miei terrori! In questo momento volgo attorno i
torbidi sguardi, e vedo apparirmi davanti una sembianza angelica,
signora Beatrice, proprio una Madonna staccata dal quadro, e
venuta a rallegrare la terra... e poi... sentite... e non vi
offendete, veh! meno ch'ella era un po' riarsa dal sole, e della
persona di voi più poderosa assai... vi rassomigliava
affatto: portava una mezzina sul capo, e veniva a prendere acqua
dalla prossima sorgente. Io, senza pensarlo, mi rinvenni su le
labbra il salus infirmorum delle litanie. Costei vedendomi vestito
da masnadiero, ed armato, non soprastette, nè fece atto
alcuno di viltà; e invero, di che cosa doveva ella temere?
Contro la rapina la difendeva la povertà, contro la
violenza la difendeva un cuore di Lucrezia, e lo stile
attraversato alle trecce dei capelli: proseguì il cammino,
e quando mi passò davanti, con voce di foglie novelle
ventilate dai primi fiati di primavera, mi disse: la Beata Vergine
vi consoli! - Non levai la faccia, non risposi; solo voltai gli
occhi, e le tenni dietro finchè potei scorgerla. Allora,
pensando al modo e al punto in cui mi era comparsa davanti,
esclamai: il Signore ha pietà di te! - Ma poi, leggendo la
storia dei misfatti commessi nel cielo e nella terra, che
continuavano a parermi tinti di sangue, irridendo me stesso,
aggiunsi: sì, certo, Cristo ha altro a fare, che prendersi
cura di me. - E qui ecco la medesima voce, come lo arbusto messo
dalla Provvidenza sul ciglio di una balza per salvare chi
precipita, scendermi improvvisa sul cuore, ripetendo: la Vergine
vi consoli! - Era la fanciulla che, attinta l'acqua, tornava a
casa pel medesimo cammino. La sera successiva tornai alla Querce
della Vergine, e la fanciulla venne consolandomi col solito
saluto, e l'altra, e l'altra poi. Che vi dirò io
più? Durare un giorno intero senza cibo sapeva, senza
vederla no. - Passò un buon mese senza che nè la
fanciulla nè io, per tempo ventoso o per pioggia, ci
rimanessimo da convenire tutte le sere alla Querce della Madonna;
e per tutto questo spazio di tempo ella a me non disse altro, che:
la Vergine vi consoli! ed io a lei: Dio vi rimeriti, Annetta! -
Ella aveva nome Annetta Riparella, ed era del paese di Vittana,
figliuola di un pastore del contado. Certa sera, senza muovermi
dalla selce dove stava seduto, con voce umile la chiamai:
«Annetta, mettete giù la mezzina, se vi piace - e
venite a sedervi presso a me, se non vi rincresce». Depose
subito la mezzina, mi guardò fisso negli occhi, e con le
sue pupille condusse le mie alla santa Immagine della Querce. Io
intesi ch'ella con quel muto linguaggio volle significare: mi
metto sotto la protezione della Madonna. - Allora io mi levai, la
presi per mano, e, condottala davanti alla Immagine devota, le
favellai così: «Annetta, dove andiamo noi? - Egli
è vero, che camminiamo da un pezzo senza sapere dove
dobbiamo riuscire? - La casa di mio padre abita gente straniera;
su i campi, che furono miei, altri semina, ed altri miete. Di bene
io nulla posso offerirti, e nulla ti offro. All'opposto, ascoltami
attentamente perchè io non ti voglio ingannare: sopra la
mia testa fu messa la taglia; - tutta l'acqua che hai attinto alla
fontana non basterebbe a lavarmi le mani... non me le guardare, tu
non vi puoi scorgere nulla; il sangue di cui vanno contaminate non
possono vedere che i miei occhi, e quelli di Dio. Unendo la tua
vita alla mia ti aspettano giorni di pericolo, notti di paura,
tempi di patimento, e vita di vergogna. Ai figli, se mai ce ne
desse la disgrazia, sai tu qual retaggio potrei lasciare io? Una
camicia insanguinata. A te qual vedovile? Il nome di moglie dello
impiccato. - Se do ascolto al mio cuore, vorrei che tu mi
scegliessi per marito; se al mio giudizio, amerei che tu mi
rifiutassi; però nè ti prego, nè ti
sconsiglio: ho gittato i dadi, e accetto il tiro che mi
manderà il destino: aprimi dunque schiettamente il tuo
cuore, e non temere di recarmi offesa, - perchè, per questa
Santa Vergine che ci ascolta, se desideri rimanere libera, io ti
giuro che da questa sera innanzi tu non vedrai più la mia
faccia. - «Marzio, rispose risoluta la fanciulla, conosco i
vostri misfatti, e voi; e che da gran tempo io avessi scelto,
pensava che i miei occhi ve lo avessero appreso: meglio con Marzio
il dolore, che con altro allegrezza. Che cosa importa a me, che
abbiano posto la taglia sopra la vostra testa? Se la giustizia vi
cerca, noi ci nasconderemo insieme; se ci trova insieme, ci
difenderemo; se ci prende, moriremo insieme. Ma non è di
questa giustizia che il mio cuore si affanna; vi ha una giustizia,
che non cercando trova; un occhio, che non chiude mai le palpebre
sul peccato; e questa giustizia io vorrei che voi placaste,
Marzio; quello che non può fare tutta l'acqua del fiume lo
fa una lacrima sola, - la lacrima della penitenza».
Così favellava Annetta semplice fanciulla, che ogni sua
educazione aveva ricavata dallo amore che portava ardentissimo
alla Madre di Dio. Mi sentii come rompere una ghiaia in mezzo del
petto, e sommesso ripresi: «Annetta, io mi ti lego per fede
di abbandonare i compagni quanto prima mi venga fatto,
perchè lasciandoli allo improvviso sospetterebbero di
tradimento, e al sospetto terrebbe dietro la morte mia; - molti
essi sono, e potenti. Frattanto io giuro astenermi da ogni opera
malvagia, e giuro ancora condurti per mia legittima sposa, e
amarti sempre. E così dicendo mi trassi dal dito uno
anello, che fu della madre mia; e accostatolo al volto della
Immagine santa come per consacrarlo, lo posi nel suo soggiungendo:
tu sei mia sposa. - «Io non possiedo anella, favellò
Annetta; ma taglia una ciocca dei miei capelli, e conservala per
promessa di unirmi in santo matrimonio con te». Trassi il
coltello, ed ella piegò il collo; così feci, ma la
mano mi tremò, e i capelli caddero, e il vento gli
sparpagliò sopra la terra. Malaugurio era quello. Ella
levò il capo, e sorridendo disse: «e tu tagliane
un'altra, che importa? Tanto, se la ventura sarà buona ne
ringrazierò Dio; se avversa, mi piacerà ugualmente;
non ti ho detto che sono parata a tutto?»
Pochi giorni dopo, mediante spie fidatissime, pervenne notizia al
signor Marco, come dal regno e dallo stato della Chiesa ci
muovessero incontro grosse bande di armati per toglierci in mezzo,
e prenderci a man salva. Il signor Marco, che quantunque dalla
sorte maligna fosse ridotto alla condizione di capo-bandito, pure
possedeva copiosamente le qualità che convengono a esperto
uomo di guerra, mi spedì senza indugio negli Abruzzi a
tenere di occhio la corte di Napoli, per sorprenderla in qualche
imboscata. M'istruiva a parte a parte dei luoghi, e del modo da
praticarsi; e mercè la virtù dell'ottimo capitano
così riusciva fortunata la impresa, che non uno, - non uno
sbirro rimase vivo per riportare a casa la nuova della sconfitta.
Dopo dieci giorni di lontananza io ritorno: con qual palpito io mi
avvicinassi alla Querce della Vergine lascio considerarlo a voi,
che intendete a prova gli affanni dello amore. - A piè
della querce trovai Annetta, - la trovai - ma ammazzata.
Aveva stracciati i capelli, le membra lacere, e le vesti; nel viso
io le vidi le orme di piedi che l'avevano calpestata; un coltello
fitto nel seno le trapassava il corpo fino dietro le spalle, e la
punta per bene quattro dita stava conficcata nella terra....
Comprai un panno scarlatto; feci lavorare una bara di legno
dorato; ve la riposi dentro con le mie mani, copersi coi fiori le
lividure, e le ferite ... come era mai bella anche morta! - e
accompagnato dai popoli del contado, in mezzo al pianto
universale, io stesso dava sepoltura al cuor mio: nel calarla
giù nella fossa mi mancò il lume dagli occhi, e vi
caddi sopra. Quando rinvenni mi trovai seduto in terra; la fossa
era riempita, il prete mi sorreggeva piangendo, e alcune donne
pietose mi consolarono piangendo. Mi alzai, e me ne andai senza
profferire parola.
Ricercando seppi come da alcuni giorni il conte Francesco
Cènci fosse venuto ad abitare la Rocca Petrella, che tra
noi si chiama ancora Rocca Ribalda; le tracce di costui erano di
sangue. Una voce nel cuore mi disse: egli è l'omicida.
Presi a investigare più sottilmente il caso, e per
relazione di un garzoncello pastore conobbi, che tutte le sere
Annetta andava alla Querce della Vergine, e genuflessa si
tratteneva lunga ora a pregare davanti la Immagine. Certa sera il
garzone vide passare a cavallo un uomo, che alle vesti ed al
portamento gli parve un barone. Costui fermò il cavallo, e
stette a considerare la fanciulla finchè essa non ebbe
terminata la preghiera: allora andatole incontro, parve che
s'ingegnasse di entrare in colloquio con lei; ma essa lo aveva
salutato, e tirato innanzi pel suo cammino. La sera successiva il
garzone, stando nel medesimo luogo a pascere pecore, vide sbucare
dal macchione due bravi, che sorpresa la giovane le bendarono gli
occhi e la bocca, e lei, invano dibattentesi, strascinarono via.
Il pastore aveva taciuto per paura, adesso parlava per guadagno;
sicchè con diligenza ne cavai fuori informazioni precise su
le vesti, e su le fattezze dei ribaldi. Presi a tenere di occhio
alla ròcca; nella notte mi aggirava intorno alle sue mura
come un lupo, nel giorno mi appiattava dietro le siepi, o su pei
rami degli alberi. La ròcca stava chiusa come la cassa
dello avaro. Ma un giorno si aperse, e ne uscì fuori un
uomo, che ai panni riconobbi per uno dei bravi veduti dal pastore:
procedeva cauto, e portava, come diciamo noi, la barba sopra la
spalla; ma io gli piombai addosso a guisa di falco: egli era
atterrato, sotto i miei ginocchi, ed io gli teneva le mani alla
strozza, prima che avesse avuto tempo di sapere che cosa fosse. -
Ti salverò la vita, gridai, se mi confessi come uccidesti
la fanciulla della Querce. Livido dalla paura, egli mi
narrò che il suo padrone Conte Cènci vista la
fanciulla, e trovatala bella, concepì desiderio di averla
alle sue voglie; però che a lui e ad un altro servo
ordinava rapirla, e portarla nella ròcca, reputandola
facile acquisto; ma vedendo che con la fanciulla tornavano corte
le lusinghe, e le minacce non riuscivano meglio, e parendo al
Conte di fare anche troppo onore a cotesta villana, era ricorso
alle violenze, alle quali la fanciulla aveva risposto menando
valorosamente le mani. Onde il Conte l'aveva presa pel collo, ed
essa lui, e caduti per terra vi si erano rotolati dandosi a
vicenda morsi e percosse. Alla fine la giovane, come più
svelta, per la prima si levava in piedi, ed aveva dato di un
calcio nel viso al Conte, dicendo: «Togli, vecchio ribaldo:
se avessi avuto il mio stile, a quest'ora ti avrei scannato; - ma
ti sta meglio un calcio; - fra giorni ha da tornare mio marito, e,
per la Vergine benedetta, non avrò pace finchè non
mi porti le tue orecchie in regalo». Don Francesco si
levò a sua posta senza profferire parola; e prima che la
disgraziata avesse potuto schermirsi l'arrivò con sì
terribile coltellata, che la passò fuor fuori dalle spalle,
ed ella cadde senza potere pur dire: Gesù, e Maria! Un
singulto, e basta. Poi la pestò, in vendetta del calcio
ignominioso, come si pesta l'uva. Venuta la notte ci
comandò portassimo il cadavere a piè della Querce
della Vergine, e noi lo portammo, perchè chi mangia il pane
altrui ha da obbedire. Il Conte ci tenne dietro con la lanterna; e
quando avemmo depositato supino il cadavere sopra la terra egli
cavò il coltello, lo rimise dentro alla ferita, e pigiando
forte ne conficcò la punta nelle zolle. «Quando
verrà tuo marito, esclamò il Conte, tu gli
racconterai ancora questo». Udendo ciò m'invase il
furore, nemico sempre al buon fine dei concepiti disegni, e gridai
al vassallo: «va dunque, avverti il tuo padrone che il
marito di Annetta Riparella è ritornato, e che stanotte lo
visiterà in casa sua com'è dovere». E non
mancai alla promessa, perchè, sovvenuto dai più
arrisicati fra i miei compagni, assaltai la ròcca,
saccheggiai ed arsi il palazzo. Bruciai il covo, ma la volpe si
era salvata. Il Conte non avendo forza da resistere, partì
subito a precipizio; e tanta fu la fretta di cansarsi di
là, che penetrato nella sua stanza io rinvenni sul tavolino
una lettera a mezzo scritta(). Se mai un giorno andrete alla
ròcca, voi potrete vedere i segni della mia vendetta
impressi col fuoco sopra le muraglie. Che cosa mi avanzava nel
mondo, e che cosa mi avanza adesso? Vendicarmi, e morire.
Però avendo contato discretamente tutto il mio caso al
signor Marco, egli lodommi molto nel partito preso, mi
confortò a perseverarvi, e mi fece offerte da fratello;
poi, comecchè malvolentieri, richiedendola io, mi dava
licenza. Rasi i capelli e la barba, mutate le vesti mi ridussi a
Roma, giurando per l'anima della defunta di temperare con la
prudenza ogni intempestivo furore.
Mentre io stavo mulinando la maniera di entrare come famiglio in
casa vostra, ecco la fortuna che volle favorirmi con istrano
accidente. Andando per piazza di Spagna sento dietro di me un
rovinìo, uno schiamazzo di voci, che gridavano: «alla
vita, bada alla vita!» - Mi volto, e vedo una carrozza
trasportata a furia da cavalli che avevano preso il morso co'
denti. Il cocchiere, balestrato giù dal sedile, aveva
percosso il capo sopra un piuolo, e giaceva col cranio aperto da
un lato della strada; chi fuggiva, chi si affacciava alle
finestre, chi su lo sporto delle botteghe, senza dare aiuto e
senza neppure pensare a darlo; stupidi e spietati, per vedere
soltanto come si sarebbero rotto il collo bestie e cristiani, e
poi cavarne i numeri per giuocarseli al lotto()... Umana razza! Io
mi gittai al morso di un cavallo; e quantunque per buono spazio
seco mi strascinasse a furia, pure giunsi a fermarlo. Allora mise
fuori dello sportello la faccia tranquilla e mansueta un barone di
età matura, il quale, dopo avere commendato molto il mio
coraggio, mi pregò a volermi presentare in giornata al
palazzo del Conte Cènci.
Così è; io, nè più nè meno, mi
era trovato a salvare la vita, senza saperlo, al mio atroce
nemico. Non me ne dolsi, anzi me ne compiacqui; perchè se
fosse morto in altro modo, che di ferro, e per le mie mani, mi
sarebbe parsa vendetta rubata.
Il Conte mi accolse co' modi che si confanno a gentiluomo; prese
contezza di me, e sentendo come io stessi ozioso per Roma, egli
medesimo mi propose accomodarmi in casa sua. - Era quello che con
tanto studio io cercava: certo il pellegrino non bacia tanto
devotamente la Madonna della santa casa di Loreto, come io toccai
le soglie di questo palazzo, col proponimento di circondare il
Cènci di solitudine e di desolazione. - Diseredato di
qualunque affetto, superstite ai cari figli, che io disegnava
uccidergli con varia morte, orfano del cuore come aveva fatto
me... quando la vita gli fosse riuscita di supplizio, la morte
sollievo, conservarlo finchè i suoi polsi avessero sentito
spasimo di agonìa; quando poi l'anima stupidendosi si fosse
adattata alla sventura... allora precipitarla per via di sangue
nel sepolcro sanguinoso dei suoi.
Un mostrarmi pronto ad eseguire ogni comando, un consigliare
astuto, un proporre immaginosi trovati mi acquistarono mano a mano
la sua confidenza, per quanto può fidarsi costui, che
sempre, e di tutti e di se stesso diffida. Ora immaginate voi
quale sorpresa fosse la mia, quando conobbi nessuno maggior
piacere avrei potuto recargli come ammazzargli i figliuoli! Il suo
odio snaturato vinse il mio; e dove pure io avessi continuato a
portarvi rancore perchè generati dal suo sangue, o come
avrei potuto tormentarvi più atrocemente di quello che si
facesse vostro padre? Alla ira subentrò una pietà
profonda per tutti, ed in ispecie per voi, signora Beatrice;...
perchè per voi, povera fanciulla, ho concepito una
tenerezza... uno amore sviscerato, che mi rammenta la buona anima
della defunta, e mio malgrado mi sforza a lacrimare...
E, vinto dalla passione, Marzio fece atto di piegare le ginocchia
davanti a Beatrice; se non che questa con mano pronta lo
trattenne, dicendogli:
- Su, Marzio, levatevi; la polvere non ha da prostrarsi al
cospetto della polvere, e noi tutti siamo polvere; - e poi
soggiunse: Marzio, io vi raccomando di avvertire a quello che vi
esce dai labbri; - ma con suono così dolcemente
supplichevole, che Marzio non ne rimase per nulla mortificato.
- Gentil donzella, perchè volete impedirmi di genuflettermi
davanti a voi? Le cose sacre si adorano in ginocchio, e voi pur
troppo consacrò lo infortunio; - certo veruna creatura al
mondo si rassomigliò, quanto voi, alla Madonna del Pianto.
Non dubitate, no; voi da me non udirete parola di cui possano
offendersi le vostre orecchie castissime: - voleva dire, che padre
non possa favellare alla propria figliuola; ma lo esempio del
Cènci mi ha trattenuto sopra i labbri il paragone. E
perchè non dovrò amarvi io, se tanto mi rammentate
la mia povera defunta? Ma la mia donna è morta, e il mio
amore di amante fu sepolto con lei. Lo affetto che io sento per
voi non è di devoto, di padre, e di fratello; e pure
partecipa di tutti questi affetti insieme. Io so che voi siete
amante riamata di monsignore Guido Guerra, e tengo in altissimo
conto questo gentiluomo, come quello che ha collocato lo amore suo
in così degna donzella. Più che non pensate, Marzio
ha favorito i vostri legittimi amori. Incauti! Quante volte vi
avrebbe sorpreso il vecchio maligno se io non era! Ultimamente,
per la subitaneità del caso, se non potei prevenire
monsignore Guido, io lo costrinsi alla fuga perchè ei
repugnava abbandonarvi, e gli salvai la vita. Io gli mostrai che
sè perdeva, e a voi non poteva dare soccorso: e gli promisi
ancora di prendermi cura di voi, e manterrei la promessa, se voi
non mi attraversaste; però ho statuito partirmi da casa
vostra: - vi entrai per condurre a compimento la mia vendetta, ed
ora mi è forza allontanarmi se intendo mandarla ad effetto.
Da un lato, voi non volete che vi liberi dal perdutissimo vecchio;
e quantunque io non possa renunziarvi la mia vendetta, pure, per
rincrescervi meno, non voglio ammazzarlo sotto i vostri occhi;
dall'altro considero che questa morte avvenendo qui in casa, il
sospetto si aggraverebbe sopra voi innocenti; onde il meglio
è che io mi allontani, perchè rimanendo non
avvantaggio voi, e nuoccio a me. Signora Beatrice, se io vi
supplicassi a conservare memoria di un uomo che non ebbe per voi
altri sentimenti che di benevolenza e di ossequio; se vi pregassi
a non odiarmi affatto, sarei forse troppo presuntuoso?
- Io ricorderò che volete uccidermi il padre: - quando
sarete lontano penserò che mi potevate difendere, e che mi
avete abbandonata. - Deh! lasciate vivere il Conte; i suoi anni
sono molti... non lo mandate al giudizio di Dio; aspettate ch'ei
ce lo chiami.
- La vostra voce è potente, ma non vince quella che mi
rugge in petto. Impossibile! E non vedete espresso qui dentro il
giudizio di Dio, poichè il mio proponimento soddisfacendo
alla vendetta della donna, che amai tanto, porta salute a voi,
sventurata donzella?...
- Il dito di Dio, Marzio, non iscrive i suoi consigli col
sangue...
- Come no? L'Angiolo sterminatore lesse in Egitto la sentenza di
Dio impressa su gli stipiti delle porte con nota di sangue:
così almeno ho udito sovente predicare ai nostri sacerdoti.
Voi vi dimenticate, Signora, che qui in Roma Iddio ebbe per suo
vicario Sisto V; nè quello che regna, Clemente VIII,
immaginate già ch'ei si abbia migliori viscere di lui.
- Io non so di sacerdoti; io so di Cristo, che riprova la legge di
pagare dente per dente, e occhio per occhio, e vuole che amiamo
quelli che ci fanno del male. Marzio, lasciate a Dio i suoi
giudizii; quello che in Dio è giustizia, in voi sarà
delitto.
- Ma come lasciarlo vivere? - esclamò Marzio percuotendosi
la fronte, quasi si risovvenisse di cosa dimenticata; - ma non
sapete ch'egli respira di strage? Vedete; se io rimanessi qui, -
uno sciagurato avrebbe a morire di fame.
- Come di fame?
- Ahi, me meschino! Ragionando con voi si dimenticherebbe il
paradiso... Povero Olimpio!... mentre io mi trattengo, tu conti i
minuti con gli spasimi delle tue viscere affamate.
E così favellando prese in fretta la lanterna, il mazzo
delle chiavi e il paniere deposto sul pavimento, e con veloci
passi si avviò dall'altra parte del sotterraneo.
Beatrice, traendo a fatica la persona inferma, gli tenne dietro,
curiosa di chiarire il truce mistero che si adombrava nelle parole
di Marzio.
CAPITOLO XVI
IL MEMORIALE.
«Per il che non potendo durare in così infelice
vita prese la strada della sorella Olimpia, e
mandò al Papa un buono e ben composto memoriale;
ma o che quello fosse dato, o no, la
sua ragionevole inchiesta non ebbe effetto, nè
si è trovato in segreteria dei memoriali quando
ne faceva bisogno mentr'era in prigione...»
Manoscritto del tempo.
Il vento ne portava le parole.
Petrarca, Sonetti
Beatrice tenne dietro a Marzio, il quale arrivato alla prigione di
Olimpio lo chiamò a nome: non si sentendo rispondere, con
molta ansietà gridava:
- Olimpio! Olimpio!
Una voce fioca rispose:
- Vattene via, malvagio traditore... liberami dalle tue
tentazioni... mi acconcerò come potrò con Dio, per
morire in pace...
Marzio schiuse la porta; e a tale debolezza era arrivato il
masnadiere pel digiuno e per le tenebre, che il poco di lume della
lanterna valse a ferirgli dolorosamente gli occhi, e a farlo
traballare. Marzio lo sostenne, e lo indusse a bere alcun sorso di
liquore cordiale, che aveva portato seco lui. Dopo brevi momenti
di conforto riarse in Olimpio la rabbia della fame e della sete;
come fiera si slanciò sul paniere, nè Marzio avrebbe
potuto impedirlo s'egli non era ridotto in cotesto stato di
debolezza. Marzio lo ammonì che se non faceva senno,
scampato dal morire di fame lo avrebbe ucciso il cibo.
Beatrice attonita considerava il masnadiero, orribile a vedersi;
imperciocchè i suoi lunghi capelli ingrommati gli
pendessero giù dalle tempie come mignatte ripiene di
sangue; il colore della faccia di bronzato era divenuto cenerino;
le labbra nere; gli occhi verdi, e lucenti come vetro.
Riavutosi con discreta quantità di cibo e di bevanda,
Olimpio così prese a favellare in mezzo al singhiozzo che
lo assalse:
- Rinnegato! Cane di traditore! Marrano! Morire di fame, eh?
Confessare senza corda non è di regola... il morto
disseppellito ammazza il vivo: non m'importa... io voglio dire...
bisogna che io mi sfoghi... Iniquo vecchio, tu volevi farmi
tacere... lo capisco... ho ammazzato cinque per conto tuo -
quattro di coltello, e l'ultimo, il falegname, bruciato... povero
giovane!... bruciato come una talpa intrisa di acqua di ragia...
Ah! ah! Requiem aeternam dona ei, Domine. E la sua moglie
Angiolina? - Angiolo vero di nome e di fatto. Donna Luisa! - Santa
Vergine, esaltatela voi! - Guarda te, se io sto propriamente
giù in fondo del male!... ebbene; donna Luisa sta anche
più su, in cima del bene. - Le fiamme della casa del
falegname, il furto del curato, il ratto della Lucrezia - tutto
commesso, tutto ordinato da lui; - io prestai la mano, egli la
diresse: - infame mano! io ti taglierei, se non fosse la bocca che
vuol mangiare. O bestie del campo, voi trovate da pascervi, noi
no; quanti delitti per pane! La volpe aveva teso la
tagliòla al lupo per mandarlo a dare dei calci al rovaio: -
ora lo vedo espresso... tradimento di tradimento... partita
doppia... bravo, per dio! - Ferito, inseguito dai mastini della
corte, riparo qua dentro... allora il Conte disse: quest'uomo
vuole essere nascosto; mettiamolo tre braccia sotto terra...
meglio di così non può stare: ma bravo! E poi il
Conte ha detto ancora: quest'uomo è cercato dalla
giustizia; se fosse messo al martoro potrebbe pregiudicarsi con le
sue confessioni; quando è morto, la corda non lo
farà più parlare. - Marzio, da bere. - Non è
egli uomo serviziato il Conte Cènci? - Per la Vergine
sì. - Don Francesco, se questa è la
ospitalità che riservate agli amici, e ai servitori
vostri... in fè di Dio non vi scemeranno le entrate...
no... da bere.
- Olimpio non affaticarti, taci; nudrisciti a bello agio...
riposati... rifa' le forze... fra poche ore io verrò a
levarti.
- Mai no, che non mi rinchiuderai più; - adesso ho fame e
sete di aria: mi pare avere sul petto la cattedrale di San Pietro.
San Pietro! Ho io rammentato San Pietro? Ebbene; io non mi fido
neanche di lui che tiene sempre le chiavi in mano, perchè
anch'egli patisce del mestiere, e le mette più in opera per
chiudere che per aprire.
- Olimpio quietati; ormai tu vedi che fin qui non ti ho tradito.
- Il minuto che passa è forse mallevadore del minuto che
entra? Una volta tra dodici apostoli appena si trovava un Giuda;
adesso tra dodici uomini undici, sono traditori, e il dodicesimo
un po' tarlato. - Se ho da morire... lasciami bere un altro
bicchiere di vino, e andiamo; ma come devono morire gli eroi, e i
banditi romani... a cielo aperto...
- Ribaldo! Ti pare che questa bottega porti insegna di traditore?
- disse Marzio scuoprendosi con la destra la fronte; - ho promesso
salvarti, e ti salverò: non vedi che tu barcolli come
ebbro, e le tue ginocchia si urtano insieme? Il vino ti ha dato
alla testa. - Adesso ci scuoprirebbero, e ammazzerebbero tutti e
due.
- Ma colei, ch'è teco, che femmina è? - Non è
la sua figlia? - O come ci entra teco? - proseguiva Olimpio
fregandosi gli occhi.
- Veramente ella è la signora Beatrice; ma va sicuro che
non venne qui per nuocerti.
- Poichè non posso rimediarla meglio mi fiderò...
brutta parola è cotesta! - Marzio, siccome io ho veduto che
tra gentiluomini e gente altra cotale, che va per la maggiore, si
fa conto dei giuramenti e delle promesse quanto dei grilli
dell'anno passato, così mi presumo che fra noi la faccenda
sarà diversa perchè fra me, e te, - mi pare che ci
corra quanto fra te, e me - misura giusta; e noi siamo villani.
Marzio, io vorrei legarti con la promessa di un premio; ma la mia
anima si trova ormai ipotecata al diavolo, e pel corpo tu avresti
lite con mastro Alessandro. Se tu avessi qualche nemico, che
patisse del male di angina... - e con la destra si toccò la
gola.
Marzio alzò le spalle, quasi volesse dire: cotesto so molto
ben fare da me. Allora Beatrice si attentò di favellare:
- Marzio vi salverà, non ne dubitate; ed io, in mercede, vi
domando cosa che mi potrete donare molto agevolmente, e nella
quale il guadagno sarà tutto per parte vostra. Voi mi avete
a promettere, che uscendo da questo pericolo muterete vita.
- Oh Signore! che si può mutar vita come si muta la
camicia? Io non ho imparato altro che maneggiare il ferro, e il
ferro è fatto per ferire...
- Il ferro è fatto non per ferire il cuore dei fratelli,
donde viene la morte; ma sì per lavorare la terra,
ch'è sorgente di vita. Muta il tuo ferro in vanga, e la
misericordia di Dio si distenderà fino a te...
Questa risposta Beatrice dava al bandito pacatamente, senza
petulanza, e con voce soave per modo, che Olimpio, il quale per
costume era solito piegarsi agli avvertimenti altrui a un di
presso come un campanile al vento di primavera, sentì un
non so che nello stomaco, che non capiva bene se dovesse
attribuire alle parole udite, o al digiuno sofferto. Ci
pensò sopra un pezzo, e non gli riuscendo bene a sciogliere
il nodo, gli parve attenersi al più certo; onde concluse la
sua meditazione dicendo: sarà il digiuno!
Tornando al carcere di Beatrice Marzio favellava:
- Vostro padre è una miniera di delitti; più se ne
scava, e più se ne trova. Io, che pure non mi spavento per
poco, quando mi affaccio a quel pozzo disperato rabbrividisco, e
non comprendo più nulla. Voi dunque non volete consentire
alla morte di lui; meglio così: conservatevi rosa bianca, e
pura, quantunque, a parer mio, ove si tinga in vermiglio per
sangue scellerato non perda pregio davanti agli uomini, nè
davanti a Dio. State lieta però; i giorni della vostra
schiavitù saranno meno lunghi di quello che voi poteste
temere.
- Dio disperda lo augurio perchè so a qual patto sia la mia
libertà; e, Marzio, se voi mi amaste davvero, come dite, se
le mie angosce vi avessero toccato il cuore, ah! voi non
persistereste a rendermi la femmina più desolata del mondo
macchinando togliermi il padre...
- Dite un carnefice...
- Mio padre... però che da lui ebbi la vita, e per lui
senta, e per lui spiri...
- Vi diè la vita per contaminarvela, o per togliervela.
- E sia così; ma se egli dimentica le parti di padre,
dovrò io obliare quelle di figlia?
- No; dunque ognuno la sua parte: a me spetta quella di
vendicatore. - Cessate... vi ripeto, Signora... voi vi affaticate
invano; voi potreste trasportare più prestamente con le
vostre mani gli obelischi di Papa Sisto fuori di Roma, che
rimuovere me dal mio proponimento.
- Di voi non sono signora, di me sì.
- Nè io ve lo contrasto...
- Guardate, chè io mi dispongo ad avvertire il Conte
ond'egli stia su lo avvisato.
- Avvertitelo. Non sarò io la volpe, che insidia la
gallina: - prima di rovinargli addosso io ruggirò,
perchè senta che il leone si accosta.
- Ma s'egli uccidesse voi?
- Ho sentito raccontare che, anticamente, nei giudizii di Dio era
tratta una bara sola; uno dei due combattenti la doveva empire. Se
la Provvidenza giudica delle cose umane, vi pare che debba essere
io quegli che la riempirà? - Poche più ore mi
avanzano a starmi qui in casa vostra: - avete nulla a
raccomandarmi, signora Beatrice? Io per me niente sono; una moneta
di rame; pure, se data di buon cuore al poverello, frutta una di
quelle preghiere che fanno proprio diritta la via del paradiso.
- E notate ancora, che io vi attraverserò con ogni mia
possa.
- Voi?
- Anche la formica salvò il colombo pungendo il piede allo
arciere. - Ed ora che vi ho detto tutto questo, non vi sentite
sdegnato meco, Marzio?
- Niente affatto. Non ve lo espressi pur dianzi? Ogni uomo
è forza che fili la stoppa che gli pose in mano il destino.
Forse, chi sa? Dove io vi avessi trovato diversa da quello che
siete, vi avrei tenuta di maggior senno, ma vi avrei amata meno.
- Ebbene, Marzio, per favore estremo io vi chiedo lasciarmi per
breve ora la lanterna, e recarmi quanto abbisogna per iscrivere. -
Io non voglio omettere di tentare argomento alcuno di salute
piuttosto per non avermi a rimproverare di negligenza, che per
isperanza che io ne abbia: distenderò un memoriale a Sua
Santità, supplicandola per le viscere di Gesù Cristo
che provveda a me come fece a Olimpia. Questo parmi il partito
migliore. La fuga con Guido, che immaginai esaltata dalla
passione, io riprovo adesso: conosco che desterebbe scandalo; il
torto sarebbe mio, e il mondo, ignaro delle cause che mi mossero,
confonderebbe la mia deliberazione col volgare amore d'invereconda
fanciulla, che sottomette la ragione al talento. Inoltre per
cagione mia andrebbe guasto ogni disegno di Guido: sembra che a
lui prema tenersi il Papa bene edificato, e tanto basta per amante
discreta onde abbia a rispettare la volontà sua. Ogni via
ultima di salute sta in questo, che Guido si adoperi a fare
pervenire prestamente il memoriale al Pontefice, e ne ottenga
risoluzione sollecita. Voi poi, per accendere Guido a non
indugiare, gli confiderete quello, che io morirei di vergogna a
palesare, non che ad altrui, a mia madre. - No... no...
sciagurata! non gli dite nulla... promettetemi, Marzio, che non
gli direte nulla.
- Farò come volete. Signora Beatrice, date ascolto: per me
oggimai nulla temo perchè disposto a uscirmene infra brevi
ore di qui, e perchè vostro padre non è tanto astuto
che io non lo sopravanzi. Egli mi sospetta, ed i suoi sospetti si
convertono in punte di ferro: egli lo ha palesato. La confidenza
mostratami stamani è finta per ingannarmi: ad ogni modo non
temo. Voi debole, inerme, inoffensiva, dovete troppo più
paventare di me: io voglio farvi un dono, che ad ogni
estremità possa giovarvi; egli vale quanto noi vogliamo che
valga... Eccovi un coltello...
- Grazie; quando non mi rimanga altro scampo, con questo
sarà più certa la morte.... e meno dolorosa...
- Or ora io vi porterò da scrivere; voi mettetevi subito
alla opera. Io simulerò di nettare le mie pistole nel
giardino: dove mai vedessi don Francesco piegare verso il
sotterraneo per sorprendervi, io sparerò la pistola, come
se avesse preso fuoco a caso: voi, avvertita dal colpo, spegnerete
la lanterna, e nasconderete ogni oggetto, prima che il vecchio
arrivi...
- Così farò. Addio...
Quando Marzio tornò in camera di Francesco Cènci lo
rinvenne sempre giacente in letto, e, secondo ch'ei dava ad
intendere, afflitto da dolori atrocissimi. Non senza maraviglia
Marzio vide di qua e di là del capezzale due frati
domenicani, che dal viso poco angelico, e meno serafico pareva
ch'eglino pure andassero persuasi di non possedere grande aria di
santità, imperciocchè tenessero i cappucci tirati
giù sopra gli occhi. Il Conte ordinò a Marzio
posasse le chiavi, e si ritirasse. Partito ch'ei fu, il Conte,
ridendo, disse loro:
- Reverendi Padri, lo avete notato bene? Domani egli
partirà per Rocca Petrella; le vostre paternità lo
aspetteranno nel luogo che reputeranno più adattato, e voi
me lo manderete allo inferno, o in paradiso (che in quanto a
questo poco m'importa) con due palle traverso il corpo...
avvertite, che quattro non guastano nulla: poi gli celebrerete due
messe in suffragio dell'anima. Intanto prendete la elemosina; - e
porgeva loro un gruppo di moneta.
- Eccellenza dormite fra due guanciali, che noi vi serviremo da
pari vostro; - rispose uno dei frati.
- Anime elette! Anzi, per non dar luogo a svarioni, osservate
questo mantello scarlatto; voi lo vedrete o addosso al vostro
uomo, o davanti alla sella del suo cavallo.
- Oh! non fa al caso perchè io l'ho in pratica.
- Davvero? E come?
- Eccellenza ve lo dirò un'altra volta, perchè
stando qui in Roma mi sembra camminare sopra la zolfatara... mi si
bruciano le scarpe.
*
* *
- Marzio, accompagnate coteste Reverenze. Padri, io mi raccomando
alle vostre orazioni.
- La pace sia con voi.
- Amen.
Marzio accompagnò cotesti frati di cui lo strano aspetto
era tale, da fare rabbrividire Cristo comunque crocifisso:
tentò ficcare gli occhi sotto al costoro cappuccio, ma non
gli venne fatto di bene ravvisarli: mentre stavano per uscire, uno
di loro, voltandosi per salutare col solito ritornello la pace sia
con voi, lasciò cadere un largo coltello; il quale raccolto
prestamente da Marzio, fu con gesto umile presentato al frate
dabbene.
- Reverendo Padre, vedete che vi è caduta la corona.
- Figlio mio, il Signore non vieta difendere la nostra vita dalle
aggressioni degli scellerati; anche i santi lo hanno fatto.
- Sicuro!... Perchè per diventare santi non importa mica
essere anche martiri. All'opposto, Padre, invece di
scandalizzarmi, voi mi avete edificato per modo, che io supplico
devotamente la vostra Reverenza a volere ascoltare la confessione
di certo peccato, che mi pesa su l'anima.
- In questo luogo? Adesso?
- Ogni momento non è buono per salvare un cristiano? Forse
Gesù rispondeva a coloro, che si voltavano a lui, venite
domani? Padre, non mi rimandate sconsolato; vedrete, ella è
cosa di pochi minuti; entrate in questa stanza terrena, e tutto
andrà d'incanto.
E così dicendo lo prese a forza per le braccia per menarlo
seco. Il frate non oppose resistenza, e, avvertito il compagno di
attenderlo alquanto, entrò con Marzio nella stanza terrena.
- O Grimo, e' ti ho riconosciuto, sai... - disse Marzio levando
risoluto il cappuccio al frate.
- Ed io te, Marzio... come ti sei avvilito! Chi ti avrebbe creduto
capace di ridurti a fare lo staffiere...
- E tu frate? - Quali negozii ti chiamano qui dentro?
- Te lo dirò; ma tu, come servitore in casa Cènci?
- Per ammazzare il Conte assassino di Annetta Riparella, la
fanciulla di Vittana.
- Ed io per ammazzare domani un certo Marzio, il quale penso che
deva essere un po' tuo parente.
- Me?
- Come hai indovinato giusto! Ma io l'ho detto sempre, che tu
contieni più seme di un cocomero.
- E tu lo farai?
- Ho riscosso il prezzo; e tu sai la regola di sicario onorato.
- In questo caso troverai giusto, che io ammazzi prima te.
- Niente affatto; vi è modo di aggiustare tutte le cose.
Noi fummo compagni antichi nella banda del signor Marco, dove
imparammo sempre onorati esempii di virtù; cane non mangia
carne di cane: qualche volta, per rabbia, un occhietto di
più, che ci facciamo, non guasta la buona amicizia; ma
dietro la siepe mai: questo operiamo per conto dei Signori contro
gli Signori perchè ci sono tutti nemici vecchi. Però
quando si è ricevuto il prezzo dell'omicidio bisogna
adempire il patto; altrimenti il nostro mestiere, come conosci al
pari di me, scapiterebbe di credito e di avventori. Io mi sono
legato per fede ad aspettare domani, su la strada per Ròcca
Petrella, un uomo che porterà addosso o sul cavallo un
mantello di scarlatto, e ammazzarlo. Io lo aspetto, egli non
passa; il mio obbligo è soddisfatto, e posso tornarmene in
buona coscienza alla macchia. Ti garba così?
- Eh! non ci è di male. E il tuo compagno chi è
egli?
- Gli è figliuolo di Trofimo il molinaro. Vedi un po' come
è cresciuto; ha fatto a occhiate: trovò la sua
amorosa a discorrere con un giovanotto di Rieti, e gli accadde di
scannarli tutti e due - una vera ragazzata: - saranno sei mesi che
ha preso la macchia, e promette bene. Ora lasciami andare, e
occhio alla penna perchè il vecchio è mastino di
buona razza.
- C'ingegneremo, fra Grimo; non fosse altro per non fare torto
alla reputazione della compagnia. Ma, senti, mi è venuto in
capo una fantasia; dove mai mi occorresse bisogno di adoperarti
(pagando, s'intende) con questo tuo garzone di belle speranze,
dove avrei da cercarti?
- Alla osteria dell'Acqua ferrata, dove si prendono i muli per Rio
freddo, tu troverai un ragazzo sordo e mutolo, che s'ingegna come
stalliere; se gli dirai con garbo, e più sotto voce che
potrai: su Monte Bove deserta è la via, forse
avverrà ch'egli t'intenda, ed anche che ti risponda. In
ogni caso egli mi farà sapere quello che tu vorrai da me. E
per ora ego te absolvo.
Gli antichi compagni si separarono più amici di prima.
Marzio tornò in camera al Conte, il quale, dopo avergli
comandato certi servizietti, che quegli adempì con la
solita diligenza, così prese a favellargli umanamente:
- Marzio; se io odio, ciò avviene perchè gli altri
mi odiano; nè sopportare questa vita è lieve cosa,
poichè, tranne te, tutti m'insidiano la vita, tutti
agognano le mie sostanze. Io solo sto contro tutti; ma, come
Orazio, non ho ponte dietro le spalle. I miei figli poi sopra gli
altri mi abboniscono, spinti a questo da due ragioni, negli uomini
potentissime: bisogno di vendetta, e cupidigia di averi. Una cosa
m'inacerbisce, e consiste nelle forze che scemano, e nella perduta
prestanza del corpo. È inutile dissimularlo; gli anni
incominciano a pesare; onde io non vorrei ridarmi al caso del
lione, che ebbe a sopportare i calci perfino dello asino. È
prudenza uscire di teatro prima che spengano i lumi: ho deciso
pertanto ritirarmi alla Rocca Petrella, feudo che possiedo su i
confini del regno. Ne conosci le vie?
- Credo di sì. Si prende da Tivoli; e poi domandando si va
a Roma, dice il proverbio.
- Domani, dunque, tu monterai a cavallo con nostre lettere pel
castellano, e partirai per quella volta: colà, come persona
pratica e sufficiente, tu invigilerai i lavori, che ordino per
porre in assetto il castello; farai mettere nuovi serrami alle
porte: intanto apparecchiami alcune stanze, e attendi a fare
scomparire le tracce dello incendio...
- Incendio! dite voi? O che abbruciò la ròcca?
- I banditi, mentr'era poco guardata, me la saccheggiarono, ed
arsero. A quei tempi si riparava molto nei boschi circonvicini il
signor Marco Sciarra, e dove la sua banda passava ti so dire che
non metteva più erba...
- Ma io non udii mai che la banda del signor Marco ardesse, e
guastasse...
- Accattai briga con uno dei suoi uomini per una follìa,
che non meritava la spesa. Certa volta mi prese vaghezza di una
villana, di una capraia, che so io? - Lo crederesti, Marzio?
Costei ebbe ardimento di resistermi, e di minacciarmi la vendetta
del suo marito. Siccome ella era devota della Beata Vergine dei
dolori, io la resi simile affatto alla sua santa avvocata
piantandole un coltello nel cuore. Il marito, o amante che fosse,
prese la burla sul serio, e, aiutato dai compagni, mi fece il tiro
di bruciarmi la ròcca.
- In verità egli ebbe torto. Al diavolo lo zotico, che non
capiva l'onore che gli faceva un conte di contaminarsi con la sua
villana.
- Ma!... tanto è, non la vogliono capire. - Orsù,
mettiamo da banda queste freddure. Danari non importa che tu
prenda teco; il castaldo deve avere riscosso a questa ora i canoni
dei fittaiòli; - solo per amore mio porterai questo
mantello, che ti dono; egli ti riparerà dalla guazza, dalla
quale importa riguardarci bene.
- Eccellenza, un tabarro scarlatto trinato di oro, ma vi pare che
sia abito conveniente per un povero vassallo come sono io? - E' mi
parrebbe di fare la figura di uno dei re maghi.
- Chi dona considera la sua larghezza, non la umiltà di cui
riceve; e poi anche di cotesta pasta si fabbricano baroni. Che
cosa ti pensi che ci voglia, ai giorni nostri di decadenza, per
mutare un contadino in conte? Un mantello rosso, e qualche
migliaia di scudi. I titoli sono diventati le indulgenze dei
Principi, e col miscuglio della piccola gente essi guastano la
vera ed antica nobiltà; un giorno se ne avvedranno, e se ne
pentiranno. A me non importa nulla. Intanto, Marzio, prendi il
tabarro, e pei danari pensa che il Conte Cènci possiede
tanto che basta per mutare quindici mendichi in principi romani; e
rammenta ancora, che a patto che la mia roba non vada agli
odiatissimi figli, io mi contento che si spartisca fra i miei
servitori. Dunque o stanotte, o domani sellerai lo storno, che tra
i miei cavalli è il più poderoso, e mettiti in
cammino; io ti terrò dietro fra cinque giorni, o sei.
Intanto rendimi le chiavi del sotterraneo: alla ribelle figliuola
provvederò da me stesso.
Marzio gliele dette senza esitare, ma nel porgergliele
pensò: Ribaldo vecchio! e non sai, che quando il tuo
diavolo nacque il mio andava ritto alla panca? - E questo
avvertiva perchè. come quello che industriosissimo uomo
era, non aveva messo tempo fra mezzo, e con suoi arnesi saputo in
breve ora ridurre altre chiavi, e adattarle alle serrature dei
sotterranei.
Tolto commiato, fingendo apparecchiarsi al viaggio, si pose in
guardia nella stanza terrena, dove metteva capo il corridore che
riusciva alla porta dei sotterranei: quivi prese la valigia da
trasportarsi sopra le groppe del cavallo; riguardò la
briglia, le cinghie, la sella e le armi; e come se avesse
rinvenute queste irrugginite pel non uso, con olio e smeriglio si
tratteneva a polirle, stando sempre con l'occhio avvertito.
Al Cènci, quando parve tempo, persuaso sorprendere Beatrice
con qualche foglio scritto da lei, o ricevuto di fuori
mercè il soccorso di Marzio, cauto, ed obliquo a modo del
gatto, strascinandosi a stento per via della sua infermità,
s'ingegnava penetrare inosservato nella prigione di Beatrice.
Marzio, appena con la coda dell'occhio lo vide comparire alla
lontana, scattò la pistola, la quale sparando levava
immenso rimbombo in cotesti luoghi chiusi. Lo astuto Conte penetra
di un baleno la trama; freme in cuore, ma in volto non muta
colore, non istringe sopracciglio: oggimai per cotesto segnale
Beatrice era stata avvertita, e la sorpresa riusciva invano. Si
appressava pacato a Marzio, e con ipocrita ingenuità gli
diceva:
- Ma badaci, figliuol mio, un'altra volta; chè ti potresti
guastare una mano.
- Figuratevi! gli è stato proprio casaccio. Restare inabile
per tutto il tempo della vita preme ancora a me. - Lasciate
però che io mi rallegri con voi, vedendovi così
presto guarito della gamba da potere uscire da letto.
- Veramente cotesti buoni Religiosi, che tu hai veduto, mi avevano
portato una reliquia capace di operare questo, ed altri miracoli;
ma io non ho consentito che per me disturbassero Dio nello eterno
suo soglio: mi attengo modestamente allo empiastro di malva. Io mi
sento tutto altro che sanato; il bisogno di prendere un poco
d'aria pura, il fastidio insopportabile di tenermi giacente in
camera mi ha spinto a perigliarmi fino qua. Marzio porgimi il
braccio, tanto che io possa un po' riconfortarmi qui allo aperto.
Marzio gli diè braccio; sicchè a vederli parevano i
più amorevoli padrone, e servo, che da un pezzo in qua
avessero rallegrato il mondo.
Io non so davvero qual pazzia sia questa dei poeti, di ricorrere
alle bestie per paragone delle umane passioni. Vogliono dare ad
intendere una immanità inaudita, ed eccoti in ballo la
tigre, e, per di più, ircana: qualche grossissima ira fra
due uomini arrabbiati, e, o Ariosto, o Tasso, o Tassoni, o
Poliziano, o gli altri infiniti (imperciocchè questa
similitudine io credo che pel molto uso caschi in pezzi) ti
cantano
E si vanno a incontrar, non altrimenti
Che due cani (o due tauri) furiosi, e d'ira ardenti.
Se due persone, che si aborrano fra loro, si dice: stanno
d'accordo come cane, e gatto. Sicuramente che cane e gatto, se non
fossero aizzati l'uno contro l'altro, starebbero d'accordo; ed io
ho veduto una cagna allattare due gattini orfani: cosa da
intenerire i sassi, e le Signore patrone degli Asili infantili. A
che giova importunare le bestie che non possono renderci la
pariglia, non componendo poemi, e non possedendo stamperie? Vi
hanno forse rabbia, o ira, o ipocrisia bestiali che superino
quelle dell'uomo? Questa creatura è pari a se stessa, a
nessuna seconda; a molti facilmente prima. Se volete proprio dare
idea di persone che si odiino con tutte le potenze dell'anima,
dite piuttosto che si accordano come padrone e servo, e parlerete
più dritto. Certo io non nego, che se i servi possedessero
metà delle virtù che i padroni pretendono da loro,
non vi sarebbe servitore che non meritasse avere al suo servizio
una mezza dozzina di padroni; almeno tale era il parere di Figaro:
ma per altra parte troppo spesso i servi così si mostrano o
cupidi, o ingrati, che sarebbe risparmio grande di afflizione fare
da se. Marzio e il Conte procedevano braccio a braccio, e si
scambiavano parole di benevolenza.
- Vivono i tuoi genitori, Marzio?
- Sono orfano; parenti ho da averne di certo; però da gran
tempo non udiva notizia di loro.
- E forse i luoghi ritengono qualche vestigio di fiamma antica?
- Fiamma!... Io la ebbi, ma me la spense il vento.
- Davvero! O narrami un po' questo caso.
- È breve; un potente barone se ne invaghì; costei
fu temeraria tanto, da rifiutare l'onore che il barone volea
farle; il barone la uccise, e la pagò secondo i meriti.
- Motivo forse di sospiri per quindici giorni. Il tempo rimargina
presto le ferite.
- Non tutte; dentro alcuna si tronca il coltello, la carne vi
cresce sopra, ma la ferita sanguina sempre.
- Marzio, la commedia della vita non si compone di un atto. Hai tu
veduto ghirlande di un fiore solo? Sta' lieto; tu sei giovane, tu
sei bello; un'altra volta, e due, e dieci tu potrai menare allegri
balli con giovani leggiadre intorno ai fuochi di maggio. Io non
pretendo che la sorveglianza dei lavori alla ròcca di tanto
ti occupi, che tu non possa dare una corsa fino alla tua patria,
che se bene mi rammento ha da essere Tagliacozzo, per ritrovare
qualche sorriso di vita che dissipi ogni nebbia di sospiri di
morte.
- Così farò, don Francesco, poichè me ne date
licenza: vo' provare, se mi riesce, a scacciare un diavolo con un
altro.
Dio eterno! Mentre si ricambiavano siffatte cortesie, i costoro
colli, come sotto ad un medesimo giogo, andavano gravati dal
pensiero dello scambievole omicidio: ed anche questo è un
pregio, del quale gli uomini possono vantarsi superiori alle
bestie. Il Conte dopo breve cammino tornando a dolersi del piede
offeso, mostrò voglia di ricondursi in camera; e Marzio lo
accompagnò, e lo sovvenne con amorosa assistenza.
Scesa la notte, quando a Marzio parve che tutti dormissero nel
palazzo, con veloci passi s'incamminava al giardino: quivi
assicurò al muro del recinto una scala; poi, aperte con le
doppie chiavi le porte del sotterraneo, liberò Olimpio.
Questi col cibo e col riposo aveva recuperato le forze, e con le
forze lo acuto desiderio della vendetta, per cui era venuto nel
proponimento di appiccare il fuoco al palazzo dei Cènci
prima di abbandonarlo; nè Marzio ebbe a durare piccola
fatica per contenerlo, e gli andava dicendo: si quietasse per ora;
lui premere smisuratamente più atroce la necessità
della vendetta; fra giorni egli ne trarrebbe del Conte una
memorabile, e sicura; essere iniquo offendere tanti innocenti per
colpa di un reo.
Poi si condusse al carcere di Beatrice; l'animò a fuggirsi
seco lui, ma la rinvenne ferma nel suo proposito di sopportare
quello che alla Provvidenza fosse piaciuto disporre di lei.
Venutogli meno ogni argomento, prese il memoriale; la
confortò come seppe, provò allontanarsi,
tornò indietro: sentiva, nello abbandonarla, scoppiarsi il
cuore come per morte. Finalmente a lei, che non cessava
scongiurarlo deporre per lo amore di Dio ogni disegno di vendetta
contro il padre suo, baciò, e ribaciò affettuoso le
mani, e poi si allontanò con passi concitati esclamando:
«Fatale! fatale!»
Olimpio si salvò per la scala del giardino; Marzio
uscì dal palazzo montato sul cavallo storno, portando su le
groppe di quello avvoltolato il mantello scarlatto trinato di oro.
CAPITOLO XVII.
IL TEVERE.
Acque del Tebro, a voi sola è rimasta
La grandezza di Roma.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Fu di Romolo la gente
Che il tridente
Di Nettuno in man gli porse.
Ebbe allor del mar lo impero,
Ed altero
Trionfando il mondo corse.
Guidi, Il Tevere.
Ecco il Tevere! Le sue acque scorrono adesso come quando Roma vi
si contemplava incoronata di tutte le sue torri. Questi flutti
hanno trasportato sul dorso regni, repubbliche, imperii, e Popoli,
e, più stupendo a dirsi! una generazione intera di Numi,
mescolata con le foglie inaridite che il vento di autunno
sparpaglia lungo le sue sponde. Ceneri di eroi, e ceneri di
banditi; ceneri di papi, e ceneri di eretici furono sparse per la
sua superficie, nè egli corrugò la fronte per le une
più commosso che per le altre. Dentro ai suoi gorghi le
statue di Giove e di Mercurio riposano in pace sopra il medesimo
fango, a canto a quelle dei santi Pietro e Paolo. Tutto intorno a
te rovina, tutto è mutato; tu rimani lo stesso, e teco il
sole italico, che scherza con le fulve tue onde come con la
criniera di un vecchio leone.
Leva la fronte, o Tevere. Ah! forse non tutti i numi abbandonarono
ancora il cielo di Ausonia. Si danno fati, e quelli dei Popoli
sono fra questi, che rinnuovano il caso di Anteo, il figlio della
terra. Se un lauro un giorno, secondo che porge la fama, crebbe
spontaneo sopra l'ara di Augusto astutissimo fra i tiranni(), e
perchè non potrebbe tornare a rinverdire sopra le tue
sponde, che un dì gli furono come terra sua propria?
Nudrito di lacrime, innaffiato di sangue, il sacro alloro
spiegherà di nuovo i rami trionfali per l'aria purificata
senza temere tempesta di cielo. La rabbia dei venti non
cesserà di combatterlo; ma le fronde sbattute tale
manderanno un rumore pel mondo, che i Popoli, atterriti,
tremeranno che incominci l'agonìa del creato!
Oh! cresca l'albero divino, e possano i suoi rami circondare le
tempie dell'uomo, che vinca così gli amici come i nemici in
virtù; cresca, ma le sue fronde non s'intreccino più
mai intorno alla spada del conquistatore per cuoprirne la punta
mortale alla libertà dell'uomo.
Di rado gli occhi di Dio si voltano alla terra, contristati per la
nostra viltà; tuttavolta quando ei ve li piega essi
avvampano la creta, e ne fanno scintillare le anime di Cammillo e
di Scipione. O Signore! declina i tuoi occhi, e vedi se vi ha
vituperio uguale al vituperio nostro: suscita qui fra noi un'anima
grande, che senta vera gloria essere quella di considerarsi
particola della grande anima del mondo; un'anima buona, che sappia
lo ingegno essere splendore della eterna tua faccia, riflesso
nello intelletto umano per illuminare i giacenti nell'ombra della
morte; un'annima feroce, che insegni ai violenti forza essere
grazia dei cieli che solleva i caduti, e protegge i deboli. Una
sola guerra è santa; e voi, fronde imperiture dello alloro
divino, la vedrete: i destini vi serbano pel guerriero che
combatterà queste battaglie, e pel poeta che le
vestirà con la luce del canto. Noi, anime stanche, rose
dalle cure ed estenuate dal dolore, che cosa ormai possiamo dare
alla Patria? Augurii, e benedizioni: - gli ultimi fiori che
cascano dalla sponda del letto dei moribondi! - Pure non li
sdegnate... la benedizione di quelli che si soffermano su la porta
dello infinito per riguardare con amore i superstiti è cosa
santa, e porta buona ventura a cui la riceve devoto.
O Tevere! Tu vedesti un Popolo uscire dal fianco dell'aspro
figliuolo dello amore, allattato dalle mammelle di una lupa,
drizzarsi sul Campidoglio, e quinci, guardata intorno intorno la
terra, stenderci sopra la mano, e dire: «è
mia!» La Bolla imperatoria non fu simbolo di vanità
per l'Aquila Romana; ella strinse veramente nei suoi artigli di
ferro l'universo mondo.
Ma triste glorie furono coteste, e noi le abbiamo scontate. Vera
gloria era quella quando una generazione di scheletri prorompendo
fuori dalle antiche sepolture abbrancò con le nude ossa
pugni di terra romana, e se ne faceva un cuore; drappellava il
sudario di morte convertendolo in gonfalone di vita; chiamava
un'aquila messaggera dei nuovi messaggi, e San Giovanni le inviava
la sua, impaziente di percorrere di nuovo la terra con lo evangelo
dei Popoli; supplicava da Dio una spada, e Cristo le poneva nelle
mani la sua, che ha lama portentosa di luce. Oggimai sembrava che
la nuova fortuna di Roma avesse indirizzato il volo a sicuro
viaggio, perchè le sue parole suonavano:
«libertà - amore».
Ahimè! Il sole sul nascere si chiuse dentro ecclissi
infernale: da quel buio uscì un rumore, ed era della caduta
di Roma nel suo vetusto sepolcro; - uscì eziandio una voce,
che disse in suono di singulto: «anche tu, mia
sorella?»
E quando il sole tornò a illuminare la terra di una luce
squallida, fu vista tutta una generazione di redenti avviluppata
nella sua bandiera come Cesare nella sua toga, quando, percosso
dal proprio figliuolo, spirava l'anima sotto la statua di Pompeo.
Il vessillo della fede, cadendo, si era tinto nel sangue dei
martiri; la speranza, come colomba ferita, batteva le ale verso il
paradiso.
Invero portenti sono eglino questi contro l'ordine naturale delle
cose: chè Popoli rivendicati in libertà sieno scesi
a immolare un Popolo libero... a maledire l'eco della propria
voce; no, dopo il tradimento di Cristo redentore, la terra non
rimase spaventata da parricidio più truce.
E sia che la fiammella della fiaccola ardesse minacciosa e
stridente, doveva la Francia rovesciarla a terra, ed estinguerla?
Chi avrebbe mai creduto che l'atteggiamento della Francia in
Italia fosse quello, che gli scultori attribuiscono al Genio dei
sepolcri? Vedetela; ella ha precipitato nella sepoltura un Popolo
intero, l'ha chiuso con la lapide, e vi si è posta a sedere
sopra ridendo un riso da folle.
E quando l'aria prese a rombare dintorno d'uno stridore di penne
percosse, e torme di avvoltoi comparvero da occidente e da
oriente, la Francia levò le ciglia un poco in su, e disse
loro: «Uccelli di rapina dal becco acuto e dagli artigli
taglienti, io ho ferito questo Popolo di ferita fraterna: non
bastava togliergli il sangue, io l'ho privato della speranza: l'ho
ricinto di due catene, e l'ho ricacciato nella tomba: quando lo
lascerò ne suggellerò il coperchio co' sette sigilli
della Repubblica, come il libro dell'Apocalisse(). Così
confondendo cose, affetti, e sembianza di cose, il dubbio uccide
l'anima, e l'uomo perde non solo la potenza, ma perfino il
desiderio di vivere: andate, voi siete mal destri soffocatori di
Popoli».
Allora gli uccelli di rapina, ripiegando le ale verso le contrade
native, schiamazzavano per via:
«Gloria alla Francia soffocatrice sapientissima della
libertà dei Popoli!»
Bene stia. Intanto tu, o Francia, come la Scilla sicula, ti vai
fabbricando intorno alla vita una cintura di cani(). - Quando essi
rivolgeranno contro i tuoi fianchi i loro denti, tu urlerai con
immenso guaio: «aita! aita!»
Il mondo udrà cotesto grido, e si turerà le orecchie
esclamando:
«Non le badiamo; però che le parole di Francia sieno
vortici, dentro i quali scompariscono marinari e naviglio!»
In quel giorno un altro diluvio allagherà la terra, e
l'antico patto dell'alleanza sarà distrutto.
O Tevere! I sogni della gloria sono passati per me: il cuore
è sazio di passioni ardenti; egli non può più
desiderare, ed imprecare nemmeno: adesso egli si compiace a
fissare in faccia la morte. Quanti misteri di delitto stanno
nascosti entro i tuoi gorghi, o Tevere! A me fu concesso penetrare
là dentro, e interrogare le ombre che li traversano
incorporee, e non pertanto visibili, come lo spettro di Cleonice
la trafitta appariva a Pausania quando si affacciava su le
acque(). Io li guardo, e vedo attraversarli un'ombra grande, e
sento dietro gridarle:
«Gracco! Gracco!»
Quali passioni mossero lo infelice tribuno? Cupidità di
potenza, o vaghezza di fama, o impeto d'ira, o vendetta di
oltraggio patito? Tutto questo può darsi: ma la sua stirpe,
e il censo, e lo ingegno, che pronto gli aveva dato natura, lui
ponevano dalla parte degli oppressori, ed ei poteva, seduto al
convito della forza, bevere la desolazione del Popolo. I Patrizii
gli avevano detto:
«Scegli essere oppressore, o vittima».
Egli scelse la virtù, e lasciò loro il delitto().
Volontario si pose fra gli oppressi, e li difese con le parole e
col sangue, finchè giacque col cranio spezzato
dagl'implacabili Patrizii. Mani patrizie lo strascinarono per le
vie latine: Patrizii quelli, che, col pretesto di porlo in parte
dove non potesse più nuocere, lo gittarono trucidato fra i
tuoi gorghi, o Tevere.
Usurpare, e mantenere con la violenza e con la frode una potenza
che sono indegni di esercitare, e una sostanza che dovrebbe essere
a molti comune, formano il polo verso il quale si appuntano
perpetuamente i conati dei Patrizii. - Giano bifronte per essi
cessò di essere favola: se il pericolo dei privilegi mosse
dal Despota, ed eglino gli mostrarono faccia di Popolo; se dal
Popolo, ed eglino gli mostrarono faccia di Despota. Nè
furono contro i re Agide e Cleomene meno spietati ribelli, di
quello che contro Caio e Tiberio Gracchi fossero spietati tiranni.
Che cosa importa affaticarci ad indagare adesso se con violenza, o
con frode vincessero? Essi vinsero. Che cosa importa travagliarci
a scuoprire se vincessero con la propria virtù, o con
l'altrui? Essi vinsero, essi vinsero; e, temprato prima lo stile
nel fiele del proprio cuore, scrissero col sangue della vittima
una lunga calunnia, e la chiamarono storia, quasi consecrazione di
un capo scellerato agli Dei infernali.
Le fiere, quantunque incatenate, si lacerano; gli schiavi, in
difetto di spada, si percuotono con le catene che portano intorno
alle braccia: il padrone allo spettacolo di cotesti osceni strazii
sbadiglia, o ride; vivano o muoiano, oppressori ed oppressi,
traditori e traditi, gl'imprigionati dentro una casa e
gl'imprigionati dentro una città sono pari argomento di
ludibrio per lui. Perchè, quando strisciavano nella polvere
come serpi, a cui si rassomigliano per la insidiosa viltà,
non furono calpestati? Fu creduto, che l'aspide avesse posto in
oblìo il maligno talento di offendere alla sprovvista il
calcagno dell'uomo, e fu errore.
Piacquero la fama gentile, e i modi magnanimi; e la fama venne
conseguita, e i modi furono laudati, comecchè tardi. Si
volle provare se cortesia vincesse tristezza, e la prova fu fatta;
e sebbene costi cara, sarebbe fanciullesca cosa lamentarne adesso
la spesa. I Patrizii si mantennero quali gl'incise sul bronzo
della storia uno di loro, che se ne intendeva: «nella
prospera fortuna superbi, nell'avversa abiettissimi, infami
sempre»().
O sacro Tevere! Prima ch'io cessi di favellare con te, dimmi, chi
mai vedesti errare sopra le tue sponde in traccia del cadavere di
Tiberio Gracco? - Forse il Popolo, pel quale egli era morto? La
madre Cornelia venne sola a chiedere che tu le rendessi il suo
figliuolo.
Popolo! Popolo! Anima di sabbia dove un perpetuo amore scrive
senza posa, e dove la eterna ingratitudine del continuo cancella,
dov'eri allora che Cornelia errava muta lungo le tue rive in cerca
del trucidato figliuolo? sussurrante nelle taverne della vile
Suburra, fra le anfore di vino e i ceci fritti().
O cieco! e non ti sei accorto per mille prove come la farfalla
della Occasione non sia della famiglia di quelle, che si ostinano
a bruciarsi le ale dintorno ad un perfido fuoco? Ella passa, e va
via; ma tu, o Popolo, non pure lasci passar via la occasione, ma
strappi la fiaccola di mano all'uomo mandato da Dio per
illuminarti, e tu stesso gliene accendi il rogo dove l'odio, che
non perdona, lo condanna a morire. Il pentimento sopraggiunge a
passo zoppo, grinzoso in vista, con gli occhi ciechi dal piangere
dirotto come le preghiere di Omero(); però giunge sempre
infallibile... e quando arriva, a che giova? Le tue tarde lacrime,
o Popolo, hanno spento talvolta lo ultime faville della cenere del
martire; ma esso non possiedono la virtù di riaccendere la
fiamma nel corpo abbandonato dallo spirito.
E tu potesti un giorno, e forse ancora potresti, o Popolo,
raccogliere la polvere, che Gracco morendo gittò contro il
cielo, e crearne Mario(), l'uomo di ferro trucidatore dei
Patrizii; ma a Caio Mario subentra Caio Silla, l'uomo di acciaio
trucidatore del Popolo, e la Patria muore con le vene aperte dalla
empietà di tutti i suoi figli. Io pertanto levo gli occhi
al cielo, e domando: dunque?
Ahi! Esperienza, sapientissima stolta, perchè sopra la
siepe arida del passato vai tu cogliendo spine che ti pungono le
dita? Chi sostiene vivere per inebriarsi di vendetta, viva; i suoi
occhi vedranno quel giorno di sangue: chi poi dura, anima
ingannata, a soffrire la rea temperie, e la empia compagnia per
salutare l'alba della umana felicità, stringa la zona, e
parta: i cuori delle presenti generazioni non sono che possano
ospitarla.
*
* *
Da molti giorni le domestiche mura aspettano invano Giacomo
Cènci. Luisa, quantunque si sentisse sempre l'animo acceso
dalla passione, pure lo impeto della ira principiava a declinare
in lei: così cessato il vento continuano grossi marosi a
percuotere il lido minaccevoli in vista, ma senza pericolo dei
naviganti. La fierezza governava la gentildonna romana;
però, non ostante cotesta passione, male si adoperava a
imporre silenzio allo immenso affetto che sentiva pel suo marito.
Le parole perfidamente generose di Francesco Cènci, che la
buona moglie hassi con ogni supremo sforzo ad ingegnare per
ricondurre sul diritto tramite il forviato consorte, contro
l'aspettativa di lui le ritornavano alla mente come regole di
dovere, e come rimprovero; e poi ella considerava che di queste
due cose aveva ad essere per necessità accaduta l'una: o
Giacomo aveva deposto giù dal cuore ogni affetto per lei e
pei comuni figliuoli, o a Giacomo era incolto qualche grave
infortunio; nè una spina pungeva la donna meno dolorosa
dell'altra; e comecchè ambedue i successi non potessero
stare insieme, pure ambidue la trafiggevano, così lacerando
la maligna virtù della incertezza. - Per divertire, come
poteva, il suo dolore ella prendeva cura straordinaria dei figli;
poco si allontanava da loro; lo infante recavasi del continuo al
seno, e lo cuopriva con tale impeto di baci, che quegli se ne
spaventava e piangeva: ma troppo spesso le carezze dei più
adulti, i sorrisi, ed anche il pianto del pargolo la trovavano col
pensiero rivolto altrove, e talora eziandio, senza volerlo, le
lacrime le bagnavano le gote. Quantunque persistesse a credere
Angiolina prima radice del male che la travagliava, tuttavia,
così persuadendole la sua natura generosissima, non
rimetteva punto della sua carità verso di lei. Mentre
così di pensiero in pensiero si tribolava, certa sera
girò chetamente sopra gli arpioni la porta di casa, e allo
improvviso comparve Giacomo.
Non disse parola, non salutò; si assise alla
estremità d'una tavola di contro alla moglie, coprendosi la
faccia con ambe le mani. Noi già lo vedemmo squallido, e
male in arnese; e non pertanto adesso, oh come mutato da quello!
Barba e chioma scompigliate; lordo di fango il cappello; i panni
sordidi, e gli occhi infiammati nelle palpebre, e cenerini allo
intorno. Luisa si sentì a un punto spaventata, e commossa.
Siccome vediamo ordinariamente accadere che l'attenzione nostra,
sopraffatta dalla piena del dolore, si fissi sopra un oggetto
particolare, e si affligga per questo più che per motivi
generali, così ella, considerando le mani sordide e i
manichetti sozzi, sentì gonfiarlesi il cuore di un sospiro
angoscioso.
Tolse pertanto il fantolino e se lo pose al petto, con la
intenzione medesima con la quale il messaggero, là dove non
arriva il suono delle parole, mostra da lontano l'olivo, o
sventola un panno bianco in segno di pace. Tutto questo non valse
a richiamare l'attenzione di Giacomo; il quale reputandosi
tradito, piangeva, assorto cupamente, le speranze, la
felicità e la benevolenza perdute. Levandosi a un tratto,
squassandosi con le mani i capelli, esclamò con voce roca:
- A che sono venuto? Davvero, io non lo so. - Se si potessero
gittare via dal cuore gli affetti come il carico dalla nave per
iscampare dal naufragio!... ma se non se ne può far getto,
bene è concesso sradicare dal seno affetti, e cuore. Tutto
può tacere in un punto, e taccia. - Qui mosse per andare.
Luisa, con voce nè carezzevole, nè severa, disse:
- Il padre vorrà allontanarsi dai suoi figliuoli senza
averli baciati?
- Dove sono, e chi sono i miei figliuoli? Quale di questi
fanciulli farà testimonianza ch'egli nasce da me? Tutto si
fonda sopra la fede: vetro fragilissimo! Ora come mi affiderei
alla lingua della donna fraudolenta, di cui le parole sono lacci
tesi per condurre al vituperio, e alla morte?
Luisa non sapeva che cosa avesse a capire in cotesto discorso, e
se ne stava come trasecolata. Giacomo con ghigno amaro
soggiungeva:
- Comprendo bene che un uomo, quale mi sono io, incapace di
provvedere alla sussistenza della propria famiglia, ceppo sterile,
e roso dagl'insetti; che suda da tutti i pori la maledizione di
Dio... inutile, insomma, o funesto, deva ispirare disprezzo... e
comprendo ancora, e provo come il disprezzo uccida lo amore, e
generi l'odio. Ma perchè onestare con l'audacia il
misfatto? Perchè convenire la propria colpa in sasso, e
lapidarne lo innocente? Bastava, io credo, avermi preso a vile,
cuoprirmi di vergogna, senza spingermi perfidamente contra un
turbine di male parole, che a modo di polvere accecandomi gli
occhi, m'impedisse vedere il vostro delitto.
- Giacomo, a cui favellate voi?
- State tranquilla, io non sono venuto qua per maledirvi; ma solo
per dichiararvi che voi avete potuto gettare la disperazione
nell'anima mia, non già ingannarmi. Adesso le parole
bastano... - adesso, che si spandono come fumo di fiamma spenta...
tutto è detto fra noi... - e di nuovo faceva atto di
andare.
- Giacomo non partite; per la fede di gentiluomo onorato, non
partite. Quando le parole, come la nuvola che contiene il fulmine,
portano nella loro oscurità la distruzione della fama d'una
creatura di Dio... oh! allora è obbligo chiarirle. Credete
che sia vostro il segreto, quando mi avete fatto comprendere
ch'egli cela il mio vituperio?
- Mi pare che a voi non ispetti dire questo, perchè le mie
parole possono suonare oscure a tutti altri fuori che a voi.
Volete il commento al mio testo? Ebbene; eccovelo pronto. Donde vi
vennero queste masserizie? Chi provvide questa copia di robe al
vivere non che necessaria, superflua? - In questa casa, è
vero, io vi lasciai la miseria, e vi trovo l'abbondanza; ma io vi
lasciai ancora un'altra cosa, che vi ricerco invano, ed è
il mio onore. - Ora non hanno a procedere dal padre la
povertà, e la larghezza dei suoi? - Chi sono i castaldi che
hanno mietuto per voi? Dov'è il forziere donde prendeste la
moneta? Certo non erano del vostro marito. Come si chiama colui
che provvede ai bisogni vostri, e di queste creature? Dove si
nasconde il cortese, che prende cura di voi più che io
stesso? Perchè l'amico della mia famiglia teme di svelare
la sua faccia a me?
- Giacomo, per onor vostro, pensate che voi oltraggiate una madre
alla presenza dei suoi figliuoli...
- Ma essi che cosa sono mai se non che testimoni, i quali
v'incolpano peggio delle mie parole?
- Un parente vostro... e mio... mi sovvenne; io non posso
palesarvene il nome perchè mi sono vincolata a tacere. Io
mi sento donna da vedere i miei figliuoli piuttosto morti di fame,
che pasciuti di vergogna. Questi sospetti di viltà non mi
toccano, e vuo' che sappiate, o Giacomo, che io mi sento pura
quanto la madre vostra, che adesso è in paradiso.
- Ma e voi, contro la fede del vostro consorte che cosa potevate
allegare, ditemi, tranne la perfida calunnia di una persona che
nasconde il suo nome, e nonostante questo ricusaste credenza ai
miei giuramenti, e alle mie lacrime? Ora come volete, che io chini
la faccia alle nude affermazioni vostre? Anche a me furono porti
avvisi segreti, e non pochi, ma a questi io non dava ascolto; sto
ai fatti, che voi non negate, nè potreste negare. Ora io
non dirò con quale giustizia, ma senno pretendete voi, che
mentre ricusaste il giuramento del vostro signore e marito a
smentire parole calunniose, io deva accogliere il giuramento
vostro per giustificare fatti confessati ed evidenti?
- Giacomo... di quanto io vi rimproverava ho prove manifeste in
mano; prove delle quali dubitare è impossibile... i vostri
sospetti sono infamie... andate...
- Sta bene. Io non ho cuore, nè lena per garrire con voi. -
Dopo ciò, senza minaccia, ma orribilmente tranquillo, le si
accostò domandandole a voce sommessa: «Potrei io
sapere, come in articulo mortis, se fra questi vi è alcuno
che sia mio figlio?»
- Giacomo, voi avete parlato una stolta parola. Tutti sono figli
vostri...
- Sì, certo, così va detto. Pater est quem justae
nuptiae demonstrant; tale almeno dichiara lo jus civile, che fu
fabbricato proprio qui in Roma; e il pretore mi condannerebbe a
far loro le spese. Padre sono, ma per presunzione di diritto: -
padre sono, ma buono per darsi alle bestie. Gran danno che non
costumino più gli spettacoli dello anfiteatro Flavio! Non
importa; in ogni luogo occorrono travi, alberi, e pozzi, e fiumi.
- La sua voce si animava, e al pallore mortale sopra le sue guance
subentrava un vermiglio febbrile, e proseguiva:
- Potrei vendicarmi! Ma quando la vendetta ebbe mai virtù
di ridonare la perduta felicità? Misero, potrei rendervi
misera: - ecco tutto! Il mio cibo nella vita è stato
bastantemente amaro per farmi aborrire di tuffarlo per di
più nel sangue. No... no... io non voglio vendicarmi...
anzi dal cammino della vostra vita io mi torrò come un
tronco, impedimento a cui passa... e voi proseguirete dove il
cuore vi chiama. Non vi prego a rammentarmi perchè non me
ne importa, e voi nol fareste; neppure v'invito ad obliarmi
perchè me ne importa anche meno, e questo farete molto bene
da voi. Doglia di morto dura finchè non si asciugano le
lacrime, e queste si asciugano presto; - e pei mariti di rado si
piange. Ma io ho amato queste creature, le ho credute parte di me,
e doverle staccare adesso dalla mia affezione mi pesa... ve le
raccomando, donna Luisa... se non posso considerarle nate da me,
ricordatevi che sono nate da voi. - Certo in questa ora suprema mi
sarebbe tornato di conforto grande accostare le labbra sopra una
fronte, che fosse sangue mio. Le mie lacrime ormai non saranno
piante più per nessuno; torneranno indietro a piangermi sul
cuore... amare... gravi... ma brevi. Addio; vi desidero che gli
anni vi passino senza rimorsi, e un nuovo marito degno della
vostra fedeltà...
Luisa non aveva osato inacerbire la esaltazione di Giacomo con
parole di contrasto, e di rampogna. Ora vedendo come gli
s'infiochisse la voce, e quasi gli diventasse piangente,
- O figli... abbracciatelo... fategli sentire s'egli è
vostro padre, disse affannosa accennando ai fanciulli...
I fanciulli, obbedienti alla parola materna, si mossero ad un
tratto; e quale attaccandosi ai lembi della veste faceva prova di
attirarlo verso la madre, quale gli stringeva le ginocchia, e
quale s'ingegnava salire sopra una seggiola per poterlo
abbracciare al collo. Giacomo, ridivenuto tranquillo, si sciolse
da loro esclamando:
- Riparate al seno di vostra madre. Infelici! Non sapete che i
Cènci avvelenano col fiato?... Addio... e addio per sempre.
E sparì. Il suono dei suoi passi s'intese precipitoso
giù per le scale. Luisa si slanciò al balcone, e con
la sua voce più lamentosa esclamò:
- Giacomo! Giacomo!
E lo ripetè più volte; ma Giacomo fugge in
balìa della feroce passione che lo trasporta. Allora nella
egregia donna l'amore vinse ogni risentimento, e, gittatasi
addosso una mantiglia, proruppe fuori di casa in traccia del suo
consorte. Ella aveva percorso diverse strade, quando tra per la
fatica, tra per lo affanno sentendosi venire manco la lena, le fu
forza sostare, e assidersi sopra il muricciòlo di un
palazzo. Guardandosi poi attentamente dintorno conosce cotesta
essere la dimora di monsignore Guido Guerra: levò gli occhi
in su, e vide lume. Sapendo cotesto prelato familiare di casa
Cènci, e di Giacomo intrinsecissimo, parve a lei che la
Provvidenza l'avesse quasi per mano condotta colà; onde
fattasi coraggio salì le scale, e, tenuto dietro allo
staffiere, senza aspettare che l'annunziasse, penetrò nella
stanza, e rinvenne Monsignore in compagnia di due uomini, uno dei
quali le giunse noto, comecchè in quel subito non
ricordasse in qual parte lo avesse incontrato: esitò un
momento; ma poi, sospinta da smaniosa angoscia:
- O Monsignore, disse, voi che per bontà vostra portate
amicizia a Giacomo mio marito, deh! per amore di Cristo, mandate
gente a cercarlo per Roma, però ch'egli siasi partito da
casa tutto infellonito, ed ahimè! dubito con sinistre
intenzioni.
- Contro cui, donna Luisa?
- Contro se stesso; e temo forte, ch'egli abbia preso la volta del
Tevere.
- Misericordia! Su, Marzio, andiamo; voi, con parte dei miei
staffieri, a manca; io, con l'altra parte, a destra del fiume.
Olimpio, voi accompagnate donna Luisa.
Omesso ogni saluto, Guido, Marzio e gli staffieri si precipitano
fuori di casa in traccia di Giacomo. Donna Luisa, andando a
braccio con Olimpio, così prese a favellare:
- Il vostro volto non mi comparisce nuovo: ma, Santa Vergine!
così ho sconturbato il cervello, che la memoria non mi
regge... Ah! sì... me ne risovviene adesso... voi vi
trovaste allo incendio della casa del falegname di Ripetta.
- Io?
- Sì, ed eravate di quelli che si affaticavano a sovvenire
i desolati.
- Io non feci nulla, altro che male. A voi, egregia donna, tutto
il merito... Voi siete una santa: viva la vostra faccia. Se la mia
domanda non fosse indiscreta, ci sarebbe da sapere perchè
vi mostraste travestita da uomo in quella maledetta notte?
Perchè vi metteste a quel disperato cimento?
- Ve lo dirò mentre andiamo. La donna, che salvai, mi ha
trafitto il cuore; ella ha ricoperto di lutto la mia famiglia,
certo non lieta nemmeno prima, ma neppure desolata: che dove regna
amore non si allontana mai la speranza. Quello, che Dio ha
ordinato all'uomo di non separare, la sua mano ha diviso per
sempre: insomma, ella mi ha rapito lo sposo... ed in cotesta notte
mi aggirava per là, con la intenzione del lupo intorno alle
stalle... voleva bevere il suo sangue, e mi pareva che questo solo
potesse bastare a spegnere la mia rabbia. Mi percossero gridi
disperati... comparve la donna col figliuolo al balcone; - non
vidi più la esosa rivale, vidi la madre... pensai ai miei
figliuoli, e mi precipitai per salvarla, però che Cristo mi
favellasse dentro al cuore, e mi dicesse: perdona!
Olimpio udendo parlare donna Luisa ardeva, e agghiacciava. Si
fruga con la mente dentro nell'anima per vedere se ci fosse luogo
da deporvi una speranza di misericordia, e gli parve di no. Allora
gemè dal profondo del cuore: così ricadono sul
prigioniero le catene con romore disperato dopo i supremi sforzi
per romperle. Nondimeno, siccome accanto alla fiamma della
carità non vi ha cuore, comunque di selce, che non si
riscaldi, Olimpio suo malgrado si sentiva commosso.
- Se io, incominciò a dire, se io potessi sperare che
l'assoluzione mi salvasse, a nessuno io vorrei confessare i miei
peccati tranne a voi, venerata Signora, e tra Dio, e me non
desidererei mettere migliore mediatore di voi. Ma il libro della
mia vita ho così empito di delitti, che l'Angiolo Custode
non vi troverebbe più tanto di bianco da scrivervi sopra la
parola misericordia con la più fina delle penne delle sue
ali. Pazienza! E nonostante questo io mi confesserò,
perchè se la mia confessione non può giovare a me
gioverà a voi, e quindi io ve la faccio. Sapete voi chi
incendiò cotesta casa? Io...
- Voi!
- Sapete chi portò al nobile vostro consorte la lettera
perfidamente calunniosa, che forse lo ha tratto in furore? Io. -
Sapete chi tutto questo ha immaginato perchè voi, e vostro
marito vi odiaste? - Il conte Francesco Cènci. Egli si
fregava tutto allegro le mani, e disse: è più facile
che una rupe spaccata dal fulmine si riunisca, che la mia nuora
torni ad amare Giacomo. Ho seminato l'odio, raccoglieranno la
desolazione.
Donna Luisa si scioglie impetuosa dal braccio di Olimpio, e corre
veloce così, che avrebbe vinto nella fuga il cervo: giunge
a casa, irrompe nella stanza ove giaceva sempre inferma la povera
Angiolina, e approssimatasi al suo letto palpitante e affannosa,
la interroga:
- Donna, per quanto amore porti al tuo Dio, guarda di non mentire.
Conosci tu il Conte Cènci?
Angiolina, spaventata dalla costei vista, e non la ravvisando per
gli abiti mutati, come quella che sempre l'era comparsa davanti in
veste maschile, risponde:
- Chi siete voi? Che cosa volete da me?
- Io non rispondo, interrogo, soggiunse imperiosamente donna Luisa
- dimmi se tu conosci il Conte Cènci?
- Ma voi... sareste forse sorella del mio benefattore?
- Che t'importa cotesto? - esclama donna Luisa, percuotendo
impaziente di un piede la terra; - o uomo, o donna, o demonio, non
cercare da cui ti venga la vita. Rispondi... rispondi; - e
ripercuoteva co' piedi il pavimento.
Angiolina, come sotto la pressione di un sogno tormentoso, diceva:
- Sì, lo conosco...
Lo conosci, eh! sciagurata, e questo è il figliuolo dei
vostri amori? E sì discorrendo caccia le mani nei capelli
del fanciullino, che sentendosi far male si mette a guaire...
- Lasciatemelo stare... in che cosa cotesta povera creatura vi ha
offeso?
E, come a proteggerlo, ella si spendolava fuori del letto.
- Questo è figlio del peccato, e tu lo hai avuto dal
Cènci...
- Dal Cènci? Signora, prosegue Angiolina prorompendo in
pianto; conviene egli alle gentildonne straziare così la
fama di una povera inferma? Io, sì, conosco un vecchio
barone, che ha nome conte don Francesco Cènci; fu egli che
beneficò il mio defunto marito, e questi mi condusse certa
volta a ringraziarlo; egli volle donarmi danari, che io a male in
cuore accettai, perchè, malgrado i suoi capelli bianchi e
le parole benigne, qualche cosa gli traluceva negli occhi, che
metteva spavento: da una volta in su io non l'ho più visto.
- Non di lui... non di lui ti domando, ma del suo figlio don
Giacomo.
- Mi parve udire, che don Francesco avesse figliuoli; ma io non li
vidi mai, nè so come si chiamino; - e questa risposta ella
dette con tale una ingenua tranquillità, che le avrebbe
creduto lo stesso apostolo del dubbio, San Tommaso.
- Non lo vedesti mai? Ne ignori il nome? Giuralo pel tuo Dio;
giuralo per la tua anima, e coscienza... giuralo per questo
Gesù redentore, che, dove tu spergiurassi, sappi che
sconficcherebbe le mani di croce per maledirti in eterno.
E staccato un Crocifisso dal capo del letto, glielo poneva dinanzi
agli occhi. Angiolina lo prese, lo baciò devotamente, poi
glielo rese con atto pieno di dolcezza, chiedendole:
- Siete voi madre, Signora?
- E se non fossi madre avrei avuto cuore di avventarmi nelle
fiamme per salvare te, e il tuo figliuolo?
- Voi? E vi chiamate?
- Donna Luisa...
- Moglie?
- Di Giacomo Cènci.
- Ah! Signora; comunque io sia femmina di scarso intelletto, pure
comprendo che lingue malvage hanno ad avere messo scandalo di me.
Ora uditemi. Santo è il nome di Dio, santo è quello
del Redentore, sacre cose sono la coscienza e l'anima; ma io non
giurerò per queste. - E messa la mano sul petto del caro
pargolo, che le giaceva in culla accanto al letto, proseguiva
così: - se io vi ho favellato parole di menzogna possa...
in questo momento cessare di palpitare sotto la mia mano questo
cuore del mio cuore...
Luisa, come donna tratta fuori di se,
- Ti credo... oh! ti credo, esclamava; e piegandosi sopra
Angiolina, le prese con ambe le mani la testa, la baciò pei
capelli, per la faccia, pel seno, senza avvertire punto come
coteste scosse lei, non bene risanata, addolorassero. Angiolina,
per istinto di virtù gentile, frenava appena i lamenti di
angoscia che le cagionavano coteste procellose carezze.
*
* *
Anche del cervello si conosce la carta topografica. Gall e
Spurzheim vi hanno tracciato sopra le strade maestre, le
provinciali, e quelle di sbiado; anzi perfino i viottoli, onde non
si smarrisca chiunque abbia vaghezza di viaggiarlo per lungo e per
largo. Venite qua, lettore; considerate questo cranio segnato:
gittate l'occhio sopra l'ordine delle facoltà affettive,
genere primo; alla lettera B troverete lo amore della vita,
cioè subito dopo la lettera A che distingue la
cupidità del cibo. Da questo esame ne scendono due
conseguenze, la prima delle quali ha che fare col mio racconto, la
seconda no. E la prima è, che l'uomo possiede le
facoltà principali perfettamente pari a quelle dello
avvoltoio; divora per vivere: alcuni hanno sostenuto ch'egli vive
per divorare, ma non è del tutto vero. L'altra poi, che ci
vuole più coraggio a non mangiare che a morire, è
maggiore violenza alla natura. Giacomo da più giorni non
gustava alcuno alimento, e lo istinto della vita così
taceva in lui, che lo aveva preso irresistibile il desiderio della
morte.
Quando ciò avviene, occhio di donna non guardò mai
così dolce come il foro del teschio, nè labbra di
ranuncolo sorrisero così voluttuose come le scarne
mascelle. Quelli, nei quali dura lo istinto della vita, reputano
acerbo il fato di coloro che si dettero la morte; mentre se questi
potessero continuare ad appassionarsi per cosa terrena,
sentirebbero immensa pietà per coloro che sono vivi.
Rovesciato l'appetito delle cose, tutto quanto piace a cui vive
rincresce ai consacrati alla morte: tutti i motivi che i primi
trovano per restare, i secondi li trovano per partire: niente
è mutato nell'ordine delle funzioni organiche; soltanto
l'ago della bussola ha mutato polo: il sentimento si affaccenda a
mandar fuori della esistenza desiderii ed affetti, come chi muta
casa sgombra le sue masserizie; e quando il letto è in casa
nuova, e il riposo delle lunghe tribolazioni nella fossa, noi ci
andiamo con voluttuoso conforto a dormire.
Giacomo Cènci, quietato il primo impeto che gli fece
abbandonare con tanta passione la famiglia, prese a camminare
lento perchè egli fosse venuto nel proponimento di
distruggersi non mica per impeto, sibbene per discorso
d'intelletto, e quasi sommando le ragioni del vivere e del morire.
Importa conoscere come Giacomo pervenisse alla medesima
conseguenza per una via diversa da quella di Beatrice.
- Quantunque, ei discorreva fra se, io abbia fatto mille volte
questo conto, pure, adesso che mi avvicino al momento di saldarlo,
ripassiamolo per vedere se torna. L'uomo ha da considerarsi in tre
maniere: riguardo al suo Creatore, riguardo alla città, e
riguardo alla famiglia. Incomincio dalla famiglia, e in questa
parte la ricerca ha da farsi così - per la famiglia
propria, e per la famiglia dei parenti. In quanto a me la famiglia
dei congiunti si riduce alla paterna, imperciocchè in
quanto agli altri poco curano me, ed io niente loro. Ora è
chiaro che mio padre mi odia con tutti i sentimenti dell'anima e
del corpo, ed io per necessità mi trovo condotto a dargli
frutto corrispondente al seme. Posto che le cose rimanessero a
questo punto... oh quanto è incomportabile affanno dovere
odiare il proprio genitore! Ma qui non si fermano: egli mi
perseguita, m'infama, e mi travolge nella disperazione della
miseria. Se la mia anima si accomodasse a questo carico, un giorno
mi avverrebbe di contrastare ai cani le immondezze che gettano per
le strade, o morire di fame sotto il portico di una chiesa. Se,
all'opposto, l'anima deliberasse sferzare il destino, ecco mi
trovo attraverso la strada la vita di mio padre, io la calpesto, e
passo; che cosa mi aspetta dall'altra parte? Forse il patibolo,
certo il rimorso, e la eterna dannazione. Luisa ha inchiodato il
mio nome su la gogna, e vivere e soffrire sarebbe un prestare la
marca del mio casato ai figliuoli che non nascono da me. Bel
mestiere, per dio! I fanciulli m'inseguirebbero con gl'improperii
per le vie; gli adulti mi tentennerebbero il capo dietro come a
miserabile ribaldo. Potrei vendicarmi; - sì, alzare la mia
vergogna come un gonfalone perchè possano vederla anche i
più lontani. I tempi non somministrano campo ad atti
generosi, nè a studii onesti. La Inquisizione aborre gente
che sappia; ella vuole gente che creda: or via, da bravo; consuma
qualche rubbio di grano; divora qualche quarto di bove; per uno
che sei popola il mondo di quattro, o cinque, od otto infelici;
accendi parecchi moccoli ai santi, recita alcune dozzine di
rosarii, e muori. Ma no... ti si apre il cammino per farti degno
di fama; con che? Con le armi forse? Ingiuria partorisce ingiuria;
la maladizione scrive, e la vendetta legge. Con gli studii? Oh!
questa è una via, che dalla ignoranza conduce diritto allo
errore. Se ti mantieni ignorante, e tu cammini pel buio; se ti
erudisci, l'anima si circonda col cilizio del dubbio. E poi, che
cosa avvertirà i posteri del tuo sentiero nella vita? La
lapide finchè le grappe la terranno su per la parete, o
finchè i piedi non l'avranno logorata sul pavimento della
chiesa. E ai posteri che cosa importerà di te? Importa a te
dei tuoi avi? Non li conosci. Pei tempi che corrono, però,
tu puoi scegliere tra la stupidità e la ferocia: - e se io
non volessi essere stupido, nè feroce? Se io gitterò
via questa vita, che mi tribola, Dio mi condannerà?
Perchè?... Egli mi aveva concessa una tazza colma di
esistenza, e grazie gli sieno; parte ne ho bevuta, e parte io
rovescio a terra - facendone libazione agli Dei. La vittima quanto
più cara, tanto più riesce gradita nell'alto; ora,
che cosa a noi può essere più caro di noi stessi? -
Così fantasticando egli giunse alle sponde del Tevere.
*
* *
Il mormorio delle acque, per l'uomo che sta in procinto di
annegarsi, percuote i sensi sublimati dalla morte imminente;
vario, distinto, moltiplice a guisa degli effluvii che si spandono
dalla famiglia infinita dei fiori. Su la cima delle onde gli si
affacciano forme aeree che guizzano, scivolano, si tuffano,
tornano a galla, si baciano abbracciandosi, o prendendosi per mano
menano balli voluttuosi; - accolte nel cavo delle mani le chiare
acque, gliele spruzzano in volto invitandolo con sorrisi e con
cenni. È questa illusione di mente inferma, o gli elementi
vanno abitati da spiriti misteriosi, che camminandoci al fianco ci
sussurrano alle orecchie le buone, o le cattive determinazioni?
Omero ci rappresenta dee e numi, invisibili consiglieri degli
eroi. A Socrate sapientissimo pareva sentirsi un demone nel seno.
Nelle sacre carte occorrono e pitonesse, e larve, e genii
malefici, e angioli amorosi. Il Tasso porgeva ascolto al suo genio
familiare. Sacrobosco insegnò le sfere sotto la luna andare
popolate di spiriti, e Cecco di Ascoli, ai tempi dell'Alighieri,
propagò siffatta dottrina. Milton favella di voci arcane,
che si odono fra il cielo e la terra; al fato e ai genii
prestarono fede Mozart, Napoleone, Byron ed altri infiniti,
così antichi come moderni. Nella Irlanda, paese cattolico
per eccellenza, non vi ha famiglia che non possieda una Bauskie, o
spirito, di cui lo ufficio si assomiglia a quello della Nonna
sanguinosa, e di Meleusina. Meleusina era una larva, che compariva
sopra i torrioni del castello dei Lusignano, quando alcuno di
cotesta casata doveva morire. Follìe! - Io non vi
parlerò dei Mesmerismo, dello Illuminismo, e di altre cose
siffatte, alle quali i nostri padri, dopo Voltaire e la
Enciclopedia, posero piena credenza. Vi narrerò la cena di
Cazotte, attestata da testimoni gravissimi. La rivoluzione di
Francia si approssimava, e gli uomini destinati a sostenere in
quella una parte distinta raccolti a mensa parlavano del regno
della ragione, e della felicità universale. Cazotte torbido
taceva. Interrogato circa alla causa della sua mestizia, rispose:
«con gli occhi della mente prevedere orribili fatti»;
e siccome il marchese di Còndorcet lo scherniva, egli gli
disse: «voi, Còndorcet, vi avvelenerete per sottrarvi
al carnefice». Scoppiano risa, e gridi giocondi. Cazotte
continuando predice a Chamfort, che si taglierebbe le vene; a
Bailly, a Malesherbes, a Boucher, che morirebbero sul patibolo. -
Ma almeno saranno risparmiate le donne? - esclamò
allegramente la duchessa di Grammont. «Le donne? Voi,
signora, e bene altre dame con voi saranno condotte alla piazza
della Giustizia con le mani legate dietro il dorso». - Per
modo che voi non mi lasciate nemmeno il conforto di un confessore?
- «Confessore! L'ultimo condannato che lo avrà,
sarà - e dopo avere esitato un momento - sarà il Re
di Francia». I convitati compresi da terrore si levarono; e,
quasi per provocare presagi meno tristi, a lui, in procinto di
partire, domandò la duchessa: - E a voi, profeta, qual
destino riserbano i cieli? - Piegò la testa, e, meditato
alquanto, rispose: «Nello assedio di Gerusalemme un uomo per
sette giorni di seguito fece il giro delle mura gridando con voce
di terrore: sventura a Gerusalemme, sventura! Il settimo giorno
gridò: sventura a me! E al punto stesso un sasso enorme
briccolato dalle baliste romane lo colse, e lo
stritolò». Ciò detto salutava, e partiva; e
come disse avvenne().
Non vi basta? Ebbene; eccovi uno esempio di caso recentissimo,
accaduto durante la mia prigionia. Nel 17 maggio 1850 il Giornale
dei Dibattimenti, dopo avere narrato che una larva bianca
compariva alla casa degli Hohenzollen quando stava per succedere a
qualche membro di cotesta famiglia alcuna sventura, assicurava
correre voce, che nella notte del 10 aprile 1850 la dama bianca
era comparsa nel castello di Berlino. La sentinella del reggimento
imperatore Alessandro dei Granatieri gridò tre volte:
«chi viva?» Non ottenendo risposta, insegue il
fantasma con l'arme di contro al muro, dove ella sparisce. Nel 22
maggio successivo Sefeloge trasse una pistolettata al re Federigo
Guglielmo mentre stava per partire alla volta di Posdam!()
La ragione condanna simili fantasticherìe; - ma se la
ragione condanna, la coscienza approva; e la ragione in
balìa del sentimento è straccio di carta legato al
piè di una rondine.
Inoltre, la ragione veramente condanna? Considerando la natura noi
vediamo com'essa proceda non già per via di salti, ma
gradatamente nelle sue creazioni: dai minerali, materia passiva e
sterile, noi passiamo alle piante dove incontriamo un moto, una
serie di sensazioni, una riproduzione, un palpito insomma di vita:
poi ci occorrono le conchiglie e i coralli, e stiamo incerti se
devansi annoverare nel regno animale, o vegetale: ancora, la
transizione da specie a specie tra gli animali si opera per via di
anelli intermedii; così l'anello mezzano, che unisce i
volatili agli animali terrestri, viene rappresentato dallo
struzzo; tra gli animali terrestri e gli acquatici si pongono gli
anfibii; le scimmie stanno a cavallo sopra i confini della bestia,
e dell'uomo. Ora se così apparisce graduato il passaggio
negli enti rammentati, come avremo a supporre noi che rimanga
vuota la immensa lacuna che passa fra gli uomini e le sostanze
divine? Perchè le medesime sostanze divine non crederemmo
varie fra loro? Dio non è diverso dagli Angioli? Gli
Angioli non serbano tra essi gradi, e preminenze distinte? Le
apparizioni possono nascere dalla nostra fantasia; tuttavolta la
fede diversa professata senza interrompimento per tanti secoli da
uomini di varia religione, di varia civiltà, e di vario
intelletto, merita pure richiamare il pensiero dei filosofi. Se mi
domandi: Quando avrai pensato, che cosa ti verrà fatto
concludere? Io rispondo, che questa è un'altra cosa. La
scienza è fuoco, l'anima farfalla, e la cenere troppo
spesso il frutto dei pensamenti umani...
*
* *
Giacomo Cènci, curvo il petto e le spalle, intendendo
fissamente gli occhi nel Tevere, vide, o gli parve vedere emergere
dal profondo una forma leggiadra di donna, naiade, ondina, o ninfa
delle acque, e apparire vaga, indeterminata come la nostra
immagine quando ci affacciamo per l'acqua commossa, e
avvicinandosi a mano a mano farsi distinta(). Aveva le chiome
cerulee stese giù per le guance e pel seno, stillanti gocce
lucide dell'iride che scaturisce dalle gemme; la faccia del colore
di perla, dai suoi occhi verde mare balenano sguardi i quali si
appuntano dolorosamente negli sguardi del Cènci per modo,
che gli pareva glieli abbacinassero; ma non sapeva staccarsene,
sollecitandolo acuto una voluttà acerba, uno spasimo soave.
Dalle labbra di corallo, mobili quanto i suoi occhi stavano fissi,
usciva un suono che si diffondeva dolce su le acque, quasi note di
armonica; - suono che Ulisse non seppe vincere altrimenti che
turandosi gli orecchi con la cera.
- Benvenuto, ella mormorava, benvenuto l'amico segreto del mio
cuore; vieni, io sono fresca, e tempero l'arsura nelle membra
febbrili; vieni, io ti darò a bere l'acqua gelida, che non
si attinge a fontane terrestri; - l'acqua di Lete, che procura
l'oblìo. Se vorrai dormire io ti apparecchierò in
questi miei umori un letto di aliche molle così, da
infondere sonno nei corpi che non conoscono più riposo; -
qui nel profondo tu albergherai in palazzi di carbonchio
incrostati di zaffiri; sotto la volta delle acque non morde aura
ghiacciata di verno, non affanna l'ardente Sirio; quaggiù
viviamo dilettate porgendo le orecchie allo arcano mormorio che
muove dalle cose, le quali si formano e si disformano
perpetuamente nelle viscere del mondo. Noi, se ti piace, o
diletto, spazieremo seduti sopra la schiena dei delfini per la
superficie delle acque, o inseguiremo negli antri profondi i pesci
che fuggono, e gli altri che si difendono combattendo con la
spada, o con la sega; - io t'insegnerò a radere con la
punta estrema dei piedi il fiore dell'onda, e a palpitare di
voluttà con le acque quando i raggi della luna penetrano
loro nelle viscere, e l'agitano con tremito di fosforo. Io mi
accosto a te, tu accostati a me. - Scortese! Io, vedi, ti tendo le
braccia; a me contesero i fati oltrepassare il confino delle onde:
qui ti aspetto; - qui c'incontreremo; - e qui ti bacerò.
Il destinato allora sente un brivido nelle ossa; i piedi gli
diventano piuma, e il capo piombo; cerca anelante le labbra della
ondina, fende l'aria, tocca l'acqua, e la bacia. La ondina in quel
punto solleva le braccia grondanti, lo avviluppa, e lo cuopre nel
suo abbracciamento.
Il giorno appresso sopra la sponda desolata, fra un canneto, per
la sabbia s'incontra un cadavere gonfio, pieno di arena i capelli,
gli occhi e la bocca: la sua pelle mostra i colori delle erbe
marine: gli occhi, comunque spenti, pare che cerchino sempre
qualche cosa, nè mai si giunge a farglieli stare chiusi: -
egli sembra morto di piacere... veramente il bacio della ondina
gli ha dato la morte. -
Ma Giacomo Cènci sul punto di spiccare il salto fatale era
tenuto forte da due mani sul parapetto, ed una voce nota lo
chiamò:
- Forsennato! che fate voi?
Giacomo attonito levò un momento il capo, e poi lo
ripiegò verso il Tevere. Ogni canto era cessato; le voci
tacquero, la bella faccia della ondina disparve. Allora la sua
anima, spinta fino allo estremo limite dello infinito,
stornò aborrente agli uffici consueti della vita, e vide, o
conobbe l'amico Guido Guerra.
- Oh! Guido...
- Sciagurato! - Tra commiserando, e rimproverando proseguiva
monsignore Guerra; e i vostri figliuoli?
Giacomo scosse le spalle, e non rispose verbo; lasciò
condursi rifinito di forze come uomo senza volontà; solo
quando si accorse mettere il piede sopra la soglia di casa sua,
volto a monsignore Guerra gli favellò:
- Amico, se voi credete che io debba ringraziarvi, v'ingannate. A
questa ora, voi non impedendo, io aveva letto il laus Deo della
vita, chiuso il libro, e conosciuto com'era andata a finire: non
bene, per dio, non bene; ma siccome potrebbe andare a concludere
anche peggio, così mi contentava. A rischio di passare per
ingrato, no, io non vi ringrazio.
Nello entrare in casa gli si presentò una vista assai
strana.
«Temistocle, narra Plutarco, vedendosi perseguitato dagli
Ateniesi e dai Lacedemoni, si gittò in seno a speranze
dubbiose e difficili rifuggendosi ad Admeto re dei Molossi, dal
quale era avuto in odio per certa repulsa superba fatta alle
istanze di lui mentr'egli teneva la suprema magistratura in Atene.
Pure Temistocle, temendo adesso più la nuova invidia dei
suoi nemici che lo antico sdegno del re, determinò
implorarne l'aita con modo singolare; imperciocchè presone
il pargoletto figliuolo nelle braccia, si prostese supplicando
davanti l'ara domestica; la quale maniera di pregare si reputava
presso i Molossi solenne, e la sola che non potesse
rifiutarsi»().
Così un uomo di sembianza sinistra, membruto a modo
dell'Ercole Farnese, tenendo nelle braccia il minore dei figliuoli
di Giacomo Cènci, verso di questo lo sporgeva
supplichevole.
Cotesta squisitezza di affetto era facile che si dimostrasse da
donna Luisa amante, e madre; ma come fosse caduta nell'animo ad
Olimpio, natura tristamente salvatica davvero, non si saprebbe
immaginare. Talora le api posero il favo del mele nella gola della
fiera; ma ella è cosa tanto straordinaria, che Sansone ne
fece argomento di enimma pei Filistei().
Ma il partito giovò ad Olimpio; che tenendo il fanciullo
come il corno dell'altare, confessò pianamente a Giacomo
tutte le sue colpe commesse per ordine del Conte Cènci al
fine di distruggergli la pace domestica. Intanto il pargolo
sollevava di tratto in tratto le sue manine, e tutto vezzoso
rideva, sicchè Giacomo non seppe sdegnarsi contro Olimpio;
il quale, colto il destro, posto nelle braccia del padre il
fantolino, soggiunse:
- Ora, poichè col figlio vi ho portato la pace, in grazia
di questa innocente creatura, che per me intercede, io vi
supplico, signore, che mi vogliate perdonare.
Giacomo tacque, e girò gli occhi attorno torbido sempre, e
sospettoso; se non che Luisa, indovinando quel muto linguaggio,
trasse da parte Olimpio; e postasi genuflessa davanti al marito,
così gli disse:
- Mio sposo, e signore; noi abbiamo scambievolmente dubitato della
nostra fede. A me valga per iscusa considerare che dalla perfida
lingua del serpente non seppe guardarsi neppure Eva, la quale,
come uscita dalle mani stesse del Creatore, deve supporsi che
fosse composta con perfezione maggiore di noi. Avendo conosciuto
lo scellerato fine a cui mirava Francesco Cènci, e
considerando gl'ipocriti non meno che tristi argomenti posti in
opera da lui, io mi credo sciolta da ogni promessa giurata, e vi
faccio manifesto come, mossa dalla disperazione, io me ne andassi
dal suocero, gli esponessi lo stato della nostra famiglia, e lo
supplicassi a soccorrere i miei figli desolati, che pure erano suo
sangue. Di padre amoroso le parole furono e gli atti: a me,
credula per passione, narrò una lunga storia dei vostri
amori, e di danari profusi in lascivie, e negati ai figli, e mi
sovvenne benignamente di trecento scudi, a patto che non vi
palesassi da cui mi venissero: così, con perfido consiglio,
a me dava ad intendere voi perduto dietro adultera pratica; a voi,
che io a prezzo di vergogna procurassi agiato vivere a me, e ai
nostri figli...
La donna con tanta veemenza, e prestezza aveva favellato fino a
questo punto, che Giacomo non la potè interrompere. Qui
però le troncava la voce dicendo:
- Cotesta posizione male conviene alla moglie di Giacomo
Cènci. S'ella meritasse che il suo marito la rilevasse da
terra, egli non le potrebbe dire: Luisa, il tuo posto è qui
sul cuore del tuo Giacomo, che ti ha amata, e che ti ama tanto...
Si abbracciarono, e piansero lacrime di tenerezza. Lasciamo che
sgorghino copiose, e soavi; forse chi sa se la fortuna
appresterà più loro la occasione di versarne di
piacere.
I figli, comunque fanciulletti si fossero, che il maggiore non
arrivava ai sette anni, piangevano anch'essi di allegrezza, ed
esultavano aggruppati in atti dolcissimi quali intorno al padre, e
quali intorno alla madre. Monsignor Guerra e Marzio, quantunque li
premesse urgente il bisogno di mandare ad esecuzione certo loro
disegno, non ardivano turbare la santità degli affetti
domestici. Olimpio, postosi a sedere in terra con le spalle
appoggiate alla parete, quasi di soppiatto erasi di nuovo
impadronito del fanciullino, e, ora sollevandolo ora abbassandolo,
lo faceva ridere.
Davvero egli era oltre ogni credere vezzoso: rassomigliava al
bambino Gesù dipinto dallo Albano, che dorme sopra una
croce; e il figliuolo di Giacomo Cènci rendeva la pittura
dello Albano anche per un altro motivo, imperciocchè la
fortuna lo stendesse appena nato sopra una croce senza fine amara,
come conosceranno coloro che vorranno proseguire la lettura di
questa storia dolente.
Il bandito considerando cotesta fronte purissima richiamava invano
col desiderio i giorni nei quali, egli fanciullo, forse
destò nell'anima di cui lo guardava un simile affetto. -
Quando glielo tolsero per rimetterlo nella culla gli parve
sentirsi uscire di mano la ultima tavola, sopra la quale aveva
confidato salvarsi dal naufragio.
CAPITOLO XVIII.
ROMA.
Or di tante grandezze appena resta
Viva la rimembranza; e mentre insulta
Al valor morto, alla virtù sepulta,
Te barbaro rigor preme, e calpesta.
Testi, A Roma
Giacomo Cènci convitato a mensa da monsignore Guerra si
ridusse a casa tardi nella notte successiva; e se a donna Luisa
quella sua dimora soverchia fu motivo di affanno, il suo giungere
non la consolò meglio; imperciocchè egli si
dimostrasse pensieroso e mesto: ricusò vedere i figliuoli;
si astenne perfino da baciare, come soleva, lo infante; anzi al
vagire di quello tramutò visibilmente nella faccia. Postosi
a giacere lo travagliarono sogni tormentosi, e fu sentito
lamentarsi dicendo; è morto! è morto! Allo
improvviso si svegliò esterrefatto; girò attorno
torbidi gli sguardi, e, vistasi la moglie al fianco,
l'abbracciò stretto stretto come soverchiato da interna
passione, esclamando non senza lacrime:
- Quanto era meglio che io avessi cessato di vivere!
- Ti penti forse essere tornato nel seno della tua famiglia che ti
adora? - gli rispondeva la moglie affettuosissima.
- No, Luisa, no; Dio me ne guardi; e ciò nonostante,
credimi, sarebbe stato meglio che io fossi morto... e lo vedrai.
- Luisa da femmina discreta tacque, attribuendo cotesto fastidio
angoscioso alle commozioni passate; e confidò nel tempo,
nelle sue cure, e nelle carezze dei figli per ricondurre la pace
nello spirito agitato di lui.
In quella medesima notte si partirono da Roma Marzio ed Olimpio
provveduti di molta moneta di oro. Cavalcavano due poderosi
cavalli; e comunque camminassero senza sospetto d'incontrare per
via cosa che fosse al loro andare molesta, pure procedevano muniti
di armi pronte a far fuoco.
Scorsi alquanti giorni, don Francesco sentendosi bene della
persona disposto, e del piede abbastanza rimesso, certa mattina,
sul fare dell'alba, sveglia di repente la famiglia, e le ordina,
che così come si trovava vestita scendesse. - Nel cortile
Beatrice vide apparecchiati cavalli da sella, la carrozza, ed
uomini di scorta; indizio manifesto di lungo viaggio. Dove il
padre la menasse, per quanto tempo sarebbe rimasta lontana da
Roma, questo fu quello ch'ella non gli domandò, nè
alcuno della famiglia si attentò a richiederglielo.
Il Cènci aveva provveduto a tutto con la sua ordinaria
solerzia. Non gli parendo bene avventurarsi co' soli famigli per
le vie infami, che da Roma conducevano alla Rocca Ribalda, aveva
stipendiato per alquanti giorni una mano di guardie campestri, che
gli tutelassero il cammino. Altre volte egli aveva percorso le
cinquantotto miglia che passano tra la città e cotesto
feudo, in un giorno solo; ma adesso non vi era da contarci sopra,
considerando da una parte la carrozza lenta a muoversi, e
dall'altra le strade o sprofondate nella polvere, o dirotte pei
poggi, e il caldo grande della stagione. Nei cariaggi il Conte
aveva fatto riporre biancherie, argenti, di ogni maniera
vettovaglie, e vini di più ragioni, fra i quali una fiasca
di keres che aveva sopra la veste dipinta la data del 1550,
raccomandando che ne avessero cura particolare.
Beatrice, prima di entrare in carrozza, indirizzandosi al Conte
gli disse:
- Signor Padre, ho da parlarvi...
- Silenzio; salite...
E Beatrice, volgendogli supplichevoli le mani, di nuovo:
- Signor Padre, uditemi per lo amore di Dio... ne va della vita
vostra...
Ma il Cènci, reputando coteste smanie sforzi per sottrarsi
dallo aborrito viaggio, la cacciò di una spinta in
carrozza, chiuse a chiave lo sportello, e fece abbassare
diligentemente le cortine.
Dato il cenno della partenza don Francesco salì con gli
altri a cavallo, e tutti si posero in via senza dire un fiato.
Cotesta compagnia, più che di cavalcata viaggiatrice, aveva
sembianza di associazione di qualche illustre defunto. Uscirono
dalla porta di San Lorenzo, e tenendo sempre la strada Tiburtina
giunsero a Tivoli.
Non poeta traversò la campagna romana senza cantare il
tumulto degli affetti, e dei pensieri che destò nel suo
animo la vista di tanti luoghi solenni per grandezza di antiche
memorie, per decoro di fabbriche, e per desolazione moderna: solo
che il cuore gli si commuovesse a pietà, spontanee e belle
gli uscirono le parole dai labbri come le lacrime dagli occhi. -
Nessuno ardì maledirci - nessuno - tranne uno solo, nato
dalla gente che ha per costume di rompere la fede ridendo(); - il
quale non aborrì insultare un popolo fatto cenere per la
vendetta del mondo congiurato a suo danno, per la maligna
onnipotenza dei fati, e pel perpetuo tradimento dei suoi; - egli
solo calpestava lo immane sepolcro oltraggioso e protervo;
però che ci venisse dalla gente leggiera, farfalle
insanguinate, astiosa del parlare, e della fama romana().
Non pittore traversò la campagna romana senza rapire a
questo cielo qualche tinta azzurra e di oro per trasportarla sopra
i suoi quadri, che indi furono divini. Dacchè Dio volle che
l'aere di questo sepolcro si mantenga glorioso, e magnifiche sieno
le aurore, e stupendi i crepuscoli. Le querce annose scuotendo le
fronde al vento mormorano antichi misteri, e l'erba cresciuta
sopra le fosse funerali spira voce fatidica.
Passerò io per la campagna romana senza gittarvi sopra uno
sguardo di pittore, o di poeta? Le pagine immortali del Byron, del
Goëthe, della Staël, del Montaigne, e di altri famosi
antichi e moderni scrittori mi sbigottiscono forse? Oh! l'ala
della immaginazione percuotendo contro i ferri della carcere si
rompe, e gronda sangue. La musa, vergine mite, si arresta sul
limitare della casa dei sospiri, e torce altrove lo sguardo.
Levando gli occhi in alto io non incontro più la casta
faccia delle stelle, che versano su l'anima luce, amore, e poesia.
I campi aperti e il sole mi tornano alla mente affaticata dalla
empia virtù della prigione, come le immagini dei
ruscelletti del Casentino tormentavano maestro Adamo condannato a
perpetua sete nello inferno(). - Ma dalle mani di Dio escono
spiriti tranquilli, che, a guisa di lago, compiaccionsi riflettere
nella limpida superficie le sponde floride, i colli cerulei, i
bianchi casolari, la parrocchia, il campanile, le croci del
camposanto di campagna, - le gioie, insomma, di coloro che nascono
inosservati come le foglie di aprile, e muoiono inosservati come
le foglie di autunno. Ogni soffio leggiero da cima in fondo gli
scompiglia, e la pace, rimane in essi sconvolta con la dolce
armonìa. Altri poi, senza requie commossi, amano fare
specchio di se alla faccia di Dio divampante fra i fulmini come
l'oceano in tempesta: si nutriscono di procelle, e le corde di
ferro delle loro arpe eolie non rendono suono se non le scuote il
fulmine. Ora, quando pure la sventura non avesse inaridito il mio
spirito come fa il sole della erba dei campi; quando pure il mio
spirito non avesse rovesciata la sua fiaccola a guisa di genio al
fianco di un sepolcro, perchè userei la sua forza ad
evocare sopra le pianure antiche eserciti di combattenti, e
agiterei con palpito nuovo i miei lettori sopra le vicende della
pugna, e i pericoli di una gente, il cuore della quale
cessò di palpitare da venti e più secoli?
Perchè aprirei sommessamente le porte del tempio di Giano,
di cui il cigolìo scuoteva un giorno le viscere della
terra? Con qual consiglio popolerei la via sacra di carri, di
cavalli, e di cavalieri armati lampeggianti ai raggi del sole?
Perchè la ingombrerei di nuvole profumate, che si alzano
dai turiboli d'oro, ( - profumi, e vasi rapiti - ) di sacerdoti,
di vittime, e di re barbari incatenati? Perchè i nitriti di
cavalli, e le grida dei cavalieri già da mille anni
disfatti spaventeranno gli echi ormai usi da secoli a ripetere il
salmo cantato dietro la povera bara del villano morto di febbre
dal frate tremante pel ribrezzo della febbre? Scoperchiamo gli
avelli, e interroghiamo le ossa dei sepolti in questa parte della
campagna romana - gli Orazii, i Plauzii, gli Scipioni - :
costringiamo anche Cestio, - anche Metella, entrambi i quali
nascosero il mistero della loro vita sotto splendidi monumenti,
lasciandoli ai posteri come uno enimma a indovinare - a narrarcelo
intero. Io posso, per virtù di poesia, farvi vedere dalle
gelide labbra dei morti scintillare parole come faville
elettriche. E quando tutto questo potesse farsi, e quando tutto
questo facessi, qual prò ne ricaverebbe la Patria? Forse
dalla storia dei gesti antichi ricaverebbero argomento di forza i
viventi? Ahimè! Dio si è ritirato da noi
perchè la nostra ignominia supera la sua misericordia.
Forse delle glorie antiche vorrò comporre un flagello nuovo
per percuotere la moderna fiacchezza? - Tutti siamo rei. Vestiti
di cilizio, col capo cosparso di cenere, prostesi a terra i
Profeti lamentarono la desolazione di Gerusalemme: sopra i fiumi
di Babilonia le vergini di Sion, sospesa l'arpa ai salici, -
piangevano l'amara schiavitù: - più felici di noi
perocchè lamentassero ad alta voce, e tutti i Giudei
accompagnassero i mesti inni con i singulti! A noi è tolta
perfino la libertà del pianto. Deh! sussurrate sommessi,
onde per avventura il vostro ronzìo non rincresca allo
straniero, e vi calpesti come i vermi della terra; - gemete
sommessi, onde i vostri stessi fratelli non vi denunzino al
giudice fratello, e questi vi mandi in prigione o per gli
ergastoli, o a morte per amore dello straniero, che gli dà
pane, titoli, e infamia.
Addio, cascate di Tivoli; invano il vostro Genio tenta abbagliarmi
coll'iride, che mandano gli zampilli dell'acqua rotta su gli orli
dello abisso: - voi non avrete gli onori di altri canti. - Addio,
flutti pallidi dell'Aniene, consapevoli dei riti arcani degli
Aborigeni; scorrete in pace per la morta campagna: io non vi
domanderò se le stirpi andate degli Enotrii, degli Ausonii
e degl'Itali fossero più o meno infelici di noi sopra
questa terra, dove la mèsse, alimento dell'uomo, cresce per
solchi pieni di morte; la vigna, letizia del cuore, per la costa
riarsa del vulcano; la intelligenza, fra i pruni della
superstizione; la virtù, sotto il taglio della mannaia.
Ahimè! ahimè! Il fegato di Prometeo non è
favola in Italia. -
Ma se sarebbe vanità rammentare glorie vetuste, mi giova
tratto tratto soffermarmi nella via che percorrono i miei
personaggi, e raccogliere gli amari pensieri che desta la vista di
luoghi famosi per ricordanze lugubri. Il dolore è della
famiglia dei cancri, e intende essere alimentato di carne, e della
più sensibile del cuore umano. E non sapete voi, che la
creatura può trovarsi ridotta in tale stato da mettersi con
piacere le dita nella piaga, e lacerarla, e vederne, esultando,
stillare fino all'ultima goccia il suo sangue? Catone, quando
altro non gli fu dato, si strappò le viscere, e le
battè nel viso alla fortuna, come costumavasi fare ai
traditori.
Ecco da questo lato il campo di Marte, che fu podere di Tarquinio
il superbo. Il Popolo, nel giorno della vittoria ne svelse le
spighe mature, e le gittò nel Tevere; - i manipoli
resistendo al corso delle acque sceme mescolaronsi con la terra, e
ne composero l'isola sacra dedicata ad Esculapio, dio della
Salute(). Ma quante volte il Popolo seppe rammentare, che i doni
del tiranno si convertono in arsenico dentro le sue viscere? Tutti
si stringono - ed io l'ho veduto, e lo vedo - tutti si stringono
intorno alla tirannide a succhiare, come intorno alle infinite
mammelle di Cibele. Vi aggrada cotesto umore? Succhiate,
maledetti! A stille, e per mercede, vi si rende quello che a largo
sorso fu bevuto dalle vostre vene.
Ecco la via Appia, che da Roma, traversando le paludi pontine,
andava a Brindisi, reliquia di paterna grandezza rimasta come
scherno delle nostre opere di un giorno. Lì presso
contristano più moderne rovine, quelle di Anagni, dove fece
naufragio il superbo concetto del Papato(). La guanciata di
Sciarra Colonna sopra la faccia di Bonifazio VIII infranse
irreparabilmente il triregno. Non essendosi aperta in quel momento
la terra sotto i sacrileghi, come a Datan e a Core(), il mondo
dubitò che Dio stesse davvero (come gli s'imponeva credere
sotto pena della eterna dannazione) col suo Pontefice. I colli di
Roma non imitavano ancora il monte di Gerusalemme, dove si
annidano le volpi(); qualche volta vi ruggiva anche il lione; ma
da quel giorno in poi le chiavi di San Pietro, - le chiavi della
Città Celeste - dall'avara viltà dei Sacerdoti
furono sovente presentate ai Potenti della terra come chiavi di
vinta città.
Ecco Ferentino, là dove è fama che Manfredi,
impaziente di regno, calpestasse come uno scaglione la testa del
padre Federigo per salire sublime. O corona! quanto hanno ad
essere infernali i tuoi splendori, se un cavaliere sì degno
non rifuggì acquistarti a prezzo di un parricidio!
Più oltre apparisce San Germano, dove i Pugliesi furono
bugiardi a Manfredi per Carlo di Angiò; antica usanza di
schiavi, che immaginano mutare stato perchè mutano soma. Si
abbiano l'abbominazione dello antico signore, e il disprezzo del
nuovo; chè troppo bene meritarono ambedue.
Da questa parte giacciono i campi Palenti, dove la stella
scintillante della casa Sveva tramontò per sempre dentro un
lago di sangue. Stella imperiale, la tua aurora fu vermiglia; il
tuo mezzogiorno purpureo; il tuo tramonto sanguigno: nè
quel colore fu ricavato dal mollusco dei mari di Tiro,
bensì dalle vene degli uomini, che non ne mancano mai.
Volgiti al Mediterraneo; là, là è un piccolo
castello, infame pel tradimento del giovane falco degli
Hohenstauffen. Infelice Corradino! quantunque cresciuto alla
preda, ci commuove il tuo fato di fiore reciso su l'aurora della
vita. Tu almeno saresti stato leggiadro, ed animoso tiranno!() -
Tu avresti sbranato, non leccato il sangue... E che cosa altro di
meglio concessero le Eumenidi di fare al tiranno?
Poco oltre sorgeva un giorno Minturna; e lì Mario,
trepidante per la sua vita, si nascose nel fango fuggendo coloro
che lo cercavano a morte; e lì egli fugava col terrore
dello sguardo il Cimbro omicida... Dio del cielo! allora ai nostri
padri per fugare i barbari bastava la virtù di uno sguardo!
- O Mario, che valsero i tuoi trionfi contro i Cimbri e i Teutoni,
e che cosa valsero quelli del tuo fiero avversario Silla contro
Mitridate? Andate perpetuamente maledetti, però che voi
foste la rovina di Roma. Le discordie della plebe co' patrizii
avvantaggiarono la repubblica finchè terminarono in leggi;
ma quando il sangue cittadino scorse a rivi per le strade, e
toccò il limitare dei tempii a guisa di onda commossa dagli
Dei infernali; ma quando per la prima volta furono viste le
spoglie di romani trucidati portate in trionfo insieme alle
spoglie dei barbari, allora incominciò l'agonìa di
Roma, e l'ombra invendicata di Annibale rise fin su la foce di
Averno().
Dentro i sepolcri della proscrizione si generano i serpenti della
discordia; il sangue chiama sangue da Abele in poi; e la Vendetta,
tolti in prestanza dal Tempo l'orologio a polvere e la falce,
guarda quello, e arrota questa: quando l'ora sarà giunta,
popoli e genti cadranno come fieno mietuto: - anche la Morte ha da
avere i suoi saturnali; e lo vedrete.
Volgiamoci all'Adriatico, poichè da questi luoghi si
scorgono entrambi i mari; colà si levano ancora le torri di
Ancona, le quali una volta rammentavano disperata difesa
cittadina, ed esoso nemico respinto; oggi poi ricordano gemino
stupro, e invendicato da gente, che si nutrisce di vergogna come
di pane. Cesena richiama alla mente la strage nefanda ordinata dal
Cardinale di Ginevra. Giovanni Acuto, soldato di ventura,
sentì ribrezzo dello indistinto eccidio; ma il sacerdote
furibondo urlava: «Sangue; io voglio sangue, e siano morti
tutti»() O Cardinale, tu a buon diritto ti guadagnasti la
porpora vermiglia.
Poco più oltre ecco Senigaglia, che dura famosa nel mondo
pel modo tenuto dal duca Valentino, il truce bastardo di
Alessandro VI, per ammazzare i Baroni della Romagna().
Così, sia che tu ti volga alla diritta, o alla sinistra
sponda, i mari d'Italia gridano lungo i liti: tradimento!
Da Rocca Petrella guardando a oriente vedi le acque del lago
Fucino: esse dormono adesso simili a quelle del mare morto. Un
giorno furono piene di stridi feroci, di aneliti, e di stragi.
Claudio, sazio delle morti del circo, qui volle letiziare i suoi
occhi con lo spettacolo di una battaglia navale, e trovò
tremila uomini, o piuttosto belve con la faccia umana, che
consentirono a trucidare, e ad essere trucidati pel piacere dello
Imperatore; nè già con ira, o imprecando sul capo di
lui le furie, ma lieti e salutanti(). Così l'antica Roma
ebbe più schiavi disposti a morire per la ricreazione di un
tiranno, che Roma moderna cittadini per la libertà della
Patria!
Basta. - Addietro visioni che spaventate l'anima agitandola. -
Cessa una volta, spirito infermo, di scuotere davanti a te stesso
la camicia insanguinata della umanità. Il gran Cieco
inglese renunziò a dettare la storia della Ettarchia
sassone sul fondamento, che tanto valeva scrivere quella degli
avvoltoi; io avrei voluto sapere, che cosa gli fosse sembrato
scrivere raccontando quella degli uomini().
Sopra tutto questo mare di rovine la basilica di San Pietro
Vaticano con la sua croce in cima alla palla, pare che galleggi
come l'arca di Noè. - Perchè non ha ella salvato il
genere umano, e perchè non rinnuovò il patto
dell'alleanza della terra col cielo? - Di cui è la colpa? -
Un'altra volta forse lo dirò, non certo nuovamente, ma
inutilmente sempre. La Esperienza, che scrive la storia, si
assomiglia alle figlie di Danao affaticate a riempire le botti
senza fondo. L'universo è un fiume, e la umanità
spensierata sta sopra le sponde a guardare scorrere le acque:
può egli l'uomo rammentarsi dei flutti dell'anno passato, o
può farne suo vantaggio? Così passano gli eventi
irrevocati dalla memoria, sterili di virtù. -
I miei personaggi da Tivoli seguitando la via Valeria si ridussero
a Vicovaro, ove a cagione del caldo grande e della via malagevole
ebbero a soffermarsi, e con quanto cruccio del Conte Cènci
non è da dire, il quale invano tentò di spingersi
innanzi. I cavalli trafelati non obbedivano a frusta nè a
sprone. A vespro ripresero il cammino, e pervennero alla osteria
della Ferrata ov'è mestiere lasciare le carrozze, e salire
il monte su cavalli e su muli. Il Cènci scese, e chiamato
l'oste lo interrogò se avessero dalla Petrella mandato
somieri per prenderlo.
- Io non ho visto muli, rispose l'oste con faccia brusca.
- Ma non si trattenne qui, passando, un mio fante che ha nome
Marzio?
- Non so di Marzio, e non ho veduto marzi, nè aprili.
Don Francesco aveva mosso codesta domanda ad arte per assicurarsi
se fosse stato ucciso Marzio, e per infingersi ad ogni buon
riguardo ignaro dell'omicidio; ma poichè l'oste nulla
sapeva, gli parve bene simulare una gran collera, e
bestemmiò Marzio, e la pigrizia dei servi a soddisfare gli
ordini dei padroni, mostrandosi imbarazzato a procurarsi i
trasporti; se non che l'oste, burbero sempre secondo il costume
dei romani, gli osservò:
- A che serve imbestialirvi, Eccellenza? E quando avrete
bestemmiato tutti i santi del paradiso, avrete fatto apparire muli
e cavalli? Se voi altri signori ci levate ancora il privilegio
della bestemmia, che cosa vogliate lasciare a noi, poveri
vassalli, in fè di Dio io non saprei. - Il vostro fante non
gli avrà trovati; sarà caduto infermo nella
ròcca; non avrà pensato tanto prossimo il vostro
arrivo; lo avranno ammazzato i banditi per la via, e che so io? Si
danno tanti casi al mondo! Ad ogni male ci è il suo
rimedio. Lasciate fare a me. Voi sapete, che oste viene da ospite;
e se la fortuna non mi avesse sempre guardato in cagnesco, vorrei
albergare la gente secondo i comandamenti degli Apostoli.
- Io credeva, rispose il Conte sorridendo, che oste derivasse da
un'altra cosa...
- Da che?
- Da hoste, che vuol dire proprio nemico in lingua latina; ma
forse avrò sbagliato. Ora sentiamo un poco che cosa vi
avvisereste fare, ospite mio?
- Manderemo questo ragazzo qui su pei boschi dove stanno i
carbonari. A questa ora le buche del carbone hanno ad essere
fatte; sicchè i carbonari, un po' per usarmi cortesia, un
po' per buscare qualche scudo, saranno contenti di venire fin
giù, e condurvi alla Rocca Ribalda. Bisognerà che
camminiate tutta la notte, perchè a un bel circa, poco
più poco meno, prima di arrivarci saremo su le
trentaquattro miglia.
- La strada è come quella del paradiso, che si vorrebbe
fabbricata più larga per comodo di noi altri poveri
peccatori. Ad ogni modo la luna si leva sul tardi, e
agevolerà lo scendere e il salire.
- Ma perchè non aspettate domani? Qui troverei modo di
ripiegarvi tutti... rammentatevi che abbiamo un collo solo.
- No, a me importa arrivare presto.
- E aggiungete, che domani per tempo avrete cavalli da pari
vostro...
- No, manda pei muli dei carbonari...
- Farò come vi piace, Eccellenza; anche i muli portano a
casa.
Il ragazzo bruno di carne, con occhi fissi di falco stavasene
appollaiato sopra una catasta di legna, contento come su di un
cuscino di velluto. Nel sembiante mostrava tale idiotaggine, da
mettere ribrezzo in chiunque avesse avuto bisogno di alcun
servizio da lui. Il Conte sdegnoso, guardandolo di traverso, gli
diceva:
- Non hai inteso? A questa ora dovresti essere lontano un miglio.
- Non vi date fastidio, Eccellenza, chè sarebbe fiato
perso. La povera creatura non vi può intendere; gli
è sordo-mutolo di nascita, ma con quattro ammicchi vi
sbrigo.
Il Conte, dubitando essere tolto a scherno, stava per dare tale un
suo ricordo alla trista all'oste traditore, che se ne sarebbe
rammentato per tutto il tempo della vita; ma questi
incominciò ad armeggiare con le mani tanto, che parve avere
fatto capire il ragazzo: se non che il sordo-muto sbadigliava
stendendo le braccia, e con altri moti dimostrava repugnanza a
partire. Allora l'oste, a guisa di perorazione, aggiunse al suo
discorso un prenderlo per l'orecchio destro, e un trarlo
giù dalla catasta dandogli al punto stesso un calcio
solennissimo, che lo mandò a rotolare contro la porta. Da
tutto questo il ragazzo potè comprendere, che si trattava
di affare di premura.
Messi i cavalli in istalla scaricano le carra apparecchiando
fardelli, e funi per adattarli a soma sui muli. Le donne e
Bernardino furono fatti salire in una stanza al primo piano, e
lì chiusi. Il Conte aggirandosi sospettoso, da per tutto
spiava.
Il ragazzo corse buon tratto su per una viuzza: quivi si
fermò, e voltatosi dalla parte della osteria stese la
destra col pugno; chiuso in atto di minaccia, come costumano le
scimmie quando le piglia il dispetto: poi spiccò un salto,
e via, a modo di capriolo, per la costa del monte Santo Elia, che
dalla Ferrata mena a Rio Freddo.
La salita, malagevole dapprima, incominciò a diventare
aspra, e finalmente dirotta. Il ragazzo non aveva rimesso punto
dello ardore, e balzando di greppo in greppo sembrava piuttosto
volare che correre. Lasciamolo andare, ch'egli conosce la strada,
e non si smarrirà di certo.
*
* *
Colà dove il monte Santo Elia è più scosceso,
sotto querce secolari che stendono largamente i loro rami sopra
arboscelli, di mole minore, arde un magnifico fuoco. Su per
coteste vette l'aria punge nelle notti di settembre, quantunque
nei piani la caldura soffochi; e poi gli uomini, che vi stavano
intorno, con atti diversi lo avevano acceso per vederci, e per
compagnia. In quel punto pareva che la noia piovesse giù
dagli alberi sopra i loro capi; imperciocchè taluno
fischiasse supino tenendo ambedue le mani sotto la testa, il
cappello tirato su la faccia, ed una gamba a cavalcioni dell'altra
ripiegata lungo la coscia; tale altro aggomitolato dentro al
tabarro si voltava ora di qua, ora di là, traendo di tratto
in tratto un sospiro: - sovente in coro si alzava uno sbadiglio
universale.
- Pericolo, che Marzio voglia convertirci? - favellò un
bandito.
- Che cosa abbia inteso Marzio di fare io non lo so, rispose un
altro; per me intendo, come siamo di patti, tenere fermo fino a
domani: poi, quanto è vero San Niccola, diserto con arme e
bagaglio.
- Su questi monti mandarci il vino a compito! Guarda! tutti i
fiaschi stanno morti per la terra. Io vorrei vedere piuttosto uno
sbirro, che un fiasco vuoto.
- E poi levarci anche i dadi!
- Le sono crudeltà da fare svenire Nerone.
- Quasi, quasi io mi sentirei tentato di recitare il rosario, Che
ne dici, Orazio?.
- Ella è una cosa come un'altra; per passare il tempo.
Però avete torto marcio a lagnarvi, perchè domani
termina il nostro debito; e se in questo frattempo non arriva
nulla di nuovo, io m'immagino che saranno questi i primi danari
guadagnati senza rimorso, come senza pericolo.
Orazio è un bandito alto di persona; di sembianze gravi, e,
comunque sul declinare degli anni, bello sempre. La sua fronte e
il suo cuore portavano impressi i solchi di tutte le passioni;
adesso elle erano spente, ma le ceneri anche tepide facevano
testimonianza dello incendio fumando. Il fodero durava più
della lama. Orazio sopravviveva a se stesso. Fin lì erasi
rimasto appoggiato a un tronco di leccio, col capo chino su i
ginocchi, senza profferire parola. Lui salutavano i banditi poeta,
medico, e legislatore della brigata. Interrogato rispondeva,
richiesto consigliava; invitato, senza farsi troppo pregare
cantava canzoni da lui composte, o raccontava strane vicende di
lontani paesi; altrimenti, sempre taciturno, meditava sopra i suoi
casi, che davvero molti, e varii la fortuna gli aveva
apparecchiato davanti. Spirito fantastico, amante del
maraviglioso, il quale spesso, invece di farsi cercare da lui, gli
andava incontro. Vissuto in altri tempi, dove tre o quattro
omicidii non guastavano, con la prestanza del braccio, e il valore
del canto avrebbe avuto fama in corte di Provenza su qualsivoglia
menestrello o barone uso a servire dame: adesso la miseria, che
gli si era irrugginita addosso, la usanza vecchia di far giudicare
le sue liti dal coltello che teneva al fianco, e finalmente il
genio nativo lo avevano condotto alla macchia. Tale era Orazio.
- Ma la noia, Orazio, non conti nulla la noia?
- Io la conto moltissimo; ma ella è un cilizio che si
attacca alla vita di tutti: imperatori e papi la portano cucita
fra la camicia e la carne; e vorreste non sopportarla voi per
quattro notti, o sei? Noi fummo pagati, e bene; e questo, che
duriamo, non è troppo travaglio. Così mi fosse
avvenuto sempre, che non mi sarei trovato ad avere a venti anni i
capelli bianchi!
- Come bianchi! o non hai nera la barba?
- Ma i capelli sono bianchi. - E qui Orazio levò una specie
di cuffia, che gli cuopriva la testa intorno intorno rasente le
orecchie, ed i banditi conobbero per la prima volta, com'egli non
avesse capello che non paresse filo di argento; i sopraccigli poi
e la barba si conservavano nerissimi. - Da venti anni in qua io
diventai canuto.
- Domine in adiutorium meum, esclamò un vecchio bandito; tu
non saresti mica parente del diavolo?
- Che io sappia, no.
- Qui dentro ci è della fattucchieria, - ripresero gli
altri spaventati.
- Con licenza vostra, non ci ha che fare il Diavolo; ma un'Aquila
grigia.
- O come un'Aquila?
E tutti gli si posero attorno. Orazio, sempre col capo scoperto, e
godendo della paura dei compagni, che non cessavano di contemplare
con maraviglia mista di terrore quei capelli bianchi, e quella
barba nera, incominciò a parlare:
- Ve lo dirò; in mancanza di vino, un racconto vi
piacerà sempre meglio dell'acqua; n'è vero? Il padre
mio, boscaiolo, morì come visse povero quanto San Quintino,
che suonava a messa co' tegoli. La mamma dopo la sua morte non
ebbe più un'ora di bene, e, povera donna! cadde inferma di
palpito di cuore. Il curato, che era uomo saputo, ci disse che
cogliessimo certa erba, chiamata fu(), la quale cresce per questi
monti; ne spremessimo il sugo, e glielo dessimo a bere, che le
avrebbe fatto bene; e come disse trovammo essere vero; ma fu, o
non fu, quando la candela arriva al verde bisogna che si spenga; e
la vecchia si spense: requiescat in pace. Amen.
E i banditi rispondevano:
- Requiescat in pace.
- Nell'anno domini... aspettate che me lo ricordi... l'anno, che
il terremoto mandò a terra il campanile di Santo Andrea...
potevo avere a un bel circa venti anni, in giorno di
venerdì andammo in tre fratelli al bosco per tagliare
legna, e per cogliere un poco di erba fu. A venti anni costa poco
salire, e noi ci arrampicammo pei dirupi del monte Terminillo. La
neve ne cuopre quasi sempre la cima, ed in coteste solitudini
altro non si udiva che stridi, e il rombo delle aquile arrabbiate
per non trovare pastura. Arrivati proprio in vetta al monte, ecco
ci comparisce davanti una figura umana immobile, come se fosse
scolpita nel sasso. La credemmo il Diavolo, e ci segnammo
devotamente secondo la regola; ma quella ferma. - Candido, il
nostro maggiore, che aveva più seme in capo di una zucca,
osservò, che avendo resistito al segno della santa croce
diavolo non poteva essere; ed infatti diavolo non era; però
poco meno. Costui, solo sopra quella cima, stava considerando
giù in fondo di un precipizio tagliato a picchi sul fianco
della montagna, un nido di Aquila. Noi gli si accostammo
cautamente, per timore che scosso allo improvviso non pericolasse;
nè egli ci avvertì. Io lo guardai: misericordia! che
occhi maligni! Pareva proprio dipinto in viso dalla invidia col
colore verdenero() dell'odio. Borbottava fra i denti:
«E' sono fuori di tiro, costà nessuno arriva a
toccarli, e se ne stanno tranquilli come pontefici; in breve...
ecco torneranno i genitori col cibo... e saranno tutti contenti; -
i primi da me veduti, e rimasti felici!»
Qui volgendo il capo ci scòrse; noi lo salutammo, e gli
domandammo qual fantasia lo avesse preso di avventurarsi sopra
cotesti scavezzacolli, e se non temesse del capo-giro.
- Perchè volete voi sapere il mio segreto? - ci rispose
turbato. - Che cosa importa a voi di me, a me di voi? Se siete
banditi vi darò la moneta che ho indosso, e andatevene col
diavolo, che vi porti.
E noi lo avvertimmo, che per quel quarto di ora eravamo boscaioli
e cacciatori, e che non avrebbe corso danno a mostrarsi meglio
garbato.
- Sta bene; non volete acquistare come re, guadagnerete come
servi; accostatevi qua... presso me... guardate laggiù...
- Dove?...
- In dirittura del mio dito... in quel fondo là... il nido
dell'aquila?
Circondato di nebbia, si scorgeva appena un punto nerastro.
- Sì, lo vediamo.
Ed egli, teso sempre il dito, aggiungeva: «A cui di voi si
sente capace di portarmi i tre aquilotti...»
- O come sapete, io interruppi, che ci hanno tre aquilotti nel
nido?
- Perchè gli scorgo distinti con le piume saure dorate. -
Io pensai: s'ei non è il Diavolo, come ha detto Candido,
per lo meno ha da essere suo cugino; però che io ci vedessi
allora, e veda sempre, mercè santa Lucia, come un
cacciatore; e non pertanto non mi bastasse l'animo di scorgere
altro, che una macchia cenerina grande come un pugno.
«Chi di voi, continuava costui, mi riporta i tre aquilotti
si godrà dieci ducati di oro».
Dieci ducati di oro! E' ci era da comprare un reame. Volevamo
andare tutti: per metterci d'accordo facemmo il conto, e
toccò a me. - Sciogliemmo le corde, che noi altri
cacciatori di montagna costumiamo tenere cinte a più doppii
intorno alla vita, ed annodatele insieme ci parve potessero
bastare per giungere laggiù: mi calarono; con la sinistra
agguantava la corda, con la destra stringeva la coltella tagliente
meglio di un rasoio: arrivo al nido, lo stacco, me lo assicuro fra
il braccio, e il costato. Gli aquilotti strillano, - sono sordo;
gli aquilotti beccano, - gli lascio beccare: agito la corda, mi
tirano su, ed incomincio a salire piano piano come una secchia:
ogni cosa cammina d'incanto. Giunto a due terzi, e forse saranno
stati anche i tre quarti, della salita, mi percuote un rumore di
aria rotta violentemente a modo di turbine, e m'intronano stridi
disperati. Il giorno diventa buio, e al tempo stesso due punte
m'investono, di cui l'una mi straccia la pelle del capo, e l'altra
mi fora il cappello, e se lo porta via; perocchè le aquile
fossero due, maschio e femmina, e a quanto pare, come Gildippe ed
Odoardo, amanti e sposi: per giunta poi, genitori degli aquilotti
che portavo meco. Ambedue rivolsero il volo per piombarmi di nuovo
a perpendicolo sul capo. Io non aveva mai visto aquile così
sterminate. Santo Uberto mi aiuti! Quando mi vennero vicino menai
colpi da disperato; ne giunsi una fra la spalla ed il collo, ma
non la ferii bene; all'altra mozzai un quarto di ala: ma egli era
nulla; si alzavano, si abbassavano, volteggiavano, mi ferivano nel
petto, su le spalle, nei fianchi, si avventavano così ratte
ad artigli spiegati contro i miei occhi, che davvero incominciai a
pentirmi di essere disceso laggiù: però mi difendeva
il molinello, che faceva stupendamente veloce con la coltella per
tutta la persona. Pensate un po' voi se dovevano, o no, essere
nuovi spettacoli un cristiano sospeso per l'aria, che girava
girava come fuso che torce la canapa, col nido degli aquilotti in
collo, giuocare di scherma incontro alle aquile, le quali con
tutte le malizie loro s'ingegnavano lacerarmi, e lo abisso pieno
di stridi degli uccelli, e di voci umane le mille volte ripetute
dagli echi, di penne svolazzanti, di sangue grondante, e di
furore. Nel voltare la faccia in su incontro la faccia dello
sconosciuto sporgente dalla balza, che rideva mostrando i denti a
guisa di lupo quando ha fame; mi si abbagliarono gli occhi, e un
sudore diaccio mi corse lungo la spina... Santa Vergine! Quale
orrore! Nel menare colpi io aveva per inavvertenza tagliata
più che mezza la corda, già abbastanza sottile, la
quale mi teneva sospeso... mi pareva che mi fosse, e certo mi era
cresciuto il vedere; imperciocchè io distinguessi cedere, e
disfarsi ad uno ad uno i fili della fune, e gli occhi taglienti
dello sconosciuto segare con le pupille la parte rimasta salda. In
quel punto sentii come darmi di un grosso picchio sul capo,
rimpiccolire la statura, strizzarmi nelle costole, e diminuire di
grossezza. Chiusi gli occhi, e vidi fuoco; - gli riapersi ben
tosto, però che quattro graffi dolorosi nella fronte mi
ammonissero che accorressi a difenderli, se non voleva che le
aquile me li cacciassero di nido, come io aveva fatto agli
aquilotti loro. I fratelli, temendo che io mi fossi abbandonato,
non sapevano sovvenirmi in altra maniera, che gridando
«coraggio, fratello! Orazio, da bravo!» e dando alla
corda terribili squassi, per cui ogni momento più
s'indeboliva...
Sono presso all'orlo dello abisso due... braccia... un braccio...
tremendamente atterrito stendo una mano al ciglione, getto il
nido, e con l'altra mi aggrappo convulso, e bene mi avvisai;
imperciocchè i miei fratelli, appena ebbi mostrato il capo,
lasciassero la fune, e fuggissero via urlando da spiritati: pure,
come Dio volle, ne uscii a salvamento, e mi gettai avvilito sopra
la neve. Lo sconosciuto con quei suoi occhi di vetro mi guardava
curiosamente, e mi esaminava in silenzio il capo: strappommi tre o
quattro capelli, se gli recò nel palmo della mano, sempre
esaminando; li pose di contro alla luce, li tagliò, e
finalmente ridendo mi disse «tu hai avuto paura». I
fratelli intanto, riavuti dal primo stupore, si accostavano
levando gli occhi al cielo, e a grande stento si persuadevano che
io fossi quel desso di prima. I miei capelli, in uno istante di
agonìa, di neri si erano mutati in bianchissimi().
Lo straniero con certi suoi argomenti ci dette ad intendere essere
avvenuta naturalmente la cosa, che io non compresi allora; e molto
meno saprei ridirvi adesso. Mentre favellava egli trasse di tasca
un suo pugnaletto, e, senza punto cessare dalle parole,
tagliò il capo agli aquilotti. Le aquile ferite, e
spennacchiate non ardivano accostarsi a noi chè eravamo
troppi, ed avevano già fiutata la polvere dei nostri
archibugi(); però da lontano gittavano tali strida
desolate, che fendevano il cuore. Colui, mozza ch'ebbe la testa
all'ultimo aquilotto, ci disse:
«Orsù, miei bravi, volete voi guadagnare due volte
tanto danaro di quello che avete avuto? Andate a rimettere questi
tre aquilotti morti nel nido donde gli avete cavati. Non ho meco
altra moneta; ma venite a Rocca Ribalda, ed io conte Cènci
vi manterrò la promessa.»
A noi parve per quel giorno averne avuto d'avanzo; e poi, comunque
bestie, le aquile avevano patito troppo strazio. Allora il barone
si allontanò fischiando dall'altra parte del monte, senza
nè darci, nè aspettare il saluto.
- E tutto questo che monta? - notò un vecchio bandito, che
pareva nato a un parto col Caronte della cappella Sistina - O come
hai provato, che tutto questo non accadesse per opera del demonio?
- Ma o non hai inteso, che il barone era il conte Francesco
Cènci di Rocca Ribalda?
- Bella ragione! Non poteva il diavolo aver preso la sembianza del
Conte Cènci? E mettiamo il barone da parte; o le aquile e
gli aquilotti non potevano essere demonii?
- Ma vedi il caparbio! Ho sempre sentito dire che il diavolo
è un gran signore. Ora pensa s'egli avesse voluto prendersi
briga di una povera creatura come sono io.
- Eh! un'anima poi pesa quanto un'altra nelle bilance del diavolo.
- E dodici fanno una dozzina.
- Ma, a caso, portavi addosso nessuna reliquia?...
- Che domande! - Sicuro, eh! - Avevo un breve con la orazione di
Santo Brancazio contro le streghe; un cornino di mare per la
jettatura; la medaglia di San Tebaldo, oltre ad un pezzo di lumen
Christi in tasca...
- Tutto questo può bastare; ma per chi va pei monti
è necessaria la medaglia di San Venanzio. Ricordatevene,
figliuoli; il maligno, capite Orazio, il maligno s'ingegnava,
farti morire senza sacramenti, e portarti diritto dentro lo
inferno: di qui, figliuoli, chè posso essere padre a tutti
voi altri, comprenderete quanto profitto sia all'anima vostra
starvi vicini a santa madre chiesa. E poichè dianzi mi
è venuto parlare di rosario, o che trovereste male; per
ammazzare il tempo, recitarne una mezza dozzina? Ma che dico male?
Non sarebbe tanto bene messo nel salvadanaio per il mondo di
là?
Il vecchio bandito trasse fuori di tasca una immagine della
Madonna, e la conficcò col coltello nel tronco di una
quercia. Piegate le ginocchia, prese a dire molto devotamente il
rosario. I compagni, o mossi dallo esempio, o per vera devozione,
o per mille altre cause, che sarebbe ricercare soverchio,
conciossiachè i nostri atti sieno mossi ordinariamente da
un complesso d'incentivi, non già da una singola cagione,
piegarono le ginocchia, e rispondevano al vecchio alternando pater
nostri ed ave marie.
Se il diavolo fosse passato per di là si sarebbe dato al
diavolo.
- Basta così, Ghirigoro, disse un bandito alzandosi; e
mentre con le mani si poliva ambedue le ginocchia, aggiunse: ma
sapete che il vostro dubbio intorno al diavolo mutato in due
Aquile patisce, con reverenza, dello scemo!
- Scemo io? - E tu non sai, ignorante, che ventimila diavoli
possono entrare dentro un lupino, ed un diavolo solo condire tutto
un convento di frati Francescani? E non sai, che a salvarci dal
diavolo non basta metterci a sedere nella piletta dell'acqua
santa, e tenere un Cristo in bocca, chè tanto un foro per
entrarci in corpo egli lo sa trovare, come neanche a Santo Antonio
fece profitto averlo preso con le molle pel naso?
- Con le molle?
- Pel naso?
- Già! - rispose interrompendo il bandito - appunto con le
molle pel naso...
- O sentiamo anche questa...
- La è chiara come l'acqua. Una volta il diavolo, per fare
scappare la pazienza a Santo Antonio, si trasformò nello
sgabello dove si metteva a sedere: eccoti, che il santo viene in
cella, e subito va a leggere i libri di divinità; il
diavolo gli scappa di sotto, e il santo a gambe all'aria. Un'altra
volta si convertì in leggìo, e gli cascò sul
naso rompendogli gli occhiali; e poi in cane, in gatto, e in
donna; sebbene molti credano che quando il diavolo apparisce in
forma di donna non si tramuti, ma che proprio vi sieno i Diavoli
donne, o vogli dire le Diavolesse, e questo credo ancora io.
Insomma; il maligno quante ne poteva immaginare, e tante gliene
faceva; ma il santo, sempre con pace esemplare, lo prendeva per un
orecchio, e lo ammoniva: «Diavolo, diavolo! ti par egli, che
tu sia nato per gabbare un santo pari mio? Il mondo è
grande, e possiamo starci tutti e due senza darci fastidio: va'
pei fatti tuoi, e non mi rompere il capo». Poi lo metteva
fuori di cella, e gli chiudeva l'uscio in faccia. Un giorno, che
il nostro dabbene Santo Antonio si ammanniva a fare una bellissima
meditazioncella sopra la moltiplicazione dei pani e dei pesci,
inchiavacciò per bene la porta, e sul foro della toppa mise
un pezzo di lumen Christi, sperando in questo modo avere la pace:
ma e' furono novelle. Ad un tratto sente rodere, e con la coda
dell'occhio vede il diavolo, che aveva cacciato il muso fuori da
un buco scavato nella parete. Il santo, senza darsene per inteso,
agguanta adagio adagio le molle del cammino, e poi in meno che non
si dice amen si avventa sul diavolo, e lo prende per il naso. Il
diavolo strillò... ma il santo sodo: il diavolo si
provò in cima delle molle a trasformarsi ora in leone
grande quanto il monte Terminillo, ora in serpente lungo un
miglio; ma tanto non si usciva, e il santo lo tenne stretto fino a
che non lo ebbe affogato dentro un orciuolo di acqua vite,
conforme io stesso con questi miei propri occhi vidi, e verificai
alla fiera di Tagliacozzo, dove un religioso di santissima vita me
lo mostrò, e mi disse che il diavolo, prima di spegnersi
nell'acqua arzente benedetta, aveva durato a friggere mezza ora e
più come ferro arroventato().
- Come! tu vedesti un serpente lungo un miglio?
- Il diavolo era rimasto nella forma ultima, che aveva preso nelle
sue tramutazioni. Quella del serpente non era stata l'ultima.
- Dunque, o che figura aveva egli?
- Quella di talpa lunga due palmi compresa la coda...
Uno scoppio immenso di risa proruppe da tutta la brigata,
sicchè il vecchio ne rimase sconcertato. Preso da cruccio,
si avviluppò nel tabarro brontolando:
- Gia voi siete eretici; e un giorno o l'altro vi accorgerete voi,
che cosa significi fare i banditi senza un po' di religione.
CAPITOLO XIX
LE FANTASIME.
Tra male gatte è capitato il sorco.
Dante, Inferno.
Appena il vecchio masnadiero aveva cessato di favellare, che una
voce sonora e argentina rompendo i silenzii della notte,
portò agli orecchi dei banditi questa canzone:
Avventa le zanne,
Atterra lecciòli,
Nocciòli - corniòli,
Fa il bosco tremar.
- Non vi muovete, disse Orazio ai compagni, che entrati in
sospetto già già ammannivano le armi: egli è
l'amico nostro; il sordo-muto della Ferrata: egli non possiede in
questo mondo nulla, eccetto voce e miseria; e la prima voi non
potete, e la seconda voi non gli volete togliere.
Infatti indi a breve comparve il garzone della Ferrata, il quale
oltre la età scaltrissimo, aveva trovato il suo conto a
fingersi sordo-muto, e idiota, e così prese a interrogarli:
- Marzio dov'è?
- Se ce lo insegni noi te lo diremo. Questa è l'ultima
notte del nostro obbligo di aspettarlo; o viene in breve, o non
verrà più: il meglio, che tu possa fare, è di
attenderlo qui con noi.
- Questo è guaio grande: che importa pescare, se non si
bada alla rete?
- Vien qua, fanciullo, e cantaci la tua canzone; intanto Marzio
potrebbe venire.
- Oh! vi pare egli? Ella è una canzone composta da qualche
montanino ignorante di questi luoghi; - pare proprio fatta con la
piccozza.
- Che sia stata composta su questi poggi non ha da dubitarsi,
interruppe Orazio con modo acerbo; ma che l'abbia fatta uno
ignorante non è vero, brutta scimmia, perchè l'ho
fatta io...
- Orazio... vi chiedo perdono... io non credeva...
- Credessi, o non, credessi, impara che non istà straziare,
la canzone a cui la canta: veramente la mia poesia non vale la tua
voce; ma ad ogni modo, senza i miei versi come sapresti far
sentire i tuoi canti?
Il garzone, per torsi d'impaccio a rispondere, sciolse una nota
limpidissima. Orazio non ebbe coraggio interromperlo, ed egli
continuò:
Correte alle poste,
Chè scende il cignale
Non venne l'uguale
Pei boschi a stormir.
Avventa le zanne,
Atterra lecciòli.
Nocciòli, - corniòli,
Fa il bosco tremar.
Per setole ha stecchi,
Ha fiamme per occhi:
Nessuno mi tocchi,
Grugnando egli va.
Le belva percosse
Del mostro allo strido,
Disertano il nido,
I figli, e l'amor.
I colti devasta
Così, che ai bifolchi
Par corsa nei solchi
La fiamma del ciel.
Le macchie salvate,
Ai campi accorrete,
Battete - uccidete
Quel verro crudel.
La carne del verro,
Un rubbio ben pieno
Di gran saraceno
Il premio sarà.
La testa, e del tiro
Si aspetta l'onore
Al franco uccisore
Del marzio cignal.
E premio più caro
Lo aspetta, del viso
Di Clelia un sorriso,
Baleno di amor;
Di Clelia la bella,
Che quale la mira
Delira, - sospira,
Più posa non ha.
- Eccoti un bacio, e uno scudo; disse Marzio uscendo da un
macchione in compagnia di Olimpio. Iddio ti ha dato la grazia del
canto come il raggio alle stelle - luminosa, e soave: io ti
chiamerò l'usignòlo dei banditi.
Ma il giovanetto, lusingato dalle lodi, ricusò la moneta, e
rispose:
- Marzio, io per danaro non canto; la voce mi fu data senza
pagarla, ed io la dono, non la vendo: così mi sembra il
canto più bello. Io ti servo per amore, e basta. Il nostro
amico della Ferrata mi manda a dirti, che il Barone è
giunto...
- È giunto?
- Certo, ed io l'ho visto; ha seco la moglie, i figliuoli, ed una
scorta di guardie campestri, o masnadieri che sieno. Io vengo
ancora a cercar muli dai carbonari perchè il vecchio non
intende fermarsi, e vuole continuare il viaggio in questa stessa
notte.
- Quanti di scorta?
- Dodici; ma non di queste bande: alla parlata paiono delle parti
di Toscana.
Presto furono in ordine i muli. Orazio, così ordinando
Marzio, si tinse il viso e le mani di carbone; tolse la vesta di
un carbonaro, e insieme col garzone menò le bestie alla
Ferrata.
I banditi levarono il campo, e seguitando Marzio si ridussero al
luogo predisposto alle insidie.
Arrivati i muli alla osteria don Francesco comandava li
caricassero, e quando fossero in ordine lo avvertissero per
partire. Non passò bene un'ora, che ogni cosa era in punto;
ond'egli discese per esaminare se tutto fosse a dovere. Mentre da
un luogo ad un altro si affaticava, un pipistrello investì
con l'ale la lanterna che gli portavano davanti, sicchè
l'uccello sbalordito gli cascò in mano; egli la scosse
prontamente con un senso di ribrezzo gittando via la trista
bestia, e notò:
- Cattivo augurio è questo, e prudenza vorrebbe sospendessi
il partire... Qui l'oste, mostrando un viso di sasso - dove
rompeva qualunque vergogna - soggiunse:
- Non vi faccia specie, Eccellenza, perchè il cattivo
presagio viene compensato, anzi superato con uno buono...
- E quale?
- Caricando i fusti del vino, poco anzi, se n'è rotto
uno... e siccome il vino sparso è allegria...
- Per avventura la fiasca dello keres, dove si leggeva il numero
tinto di bianco?
- Non vi si leggeva nulla; state tranquillo, e fiasca non era.
- Andiamo a vedere un po' dove si è rotto...
- Giù in cucina...
- Vi sarà rimasto il guazzo...
- Eh! no, i mattoni lo hanno bevuto; anche i mattoni hanno voluto
fare un brindisi a vostra Eccellenza...
- Ma questa casa parmi fabbricata almeno da un secolo addietro.
- Sicuramente; ma il pavimento è nuovo.
- Chi aveva ragione di noi altri due: tu, che facevi derivare il
nome oste da ospite; od io, che lo desumeva da nemico?
- L'oste, a vero dire, interruppe il carbonaro, non fa razza da
se; ma la natura lo ha messo nella grande specie, che dondola tra
il somaro e il coccodrillo.
- Chi vide mai questi animali?
- Voi gli avete davanti, Eccellenza; questa razza è il
popolo, che quasi sempre porta, qualche volta divora.
Don Francesco, percosso da coteste parole, prese la lanterna e la
sollevò al viso del carbonaro. Orazio riconobbe lo sguardo
verde, il riso maligno, la faccia di marmo del conte. Il Conte
ravvisò i capelli canuti e le sembianze di Orazio,
comecchè gli sembrasse assai prostrato dagli anni, e forse,
come ei credeva, dai patimenti.
- Pare che noi non siamo conoscenze nuove, favellò il
Conte; l'avventura dei capelli bianchi non è di quelle, che
si possano leggermente dimenticare.
- È vero, i capelli bianchi non si dimenticano, -
già si rammentano da se.
- Quantunque io vi conservi rancore per non avermi contentato a
riportare gli aquilotti nel nido, pure, che siate uomo animoso non
è da dubitarsi. - Mi duole che la fortuna non vi abbia
sollevato; e se potessi, io le direi in viso che ha torto, e si
vergognasse una volta.
Orazio, che incominciava a sentirsi venire i brividi addosso per
la paura che gli metteva lo aspetto del conte, alle parole oneste
tutto si riconfortò: gli piacque udire rammentare il caso
del nido, e si profferse svisceratissimo al conte. Però
Orazio accanto a don Francesco non era più quello di prima;
il suo coraggio andava in fumo; e questo avveniva perchè,
secondo una bella espressione dello Sterne, con molta ala di vela
non aveva una oncia di zavorra; e imperterrito contro le palle,
credeva alle streghe, temeva della jettatura, e senza le cinque o
sei medaglie che portava appese al collo egli non si sarebbe
attentato giammai di passare solo la notte.
Don Francesco, Orazio, e il garzone (ch'era tornato a fare da
idiota, e a favellare con ammicchi) in compagnia di sei guardie
campestri aprivano la caravana; in mezzo le donne, Bernardino, i
servi armati e le bagaglie; dietro altre sei guardie chiudevano la
comitiva.
Beatrice più volte si era affaticata ad accostare suo
padre, più volte lo aveva supplicato con parole, o con
cenni a porgerle ascolto: prima di uscire dalla osteria gli si era
gittata in ginocchio davanti, e gli aveva detto:
- Signor Padre, non andate oltre, o siete morto... Marzio...
Ma il Conte a cui cotesto nome suonava delitto, e reputando
eziandio le continue smanie della figlia come sforzi supremi a
sottrarsi dalla imminente prigionia della Petrella, la
ributtò con maniere acerbe, ed ordinò che la
guardassero, e la impedissero di trascorrere dal luogo che l'era
stato assegnato.
La notte diventò più buia, chè metteva
un'aria, piena di nuvole a strappi, chiamata dai campagnuoli le
pecorelle; e a mano a mano che salivano il fresco si faceva
mordente; il vento zufolava per le fronde degli alberi: si
cacciarono su per l'erta di Rio Freddo alternando discorsi, e
avvertimenti di badare al cammino, che davvero meritava
attenzione. Passato Rio Freddo, per la piana del Cavaliere
pervennero a Rocca Carenzia. Di qui ripresero a salire, per una
viuzza del Monte di Bove, fin sopra la cima, dove videro comparire
la luna.
Quanto è diverso il primo quarto di questo pianeta
dall'ultimo! Il primo rassomiglia una speranza, l'ultimo uno
addio: gli uomini che videro di frequente il primo, bene pensarono
a convertirlo in ornato della Diva dei boschi; quelli poi che
più spesso contemplarono l'ultimo, ne fecero con migliore
accorgimento lo attributo di Ecate, la Dea dello inferno. Chiunque
ha contemplato la luna nelle varie sue fasi, per molte notti, ad
ore diverse, comprende come possa essere stata salutata a ragione
Dea degli amanti, e dei ladri. Le tenebre, non che ne fossero
rischiarate, sembravano più triste; e il vento trasportando
le nuvolette spesse, e più o meno dense, venivano ad
alternarsi ora buio intero, ora mezza oscurità, ora
splendida luce, che trasformavano stranamente e rendevano
più terribile la faccia delle cose.
Potevano essere circa le due ore dopo la mezza notte,
allorchè, traversata Rocca di Cerro per la via Valeria,
rasentarono il taglio portentoso delle rupi di Tagliacozzo. Se
avesse albeggiato, od anche fosse stata luna piena, quinci sariasi
potuto distinguere la Rocca Ribalda; imperciocchè, passato
alcun poca di valle, s'incomincia a salire il colle della
Petrella, in cima del quale, sopra una rupe di pietra calcare
giallognola, che si fa cenerina dalla ròcca.
Io co' miei viaggiatori ho percorso buon tratto della campagna; ma
quantunque prossimo, non sono arrivato anche al termine del
cammino: avanti dunque, chè pochi più passi
rimangono.
La via che conduce alla Ribalda sopra la schiena del colle
Petrella è aspra, rotta, e incassata in due ripe donde si
rovesciano giù per le pareti pruni, e cespi di macchia
cedua ove più radi, ove più folti. Nella stagione
delle piogge il sentiero convertendosi in torrente, nè mai
le acque giungendo, per la ripidezza dello scolo, a toccare la
cima delle sponde che fanno loro di letto, ne avviene che il
sentiero largheggi nella base, e si restringa in cima.
Quando il Conte Cènci con la sua compagnia entrò in
questo cammino la luna si era appiattata dietro una nuvola nera,
che viaggiava, a cagione della sua mole, più lenta delle
altre, sicchè procederono quasi tentoni per un buon quarto
di miglio. Allo improvviso la luna liberandosi dalla nuvola gitta
un raggio obliquo, ed illumina la scena. Don Francesco alzando la
testa vede sbucare fuori delle macchie una moltitudine di strane
sembianze affacciate dal ciglione con gli archibugi tesi pronti a
sparare. Non vi era scampo a resistere: a fuggire nemmeno,
perchè l'erta dirupata rompeva la lena, e la china, oltre
all'essere impedita dalla gente stipata dietro le spalle, non
presentava intoppi minori. Coteste erano veramente forche caudine.
- Fermi tutti: - se muovete un passo siete morti! -
Così si fece sentire una voce dall'alto, come folgore che
rumoreggi per le nuvole; e la compagnia si fermò.
I banditi, i bravi, e le guardie campestri, maniere di gente che
assai rassomigliavano fra loro, come fu avvertito poco anzi, si
mostravano quasi sempre osservatori fedeli della data promessa.
Nè si creda già, che studio siffatto muovesse da
sentimento generoso: tutto altro. Egli veniva dalla
considerazione, che dove avessero mancato, cotesto loro mestiero
diventava fallito; imperciocchè i Signori o avrebbero
smesso le ribalderìe, che da loro si volevano mandate ad
esecuzione, o avrebbero ricorso ad altri uomini e ad altri
provvedimenti: sicchè essi ponevano nella sciagurata loro
vita lo impegno medesimo, che il buono artefice mette a riportare
un lavoro puntuale per mantenersi il credito e lo avventore.
Indotte da questo, le guardie campestri di scorta al Conte
Cènci non fuggirono; e il caporale, fattoglisi dappresso,
gli favellò:
- Eccellenza, che abbiamo a fare?
- Il leone è caduto nella fossa...
- Se ci muoviamo ci ammazzano come cani senza difesa, e senza
vendetta.
- Lo vedo; qui forza non vale. Entrate a parlamento; guardiamo se
l'arte giova, e procurate capitolare co' banditi...
- Oe, gridò il caporale, da quando in qua cane mangia carne
di cane?... Fin qui credeva, che dai confetti di piombo e dalle
nozze di canapa in fuori non avessimo a correre altri pericoli...
E gli fu risposto:
- Parole corte. Noi non cresceremo il fascio delle legna al
boscaiuolo. La scorta dei dodici uomini torni sopra i suoi passi
senza essere svaligiata: depositi gli archibugi, che domani alla
calata del sole ritroverà alla osteria della Ferrata. I
lupi dello Abruzzo non dicono due volte: badati; la seconda
parlano con la bocca degli archibugi.
- E la compagnia?
- Con essa abbiamo altri conti.
Le guardie campestri non istettero ad aspettare altre intimazioni,
e si allontanarono senza profferire parola, fatto prima fascio
delle armi.
- Il Conte Cènci passi alla coda della caravana; -
intimò la medesima voce.
Il Conte, ostentando allegria, obbediva. Orazio lo seguitava, e lo
intendeva favellare così:
- Semprechè nelle cose adoperai avarizia provai ogni
successo a traverso: - doveva prendere cinquanta di scorta, ed
avrei risparmiato un tesoro. - Cotesti gentiluomini, oltre la
perdita delle bagaglie, chi sa quanto pretenderanno di riscatto!
Giunto alle spalle della caravana, quattro banditi saltarono
giù dal ciglione; e siccome, malgrado il proponimento di
andare per prova di arte, il naturale istinto spinse il Conte a
metter mano al pugnale, appena fece l'atto si sentì
stringere le braccia da due tanaglie di ferro. Sì volse
irritato per vedere chi fosse, e riconobbe Orazio. Orazio, a cui
cresceva forza la paura, che gl'incuteva il Conte.
- Ah! siete voi, cacciatore?
- Sono io...
- Pare, che il quarto d'ora del bandito sia venuto per te...
- Certo in questo punto smetto la parte del somaro, e prendo
quella del coccodrillo....
- Guarda da legarmi; io non ti perdonerei mai questo oltraggio:
impara, villano, a rispettare i gentiluomini.
- Ah! signore, perdonateci innanzi tratto perchè noi siamo
ignoranti, e non sappiamo altro che guardare alle nostre
sicurezze. - Questi quattro compagni sono scesi appunto per
aiutarmi a legarvi...
- La comitiva, gridò la voce dall'alto, prosegua il suo
cammino. Il Conte Cènci ha da restare con noi. -
In questo punto un capo si affaccia per un momento all'orlo del
ciglione. Beatrice, che era stata attenta a contemplare i varii
casi che si succedevano, lo vide, lo riconobbe, e comprese pur
troppo qui non trattarsi di sequestro per estorcere danari,
siccome costumano ordinariamente i banditi romani e del regno:
più terribile intenzione covava lì sotto, nè
s'ingannava; perocchè lasciatasi andare giù dal
cavallo si pose al fianco del padre, e incominciò a parlare
di forza con la faccia levata in su:
- Il ragnatelo insidia la mosca con reti di bava, e se la porta
nel buco per succhiarle il sangue. Voi non siete lupi dello
Abruzzo, ma ragnateli di sotterraneo. L'aquila per l'aria vive di
preda, e il leone sopra la terra; siate leoni, ed abbiatevi la
preda: io non vi parlo di quanto portiamo con noi; questo è
già vostro: intendo parlarvi del nostro riscatto. Chiedete;
noi siamo pronti a pagarlo; chiedete quanto vi basti ad
arricchirvi tutti, e a farvi stare contenti in casa vostra senza
le cure della miseria, e il pericolo della forca... noi possediamo
danari più che non potete immaginare; fissate voi i limiti
del nostro riscatto...
- Beatrice, vaneggi? Per fare quello che suggerisci essi non hanno
mestieri dei tuoi consigli... e sono capaci da non lasciarti
neanche gli occhi per piangere...
- Tacete, Padre mio; voi non pensate qual pericolo vi pende sopra
la testa: lasciatemi favellare. - Noi vi pagheremo questo tesoro,
purchè lasciate che con noi venga il Conte: egli si
legherà per fede a sborsarvi il danaro di qui a dieci
giorni. Se non vi basta la sua promessa aggiungerò la mia,
e la conformerò con giuramento; che dalla parte di mia
madre mi vennero moneta, e gioie in buon dato. Se neanche questo
vi basta, tenete me in ostaggio, e lasciate andare il Conte: io
sono giovane e sana, egli vecchio ed infermo. Pensate alle vostre
famiglie, - pensate alla contentezza di mangiar pane non immollato
nel sangue... ai figliuoli che avete... a quelli che potrete
avere... ai vecchi padri pieni di necessità... affamati
davanti lo spento focolare...
- Via - interruppe una voce imperiosa; ma Orazio rispose:
- Lasciamola parlare: udiamo fino in fondo... che molte cose buone
mi pare che le dica.
- Sentite, proseguiva Beatrice, se strascinate via il Conte voi ve
lo troverete ammazzato fra le mani; voi non guadagnerete nulla,
perchè quelli che vi hanno condotto non vogliono la moneta,
ma il sangue di un povero vecchio; - e poco scampo vi
rimarrà dalla forca, che le corti di Napoli e di Roma,
mosse dalla fama del personaggio e dalle aderenze potenti,
v'inseguiranno come lupi di macchia in macchia, e vi
converrà morire di laccio, o di piombo. Dopo Sisto V, quale
spelonca è rimasta ignota? Qual ròcca inespugnata? -
Come finì il Cavaliere dei Pelliccioni? Impiccato. Come
Marco Sciarra? Impiccato. Come il signor Duca di Amalfi?
Impiccato; tutti impiccati comecchè potentissimi. Sappiate
dunque adoperare la occasione che la fortuna vi mette fra le
mani...
La fanciulla favellando caldamente incominciava a insinuarsi nello
spirito dei banditi, in ispecie in quello di Orazio; e dove poco
più le fosse stato concesso parlare gli avrebbe svolti
tutti, se Marzio, comprendendo il pericolo, non avesse mandato
Olimpio a qualche distanza a sparare lo archibugio. La botta
empì di sospetto i banditi; e Marzio allora, per
maggiormente spaventarli, gridò con quanto fiato aveva in
gola:
- Maledetti! Egli è tempo questo da sentir cantare la
calandra?... Alla foresta! alla foresta! - La corte ci è
sopra.
E Olimpio, correndo, urlava a sua posta:
- Salva... salva... la corte ci è sopra.
- Il Conte... portate il Conte...
A Beatrice toccò una spinta nel petto, che la mandò
a percuotere con le spalle nella parete del cammino; e mentre,
punto sbigottita, continuava a gridare:
- Udite... siete ingannati... cinquanta contro uno..., e tali
altre parole, trassero seco loro il Conte; il quale persuaso che
fosse negozio cotesto da comporsi a danaro, sopportava meno
acerbamente lo affronto, volgendo già nel cupo animo mille
disegni di vendetta crudelissima. Per quale via lo traessero i
banditi a lui non fu dato di scorgere, però che a breve
distanza, di costà gli ponessero la benda sopra gli occhi;
e poi, scaltrito com'era in simili arti, capì che lo
facevano avvolgere sopra se stesso per confonderlo, onde in
qualunque evento non riuscisse a rinvenire più il luogo.
Allo improvviso gli parve essere rimasto solo; portò le
mani alla benda, e non udendo voce alcuna che lo impedisse
togliersela se la levò ad un tratto, e si trovò
dentro una caverna spaziosissima. Senza indugiare un momento prese
una lanterna lasciata appesa alla volta, ed esaminò
sottilmente le pareti, il pavimento, e il soffitto; gli parve che
le pareti e il pavimento in parte fossero vuoti, ed in vero erano;
ma così bene chiusi con assi, che ogni via alla fuga
conobbe disperatamente impedita. - Una tavola, qualche scranna, e
un mucchio di foglie coperto di pelli erano i soli mobili che
guarnivano il luogo. Don Francesco si pose a sedere, e più
che pensava più si persuadeva, che se il riscatto non gli
apriva le porte di cotesto sepolcro, qualunque altro modo per
uscirne gli sarebbe tornato corto. Altre volte si era trovato ad
andare prigione, ed anche vi aveva corso pericolo non piccolo, ma
pure non si era mai sentito fiaccato come adesso; forse la
età gli aveva sottratto alquanto della baldanza per cui fu
temuto una volta, e forse anche un presentimento lo travagliava
indistinto, e grave, che lo teneva sbalordito: insomma, non
può dirsi che avesse paura, ma neppure il coraggio consueto
lo sosteneva. Posizione maravigliosa per sentire le trafitte del
dolore; imperciocchè da un lato manchi la forza per
prorompere, e divertirci in mezzo alla procella dello sdegno, e
dall'altro manchi la stupidezza, che ci rende insensibili ai colpi
di ventura.
Dovevano essere passate parecchie ore dacchè ci si trovava
chiuso là dentro, avvegnadio s'impadronisse di lui uno
sfinimento che gli faceva desiderare qualche ristoro. I bisogni
del nostro fisico si fanno sentire anche in mezzo alle tempeste
dell'anima: il pane par cenere, il vino fuoco dentro lo stomaco,
che li chiede con angosciosi strappamenti, e l'uomo è
costretto a nutrire il cancro che lo divora. Stette un pezzo prima
di risolversi a chiamare, però che alla sua fierezza
pesasse chiedere la vivanda ai banditi; ma la natura urgendo, gli
fu mestieri piegarsi a picchiare alla porta. Tocco appena l'uscio
gli venne aperto, e subito comparve un garzoncello accorto, che
con parole ossequiose, ma che pure svelavano un senso sottilissimo
di scherno, gli disse, che da buon tempo stava di fuori
aspettando; non avere ardito prevenire la chiamata temendo
disturbarlo nelle sue meditazioni; ed egli sapere essere il
carcere luogo adattatissimo a meditare. Al Conte parve ravvisare
il garzone, e veramente egli era il sordo-muto della osteria della
Ferrata.
- Dimmi, fanciullo, come hai tu fatto a recuperare la favella? -
domandò il Conte.
- Per virtù di Santo Andrea Avellino, il quale si diletta
operare per queste parti di miracoli assai.
- Se io n'esco, pensò il Conte, furfanti, ve li darò
io i miracoli di Santo Andrea Avellino. La rete è stata
tesa da mano maestra; anche l'oste d'accordo... Ma dov'è
Marzio? Non fosse rimasto ucciso? - Fosse una trama ordita da lui?
Ah! potessi sapere che cosa avvenne di Marzio!
- Eccellenza, proseguì il garzone, se ha cosa da comandarmi
rimango; altrimenti non vorrei riuscirle importuno...
- No, figlio mio; ti ho chiamato perchè tu veda portarmi un
po' da mangiare...
- Subito, Eccellenza; - e andava.
- Senti, vieni qua; adesso fa giorno, o notte?
- Notte, perchè senza lumi qui non ci si vedrebbe.
- Non qui... ma fuori...
- Fuori è buio ugualmente. Se poi lassù faccia notte
o giorno io non saprei informarne vostra Eccellenza, perchè
per ora non mi concedono salire...
- Che parli tu di salire? A me non parve scendere venendo qua
dentro.
- Vi è parso perchè è dolcissimo il
pendìo, che mena nello interno della spelonca; ma avete da
sapere, che ci troviamo delle miglia ben molte sotto terra.
Don Francesco vedendo essere preso a gabbo, dal petulante garzone
gli vibrò tale uno sguardo, che per quanto costui fosse
sfrontato non ebbe forza di sostenerlo, ed uscendo avvertiva:
- In un baleno torno col pranzo, che
Il nostro gregge e l'orticel dispensa
Cibi non compri alla non parca mensa,
come dice il signor Torquato Tasso.
Questo baleno durò per così lungo spazio di tempo,
che il Conte attribuendo la dimora a nuova malizia del garzone,
sempre più s'inviperì contro di lui, e dispose
dargli tale ricordo, che se ne potesse rammentare per un pezzo.
Tornò alla fine il ragazzo simulandosi ansante come chi
viene in fretta, e portò due candelieri di singolare
fattura: erano due mani scarne, che reggevano le candele accese; i
lini per imbandire la mensa, e di più ragioni vivande
accomodate squisitamente, e in copia da bastare a dieci: dispose
ogni cosa con accortezza sopra la tavola, procurando starsene
lontano quanto meglio poteva dal conte. - Questi spiava il modo di
mettergli le mani addosso; ma il garzone, svelto, si cansava a
guisa di mosca sul muso dello alano, che gli svolazza fastidiosa
ed assidua pel naso, per le orecchie, e per gli occhi; e quando
sbuffando avventa le zanne fugge via, ed egli morde l'aria. Don
Francesco allora, traendosi di tasca un ducato, gli disse:
- Vieni qua, figliuolo, come ti chiami?
- Chiamatemi come vi pare, Eccellenza...
- Ma un nome devi averlo; non ricevesti tu il battesimo?
- Sarà; sebbene avessi a trovarmici presente, pure non me
ne ricordo... Ah! aspettate; ora sì che mi viene in mente;
mi posero nome Onorato...
- Onorato! E' pare, che per metterti cotesto nome il tuo compare
non consultasse l'astrologo.
- Così diceva ancora io; ed anche se prima di battezzarmi
avessero sentito il mio parere, non avrei permesso simili
bugiarderie.
- Va, tu mi piaci; siete tutti concettosi voi altri: prendi questo
scudo, che te lo dono.
- Ed io non lo voglio...
- Perchè?
- Perchè non si deve accettare per limosina quello che
possiamo pretendere per taglia.
- Ah! dunque anche tu vuoi taglieggiare il barone?
- Figuratevi ch'e' sia come carne di fagiano; tutti nella vita
vogliono assaggiarne una volta.
- Anche tu vuoi taglieggiare il barone!
E si frugava in seno; ma il garzone presagendo la mala parata, di
un salto toccò la porta, e si riparò dietro l'uscio.
- Prendi questo per taglia; e sì dicendo, il Conte
scagliava il pugnale contro il ragazzo: questi lo schivò
facilmente, e il ferro andò a piantarsi dentro la porta,
dove, dopo avere alquanto tentennato, quietò. Allora
sbucò fuori, lo staccò senza ira, e sporgendolo
verso il conte gli disse:
- Io ve lo conserverò con diligenza, e spero in Dio
potervelo rendere quando i miei superiori me lo concederanno.
Il Conte vedendo fallito il colpo, mormorò dispettosamente:
ne anche un colpo mi riesce più ad assestare! - E si
accostò alla mensa. Se la cura molesta non vi si fosse
seduta accanto a lui, per certo il cibo gli sarebbe tornato
accettissimo atteso la grande fame che lo travagliava: ad ogni
modo prese a tagliare la vivanda, ed accostandosene alla bocca un
frammento non potè trattenersi da esclamare «ho
fame!...»
Nel medesimo punto, a breve distanza da lui, una voce lamentevole
rispose «ho fame!..»
Gli parve illusione; ma nel sollevare lo sguardo ecco li, proprio
seduto a mensa dirimpetto a lui, gli apparisce uno spettro
pallido, lungo, orribilmente scarno, con occhi spenti a guisa di
pesce morto, il quale, poichè l'ebbe fissato in volto, gli
parve che presentasse, e presentava certo le sembianze di Olimpio.
Il Conte, tenendo il braccio sospeso fra il desco e la bocca,
prese a dire:
- Ch'è questo? Sono io diventato don Giovanni Tenorio, e
voi, mio bello spettro, volete sostenere le parti del commendatore
di Lojola? Ma io mi permetto osservarvi, che il Commendatore era
stato invitato da don Giovanni, e voi venite spontaneo; la quale
improntitudine sconviene altamente a spirito bene allevato:
inoltre il Commendatore era di marmo, e voi di qual materia siete?
Ad ogni modo, ben venuto signore spettro, e se vi garba mangiare,
mangiate, che buon pro vi faccia.
Mirabile a dirsi! Appena ebbe il conte profferito coteste parole,
che lo spettro, come se lo travagliasse quella terribilissima
infermità, che i medici chiamano bulimo, o fame canina, si
gittò frenetico sopra le vivande imbandite, e tutte le fece
sparire in un battere di occhio, arraffando anche il piatto posto
davanti al conte: nè qui fermandosi, ingolò
tovagliuoli, e tovaglia; poi azzannò le stoviglie, e
stritolandole co' denti ne trangugiava i pezzi(). Al conte, fra
maravigliato e atterrito, non bastò l'animo di salvare
nulla, nemmeno il frusto di carne fitto dentro la forchetta; ogni
cosa divorò lo insaziabile vampiro: poi ridivenne immobile;
e guardando fisso il conte, con la bocca aperta, e mostrando i
denti ripetè:
- Ho fame!...
- Per la morte di Dio! - esclamò don Francesco, ostentando
una baldanza che era lontana dall'animo suo, - che cosa ho a darti
io? - -E scorto in un angolo della caverna certo fascio di paglia,
lo spinse presso a cotesta belva dicendo:
- Prendi, divora...
E lo spettro divorò anche la paglia. Terminata che l'ebbe,
tese come prima la orribile faccia verso il conte, urlando a bocca
aperta:
- Ho fame!...
- Io non ho altro a darti... mangiati il cuore...
- Ho fame!... ho fame!... non il mio cuore, ma la tua carne io
mangerò, cane, che mi hai fatto morire di fame...
E infuriando come belva rovescia tavola e lumi, e si avventa alla
vita del conte: questi provò svincolarsi; sennonchè,
sbattuto giù come sasso da forza irresistibile, si
sentì mordere di rabbia sopra la spalla manca. Don
Francesco, quantunque fieramente commosso, e rifinito dal digiuno,
non per questo si abbandonava, chè il pensiero di rimanere
divorato da cotesto cannibale gl'infondeva nei muscoli forza
tetanica. Si rotolavano entrambi per terra mordendosi a vicenda, e
ingegnandosi di stringersi alla gola: di tratto in tratto
cacciavano urli disperati; si laceravano co' denti; si
sgraffiavano con le ugne; si pestavano a pugni; l'anelito usciva
fumoso dalle narici e dalla bocca; il cuore, tremante per tremendo
palpito, minacciava scoppiare loro nel petto... orribile lotta era
quella!
Ma la potestà non corrispondendo al volere, ormai il Conte
stava per perdere conoscenza: radi, e compressi gli uscivano dalla
gola i sospiri: negli estremi sforzi si dibatteva, quando fu udito
strepito di catene, ed una voce che gridava:
- Il vampiro ha rotto la catena!
Al Conte parve, imperciocchè non vedesse distinto, che
certe figure nere, e truci, con tronchi di pino accesi entrassero
da più parti nella caverna staccandosi dalla parete, e
gittandosi sopra la trista belva giungessero ad incatenarla con
quattro catene, e tenendone i capi uno discosto dall'altro la
strascinassero fuori della caverna. Egli stava sempre disteso sul
pavimento; puntando la mano a terra gli riuscì, quantunque
con isforzo, a mettersi seduto: ansava affannoso, grondava sudore,
e sangue. Delle candele una era spenta, l'altra rovesciata; si
provò a rimetterla dritta nel lugubre candeliere: forte
sentiva dolersi la gola, la spalla, ed altre parti della persona.
Volle richiamare la mente sopra coteste vicende, ma non gli
successe: anche il cervello gli doleva informicolito, e davanti
agli occhi gli andava in giro un diluvio di faville. Spossato
dalla fatica, attrito dal digiuno e dal dolore, il Conte
brancolando... a tentoni cercò il letto di foglie, e lo
rinvenne. Il ribrezzo che gli si era fitto nelle ossa lo persuase
a mettersi sotto le pelli; prese a sollevarle con mano tremante,
quando una voce sepolcrale quinci uscendo incominciò a
favellare così:
- Venga il desiderato... quanto mai tardasti! è tanto tempo
che io ti aspetto vegliando!
Il Conte si drizzò su le ginocchia intendendo a quello che
era, e vide un corpo umano ignudo con la faccia coperta da un
bosco di capelli scarmigliati, e intrisi di sangue: in mezzo al
petto gli usciva fuori un manico di pugnale, e dalla ferita aperta
gli spicciava perenne un rivo di sangue.
- Sono la fanciulla di Vittana, proseguiva la voce: se io ti odiai
una volta e' fu perchè aveva dato ad un altro fede di
sposa; ma ora la morte mi ha sciolto dall'obbligo, e mi sono
accorta dal dono, che mi facesti, e porto qui in mezzo del cuore,
quanto tu sii più generoso amante. - Appressati, via...
rimettiamo il tempo perduto... a me tarda inebriarmi di amore.
E l'aborrita figura, tese le braccia, a sè lo attirava con
gesti provocanti. Il Conte rifuggiva inorridito, e con tutte le
forze rimastegli la respingeva. Invano però; chè la
femmina sottentrando lo ricinge alla vita duramente, e lo sforza a
giacere. Ora se lo preme delirante contro il seno, e col manico
del pugnale ammacca le costole e il petto del conte, che mugola
pel nuovo spasimo, e poi lo bacia, e lo ribacia con le labbra
ingrommate di sangue. In breve mani, seno, faccia, e capelli del
conte grondano sangue: non poteva tenere gli occhi aperti e la
bocca senza che se ne sentisse piovere dentro caldi ruscelli, e
accecarlo, e soffocarlo. Finalmente il furore del succubo
toccò il delirio; raddoppia ardentissimi i baci e i
singulti, e così stringe spietato fra le braccia di ferro
il vecchio conte, che questi sentendosi spezzare le ossa del
petto, singhiozzando per la insopportabile angoscia venne meno.
Innanzi che lo intelletto tornasse a raggiargli nella testa, una
confusione di strida e di guai dolorosi mista di fragore di catene
gli percuote le orecchie. La pelle delle ciglia abbassata non
basta a difendergli le pupille dal molesto bagliore. Apre
finalmente gli occhi, e vede la camera in fiamme: balza atterrito
sopra il letto, ed ecco in mezzo a cotesto fuoco comparirgli
diversi sembianti in attitudini disperate, che urlavano in modo da
intronare il cervello:
- Allo inferno! allo inferno! E dalla torma delle larve se ne
staccò una tutta nera, se non che getti di fuoco palesavano
gli occhi, il naso, le orecchie e la bocca: le rughe del volto
erano segnate parimente da liste di fuoco. La larva appressandosi
al conte levò la mano fiammeggiante in atto di maledire, e
profferì queste parole:
- Io sono l'anima del falegname di Ripetta. Maledetto per la morte
atroce, che mi hai fatto soffrire: - maledetto per lo affanno
della mia moglie: - maledetto per la miseria di mio figlio: -
mille volte maledetto per lo inferno dove mi hai precipitato,
però che io morissi senza sacramenti, e la mia anima
spirasse bestemmiando Dio. -
Il Conte, comecchè nel corpo si sentisse infranto da potere
appena trarre il fiato, e nell'anima avvilito, pure per abito,
più che per intenzione di scherno, favellò
fiocamente:
- Poichè tu sei, per quanto io credo, il primo corriere che
il diavolo manda in questo mondo, fa' di darmi notizie dello
inferno...
- Le vuoi?... Porgimi la mano...()
E siccome il Conte nicchiava, la larva irridendo riprese:
- Ha paura il conte Cènci?
E quegli gliela porse. Allora la larva stese lo indice della
destra, e lo appuntò in mezzo alla palma del conte. Come
dalle torcie di bitume sorrette obliquamente gocciolano stille
infiammate, le quali cadute sul terreno continuano ad ardere
finchè non si consumino, così dal braccio della
larva scaturirono bolle di sudore di fuoco, che stridendo si
precipitarono giù pel dorso della mano, e pel dito sopra la
palma del Cènci. Urlò questi; e non potendo
sopportare l'ambascia, volle ritirare la mano per iscuoterne il
fuoco, ma non potè; chè la larva gliela tenne ferma
dicendo:
- Ricevi le stimate del demonio, vecchio ribaldo.
E il Conte, mugolando per l'insoffribile crucciato, svenne da
capo.
- Non ne può più, esclamarono le larve; lasciamolo a
mordere la terra; - e sì parlando si dileguarono con
grandissimi scrosci di risa.
Umana, o divina, cotesta vendetta pungeva acerba davvero, e per
quello che sembrava eravamo al principio...
Lungamente stette privo di sensi il mal capitato conte. Quando con
un sospiro tornò in se si sentiva, a refrigerio delle
angosce che durava, detergere da mano soccorrevole il sudore della
fronte, e con abluzioni di acqua fredda temperare la vampa della
febbre che gli ardeva le vene: aperse gli occhi, e gli apparve
cosa più delle altre stupenda.
Beatrice, la sua figliuola, sedutagli al fianco sopra le foglie,
che dopo avergli lavato la faccia e fasciato le ferite
s'industriava a farlo rinvenire. Le sembianze angeliche della
fanciulla spiranti pietà, e il dolce atto di amore
avrebbero persuaso i più tristi e villani intelletti, lei
essere mossa da impulso dolcissimo di carità; e non
pertanto il Conte nell'anima malvagia immaginò subito che
la sua figlia fosse complice dei suoi persecutori, e quivi venisse
a rampognarlo dei casi passati, e a godere del suo trionfo.
Beatrice, tostochè lo ebbe scorto ritornato in se stesso,
gli si accostava all'orecchio, e con voce soave gli
domandò:
- Vi sentite la forza di reggervi in piedi, Padre mio?
E siccome egli si apparecchiava a risponderle, ella prontamente
soggiunse sommessa:
- Non parlate, no... accennate col capo.
Il Conte accennò sì. La fanciulla riprese:
- Signor Padre, bisogna che vi aiutiate con ogni sforzo; - qui ci
vuole diligenza davvero, perchè io non solo dalla carcere
intendo condurvi alla libertà, ma dalla morte alla vita. -
Potenti suonano sul cuore della creatura umana le parole di
libertà e di vita; imperciocchè il Conte, malgrado
gli acerbi patimenti, fosse tosto in piedi, esprimendo col moto di
tutte le membra: «andiamo!»
Lasciata la caverna entrarono in una seconda molto più
spaziosa della prima, e quivi, in mezzo alle masserizie rubategli
sparse a rinfuso per terra, vide, al chiarore incerto di lumi
ottenebrati da densa caligine, forse quindici o venti banditi
addormentati quale steso sul pavimento, quale appoggiato alle
tavole. Quantunque egli usasse infinito studio a camminare
reggendosi sul braccio di Beatrice, pure, andando com'ebbro per la
debolezza e il dolore, investì dentro una tavola, e
rovesciò un vaso di terra, che cadendo si ruppe
strepitosamente. Gelò di terrore, che taluno si muovesse;
ma girando gli occhi intorno vide Olimpio e l'odiato garzone
oppressi dal sonno, e vide eziandio la fiasca dello keres col
collo rivolto in giù sopra la tavola.
- Ah! bevvero il mio vino medicato. Tardi si sveglieranno...
qualcheduno mai più; - e lasciava il braccio di Beatrice.
- Dove andate, signor Padre?
- Lascia che ne ammazzi a conto almeno un paio: - e sì
dicendo traboccava giù in terra, se le mani pronte di
Beatrice nol soccorrevano.
- Badiamo a salvarci, per amore di Dio... vedete, che male potete
reggervi in piedi;... e ripresolo pel braccio lo traeva seco.
Continuarono il cammino, e chiunque avesse potuto contemplarli
avrebbe creduto vedere la pittura di Raffaello nelle logge
Vaticane, rappresentante la liberazione di San Pietro dal carcere
per opera dell'Angiolo. I banditi dormivano atteggiati come i
soldati; bella, e divinamente benefica incedeva Beatrice uguale
all'Angiolo. La testa del Conte talvolta, lo abbiamo già
avvertito, sembrava quella di un santo: però, considerati i
suoi meriti, era giusto che non a quella di San Pietro, sibbene
all'altra di San Giovanni decollato si rassomigliasse.
Percorsa la caverna salirono una viuzza scavata nel masso
parallela alla porta, e dopo piccolo tragitto riuscirono
all'apertura, nascosta con diligente accuratezza sotto una folta
macchia di pruni. - Soffiava su que' poggi una brezza matutina
mordente assai, in ispecie per coloro i quali, come Beatrice e il
Conte, uscissero da luoghi caldi, e fossero leggieri di vesti: di
più il Conte aveva la febbre addosso, e non pertanto,
assorti entrambi nel pensiero della fuga, o non la sentivano, o
non la badavano. Il sole non si era anche levato, ma l'alba serena
concedeva allungare la vista intorno alle cose circostanti, e a
Beatrice venne fatto di scuoprire immediatamente un cavallo, che
legato a un albero pascolava poco oltre i primi cespugli del
bosco. - Andò; lo sciolse: mancava di arnesi atti a
cavalcare, e ciò nonostante gradito sempre a cagione del
padre, che poco a piedi poteva aiutarsi. Il Conte lo riconobbe pel
cavallo ch'egli aveva raccomandato a Marzio; e sebbene a stento,
pure, aiutato dalla figlia, gli riuscì salirvi: voleva
ancora recarsi in groppa la donzella; ma questa considerando la
debolezza sua, la febbre che lo consumava, le dolenti ferite, e il
difetto di sella e di staffe per potersi sostenere, fece conoscere
al padre ch'ella così sarebbe stata impaccio, e pericolo
alla fuga.
Ella era molto compassionevole vista quella di una fanciulla
delicatissima, con ogni maniera di barbari trattamenti tormentata
dal padre, immemore adesso delle ingiurie patite, presaga, eppure
improvvida degli strazii futuri, accesa di amore filiale guidare
il cavallo per quei greppi; e punto badando se i sassi di cui
andava aspro il sentiero ammaccassero i suoi morbidi piedi,
avvertire poi che in essi il cavallo non inciampasse, e le ferite
del vecchio infermo per isquasso repentino non s'inacerbissero. -
Di tratto in tratto ella fissava il suo nello sguardo del
genitore; non mica per averne grazie, ma per vedere se gli si
sciogliesse punto la durezza del cuore, che a se e ad altri aveva
fatto passare tanti giorni pieni di affanno. Il Conte, chiuso nei
suoi pensieri, teneva gli occhi appuntati fissamente alla testa
del cavallo, torbido, e sussurrante accenti brevi, e feroci. Egli,
che tanto aveva offeso nel mondo, senza profondissima ira non
sapeva concepire come altri avesse ardito di offenderlo, e
mulinava fra se disegni spaventevoli di vendetta... Ora, come il
terrore di provocare il conte Francesco Cènci non gli aveva
trattenuti da mettergli le mani addosso? - Ah! qual supplizio di
cotesti miserabili avrebbe mai potuto placarlo?
Già si accostavano al luogo dove accadde l'aggressione,
quando, con maraviglia pari allo spavento, videro una mano di
banditi sempre appostata, anzi pure con gli archibugi tesi
occupare il sentiero. Beatrice agitata da affannosa ansietà
si ferma, il Conte si riscuote, e, vista la mala parata, torna
sopra i vecchi sospetti interrogando:
- Mi hai tu condotto qui per vedere la mia morte? Non era meglio
lasciarmi uccidere dentro la caverna?
Beatrice solleva gli occhi al cielo, e sospira; poi abbandonata la
cavezza del cavallo, che teneva in mano leggiera e spedita, corre
colà dove vede comparire i banditi: ma prima assai di
arrivare sul luogo intendendo lo sguardo, si fu accorta dello
inganno; onde voltasi al padre lo confortava con voce e con cenni
a venire risolutamente avanti.
- Venite sicuro, chè non vi è pericolo alcuno.
Il Conte, affidato dallo aspetto e dalle parole di Beatrice, e
dall'altra parte considerando come nulla giovasse la diffidenza
però che fosse tolta alla fuga ogni via, spinse oltre il
cavallo, ed egli pure si fu accorto ben presto come i banditi, a
fine d'incutere spavento, e per comparire quattro volte più
numerosi di quello che veramente fossero, avevano disposti pali
lungo il ciglione della via, e fasciati di paglia e di stracci,
dando loro sembiante di banditi messi alla posta. Percorso il
sentiero incassato riuscirono allo aperto, e al sicuro;
però che, quando anche i banditi fossero stati in
facoltà di farlo, non avrebbero osato appressarsi a giorno
alto di tanto alla Rocca Ribalda popolosa di ben mille persone, di
cui la più parte gagliarda per le quotidiane fatiche, e
armata tutta di archibugi e di scuri. - Qui il Conte con accento
severo ordinò a Beatrice:
- Dimmi con quale argomento tu potesti giungere fino a me.
- Signor Padre, non sarebbe meglio affrettare il passo adesso, e
differire la storia a quando, ristorato dei patiti disagi, voi
foste in termine di porgermi più pacala attenzione?...
- Tu... appena io manifesto la mia volontà, sei usa a
contrapporre subitamente la tua... e sì... e sì che
a questa ora avresti dovuto capire, che io aborro gli oppositori.
- Obbedisci. - Nelle mie mani la gente ha da essere come morta...
- Obbedirò - rispose Beatrice levando gli occhi al cielo,
quasi volesse dire: Signore, dammi pazienza. - Marzio, mentre io
era in carcere, mi raccontò la pietosa strage della
fanciulla di Vittana...
- Che? Come? Cosa favelli?
- Quando mi teneste chiusa in prigione nel sotterraneo del palazzo
di Roma, Marzio mi espose la morte di Annetta Riparella di
Vittana...
- Avanti...
- E mi disse ancora lui esserle marito, voi avergliela ammazzata;
epperò legarlo un giuramento, fatto sul corpo della
defunta, di vendicarla nel vostro sangue. A questo fine essersi
allogato in casa nostra; ma vista la vita infelicissima che voi ci
condannate a condurre, l'odio suo contro noi essersi convertito in
pietà, e non avere voluto commettere in casa l'omicidio di
voi, secondo che aveva disegnato, per timore che noi ne fossimo
incolpati, e ce ne venisse danno.
- E tu, sapendo questo, me lo hai taciuto?
- Signore! E come poteva dirvelo io? - In carcere, appena schiusa
la porta mi gettavate lì acqua e pane, e volgevate
crucciato le spalle...
- Ma se volevi, potevi...
- E quando? Sul partire, due volte io vi scongiurai ad ascoltarmi;
voi mi cacciaste in carrozza, e, chiuso lo sportello, vi poneste
la chiave in tasca. Alla Ferrata, lo rammentate, mi respingeste;
per la via, ordinaste che non mi lasciassero trascorrere, e voi ve
ne andaste lontano... come dunque aveva a fare io?
- Tu sempre ardisci avere ragione; - io ti dico che tu potevi
avvisarmi: - chè se non partecipasti alla iniqua trama in
cuore, almeno non desiderasti prevenirla. Continua...
- Marzio partì la notte, dopo avere posto in salvo Olimpio,
che voi avevate condannato a morire di fame...
- Dunque vive costui?... Ah scellerati, come bene congiuraste a
mio danno!... Continua...
- Al momento dello assalto procurai badare attentamente quello che
accadeva, e malgrado la diligenza usata da Olimpio e da Marzio a
mascherarsi...
- Marzio! Dunque nè anch'egli è morto?
- Io lo ravvisai tra i banditi; anzi guidatore dei banditi. Allora
mi accorsi che non si trattava del vostro sequestro soltanto, ma
della vita; e quindi il mio discorso, e le larghe promesse ai
banditi perchè, tratti dalla cupidità a separarsi da
Marzio, noi lasciassero andare. Riuscito il tentativo a vuoto, mi
calai chetamente da cavallo e vi seguitai alla lontana,
appiattandomi ora dietro a un tronco, ora dietro a un cespuglio:
giunti che furono i banditi al taglio del dirupo di Tagliacozzo,
ecco sparirmi di subito davanti agli occhi. Mi accosto studiando
il passo, e trovo l'apertura, comunque coperta con diligenza di
piante; scendo il corridore, che abbiamo percorso insieme, e
ascolto uno schiamazzo confuso di bestemmie, e di scherni. Io non
sapeva allontanarmi, e per altra parte non mi riusciva immaginare
il modo di potervi sovvenire. In questa udii Marzio che ordinava a
un bandito di prender gente, e avviarsi a Tagliacozzo; onde io mi
ritirai di corsa, mettendomi di vedetta dentro una macchia.
Uscirono parecchi masnadieri, e per molte ore rimasi appiattata; a
notte fitta mi avventurai di nuovo nel sentiero che mena alla
caverna; tesi l'orecchio, e non udii rumore alcuno; sporsi la
faccia, e al chiarore moribondo delle lanterne vidi i banditi
tutti addormentati; mi attentai entrare; palpitando muoveva in
punta di piedi; scòrsi una porta, pensai che voi foste
chiuso la dentro; levata la spranga apersi, e vi trovai svenuto
sul pavimento. Dio ci ha dato visibilmente soccorso, e voi siete
salvo.
- Sta bene, disse il Conte. - Intanto erano giunti alla
ròcca. Don Francesco prima di porsi a giacere, premendo le
angosce che lo travagliavano, chiamò alcuni dei suoi servi,
e promise loro quattromila zecchini se gli avessero portato morti
o vivi i banditi, che avrebbero potuto prendere a mano salva nella
caverna di Tagliacozzo.
*
* *
Dopo lungo sonno i masnadieri si svegliarono. Orazio fu il primo a
dire:
- E' pare che abbiamo legato l'asino a buona caviglia: questo
maledetto vino mi ha come impiombato il sangue nelle vene. Vediamo
un po' che cosa si ha da fare del nostro prigione: a me sembra che
quando avesse su l'anima anche il doppio dei peccati, ch'egli ha
commesso, meriterebbe ormai assoluzione plenaria.
- Sì, rispose Marzio, egli è tempo che noi gli
celebriamo la messa di requiem.
- Adagio ai ma' passi; prima del requiem bisogna cavargli di sotto
qualche cosa, come sarebbe un ventimila ducati...
- Sicuramente, riprese Ghirigoro, lo strazio che ha sofferto
basta; e non potremmo rinnuovarlo senza che ci restasse fra le
mani.
- Davvero, continuò Orazio, io credo avergli sfondato lo
stomaco col manico del pugnale, che mi ero adattato sul petto; ed
anch'io mi sento indolenzito, perchè lo stringevo con
rabbia, e con paura: ve' come sono concio da quella criniera di
cavallo insanguinata; il sangue della vescica mi ha imbrodolato
tutto, e mani, e seno, e braccia...
- Io ti so dire, riprese Olimpio, che senza le tue candele non
saremmo venuti a capo di nulla; come mordeva il tristo vecchio!
Per certo ha da avere il diavolo in corpo. Deh! Orazio, dì,
o come hai fatto a comporre coteste tue infernali candele?
- E' sono segreti, che a me per impararli costarono spesa e
fatica. Uno astrologo Armeno, in Venezia, per insegnarmi la
ricetta volle che io gli contassi cinquanta ducati di oro...
- Non ti credevamo avaro, Orazio. Se pretendi essere rimborsato,
ti renderemo i ducati; ma fra noi ogni cosa dovrebbe essere
comune...
- Oh, io non l'ho detto mica per questo! Uditemi, dunque, e
imparate. Cotesta chiamasi mano di gloria, e si compone
così: taglisi primamente la mano sinistra allo impiccato, e
avviluppatala dentro un pezzo di tela nuova ripongasi in un vaso
di terra, e vi si lasci stare per quindici giorni coperta di
balsamo di Arabia; poi ha da esporsi al sole leone tanto che si
secchi. Le candele si fanno di grasso d'impiccato, di cera
vergine, e di sesamo di Lapponia. Queste candele, messe fra le
dita della mano di gloria, hanno la virtù di stupidire la
gente a farla travedere con apparenze piene di terrore().
- E certo esse hanno istupidito anche noi, perchè io pure
mi senta la testa tutta confusa...
- Sarà; ma io temo che quel vino di Keres, che abbiamo
bevuto, fosse medicato...
- Se Marzio anch'egli faceva la sua parte sarebbe stata compita la
festa: - dì, Marzio, perchè non sei venuto?...
- Io? Perchè mi prese un furore di stringergli il collo, e
strozzarlo senz'altri argomenti; e così la mia vendetta non
era piena, e voi rimanevate defraudati del riscatto. -
Orsù, ormai mi tarda lo indugio: andate ad estorcere a quel
dannato la moneta che volete; poi, secondo il patto, lasciatelo in
mia potestà.
Qui si fecero a rinnuovare l'olio nelle lanterne, e si accostarono
alla porta della prigione: trovarono la spranga levata; la
prigione vuota.
Alzarono un urlo di rabbia, al quale dalla bocca della caverna
rispose un grido di spavento. Entrò un bandito vacillando,
che aveva rilevato una ferita nel fianco, e disse tutto
angoscioso:
- Siamo sorpresi... fuori, o ci ammazzano come volpi nel covo.
I banditi afferrarono le armi, e si affrettarono a uscire dalla
caverna.
Questo dialogo spiega i tormenti, che avevano fatto subire al
Conte. La mano e le candele di gloria erano superstizioni, alle
quali prestavano piena fede in cotesti tempi. Gli apparecchi per
cura di Marzio disposti nella caverna, e il terrore avevano fatto
credere paurosamente soprannaturale una scena da giocolieri.
CAPITOLO XX.
LA NOTTE SCELLERATA.
. . . . Con mano empia tentava
I misteri di amore in quelle membra,
Ma lo respinse un Dio che lei vegliava.
Il Dio che pura se la tolse in cielo,
Come quando ella uscìa dal suo pensiero.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Ecco come si ammenda il Conte Cènci.
Sparsa le bionde chiome, con la fronte volta al cielo, le braccia
abbandonate, genuflessa sul pavimento sta Beatrice Cènci
dentro una stanza della Rocca Petrella. Alla bellezza, e all'atto
rassomiglia la inclita statua della Fiducia in Dio, nella quale lo
Artefice della «terra dei morti» ha infuso un'anima,
ch'egli stesso non aveva().
La stanza in cui si trova è una prigione: - ormai la sua
vita sembra un tristo cammino, del quale le prigionie sieno le
colonne milliarie per distinguerne gli spazii. L'aspetto della
stanza apparisce strano a vedersi: splendido è il letto per
cortine ampissime di damasco, e cornici dorate; ricopre il
pavimento uno arazzo rappresentante Enea, che ascolta i presagi
maligni dell'arpia Celeno: sopra una rozza tavola di albero stanno
vasi e bacili di argento: le pareti squallide, e tracciate col
carbone dalle sentenze, che la tristezza, o l'ira, o il rammarico
spremono dal cuore del carcerato... stille di essenza di angoscia,
uscite fuori per la gran forza dello strettoio della
necessità. -
Il cielo si contemplava per breve tratto traverso una ferrata,
davanti alla quale il Conte Cènci, quel perfido ingegno,
aveva fatto inchiodare uno assito a modo di tramoggia; sopra la
tramoggia ordinò adattassero una graticola fitta di filo di
ferro. Nè qui si fermava la vile crudeltà del Conte
Cènci; chè col declinare del giorno procurava
calassero sopra la tramoggia una ribalta circondata intorno da
festoni di tela, togliendo a un punto la luce del cielo e l'aria,
conforto supremo alle viscere straziate. La carcere allora pareva
chiudere la bocca, ed ingoiare intera la sua vittima, come fece di
Giona la balena().
Povera Beatrice! Il cielo, che tu amavi cotanto; il cielo,
consapevole dei gentili pensieri dell'anima tua; il cielo, da cui
attingevi conforto negl'ineffabili dolori; il cielo, che sovente
chiamavi in testimonio della rettitudine del tuo cuore; il cielo,
che desiderando contemplavi come la patria libera del tuo spirito
divino, adesso o ti si mostra traverso le sbarre e le graticole di
ferro, o ti si toglie affatto nella guisa, che Dio vela la sua
faccia ai dannati nelle pene eterne dello inferno.
Il sole getta obliquo lo sguardo là dentro; i suoi raggi
pesano, ed ei si affretta a ritirarli, quasi per paura che gli
rimangano avvinti, e presi alla rete delle graticole().
Se durante la notte l'aria viene tolta a Beatrice, durante il
giorno non gliela ministrano a larga misura; anzi sottile come il
cibo dentro città bloccata. Se il Conte Cènci avesse
potuto dargliela chiusa in un vaso senza mai sollevare la ribalta,
oh come volentieri lo avrebbe egli fatto! imperciocchè gli
ultimi casi lo avessero reso alquanto pusillanime; e quando la
codardìa ha sussurrato nell'orecchio alla crudeltà:
trema, non vi ha cosa o tanto assurdamente spietata, o tanto
atrocemente ridicola, che queste rifuggano da mettere in opera.
Beatrice si affaticò sovente arrampicarsi fino alla parte
superiore della inferriata, tentando quinci scuoprire o cima di
albero o vetta di colle, che le fossero all'anima come un ricordo
della bella natura: e quantunque tre, quattro volte e sei
rimanesse delusa, non per questo cessò ritentare;
perocchè sia amaro rassegnarsi alla perdita dell'aria,
della luce, e della vista del creato, che Dio benigno concesse
all'animale più abietto. Dotata d'anima di poeta, capace di
rendere eco dalla sua più sottile e recondita fibra alle
sensazioni del bello, almeno per le fessure s'ingegnò
vedere i colli azzurri, le verdi vallate, il fiume, boa immenso
delle acque, che serpeggia per la pianura, ma non le fu dato.
Malignamente invidioso di quell'aura di refrigerio, il Conte
più volte il giorno, e più sovente nelle ore
matutine, mentre un po' di sonno le rinfrescava il sangue
infiammato, mandò fabbri, che sospesi a corde aeree (non
veduti da Beatrice) martellavano, conficcavano, ristuccavano,
ristoppavano, calafatavano, tormentavano insomma con quel fragore
continuo, che è proprietà dello inferno; - onde il
capo l'era diventato come infranto, e in qualsivoglia parte,
comecchè leggermente, lo toccasse si sentiva dolere per
tutta la persona.
Oh quanto riso di cielo balena di là da coteste luride
tavole, oh come la natura esulta nella sua bellezza oltre cotesto
sozzo assito! Maledetta la mano, che si pone fra gli occhi
dell'uomo e la natura! L'anima si strugge di desìo; e se
vede trapassare un uccello, si posa sopra la sua ala e gli
raccomanda di portare per lei un saluto ai cari parenti, e ai
luoghi della sua infanzia.
O nuvoletta bianca, che traversi questo palmo di cielo che mi
è dato fruire, io non vedrò quando arrivi a baciare
la luna; o stella cadente, io ti ho veduto muovere, ma non posso
vedere dove vai a finire; o foglia, che voli sopra l'apertura del
mio carcere, dove terminerà di trasportarti il vento?
Farfalla, le rose che desideri sono lontane di qui; io non
vedrò quando, innamorata, tu accarezzerai con l'ale il tuo
fiore diletto... No, viva Dio; per negare la vista di queste
immagini non basta che la crudeltà e la paura avviluppino
nello loro spire un'anima maligna, come i serpenti di Laocoonte;
bisogna che al lurido sabbato dei suoi pensieri intervengano
ancora la superstizione e la invidia: la prima, furia di fuoco che
osò seppellire vive le tenere fanciulle, le quali, odiati i
riti infecondi di Vesta, sagrificarono a Venere alma genitrice
della Natura; la seconda, furia di ghiaccio che accecherebbe il
genere umano, caccerebbe dal cielo l'occhio del Sole, vorrebbe
insano anche Dio perchè essa è cieca, e folle.
Lo insetto dalle ali dorate penetrò in questo sepolcro di
vivi, ma presto ne usciva cruccioso ronzando: «dalle cure
del carcerato non si fa mèle, ma tossico». L'uccello
per un momento ha posato i piedi sopra queste graticole; ma
è fuggito via gittandovi dentro un pianto, come se
intendesse dire in sua favella: «tu sei infelice, ed io non
posso aiutarti».
Dentro il carcere, dietro la infame tramoggia, Beatrice invece di
ricevere le impressioni esterne, e consolarsi contemplando, o
ascoltando: - invece di blandire la memoria implacabile, e sopire
la febbrile attività del pensiero riducendosi in
condizione, più che potesse, passiva, ha dovuto all'opposto
suscitare le fiamme divoranti della immaginazione; alimentare la
ferita.
Ha sentito, quando sparisce l'allegrezza del giorno, e la
crescente mestizia delle tenebre persuade ricorrere per
consolazione alla Vergine dei cieli, - lontano lontano alternarsi
il canto delle litanie dinanzi la immagine della Madonna dei
Dolori, che sotto il suo gran manto celeste ripara tutto il genere
umano (tranne quelli che fanno piangere), ma non ha potuto
mescolarsi con le altre donne alla santa preghiera. - Lei percosse
a vespro la voce rozza, ma lieve come l'aura dei poggi, della
montanina, che riduceva a casa le capre, e non potè
conoscere dall'alacrità degli occhi rivolti frequentemente
in giro, dallo incesso irrequieto, dal simbolo dei fiori intorno
al cappello se pei suoi amori correva la stagione dei sospiri, o
quella delle lacrime. - Su l'alba udì scoppii di archibugi,
e latrati di cani, e grida di uomini, e non potè seguitare
lietamente curiosa le vicende della caccia, o sovvenire ai feriti,
se i masnadieri avevano assaltato gl'improvvidi viaggiatori. La
campana suonò invano alla messa; invano ai funerali: poca
cura ci punge pei morti ignoti; e recitarci con le proprie labbra
il de profundis è cura troppo molesta. - Per dio! A tale
l'aveva ridotta il vecchio maligno, che ella veggente non sapeva
che cosa farsi della luce degli occhi; ella viva non sapeva in che
cosa adoperare la vita. - Ma tempi di ferro erano cotesti, e
Francesco Cènci per cupa scelleraggine singolare, non raro.
Nè meno turbavano la desolata il passo della scolta, che
per lo aperto verone le camminava sopra la testa, e il frequente
gridare all'erta, e lo squillo della campana ogni quarto di ora, -
conciosiachè noi tutti, è vero, sappiamo che il
Tempo va e fa andare, cacciandosi davanti senza posa, e giorni e
secoli verso la Eternità, a guisa di mandriano che affretta
gli armenti al presepio quando minaccia tempesta; - ma starci
seduti sopra la riva a vedere inerti sparire veloce il torrente
della propria esistenza, è troppo acerbo travaglio. Nel
tumulto della vita affetti, sensazioni e pensieri ci fanno
dimenticare troppo più spesso che non conviene la fuga
della nostra vita; ma nel carcere sentirsi misurare i minuti che
passano dall'orma del carceriere sul capo, è supplizio che
supera la immaginazione. Tu provi quanto tormenti acerbo il Tempo,
allorchè deposta la falce prende la lima, e lento,
continuo, implacabile ti sega il cranio; e quanto sia angoscioso
contemplare speranze, ingegno, anima e corpo disfarsi in atomi, e
cadere come limatura di ferro ai tuoi piedi.
Beatrice nel volgere gli occhi al cielo non prega, e non rampogna;
sembra piuttosto che interroghi: «Dio! mi hai tu
abbandonato?»
Le sue parole furono uguali alle estreme che profferì
Cristo sopra la croce, prima di declinare il capo, e spirare.
Io conosco bene la mente selvaggia di uomini superbi, che le
avrebbero risposto così: «E chi ti ha detto, folle,
che Dio protegge, ed abbandona? Dio non abbandona, nè
protegge. La forza misteriosa della sua azione, che si manifesta
con la moltitudine delle cose create, getta assidua nello abisso
pugni d'arena di oro, e cotesta arena sono stelle. Egli le
costringe a moti diversi secondo la legge della loro durata. Se la
polvere di questi mondi, animata o no, avvalla o s'inalza,
seppellisce sotto di se lo esercito di Cambise(), o si lascia
arare, zappare, e si sottomette a produrre frutto: se piange, o
ride, o sta immota superficie di camposanto: se si agglomera in
mastodonte, o si sperpera in formiche: se si trasforma in penne di
aquila, o nelle fibre inerti del tardigrado, egli non cura questo,
e non lo può curare. Ai fini della natura basta che nulla
giaccia infecondo, o si disperda sterilmente; poi, che aumentino
mille avvoltoi, e diminuiscano dieci mila colombe poco le importa.
Immensa macina che infrange reami ed acini, imperatori e lumbrichi
per crearne nuovamente lupi, o pecore, od altri animali. La
dottrina della trasmigrazione insegnata a Pittagora dai Sapienti
di Egitto, una volta presa a scherno da insensati filosofi,
è cosa tanto evidente, che sembra impossibile come possa
essere stata impugnata. Difficile è spiegare quello che non
si comprende, e non si può intendere; follìa
disprezzare, o negare ciò che supera la nostra
intelligenza; ma che il Supremo Fattore abbia a tenere conto, non
che della specie, dello individuo, non sembra che possa
dirittamente credersi. La natura recasi in mano l'universo, e lo
soppesa; se torna il volume non le importa la forma.
«E poichè gli uomini sortirono questa vita e questa
forma senza chiederle, e molti ancora senza desiderarle,
perchè le non si possono rassegnare senza offesa della
natura? Singolari ella fece le vie del nascimento, infinite quelle
della morte; sicchè può ritenersi, che a lei piaccia
la vertigine delle trasformazioni. Se gli orecchi nostri potessero
udire la voce della natura, noi sentiremmo ch'ella predica sempre
ai mortali: =Ospite, io non ti trattengo a forza alla mensa della
vita; tra le bevande, che io ti appresto davanti, scegli quella
che meglio ti talenta; e se ti piace l'oblìo, bevilo, e
vattene=.
«Veramente, come se l'uomo non fosse presuntuoso abbastanza,
gli hanno dato ad intendere, e la sua superbia glielo ha di
leggieri persuaso, sentinella infedele non poter disertare il
posto al quale la Provvidenza lo commise; lui essere re
dell'universo; la favola di Atlante adombrare il simbolo dell'uomo
chiamato a sostenere il mondo sopra le sue spalle. Il sole fu
appeso nel firmamento per riscaldarlo, la luna per illuminarlo, le
stelle per divertirlo nelle notti di estate. - Fin qui pazienza;
le adulazioni da un lato, e la superbia dall'altro erano
follemente innocenti; ma diventarono crudeli quando gli dissero:
=tutte le creature che vedi furono fatte per te=. Allora il
vanaglorioso spietato stese la mano sopra gli enti che hanno anima
e sangue, e prese a vivere della loro morte, ed osò senza
ribrezzo convertirsi in sepolcro palpitante.
«Ora questo vampiro nudrito di superbia s'irrita di ogni
lieve sciagura, non vuole sopportare le infermità, aborre
la morte. Cadono i cedri del Libano, caddero le querce secolari
delle foreste druidiche; scomparvero città, popoli, imperi,
e perfino rovine d'imperi. Nel cielo aprono, e chiudono del
continuo le palpebre i pianeti, e questo verme petulante presume
vivere eterno, e felice - satrapo della natura. - Mora come fa
morire. Si rassegni al fato comune; torni senza mormorare alla
terra donde è nato: polvere è, polvere
ritorni».
O filosofo dalla mente selvaggia! io conosco questi argomenti, e
il mio intelletto li comprende; ma questo cervello che pensa,
questo cuore che soffre, tutto il mio ente, che si agita, non si
appaga di sermoni e di sofismi. Poichè la natura infuse
nell'uomo lo amore, anzi la smania della propria conservazione,
non può averlo legato alla vita, come Cristo alla colonna,
per dargli seimilaseicentosessantasei battiture. L'uomo ha diritto
di essere felice, e nella natura si hanno a trovare facoltà
per diventarlo; che se così non fosse, l'uomo avrebbe
ragione di volgersi al cielo, e domandare: «Dio!
perchè mi hai creato?»
E questa domanda umile tornerebbe assai più terribile al
trono di Dio, che la minaccia di Encelado, o la ribellione di
Lucifero.
Se tali fossero i pensieri, che tennero occupata la mente della
donzella finchè stette genuflessa, io non saprei; ma certo
doverono essere strazianti, però che quando si
rilevò da terra come spossata lasciasse cadersi sul letto.
E il sonno le fu meglio amico della veglia.
Sognò il mare Jonio là dove il cielo e l'acqua
sembra che vengano a contesa di limpidezza, di azzurro e di luce;
imperciocchè se il cielo ostenta i suoi fuochi di stelle,
le acque sfolgoreggiano di fosforo; e se il cielo si ammanta di
nuvole di madre perla, il mare si vagheggia nel dorso dei suoi
delfini dalle scaglie di mille colori: gli abitanti dei due
elementi paiono colà bramosi di stringere parentela fra
loro; lo smergo e lo alcione scendono a battere l'onda con le ale,
e vi si posano in grembo come dentro al nido; all'opposto i pesci
volanti si sollevano descrivendo leggiadre parabole nell'aria con
le pinne verdi e dorate. Il Creatore volge uno sguardo al cielo,
ed uno al mare; e vedendoli entrambi stupendamente belli, ride
compiacendosi della opera sua: cotesto sorriso si spande dintorno,
ed empie di allegrezza ogni cosa.
In mezzo al mare sorge il promontorio di Santa Maura, l'antica
Leucade, come un'ara dedicata allo amore infelice. Quinci soltanto
Saffo, la derelitta, spense nel mare sottoposto l'amore a un punto
e la vita; e le acque memori nei pleniluni sereni lungo le spiagge
ricurve si lamentano in suono di lira().
A lei parve trovarsi sopra cotesto scoglio sola, e abbandonata da
tutti. Lungi di Sotto vedea le vergini oceanine intrecciare
carole, e instituire giuochi per la chiara faccia delle onde. Di
tratto in tratto le fanciulle a lei si volgevano, e lei chiamavano
co' cenni onde ai loro cori si mescolasse. Allo improvviso un
rombo di ale sopra il suo capo le fece levare gli occhi in alto,
ed ecco apparirle, in sembianza di Amore in traccia della rapita
Psiche, il biondo Guido, l'amico del suo cuore, che scendendo le
tendeva le braccia: ella con impeto grande alzò le sue, e
le loro labbra s'incontrarono...
Canova ritrovò la immagine di quel sogno quando
scolpì il gruppo divino di Amore e Psiche.
Beatrice si desta: teneva tuttavia le braccia sollevate; ella le
lascia cadere di peso su la coltre, e sospira. Crucciosa di
essersi lasciata illudere da un sogno, si chiude sotto i lini; il
seno candidissimo si affonda fra le piume, e i biondi capelli si
spandono pei guanciali. Irridendo se stessa ella diceva:
- Misera! Ormai avresti dovuto imparare a prova come i contenti
per te sieno sogni, le sole amarezze vere. Guido con braccia di
carne potrà rompere la verga ferrea del destino? - E forse
a questa ora gli sarà venuta in fastidio la vittima segnata
dalla sventura. Poveretto! Io non lo vorrei mica biasimare: no
davvero, perchè il contagio allontana il padre dal
figliuolo, il marito dalla moglie, senza che per questo ne venga
loro la taccia di cattivo cuore. Ora lo infortunio non s'insinua
più inevitabile, e più fatale dello stesso contagio?
Ed io come potrei in coscienza desiderare, o pretendere, ch'egli
si sprofondasse giù nel precipizio, dal quale nè
uomo nè Dio pare che possano, o vogliano salvarmi! - Volga
il suo affetto su donna meno infelice di me, e sia sposo
avventuroso... e padre... io glielo desidero... ah! no...
sì - io devo desiderarglielo con tutta l'anima: - ma
intanto ella bagnava l'origliere di molte lacrime involontarie.
Adesso si riprova a confortare col sonno lo spirito affaticato;
invano però, chè agli occhi vigili sotto le chiuse
palpebre apparisce muovere dalle lontane mura di Roma un punto
oscuro, e avanzarsi, avanzarsi per piani e per colline come
polvere sospinta dal turbine: cotesto punto nello accostarsi
assumeva sembianza umana; si avviluppava dentro una cappa bruna;
teneva il nero cappello abbassato su le ciglia: arrivato sotto la
torre della Rocca Ribalda, ecco al raggio della luna mostrarsi
tutto quanto egli era aitante e bello, e chiamarla con la mano. Il
cuore con lo affrettare dei palpiti le aveva svelato chi fosse lo
straniero.
Giù a piè del colle, accanto al torrente delle acque
perenni dove la forra si chiude più ombrosa, mezzo celata
tra le fronde degli olmi s'innalza una cappelletta ufficiata da
certo santo Eremita, a cui veruno afflitto cuore ricorse mai
invano. Egli, richiesto, consente ad unire in matrimonio Beatrice
e Guido. Ella tende la destra, e maravigliando forte non essere
prevenuta, chiede la destra di Guido; ma questi si ricusa, e la
tiene nascosta sotto la cappa. Ella insiste: alla fine arriva a
impadronirsene; la sente umida, e viscosa: ritira la sua
spaventata, e se la vede, ahimè! intrisa di sangue: che
sangue è questo? dimmi.... Guido sparì, sparì
lo Eremita; ella si trova circondata da uno inferno di tenebre.
*
* *
Un lieve tocco sospinge la porta; ecco si muove silenziosa sopra i
cardini: prima il capo; - poi il petto; - finalmente tutta la
persona apparisce di un uomo canuto, avvolto dentro ampia zimarra,
col tòcco rosso sul capo. - È il Conte Cènci
strascinato dal destino. Tende l'orecchio... ascolta... l'alito di
Beatrice. Appoggia il corpo intero sul piede di dietro, muove
cauto l'altro, e sempre va innanzi; si ferma in fondo al letto.
Beatrice ha chiuso gli occhi a sonno travagliato, e agitandosi
irrequieta si è scomposta la chioma, che le sta vagamente
sparsa pel seno divino.
Egli la guarda. La vista di forme così stupendamente
leggiadre rallegra l'anima; chè rosa e donna, quanto meno
si mostrano tanto più appaiono belle...
Che ardisce costui? Non basta, ed è anche troppo, vedere
quel seno che palpita?
Prassitele scolpì due Veneri: una velata, l'altra ignuda.
Quei di Gnido comperarono la nuda, modellata sopra le membra di
Frine; per la qual cosa ritenendo ella più della cortegiana
che della dea, venne laidamente contaminata, e la religione della
divinità si dipartì dal simulacro; ma i cittadini di
Coo acquistarono la Venere velata, sicchè n'ebbero fama di
pii, e lunga si produsse la devozione pel tempio di loro. Quivi
convennero tutti, giovani e vecchi; i primi perchè la
vedevano pudicamente leggiadra; gli altri perchè
leggiadramente pudica().
Il truce vecchio stende le scarne braccia, e trae a se cautissimo
i lini. I tesori di coteste membra appaiono manifesti... di
coteste membra, che lo stesso Amore avrebbe velato con le sue ale
agli occhi di uno amante.
Cheta, cheta la porta della stanza torna di nuovo a volgersi sopra
gli arpioni: entra un altro uomo, e si ferma: - guarda...
stupisce... e non ravvisa il Conte al fioco chiarore del lume, che
veglia fra loro, egli solo innocente. Il Conte lussuriando per
ogni fibra, trema; gli occhi gli si aggrinziscono a modo di
vipera: una striscia di fiamma di etico gl'imporpora il sommo
delle gote; lascia cadersi giù dalle spalle la zimarra, e
appaiono le pallide membra del vecchio... piega un ginocchio sopra
la estrema sponda del letto, e delirante si curva protendendo le
mani...
La grande rabbia di amore sconvolge l'anima di Guido; però
che il nuovo venuto sia Guido: prima di volerlo si è
trovato nella mano ignudo il coltello. - Il Conte intende un
fremito alle spalle, e volge la testa. Guido ha scagliato dentro
gli occhi del vecchio un baleno, ch'è morte. Il Conte
atterrito lascia le tende, ma Guido lo arriva con uno slancio...
lo ghermisce per le chiome incanutite nel delitto. - Il Conte apre
la bocca con una contrazione convulsa... prega egli, o minaccia?
Invano: il ferro fulminando gli squarcia la gola, gli rompe le
arterie, e così profondo gli penetra nel petto, che non
può profferire la parola. - Vacillò...
rovinò... percosse aspramente sul pavimento gorgogliando
dalle aperte fauci sangue a rivi, e un borbottìo confuso. -
Beatrice mette un gemito, apre languidi gli occhi... Dio del
cielo! non è illusione adesso... gli ferma nel volto dello
amante desiderato. L'Amore con le mani di rosa schiuse i suoi
labbri al più gentile dei sorrisi - ma cadde su l'anima
dello amante come sopra statua di bronzo... egli la fissò
inferocito, e col pugnale grondante le accennò il caduto.
Il sorriso morì su i labbri di Beatrice siccome muore il
bacio, che sul punto di svegliarci mandiamo ad una visione
notturna. Pure la donzella non conosce ancora tutti i misteri di
cotesta notte scellerata. Chi è mai quel caduto, e che fa?
Egli tiene riversa sul terreno la faccia, non fiata, e scarso
là giunge il raggio della lampada. Beatrice ha già
mosso le labbra per interrogare; Guido ha scorto, comunque
visibile appena, cotesto moto, e lo ha temuto... guarda lei...
guarda il moribondo; - ella segue con gli occhi lo sguardo di
Guido sul caduto, - poi torna a sollevarli su l'amante... egli
è sparito...
Una luce funesta ha balenato su l'anima di Beatrice. Immemore del
verginale decoro ella balza dal letto, e non rifugge, o non sente
di lordare il piè nudo nel sangue, di cui è inondato
il pavimento. Appoggia le mani su i capelli del moribondo, - gli
volge la testa... è suo padre!- -
Egli agita lieve lieve la bocca nelle estreme convulsioni; i suoi
occhi stanno orribilmente fissi nella immobilità della
morte. Beatrice si rialza, come molla che scatti, con le braccia
tese, curva alquanto della persona, impietrita di spavento: pareva
percossa da catalessìa. Gli occhi del Conte si dilatano, si
avvivano - mandano uno sguardo lungo - poi diventano colore del
piombo... si spengono... è passato.
La mano della Necessità, di cui le dita erano rabbia,
spavento, amore, furore, e pietà, tese orribilmente l'arco
della intelligenza di Beatrice; e se non lo ruppe, lo
stupidì. La fanciulla, immemore di se, stava ferma senza
pensare, senza sentire. - Guido, come lo agita il demonio, scende
tempestando le scale, traversa la sala dove si trovavano raccolti
la signora Lucrezia, Bernardino, Olimpio e Marzio; e, scagliato
lungi da se il coltello sanguinoso, grida:
- È morto! - È morto!
- Perchè non lasciaste a noi la cura di saldare i nostri
conti vecchi col Cènci? - interrogava Olimpio.
E Marzio, freddo, soggiunse:
- Questo è caso da assicurarcene bene(); - e
s'incamminò verso la prigione.
- Singolare natura umana! - Marzio, capace di ammazzare il Conte
con la medesima devozione con la quale avrebbe recitato il
rosario, appena ebbe visto la nudità della donzella si
ritrasse verecondo, scese, e ne avvisò sommesso la
matrigna; la quale, superando il ribrezzo, si attentò di
entrare nella stanza del delitto. Si fece presso a Beatrice; la
chiamò a nome; la scosse; e non ottenendo da lei risposta
alcuna, la ricoperse con la zimarra caduta al Conte, e presala per
mano la trasse via. Ella lasciò condursi, non oppose
resistenza alcuna al lavacro dei piedi insanguinati, alle
fregagioni di aceto, allo adagiarla sul letto: guardava stupida, e
non profferiva parola. Conobbero essere necessario cavarle sangue;
ma non possedevano arnesi adattati, e il modo di adoperarli
ignoravano: chiamare il barbiere parve pericoloso, e si rimasero.
Allora Marzio, secondo il suo feroce proponimento, entrò
nella stanza seguitato da Olimpio, squassò per le chiome il
cadavere, e tratto fuori lo stiletto glielo spinse dentro l'occhio
sinistro finchè la lama vi potè affondare.
- Ora mi sono assicurato!
- Non ve n'era mica di bisogno, osservò Olimpio mettendo le
dita nella gola squarciata del Conte - vedete mo' che buca! -
Potrebbe uscirne l'anima anche in carrozza. Per un'anima questa
è propriamente porta da cocchiere. Adesso pensiamo un poco,
che cosa dobbiamo farci di costui; - e dette un calcio nel capo al
cadavere.
- Portiamolo giù nel giardino, e mettiamolo sotto terra...
- Avete perso tutti il giudizio: - non basta seppellirlo; bisogna
innanzi tratto farlo morire in maniera, che abbia senso comune. -
Venite qua; prendetelo pei piedi; io lo prenderò pel capo,
e trasportiamolo sul terrazzo che dà sul giardino: ho
notato che questo terrazzo mena alle latrine, ed in parte manca di
parapetto. Il povero gentiluomo, levatosi per certo suo bisogno,
si era condotto notte tempo al destro senza lume... guardate che
imprudenza! Forse si era aggravato di cibo a cena, e certo poi di
vino più del consueto... Vedete la fatalità!
disgraziatamente ha messo il piede in fallo, ed è caduto...
- Be', be', va d'incanto. Ma l'uomo cadendo da un'altura si rompe
il collo, si spezza il cranio, e non riporta ferite operate da un
ferro tagliente, ed acuto.
- Ed anche a questo è stato provvisto: lo getteremo sopra
gli alberi; poi gli introdurremo la punta dei rami nelle ferite, e
così basterà. Credete voi, o Marzio, che vorranno
andare a cercare il nodo nel giunco? Chi è morto è
morto, e salute a chi resta.
- Qualche volta i morti ritornano: però la proposta mi
piace.
E come aveva suggerito Olimpio eseguirono appuntino.
Siccome quando donna Lucrezia, mediante una finestra terrena della
rocca che mancava d'inferriata, mise dentro al castello Guido,
Marzio ed Olimpio era notte fitta, e la famiglia giaceva tutta nel
letto, non furono visti da persona viva; così deliberarono
uscire per la medesima via com'erano entrati. Guido venuto a
consultare sul modo di porre in libertà Beatrice,
poichè si era trovato ad uccidere il Conte, decise partire
senza indugio per Roma, Marzio e Olimpio s'incamminarono nella
stessa notte ai confini del regno, per quindi ridursi in Sicilia,
o a Venezia: ebbero di presente duemila zecchini, oltre la
promessa di futuri favori e la grazia, che per la parte di casa
Cènci e di monsignore Guerra non sarebbe loro venuta meno
giammai.
Guido arrivato alla osteria della Ferrata ordinò gli
sellassero subito il cavallo; la qual cosa essendo stata fatta
secondo il suo desiderio, l'oste, che lo aveva osservato sottecchi
con quei suoi occhi maligni, nel reggergli la staffa gli
favellò:
- Oe, gentiluomo! Ieri l'altro mi diceste che andavate su alla
Rocca Ribalda per farvi la villeggiatura del Settembre: o che vi
siete mangiato in due desinari un mese intero? Misericordia!
Questo è appetito!
- L'uomo propone, Dio dispone.
- Direi piuttosto, che siate andato a recitare qualche tragedia:
avete fatto la vostra parte, ed ora tornate a casa.
- Che intendete significare con queste parole?
- Nulla; se non che avete la manica del giustacore insanguinata...
Guido guardò atterrito la manica, e conobbe che l'oste
diceva la verità; onde rivoltosi a lui, con mal piglio gli
disse:
- Sareste voi il bargello di campagna?
- Mi maraviglio dei fatti vostri, gentiluomo. Io sono compare di
un certo Marzio, che immagino voi dobbiate conoscere un poco; e
faccio come da padre a questi poveri figliuoli del bosco: sono
nemico naturale della miseria, ma onorato. Tutto questo ho voluto
avvertirvi perchè, al bisogno, facciate caso dell'oste
della Ferrata.
Guido entrò da capo nella osteria, e quivi troppo
più tempo si trattenne di quello che fosse necessario a
lavare il giustacore. Nel separarsi dall'oste egli gli strinse
familiarmente la mano, e gli sorrise come se fosse stato suo
domestico antico. Strane amicizie fa contrarre il delitto!
Il giorno seguente, che fu il dieci Settembre, la Rocca Petrella
risuonò di pianti e di gemiti, i quali echeggiarono tanto
più romorosi quanto meno sinceri. Gli abitanti del paese e
i popoli del contado dintorno accorsero a frotte per vedere lo
spettacolo. Il cadavere del Conte, non senza consiglio, fu
lasciato lunga pezza confitto dentro i rami di un sambuco. Le
comari del vicinato, stando in circolo intorno a cotesto albero
con la faccia levata in su, contavano le più strane novelle
del mondo. Chi diceva che quel vecchio peccatore, recandosi al
Barlotto di Benevento per rendere obbedienza al diavolo, si era
levato in aria a cavalluccio su di un manico di granata, il quale,
come sapete, è cavalcatura ordinaria degli stregoni; ma sul
più bello essendogli venuto di nominare Gesù, il
manico di granata gli si era rotto fra le gambe precipitandolo a
terra da un'altezza di quattro miglia e mezzo avvantaggiate. Altre
poi sostenevano che fosse scaduto il termine della scritta, con la
quale si sapeva di certo, ch'egli avesse venduto la sua anima al
diavolo; e questi, come di giusta, gli era comparso per prenderne
possesso. Confermava in questa opinione il vedere quel corpo
appeso al sambuco, che, come la savina, il noce, ed altri alberi
parecchi, è pianta consacrata allo spirito maligno: se non
che a indebolirla usciva la levatrice della Petrella, la quale
assicurava come andando fuori di casa per affari del suo mestiero
aveva udito un grande scatenìo per l'aria, e tutti i gatti
miagolare su i tetti, e poco dopo un barbagianni averle spento la
lanterna con un colpo di ale: - cose tutte che stavano a
significare, che qualcheduno in quel punto passava per aria.
Insomma tornerebbe fastidioso di troppo raccontare tutte le
novelle che solevano mettere fuori a quei tempi intorno a simili
casi, le quali venivano credute non solo dalle femminucce e dalle
genti grosse del contado, ma sì ancora da uomini
dottissimi, e da giureconsulti di gran nome; dei preti non parlo
perchè a figurare di crederci onde altri ci credesse era
affare di mestiere, e ci trovavano il conto. Chi campa di grano
semina grano, e chi d'errore vive non ischianta errore: e questo
è chiaro. Poco oltre il cerchio delle comari occorreva un
gruppo di uomini, in mezzo ai quali sembrava che facesse le carte
il Curato, e tutti insieme stavano speculando, come diavolo mai
cotesto corpo avesse potuto rimanersi così penzoloni per
aria; ma ad interrompere coteste indagini importune sopraggiunse
un servo da parte di sua Eccellenza la Contessa, che gl'invitava
tutti a entrare in palazzo. Andarono, e trovarono donna Lucrezia
inconsolabile, giusta il costume di tutte le vedove consolabili o
no, la quale dopo favellato un pezzo, interrotta ad ora ad ora da
lacrime, e da sospiri del miserando caso, ordinò al Curato
apparecchiasse al defunto funerali quanto meglio sapesse
magnifici, e corrispondenti alla nobiltà, e potenza della
famiglia Cènci: invitò poi i montanari di convenire
incappati alla ròcca per associare il morto, promettendo
elemosine larghissime in sollievo delle povere famiglie,
affinchè pregassero pace per cotesta povera anima. -
Uscirono pertanto edificati della pietà di Sua Eccellenza,
e per la strada non rifinirono di magnificare la mansuetudine e la
benevolenza sue. Quando tornarono per levare il corpo del Conte lo
trovarono non pure calato dal sambuco, ma chiuso, e confitto
dentro due casse di rovere.
CAPITOLO XXI.
IL MANTELLO ROSSO.
Ulrico. Non è il momento di dissimulare, o di
perderci in vane parole. Io ho detto che il
suo racconto è vero, e che egli deve essere
ridotto al silenzio.....
Voi siete in credito col Governo: quello, che
qui avviene, ecciterà leggermente la sua curiosità;
- conservate
il nostro segreto; abbiate
un occhio vigile; non fate moti intempestivi,
non parlate... Noi non avremo un
terzo cianciatore, che stia in mezzo di noi.
Byron, Verner
- La partita è perduta; rimescoliamo le carte.
- Ma don Olimpio, osservava il biscazziere con una vocina
agro-dolce, pensa mo che ti se' messo a giuocare un poco innanzi
che suonasse l'ave maria della sera, e adesso mano a mano siamo
all'ave maria della mattina; - ogni minuto, che passa, parmi
proprio di stare su la gratella di san Lorenzo.
- Quando dianzi aprivi la bocca, ed io te la turava, con un
ducato, ti sei rimasto da abbaiare, brutto Cerbero. - Per dio! ho
perduto anche questa; a me le carte.
- Più della vostra moneta, avrei avuto caro che ve ne
andaste via; da biscazziere onorato...
- Se tu puoi fare che queste parole stieno insieme, anche un
minuto secondo... io... io ti dono la Sicilia di qua, e di
là dal Faro.
- Sono ormai sette ore, ch'è scorso il termine assegnato
dal bando del Vicerè; e se il bargello, che ha una vecchia
ruggine meco, mi cogliesse in fallo, potrei andarmene più
che di passo a gettarmi nel golfo con un pietrone al collo.
- Brutto Giuda Scariotte! - gridò Olimpio dando di un
grosso pugno sopra la tavola, che fece rovesciare i fiaschi, e
ballare i bicchieri, e gli altri arnesi di terra cotta, e di
canna, ch'ebbero nome pipe(); - tu mi mandi la jettatura sopra le
carte... è andata anche questa; perdo a bocca di barile.
Il biscazziere poi, secondo il solito, aveva mentito;
imperciocchè egli e il bargello stessero congiunti insieme
come le dita di una medesima mano, sempre pronta a chiudersi per
afferrare. Nessuna spia più puntuale, e precisa possedeva
il bargello del biscazziere circa alle cose che accadevano dentro
la sua bisca, potendo ancora intorno a quelle di fuori. Salario
dello infame mestiero era la trasgressione impunita dei bandi sul
giuoco: costume in quei tempi riprovato palesemente siccome anche
ai nostri, e non pertanto in cotesti tempi di barbarie, come ai
nostri di pretesa civiltà, messo in pratica alla sordina.
Le belle leggi si rassomigliano ai tappeti di damasco, che si
mettono fuori nei giorni di gala per ricuoprire le muraglie
sudice. Le usanze pessime sotto le belle leggi continuano a
camminare, perchè bisogna persuadersi che la Società
può vivere benissimo con i vecchi abusi come l'uomo mastica
anche coi denti guasti; e non è opera di un tratto di penna
emendare i disordini che derivano dalla secolare corruttela degli
uomini; e chi altramente si avvisa perde ranno e sapone: poi
impreca la indomabile perversità umana, e si getta al
disperato; mentre dovrebbe correggersi dello errore, e tornare da
capo. Ma qui il discorso menerebbe per le lunghe, e non farebbe al
caso; onde il meglio fia continuare il racconto.
- Tabula rasa. Eccoli finiti tutti...
- Coraggio, don Olimpio: bisogna appellarci in seconda istanza; ti
rifarai domani.
- Pei santi apostoli Pietro e Paolo! egli è un bel pezzo
che io dico così; ma la fortuna ha preso ad accarezzarmi
co' pettini da lino...
- Chi la dura la vince; e che tu possa durare ce lo provi tornando
ogni giorno fornito di palle e di polvere: sicchè ho
creduto, e credo, che a ricevere il galeone dal Perù siate
due: tu, e il Re Filippo nostro signore, che Dio tenga nella sua
santa guardia.
- Marzio bada a intronarmi quotidianamente negli orecchi che la
mia parte è finita... e che i suoi mille zecchini toccano
al verde...
- Mille, e mille fanno duemila. Ma sai, don Olimpio,
osservò il biscazziere, che qui nel regno con duemila
zecchini si compra un ducato? O come hai tu fatto a guadagnare
tanti danari? Raccontaci un po' come gli hai tu acquistati.
Era troppo diretta la botta perchè Olimpio non sapesse
schermirsene. Egli guardò un cotal poco alla trista il
biscazziere negli occhi, e gli rispose:
- Mi vennero dalle prese quando combattevamo per la fede.
- Per qual fede? riprese il biscazziere; perchè, salvo
onore, mi pare che tu debba esserti trovato co' Turchi più
spesso che con i Cristiani. E in quali mari hai tu combattuto, don
Olimpio?
- Oh! In tanti mari...
- Pure, quali?
Olimpio, stretto dalle domande insidiose, avrebbe dato agevolmente
dentro a qualche scoglio, se uno dei giuocatori non fosse venuto
casualmente in suo soccorso interrogando:
- O perchè non conduci teco questo tuo compagno don Marzio?
- Oh! Marzio se ne va per la maggiore; bazzica co' gentiluomini, e
la trincia da duca, come se non avessimo menato vita insieme nelle
foreste di Luco.
- Alla macchia, dunque - notava maligno il biscazziere appuntando
il dito teso sopra la tavola - alla macchia dunque, e non sul mare
tu facesti le prede.
- O al bosco, o al mare, che importa a te, brutto Giuda? Ah! tu
vuoi fiscaleggiarmi? - rispose turbato Olimpio; e il biscazziere,
che aveva paura di quel colosso, ritrasse indietro la voglia del
sapere imitando la chiocciola, la quale tira a se le corna quando
se le sente toccare.
La sera successiva Olimpio non si pose al solito luogo davanti la
tavola del giuoco, sibbene in fondo della stanza col braccio
piegato, e la faccia appoggiata alla mano aperta: cacciava fuori
dalla bocca con irrequieta prestezza buffi su buffi di fumo, e il
suo volto, già abbastanza sinistro, adombrato da cotesta
caligine compariva più truce.
- Il galeone di Acapulco non è arrivato stasera?
- O perchè non hai condotto il tuo compagno don Marzio?
- Queste due domande andarono come due frecce a percuotere nel
medesimo bersaglio: sicchè Olimpio sentendosi punto, dopo
avere bestemmiato al corpo e al sangue, rabbiosamente
favellò:
- Per avere addosso il mantello rosso gli pare essere il Conte
Cènci, a cui lo ha rubato...
- To' consolati, disse il biscazziere mettendogli davanti un
boccale di vino.
Olimpio lo vuotò di un tratto, e sospirando lo ripose su la
tavola.
- Tu non mi vuoi bene, riprese il biscazziere, ed hai torto
marcio; e per provartelo, se vuoi una dozzina di ducati da
giuocarteli, e rifarti, io te gl'impresterò...
- E chi ti ha detto, che io non ti voglio bene? Anzi io te
nè vo' più che al pane...
- E quel Marzio, che tu onori come tuo sopracciò, intanto
ti bistratta, e ti nega danari...
- Figurati! Sai tu che cosa mi ha detto quando gli ho esposto che
non avevo quattrini? Se sei povero, impiccati.
- Ti ha detto?
- Già! e che gli dicessi dove volevo andare; perchè
se io prendeva a ponente, egli si sarebbe indirizzato per
levante...
- Le sono cose da far piangere i sassi; - e il biscazziere beveva
a fior di labbro, e poi profferiva il boccale a Olimpio, che se ne
andava in fondo senza prender fiato - solite ingratitudini degli
uomini: finchè hanno bisogno, ti fanno vedere Roma e toma;
passata la festa levano l'alloro, e chi ha avuto ha avuto...
- Proprio così; ma!...
- Ed ora, che farai? Se potessi aiutarti fa capitale di me, e tu
vedrai se per gli amici mi sento capace a entrare nel fuoco in
camicia. Degli uomini bisogna dire come dei cavalli: alla svolta
ti provo... beviamo...
- Beviamo! - rispose Olimpio; e dopo avere bevuto, ed essersi
asciugato col dorso della mano la bocca, continuò:
- Non saprei. Se potessi far tenere sicuramente una lettera a Roma
alla famiglia Cènci, sono certo che non mi mancherebbe
soccorso... perchè bisognerebbe che mi soccorressero...
- Sì, eh? - incalzava il biscazziere, tenendo le orecchie
tese a modo di lepre che abbia paura, e i muscoli della sua faccia
si dilatavano come l'erba sul finire dello agosto per una scossa
di pioggia: mostrava la gioia degli animali carnivori quando,
nascosti fra i cespugli, vedono, o sentono accostarsi saltelloni
la preda.
Nè era affatto vero, che Marzio avesse profferita la
villana ingiuria contro Olimpio; tutt'altro: egli lo aveva con
molta benevolenza chiarito come da più giorni fossero
terminati i mille zecchini di parte sua, e come, parendogli
urgente di levarsi entrambi dal regno, non poteva consentire ch'ei
si lasciasse rubare per bische, o spendesse per taverne anche la
moneta necessaria al viaggio; ma Olimpio mentiva scientemente, e
fingeva un torto per farsi ragione: caso frequentissimo a
succedere tra genti malvage; e, quello che sembra più
strano, elleno stesse talora col credere alla propria bugìa
arrovellano se non vengono satisfatte per ingiuria, che non hanno
mai ricevuta.
Non pertanto a Marzio, ripensandovi su, parve non avere praticato
da uomo di senno, ed essere pericoloso contendere con le passioni
brutali di Olimpio, fuori di misura cresciute eziandio in mezzo
alla corruttela di una grande città; onde deliberò
andarlo a trovare, e raddolcirlo, finchè lo avesse tratto
seco dal regno: proponimento che intendeva compire presto. Sapendo
a quale bisca per ordinario si riducesse la sera, colà
volse i suoi passi contando, come gli venne fatto, di rinvenirlo a
posta sicura.
- Bisognerebbe! - riprendeva il biscazziere, - o che sono tuoi
banchieri i Conti Cènci, Olimpio?
- Fa conto, che lo sieno...
- Ho capito, soggiunse il biscazziere, avresti forse mandato a
dormire qualche nemico di casa?...
- Per questi lavori non si danno pensioni; chè anche qui,
come costà, io mi figuro che i guastamestieri abbiano
sciupato ogni cosa...
- O dunque?
- Egli è peggio... ma peggio di così... il segreto
è qui dentro... e perchè il coperchio stia chiuso
bisogna metterci sopra un tappo di argento...
- Sì?... E questo segreto tu me lo puoi confidare...
- Io so... chi ha ammazzato il Conte Cènci...
- Oh! - esclamarono a coro i giuocatori vedendo comparire in
questo punto improvviso fra mezzo a loro un uomo di maniere
cortesi avviluppato dentro magnifico mantello di scarlatto trinato
di oro - ben venga don Marzio; egli si fa dei nostri...
Maravigliò non poco Marzio sentendosi chiamare a nome; e
girando intorno gli occhi li fissò sopra Olimpio, che,
torta appena la faccia, si volse nella prima posizione senza
guardarlo, e brontolando di stizza.
- Mi piace di non giungere nuovo fra questi gentiluomini.
- Don Marzio, disse il biscazziere strisciandogli intorno a guisa
di biacco, vuoi tu posare il tuo tabarro? In fè di Dio
merita bene che tu gli abbia riguardo, perchè mi ha l'aria
di una donazione causa mortis di qualche principe, marchese, - o
per lo meno, conte.
Marzio guardò Olimpio una seconda volta, ma questi si
rimase immobile. Marzio allora depose di buona grazia il mantello,
e si assettò al giuoco. Siccome anch'egli andava esperto
delle male arti dei giuocatori, e stava su l'avvisato, così
la fu guerra tra corsale e pirata, dove non corrono altro che i
barili vuoti. I giuocatori, avvezzi alle facili vittorie sopra
Olimpio, per questa volta a mala pena poterono rimettere la spada
nel fodero. Rimasto spazio convenevole di tempo, Marzio sentendosi
più del solito in quella sera travagliato dalla tosse, che
gli si era da parecchi mesi cacciata addosso, profferendosi che in
seguito avrebbe frequentato la bisca, riprese il tabarro e
andò via, lasciando Olimpio deluso nella sua aspettativa di
essere pregato da un punto all'altro a fare la pace, ed accettare
una quarantina di ducati per cotesta sera. - Marzio, considerando
la bestiale rozzezza di costui, se n'era adontato, ed aveva
risoluto risparmiarsi la mortificazione di blandirlo; andare a
casa, e, fatto baule, scansarsi la mattina su l'alba da Napoli.
Olimpio quanto stette duro finchè sperò venire
ricercato di pace, altrettanto cadde avvilito adesso che si vedeva
negletto; per la qual cosa uscì con presti passi fuori
della bisca, affrettandosi a raggiungere Marzio. Nè il
biscazziere tenne i piedi in casa, e si cacciò dietro a
costoro imitando il moto che fanno i corvi tarpati, i quali
saltellano, saltellano di scancìo; poi ad un tratto si
fermano, voltando il capo sospettosi di qua e di là, per
tornare a saltellare a sghimbescio.
Marzio sentendosi camminare alle spalle con passi accelerati pose
la mano sotto il farsetto afferrando il pugnale, e soffermandosi
allo improvviso, con alta voce interrogò:
- Chi va là?
- Sono io, Marzio, non abbiate sospetto; non vi ho mica raggiunto
a fine di male!
- O di male, o di bene, poco m'importa. Insomma, che cosa volete
da me?
- Non v'incollerite; andiamo oltre, se vi piace, che ragioneremo a
bello agio.
E proseguirono la via. Il biscazziere anch'egli, saltellando, si
trasse innanzi.
- Ma vi par egli, incominciò Olimpio, che sia tratto da
buoni compagni lasciarmi senza un baiocco da far cantare un cieco?
Mi avete salvato da morire di fame per farmi poi morire di sete?
- Olimpio vi ho detto le mille volte, che quando vi piace veniate
a casa mia chè il mangiare e il bere non mancano; ma che
vogliate dar fondo anche ai miei pochi danari in vino, in giuochi,
e in altri, che io non vuo' dire, più brutti vizii; questo
è quello che io non vi consentirò mai. La vostra
parte voi l'avete riscossa; io vi ho reso i conti, e vi ho
mostrato, che io sono in credito meglio che di duegento ducati;
nè voi lo avete potuto negare. Ora, qual diritto pretendete
sopra i miei danari?
- Voi mi avete insegnato, che la mancanza di diritto pei banditi e
pei soldati, ed anche pei grandi signori, non è buona
ragione ond'essi si astengano, quando capita, da prendere la roba
altrui.
- E sta bene; ma io parlava di diritto, e non di forza; ed io di
forza ne ho quanta voi. Ora, quando le forze si bilanciano,
voglionsi mettere le mani alla cintura, e aprire alla lingua
l'uscio di casa.
- E la lingua non fa peggiore piaga delle mani? Dove hanno la loro
forza l'aspide e la vipera? - L'uomo qualche volta rassomiglia
l'aspide.
- Lasciate pure da parte il qualchevolta, e dite addirittura, che
l'uomo si assomiglia all'aspide... ed io lo so, e l'ho provato.
- Specialmente nei luoghi dove, come in Napoli, governa un Vicario
criminale con facoltà amplissima di scuoprire delitti
concedendo taglie, e remissione di pena ai complici delatori...
- Di questa sorta vicarii ce ne ha per tutto il mondo; ma senza i
delfini che menano perfidamente i tonni, le reti si tirano su
vuote.
- E la disperazione voi sapete, Marzio, fa gli uomini spesso
peggio che delfini; gli rende pesci-cani.
- Ho capito, - pensò fra se Marzio, e poi con voce blanda
riprende: Olimpio, Olimpio! certe parole ho inteso dal
biscazziere, che mi fanno temere forte non abbiate commesso
qualche solenne imprudenza; - e allora saremmo rovinati io, e
voi...
- Sì veramente! Nascemmo ieri...
- Non v'infingete, Olimpio, perchè potrebbe darsi che il
segreto non fosse più mio nè vostro, e a me è
toccato sempre rammendare i vostri strappi: pensate che ne va la
vita.
Olimpio fece lì su due piedi un poco di esame di coscienza,
e pur troppo conobbe che Marzio aveva ragione; però
essendosegli cacciata addosso una bella paura, proseguì a
parlare con tronchi accenti:
- Ora che mi risovvengo bene... davvero... Marzio mio... bisogna
che mi aiutiate a raccattare una maglia... ma che volete? Avevo
una stizza addosso! - Insomma... mi è sdrucciolato...
giù dalla bocca... qualche cosa... da far credere...
sospettare, che noi fummo insieme ad ammazzare il Conte
Cènci...
- Burlate voi? Allora noi siamo perduti...
- No... dico da senno... ma quelli, che mi hanno sentito, paionmi
tutte persone dabbene. Nondimeno, se io non avessi parlato... o se
vi fosse modo a far sì, ch'essi dimenticassero... o alla
più trista che non potessero più parlare...
- Come? Alle lettere si mette un sigillo di cera di Spagna: alle
labbra conviene apporre un sigillo di piombo a mo' delle bolle di
Sua Santità...
- Eh! potendo sarebbe la strada più breve... ed anche di
ferro potrebbe fare al caso.
- Lo credo anch'io; - disse Marzio, e guardò sott'occhio
Olimpio; ma gli parve ch'ei stesse su le parate: tese l'orecchio,
e non sentì muovere alito nella contrada,
imperciocchè faccia più rumore il polso di un tisico
battendo, di quello che menasse il biscazziere co' suoi saltetti
misurati. Intanto giunsero davanti a un tabernacolo della Madonna
ove ardevano due lampade. Olimpio, che camminava a mano manca di
Marzio, sollevò la destra per cavarsi il cappello davanti
la devota Immagine; e Marzio, colto il destro, si volse improvviso
sul fianco sinistro, e gli cacciò lo stile fino alla
impugnatura nel ventre. Olimpio stramazzò gridando:
- Marzio, che fai? - O Santa Vergine, aiutami!
E Marzio gli fu sopra dicendo:
- Tu ti sei condannato da te, Olimpio, quando hai convenuto, che
la bocca ciarliera vuole sigillo di ferro; e così piaccia a
Dio, che a questa ora basti; - e mentre così favellava
attendeva a finire con altre coltellate Olimpio. Sicchè
parendo a Marzio ch'ei fosse vicino a spirare, asciugato prima lo
stile sopra i panni del moribondo, si segnò davanti la
Madonna dicendo:
- Di questo sangue dovrò rendere conto un giorno; ma tu,
Madre di Dio, conosci se l'ho sparso per me; se così non
faceva, costui avrebbe mandato in perdizione intere famiglie, ed
una vergine, che nel dolore e nella bellezza ti assomiglia, se non
nella gloria. -
E riprese il suo cammino come se davanti al tabernacolo avesse
recitato il rosario, non già commesso omicidio. Brutto, ed
infelicissimo miscuglio di devozione e di ferocia, pur troppo a
cotesti tempi comune. Però giunto allo albergo ripose con
diligenza vesti, danari, ed ogni suo arnese nella valigia; e
quando la notte diventò più profonda, lasciato il
saldo del suo debito sopra la tavola, levava il piede riducendosi
a dormire in altro albergo, col proponimento d'imbarcarsi il
giorno successivo all'alba sopra qualunque naviglio salpasse dal
porto. -
Il biscazziere, che da lontano aveva sbirciato il caso,
saltellò, saltellò secondo l'usato costume,
frettoloso presso Olimpio; ma lo trovò spirante.
- Don Olimpio! Ti ha ammazzato don Marzio, eh? per paura che tu
scuoprissi alla giustizia quella matassa dei Cènci, eh? -
E lo covava con tutta la persona avidamente curioso. - A vedere
quel tristo ceffo e maligno a cotesta ora, al raggio obliquo della
lampada sopra il moribondo, lo avresti detto il diavolo che stesse
al varco per acciuffargli l'anima, e portarsela seco nello
inferno.
Olimpio apre a fatica gli occhi gravi per morte, e, vista la
faccia del biscazziere, gli richiude gemendo. Il biscazziere
instava:
- Vendetta! Vendetta! - Se vuoi vendicarti, e lo vorrai certo, di
don Marzio, svela a me ogni cosa, che io sono sviscerato del
bargello; e prima che la tua anima sia arrivata (-qui si trattenne
alcun poco, perchè gli veniva aggiunto naturalmente - allo
inferno; - e sostituire paradiso non gli pareva che andasse a
dovere: per la qual cosa si tolse d'imbarazzo con un mezzo
termine, a modo dei diplomatici - )sia arrivata di là, ti
sentirai l'anima di Marzio dietro le spalle.
Olimpio non vedeva più, ma sentiva ancora; sicchè
acquistando un cotal poco di senso comune, nel punto in cui stava
per separarsene eternamente conobbe il mal fatto, e si persuase
della ragione di Marzio: mosse le labbra, e mormorò alcune
sommesse parole. - Il biscazziere in ginocchioni, curvo, con ambe
le mani appuntellate sopra il selciato della via, accosta
avidamente l'orecchio alla bocca del moribondo per sentire i suoi
detti. Invero egli potè ascoltarli, e furono questi:
- Brutto... Giuda... Scariotte.
Intanto il biscazziere, per la gran voglia di udire, aveva
insinuato la estremità dell'orecchio fra i denti di
Olimpio, che stringendoli senza sforzo potè mordergliela.
Olimpio spirò, il biscazziere gridò; ed entrambi
rimasero in atto, quegli di confidare, questi di accogliere un
segreto. Recuperato ch'ebbe il suo orecchio dai denti del morto,
il biscazziere prese a stropicciarselo piano piano per mitigarne
il dolore; poi saltellò velocissimo, in guisa che parve
radere la terra, in certo vicolo oscuro posto nel bel mezzo della
città; e quivi senza adoperare cautela alcuna,
poichè la notte, diventata profonda, non permetteva che lo
potesse vedere persona, battè in modo particolare alla
porta segreta praticata nella parte postica di un palazzo. La
porta si aperse, e si richiuse guardinga, e quieta come la bocca
della volpe che divora una gallina.
Alla dimane, prima che l'alba spuntasse, Marzio fu al molo; e non
trovando per quel momento altro legno in procinto di prendere il
largo, tranne una tartana la quale faceva vela pur Trapani, presto
si aggiustò pel nolo col padrone; e già saliva la
scala per mettersi in barca, e già era salvo, quando il
mantello rosso gli cadde in mare. Bisognò che i marinari
calassero il raffio per ripescarlo: non venendo loro fatto di
agganciarlo subito, si riprovarono anche una volta e due. Mentre
così perdono fatalmente tempo, ecco apparire alla lontana
uno stormo di corvi, e piegare difilati contro la barca. Marzio
con la sua vista acutissima aveva di già sbirciato il
biscazziere; e questi, non meno sparvierato di lui, aveva scoperto
il mantello rosso, e chi lo portava. - Marzio si affaccendò
a gridare che lasciassero andare il malaugurato tabarro, e
salpassero senza indugio; ma ormai era troppo tardi.
- Ferma la barca per ordine del Vicerè. -
La barca rimase come impietrita, e gli sbirri arrampicandosi
giunsero in tempo ad afferrare Marzio per le falde giusto in quel
punto, che stava per precipitarsi dentro al mare.
- Dio non vuole! - esclamò Marzio, e si lasciò
legare senza contrasto. Per non fare accorrere gente, e non
muovere rumore a cotesta ora matutina, gli sbirri, seguendo
l'antico costume di operare le cose loro a chetichella, gli
gettarono addosso il tabarro rosso dopo averne strizzato l'acqua,
cuoprendogli così le braccia ammanettate. Due sbirri, uno
di qua l'altro di là, lo accompagnavano in sembianza di
servitori: gli altri seguivano alla lontana.
Il bargello, rimasto addietro sul molo, gridò:
- Oe della tartana! - Potete andare a buon viaggio.
*
* *
- Eccellenza! gli sparvieri tornano con la cacciagione.
Così annunziava un servo, che al sembiante e agli atti
partecipava dello sbirro, e del chierico. Queste parole,
sussurrate traverso al foro della serratura dentro una alcova,
ebbero virtù di sollevare un carcame di ossa e di
cartilagini di sotto alle coperte; e di qua e di là dai
lati del letto furono viste sbucare due persone, le quali,
voltatesi le schiene appoggiate alle sponde si affrettavano a
mettersi le calze, e cuoprirsi con qualche vesta le membra.
Da parte sinistra era un uomo lungo, magro, ossuto così,
che quando ebbe tirate su le calze, le gambe vi sguazzavano dentro
come flauti: aveva il volto giallo come olio da lumi,
bucherellerato in guisa, che sembrava composto di cacio
parmigiano; intorno agli occhi ricorreva un cerchio turchino, e
gli occhi in mezzo lustri, ma privi d'intelligenza, e fissi come
quelli del falco. Negli sforzi fatti tirando le labbra verso le
orecchie, egli scoprì una immane rastrelliera di zanne
donde sporgevano maiuscoli i due denti canini, i quali
comprimevano il labbro inferiore anche a bocca chiusa. Aveva in
testa un berretto bianco di tela, trinato, e legato con nastro di
seta colore di fuoco: intorno al corpo gittò una zimarra di
panno bianco soppannata di colore di rosa.
Dalla parte destra era una donna... donna? Sì, donna: i
suoi capelli bianchi e neri le stavano arricciati, irti sul capo,
come se tutta notte avessero litigato fra loro. Io non ho tempo, e
manco voglia, di dipingere tutti i personaggi di questo racconto:
molto più che se tu volessi, mio diletto lettore, formati
idea precisa di questa creatura, non avresti a far altro che
rammentarti il bassorilievo della morte del Conte Ugolino,
attribuito a Michelangiolo. Al sommo del quadro apparisce la
figura della Fame; torna a guardarla, e fa' il tuo conto che la
mia donna ne avesse somministrato il modello allo scultore. Mentre
l'uomo si vestiva in fretta così favellava:
- Carmina, cuore mio, questo negozio io spero che mi
rimetterà in grazia del Vicerè. Anni sono, pei
delitti che succedevano su i confini dalla parte della Chiesa egli
voleva che bevessimo grosso; e se i misfatti non riguardavano
proprio gli Spagnuoli, non ne avevamo nemmeno a parlare. - Chi sa?
forse voleva ammonticchiarvi immondezze, per dare faccende alla
granata di Sisto V: ora, ad un tratto, pretende che dobbiamo avere
più occhi di Argo, - di quello Argo, sai, messo da Giove a
guardare la vacca Io, - e più mani di Briareo; ma sono
curiosi costoro! Quando dicono voglio, pensano avere fatto tutto.
I fili della giustizia vanno tenuti sempre in esercizio; se tu li
lasci troppo tempo inoperosi, quando li vuoi adoperare o si
strappano perchè fradici, o irrigiditi non molleggiano.
- Gioia mia, bisogna ad ogni costo tornare in grazia del
Vicerè; molto più che ho penetrato come quel tristo
del vostro Collaterale s'ingegni supplantarvi con ogni maniera
d'industria. L'ultima volta che il Vicerè venne alla
vicaria, per maladetta sorte voi eravate uscito, e il Collaterale
lo ufficiò fino all'ultimo scalino del palazzo; e quando e'
fu per salire in carrozza gli si curvò davanti, come se
volesse dirgli con tutta la persona: Serenissimo, mi dia la
felicità di mettermi i piedi sul collo piuttostochè
sul montatoio». - Cuor mio, se voi foste stato presente
questo onore sarebbe toccato a voi, e avreste imparato ad
abbassarvi quanto si deve, perchè in questo voi non siete
perito tanto che basti.
- E disse proprio al Vicerè le parole, che mi avete
riportato adesso, viscere mie?
- Gli disse! Così mi parve, dalla lontana, che gli dicesse,
- Ah! beato lui...
- E la vegnente domenica, quando incontrai alla messa quella
brutta vecchia della sua moglie, mi passò da canto senza
salutarmi, - e vidi che mi rideva per ischerno. Dunque, cuor mio,
non risparmiate partito alcuno di rientrare in grazia al
Vicerè: vuol gente prigione, e voi dategliela su la forca;
la desidera impiccata, e voi fategliela trovare in cinque quarti.
- Che diavolo dite, dolcezza mia? I quarti non possono essere che
quattro, - perchè avete a sapere, Carmina, che il boia...
ma questo sarà per desinare... adesso bisogna che io mi
affretti, che il bargello attende. - In quello poi che avete
avvertito ci è del vero... ci è del vero,
perchè se non fossero, a fine di conto, gente di male
affare, non capiterebbero in mano alla giustizia.
- E quando anche, esempli grazia, non fossero gente di male
affare, quando il Padrone vuole che tu strozzi, e tu strozza.
Vicario mio la obbedienza è santa.
- Sicuro! Credono, i gaglioffi, che la Giustizia pesi a bilancia:
è un errore: ella pesa a stadera, ed ha due romani come
aveva due staia Burraschino il biadaiolo, che andò in
galera per misure false. - Carmina, colomba mia, fa' di portarmi
subito il cioccolatte e i biscotti, perchè tu intendi che
stamani mi tocca a fare petto di bronzo; ed io ho provato, che se
sto digiuno mi casca il cuore.
- Anima mia, andate al banco che vi accomodo in un baleno...
Il Vicario andò nella stanza dell'uffizio; si adagiò
gravemente nel seggiolone, di cui la spalliera gli sopravanzava la
testa un palmo avvantaggiato, e subito diè di piglio al
campanello. Quasi nel punto stesso, da diversi lati si apersero
due porte; da una entrò la moglie Carmina con la cioccolata
e i biscotti; dall'altra il Bargello con Marzio ammanettato, e
coperto col mantello rosso.
Carmina di dietro alla spalliera del seggiolone sbirciò
Marzio, e le parve, come veramente era, bellissimo uomo,
comecchè pallido, e scarno oltre il dovere. Però nel
cuore suo di donna il capitale della compassione crebbe
venticinque centesimi per cento, mentre in quello dell'uomo
astioso per la medesima causa calò un franco intero. - Il
male è più sensitivo del bene.
- Capitano! - chiamò il Vicario, e il Bargello gli si
accostò con certa ossequiosa dimestichezza. - Capitano! -
gli domandò il Vicario sommesso nell'orecchio - avete
badato ad ammanettarlo con sicurezza?
Il Bargello spinse in avanti la mascella inferiore; e alzato il
labbro di sotto, parve, mercè cotesto atto, che volesse
dire:
- Ce ne fosse!
- E non vi è pericolo che quel ribaldo, con uno
strettone?... - E il bargello ripetè il segno.
- Posso dunque vivere tranquillo? - continuava il Vicario.
- Nèh! - rispose il Bargello scuotendo forte la lesta -
l'ho legato io...
Allora il Vicario, addentata del biscotto la parte intrisa di
cioccolata e rimettendo l'altra nella tazza, mentre masticava da
due parti incominciò a dire:
- Dunque siete voi quel malfattore empio e scellerato, che dopo
aver fatto correre sangue il Tevere e gli altri fiumi degli stati
di Santa Madre Chiesa, non ha rifuggito di perpetrare omicidii
atrocissimi nei paesi felicissimi di Sua Maestà Cattolica
il re Filippo nostro signore,... e segnatamente l'ultimo nella
decorsa notte, io non so se più bestiale o sacrilego,
davanti la immagine benedetta della Santissima Vergine? - Qui,
dato un altro morso al biscotto prosegue - Santissima Vergine. Noi
altri faremo vedere ai vostri tribunali di Roma, che meglio vale
incominciare tardi e durare un pezzo, che incominciare presto e
presto smettere. Se Papa Sisto in quattro ore prima di andare a
mensa fece prendere, processare, e impiccare un dabben giovane
spagnuolo, costumato e cristiano, che dallo avergli ammazzato in
chiesa quel suo lanzo in fuori si poteva dire propriamente uno
agnellino di latte(); noi altri, dico, mostreremo che queste, e
più mirifiche cose sappiamo mandare a compimento nella
metà manco di tempo. - E intanto alternava morsi, e parole;
sicchè vedendo che terminato il cioccolatte era rimasto
quasi intero un biscotto, rivolse di repente il suo discorso al
biscotto, favellando così: «biscotto! biscotto! credi
che non abbia più cioccolatte per inzupparti? - Carmina,
speranza mia, gratificami col propinarmi un'altra tazza di
cioccolatte!»
Carmina via come il vento, e, curiosa di non perdere sillaba dello
interrogatorio, come se n'era andata ritornò veloce
portando la cioccolata.
Il Vicario, guardando Marzio, prosegue:
- Se in corte di Roma passò di usanza la salsa di forche e
di mannaie, che Pasquino apparecchiò per Papa Sisto, ora
questa voglia è incominciata a venire a noi. Già, si
sa, le cose buone fanno il giro del mondo...()
Adesso, mangiati tutti i biscotti, conobbe essergli rimasta alcun
poco di cioccolata nella chicchera; onde apostrofando la
cioccolata, esclamò: «cioccolatte! cioccolatte! credi
forse che mi manchi biscotto per inzupparti intero?»
Carmina, fede mia, va, e portami un altro biscotto per terminare
questo insolente cioccolatte.
Carmina adesso prorompe fuori del suo riparo dietro la spalliera
del seggiolone, e, mettendosi entrambe le mani su i fianchi,
rispose:
- Ma vicario, cuor mio, s'intende acqua, ma non tempesta!
Continuando di questo passo sarà mestieri portarvi la pasta
reale a manovella, e il cioccolatte dentro al bugliolo; e poi
abbiatevi riguardo alla salute, chè il cioccolatte, quando
è troppo, guasta lo stomaco, e genera malinconia: basta per
oggi, cuore del cuore mio dolce. Non sapete che lo imperatore
Carlo V per lo abuso, che ne fece, diventò matto?() -
s'intende acqua, ma non tempesta! Da un pezzo in qua, gioia mia,
voi mi parete diventato uno struzzo...
- E voi, sapete che cosa mi parete diventata da un pezzo a questa
parte? Una... una... là... una cicogna.
Inesplicabile cosa è pure questo nostro cuore! Marzio fino
a quel punto, non badando ai discorsi del vicario, stava immerso
nel pensiero di darsi la morte. Ora venendo ad un tratto a posare
l'occhio consapevole sopra cotesti grotteschi sembianti, udendo il
garrito della femmina, e la cagione del garrire, così forte
si sentì preso dalla convulsione del riso, che proruppe in
altissimo scroscio. Il Bargello, di cui le labbra stavano
ordinariamente chiuse come le sue manette, non potè nemmeno
egli trattenersi da ridere; ma frenato dalla paura si nascose
dietro Marzio, e, mettendosi un pezzo di falda fra i denti, ebbe
la buona sorte di non essere udito nè visto dal vicario. Se
il Vicario venisse in furore non importa che io dica: tenne
cotesto riso irriverente alla sua autorità, ingiurioso alla
sua figura, alle sue parole offensivo, un crimenlese universale:
insomma un delitto connesso, complesso, e per di più
continuato(). Lasciata da parie la tazza della cioccolata
(chè, degl'istinti dello animale di rapina, spenta la
voracità prevaleva in lui la smania d'insanguinare gli
artigli) con la bocca tutta ingrommata gridò:
- Ah! cane traditore, marrano! Tu ridi, eh? tu ardisci ridere
davanti la veneranda maestà del Vicario della gran Corte
criminale di Napoli? Or ora, aspetta, che ti farò ridere di
miglior cuore, e con motivo più giusto: poichè ti
vedo disposto al giuoco... sta lieto... io ti farò ballare
co' borzacchini ai piedi e acconciature in capo, che sono una
festa. Capitano Gaetanino, su, da bello, traducetemi questo
furfantissimo nella stanza delle prove, e apparecchiate tutti gli
arnesi quoad torturam preparatoriam usque ad mortem, col gran
trespolo, la capra, i tassilli, le cordicelle, insomma ogni cosa,
e per benino.
Senza compassione, - imperciocchè nel deserto dell'anima
del bargello cotesto pozzo non venisse mai scavato, - o se scavato
una volta, da tanto tempo lo aveva riempito, che qualunque traccia
gli era ormai scomparsa perfino dalla memoria - senza compassione
dunque, ma con tristezza, egli calcolò con quanti strappi
angosciosi, con quanto stritolio di ossa avrebbe dovuto quel
misero scontare il riso, forse ultimo, che gli era comparso sopra
le labbra. Appena il Bargello e Marzio uscirono dalla stanza, il
Vicario, vano quanto iniquo, si provava a scaricare la umiliazione
sopra la moglie. A simile intento, con aria di rimprovero
incominciò favellando alla donna:
- Carmina io ve l'ho detto le mille volte, che a voi non conviene
entrare colà dove non vi spetta. Ora, vedete che cosa
n'è avvenuto? Cotesto ribaldo, viscere mie, vi ha preso a
scherno, mancandovi sconciamente di rispetto.
- Di me? - rispose la donna con profondissima convinzione. - In
verità io credo che sbagliate, e ch'egli abbia riso di voi,
cuore mio dolce.
- Di me? - Come di me? Egli ci avrebbe pensato due volte... e si
alzò, appoggiandosi ai bracciuoli del seggiolone,
mordendosi le labbra.
- Mi pare ch'ei non ci abbia pensato nè manco una, gioia
mia: in quanto a me, la Dio grazia, non sono ancora tale; - e
così favellando si volse ad uno specchio contornato di
larga cornice di ebano appesa in cotesta stanza. Il vetro era
verde, come per ordinario a quei tempi si fabbricava nelle
officine di Murano a Venezia, e l'umido della muraglia, squagliato
il mercurio, ne aveva fatta rifiorire tutta la foglia. La natura
veramente con madonna Carmina si era comportata peggio che da
matrigna: aggiungete gli anni, parecchie infermità, che non
importa dire quali, e il matutino disordine; e, come se tutto
questo non fosse anche troppo, il vetro traditore verde, e
rifiorito, si mise a parteggiare pel vicario. Ella vi si
contemplò dentro, e conobbe in coscienza di non poter
sostenere il contrasto. Caso unico, io credo, così nelle
antiche come nelle moderne storie: conciossiachè nelle
femmine la vanità sopravviva alla bellezza come il fosforo
dura a brillare nella notte anche dopo la morte della lucciola. Il
Vicario uscì trionfante, però evitava la prova dello
specchio: se vi si fosse sottoposto si sarebbe per avventura
convinto, che Marzio aveva riso di ambedue.
Seduto davanti ad una lunga tavola, avendo dall'uno e dall'altro
lato due notari, e alla sua presenza schierati tutti gli arnesi
della tortura, lo egregio vicario ostentava la fierezza di
Scipione Affricano, che monta al Campidoglio in mezzo alle insegne
dei popoli debellati. Pende dai suoi cenni il boia, ed ai cenni
del boia stanno attenti due valletti... così è:
l'apice della gloria umana si tocca, e presto; per la infamia non
vi ha scandaglio che basti. Inferno senza fondo è questo
nostro civile consorzio: anche il carnefice ha i suoi subalterni.
Marzio stava costà come trasognato. Il Vicario gli
lanciò addosso uno sguardo di sfida, quasi volesse dirgli:
«or ora vedremo se riderai».
Un notaro intanto veniva interrogando il bandito sopra le sue
qualità, e circostanze del misfatto, che gli avevano
apposto. Cessate le domande, il Vicario le lesse; e fattone come
un sunto per sovvenire alla sua memoria, volgendosi con mal piglio
allo sciagurato favellò:
- A noi, mio bel gentiluomo. Marzio Sposito, io vi contesto che
siete accasato e dalle carte processali largamente convinto: In
primo luogo, che, in compagnia del vostro complice Olimpio Geraco,
avete ammazzato barbaramente e con premeditazione l'illustrissimo
conte don Francesco dei Cènci, gentiluomo romano, nella
Rocca Petrella, situata nei confini del regno. In secondo luogo,
che il mandato a uccidere voi l'aveste da tutti, o da taluno della
famiglia di esso Conte Cènci. In terzo luogo, che in prezzo
dell'omicidio vi vennero pagati zecchini duemila; dei quali mille
per voi, e mille al predetto Olimpio. In quarto luogo, che voi vi
rendeste debitore di furto rubando allo ammazzato Conte
Cènci un mantello di scarlatto trinato di oro, statovi
reperito addosso al momento dello arresto. In quinto luogo, che in
questa decorsa notte avete ucciso proditoriamente il vostro
complice Olimpio Geraco con istrumento tagliente e perforante,
ammenandogli quattro colpi che hanno cagionato la morte
pressochè istantanea del prefato Geraco. Sopra questi
cinque punti, che vi ho letto a chiara voce, e che a vostra
richiesta potranno esservi letti da capo, siete esortato a dire la
verità confessandoli, previo vostro giuramento; e
ciò non perchè la giustizia abbisogni punto di altri
riscontri, ma per bene ed utile vostro così in questa vita
come nell'altra, e per adempire al voto della legge che desidera
simili ammonizioni, quantunque superflue. Lo eccellentissimo
signor Notaio vi deferirà il giuramento.
Il notaio, seduto dal manco lato, prese un Cristo con tale garbo,
che parve essere uno di quelli che si trovarono a crocifiggerlo,
non già degli altri che lo calarono di croce, e gli
suggerì la formula con queste parole:
- Dite: Io giuro sopra questa immagine rilevata di Gesù
crocifisso...
- Io non giuro...
- Come non giurate, se giurano tutti?
- E tutti mentiscono. Vi pare ella cosa naturale, che un uomo
spontaneo giuri il suo danno e la sua morte?...
- Ma avreste evitato lo esperimento, - osservò il Notaro.
- E che importa a voi s'egli intende provarlo? -interruppe il
Vicario con viso acerbo. - Egli è nel suo diritto, e
nessuno può toglierglielo. Sposito, voi volete esercitare
lo jus che vi viene dalla legge, ed io vi lodo. Mastro Giacinto,
tocca a voi...
Col garbo stesso col quale lo artefice industre si accinge a
metter mano ad un sottile lavorìo, maestro Giacinto, ch'era
il boia, secondato a maraviglia dai suoi valletti, spogliava in un
attimo, legava, e traeva in alto per le braccia il meschino;
Marzio sofferse gli atroci spasimi senza mandare neanche un
sospiro: solo quando adagio adagio lo calarono sul pavimento, il
suo demonio gli sussurrò dentro gli orecchi: «a che
stai?» E la memoria gli schierò, come traverso uno
specchio, davanti lo spirito tutte le vicende della sua vita.
Tradito dagli amici, perseguitato dagli uomini nelle più
care affezioni, queste gli si erano convertite in flagelli
dell'anima; le sue furie portavano faccia di amore. L'amore
filiale lo fece bandito; lo amore di amante, perfido e
dissimilatore; lo amore per Beatrice, omicida. - Di quale natura
era questo ultimo amore? Egli non lo aveva saputo chiarire a se
stesso, avvegnachè gli riuscisse sovente incominciare a
volgere il pensiero ad Annetta e terminarlo a Beatrice, o
viceversa: così errava l'anima sua dallo amore disperato
allo amore impossibile, e dallo impossibile al disperato. La sua
vita, in perpetua compagnia dell'aspra cura, aveva fatto come il
ferro premuto su la ruota quando gira; si era consumata mandando
faville. Non si sentiva più voglia di nulla. Diventa pure
sazievole questo cammino mortale quando non sai dove, o
perchè indrizzare le piante! Spesso, nel golfo di Napoli,
steso per terra con le spalle appoggiate ad uno scoglio, stava per
ore e ore a contemplare la pianura dei mari pien di svogliatezza,
essendo che la cura corrosiva fosse più intensa per tenerlo
assorto in se, che non leggiadro il golfo per sollevarlo con
gioconde sensazioni. Gli si spossarono le membra; madide di sudore
si sentiva sempre le mani e la fronte: una irritazione
irresistibile ai bronchi lo constringeva a prorompere di frequente
in nodi di tosse. Certo giorno, allo improvviso, gli si
empì la bocca di umore viscoso, che sapeva di piombo; -
attese allo spurgo... era sangue. Tremò da capo a piedi;
corse allo specchio, e si guardò... Dio! che orrore! Quale
mai rovina di se stesso! Il sangue gli si era fermato in breve
spazio sul sommo delle gote, quasi raggio di sole che tramonta
sopra la estrema vetta dei colli; - ultimo addio del giorno che
muore. Molte volte, col filo di rasoio alla gola, o col focile
della pistola alzato alla tempia, stette per troncare una vita di
miseria e di colpa; ma si trattenne sempre, adombrando a se stesso
la esitanza col desiderio di vedere prima Beatrice contenta: in
verità poi cotesta esitanza nasceva dallo istinto animale
di vita, aumentato in ragione della debolezza. Di Marzio era morta
gran parte; molta vita e molto coraggio gli fuggirono dai pori del
corpo col frequente trasudare. Cotesta prova, sebbene sostenuta
con costanza, pure lo aveva abbattuto così, che
desiderò come sommo bene la morte, e sollecita.
Però, appena deposto a sedere, il Vicario ordinava:
- Tra un quarto di ora, mastro Giacinto, replicherai cum squasso:
se frattanto volesse bere, dategli acqua e aceto; e sì
dicendo faceva atto come di andarsene.
- Vicario! - chiamò Marzio con fievole voce, trattenendo le
lacrime - se m'inducessi a confessare, potrei contare sopra una
grazia?...
- Figlio mio, andandogli incontro premuroso, e ponendoglisi al
fianco, il Vicario gli favellava dolcemente: - farò quello
che posso: ti raccomanderò al Vicerè. Il signor Duca
è magnanimo e cortese, e delle grazie donatore
generosissimo. - Voi frattanto, ser Notaro, registrate che lo
imputato ha proposto di confessare, ergo le accuse sono vere.
Questo è un passo ormai acquistato al processo, e non si
cancella più. - Dunque, figlio mio, dicevi?...
- La grazia, che domanderei, non è forse di quelle che
immaginate voi...
- O dunque che cosa chiedi? Su, da bello, diletto mio; aprimi il
tuo cuore intero, fa' conto di confessarti proprio a tuo padre.
- Confessati appena i miei falli, vorrei essere tratto subito a
morte...
- Per questo non dubitare dell'ottimo cuore del Vicerè... e
anche io ti aiuterò...
- Solo desidererei non fosse di corda, ma sì di scure... la
morte mia...
- Se non vuoi altro!-interruppe maestro Giacinto, al quale non
riuscì tacere, trattadosi di cose che toccavano tanto da
vicino il suo mestiero - il Vicerè ha un'anima di Cesare in
cosiffatte faccende...
- Silenzio! - gridò severamente il Vicario - non sono cose
queste che ti riguardino...
- Mi pareva di sì... ma avrò sbagliato... perdonate,
Eccellenza...
- Senti; in quanto alla prima domanda, di essere mandato subito a
morte, statti allegro, che la prendo sopra di me; intorno alla
seconda poi bisogna consultarne il signor Vicerè: non
è mica piccolo privilegio quello di farsi tagliare il capo!
Qui cotesto privilegio appartiene ai nobili, che ne vanno
giustamente gelosi: però, carissimo mio, per satisfarti in
tutto ne muoverò espressa domanda al Vicerè.
Il Collaterale, sopraggiunto in mezzo allo amoroso colloquio,
attendendo sempre a dare la spinta al Vicario per farlo cadere,
- Clarissimo don Boccale, gli disse, questo arbitrio potete
benissimo torvelo; perchè, chi vorrà riguardarvi
così sul sottile le costure, quando con la sagacità
e solerzia vostre andate acquistandovi meriti ogni dì
più luminosi presso sua maestà il Re nostro signore?
La insidia del Collaterale consisteva in questo: che dove per
vanità avesse il Vicario offeso i privilegi dei nobili,
presagiva vedere scatenati contro tutti i Seggi di Napoli. Ma il
Vicario non era pesce da prendersi a coteste vangaiuole; per la
quale cosa asciutto asciutto gli rispondeva:
- Signor Collaterale, voi mi farete la garbatezza di attendere a
somministrare consigli quando vi saranno richiesti. -
Orsù... dunque, figliuolo mio, parla... che cosa hai da
dire?
Marzio aveva declinato il capo sopra la spalla destra; e, chiusi
gli occhi, gli sfuggivano dagli angoli grosse lacrime non piante,
ma traboccate per la piena dell'angoscia...
- Or via, insisteva il Vicario, da bravo, figlio mio, confessa...
confessa...
Marzo sembrava assopito, e non rispondeva. Allora il Vicario gli
compresse la scapola destra con ruvidezza: quegli
abbrividì, aperse gli occhi e domandò dolorosamente:
- Che cosa volete?
- Mantenmi la promessa, e confessa...
- Come! così presto? Dov'è il prete?
- Non si tratta qui della confessione sacramentale; questa farai
più tardi, amor mio; si tratta della processale: ora il
lampo, poi il tuono; un poco di rumore in appresso, e finalmente
tutto finisce... sai?
- E che cosa ho io da confessare?
- O bella! Quello che dianzi ti ho letto, dilettissimo mio; vuoi
che io te lo rilegga?
- Oh! no: sta bene, io merito la morte.
- Dunque confessa, via, e ratifica in tutte e singole le sue parti
l'atto di accusa.
- Sì, come volete, purchè mi tolghiate presto di
vita.
- Provati un poco, cuor mio, se ti riuscisse firmare il foglio: e
voi altri fanulloni porgetemi una penna,... e che sia nuova, e ben
temperata... tuffatela per bene nel calamaro... Prendi, Sposito, e
se in vita non hai avuto buona indole, mostra almeno in morte un
bel carattere. Signor Collaterale notate, di grazia, l'agudezza;
se la risapesse il Duca, ch'è vago di bei motti, se ne
andrebbe in visibilio. - Adagio... così... a modo... con
tre dita... carino mio...
Ma le dita di Marzio, dolorosamente inerti, lasciavano andare la
penna; ond'egli sbadigliando mormorava:
- Oh quanto sono più generosi gli omicidi nel bosco, che
nel tribunale!... non posso firmare...
- Ma quel benedetto Giacinto poteva anche usare un poco più
di carità nel dargli la corda!...() disse il Vicario
volgendosi al boia in tuono di rimprovero.
- Che dite, nè! Eccellenza? Io l'ho trattato da sposo: se
avessi a dare la corda a voi, non potrei condurmi con maggiore
garbatezza.
Il Vicario, intento affatto in Marzio, non badò alla
conclusione del discorso: andati a vuoto gli sforzi per farlo
firmare, ordinò che chiudessero l'atto di accusa con le
formule necessarie per supplire al difetto della firma del
prevenuto. Distese, firmate, bollate, e impolverate le carte se le
pose diligentemente in seno, indirizzando la parola agli uscieri:
- Adesso abbiate cura di questo povero uomo: rammentatevi ch'egli
è di carne battezzata come siete voi altri, e rammentate
ancora che se la giustizia umana non lo può perdonare,
molto bene può farlo la divina: onde, un giorno, chi sa? la
sua intercessione potrebbe essere necessaria anche a noi
lassù in paradiso: pensate al buon ladrone, e non vi dico
altro. Confortatelo con vino, e confetto, e con brodo: - badate a
non fargli mancare nulla... bisogna che viva.
Marzio era caduto nella consueta letargìa.
Per lo splendore di Dio! (e notate, che la esclamazione non
è mia; bensì di Guglielmo il Bastardo) non vi pare
egli caritatevole il vicario? Maisì e avvertite, che
quantunque morto da due secoli e mezzo, io ho veduto, ed ho udito
questo vicario, epperò mi attento a descriverlo. Il Vicario
aveva posto amore a Marzio: gli voleva proprio un bene dell'anima
per molte ragioni, una migliore dell'altra: per lui contava
potersi presentare trionfalmente al Vicerè; per lui
ricuperarne la smarrita grazia; per lui dare la spinta all'odiato
Collaterale; per lui dimostrare la molta sufficienza sua; per lui
trattenere il popolo nello spettacolo sempre gradito di una
tragedia criminale; per lui somministrare subietto a far parlare
di se tutto Napoli almeno tre giorni continui; per lui,
finalmente, ottenere un ciondolo all'occhiello, ed aumento di
paga. Per le quali considerazioni, e per altre, che non si dicono,
importava assaissimo che Marzio vivesse - ma per morire sopra le
forche! Di qui la tenerezza dello egregio Vicario per la
conservazione del condannato. - Non vi pare egli caritatevole il
mio vicario?
*
* *
Il Vicario affrettandosi si presenta al palazzo di don Pietro
Girone duca di Ossuna, vicerè di Napoli per Filippo III re
di Spagna(). Nel trapassare per le anticamere egli, prima di
tutto, con disgusto non piccolo osservò, come le guardie e
gli staffieri non si affaccendassero punto ad annunziarlo, secondo
che la gravità del caso gli pareva meritare: considerando
poi, che non gli potevano leggere in faccia la grande notizia di
cui veniva portatore, gli scolpava quasi da questo lato;
sennonchè crescendo allora il malefizio del poco ossequio
alla sua dignità in questa parte, gli aggravava al doppio
di quello che gli aveva sollevati dall'altra. E se non lo volevano
onorare come don Gennaro Boccale, pareva a lui che lo dovessero
temere come l'uomo che avrebbe potuto mandarli da un punto
all'altro alle forche: però gli staffieri del Duca, servi
insolentissimi d'insolente padrone, lui non curavano, e molto meno
temevano. Il Vicario consolava la sua vanità offesa
volgendo la mente alla necessità di contenere con
regolamenti opportuni la petulanza dei famigli dei grandi, per lo
più meccanici, riottosi, e ribaldi; ma la suprema
mortificazione lo aspettava nella ultima anticamera, dove, dopo
avere pestato mani e piedi per essere introdotto dal
Vicerè, trascorso spazio lunghissimo di tempo, durante il
quale gli parve provare quei tormenti, che tanto spesso aveva
applicato ai derelitti che gli capitavano nelle mani, si
presentò un segretario per informarsi del suo bisogno. Il
Vicario gli disse: negozii di suprema importanza: desiderare che
gli fosse data licenza di conferire col serenissimo Vicerè.
Il segretario oppose negozii di troppo maggiore importanza dei
suoi tenere occupato il Vicerè, nè quindi potergli
concedere udienza.
- Ma il negozio, per cui sono venuto, tocca urgentemente la
sicurezza degli stati di Sua Maestà.
- Sì; ma vi ho detto che non può pareggiare mai la
importanza di quello che tiene adesso per le mani il serenissimo
Vicerè duca.
Il criminalista, con un ghigno derisorio, disse al cortigiano:
- Salvo onore, o come fate voi a indovinare il negozio che qui mi
conduce?
E il cortigiano, con sorriso punto meno fino, pronto alla parata,
rispose:
- Non conosco il vostro, sibbene quello del Vicerè, a cui
pochi possono andare pari, superiore nessuno.
Ed il criminalista dall'arguta risposta si trovò
capovoltato.
Ora ecco il negozio, che in quel momento teneva occupato il
potentissimo Duca di Ossuna. Sua Eminenza il cardinale Zappata
(quel desso donde nasce il proverbio, che predicava bene, e
razzolava male) gli aveva mandato in dono da Madrid un magnifico
pappagallo, ed egli si sollazzava con quello: non già che
don Pedro fosse un perdigiorno; tutto altro: aveva fama di
solertissimo nelle faccende di stato, e veramente era: ma tanto
è, in quel momento gli era saltato per la testa il ticchio
di divertirsi col pappagallo, e non voleva in cotesta ora essere
infastidito. D'altronde l'arco sempre teso si rompe, ed un po' di
sollievo giunge accettissimo agli spiriti più irrequieti.
E' fu mestieri che si rassegnasse il buon vicario ad esporre il
motivo della sua venuta al segretario, il quale accolse il
racconto con mediocre premura, e a mezzo discorso gli tolse le
carte di mano, e, voltegli le spalle, disse: «ho
capito!»
Il segretario entrò improvviso, e sorprese il Vicerè
che insegnava al pappagallo... che cosa mai gl'insegnava? Una
parola spagnuola, che verun gentiluomo vorrebbe profferire, e
nessuna gentildonna ascoltare... quantunque, pronunziata dal
pappagallo, ecciti la ilarità delle donne e talvolta ancora
il rossore; sicchè esse si celano la faccia dietro al
ventaglio, - talune per sentire, talaltre per fingere di sentire
vergogna.
Questo don Pedro (sussurrava la fama) in fatto di costumi e di
religione procedeva più rilasciato, che non consentivano
cotesti tempi; e fra le tante si narra questa di lui. Visitando a
Catania, in compagnia della Duchessa sua moglie, la chiesa di
Sant'Agata, gli porsero a baciare le mammelle di cotesta santa,
conservate con grandissima venerazione colà. Postesi
pertanto in ginocchio, prima di baciarle si volse ridendo alla
Duchessa, dicendole: «donna Caterina, senza
gelosia»(). I preti lo predicavano infetto di eresia; e fra
le altre accuse, messegli davanti al Re di Spagna, vi fu quella di
seguitare i riti della religione maomettana. Al Vicerè
increbbe essere colto in quel punto, e si voltò con cera
sdegnata al segretario, che, pilota sagace di corte, vista la
marina turbata, non sapeva a qual santo votarsi. Non gli
soccorrendo consiglio migliore, si accostò al pappagallo;
ma questo, impaurito, gli dette di becco nella mano, e gli
stracciò la carne. Il segretario sotto voce mormorò:
- Benedetto prezzemolo! E a voce alta: magnifico, bellissimo
pappagallo!...
Ma il Vicerè, stizzito, lo interrogò con voce
severa:
- Ynigo, chi vi ha chiamato?
Il cortigiano, a sua posta stizzito, se la rifece col vicario
rispondendo:
- Serenissimo! Il Vicario criminale, che, salvo onore, è
più fastidioso del fistolo, tanto rumore ha mosso
nell'anticamera urlando trattarsi della salute del Re e della
sicurezza dello Stato, che mi fu forza, onde non irrompesse fino a
Vostra Serenità, torgli queste carte di mano, e
presentarvele per liberarvi dalle importunità sue.
- Sappiamo a prova, disse il Vicerè con signorile alterezza
e porgendo là mano per ricevere le carte, negarsi a noi
quello di cui gli altri uomini hanno copia; - un momento di
riposo. Informate, don Ynigo.
- Serenissimo! Un bandito dello stato romano nella decorsa notte
ha ucciso proditoriamente certo suo compagno presso il tabernacolo
della Madonna del Buonconsiglio: arrestato stamane, confessava su
i tormenti. Il Vicario, considerata la confessione spontanea,
sarebbe di avviso si condannasse a morte senz'altra procedura, per
frenare gli omicidi e i ladronecci, che incominciano a parere
già troppi anche al signor Vicario.
- Ed è questo il motivo per cui mi siete piovuto in camera
fragoroso e improvviso, come palla di bombarda briccolata in
cittadella nemica?
- Serenissimo! si degni rammentare che la colpa non viene dalla
palla, bensì da cui la manda.
- Voi non avete mai colpa, assomigliate gli assistenti dei
sagrifizi di Giove, dei quali l'uno scaricava su l'altro il fallo
del bove ammazzato; sicchè la pena toccava finalmente al
coltello, che, innocentissimo, pagava per tutti.
Il cortigiano, per non far peggio, sorrise come estatico
all'arguzia del motto. Il Vicerè blandito, prendendo una
penna stava per firmare senz'altro la proposta del vicario; ma si
fermò:
- Per Santo Yago! ella è cosa da nulla firmare uma sentenza
di morte? Tra firmarla, e patirla una tal quale differenza ha da
essere. - Passare di un tratto da un mondo dove risplende
così luminoso il raggio del sole, ad un altro dove la cosa
più chiara, che io possa comprendere, è un buio
eterno... parmi un brutto passaggio in verità. - E qui
intingeva la penna nello inchiostro. - Comprendo eziandio,
aggiungeva, che deve riuscire più facile levare l'ancora da
questa vita in un giorno di gennaio a Stokolma, che a Napoli in un
giorno di aprile. - Alzatosi si approssimava al balcone, e,
muovendo discorso al cielo, continuava: - Occhio del cielo,
perchè apparisci sì bello ai nostri occhi, se poi
dobbiamo così presto lasciarti? Il tuo raggio divino
dovrebbe illuminare cose degne della sua divinità. La notte
dovrebbe vedere i supplizii delle colpe che si commettono nel suo
grembo, ed io non so con quale senno o giustizia il giorno ha da
contristarsi col castigo del delitto, ch'egli non ha illuminato:
l'uno e l'altro rimangano al buio...
Questi pensieri uscivano lambiccati dal cervello del Duca:
imperciocchè non gli partissero mica dal cuore, ma gli
ostentasse, quasi per far dimenticare al cortigiano la parola
turpe con la quale in bocca lo aveva sorpreso educante il
pappagallo: cotesti pensieri tenevano officio d'incenso bruciato
intorno ai cataletti per vincere l'odore del morto. Avrebbe
piuttosto desiderato sfogarsi a danno di qualcheduno, ma la
fortuna non gli presentava l'orecchio. Intanto il pappagallo, per
aumentargli la confusione e il maltalento, ripetè con voce
sonora la oscenità imparata, e parve che di lui si
prendesse a dileggio e della sua mentita filosofia. Allora si pose
in fretta nuovamente a sedere, e per liberarsi dal testimone
importuno si accinse a firmare.
- Che se il ribaldo merita commiato... via... lanciamolo nella
eternità. -
Ma il pappagallo, o percosso dalla nuovità dell'oggetto, o
cruccioso per non vedersi più vezzeggiare, con una beccata
trasse la penna di mano al Vicerè.
- Montezuma non vuole che muoia... o piuttosto Montezuma
rimprovera il Vicerè di firmare proposte di morte senza
pure esaminare le carte del processo. Il pappagallo ha ragione; il
Vicerè torto. Grazie allo avvertimento, Montezuma. Se io
fossi re, forse, chi sa? in premio dei lunghi ed onorati servigi,
potrebbe darsi che un giorno tu ti trovassi premiato con una
immagine di bestia come te; o di santo, e non posso dire come me;
o con un bel mazzo di prezzemolo: ma invece, essendo io soltanto
vicerè, ti darò un biscotto di Maiorca intero. Io ti
rimanderei volentieri per consigliere allo Escuriale onde far
conoscere allo Eminentissimo cardinale Zappata, che quanti gli
escono di mano pappagalli io glieli rimando consiglieri. -
Don Pedro con molta accuratezza si pone a leggere, e tuttavia
leggendo pensava a quello che fosse da farsi; imperciocchè
è fama che il Duca di Ossuna fra le altre sue
qualità possedesse quella di dividere contemporaneamente la
sua attenzione sopra svariatissimi oggetti, come leggere una cosa,
e pensarne un'altra; o pensare al tempo stesso a più cose;
o conversare con varie persone udendo senza perdere sillaba,
rispondendo a segno, e al punto stesso scrivere dispacci intorno a
materie importantissime. Io ho detto facoltà, ma doveva
dire vizio; conciossiachè questo abito alteri la
virtù intelettuale, siccome il guardare strambo guata la
visiva. Adesso, mentre leggeva meditando, conobbe: non correre
più tempo opportuno di provocare il Papa; anzi con ogni
maniera di riguardi doverselo tenere bene edificato,
imperciocchè egli si fosse messo in braccio alla Francia
assolvendo Enrico IV, e stringendo con quel regno vincoli antichi.
Francia, cessata la guerra civile, presto tornerebbe più
bella, e più gagliarda che mai, per la facilità
maravigliosa che possiede a fare scomparire in un giorno le rovine
di un anno; mentre, all'opposto, Spagna spirare, come Crasso, con
la bocca piena di oro: le flotte, studio indefesso di dieci anni
del re Filippo II, distrutte da un colpo di vento; i Paesi Bassi
rimasti fitti a Spagna nel palato come l'amo al pesce cane;
Germania avere teso sempre la mano per prendere, e mai per
lasciarsi pigliare; consumato seicento milioni di ducati;
cagionato la morte di venti milioni di uomini; empito di rovine e
di odio il mondo, e della passata grandezza oggi rimanerle la
superbia soltanto(). Formarsi a poco a poco il turbine contro la
casa di Austria, di Germania e di Spagna. E al Papa, già
sottratto dal dominio di Spagna, non doversi somministrare
pretesto di odiarla, dacchè, baldanzoso a cagione del
fresco acquisto di Ferrara, per poco che s'inciprignisse, era uomo
a fare vive le sue pretensioni sul regno di Napoli; nè gli
sarebbero mancati soccorsi francesi, nè i milioni di oro
messi da Sisto V in castello parevano per anche reputi a fondo:
Clemente VIII poi mostrarsi di natura meno bestiale di Sisto, e
qualche termine di buona composizione potersi trovare con lui:
d'altronde, come vecchio, dovergli piacere che i trambusti
cessassero per fondare la grandezza di casa sua, nel che procedeva
accesissimo, e per purgare gli stati della Chiesa dalle bande dei
ladri che gì'infestavano. In tutti i paesi questo vediamo
accadere ordinariamente dopo le guerre; e Roma aveva terminata
pure ora la impresa di Ferrara, e in ogni tempo fu terreno
classico pei banditi. Papa Aldobrandino in questa parte non
mostrarsi punto meno severo del Montalto; rammentandosi il Duca
ottimamente, come creato Cardinale dal medesimo, e conoscendolo a
prova asprissimo e spietato, giubbilando esclamasse: avere pure
alla fine trovato un uomo secondo il suo cuore!() Ancora, oltre il
piacere grande che avrebbe fatto al Papa porgendogli occasione di
palesare al mondo la diligenza adoperata da lui per rimettere in
assetto i suoi dominii, gli pareva cotesta essere matassa da
doversi sbrogliare a Roma... e poi... e poi più di tutto
gli piacque, ed anzi fu questa la ragione capitale, prendere da
cotesto fatto occasione di mortificare il segretario che lo aveva
sorpreso ad insegnare oscenità al pappagallo, e il vicario
che lo aveva mandato. Così mescolato a molta scoria si cava
l'oro dalla miniera, e per questa volta il destino folleggiando lo
affinava.
- Don Ynigo; Montezuma, salvo onore, si mostrò troppo
più acuto di voi quando mi ha persuaso a leggere carte che
non avete letto, e che dovevate leggere voi. Questo è
negozio appena incominciato, e si vorrebbe tagliare il capo del
filo per perderne ogni traccia. Viva Dio, che prudenza sia questa
io non so vedere! Bisognerà inviare questo uomo sotto buona
scorta a Roma, accompagnandolo con lettere adattate a gratificarci
l'ottima mente di Sua Santità. Esaminerete come, sebbene
trattisi di misfatti commessi nella nostra jurisdizione,
tuttavolta sembra che sieno stati preordinati di lunga mano da
persone di alto affare dimoranti a Roma. D'ora in poi, signor
Segretario, non mi farete rapporto veruno se non previa diligente
lettura delle carte relative; e tenetevi per avvisato. In quanto
al signor Vicario, mi sono accorto, recandomi io stesso alla
vicarìa, che sta assente dallo ufficio troppo più
spesso che non conviene per la importanza delle funzioni che
esercita; mi pare oltre il dovere svagato; e certo poi la
età gl'indeboliva il senno, che non ebbe mai troppo anche
nei giorni migliori. Speditegli pertanto lettere di dispensa con
la pensione che merita, sostituendogli il suo Collaterale, persona
di proposito e manierosa. A noi così giovi sempre la
fortuna come oggi, la quale ci ha risparmiato la firma di una
sentenza di morte, e offerto adito a confermarci nella benevolenza
del Sommo Sacerdote, del quale avranno compre mestieri i Principi
savii, finchè vorranno durare a reggere con freno di
autorità assoluta li popoli soggetti. -
E tutto questo per essere stato sorpreso il Duca di Ossuna a
insegnare una parola oscena al pappagallo! Ridere? Oh! se questo
fosse tempo opportuno di ridere io vi condurrei nel buio dove si
cova il destino dei popoli, e vi chiarirei come da cause
più lievi, spesso meno oneste, e talora più
burlevoli, derivassero guerre, rovine di stati, distruzioni di
popoli, ed altri dei più funesti flagelli della
umanità.
Il segretario si partì dal cospetto del Vicerè curvo
come se lo avesse caricato con mille libbre di peso. Quando
gl'impiegati ricevono una mortificazione si studiano rovesciarla
sopra gl'inferiori; ella è come un sasso, che rotola
finchè trova scalini; ma no, il paragone non mi sembra
adattato; direi piuttosto, che la scintilla del malcontento,
sprigionata nelle alte regioni, ricerca velocissima le parti
più recondite delle segreterie, dove però si
sperpera fra tanti, che sovente o non la sentono, o non la curano;
e ad ogni modo tutti con una squassatina se la gittano via dalle
spalle.
Il segretario annuvolato passò dinanzi al vicario
impaziente, e gli disse torbo «aspettate!» Dopo venti,
e più minuti il segretario, maggiormente torbo, ripassa per
entrare nella stanza del Vicerè, e dice al vicario,
maggiormente impaziente, «aspettate!» Il segretario
dopo lunga ora esce dalla stanza del Vicerè, e al povero
vicario, che non capiva più nella pelle per la rabbia,
ripete per la terza volta torbidissimo «aspettate!»
Il capo del vicario aveva girato dall'uscio della stanza del
Vicerè a quello della stanza del segretario, e da questo a
quello come un girasole: alla fine, dopo inenarrabile agonia, esce
per la quarta volta il segretario; e, messo fra le mani al vicario
un plico suggellato, lo squadra di traverso, lo inchina, e senza
dire un fiato sparisce.
- Ouf! - borbottò il Vicario, - questi Spagnuoli fumano
come cammini: giuoco che costui al suo paese avrà suonato
le campane in qualche convento, non cibando mai miglior vivanda
che la broda dei frati; ed ora ci viene a squadrare dall'alto al
basso... a fare lo idalgo, con noi - che abbiamo in corpo
nobiltà quanta il re. - E questo mettermi in mano
suggellato il plico, o che novella è? - Forse sarà
segno di attenzione, e riguardo alla persona e alla carica: - deve
essere così: - e allora io non troverei in ciò da
biasimarli, - anzi gli lodo; - e correva via a gambe.
Prima di proseguire il racconto del mio Vicario bisogna che mi
sbrighi del segretario. Ora vuolsi sapere come, tornato a casa,
egli dicesse al figliuolo, che gli andava incontro tutto festoso:
«Figliuolo mio, facciamo le nostre valigie e ritorniamo in
Ispagna, perchè qui in Napoli l'aria non tira più
buona per noi». Signore! rispose il figliuolo, che cosa vi
è mai accaduto di nuovo? Avreste per avventura mancato di
rispetto alla nostra santa religione? «Peggio, figliuolo
mio, peggio». Avreste, ohimè! ucciso in duello
qualche gentiluomo di corte? «Peggio». Per sorte,
avreste ardito inalzare i vostri affetti fino alla Serenissima
Viceregina? «Peggio ancora». Voi mi spaventate; ma
che, dunque? «Ho sorpreso il potentissimo Duca di Ossuna
sciupando il tempo a insegnare parole oscene al suo
pappagallo». Misericordia! è finita per noi. -
Adesso torniamo al Vicario. Egli giunse ansante, bagnato di sudore
alla vicarìa: si pose a sedere con il Collaterale al
fianco, notari, e copisti; fece rientrare sbirri, valletti,
carnefice, e vittima, che fu portata a braccia col capo spenzoloni
giù come ubbriaco. Il Vicario levò le ciglia in su,
e quando li vide tutti attenti passeggiò i suoi sguardi
allo interno nella miseria del suo orgoglio, poi ruppe il suggello
e si pose a leggere,
- Come? Come? qual tradimento si è questo?
- Che avvenne? Che fu? Che cosa è stato? - si udiva a coro
replicare dintorno.
- Sono tradito peggio di Cristo; - e piangendo si coperse gli
occhi con le mani.
Il Collaterale, che gli stava al fianco come lo jakal alla jena,
gittò lo sguardo obliquo su le carte; e, vedendovi scritto
il suo nome, con un baleno di malignità indovinò il
mistero: onde in un punto, postergato ogni rispetto,
allungò le mani bramose; ed arraffando le carte si accinse
a leggerle, rovesciato il capo su la spalliera del seggiolone. Nel
conoscere ch'era stato promosso alla carica di Vicario in luogo di
don Gennaro Boccale fu per ispiccare un salto, prorompere in pazze
risa, battere palma a palma, fare cose insomma da spiritato; ma si
contenne, e, col collo torto più loiolescamente che
potè, con un risolino sopra le labbra sottile quanto il
filo del rasoio gli favellò:
- Avvocato Boccale (di secco in piano gli toglieva il titolo di
Vicario) credete che mi sento proprio trafiggere il cuore per la
vostra disgrazia; molto più che, dentro domani, avrei a
pregarvi di lasciarmi sgombra la casa...
- Ed io credo che non vi devo credere nulla, signor Collaterale.
Intanto io me ne vado per le scale: badate che voi, don Ciacchero,
non abbiate un giorno a uscirne dalla finestra. - E sì
dicendo don Gennaro si levò tutto infuriato; e
allontanandosi dal palazzo col garbo di Scipione quando mosse in
esilio, esclamava: «Ingrata vicarìa! tu non avrai la
mia cappa».
Così a mannaia vecchia sostituivasi mannaia nuova, e i
miseri accusati ebbero ad accorgersi ben tosto ch'era stata
affilata di fresco, Intanto il Vicario novello leggendo oltre il
dispaccio del Vicerè conobbe come la sentenza di Marzio non
dovesse eseguirsi altramente, bensì avesse ad inviarlo
sotto buona scorta a monsignore Governatore di Roma, la quale cosa
egli fece con la diligenza consueta agl'impiegati nuovi, o
nuovamente promossi, secondo il costume delle granate; e per la
più parte di loro il paragone non è ignobile
abbastanza.
Il licenziato Boccale ridottosi a vivere in altra casa, stette
parecchi giorni smemoriato come se avesse ricevuto un picchio
sopra la testa, e di ora in ora prorompeva in risa; ell'erano
coteste le gocce grosse precorritrici della tempesta: per ultimo
la tempesta scoppiò, e terribilissima, nella quale rimase
annegata la sua intelligenza: del cuore egli aveva fatto getto da
tempo immemorabile, e solo (infelice reliquia!) gli rimase a galla
l'agonia di tormentare. Tutto periva in lui tranne la libidine di
Vicario criminale, ed a ragione; conciossiachè cotesta
qualità per conservarsi non abbisogni punto d'intendimento,
bastando il solo istinto di belva. Nei feroci delirii fondò
un'alta Corte di Giustizia istituendo offici di sbirro,
accusatore, giudice, e boia; e tutte queste incumbenze, come se
altrettanti benefizii semplici fossero, accumulò sopra il
suo capo, risolvendo da matto quello che già era andato
spesse volte per la mente dei savi: voglio dire, che componendo le
rammentate cariche diverse specie simpatiche, e relative fra loro,
amore di ordine persuadeva a classarle sotto la stessa famiglia, e
amore di economia, a cumularle tutte sopra una medesima testa, -
almeno in certi tempi e a certi luoghi.
Il licenziato don Boccale incominciò a processare i
volatili del suo cortile: pretesti non gli mancarono, e,
comecchè non sapesse col suo cervello matto distinguere
gl'innocenti dai rei, nondimeno procedendo perfidamente a tastoni
dichiarava, che tutti, o taluni avevano commesso il delitto; e
poi, che tutti erano stati complici a farlo, o impotenti a
prevenirlo; e finalmente, che il delitto non risultava già
da uno o più fatti peculiari, bensì da una congerie
di cose connesse, complesse, e per di più continuate; per
le quali, e con le quali tutti come felloni, e di perfido cuore,
invocato prima il nome santissimo di Lui, che sempre sta vicino a
chi lo sa chiamare, tutti dannava irremissibilmente a morte. Di
questo piccola cura prendeva donna Carmina, perocchè i
giustiziati fossero da lei (che si era assunto il carico
dell'Arciconfraternita della Misericordia) trasportati con
ragionevoli intervalli nella pignatta, e quivi tenuti sepolti
finchè non avessero fatto buon brodo. Quando i polli
vennero meno, egli mosse terribilissima accusa contro Giordano
cane di casa: certo da anni ben lunghi ei gli aveva badato le sue
masserizie dai ladri; una volta ancora gli salvò la vita,
ma invano; fedeltà e amore, e beneficii fatti lui non
iscamparono dalla rabbia del giudice matto: egli ebbe a morire: e
di questo anche poco increbbe a donna Carmina, anzi ci ebbe
piacere, dacchè il cane fosse vecchio, e per di più
aveva perduto un occhio. E poi, si sa, gli anni dei servi quando
diventano troppi pei padroni, anche battezzati e cattolici,
formano capo di delitto supremo; e di ciò fanno fede i
coloni di certa parte di America, i quali con tranquilla coscienza
accusano gli schiavi vecchi e disutili al Governo di non commessi
misfatti, ond'egli gli ammazzi, e in parte ne rimetta il prezzo!
Morto il cane venne la volta della gatta, delizia di donna
Carmina: se mai visse al mondo gatta incolpevole, proprio fu
quella; dopo tanti anni di buona condotta le si potè
imputare un errore solo: rubare un cacio fresco dallo armario().
Ahimè! Anche i santi cascano, e la tentazione superava le
forze della gatta; non ebbe rispetto il fiero giudice alla
fragilità del sesso, al naturale istinto, alla provocazione
del cacio fresco, e al prolungato digiuno, dacchè resultava
dagli atti, che da bene ventiquattro ore il povero animale era
rimasto senza governo: ogni circostanza attenuante rigettò,
e come rea di famulato qualificato da scalata, e colta in
fragranti, condannò barbaramente a morte. Donna Carmina si
gettò ai piedi dello inesorabile, supplicando con molte
lagrime la grazia della gatta diletta; il giudice parve
commuoversi, e rispose «vedremo»; di che racconsolata
la donna, pensò poter vivere sicura. Ahi! sicurezza
funesta. Un bel giorno levandosi da letto, la prima cosa che le si
parò davanti agli occhi fu la gatta impiccata. Quantunque
ella avesse l'anima e la vita assuefatte a spettacoli quotidiani
di orrore, non resse a quello; ed irrompendo insana con
furiosissima ira, empì di ululati la casa e la contrada; di
atroci contumelie lacerò il consorte. Per colmo d'ingiuria,
quando armata di coltello si fece a tagliare lo infame capestro, e
riscossa la salma diletta dal patibolo comporla in sepoltura
onorata, il giudice le si oppose risolutamente dicendo, che non si
aveva a disturbare l'amministrazione della giustizia: rispettasse
costei la veneranda maestà delle leggi; a quello che si
attentava commettere ella avvertisse due volte, chè egli
voleva, e sapeva adempire il suo dovere: fellonìa espressa
essere il levare di su la forca lo impiccato; e ricordasse per suo
governo, che chi spicca lo impiccato, lo impiccato impicca lui.
Figuratevi come gli animi s'invelenissero! Gli antichi dolci
appellativi mutaronsi in orrende minacce, e dalle male parole
trascorsero in peggiori fatti: nè il Vicario uscì
lieto dalla baruffa, che riportò il capo pelato, e la
faccia in parte graffiata, in parte pesta. I vicini accorsi li
separarono un po' con le parole, e un po' co' manichi delle
granate; anzi più con questi, che con quelle; quindi fecero
prova di ritornarli in concordia, e crederono esservi riusciti.
Ma il Vicario, rotto nelle turpi slealtà del suo mestiere,
appena profferita la parola del perdono pensò, che se aveva
perdonato come uomo, perdonare come magistrato non istava nelle
sue facoltà; onde si pose a istruire segretissima procedura
di lesa maestà, violenza pubblica, impedita amministrazione
di giustizia, e offese qualificate contro il Magistrato nello
esercizio delle sue funzioni; insomma rovesciò il sacco del
codice criminale contro donna Carmina. Tutto questo bastava, e ce
ne avanzava, per una condanna di morte: e così fu. Il
giudice profferì sentenza capitale, e da quel giorno in poi
ogni sua cura pose per mandarla ad esecuzione.
Certa notte, che donna Carmina dormiva placidamente, il buon
marito le passò cheto cheto il laccio intorno al collo, e
poi di un tratto la tirò su per le traverse del cielo del
letto. Compita la opera riprese sonno tutto contento, e la mattina
si mise a sedere sul letto aspettando che la Carmina si
svegliasse, per godere della sua sorpresa nel trovarsi
impiccata().
Lo trasportarono nell'ospedale dei pazzi dove un giorno, per
ammazzare l'ozio, non potendo impiccare altri, impiccò se
stesso alle inferrate della stanza.
Oh! si fosse impiccata con lui tutta la generazione dei Vicarii
criminali.
CAPITOLO XXII.
LA TORTURA.
Barbarigo «Egli non versò una lacrima.
Loredano «Due volte gridò.
Barbarigo «Un santo lo avrebbe fatto anche con la corona
celeste davanti gli occhi, se fosse stato sottomesso
a così barbara tortura; ma egli
non chiese misericordia... quei gridi non
avevano nulla di supplichevole; glieli svelse
il dolore, e non furono seguitati da veruna
preghiera».
Byron, I Due Foscari.
Beatrice amava il sole di autunno, i raggi del crepuscolo, e le
ombre lunghe dalla parte di occidente. Spesso, in compagnia della
cognata donna Luisa, che aveva appreso ad amare come sorella, e
reverire qual madre, si piaceva aggirarsi per le strade di Roma
seguita dall'uomo nero() e da due o più staffieri, giusta
il costume delle patrizie romane. Certo giorno, andando esse,
secondo il consueto, a diporto, riuscirono alla piazza Farnese:
quinci proseguendo per la strada della Corte Savella giunsero
nella via Giulia: a metà di questa gli occhi di Beatrice si
fermarono sopra una fabbrica di apparenza lugubre; nera,
vastissima, senza finestre od altre aperture tranne la porta,
bassa per modo, che non fosse dato ad uomo passarla se molto non
si chinasse con la persona().
Sopra lo stipite della porta un Cristo condotto in marmo di mezza
figura apriva le braccia in atto di favellare all'ospite dolente,
trasportato là dentro, queste parole: «Quando
l'angoscia del patire ti vincerà, se sei innocente pensa a
quello che, innocentissimo, io soffersi; se colpevole, considera
che in qualunque momento tu mi volga il cuore pentito io tengo le
braccia aperte per istringerti al seno».
Contristava il cielo un vapore umido dello scilocco, e l'aere
denso uscendo dal Tevere investiva la fabbrica tutta;
sicchè dalle buche, lasciate nelle pareti per inserirvi al
bisogno le travature dei ponti, filtrava lo stillicidio in forma
di aguglie. Beatrice stette a considerare cotesto lugubre
edifizio; e saputo essere quello la prigione della Corte Savella,
lieve percosse sul braccio alla cognata, e favellò:
- Non ti pare, che pianga?
- Chi?
- Cotesta carcere.
- Certo molte hanno da essere le lacrime che si piangono là
dentro; e se si fossero fatta strada a sgorgare traverso i muri,
io non me ne maraviglierei.
- E quelle erbe vetriole, che spingendosi per le commettiture
delle pietre hanno trovato modo di sbucare fuori, non paiono le
preghiere dei carcerati, che escono a stento da coteste mura?...
- Pur troppo paiono! E come coteste erbe rimangono attaccate alle
pareti del carcere per esservi sbattute dal vento, o riarse dal
sole, le preghiere si volgono invano al passeggero perchè
ricordi chi geme là dentro, e ne senta pietà.
- Luisa! E quelle tasche, che attaccate a spaghi pendenti di
sopra, ai muri scendono giù fin presso a terra, che cosa ci
stanno a fare?
In questa ecco passare lì presso un plebeo romano dalla
lingua mordace, e dagli atti petulanti, il quale avendo inteso la
domanda della giovane, quasi invitato dalla onesta bellezza delle
gentildonne, rispose:
- E' sono archetti tesi dai carcerati alla carità di passo;
ma al tempo, che corre, la carità non si lascia chiappare
più a volo, nè a fermo...
Ed un altro plebeo, sopraggiungendo, disse:
- Non è come la conti. Coteste tasche, eternamente vuote,
stanno lì per dare immagine delle mammelle della
carità dei Preti, con le quali allattano il povero popolo.
Le gentildonne rimasero contegnose a quei motti; e poichè
si furono assicurate che nessuno le scorgeva, quanta moneta si
trovavano addosso distribuita prima per coteste tasche, partirono.
- Non già la moneta, osservò Beatrice; bensì
la idea, che altri pensa a te, e come può ti soccorre, deve
tornare di consolazione grandissima ai derelitti. Nè si
dica che il baleno non giova; perchè talvolta basta a
illuminare la strada, e a ritrarre dallo abisso il pellegrino
smarrito.
- Veramente, riprese donna Luisa, io comprendo quanto abbia a
recare conforto in cotesto sepolcro di vivi conoscere come
qualcheduno senta pietà di te... però non lo vorrei
provare.
- Noi siamo foglie davanti al soffio della Provvidenza; ed io, qui
presso a queste mura dolorose, imparo la ragione per la quale
Gesù Cristo annoverò la visita dei carcerati fra le
opere di carità fiorita. Guarda bene, e vedrai starsi sopra
la porta del carcere la paura che respinge addietro il visitatore,
e con labbra tremanti gli sussurra: va via, chè il giudice
non ti sospetti complice del carcerato, e te pure imprigioni; sta
l'abiettezza che, fatti i conti, trova che dall'albero cadente
bisogna allontanarci, per tornare poi quando è caduto a
farne provvista di legna da ardere; sta il rigore dalle viscere di
pietra, il quale dissuade da sentire pietà dei colpevoli,
perchè per lui l'uomo in carcere è reo, predica
sempre meritata la pena, ed infallibile l'autorità; vi
è... Ma ahimè! se io volessi rammentare tutte le
fantasime, che stanno appollaiate su la porta del carcere
minacciando da lungi i visitatori, sarebbe troppa impresa, e per
di più fastidiosa; però non reca punto maraviglia se
i carcerati passino ordinariamente la vita soli.
Così alternando malinconici ragionamenti si condussero a
casa sul fare della sera. Don Giacomo con la famiglia erasi
ridotto nello antico palazzo dei Cènci, e sotto questo
tetto abitavano tutti, parte sicuri, parte paurosi, e Beatrice in
cuor suo desolata; quantunque non lo desse a divedere, e presaga
d'impenitente sciagura.
Alla veglia dei Cènci non manca mai frequenza di familiari
e di amici per la parentela grande che aveva la casata, e la bella
rinomanza di cortesia; ma stasera non si è veduto ancora
comparire veruno, quantunque le due di notte fossero battute alla
torre di nona. I convenuti s'ingegnano a tenere vivo il colloquio,
ma soventi accade che la proposta rimanga senza risposta, e poco
si prolungano i dialoghi penosi: il sollazzo diventa fatica;
ognuno di loro desidera starsi solo in colloquio con l'anima sua;
ma fatto silenzio, della propria solitudine impauriscono: allora
si ode fragoroso lo spensierato folleggiare dei fanciulli, e
rabbrividisce come uno scoppio di riso tra i funerali,
sicchè ritornano con favelli scomposti a divertire
l'affannato pensiero. Donna Luisa incomincia:
- Orsù, io mi accorgo che questa sera domina fra noi lo
umore taciturno: prendiamo l'Orlando furioso, e proviamo
sollevarci lo spirito con qualcheduna di coteste maravigliose
fantasie.
- Io per me l'ho a noia per quel suo costume piuttosto discolo che
facile, notò Beatrice; e per di più non mi garba
quel fare leggiero: leggiamo invece, se vi piace, la Gerusalemme
liberata.
- A me piace, soggiunge breve don Giacomo.
- Ma voi non la pensaste sempre a questa maniera; per parte mia
non mi rimuovo, e come pensai altra volta penso anche adesso
intorno a messer Ludovico: fantasie, superstizioni, stranezze,
amori, battaglie, buone o ree passioni, pianto, riso, terra, cielo
e inferno, tutto cantò quel benedetto ingegno: chi
più di lui assomiglia alla natura sempre varia, e sempre
bella? Vedetelo come nuvola di estate dondolarsi gaiamente fra gli
aliti della sera, e ad ogni momento mutare di forma: guizza per un
mare di piacere, e, a modo del delfino, ad ogni scuotere di
squamme egli cambia colore. Parlando del poeta quasi mi pare
diventare io pure poetessa, dacchè i suoi versi passando
per la mia memoria vi scuotono l'ale pregne di poesia. Ditemi, in
grazia, Armida forse non emula Alcina? Sì certo; ma in
poema così solenne, come pretese comporlo il signor Tasso,
cotesto colore sfacciato offende; mentre nei vispi canti di messer
Ludovico diletta, e piace: arrogi che diavoli e streghe, incanti,
e selve custodite da demonii femminini quanto mi talentano
nell'Orlando, perchè davvero vi stanno come in casa
propria, altrettanto nella Gerusalemme m'increscono. L'Ariosto
parmi meglio avvisato del Tasso, perocchè il primo cotesti
errori schermendo s'ingegni bandirli dalla mente del popolo;
mentre il secondo favellando sul sodo, ve li conferma. - Ora nei
poemi solenni il buon poeta deve valersi della religione depurata
dagli errori vulgari, non già amministrate agl'ignoranti il
male per medicina. Nel demonio abbiamo a credere, e Dio ci salvi
dalle sue tentazioni; ma non dobbiamo nella maga Annida, e negli
stregoni Ismeno ed Idraotte; anzi è peccato; onde io
giudico ohe il signor Tasso, avendo in poema religioso accreditato
queste favole malefiche, non abbia punto bene meritato della
umanità.
- Poter del mondo! Luisa, ma sai che tu difendi il tuo Orlando
Come orsa, che l'alpestre cacciatore
Nella petrosa tana assalito abbia?
Io te la do vinta; leggiamo, se ti aggrada, la storia di Ariodante
e di Ginevra.
- Leggiamola pure, soggiunse don Giacomo; comecchè quella
di Olindo e Sofronia mi paia troppo più mesta cosa...
- Ma noi non vogliamo malinconie, esclama donna Luisa; se di
queste avessimo vaghezza non farebbe di bisogno uscire
dall'Orlando. Sapreste voi indicarmi più pietoso racconto
che quello di Brandimarte e di Fiordiligi, o l'altro di Zerbino e
d'Isabella?
- Dirai bene, notò Beatrice; ma che vuoi tu? I casi di
Olindo e di Sofronia m'invogliano al pianto come di fatto
veramente successo; mentre le storie dell'Ariosto mi hanno l'aria
di finissime immaginazioni: e poi, vedi, temo sempre che ad un
tratto gli prenda il capriccio di farmi ridere;... ma via,
leggiamo di Ginevra.
Donna Luisa, altera alquanto della riportata vittoria, andò
a cercare il volume; e quello aperto, pose davanti a don Giacomo
dicendo:
- Incominciate voi.
Don Giacomo appena vi ebbe gittato gli occhi sopra diventò
pallido in faccia, e prestamente rispose:
- No... no... a voi tocca essere prima.
- Ed io incomincerò; ma aveva sbagliato: la storia non
principia al Canto sesto, bensì al quinto; e sfogliato di
alquante pagine il libro, prese con bella grazia a declamare dal
verso Tutti gli altri animai che sono in terra, fino ai seguenti:
Quel, dopo molti preghi, dalle chiome
Si levò l'elmo, e fè palese e certo
Quel che nell'altro canto ho da seguire,
Se grato vi sarà la storia udire.
Ora basta, disse donna Luisa riposandosi; qualche altro sottentri.
- Deh! in grazia Luisa, la supplicava Beatrice, continua;
chè con la tua voce deliziosa tu fai all'Orlando quel
medesimo officio, che fa la bella vesta alla bellezza: Chè
spesso accresce alla beltà un bel manto, per dirla col tuo
Ariosto.
- Lingua dorata! E sì, e sì che avresti a sapere
essere la lusinga peccato, ed anche dei grossi. Non in
virtù delle tue lodi pertanto, bensì per lo amor che
ti porto mi fia grato compiacerti in questa come in ogni altra
cosa, ch'io possa.
Adesso come familiarissimo di casa, senza farsi annunziare, pone
il piede su la soglia della porta della sala un giovane di bella
sembianza, in abito prelatizio colore pagonazzo, dall'occhio
azzurro, dalla chioma bionda: non salutò, ma quivi fermo e
taciturno si pose a considerare quel gruppo di teste, maraviglioso
argomento pei pennelli fiamminghi, che in quel tempo erano in
fiore,
E donna Luisa, non avvertendo il sopraggiunto, con voce vibrata
continuava: - Canto sesto.
Miser chi male oprando si confida
Che ognor star debba il maleficio occulto;
Chè, quando ogni altro taccia, intorno grida
L'aria e la terra stessa in ch'è sepulto:
E Dio fa spesso che il peccato guida
Il peccator, poichè alcun dì gli ha indulto,
Che se medesmo, senza altrui richiesta,
Inavvedutamente manifesta.
Il Prelato questo intendendo stette per ritirarsi inavvertito
com'era venuto, ma gli parve malagevole farlo; e poi don Giacomo
non gliene dette campo; però che alzata la testa lo
vedesse, e gli gridasse:
- Ben venuto, Guido nostro...
- Qui si fa accademia: avvertite, di grazia, che in Roma non vanno
a finire bene siffatte accademie letterarie; e Pomponio Leto
informi().
- Non ci è pericolo, riprese don Giacomo; noi stiamo in
famiglia, e per aggiungervi voi io spero che in famiglia rimarremo
pur sempre.
- Questo con tutto il cuore desidero; e poichè in famiglia
abbiamo a restare, piacciavi in cortesia, donna Luisa proseguire
nella lettura.
Di vero nella famiglia Cènci consideravasi monsignor Guido
Guerra come fidanzato della Beatrice: questa notizia andava per le
bocche della gioventù romana, e lui chiamavano avventuroso,
e al suo felice stato invidiavano: sapevanlo anche in corte; e il
Papa lo sofferiva acerbamente sì perchè avesse posto
la mira su Guido, conoscendolo sufficiente molto e di abito
gentilesco, per inviarlo legato a qualcheduna delle Corti
straniere; sì perchè egli non lo avesse prima
richiesto del suo consenso, o per lo meno consultato; infine gli
dava uggia quel sentirlo proclamare sposo, e vederlo con la
mantellina addosso: conciossiachè uno dei punti più
ardentemente combattuti fra Cattolici e Luterani fosse stato, e
durasse ad essere, il celibato dei preti. Maffeo Barberini,
cardinale di molto seguito, come intrinsecissimo di Guido, lo
tenne avvertito di quanto buccinavasi in corte, ond'ei si
governasse: e questi informatosi se il memoriale di Beatrice al
Papa avesse avuto corso, e sentito che no, fu cauto di ritirarlo
dallo ufficio, temendo che, capitato sotto gli occhi di Clemente,
non valesse a suscitargli qualche sospetto nell'animo, già
troppo per natura sospettoso.
Guido con leggiadra scioltezza si accostò alla Beatrice, e
fece atto di prenderle la mano per recarsela alla bocca; se non
che questa, invece di porgergliela, si levò risoluta in
piedi accennandogli che la seguitasse. Ella lo condusse nel vano
di una finestra, e l'ampia cortina li ricoperse completamente.
Però rimasero celati colà uno istante; un solo
istante; tutto al più quanto un ferito a morte pone a
raccomandare l'anima a Gesù e a Maria prima di spirare, e
uscirono poi uno dopo l'altro, e tali nel volto da chiarire, che
invece di avere stretto il laccio di amore, lo avessero rotto con
violenza, e per sempre. Invero ognuno di loro sentivasi il cuore
legato; ognuno di loro strascinava un tronco della catena, e
nondimeno i capi erano stati infranti irreparabilmenle. Una parola
di Beatrice l'aveva spezzata come colpo di scure: con lo stringere
la mano dello uccisore del padre suo non si rendeva ella complice
del parricidio? Questo aveva pensato, e questo nel brevissimo
istante fu da lei al suo amatore significato.
Guido, percosso da sgomento, adducendo il pretesto di certo suo
negozio che lo chiamava altrove, poco si trattenne, e come meglio
poteva celando lo affanno si accomiatò. Donna Luisa
accortasi della confusione del giovane, e attribuendola a
qualcheduna di quelle brevi procelle, che agitando accrescono la
fiamma di amore, disse scherzando:
- Beatrice, Beatrice! non essere tanto corriva a scartare il re di
cuori; bada, che carta male scartata, spesso è partita
perduta.
Monsignore Guido appena svolto il canto della contrada occorse in
un suo fidatissimo servo, il quale veniva frettoloso in traccia di
lui. Appena lo ebbe scorto, quegli gli disse:
- Monsignore l'eminentissimo Cardinale Maffeo ha mandato un
donzello del Governatore al palazzo, affinchè adoperasse
ogni diligenza per trovarvi, e consegnarvi questo paio di
sproni().
- Sproni! E non ha egli soggiunto altro?
- Sì; ha soggiunto, che tornato l'Eminentissimo di campagna
aveva trovato in palazzo monsignore Taverna che lo aspettava; e
dopo essere rimasto chiuso lungo tempo con lui, l'Eminentissimo
aveva aperto appena l'uscio della camera e dato gli sproni al
donzello, dicendogli «subito a monsignore Guerra»; e
poi era tornato dentro.
Guido soprastette alquanto a meditare; poi, come illuminato da
subita luce, esclamò:
- Ho capito!
In casa Cènci protratta per qualche altro tempo penosamente
la veglia, tacquero tutti. I fanciulli erano stati condotti a
giacere, onde ne seguitava un silenzio profondo solo interrotto
dal fruscìo delle tende seriche, agitate appena da una bava
di vento. Ognuno desiderava separarsi, e, come avviene, a nessuno
bastava l'animo di proporlo; quando ad un tratto si ode un rumore
sordo... cresce... si distingue il calpestìo di molta mano
di persone, e vi si mesce strepito di arme.
Don Giacomo si leva, preso da maraviglia e da spavento,
incamminandosi verso la porta per ispecolare che nuovità
fosse. Appena giunto a mezzo cammino, si aprono gli usci
fragorosi, e un'onda di sbirri allaga non pure il luogo ove
stavano convenuti i Cènci, ma anche tutta la casa. Alcuni
rimasero sopra le soglie delle stanze con le spade sguainate, per
impedire lo accesso da un luogo ad un altro.
- Siete arrestati per ordine di monsignore Taverna, gridò
certo uomiciattolo bistorto, che pareva un grimaldello; il quale
postosi le mani sui fianchi, si dava aria da Sacripante.
- E perchè? - interrogò don Giacomo, con voce che
invano ostentava sicura.
- Questo saprete, a suo tempo e luogo, nello esame. Intanto con
vostra buona licenza...
Ma ciò diceva per ischerno; imperciocchè non avesse
anche posto fine alle parole, che già con le impronte mani
lo aveva frugato da capo a piedi. Assicuratosi per siffatta guisa
ch'ei non portava addosso neppure il breve, lo interrogava
beffardo:
- Avete armi sopra di voi?... Confessatelo addirittura, che
sarà pel vostro meglio.
- Ma parmi, che ve ne siate chiarito con le vostre mani
abbastanza.
Altri nel medesimo tempo, con pari diligenza e improntitudine
maggiore, ricercavano Lucrezia e Bernardino, i quali sbigottiti
lasciavansi fare, e piangevano. Certo sozzo, e avvinazzato sbirro
si attenta stendere la mano sul seno della Beatrice; ma questa,
prima che lo arrivasse, gli lasciò andare su la guancia un
potentissimo schiaffo. Proruppero in risa i compagni, e taluno
consolandolo gli disse:
- Guanciate di femmina non fanno sfregio.
- Canchero! Sgraffia la gatta, rispose il birro simulando
allegria; e Beatrice allora, senza sdegno, alteramente
parlò:
- Persone infami non hanno diritto di mettere le mani addosso a
gentildonna romana: mi chiamo pronta a seguitarvi dove comanda
monsignore Taverna; ma voi procurate starvi lontani da me.
Nel punto stesso un altro sbirro, fetido di tabacco e di lezzo,
pretendeva frugare donna Luisa, che lo guardava in molto truce
maniera; senonchè il bargello lo ammoniva:
- Rimanti, Piero; chè non ho ordine per lei...
Intanto i fanciulli, desti al rumore, nelle contigue stanze
spaventati piangevano, più degli altri il lattante;
sicchè quinci usciva un suono, che percuoteva le anime di
pietà e di dolore. Donna Luisa, tra lo amore di moglie e lo
amore di madre perplessa, esitò uno istante; alfine cede al
grido maggiore della natura, e muove ad acchetare i figli, e a
porgere la mammella al pargolo. Uno sbirro leva la spada, e,
puntatagliela al petto, grida:
- Non si passa.
Donna Luisa guarda fisso negli occhi lo sbirro, e così gli
favella:
- Tu non puoi avere ricevuto comando d'impedire la madre di
allattare il suo figliuolo. Ma se mai qualche Prete, la quale cosa
non conosco, nè credo, chiuso ad ogni affetto di natura, ti
dava questo ordine, gli dirai ch'egli è uno scellerato; tu,
se l'obbedissi, saresti più scellerato di lui; ed io, se vi
dessi retta, più scellerata di tutti. Largo alla madre che
va ad allattare il figliuolo. - E risoluta allontana con la mano
la spada, e passa oltre. Il birro attonito non ardisce fermarla.
Poichè la Corte ebbe rovistato ogni masserizia, frugato pei
mobili e per ogni canto, e non rinvenuto cosa che le paresse buona
ad assicurare, il bargello intimò la partenza.
- E dove ci conducete? - domandarono tutti ad una voce.
- Lo vedrete.
Donna Luisa adempiuto lo ufficio di madre, tornava a soddisfare
quello di moglie. Accortasi dello abbattimento del marito preme
l'angoscia, e si accosta a lui per dargli animo, ed abbracciarlo;
senonchè lo sbirro, che prima l'aveva lasciata andare,
quasi sdegnoso di avere sentito affetto, si pone fra il marito e
lei, e, respingendola, in molto dura maniera le dice:
- Addietro; qui non venimmo a sentire piagnistei.
E cosa degna di considerazione grandissima come gli esecutori di
giustizia, qualunque sia il nome col quale si appellino, e
qualunque assisa essi vestano (chè l'abito e il nome nulla
mutano al costume), per ordinario pacati, ed anche cortesi negli
arresti dei volgari facinorosi, procedano poi con villana
compiacenza nel mettere le mani addosso a persone di alto affare.
Della quale diversità volendo indagare la causa, ci parve
essere la seguente. Cotesta carnaccia non s'irrita contro i
ribaldi come quelli che sono stoffa tagliata dalla sua medesima
pezza, e perchè in certo modo eglino somministrino materia
al mestiero professato da lei. Lo scultore percuote, e manda a
schegge il marmo; il sarto frappa il panno e lo trapunta, e non
per questo essi odiano il sasso, o la stoffa; anzi così
fanno per amore della opera donde sperano ricavare guadagno ed
onore. Gli sbirri ed i ribaldi assai si rassomigliano ai
marchigiani, o vogliamo dire abitatori delle frontiere, i quali
spesso passano da una terra nell'altra per bisogno o per vaghezza:
così i primi si trovano ad essere sbirri perchè in
quel quarto di ora non sono masnadieri, ed i secondi si trovano ad
essere facinorosi però che in quel punto non sia loro
toccato di fare da sbirri; e fra loro, tutto bene considerato,
altra alternativa non corre. Epperò s'intendono molto
più spesso che altri non pensa, e molte imprese di misfatti
e di arresti si commettono fra loro di amore e di accordo: essi si
corrispondono come l'eco alla voce, come il coltello alla guaina,
come il cherico al prete. Inoltre usare qualunque umiliazione
tornerebbe inutile, imperciocchè i ribaldi ogni loro
sensibilità abbiano ridotta nelle braccia e nei polsi.
Infatti tu non gli odi profferire altre parole, se non queste une:
«Compare, non istringermi tanto forte!» Sarebbe
proprio un dare del capo nel muro il tentativo di eccitare in
costoro vergogna, o pudore. All'opposto quando la fortuna mette in
mano allo sbirro, od altro arnese cotale un uomo dabbene, gli si
allargano le viscere, e si rifà in un'ora del diuturno
disprezzo nel quale venne saziato; il serpente invece di fango
trovò finalmente da mordere vive carni, e infondere il suo
veleno dentro vene che sentono. Percorri i tempi, e non troverai
signorie peggiori di quelle dei servi fatti padroni; coteste
appaiono, e sono i lupercali della feccia umana: a misura di
carboni, essi pagano con moneta di ferocia le umiliazioni patite.
Alla mota pare essere onorata quando, pesta dai piedi, schizza a
deturpare la veste signorile. I rettori dei Popoli s'ingegnano
tramutare, e travasare i berrovieri; in questo adoperano ogni
arte, e sempre invano. I littori si assomigliano agli apparitori,
gli apparitori agli sbirri, ai donzelli, ai fanti, e ad altri
cotali antichi, moderni, e modernissimi cagnotti della polizia.
Chi più ne ha, più ne metta; parenti sono tutti in
vinculis. Cerca tra cento lupi il meglio, e forse lo troverai; non
lo cercare fra costoro, che opera perduta sarebbe. Ogni potere ne
abbisogna, e li mantiene e s'industria nobilitarli, e levarli a
cielo. Egli è nulla: uno scarabeo, per raggio di sole che
gl'illumini il groppone non diventa cavaliere. L'abito morale
informa l'uomo, non già il materiale: sicchè, prendi
il più degno soldato, e mettilo sbirro; non egli
migliorerà il mestiero dello sbirro, bensì il
mestiero guasterà lui: e questo è sicuro.
Ahimè! il soldato, il vecchio soldato convertito in birro!
- Io per me, che estimai sempre, e tuttavia estimo il soldato il
quale dura il travaglio degli aspri cammini, e serena nelle gelide
notti, e gli ardenti soli sopporta, e per mille disagi si conduce
a perigliare la vita per la Patria senza premio condegno nel
presente, con premio incertissimo nel futuro; tenuto a vile,
forse, e certo poi non curato trascorso il pericolo; io per me,
dico, estimai questo soldato come divinità. E a lui vorrei
che si dessero largamente i frutti della terra, avvegnadio, sua
mercè, lo straniero non li colga; a lui le migliori stanze
nelle città, che valse a difendere; a lui reverenza
figliale, ed affetto... onde io quando incontro qualche vecchio
soldato avvilito sotto la veste di sbirro, mi sento scoppiare il
cuore dalla passione.
A voi, liberi uomini, tanta predilezione pei soldati infastidisce.
Ma udite me, che parlo aperto; occorre speditissimo il rimedio per
licenziarli: fatevi tutti soldati, come adesso fra gli Svizzeri, e
come una volta (per poco) nelle Repubbliche del medio evo. Io vi
avverto però, che per qualche ora bisognerà
abbandonare le botteghe, e i fondachi; non registrare qualche
sessione, o perdere lo sconto di qualche cambiale; udire
più tardi se metta bene la vigna, o se la vacca sia pregna;
forse (sagrifizio più duro!) mancare qualche sera alla
veglia, o al teatro... bastavi l'animo a tanto? Se bastavi, e se
sentite la necessità di vestire a corrotto finchè la
servitù della Patria dura, licenziate gli eserciti
stanziali; imperciocchè oltre la spesa strabocchevole, che
sempre portano seco, le armi poste in mano a pochi se talora
difendono la libertà, più spesso convertonsi in
arnese di tirannide. - Privi di virtù civili e di
virtù militari, che Dio vi benedica, o come mai presumete
voi acquistare la libertà, ed acquistata serbarla?
- Voi voleste mietere, e non seminaste; voi non piantaste, e
voleste raccogliere. E quando avreste seminato e piantato, avreste
eziandio dovuto sapere che altra è la stagione del
seminare, ed altra quella del mietere: che alla primavera non si
domandano i frutti dello autunno, nè allo autunno i fiori
della primavera; che i frutti bisogna, prima di coglierli,
lasciare al sole perchè maturino; e colti anzi tempo
guastano la pianta, e morsi allegano i denti. Io parlo a voi, che
vi chiamate amici della libertà; però che altrove
non sarei inteso, e forse chi sa se lo sarò da voi. Voi
avvisaste, e per avventura avvisate anche adesso, tenere su ritta
la libertà co' chiodi; però in cotesta guisa fannosi
crocifissi, non già cittadini liberi. Per forza non si
fonda libertà, come per forza non fondasi servitù:
per forza si fa l'aceto. Quantunque volte sopra terreno non
dissodato da forte, e generosa virtù tu pianterai con
violenza la pianta della libertà, perderai irreparabilmente
gli effetti della persuasione e della violenza: quella,
perchè non bada alle parole, ma ai fatti; questa,
perchè essendo proprietà di tirannide, comunque
invocata dalla libertà, bisogna che a tirannide ritorni.
Qui fo punto e torno agli sbirri: rispetto ai quali, quando hai
meditato un pezzo, ti converrà concludere con la ragione
dei gatti, che si tengono in casa per prendere i topi; o, se ti
piace meglio, con quella delle passere, le quali Rougier della
Borgerie raccomanda ai francesi suoi concittadini lasciar vivere
in pace, imperciocchè se ogni anno divorano duegento
milioni di libbre di grano, distruggano ancora centotrentasei
bilioni, e quattrocento milioni d'insetti().
Misericordia Domini super nos! Chi avrebbe mai creduto che tanti
insetti vivessero in Francia! Eppure ci vivono...
Nel cortile trovarono pronte diverse carrozze con le stoie
abbassate; vi entrarono al sinistro chiarore di lanterne sorde,
preceduti, fiancheggiati e seguiti dalla turba dei birri, e si
avviarono al luogo destinato.
Guido vide passare il corteggio lugubre; ed avvertito dal popolo
accorrente del caso, vinto dalla passione, stava sul punto di
manifestarsi e di accorrere, se il buon servo, forte tenendolo per
le braccia, non gli avesse detto:
- Monsignore, voi perdete, e loro non salvate... libero, giovate a
voi e a loro.
Guido, represso in seno il gemere vano, esclamò:
- Ora staremo a vedere dove ne conduce la fortuna; e trasse verso
casa sua. Giunto a breve distanza mandò innanzi per ogni
buon riguardo il servo, a speculare se si vedesse gente di corte
da cotesta banda. Tornato addietro, questi lo avvertì del
no: ond'egli entrato nelle sue stanze scrisse lettera pietosissima
alla madre sua, nella quale la ragguagliava della soprastante
sciagura, e della urgenza di sottrarsi alle ricerche della
giustizia senza perdita di tempo: la lettera stesse in luogo di
abbracciamento, e di addio; in fortuna migliore sperasse; le
avrebbe mandato sue nuove dal luogo ove prima giungesse; in
qualunque parte capitasse, qualunque avventura fosse per
accadergli, dopo Dio prima ella avrebbe occupato l'anima sua.
Quindi mutati panni, e tolta seco quanto maggior copia potè
di danaro, uscì dalla porta segreta del suo palazzo,
disegnando guadagnare la campagna; nè andò guari,
che s'imbattè in certa brigata di sbirri incamminata verso
la sua contrada, la quale gli passò da canto, e così
com'era travestito non lo riconobbe. Comprese pertanto il caso
farsi grave davvero; licenziò il servo, e con cauti
avvolgimenti si appressò alla porta Angelica; se non che
rifece la via più che di passo, notando da lontano come gli
sbirri, uniti ai gabellotti, quanti volevano varcare le porte
minutamente esaminassero, e perquisissero. Ora vaga improvvido per
le strade di Roma fantasticando di questo e di quell'altro
partito, senza riuscire mai a capo di nulla; camminando ad occhi
bassi, ecco lo percuote una luce che scaturiva dai sotterranei di
un palazzo. Guardando traverso la inferriata vide intorno una
tavola un gruppo di carbonai, che passavano il tempo, secondo che
fecero i loro padri, ed i più tardi nepoti loro faranno,
bevendo e giuocando, in onta agli sforzi poco lodevoli del Padre
Matteo lo apostolo della temperanza.
Sì certo; poco lodevoli, e non mi disdico. O filosofi, che
Dio vi tenga lontani dalle disgrazie, mi sapete un po' dire come
voi non facciate altro che levare al Popolo, e a dargli non
pensiate giammai? Malthus al Popolo contende i connubii; il Padre
Matteo il bere; altri il giuocare. La suprema felicità a
poco a poco ripongono nella privazione di ogni cosa. Apicio
diventato gesuita non pubblica più libri de arte
coquinaria, nè imbandisce le mense agli amici; solo la
esercita per uso proprio, ed a finestre chiuse in casa sua. -
Aristippo recita in bigoncia i sermoni di Zenone, che ha imparato
a mente dopo il convito. Continuate, filosofi; in breve spero
persuaderete il Popolo a risparmiare le vesti, e a cuoprirsi di
foglie di fico come il primo Padre Adamo. La gaia vita che stanno
per filarti queste Parche novelle, o Popolo! «lavorare,
soffrire, e morire». Suonate le cornamuse, intuonate il
peana a questi pellegrini Benefattori della Umanità.
Davvero così appare fronzuto l'albero della felicità
del Popolo, che merita bene andare potato dei rami rigogliosi.
Noè, ch'era quel gran patriarca che tutto il mondo onora, e
favellava col Creatore a tu per tu, per essersi inebriato una
volta tagliò egli forse le viti? No certamente;
annacquò il vino, e continuò a bere;
conciossiachè il vino letifichi il cuore dell'uomo.
Licurgo, pazzo melanconico, recise le viti; ma Bacco crucciato
operò in guisa, che costui scambiando le proprie gambe pei
tralci se le tagliasse di netto; e Bacco fece bene.
Guido si risovvenne allora dell'oste della Ferrata; e ricordando
in quella stretta le parole di contrassegno, ch'ei gli aveva dato,
scese improvviso nella grotta dei carbonari. Quivi costoro
battezzavano quotidianamente il carbone con copia di mezzine di
acqua; non mica per lavarlo dalla macchia del peccato originale,
bensì perchè crescesse di peso: onesta pratica, che
si costuma anche adesso; avvegnadio le cose buone una volta
scoperte, ragion vuole che tanto presto non si dismettano. I
carbonari, quantunque Guido comparisse senza usbergo fra loro,
sbigottirono come il Pastore allo apparire di Erminia:
senonchè Guido a rassicurarli incominciò:
- Viva San Tebaldo. e chi l'onora.
I carbonari si guardavano in viso irresoluti. Però uno di
essi, cui tornarono a grado le sembianze di Guido, riprese:
- Lodato sia; ma la fatica del carbonaro è molta, il
guadagno scarso.
- San Niccola protegge il carbonaro, e i suoi guadagni
moltiplicano.
- Il carbonaro vive nei boschi, e lo circondano i lupi.
- Quando i carbonari faranno lega co' lupi scenderanno al piano
dove pasturano gli armenti, e prenderanno le stanze dei pastori.
- Datemi il segno.
- Eccovi il segno. - E furono tre baci: uno in fronte, l'altro su
la bocca, il terzo nel petto.
- Sta bene: voi siete dei nostri; non vi è che dire.
Nondimeno mi pare strano, andando composta la nostra consorteria
di gente disperata unita insieme dalla povertà, e dal
bisogno di difenderci dai soprusi degli uomini potenti: basta,
forse anche voi sarete dei perseguitati. Che cosa volete? Quale
aiuto domandate? Ma innanzi tratto seguitatemi in luogo più
riposto.
Guido pensava avere frainteso, dacchè in cotesta grotta non
vedesse pertugio capace di condurre in altra parte: però
rimase chiarito in breve, avendo i carbonari rimosso il cumulo del
carbone, e sollevata dal pavimento una selce, che aperse lo adito
a più basso, e segreto sotterraneo. Il carbonaro e Guido vi
scesero per una scala a piuoli, e tosto egli intese riporre la
selce, e sopra essa di nuovo ammonticchiare il carbone. In quella
stanza si vedevano raccolte masserizie e argenterie di ogni
maniera, e, giusta la empia profanazione di cotesta sorte di
gente, vi ardeva una lampada davanti la immagine di San Niccola
venerato come protettore dei ladri, e non meno solenne nemico dei
birri. I carbonari stavano da tempo immemorabile legati co'
banditi della campagna, e li servivano da fattori nelle
città: taluni di loro esercitavano a un punto i due
mestieri. La roba rapita trasportavano in città, e quivi
gli argenti struggevano, e per interposte persone mandavano al
conio: le merci affidavano a certi loro amici mercadanti di
Civitavecchia e di Ancona, i quali soprammare le spedivano a
Napoli, a Venezia, o in Levante; onde accadde talora che un
gentiluomo veneziano ritrovasse presso qualche rigattiere del
regno il suo mantello smarrito nella campagna romana, e un barone
napolitano si vedesse servito alle locande di Verona o di Padova
co' suoi pannilini, perduti passando per Terracina. Parecchi in
questi onesti traffici avevano avanzato assai, e se ne sussurrava
palesemente; ma la corte non li sapeva cogliere in fallo, e gli
arricchiti non ne scemavano punto di credito; anzi in virtù
del bene acquistato danaro procacciavano ai proprii figli illustri
parentadi, e cariche insigni, ed onorificenze. I cittadini ne
mormoravano otto giorni o dieci, non mica per istudio di
virtù, bensì per astio di non poter fare
altrettanto; poi tacevano; e quando incontravano di questa razza
nobili erano i primi a scappucciarsi, e a chiamarli Eccellenze. I
nobili antichi in palese ostentavano spregiarli; in segreto gli
accarezzavano, e ne accattavano danaro: e così a quei tempi
remotissimi camminavano le cose di questo mondo. Oggi poi la
faccenda è diversa:
E s'egli è vero, il fatto nol nasconde.
Guido aperse al nuovo amico, che la fortuna gli parava davanti, il
pericolo in cui si versava, e lo richiese di consiglio e di aiuto.
Costume dei carbonari era muoversi due volte la settimana: quando
veniva in città col carico una caravana, l'altra partiva
per la campagna. Il carbonaio ristretto a favellare con Guido,
giunto in quella medesima mattina, doveva partire dopo tre giorni
da Roma a vespro, o verso l'ave Maria della sera.
Intanto costui in questa guisa ammoniva Guido:
- Domani manderò fuori delle porte qualcheduno dei nostri,
per vedere se vi fossero nuovità. Voi vi raderete barba e
capelli; vestirete i nostri panni, ed anche dei peggio: vi
tingeremo con certe erbe la pelle, e v'insozzeremo con la polvere
di carbone in maniera, che voi non ravviserete più voi
stesso. Qui fra noi abbiamo un compagno che zoppica; egli
v'insegnerà a imitarlo nella voce e negli atti. Domani,
appena farà giorno, ve ne andrete con due somari a vendere
carbone per la città: se vi chiamano per comprare, poche
parole bastano; che le balle ragguagliano le duegento libbre, e il
prezzo è fermo a mezzo scudo per balla: anzi potreste
recare in bocca qualche pietruzza, fingendo masticare; in questa
maniera le gote si gonfiano, e meglio rimanete trasformato. La
gente vi torrà in iscambio dello zoppo; ad ogni modo si
assuefarà alla vostra vista, e così spero, con lo
aiuto di Dio, condurvi fuori a salvamento.
Siccome fra gente di simile natura i fatti abbondano più
delle parole, in breve per opera del carbonaio Guido venne
trasformato nella guisa ch'egli aveva detto; ed alla mattina il
bellissimo fra i gentiluomini romani fu visto, in sembianza di
laido carbonaro, aggirarsi per Roma vendendo carbone, recandosi in
mano pane nero e cipolle, che fingeva masticare; di tratto in
tratto gridava con accento aquilano, e ranchettava stupendamente.
Tanto bene insegna, e in breve tempo, il pericolo!
Giunto il giorno prefisso i carbonari uscirono senza ostacolo di
Roma, e Guido con essi. Per via occorsero nella squadra della
corte, che tornava da perlustrare la campagna; e taluno di loro
avendo interrogato il bargello, come fra gente amica si costuma,
che nuove ci fossero, n'ebbe per risposta: «Uscimmo per
caccia di pelo, ma ha fatto la BELLA; e a questa ora neanche
caramella la pizzica».
*
* *
Le carrozze che conducevano la famiglia Cènci fermaronsi.
Aperta quella nella quale stava chiusa Beatrice, le venne ordinato
di uscire; e mentr'ella, obbedendo al comando, poneva il piede
sopra del montatoio, al chiarore vermiglio dei lampioni che il
carceriere ed i serventi portavano, s'incontrò di faccia a
faccia col Cristo di marmo, da lei poche ore innanzi avvertito
sopra le porte del carcere della Corte Savella. Gli volse la
desolata ambe le braccia, esclamando nella effusione del cuore:
- «Mio Dio, abbiate misericordia di me!»
E scesa, curvò la persona varcando la porta della
prigione... vera forca caudina del pianto! Quando volse il capo
per rivedere i suoi essi già erano tratti lontano, e tra
lei e loro intercedeva un'onda di armati: come naufraghi divisi
dalle onde si rimandarono scambievolmente il saluto con un grido,
che rimbombò doloroso di corridore in corridore per cotesta
immensa prigione.
A Beatrice fecero percorrere lunghi anditi, salire e scendere
scale; poi in fondo di una stanza a volta apersero un uscio e la
cacciarono là dentro: subito dopo richiusero l'uscio con
impeto, trassero il catenaccio, a doppia mandata girarono la
serratura, ed ella si trovò al buio in luogo freddo ed
umido; inferno vero di vivi. Non mosse piede; da qual parte
volgersi non sapeva: le tornarono a mente certe storie udite
raccontare di trabocchetti, mediante i quali, a quei tempi meno
ipocriti, non meno scellerati dei nostri, si toglievano di mezzo
le persone, che non si ardiva condannare o perchè
incolpevoli, e nondimanco odiate, o perchè troppo potenti.
Ella ebbe paura, e si tenne ferma presso alla parete.
Allo improvviso ecco col solito strepito si spalanca il carcere, e
irrompe dentro una turba di laida gente affaccendata a portare
acqua, e taluni grossolani arnesi accomodati alle prime
necessità della vita. Non le proffersero conforto, non le
dissero parola; tornarono carcerieri e serventi com'erano venuti,
chiudendo fragorosamente la porta.
Beatrice aveva scorto da qual parte stesse il pancaccio;
colà si condusse tentoni, e sopra la estrema sponda
inferiore si pose a sedere nello atteggiamento della statua della
Scoltura che ammiriamo al sepolcro del divino Buonarroti; e quivi
si rimase assorta in quiete dolorosa. Ad un tratto trasalì,
percossa da orribile rovinìo sopra il capo: intende gli
orecchi, e parle che muova da imposte chiuse e da catenacci
violentemente tirati. Assicuratasi che non era per uscirne peggio,
si acquieta; quando di nuovo venne schiusa la porta del carcere, e
gente come la prima volta affaccendata recò pagliericcio,
coperta di pelo, ed altri arnesi, e come la prima volta se ne
andò villana, o feroce. Allora Beatrice giacque sul
pagliereccio senza voglia di nulla, rifinita di forze,
stupidamente impassibile; chiuse gli occhi, ma non dormì:
il suo cuore era oppresso, e non trovava la via di sfogarsi,
quantunque le lacrime le sfuggissero dalle palpebre non piante, ma
chete chete, come vena di acqua che spicci di sotto a un sasso. La
facoltà pensante, quasi sole senza raggi, le stava fissa
nel mezzo della fronte inerte, e tuttavia ardente. In arroto di
spasimo sentì per la intera notte un rammarichìo a
mano a mano più fievole di persona che si doleva, e le
parve ancora udire, e udì certo, le preci degli
agonizzanti: nè punto s'ingannò, imperciocchè
nella cella accanto alla sua in cotesta notte passasse a vita
migliore uno sciagurato prigione per male di asma. Una
malignità suprema, od una stupidità di mente da non
temere paragone in terra o in inferno, aveva presieduto
all'ordinamento di cotesta carcere; conciossiacosachè,
quasi fossero poche le riferite tribolazioni, dieci battagli
battessero nel bronzo, e più nel cranio della povera
Beatrice, i mezzi quarti, i quarti delle ore, e le ore intere:
nella dodicesima ora furono percossi centosessanta tocchi; e v'era
da diventarne matti. Più tardi, quando Beatrice
domandò per quale causa menassero così increscioso
scampanìo, udì rispondersi placidamente: in primis,
che così aveva ordinato il Soprastante delle carceri; e
subitochè il soprastante l'aveva ordinato, la sua ragione
ci aveva da essere; e poi, che in quanto al fracasso il
soprastante aveva osservato che i detenuti ci si abituavano, e che
le campane alla lunga la vincevano sempre sopra i nervi degli
uomini. Nè qui finiva lo strazio: allorchè, dopo
tormentosa vigilia, gli occhi di Beatrice incominciarono a
chiudersi sul fare del giorno, tre campanelli presero a suonare a
distesa, e subito dopo tenne loro dietro lo insopportabile
strepito di trecento e più catenacci tirati, altrettante
porte spalancate, e l'odioso fragore della moltitudine delle
chiavi cozzanti fra loro. Quindi si levò una nenia lugubre
di voci discordanti, le quali stridevano le litanie su la musica
della sega scuffinata a suono di lima, o di marmo raschiato; e
cessate le litanie, da capo i trecento usci chiusi, i trecento
catenacci tirati, e lo squasso dei mazzi delle chiavi. Queste cose
accadevano fra tenebre fittissime, per modo che Beatrice ignorasse
se avesse perduto la vista, o se a buio perpetuo l'avessero
condannata. A torla dal dubbio indi a breve la spaventa un
rovinìo sul capo, e subito dopo un cotal poco di luce
grigia si mise nel carcere. Recatasi, tra stupida e atterrita, a
sedere sopra il giaciglio specola il luogo dove l'avevano
rinchiusa: era una cella quadrilatera, lunga, e larga fra sei
passi e sette, di soffitto altissima, terminata a cuspide ottusa:
nella parte superiore aprivasi un pertugio sbarrato da grosse
bande di ferro, donde però non si contemplava il
firmamento, chè andava a sboccare in certa maniera di
abbaino, il quale prendeva luce da una finestra per traverso. In
cotesto macello di carne umana un meriggio di agosto appariva come
un vespro nel mese di dicembre, e un vespro di dicembre come l'Ave
Maria della sera nelle terre boreali. Allora Beatrice conobbe due
cose essere senza misura nel male: lo inferno nella vita futura, e
la perversità dell'uomo nello escogitare trovati capaci a
tribolare il proprio simile nella vita presente. Piegò
vinta la faccia pensando ai destini di questa razza feroce, la
quale si vanta creata ad immagine di Dio().
Lei misera, che delibava appena il calice del dolore!
Più tardi le portarono pane nero, vino di agresto, e una
broda nauseabonda ove galleggiavano frusti di carne grassa e di
erbe. Si attentò ancora guardare in faccia i carcerieri. A
quale razza di bestie spettassero costoro, chi lo può dire?
Uno di essi rassomigliava al geroglifico egiziano, che presenta
forma di uomo, e capo di sparviere; un altro pareva un pomodoro
fradicio imbrattato di calcina, così lo aveva concio nella
faccia l'erpete maligno inasprito dalla perpetua ubbriachezza:
invece di occhi tu avresti detto che tenesse in fronte coccole di
cipresso, tanto elli apparivano duri, e senza sguardo: gli orecchi
poi erano un vero laberinto della pietà, dacchè i
gemiti degli afflitti o vi si perdevano, o vi restavano divorati
da bestia più crudele del Minotauro, voglio dire dall'anima
malnata di costui. Di rado accade che nelle cose belle, per quanto
leggiadrissime esse sieno, le parti armonizzino perfettamente tra
loro; ma in questa trista carcere tutto accordavasi, così
uomini come cose, con istupenda corrispondenza. Il brutto e il
cattivo occorrono in natura troppo più copiosi del bello e
del buono.
Come talora, per giuoco, facciamo passare sopra la buia parete una
serie di figure spaventevoli o grottesche, in quel giorno davanti
agli occhi maravigliati di Beatrice dovevano fare la mostra
stranissimi aspetti. Preceduto dal solito scatenìo, mezza
ora dopo che costoro erano spariti, ecco entrare nel carcere un
uomo molto lindamente abbigliato, con certi orecchioni a guisa di
conchiglia marina, camuso il naso, le labbra grosse e sporgenti in
fuori come quelle della scimmia. Questi esaminò con
diligenza le mura, il pavimento e lo spiraglio, e poi alla
sfuggita sogguardò anche Beatrice, mostrando egli solo fin
lì un'aurora boreale di compassione. Sul punto di uscire
dalla cella fu udito favellare queste parole:
- Sana cotesta prigione non si può dire in coscienza, e per
di più è buia: trasporterete il numero centodue al
numero nove, e gli addobberete la stanza con mobili convenienti;
pel trattamento gli somministrerete quanto desidera, già
s'intende nei limiti della temperanza... Avete capito?
Trasgredendo, due tratti di corda senza pregiudizio di pene
maggiori. Avete capito?
Così anche la umanità assumeva faccia di ferocia, e
di contumelia. Però Beatrice ritenne che cotesto
personaggio, il quale in seguito conobbe essere il soprastante
delle prigioni, si fosse soffermato a dare con voce alta cotesti
ordini perchè giungessero a sua notizia, e ne prendesse
conforto; ond'ella lo raccomandò al Signore, non le
rimanendo altra via per manifestare la propria gratitudine.
Al soprastante fu inteso rispondere con un forte grugnito, il
quale poteva apprendersi per un: «Illustrissimo
sì».
Il traslocamento avvenne nel modo col quale fu ordinato, e
Beatrice si ebbe nella nuova cella un tozzo di pane bianco, e un
raggio di sole puro: con questi la creatura umana può
vivere, o almeno aspettare che la scure o l'affanno la uccida.
Una volta la scure, perocchè la giustizia ferocemente
sincera gavazzasse brandendo la spada; ai miei giorni lo affanno;
avvegnadio, piegando ai tempi, anche la giustizia, educata in
collegio dai Gesuiti, siasi fatta ipocrita: ma non dubitate, no, i
suoi colpi per essere ammenati co' bastoni di arena non riescono
meno mortali di quelli percossi con la piccozza. Il giudice del
decimosesto secolo, sbrancato dalla razza dei tigri, con un colpo
di granfia ti faceva scemo del capo, il giudice del secolo
decimonono, se timore di Dio non lo soccorre, e paura d'infamia, a
modo di serpe ingola poco a poco gì'improvvidi uccelli,
sicchè tu glieli senti pigolare fin dentro lo esofago, e
glieli vedi palpitare anche in mezzo del corpo. Con una botta in
testa, nei tempi passati anima e corpo estinguevano; adesso il
secolo civile ha ribrezzo del sangue; onde imparò ad acuire
l'anima; e dopo averla per bene affilata su la cote della
disperazione, se ne lava le mani, e lascia a lei la cura di
traforarsi una uscita traverso le viscere del condannato: prima
erano colli mozzi, oggi sono cuori rotti. Quale dei due fosse
più caritativo argomento altri giudichi: gli antichi
sistemi non ho provato; conosco i moderni, e so che i nervi
delicatamente gentili dei nuovi pietosi si offendono della
disperazione scarmigliata, e vogliono ch'ella appaia in pubblico
co' capelli pettinati a statua; così anche al vizio
più sozzo si apre la porta di casa, gli si augura la buona
sera, alla veglia domestica si accoglie, purchè si ammanti
di verecondia, e la virtù ha da smettere coteste sue
superbe jattanze, che ci hanno fradici; matrona e meretrice
formano un terreno di confino, dove la virtù e il vizio
esercitano il contrabbando su gli occhi ai gabellieri della morale
pubblica. Dolori, affanni e delitti s'inverniciano con la tinta
della decenza. Per amore delle fibre sensitive delle femmine, e
sopra tutto per amore di quelle degli uomini, bisogna piangere con
ordine, ruggire armonicamente, agonizzare con arte; ogni lacero di
anima, ogni crispazione del cuore ha da essere classata, e
numerata. Tutto occorre ai giorni nostri con esattezza prodigiosa,
e proprietà uguale; l'acqua del santo battesimo, e l'olio
della estrema unzione; la cappa castagnola del frate francescano,
e la camiciuola rossa del condannato allo ergastolo. Le prigioni
appaiono eleganti; gli architetti s'ingegnano disegnarle vaghe a
vedersi. Oh andate, via, a credere che sotto cotesti edifizi
lustri, levigati, e inverniciati uomini dalla anima immortale
s'inverminiscano di disperazione e di disagio!... Le gentili donne
vengono a passeggiarvi la tetra noia, e la spietata vanità;
passano come rondini fischiando qualche parola di filantropia, ed
assicurano poi che le prigioni sono luoghi superbi, e d'incanto.
Guai al misero che osasse temerariamente affermare, potersi
condurre vita meno trista che in prigione; tenga in mente il fato
di Orfeo, e il furore di umanità non agita meno violento il
petto delle nostre gentildonne, di quello che per vino sentissero
le antiche Menadi. Intanto il Promotore di tante belle cose, curvo
il dorso come il primo quarto di luna, assapora il profumo delle
lodi; e, tutto umile in tanta gloria, ponendosi una mano su la
parte dove comunemente si crede che stia il cuore a pigione,
esclama: «facciamo ogni sforzo perchè...
compatibilmente alla loro condizione... i detenuti stieno con ogni
riguardo... perchè alla fin fine anche i detenuti sono
uomini... però la prigione, bisogna avvertirlo, non
può essere paradiso... - Ma voi, lo interrompe un
Diplomatico, signor Cavaliere (però che ai giorni nostri
anche i Soprastanti sieno cavalieri) fate di tutto onde presto lo
diventi; e questo affermo, perchè ho esaminato i vostri
stabilimenti di dietro agli usci». Il Cavaliere, sospettoso,
guarda il Diplomatico coll'occhio porcino; ma questi dura col
volto impenetrabile come quello della sfinge; e costui, non
distinguendo se lo lodi da senno, o gli dia la baia, sta in
bilico: al fine, non sapendo che pesci pigliare, per torsi
d'impaccio gli mostra i denti con un risolino agro dolce, che pare
di gatto quando ha leccato l'aceto. O Ipocrisia, o gran Madre
Cibele della moderna Divinità!
«Ma insomma, che modo di raccontare egli è questo?
Voi fate, come le balie, un passo innanzi, e due indietro».
Così parmi udire esclamare una mia gentile leggitrice, ed
io le rispondo: «Gentil donzella, o donna, o quello che
sarà; se non ti piace il traino, e tu smonta, che
già non ti pregherò io a restarci su. Io scrivo per
tale a cui le mie fermate non dorranno; all'opposto poche
parranno, e troppo brevi: per questo mi affaticai nei giovanili
anni miei, e per questo soffersi in quelli della virilità:
certo ho servito un signor crudele, e scarso; ma pure è il
solo, che sappia emendarsi, piangere, e amare; e questo è
il Popolo: gli altri non vale il pregio servire».
Per tre dì Beatrice ebbe pace, se pace poteva dirsi quella;
il quarto giorno verso nona le si presentarono nuove sembianze:
erano due uomini vestiti di nero; uno rimase alquanto indietro, lo
distinse poco; però le parve di cera acerba: l'altro
bianco, con la fronte di porcellana e lo sguardo socchiuso,
sembrava uomo compassionevole, almeno col sospirare frequente, e
lo incrociare le dita di una mano in quelle dell'altra in atto di
preghiera. Questi si palesò pel medico delle carceri, le
mosse accurate domande circa la sua salute, la visitò
attentamente, consultò il polso, il corpo le tentò
con tatti onesti, poi si congratulò seco lei delle ben
disposte membra, le offerse tabacco da una scatola che sul
coperchio presentava bellamente miniata la immagine del sacro
Cuore di Gesù; e confortandola a starsi di buono animo, che
presto le sue miserie sarebbero terminate, aggiungeva: in quanto a
se disponesse; poi, raccomandatala alla gran Madre di Dio, si
allontanò.
- Ed anche questo pare uno dei buoni, esclamò Beatrice un
po' consolata.
- Quantunque a prima giunta (diceva il medico nell'andito al
notaro criminale, dacchè il suo compagno fosse appunto il
notaro) io mi fossi benissimo accorto che non faceva mestieri,
tuttavolta l'ho voluta esaminare con diligenza, perchè voi
capite che la umanità deve andare innanzi ad ogni cosa... e
l'anima preme...
- Capisco!... l'anima, e il corpo altresì... Diavolo!
Sicuramente... e voi potete assicurarla, eh?
- Con certezza capace, capacissima a sostenere la tortura. I polsi
battono regolarmente, ed escludo ogni indizio, comunque
remotissimo, di gravidanza... sicchè vedete...
- Sicuramente; per formalità vi compiacerete,
eccellentissimo signor Dottore, rilasciarmene il solito
certificatino per metterlo in processo, e procedere con tutti i
modi legali prescritti dai veglianti regolamenti.
- Volentieri, illustrissimo-signor Notaro; questi scrupoli vi
onorano: bisogna pensare che un giorno i nostri posteri leggeranno
questo processo, ed importa che veggano con quanta
regolarità, e con quanto riguardo procedemmo pei sacri
diritti della umanità...
- E della giustizia, Eccellentissimo, aggiungeva il Notaro; la Dio
grazia non viviamo mica in tempi di barbari!
Anche a costoro pareva essere civili, e se ne vantavano. Il
Notaro, col certificato dello Eccellentissimo in mano,
s'incamminò verso la stanza degli esami.
Questa era una sala immensa, e forse un giorno servì per
oratorio; da capo, sopra un rialto di legno, stava il banco dei
giudici coperto di panno nero: nero il corame dei seggioloni:
dietro il capo del Presidente pendeva dalle pareti un immane
Cristo nero scolpito nel legno, il quale non avresti saputo dire
se stesse lì per consolare, o per mettere spavento nei
miseri condotti dinanzi a lui; tanto lo aveva scolpito truce il
fiero scultore.
Siccome non si era per anche visto comparire nessuno dei giudici
all'uffizio, il dabbene notaro, che poteva vantarsi l'ordine
incarnato, si pose a dare sesto ad ogni cosa; accomodò i
seggioloni con simetria, mise su la tavola davanti al Presidente
il certificato del medico umanissimo, e l'orologio a polvere;
ricollocò nel posto consueto i grandi candeglieri di ottone
rinettando i torchietti di cera gialla dalle sgocciolature, e in
mezzo a quelli il Cristo di bronzo, sopra il quale gli accusati e
i testimoni giuravano di confessare la verità. Cotesto
Cristo avevano più volte arroventato, e così offerto
al bacio degl'inquisiti di eresia, onde, lasciandolo cascare a
terra con paura, resultasse la doppia prova dello aborrimento loro
pel Redentore, del Redentore pel loro. O Cristo, se non ti
avessero inchiodato in croce, come non avresti menato le mani
sentendoti tante volte, e tanto sconciamente spergiurare!
Nè qui si rimase il metodico notaro, che volle eziandio
ordinati i calamari e i quinterni; tagliò le penne; di
più le guardò di contro alla luce per esaminare se
le punte fossero pari e il taglio diritto, e le dispose a scala
una accanto all'altra a guisa di frecce, pronte ad essere tratte
contro San Bastiano legato al palo.
Poco oltre il banco un forte cancello di ferro separava questo
spazio dalla rimanente sala, ed anche là si vedeva un altro
uomo che apprestava gli ordigni del proprio mestiere, quasi per
virtù di simpatia; e questo era mastro Alessandro,
celebrato giustiziere di Roma. Mastro Alessandro appariva di
membra proporzionato egregiamente; senza adipe, muscoloso come
atleta, olivastro di pelle, o piuttosto bronzino; i capelli aveva
ricciuti, e neri; le sopracciglia irte calanti su le palpebre in
modo, che dai peli rabbuffati vedevi comparire la pupilla ardente
come fuoco tra pruni; le labbra poi sottili, e compresse parte per
natura, parte per la lunga abitudine di tacere: minutissime rughe
gli attraversavano la fronte; se così fitto avessero
solcato gli anni, o piuttosto lo interno avvoltoio non si sapeva,
nè alcuno curava sapere; avvegnachè anche i suoi
anni fossero mistero e parecchi vecchi prossimi alla decrepitezza
narrassero di un mastro Alessandro carnefice ai tempi della loro
puerizia: forse era stato suo padre, o suo nonno; ma il volgo lo
credeva lo stesso uomo; e ciò gli accresceva la paura.
Nello insieme però la sua faccia dimostrava durezza, non
bestialità: tipo degenerato, ma pur sempre romano. Ci
trattenemmo non senza ragione a descrivere così
particolarmente mastro Alessandro, avvegnadio ricorresse in quei
tempi il giustiziere spesso, quanto ai nostri ricorre il
soprastante dei carceri solitarii. E il Soprastante dei carceri
solitarii, se lo ricordino bene, è moneta con la effigie
del Boia, tosata dalla Civiltà con una lima presa nella
bottega della Ipocrisia.
Nella stanza erano ritti parecchi pali con un braccio traverso, e
in cima a questo pendevano carrucole fornite di girelle di bronzo
con funi adattate a tirar su pesi; in terra sparsi piombi da
mettersi ai piedi per dare la corda con lo squasso, e tassilli, e
canobbi, eculei, capre, imbuti, sgabelli da vigilia, aliossi,
torcie bituminose, cordicelle di sverzino, fruste, flagelli con
triboli in fondo, seghe con altri più arnesi; corredo che
la Ferocia e il Vitupero dettero alla Giustizia quando la
maritarono con lo Inferno. Mastro Alessandro li passava tutti in
rassegna, li rimetteva in sesto; qualcheduno forbiva da certe
macchie nere, che le vene umane vi avevano sprizzato vermiglie. Il
notaro e il giustiziere, ognuno dal canto suo si apparecchiava a
celebrare degnamente la solennità giudiziaria.
Intanto sopraggiunsero un altro notaro, e due giudici; i quali
poichè si furono ricambiati gli onesti salutari, ed ebbero
lungamente favellato del tempo, della stagione, della loro salute,
e delle donne loro, Cesare Luciani creatura bruttissima, con un
capo che pareva un corbello; di faccia verde, come composta di
sego vieto e di verderame, disse che l'aria fresca gli aveva
inacerbita la gotta, e la tosse; ed il notaro Ribaldella, che lo
considerava suo protettore, gli raccomandò con voce
lacrimosa, che per lo amore di Dio avesse cura della sua preziosa
salute. Egli brontolando rispose:
- Lo faremo, - lo faremo, Giacomino; - e non può sapersi se
questo dicesse o maravigliato, o impaurito, o soddisfatto che
vivesse creatura al mondo la quale sentisse, o fingesse affetto
per lui.
Un altro giudice (e questi passava per pietoso) così per la
faccia vermiglio, che pareva un terzino di vino puro lasciato per
dimenticanza sopra la mensa di madonna Giustizia, con occhi tondi,
fissi, e stupidi come quelli di un tacchino, saltò su a
raccontare come gli fosse toccato a vegliar tutta notte a cagione
di un suo cane preso dalla colica, e:
- Che volete? - egli aggiunse - gli è questo il mio pecco;
mi sento il cuore troppo tenero; proprio non era nato per fare il
giudice criminale.
E il Ribaldella lusinghiero:
- Illustrissimo, chi non vuol bene ai cani non vuol bene manco ai
cristiani.
- Certamente, Giacomino; stanotte (tra un nodo di tosse e un altro
continuò a dire il giudice Luciani), stanotte furono
commessi quattro omicidii, e sei furti. Stiamo su la traccia di
certe streghe; e se mettiamo loro le mani addosso, io vi so dire
che ne faremo un processo famoso. Questi processi, la Dio grazia,
ogni giorno più spesseggiano, e presto ha da capitare
qualche altro Giordano Bruno() da mandarsi alle fiamme. Io vi so
dire, che non vidi mai più bel fuoco di quello che fanno i
filosofi: sicchè, Giacomino mio, studiate impratichirvi
presto, sapete. Il diavolo non manca mai di tagliare le legna al
giudice che vuol fare bollire la pentola.
- Pare impossibile! Voi sapete tutto, siete informato di tutto; -
non si sa come diavolo fate! - Eh! uomini istancabili come siete
voi non ne nascono più, - astutamente osservò il
Ribaldella. A cui il Luciani:
- È una passione che ho avuto sempre fin da piccino; ma,
vedete, io pago in moneta di gotta la mia curiosità.
- Desiderate tabacco? - interruppe il notaro amico dell'ordine, il
quale aveva nome Bambagino Grifi, e pavoneggiando mostrò
una magnifica scatola.
- Stupenda! Superba! - esclamarono a coro i circostanti. - Questa
è nuova di zecca. A quante siamo arrivati?
- Me ne mancano dodici per compire le trecentosessantacinque, dove
mi fermerò. Lo Eminentissimo cardinale Evangelista
Pallotta, per quanta industria ei abbia adoperato, è giunto
a trecento solamente; e poi, salvo il debito ossequio, egli le
compra a gatta in sacco, e, sto per dire, come le pentole,
purchè appaiano di forma diversa; ma io, signori, no;
laddove, non sieno tabacchiere storiche, e le non mi vengano
profferte coi certificati autentici della loro celebrità,
ancorchè fossero di oro e di argento non mi degnerei
classarle in collezione(). Ne possiedo una... una sola, che non
cambierei col bottone del piviale di gala di Sua Santità; -
mi fate celia! Se ne serviva il glorioso imperatore Carlo Quinto
nel convento di San Giusto, ed io potei acquistarla da un
religioso di santa vita dell'ordine dei Girolamini in baratto del
naso di Santo Serapione, devota reliquia conservata ab antiquo in
casa dei Grifi. E questa qui, di cui vi credereste voi che fosse
fattura? Sentite veh! nientemeno che di Benvenuto Cellini...
- Mastro Alessandro, avete insaponato la corda? - domandò
il giudice Luciani infastidito al carnefice, il quale col capo gli
rispose di sì.
- Osservate, continuava il notaro Grifo esaltandosi, il portentoso
magistero, e il sottile lavorìo di niello. E a chi
immaginereste voi che fosse appartenuta? Io ve lo dirò di
un tratto. A monsignore Duca di Guisa Enrico lo sfregiato, e la
ebbi da certo padre Minore Osservante che a Blois gli diede l'olio
santo, quantunque lo rinvenisse già spedito nell'altro
mondo con la unzione di cinquanta tra spadate e colpi di alabarda.
Adesso vi racconterò il modo col quale venni in possessione
di tanto tesoro...
- Lo illustrissimo signor Presidente! - gridò un usciere
spalancando la porta; e tutti, tacendo, si volsero a quella parte
donde si affacciava il sole.
Ulisse Moscati si fece innanzi con passi gravi, e lenti. Cotesto
suo incesso non procedeva da burbanzosa jattanza: malgrado il
lungo esercizio della sua professione infelicissima, nello
accostarsi al banco dei giudici egli erasi sempre mai sentito
compreso da ribrezzo. Teneva il capo chino, e gli occhi intenti
alla terra; gemendo nell'anima cercava colà gli oggetti
della sua tenerezza, la moglie diletta e la figlia trilustre, che,
seguendo da presso la madre in paradiso, lui aveva lasciato solo
sopra la terra, e quando per gli anni già troppi sentiva
maggiore necessità di consolazione. Di sembianze appariva
duro, nè poteva fare a meno; ma sotto cotesta crosta di
ghiaccio scorrevano le lacrime, le quali non piante tornavano
amarissime ad allagargli il cuore. Per natura inchinevole alla
pietà, ragioni di famiglia lo avevano costretto ad
esercitare ufficio da cui repugnava; e così tra fare una
cosa ed aborrirla erasi condotto a quella parte della vita, dove,
spento il vigore dell'anima, l'abitudine tiene luogo di
volontà: adesso gli mancava la forza per troncare il
vecchio costume, e, come la più parte degli uomini
spossati, lasciavasi menare dalla corrente dei casi esterni.
Esitanza di voglie; inanità di affetti, sazietà di
ogni cosa fastidioso il rendevano a se stesso e ad altrui: immenso
sentiva il bisogno di pace, ma non sapeva dove trovarlo, nè
donde gli potesse venire. Stato passivo, che una foglia caduta,
una farfalla che voli, un suono improvviso, od altro simile
avvenimento può determinare ad estrema risoluzione. Ebbe
fama di giureconsulto valente per quei tempi, e lo fu;
dacchè allora da per tutto, in ispecie, a Roma, far
procaccio di sofisticherie scolastiche chiamavasi scienza. - Di
vero. le lettere scarse e servili piacquero ai Preti; e quando
nella universale ignoranza esse valsero a somministrare fondamento
alle tenacissime, ed improntissime cupidità loro,
giovandosi del credito e del decoro che le accompagnano, le molte
e generose odiarono, come quelli che tremano del volo del
pensiero, se prima, legatogli un laccio al piede, non ne abbiano
la cima stretta in mano. Però i Sacerdoti nel buio
universale tennero acceso un lampione che tanto lume spandesse
dintorno, quanto bastasse a rischiarare loro il cammino: quando
poi si levò sul mondo la luce, che deve illuminare tutti,
si strinsero insieme smaniosi, e vi soffiarono su; la propria
scienza infante usarono come verga, l'adulta altrui tentarono
soffocare; invidia, e peggio. Così quando sorse il sole
dell'universo, quello di Roma declinò al tramonto. La
Umanità cammina a oriente, Roma a occidente; e ad ogni
passo che muovono rendono la separazione loro più ampia, ed
irrevocabile.
Salutati cortesemente i colleghi e gli ufficiali minori, il
Moscati prese posto al suo seggio; dove essendogli per prima cosa
caduto sott'occhio il certificato del medico intorno allo stato di
salute di Beatrice, lo lesse due volte, poi pacato favellò:
- Pare dunque, che quante volte ne faccia di bisogno possiamo in
coscienza sottoporre alla tortura questa sciagurata fanciulla.
- Sicuramente, rispose tossendo il Luciani, - addirittura...
- Dubito però che le si possa applicare legalmente, per
avere l'accusata poco più di quindici anni. Su di che
desidero sentire il vostro savio parere, Signori...
- Io per me sono chiaro, soggiunse il Luciani, e non ha luogo
dubbio. Dirò nondimeno in tutta coscienza, e per
convinzione, quello che sento per la verità. Se
consideriamo il diritto, per comune consentimento troviamo
stabilito come la età non faccia caso in atrocioribus; e
poichè atrocissimo, e immanissimo è il parricidio,
così con piena coscienza possiamo omettere in questo
processo le regole della procedura ordinaria. Inoltre, Signori
miei, la malizia nella femmina precorre di assai quella del
maschio come la pubertà: di fatti, il gius dichiara pubere
la donna agli undici anni, l'uomo a quattordici, nè la
quistione della malizia già deve risolversi a ragguaglio
degli anni, o per presunzione astratta, bensì in ragione
della prova di fatto: per questo modo quei solenni giudici dello
antico Areopago condannarono saviamente a morte il fanciullo ladro
della corona di oro al tempio di Minerva, avendo saputo
distinguere al paragone le fronde del vero lauro dalle fronde
dell'oro; e per me penso, e voi tutti, signori Colleghi, ne
andrete persuasi, che pravità maggiore di quella mostrata
da questi scelleratissimi nella strage paterna difficilmente
possa, non che trovarsi, immaginarsi. Se poi vogliamo attendere
alla pratica vi occorrerà copia di casi, per cui
conoscerete che la età non forma ostacolo; tra i quali
piacemi ricordare quello che somministrò materia a Sisto
Quinto, pontefice veramente grandissimo, di profferire auree
parole. Monsignor Governatore faceva, col debito ossequio,
considerare al Papa non potersi, com'egli desiderava, condannare a
morte il giovane fiorentino, reo di resistenza alla corte in
Trastevere, perchè non avesse la età stabilita dalle
leggi. Se non gli mancano altro che anni, rispose quella bocca
benedetta di Sisto Quinto, lo potete far morire addirittura,
perchè noi gliene daremo dieci dei nostri().
E Valentino Turchi giudice collaterale, che presentava tutta la
sembianza di un cane da macellaro con gli occhiali, affermando
osservò:
- Ed io rincaro osservando, che non si trattava di caso atroce.
- Giustissima considerazione, soggiunse il vecchio Luciani,
sentendo quasi rimorso per non averla aggiunta al suo discorso.
Il Luciani, secondo la giustizia di cotesti tempi, aveva ragione
da vendere. Pur troppo la giustizia di oggi pare ingiustizia
domani; anzi da un luogo all'altro essa muta, e tale si condanna a
Firenze, che si assolve a Parigi. Di questo non vogliono rendersi
capaci gli uomini che giudicano: e sì che se vi pensassero
sopra ventiquattro ore del giorno non sarebbe abbastanza. Il
Moscati non trovò da opporre cosa, che valesse; onde,
abbassati gli occhi, ordinò:
- Conducasi la prigioniera Beatrice Cènci.
E venne condotta. Circondata da molta mano di sbirri, e fatta
subito voltare con la faccia al banco dei giudici, ella non vide
gli arnesi lugubri di cui era ingombra la sala. Gli astanti
appuntarono cupidissimamente gli occhi in lei; e, percossi dalla
sembianza divina, pensarono tutti come mai tanta perversità
di mente potesse accompagnarsi con bellezza sì portentosa
di forma. Tutti così pensarono, tranne due soli, i quali
ebbero il coraggio di sospettarla innocente: e questi due furono
il giudice Moscati, e il giustiziere Alessandro.
Il notaro Ribaldella prese tosto ad interrogarla intorno alle sue
qualità, ed ella rispose nè timida, nè
proterva, come conviene a persona che senta la dignità
della propria innocenza.
- Deferite il giuramento: ordinò il Moscati.
E il Ribaldella, impugnato il Cristo con tale un garbo, che parve
piuttosto volerglielo dare sul capo, che presentarglielo per
compire un rito solenne, disse:
- Giurate.
Beatrice distesavi sopra la destra candidissima, così
favellò:
- Giuro sopra la immagine del divino Redentore, che fu per me
crocifisso, di esporre la verità perchè so, e posso
dirla; se non potessi o volessi, mi sarei astenuta da giurare.
- E così aspetta la giustizia da voi. Beatrice
Cènci, incominciò a interrogare il Moscati, voi
siete accusata, e le prove in processo lo dimostrano
sufficientemente, di avere premeditato la strage del vostro
genitore conte Francesco dei Cènci, con la
complicità della matrigna e dei fratelli vostri. Che cosa
avete da rispondere?
- Non è vero.
E con tale ingenuo candore pronunziò queste parole, che,
non che altri, San Tommaso si sarebbe chiamato vinto; ma il
giudice Luciani brontolava fra i denti:
- Non è vero, eh?
- Accusata; v'imputano, e le carte del processo lo provano
sufficientemente, voi avere, in compagnia dei predetti parenti
vostri, conferito il mandato a uccidere il conte Francesco
Cènci ai nominati Olimpio e Marzio banditi, con la promessa
del prezzo in ottomila ducati di oro; di cui la metà
subito, e l'altra metà dopo consumato il delitto.
- Non è vero.
- Adesso adesso vedremo se non è vero; - mormorava il
Luciani, come se le tenesse il bordone.
- Siete accusata, e dalla procedura resulta provato
sufficientemente, avere voi fatto dono, o dato per giunta di
prezzo, al nominato Marzio un tabarro scarlatto trinato di oro,
che fu già del defunto conte Francesco Cènci.
- Non è così. Il padre mio donò quel tabarro
a Marzio suo cameriere, prima che da Roma si partisse per la Rocca
Petrella.
- Siete accusata, e dalla procedura resulta abbastanza provato,
avere voi fatto commettere la strage paterna alla Rocca Petrella
il giorno nove di settembre dell'anno millecinquecentonovantotto,
e ciò per comando espresso di Lucrezia Petroni vostra
matrigna, la quale impedì che si commettesse il giorno otto
per essere la ricorrenza della festa della Santissima Vergine.
Olimpio e Marzio entrarono nella stanza dove giaceva il conte
Francesco Cènci, al quale era stato precedentemente
propinato vino coll'oppio; e voi, in compagnia di Lucrezia
Petroni, Giacomo e Bernardino Cènci, attendevate
nell'anticamera la consumazione del delitto. I sicarii essendo
tornati indietro sbigottiti, voi gl'interrogaste, che cosa ci
fosse di nuovo: alla quale domanda avendo essi risposto non
sentirsi cuore a bastanza per ammazzare un uomo che dormiva, voi
li rimproveraste con queste parole: «Come? se preparati non
siete capaci di uccidere mio padre dormente, immaginate se
ardireste di pur guardarlo in faccia se fosse desto! E per venire
a questa conclusione voi avete già riscosso quattromila
ducati? Orsù, poichè la codardìa vostra vuole
così, io stessa con le mie mani ammazzerò mio padre,
e voi non camperete molto». Per le quali rampogne e minacce
i sicarii rientrarono nella stanza dove giaceva il conte Francesco
Cènci, ed uno di loro postagli sopra l'occhio una gran
ferla, l'altro gliela conficcò prima nella testa, e poi nel
collo, donde accadde la morte del prefato conte. I banditi
riscosso il saldo del prezzo si partirono, e voi, in compagnia dei
fratelli e della matrigna, strascinaste il cadavere del trafitto
genitore sopra una vecchia loggia, dalla quale lo dirupaste su di
un albero di sambuco. Che rispondete?
- Signori miei, rispondo che domande di tante, e tanto orribili
perversità vorrebbero volgersi più acconciamente ad
un branco di lupi, che a me. Io le respingo con tutta la forza
dell'anima mia.
- Siete accusata, e lo chiarisce il processo, avere voi consegnato
alla donna Laurenza Cortese, cognominata la Mancina, un lenzuolo
intriso di sangue perchè lo lavasse, ponendo mente di
avvertire la curandaia provenire questo sangue da perdite copiose;
e siete accusata altresì aver fatto uccidere Olimpio dal
bandito Marzio, per paura che costui rivelasse il delitto alla
giustizia. Rispondete.
- Posso io favellare?
- Anzi vi s'impone: favellate apertamente tutto quanto valga a
chiarire la giustizia, e difendere voi dall'accusa.
- Signori! Che io non venissi educata a siffatti orrori, non
importa che dica; vi parlerò ingenua come il cuore mi
detta, e voi scuserete la insufficienza mia. Di poco oltrepasso i
sedici anni; me educarono la santissima madre mia donna Virginia
Santacroce, e donna Lucrezia Petroni femmina preclara per
pietà; nè gli anni miei, nè gl'insegnamenti
altrui persuadono a sospettare in me gli atroci delitti i quali
appena s'incontrano nelle Locuste, ed in altre famose colpevoli,
che pure mano a mano s'indurirono a misfare. Posto eziandio che la
natura avesse voluto creare in me un prodigio di
perversità, considerate, di grazia, come la indole atroce
tanto non possa celarsi, che in parte almeno non trapeli, per
così dire, novizia, prima che stampi profonde le orme nel
sentiero della maledizione. Ora quale io mi sia stata, e come io
abbia vissuto, vi sarà facile conoscere interrogando gli
amici, i parenti, e i servi di casa. La mia vita è libro
che si compone di poche pagine; svolgetelo, consideratelo
attentamente, e tutto. Poi, se non prendo errore, mi sembra che
per giudicare con discretezza le azioni umane faccia di mestieri
avvertire le cause, che possono averle per avventura persuase.
Qual fine pertanto immaginereste voi, che mi muovesse a
così enorme delitto? Cupidità di averi? Ma la
più gran parte dei beni di casa Cènci vincolati a
fidecommisso credono al maggiorasco. Dei benefizii, delle
prebende, e di uffici altri siffatti non si avvantaggiano le
femmine. A me era ignoto, che il mio defunto genitore avesse per
testamento disposto dei beni liberi a favore di luoghi pii:
morendo di morte violenta ed improvvisa, doveva supporlo
intestato; e da questi beni del pari, come femmina, mi avrebbero
escluso le leggi. La mia sostanza mi viene dalla madre, che il
padre non poteva tormi; e, tra doti e stradotali, ho sentito dire
che sommi a quarantamila scudi: sicchè vedete, che avarizia
non ci può entrare. Io non nego, anzi confesso, che mio
padre mi facesse passare giorni pieni di amarezza, e... ma
religione vieta ai figli volgersi addietro a riguardare la tomba
paterna per maledirla, onde io mi astengo da mettere troppe, e non
degne parole su questo: bastivi tanto, che volendo sottrarmi alle
diuturne sevizie, e procurarmi meno tristo vivere, fra i cattivi
partiti pessimo aveva da comparirmi quello del parricidio;
imperciocchè oltre alla eterna dannazione dell'anima
nell'altra vita, fosse pieno di rimorsi, di pericoli e di paura in
questa. Non mi mancavano poi esempi domestici di pratiche riuscite
prosperamente, le quali mi ammaestrassero il modo di tutelarmi
dalle paterne persecuzioni. Olimpia mia maggiore sorella ricorse
alla benignità del Santo Padre, e mercè umile
memoriale ottenne le onorate nozze col Conte Gabbrielli di
Agobbio: e di vero com'ella m'insegnò io feci, scrivendo
una supplica, e la consegnai a Marzio affinchè mi usasse la
carità di presentarla allo Ufficio dei memoriali...
- Sapete voi, che veramente la vostra supplica fosse presentata?
- Signor mio, io la raccomandai a Marzio onde fosse messa in
corso.
- E perchè affidaste a Marzio commissione tanto importante?
- Ah! mio padre mi teneva chiusa; sicchè, tranne Marzio, in
cui mio padre unicamente confidava, non mi era dato abboccarmi con
altra persona in quel tempo.
- Proseguite.
- E supponete, che la natura m'avesse dato la ferocia, il padre il
motivo, il diavolo la occasione per commettere il delitto, ditemi,
potreste voi immaginare modo più assurdo per consumarlo di
quello che finge l'accusa? Perchè adoperarvi il ferro? Con
ottomila ducati possono facilmente procurarsi veleni che uccidono
come il mal di gocciola, o disfanno come le febbri etiche, senza
lasciare vestigio alle indagini della giustizia; ma che dico io,
che possono procurarsi veleni? L'accusa suppone averli io
procurati; nè solo procurati, ma propinati: dunque se
versai al padre mio vino alloppiato per farlo dormire una notte,
bastava aumentargli la dose perchè non si svegliasse mai
più in questo mondo. A qual pro tante operazioni
pericolose? A qual pro banditi? Perchè tanti complici,
sovente traditori, sempre funesti? E soprattutto, qual bisogno,
qual consiglio fu quello di chiamare a parte della congiura
Bernardino, fanciullo di dodici anni? In che cosa poteva giovarmi
costui, o piuttosto, in che cosa non doveva aspettarmi ch'egli non
fosse per nuocermi? Se in casa Cènci viveva un lattante,
anch'egli avrebbe tenuto per complice l'accusa; come se, tolto in
fastidio il materno latte, con gridi e con minacce avesse chiesto
nudrimento del sangue del padre? Assurdi paionmi questi, e sono.
Don Giacomo quando avvenne il caso funesto trattenevasi in Roma, e
di questo potrà somministrarvi buone testimonianze. Del
tabarro vi dissi. Del lenzuolo può darsi; altre volte udii
raccontarlo, ed aggiunsero la curandaia avere confessato che
glielo consegnò una donna di trent'anni: ora nè io
ho trent'anni, nè parmi dimostrarli; almeno non li
dimostrava allorchè non era passata per tante tribolazioni;
e il luogo dove si asserisce che la curandaia lo trovasse
macchiato, esclude il sospetto che sgorgasse dal capo del
giacente. O Signori! voi siete valentuomini, e pratichi di queste
materie; onde io non dubito che sarete per ricusare fede a tante
gagliofferie. A che il chiodo e il mazzuolo? I banditi vanno
sempre armati oltre il bisogno di pistole e di pistolesi; pensate
un po' se gli avessero lasciati quando venivano appunto per
commettere omicidio! Bene trovo, che il chiodo venne adoperato per
ammazzare Sisara; ma Giaele non faceva professione di sicario,
nè ella aspettava il nemico nella sua tenda. -
Perchè avrei strascinato io il cadavere, mentre uomini
poderosi ne circondavano? Forse così persuadeva il bisogno?
No certamente. Forse m'inviperiva ferocia d'istinto? Oh! Le cose
fuori dell'ordine naturale non si suppongono; e moglie, e figlia
che strascinansi dietro il corpo del marito e del padre come due
volpi un coniglio, avrebbero mosso in un punto a riso e a ribrezzo
gli stessi banditi. Se qui avete cuore, - e con una mano si
toccò il petto; - se qui senno, - e coll'altra si
toccò la fronte, - non pure cesserete angustiarmi l'anima
sconsolata con simile accusa, ma vi guarderete di confondermi la
mente col miscuglio di tante mostruosità.
E tutto questo pronunziava Beatrice speditamente, con tuono di
voce, e garbo bellissimi; per la qual cosa gli astanti, con le
braccia tese sopra i banchi, inclinato il corpo e sporgente la
faccia, stavano in ammirazione: fino il notaro Ribaldella, con la
manca ferma su i fogli e la destra sospesa in alto, era rimasto
senza scrivere: fino l'auditore Luciani maravigliando aveva
esclamato:
- Come s'impara presto alla scuola del diavolo!
- Io vi ammonisco, riprese il presidente Moscati, a mantenere la
promessa di confessare la verità, e ad osservare la
religione del giuramento; imperciocchè i vostri complici
abbiano ormai palesato la colpa, e ratificato la confessione con
la prova della tortura...
- Come! Dunque pel dolore dei tormenti non hanno abborrito di
aggravarsi l'anima, ed infamarsi perpetuamente? Ah! La tortura non
fa prova di verità...
- Non fa prova di verità la tortura? - proruppe furibondo
il Luciani, incapace di contenersi più oltre; e levatosi
mezzo da sedere, appoggiava le mani sopra i bracciuoli della sedia
sostenendo il corpo tremante. Se avessero calunniato l'onore della
consorte e delle figliuole sue non sarebbe salito a tanto furore.
- Non fa prova di verità la tortura, che i giureconsulti
tutti, nemine nemine discrepante, predicano la regina delle prove?
Te ne avvedrai fra poco se la tortura abbia virtù di far
confessare il vero...
Beatrice scosse il capo, come un mal vento glielo avesse bruttato
di polvere, e continuò:
- Donna Lucrezia, già attempata, pingue, nudrita nelle
delicature di poco animo, non prevedendo il male futuro, in grazia
di sottrarsi al male presente si è condotta di leggieri a
confessare il falso. Con Bernardino fanciullo non faceva mestieri
tormento; per indurlo a confessare quanto da lui si voleva bastava
un po' di treggèa. Giacomo poi da lungo tempo sente
fastidio della vita; ed altre volte ha tentato gettarla, come peso
troppo grave per lui. Tali sono quelli che provaste con la
tortura, e presumete avere scoperto il vero?
- Non tutti questi furono i vostri compiici, soggiunse il Moscati.
Altri pure confessò.
- Chi dunque?
- Marzio.
- Ebbene; mi venga Marzio davanti, e vediamo un po' se ardisce
sostenermelo in faccia. Quantunque io debba credere l'uomo capace
delle più orribili cose, se da me non lo sento ricuso
prestar fede a tanta iniquità.
- Ebbene; chiaritelo da per voi stessa...
- Ahimè!
E parve questo uno di quei sospiri, che rompono il cuore che lo
esalò. Beatrice allora volse gli occhi, e vide quello che
non aveva scorto prima, lo apparecchio degli arnesi infernali, e
rabbrividì dal capo alle piante. A piè d'una forca
stava Marzio, o piuttosto l'ombra di Marzio: la pelle gli
s'informava dalle ossa, e, se togli gli occhi vitrei, ogni altra
parte del corpo pareva morta in lui; avresti detto che lo avessero
tratto colà per ispirarvi l'anima: egli tentò
muoversi per gittarsi ai piedi di Beatrice, ma non potè
mutar passo, e cadde su la faccia stramazzone per terra. Beatrice
stette a considerarlo un istante bieca negli occhi; il piede
irrequieto fece atto di calpestarlo; ma di subito l'ira le si
converse in pietà, e chinò le braccia per sovvenirlo
a rilevarsi.
- Dunque, con un filo di voce favellò Marzio, mia dolce
signora, sono io sempre degno della vostra pietà? O signora
Beatrice, abbiatemi compassione per lo amore di Dio; chè io
sono misero... misero... ma misero assai.
- Marzio, perchè mai mi avete accusata? Che cosa vi ho io
fatto, onde anche voi vi siate congiurato con gli altri per tormi
la fama?
- Ah! conosco tardi la mano divina che mi percuote; tardi, che la
innocenza sola può darci contentezza: io tenni altra
strada, ed ecco mi trovo ad avere fabbricato, con la mia, l'altrui
rovina: e di me pazienza; ma di tanti altri innocenti... oh!... Io
ammazzai Olimpio temendo che la sfacciata scelleraggine di costui
non vi offendesse, e mi è riuscito il contrario. Ma io
giuro per quel Gesù che dovrà giudicarmi fra poco,
che mai ebbi intenzione di nuocervi. Sazio di vita, logoro dalla
infermità, lacerato dal rimorso dei commessi delitti,
sbalordito dai tormenti, io nulla intesi di quanto mi lessero, e
mi fecero affermare; confessai tutto quello che vollero, a patto
che mi mettessero a morte, e subito: essi non mi tennero fede, e
le mie parole hanno convertito in stiletti per piantarli nel cuore
di creature innocenti...
- Signor Presidente, interruppe l'auditore Luciani, non penso io
già che voi ci abbiate radunati per udire recitare egloghe
fra Amarilli e Melibeo.
- Approvo l'assennatissima osservazione del meritissimo auditore
Luciani, - rincalzava per parte sua il giudice Valentino Turchi.
- Abbiate pazienza, Signori, gli ammoniva placido il Moscati, e
rammentatevi che noi non siamo convenuti qui per sollazzarci:
poichè sta in noi la terribile facoltà di troncar le
parole con la mannaia, lasciamo ai miseri lo infelice sfogo del
pianto.
- Per piangere non mancherà loro il tempo quando saranno
tornati in prigione: se voi, signor Presidente, vi foste preso
cura di voltare l'orologio a polvere, vi sareste accorto come
sieno già passate due ore senza costrutto di nulla. Lo
Stato per certo non ci paga onde in siffatta guisa noi
scioperiamo... e continuando di questo passo, chiederei licenza di
andarmene ad accudire a faccende di maggiore rilievo.
- Dio vi accompagni...
Ma il tristo non si giovò del commiato del Presidente; anzi
parve accomodarsi con agio maggiore sopra la seggiola. Intanto il
Moscati voltosi a Marzio gli disse:
- Accusato, rispondete breve: ratificate, o no, il vostro esame in
confronto dell'accusata?
- Signori Giudici! oggimai il male, che voi volete farmi,
sarà grave ma corto. Io conosco trovarmi presso a comparire
davanti al tribunale di Dio, a cui non fanno di mestieri
confessioni nè testimoni. - Tanto, voi potete scorciare il
filo di questa mia vita; allungarlo no. Orsù; udite la
verità come la conosce Quello che ha da giudicare me, ed
anche voi. So bene queste essere le mie ultime ore, e chi sa come
orribilmente dolorose!... non importa... benedette elle sieno,
poichè per esse mi è dato porgere testimonianza
della innocenza di questa divina fanciulla. Chi fosse Francesco
Cènci molti di voi l'avrebbero a sapere, che si saranno
trovati ad esaminarlo, e a giudicarlo per gl'immanissimi suoi
misfatti. - I santi del suo calendario furono delitti uno
più atroce dell'altro; suo passatempo pestare le leggi
divine ed umane; a lui parve aver posto la natura i confini,
dinanzi ai quali i più solenni scellerati si arretrano,
solo per provare la sua empietà a saltarli. Tale fu il
Cènci: e chi di voi lo ignora? Un giorno cotesto demonio mi
fiatò accanto, e mi seccò il cuore. - Avete a
sapere. Signori, che io aveva contratto le nozze con una fanciulla
di Vittana... Annetta... dopo la Madonna Santissima, da me, povero
orfano, adorata; ed ei me la rapì bella, fresca, e piena di
vita... e me la rese... sì, me la rese; ma cadavere
trasformato, con uno stile nel petto che la passava da parte a
parte. Lo assaltai nella rocca, che, per le infamie commesse
dentro le sue mura, ha titolo di Ribalda; e non ve lo trovando,
detti il guasto alle case: quanto mi capitò sotto le mani
arsi: su quelle pietre rimangono i vestigi delle mie fiamme.
Lasciai il paese, sacramentando trarne vendetta di sangue sopra la
sua famiglia e su lui. Mi ridussi a Roma, m'industriai a entrargli
in casa, e vi riuscii: mi venne fatto altresì di guadagnare
la sua grazia; con quali argomenti non importa dire... a
rammentarli mi mettono ribrezzo; e neanche vi narrerò
quello che egli mi confidasse... bastivi, che furono cose da
sgomentarne lo stesso demonio. Colà, mentre studio portare
a compimento la vendetta, conobbi lo inenarrabile affanno della
sua famiglia. I figli odiava come nemici: Dio supplicava ed i
Santi affinchè gli concedessero, prima di morire, la grazia
di vederli tutti ammazzati. Andate nella chiesa di San Tommaso, e
troverete i sepolcri ch'egli aveva fatto apparecchiare pei figli
che bramava seppellirvi; - andate, e vedrete accanto ad un suo
figliuolo sepolto... chi? un cane. - Una sola creatura amava... ho
io detto amava? Ho detto male, e pure non saprei esprimermi
diversamente: temo aver detto poco, e più non saprei dire
senza cuoprirmi il volto per la vergogna... ma io non posso
alzarmi le mani alla faccia... perchè voi mi avete fatto
troncare i bracci dai tormenti. - Amava dunque Beatrice. Carceri,
fame, battiture, e le peggiori assai corruttele, lusinghe, e
immagini abbominevoli, tutto adoperò lo infame vecchio per
contaminare questo angiolo di purità. Allora la compassione
mi vinse per la infelice famiglia che io aveva giurato sterminare,
ed in un giorno solo io impedii più delitti, che voi forse
non avete giudicato in un anno. Quando giunsero al Conte
Cènci di Spagna nuove della morte dei suoi figliuoli Rocco
e Cristofano, gli bastò l'animo imbandire convito ai
parenti e agli amici, dov'egli disse, e fece cose, che parve
miracolo se Roma non sobbissasse: ricercatene i commensali; erano
tra questi Cardinali di Santa Madre Chiesa, e Baroni cospicui.
Quando la gente, cacciata via dal terrore, lasciò la sala
deserta, egli, ebbro più di empietà che di vino,
osò levare le scellerate mani sopra Beatrice. Cotesto
sarebbe stato il suo ultimo giorno, però che io dietro le
spalle di lui alzassi un vaso di argento per ispezzargli il
cranio, se questa innocente, urlando, e riparandolo con le
braccia, non lo avesse salvato. Mosso da lei con ardentissime
preghiere di non attentare alla vita del padre, io non volli
deporre la mia vendetta; ma determinai uscire di casa, e coglierlo
altrove. Però il maligno vecchio mi aveva tolto in
sospetto; e, fingendomi amore, m'inviava alla Rocca Petrella por
apprestargli le stanze. Le stanze! - Già aveva innanzi
spedito alla posta sicarii perchè mi ammazzassero, e
intanto mi donava cortese il tabarro scarlatto trinato di oro; e
comecchè io mi difendessi da accettarlo, non mi parendo
dicevole al mio stato, egli volle che ad ogni patto io lo
prendessi per preservarmi dalla influenza della malaria viaggiando
per la campagna romana: così egli diceva; ma invero
perchè il tabarro rosso servisse di contrassegno ai
sicarii. Mi salvai dalle sue insidie, e le tesi a lui: raccolsi
una mano di compagni; e quando mi credeva morto, lo feci prigione
nel suo ultimo viaggio alla Ribalda, e lo trassi alle caverne di
Tagliacozzo. Colà doveva morire; ormai pareva che ingegno,
o potenza di uomo non valessero a salvarlo; e pure ei fu salvo.
Bevemmo certo vino alloppiato, che il Conte si portava seco da
Roma; e mentre eravamo immersi nel vino ci fu tolto di mezzo,
comecchè io tenessi la chiave del suo carcere in tasca. E
il suo liberatore chi fu? Eccolo; questa divina figliuola. Non per
questo deposi il fiero animo, anzi sempre più mi arrovellai
nella vendetta; ed una notte, avendo prima speculato cautamente il
luogo, tolti meco due compagni, per una finestra del piano
terreno, rotta la inferrata, penetrai nella ròcca: qui ci
spartiamo a perlustrare la casa; uno dei miei compagni vede
traversare un'ombra; si nasconde nel buio, e poi le tiene dietro
alla lontana: l'ombra ascende le scale della torre, apre una
stanza, ed entra: il mio compagno si affretta a seguitarla; tocca
la porta, gli cede; sia che non volesse, od obliasse riservarla
colui, che andava avanti stimandosi sicuro. In cotesta carcere il
Conte Cènci teneva chiusa la figlia Beatrice in guiderdone
della vita salvata... Dovrò io dire che cosa traeva
costà l'empio vecchio? - No... ve lo dica il ribrezzo, che
a voi, tutti padri, fa tremare le carni e le ossa... e il mio
compagno gli si avventò sopra, e di coltello lo uccise,
meno in grazia della mia vendetta, che per vendicare la natura; e
fece bene: e chiunque fra voi sostenesse che non avrebbe operato
altrettanto, io lo dichiaro qui, alla presenza di Cristo,
più traditore di quello che gli diè la guanciata.
Noi strascinammo il cadavere maledetto, noi lo precipitammo
giù dalla loggia su l'albero di sambuco. La signora
Beatrice fu desta al rumore del tracollo che fece il trafitto sul
pavimento. Il lenzuolo rimase intriso nel sangue del Conte; ma
nè ella il vide, nè ella lo diede alla lavandara,
perchè cadde tramortita nella prigione; e quinci tratta
semiviva, giacque più giorni in letto travagliata da
fierissima convulsione. Olimpio ammazzai io, e come, e il
perchè vi dissi... A Napoli confessai quello che vollero,
per forza di tormenti... questa è verità... ogni
altro menzogna... Ora di me fate quello che vi piace. - Intanto,
concludendo, ringrazio di vero cuore Dio, il quale mi ha dato
tanta lena da finire... perchè tornare da capo io non
potrei... E ciò detto cadeva giù in terra un'altra
volta, se mastro Alessandro, prontamente non lo soccorreva.
- Ditemi, signor Presidente, non ci sarebbe pericolo ch'ella lo
avesse stregato? - sussurrò il Luciani, in aria di mistero,
nell'orecchio al Moscati; e siccome questi fece spallucce senza
rispondere motto, il Luciani continuò a brontolare: -
Già... già... voi non credete a questo... vi pare
novella... badate a non lasciarvi allucinare dai lumi tenebrosi
del secolo, perchè io vi so dire ch'essi rischiarano un
cammino solo, e questo è quello che mena dritto
all'inferno.
Al Moscati acerbamente dolse la petulanza del Luciani: tuttavolta,
sentendo mettere in dubbio la sua fede, imperciocchè in
quei tempi credere nelle streghe fosse articolo di fede, come
colui che piissimo uomo era si scosse, e domandò risoluto
al Luciani:
- Signor Auditore, e per qual causa dubitate voi che io non creda
alle fattucchierie? Io ci credo benissimo; ma qui non parmi che
cada il caso. - Dunque persistete a ritrattarvi, accusato?
Marzio assentiva col capo.
- Tortura definitiva... non ci è rimedio, sempre pronto
osservava il Luciani; e Valentino Turchi ripeteva latrando:
- Non ci è rimedio; tortura definitiva.
Il Moscati, trattosi il fazzoletto di tasca, si asciugò il
sudore dalla fronte; poi si volse al notaro, e gli disse:
- Notaro, ammonite lo accusato a non insistere nella sua
ritrattazione... ammonitelo, che diversamente la legge vuole che
venga esposto alla tortura definitiva... ammonitelo, tortura
definitiva... che sia... e in caso di persistenza stendete il
decreto.
- Il dabbene uomo queste proposizioni favellava singhiozzando, e
il notaro per filo e per segno le ripeteva a Marzio; cerziorandolo
inoltre, che tortura definitiva significava applicarlo ai tormenti
usque ad necem; le quali parole latine, in lingua volgare
suonavano fino alla morte. Marzio anche a questo assentì
col capo, perchè ormai la lingua ingrossata gl'impediva la
favella. Disteso, letto, e sottoscritto il decreto, il notaro
Ribaldella, volto prima al Luciani, che alacre gli ammiccava con
gli occhi, disse al carnefice:
- Tocca a voi.
Mastro Alessandro prese le braccia di Marzio; gliele tirò
dietro la schiena; le soprammise una all'altra; le legò con
un nodo in croce; tentennò il canapo per assicurarsi se
scorresse spedito dentro alla carrucola, e poi, cavandosi il
berretto, domandò:
- Illustrissimi, con lo squasso, o senza squasso?
- Diavolo! con lo squasso, s'intende, e co' fiocchi... - rispose
il Luciani, che non si poteva contenere in verun modo.
Gli altri affermarono assentendo col capo.
- Mastro Alessandro, sovvenuto da uno dei suoi valletti, trasse su
piano piano Marzio. Beatrice inclinò la faccia sul petto
per non vedere; ma poi fu spinta da uno interno moto ad alzarla. -
Orribile! orribile! - Urlando si coperse gli occhi con ambe le
mani... quel nudo ossame, stirato in truce atteggiamento metteva a
un punto terrore e pietà. Il giustiziere, poichè
ebbe fatto toccare a Marzio con le braccia tese in angolo sopra la
testa la traversa della forca alta sei braccia da terra, si
recò in mano il capo della fune, e lasciò andare.
Marzio rovinò giù a piombo fino a quattro dita
distante dal pavimento: tremendo fu lo squasso, e si sentirono
scricchiolare le ossa, e stracciarsi i muscoli. Marzio
spalancò gli occhi stralunati come se volessero schizzargli
fuori dei cigli; aperse la bocca spaventevolmente mostrando tutti
i denti, e un singulto secco gli chiuse la gola: subito dopo si
sentì come un leggiero gorgoglìo, e dalla bocca
aperta apparve una bolla d'aria, che scoppiando lasciò
gocciare giù dagli angoli dei labbri bava sanguigna. In
fede di Dio egli era stato uno dei più famosi squassi, che
avesse saputo dare mastro Alessandro in vita sua: s'egli se ne
compiacesse, o se ne dolesse, non poteva indovinarsi; stava duro,
e taciturno a considerare l'opera sua.
- Su, mastro Alessandro, da bravo... agguantamelo con un altro
squasso dei buoni, - appoggiate ambe le mani ai bracciuoli del
seggiolone, e mezzo ritto con la persona, insisteva l'auditore
Luciani.
- Non monta, Illustrissimo; l'ultimo squasso glielo ha dato la
morte.
- Come? come? È morto? - imbestialito urlò il
Luciani. - Perchè lo avete fatto morire voi? Perchè
ha ardito morire costui prima di annullare la sua ritrattazione?
E siccome mastro Alessandro stringendosi nelle spalle non fece
motto, il giudice instava:
- Vediamo, - proviamo se fosse sempre vivo; dategli una stretta
co' tassilli - un po' di fuoco sotto le piante, per tentare se gli
tornassero gli spiriti.
E si levava, quasi per aiutare mastro Alessandro; sennonchè
il Moscati, sdegnoso, lo tenne pel braccio esclamando di forza:
- Per dio! vi sovvenga della dignità del vostro ministero!
Siete voi giudice, o giustiziere?
Ma il Luciani svincolò il braccio; e, padroneggiato dal
bestiale suo istinto, si fece in fretta presso il carnefice, che
teneva stesa la mano sul cuore di Marzio, e ansiosamente lo
interrogò:
- Ebbene?...
- Illustrissimo ve l'ho già detto, egli è morto.
Allora il Luciani, pieno d'izza, voltando il discorso al cadavere
lo rampognava:
- Ah mi sei scappato, furfante! Sei morto per giuntare la
giustizia della confessione, e mastro Alessandro di cinquanta
scudi di salario per impiccarti. - E quindi tornando al banco, con
voce e gesti infelloniti di faccia al Moscati gridava:
- Su via, signor Presidente, battiamo il ferro quando è
caldo: mettiamo a profitto lo sgomento che deve avere incusso il
terrore nello spirito dell'accusata; - sentiamo un po' in qual
nota canti costei a suono di corda; - e dardeggiava gli occhi
contro Beatrice come lingua di vipera.
- Basta, ordinò severamente il Moscati; io regolo il
processo: la seduta è chiusa; - e mosse per uscire.
Il notaro Grifo, vinto dal costume, si trattenne alquanto per
nettare le penne; e ripostele frettoloso in bell'ordine, corse
dietro ai giudici dicendo:
- Adesso terminerò raccontarvi, com'io acquistassi la
tabacchiera del signor Duca di Guisa...
Beatrice, bianca come un lenzuolo da morto, tentennò per
cadere; le labbra le diventarono pagonazze, e gli occhi suoi
tremolarono smarriti; indi a breve scosse il capo, e lo
rialzò a guisa di albero piegato dal remolino che passa;
poi animosa andò incontro al cadavere di Marzio, gli stette
davanti, lo guardò fisso, e favellò:
- Sciagurato! Tu non hai potuto salvarmi; ma ti perdono, e
supplico Dio che ti perdoni. Tu hai peccato molto; ma hai amato, e
patito anche molto. Tu non vivesti alla virtù, ma sei
perito per la verità. Io t'invidio... chè la mia
vita è tale, da portare invidia ai morti(). Adesso non
posso dimostrarti l'amor mio (e sì dicendo stese lo indice
e il pollice, li soprappose ai cigli del morto e gli chiuse gli
occhi, ch'egli teneva sempre aperti in molto terribile maniera;
poi trasse un pannolino e gli asciugò le labbra dalla bava
sanguigna) in altro modo, che rendendoti questo ultimo ufficio, e
te lo rendo di cuore. - Ciò detto si volse ai custodi, e
con fermo sembiante riprese: ora torniamo al carcere.
Ma il fitto ribrezzo delle carni palesava la tremenda commozione
dell'anima sua: le gambe le tremavano sotto, e ad ogni passo
incespava per cadere. Mastro Alessandro trattosi il berretto di
capo, e tenendosi lontano con doverosa distanza, così le
favellò:
- Signora, io so che non mi potete toccare; così a Dio
piaccia, che io non tocchi mai voi: voi avete bisogno di
qualcheduno che vi sostenga; se me lo concedete io chiamerò
tale, su cui vi appoggerete senza paura: di mala pianta nacque, e
in carcere; e non pertanto è fiore, che può
presentarsi alla Madonna... è mia figliuola.
E con un fischio prolungato chiamò: indi a breve fu vista
comparire una fanciulla bella sì, ma bianca, bianca come
voto di cera. Poveretta! ella sapeva essere nata alla sventura.
- Virginia, le disse il padre, da' braccio a questa Signora...
è disgraziata quanto te.()
Beatrice fissata la fanciulla in volto, si sentì bene
disposta verso di quella: quando poi intese che si chiamava come
la madre sua. le sorrise mesta, e le si appoggiò sul
braccio incamminandosi al carcere.
Mastro Alessandro avvisatamente dava cotesta terribile strappata
di corda a Marzio, tentando farlo restare sul colpo; e come aveva
immaginato gli riuscì, stante il miserabile stato in cui lo
infelice si trovava ridotto: non mica per odio; all'opposto, per
pietà. Onde costui morisse presto, e con meno patimenti, il
boia mandava male una trentina di scudi; e per boia non era poco,
anzi moltissimo: troppo più, che le pietose viscere, di un
Soprastante di carceri umanitarii non gli potrebbero permettere;
il quale per trenta scudi e un po' di seta tinta nel sangue di
Santo Stefano venderebbe trenta Cristi, con la Beata Vergine per
giunta; e se colmo la misura di un grano solo, il diavolo mi porti
mentro che scrivo.
CAPITOLO XXIII.
I GIUDICI.
Di nuova pena mi convien far versi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Chè dove l'argomento della mente
S'aggiunge al mal volere ed alla possa,
Nessun riparo vi può far la gente.
Dante, Inferno.
Ha la sventura un vento che la precorre, e chiamasi augurio: le
anime pacate per mille indizii lo presentono, come gli uccelli lo
approssimarsi del turbine: le altre poi, dalla vicenda dei
quotidiani eventi perpetuamente commosse, non se ne accorgono, e
la sventura le coglie subitanea e improvvisa.
Invano il giudice Ulisse Moscati chiudeva le orecchia alla voce
interna, la quale insistente gli diceva: «tu getti via i
passi». La voce tornava a sconfortarlo, e per la sua mente
si avvolgevano pensieri simili a spettri, che in parte celino, e
in parte palesino il minaccioso sembiante; nè egli osava
interrogarli, e che si scuoprissero più palesemente aveva
paura: tuttavolta, sciolto un grandissimo sospiro, e supplicato il
cielo di uno sguardo, si avviò al palazzo Vaticano. Fattosi
annunziare aspettò con pazienza per bene due ore,
finchè il camerario del Papa gli partecipò che
poteva entrare, e scortato da lui si trovò al cospetto del
Sommo Pontefice.
Fosse per amore della vista, o quale altra causa più vera
lo persuadesse, il candelabro appariva circondato da un cerchio di
seta verde per modo, che dal busto in su la faccia di Clemente
VIII non si distingueva, nè punto vedevansi Cinzio Passero
e Pietro Aldobrandino cardinali nipoti, che stavano fermi in piedi
dietro la spalliera della seggiola. Allora i Papi si
assomigliavano tutti come le dita della stessa mano, stesa per
molti secoli sul capo di parte non piccola del genere umano... e
se per benedirlo, Dio onnipotente un giorno giudicherà.
Adesso qualche maggiore differenza corre tra loro; non tanta
però, che paiano nati di diversa famiglia: e tacendo degli
altri per dire degli ultimi, Pio IX si mostrò tenerissimo
delle libertà dei popoli; e della patia sua, la veneranda
madre Italia, figlio amorosissimo: delle cose di religione poi
studioso sì, ma non rigidamente zelatore, almeno sul
principio del suo pontificato: all'opposto Gregorio XVI non
versò in altro che in divinità, di cui fu maestro
solenne; della libertà, e felicità dei figli suoi
dilettissimi prendendo cura alquanto minore. Questi, per
istringere il vincolo soave tra figli amati e il padre amante,
chiamò uno straniero solo; quegli, per istringerlo
più forte talchè in processo di tempo non avesse ad
allentarsi più mai, ne chiamò quattro, e due ne
conserva per aiutarlo a far portare al popolo romano quel dolce
giogo, ch'è il suo amore: e se io dica il vero, la
Civiltà Cattolica (dotto, pio, e soprattutto sagace diario
dei Reverendi Padri Gesuiti) informi.
Clemente vestiva la mezzetta di velluto sanguigno ornata di
ermellino, e il roccetto di trina finissima; il cappuccio pur di
velluto rosso; la toga, le calze e le scarpe di seta bianca, e
sopra queste ricamata la croce di oro. La luce dei doppieri
spandendosi su la parte inferiore del capo del Pontefice metteva
in rilievo un piede del servo dei servi, che, posato superbamente
sul pulvinare di velluto vermiglio ornato di gallone e di nappe di
oro, sembrava che comandasse a chiunque si accostava: baciami. Il
giudice Moscati era troppo buon cattolico per non sentire cotesta
voce; e comecchè per gli anni male egli si tenesse fermo su
la persona, la vanità non consentì che l'altro si
rammentasse caduco essere e mortale come lui, e gl'impedisse
l'atto ignominioso: il Moscati cadde giù gravemente, e col
capo venerando di canizie urtò nella gamba del Papa, il
quale, malconcio da abituale podagra, forte se ne sentì
trafitto; ma mordendosi il labbro compresse il lamento,
finchè con voce acerba potè dire:
- Sorgete.
Il vecchio, appuntellata la tremula mano sul pavimento, non senza
tornare a piegar le ginocchia più volte, giunse a
raddrizzarsi sopra le gambe. Sorto, e ripreso lena, con ingenua
franchezza egli aperse al Pontefice l'animo suo intorno al
processo; della famiglia Cènci; lo chiarì della
incertezza degl'indizii, espose la inverosomiglianza dei deposti,
la età novella di alcuni fra gli accusati, i fatti non pure
discordi, ma contrarii; e quantunque parecchie ne aggiungesse di
suo, ripetè le considerazioni discorse da Beatrice; si
avventurò eziandio a toccare (suprema audacia in cotesti
tempo) delle prove dubbiose, che, a parer suo, nascevano dai
tormenti; imperciocchè se Marzio aveva confessato in grazia
della tortura, aveva ancora soppresso la sua confessione, ed era
morto fra i tormenti in testimonianza di aver detto per ultimo la
verità. I Cènci poi, tranne la donzella, un po'
avevano confessato, un po' negato, dichiarando essersi accusati
unicamente perchè costretti dalla forza del dolore:
maravigliosa, egli aggiunse, essere la ingenuità di
Beatrice, stupenda la efficacia dello eloquio, il modo di
persuadere irresistibile, sicchè in quanto a lui giudicarla
innocente. Queste cose avere voluto per debito di coscienza
significare a Sua Santità, onde nel suo infallibile
giudizio avvisasse quello che fosse da farsi pel meglio.
Bernardino, fanciullo di dodici anni, avere sperimentato con la
corda, e sentirsene al cuore un rimorso e uno affanno indicibili.
Beatrice no, parendogli proprio commettere peccato mortale.
Mentre favellava il Moscati, i due Cardinali per quella mezza
oscurità avvicendavansi sguardi simili a baleni precursori
della tempesta, e il Papa anch'egli aggrottò i sopraccigli
più volte; ma, per antico costume, a dissimulare e a
simulare espertissimo, si contenne, e in suono di voce più
pacato assai che di ordinario non soleva, commendò il
Moscati della ottima mente sua, promise far capitale delle cose
rapportategli, e, confortatolo con amorevoli parole a tornare il
giorno veniente alla medesima ora, lo accomiatò
impartendogli l'apostolica benedizione.
E il Moscati, pratico della temperie di corte, nonostante le
singolari dimostrazioni di benevolenza, se ne andava col cuore
più chiuso di quando ci era venuto: la voce interna,
più incresciosa che mai, lo ammoniva aver gittato la opera
e i passi: educato alla scuola della esperienza, ben egli sapeva
come con gli uomini in generale, ma segnatamente co' Prelati,
quanto il promettere si allunga si accorcia lo attendere, e le
speranze nate in corte o su la pianta appassiscono, o, a modo del
fiore di papavero, al primo soffio si spelano; - spiagge insidiose
si provano le corti, dove mai tanto non fosti prossimo a
naufragare come quando il cielo si mostra sereno, e il mare
tranquillo.
Nonostante il presagio, l'uomo dabbene alla ora destinata
andò, supplicando il Signore che almeno gli tenesse conto
del buon volere. Accolto dai camerarii con insolito ossequio, lo
resero avvertito attenderlo nelle sue stanze lo eminentissimo
Cardinale San Giorgio, nipote di Sua Santità. I tristi
auspicii sempre più si colorivano; ma l'uomo, che cosa
può mai contro il fato? Certo quando ogni industria nostra
per procurare alcun bene riesce invano, piccolo conforto è
pensare che noi operammo quanto stava in nostra potestà; e
nondimeno, da questa in fuori, altra consolazione non ci avanza.
Il Cardinale Cinzio, versato per tempissimo nelle faccende di
governo (chè tuttavia giovanetto accompagnò come
segretario lo zio Ippolito, allora Cardinale di San Pancrazio,
nella sua legazione di Polonia) andava famoso per la perizia delle
arti cortigianesche, onde non fa mestieri raccontare se
accogliesse il Moscati con esquisita urbanità: lo fece
sedere accosto a se, non senza essersi adoperato in prima con
preghiere, che sopra la sua medesima sedia si assidesse.
Poichè si furono entrambi adagiati, il Cardinale con
piacevole favella incominciò:
«Sono lieto, clarissimo signor Presidente, poterla
assicurare, Sua Santità avere avuto accettissime le savie
avvertenze di lei intorno al processo dei Cènci; e questo
essere stato segno manifesto non pure del suo ottimo cuore, quanto
del suo eccellente giudizio; onde se prima lo reputava assai,
adesso averle a mille doppii accresciuto l'affezione e la stima: -
però essere mente di Sua Santità considerare questo
negozio seduto, e con quella gravità di cui gli sembrava
meritevole: rifuggire il Beatissimo Padre dalle asprezze,
comecchè salutari, della gloriosa memoria di Papa Sisto, ma
detestare nel medesimo tempo la soverchia benignità
Gregoriana: con inestimabile amarezza egli vedere come le male
piante, a cagione della poca diligenza usata durante la guerra di
Ferrara, ripullulassero più spesse e maligne che mai in
grembo ai suoi stati: questo la sua religione non potere
comportare, e il debito che gli correva davanti a Dio. Tuttavolta
non potersi mettere in dubbio, senza offesa della somma
pietà del Beatissimo Padre, che i partiti a cui avesse
reputato nella sua suprema saviezza doversi appigliare, non
fossero consentanei alla giustizia». E qui di punto in
bianco data una giravolta, vie più benigno aggiungeva:
«Le paterne viscere del Sommo Pontefice sono state commosse
nel considerare il deperimento notabile di salute d'un servitore
zelante, e benemerito quale ella è, chiarissimo signor
Presidente; egli ha saputo con profonda amarezza avere la sventura
visitato casa sua, e desidera, per quanto a mano mortale è
concesso, alleviare il dolore di vostra signoria illustrissima.
Questo per bocca mia le significa: il Santo Padre rimane dello
zelo di lei, chiarissimo signor Presidente, edificato; ma
carità, ma giustizia non consentono accettare il più
che umano sagrifizio suo.
- Ah! vi sono affanni qua dentro (rispose il Moscati, a cui le
parole soavemente spietate del Cardinale fecero lo effetto di una
mano che prenda a fasciare la piaga per vederla, non già
per medicarla) che gli uomini non possono consolare; inasprire si.
Iddio solo lo potrà, e forse col rimedio unico a tutti i
mali - la morte.
- Ed io lo credo; però tanto più mi maraviglio come,
travagliato da tanto domestico lutto, le basti la mente per dare
opera alle incumbenze del suo officio, le quali, faticose e per
propria natura malinconiche, invece di sollevarla devono mantenere
nello animo suo lugubri considerazioni.
- È vero; ma io vi persevero perchè ho sempre
creduto, e credo, che tra soldato e magistrato non corra divario;
e debba questi per sommo onore morire al suo banco, come quegli
sul campo di battaglia: anzi gl'Imperatori romani, considerati i
travagli e la costanza dei primi, la Eminenza sua conosce meglio
di me come non dubitassero di preporli con amplissime lodi ai
secondi.
- Questa, che vuolsi estimare e commendare bontà egregia di
suddito, sarebbe ripresa come durezza nel Principe; il quale non
può patire che il magistrato fedele si logori nella fatica
finchè diventi pianta infracidita, buona solo a farne
fuoco: anche i Romani, che furono sì operosi, com'ella
dottissimo non ignora, quando giungevano a quella parte di vita,
da loro distinta col nome di senio, senza infamia potevano
ritirarsi dai pubblici negozi; verso sera ogni animale, che vive
in terra, cessa dalle opere.
- Ed anche a me, Eminentissimo, piacerebbe seguitare lo usato
tenore di tutte le creature; non già per riposarmi,
chè a riposare tempo ne avanza anche troppo nel sepolcro;
bensì per apparecchiarmi con la meditazione delle cose
divine a quel termine, per tutti noi quanti siamo comune, e da me
sopra gli altri mortali desiderato; ma nonostante gli esempii
pagani, ne temo biasimo. Bene altramente c'insegnò la
virtù del sagrifizio Gesù Redentore; onde io, che
per questa parte mi sento incolpevole, vorrei senza rimprovero
portare i miei capelli bianchi alla fossa.
- In primo luogo io la conforto, carissimo fratello in Cristo, a
porgere volonterose le orecchie alla chiamata che le viene
dall'alto; inoltre io l'assicuro, che invece di biasimo dai buoni
non può venirlene altro che lode, e dal Beatissimo Padre
amplissima approvazione; a nome del quale io le profferisco tutti
quei favori, che possa desiderare più acconci per condurre
a termine l'ottimo suo proponimento.
- Poichè, Eminentissimo, con tanta benignità le
piace consolare questo mio cuore trafitto, io le paleserò
sentirmi vocazione di rendermi a Dio in qualche Regola di
religiosi insigne per santità non meno, che per opere utili
ai miei fratelli di tribolazioni.
- E di queste regole siffatte, mio caro, abbonda sì la
santa Chiesa Cattolica, che non vi ha altro imbarazzo se non
quello di scegliere. Ella ha i monaci di San Giovanni di Dio,
consacrati alla cura dei poveri infermi; ha gli Agostiniani del
Riscatto; l'Ordine dei Predicatori, veri atleti di Cristo; i
Francescani, che, coi Domenicani, Papa Onorio (per rivelazione,
divina) conobbe sostenere la Chiesa periclitante; ma tutte queste
religioni, come quelle che appartengono alla Chiesa militante,
quantunque convenevoli allo zelo di vostra signoria illustrissima,
male si confanno agli studi suoi ed alla età. I reverendi
Padri Benedettini di Montecassino, consacrati alla vita
contemplativa, andarono per esercizio di cristiane virtù e
per dottrina famosi fra i più distinti ordini della
Cristianità; ed io le proporrei riparare fra loro, se per
mia convinzione non trovassi a preferire i Padri della Compagnia
di Gesù...
- I Gesuiti?
- Per lo appunto. Chi meglio di loro meritò della Chiesa?
Francesco e Domenico sostennero la Chiesa pericolante, i Gesuiti
la rilevarono pericolata. Chi sarebbe stato a pari di loro
gagliardo a durare le lotte della fede co' Luterani, Calvinisti,
Zuingliani, e l'altra peste maledetta di eretici, che Cristo
confonda? Al Papato e al Principato i Gesuiti sono più
necessari che i denti in bocca all'uomo; senza essi non si
mastica: ed io so quello che mi dico. Il Principato attese a
deprimere la Chiesa; e la Chiesa, legittimamente difendendosi,
crollò il Principato: dannose le mutue offese, e quelle dei
Principi, per di più, empie. Ora poi che assursero i Popoli
ad avvantaggiarsi delle diuturne discordie, e, rotto il freno,
minacciano il trono e l'altare, i Principi hanno fatto senno; e,
uniti in bel vincolo di amore, attendono a sanare le scambievoli
ferite: di entrambi adesso ne stringe pari la cura, però
che entrambi derivino da Dio, quantunque immediatamente la Chiesa,
mediatamente il Principato. I Gesuiti ottimamente compresero la
doppia missione, e la esercitano con la sapienza del serpente, e
la semplicità della colomba: non dubbii in loro, non
esitanza, non disonesto spirito di discussione. Obbedienza e fede
trionferanno del mondo, perchè deve capire, chiarissimo
signor Presidente, come colui, che si avvisa a sottoporre ad esame
i dogmi della Chiesa e i motuproprii dei Principi, se non è
diventato eretico e ribelle, già cammina per la strada di
esserlo.
- Eh! sì... i Gesuiti... non dico; in verità
meritano moltissimo: ma dei Girolamini, Eminenza, che ne parrebbe
a lei?
- Santa Vergine! Vorrebbe, signor Presidente, scegliersi per
avventura ritiro imperiale? Questa non mi parrebbe umiltà:
extra jocum, anche i Girolamini meritarono ottimamente della
Chiesa. Già come sono frati ella può andare a occhi
chiusi; se quelli paionle buoni, e questi proverà meglio;
è tutta messe del seme di Dio. S'ella si sente vocazione
per la regola di San Girolamo, dia retta alla chiamata di Dio.
- Il Signore la rimuneri di avermi illuminato: in breve, se la
Eminenza sua si degnerà concedermelo, depositerò
nelle mani riveritissime di lei il memoriale onde Sua
Santità mi dispensi dallo ufficio; e nel presentarglielo,
che farà la Eminenza sua, io la supplico di renderla
capace, con quelle parole che le parranno più acconce,
delle ragioni che mi muovono a questo passo, affinchè mi
sia continuata la grazia del Padre dei Fedeli.
- Non rimettere a domani quello che puoi far oggi, ci ammonisce
una sentenza antichissima. Davanti a lei, carissimo, ella ha
quanto bisogna per iscrivere; tregua agl'indugi: dei buoni ufficii
miei stia sicuro, della ottima mente del Santo Padre verso di lei
non dubiti punto.
Ulisse, stretto dall'ardente pressa, scrisse la supplica, e
scritta che l'ebbe la consegnò al Cardinale di San Giorgio;
il quale l'accolse con sottilissimo riso, che appena gli fece
tremolare i peli estremi dei baffi: forse era di compiacenza,
forse di scherno, e può darsi di ambedue. Ridottosi a casa,
meditando sopra lo accaduto, e riandando con mente quieta le
parole e i fatti, Ulisse si accorse come, prevalendosi del
turbamento dello animo suo, lo astuto prete lo avesse condotto se
non a sbagliare, almeno a mutare strada, e cavatogli di sotto
quanto ei desiderava. Però quegli che n'ebbe profitto
questa volta fu il vinto; avvegnadio il Moscati senza viltà
si ritraesse da un passo, donde indietreggiare senza pericolo, e
oltrepassare senza infamia non poteva. Di grazie, favori, pensioni
od altri simili vantaggi non fu fatto parola nel memoriale,
nè nel breve; e il Moscati non si curò ricordarli al
Cardinal Cinzio: egli schivo e superbo, avarissimi gli altri;
sicchè avevano detto, consigliandosi fra loro: nulla ha
chiesto, nulla pertanto egli vuole; e poi, un povero frate di che
cosa abbisogna? E poi, copia di beni possiede anche troppa, e fa
anni più di quaranta che tira paga dallo stato; e poi
aggiungete, che questa impresa di Ferrara ha propriamente
disastrato lo erario, e bisogna rinsanguarlo; inoltre assegnandoli
pensione parrebbe un guastare la umiltà e
spontaneità dell'atto; e chi sa ancora, ch'egli non siasi
taciuto su questo tasto per superbia? Chi più ne ha
più ne metta, chè tanto non arriverà a
indovinare tutti i poi, pei quali l'avarizia crede potersi
sdebitare dall'obbligo senza metter mano alle tasche. - D'altronde
è cosa nota che papi, principi, e cardinali eziandio, non
meno che l'altra gente di alto affare, ed illustri, che Dio manda
per sollievo della umanità, sono di buona memoria (quando
ce lo incidono) sopra le lapide soltanto; in ispecie poi Papa
Clemente, il quale pativa di chiragra e di podagra; e se ne
teneva, a quanto pare, avendo donato due gambe di argento massicce
alla Casa di Loreto, allorquando la visitò incamminandosi a
prendere possesso del Ducato di Ferrara, quasi perchè i
posteri non dimenticassero cotesta sua qualità().
Ulisse Moscati si ritrasse, come aveva divisato, nel chiostro;
però non prese mai gli ordini sacri, e godè per
alcuni anni quella pace stanca, che aspetta gli uomini, non
già tutti, bensì i meglio fortunati, dopo le contese
e le percosse di questa battaglia, che si chiama vita.
Il Cardinale di San Giorgio nella sera stessa presentò la
supplica al Papa, il quale postala sopra la tavola la compresse
col pugno chiuso; e poi, assentendo col capo e con uno stirare
delle labbra verso gli orecchi, che per lui voleva dire riso,
favellò breve al nipote della sua predilezione:
- Or, Cinzio, abbiate avvertenza all'altro.
Se nelle pianure dell'Affrica o dell'Asia, ed anche nei campi di
Sardegna, avvenga mai che muoia cavallo o montone, e sotto la
sferza ardente del sole incomincino appena a svilupparsi da
cotesto cadavere i primi effluvii della corruzione, ecco tu levi
la testa, e dal punto culminante dello emisfero passeggiando il
tuo sguardo fino all'estremo orizzonte ti comparisce tutto
dintorno limpido e puro: torni ad alzarla di nuovo, e tu vedi,
colà dove il cielo pare che tocchi la terra o le acque,
avanzarsi un nuvolo di punti neri, il quale ad un tratto
dilatandosi ti è sopra, e all'occhio attonito ti manifesta
una torma di avvoltoi, i quali, in virtù dello stupendo
odorato, vengono tratti all'oscuro convito. In questa guisa stessa
i perversi, senza paura d'ingannarsi, fiutano alla lontana i
perversi; si ravvisano subito, si stringono, e prestansi aiuto.
Soventi volte, e con inestimabile dolore, io ho notato la immensa
e forte fratellanza dei maligni. Non è mica giuramento di
setta che sospinge gli uni verso gli altri, nè disciplina
di collegio, nè istituto di consorteria, no; bensì
un arcano magnetismo animale, un soffio alitato sopra il capo di
costoro dalla bocca del demonio. Quando ti muovono guerra renditi
per vinto, dacchè tu non li potrai neanche combattere;
dispersi in polvere sottilissima ti si avventano agli occhi,
penetrano nei pori, s'insinuano nel sangue; invisibili, e
nondimeno potenti; impalpabili, eppure invincibili: essi ti
stritolano nelle mani un disegno come vetro; ti fermano lo strale
sopra la noce; si cacciano sotto la rota del carro trionfale, e lo
arrestano a mezzo cammino; accosti le labbra alla tazza, ed essi
si mescolano nel vino che prende sapore di fiele; accosti le
labbra a quelle della moglie, dei figli e del padre, ed eglino si
posano sopra coteste labbra sicchè ti sanno di terra;
insomma, anima e corpo ti seppelliscono sotto un cumulo di arena.
Per altra parte, e con altrettanto rammarico, ho avvertito la
indifferenza dei buoni fra loro; non già perchè
patiscano difetto di cuore, o rifuggano dal sovvenirsi cortese con
mutui offici; all'opposto, completi di virtù e di senno,
pensando bastare a se stessi, non credono doversi collegare a
difesa, molto meno ad offesa. Ercole potè raccogliere nella
pelle del lione tutta la gente dei pigmei perocchè essi
fossero almeno alti un cubito; ma oggi, ridotti in polvere,
sfuggirebbero al tatto di lui, che ne avrebbe irrimediabilmente
pieni gli occhi e la bocca. O sapienti, fate senno una volta; e
conoscete a prova, che se il diritto è l'elsa, la forza
è la lama della spada. Sì legge scritto come, nelle
Indie orientali, le turbe dei formicoloni assaltino lo elefante,
ed in breve ora lo riducano a tale, che di lui non si trovano
altro che le ossa politissime, e bianche: quello che nella India
costumano le formiche, in Europa fanno i nulli, i mediocri e i
perversi, a detrimento dei buoni e dei grandi. Certo il lione va
solo; ma nel deserto, dove non trova gesuiti, nè
commissioni governative, nè formicoloni dell'India,
nè corti regie, nè procuratori generali.
In questo modo il cardinale Cinzio Passero avendo a sbrancare
dalla trista mandra della magistratura una bestia malefica,
alzò le narici, e gli venne dalla lontana fiutato il
giudice Luciani. Chiamatolo a se gli usava le consuete carezze
feline, e poi gli diceva come il Santo Padre, suo gloriosissimo
zio, non rifinisse mai di favellarne con rispetto grande per la
sua molta dottrina, e più per la prontezza e salutare
severità con le quali egli spediva i negozii; egli sapere
per conto suo, che la santa memoria di Papa Sisto lo teneva in
ottimo concetto, e che lo aveva, prima di morire, raccomandato al
Pontefice suo zio come soggetto commendevole per ogni punto, e da
potersi adoperare a chiusi occhi in emergenze difficili: essere
stata intenzione del Pontefice suo zio promuoverlo, e riconoscerlo
dei molti meriti suoi, ma fino allora avergliene impedito il modo
le faccende dello stato, e le cure della guerra, e di questo
sentirne amarezza infinita. Intanto, per rimettere il tempo
perduto, come segno della sua fiducia volergli confidare la
procedura dei Cènci scandolosamente protratta, mentre, per
quanto correva universale la voce, tante, e patentissime
abbondavano le prove della reità degli accusati. Andasse,
rompesse gl'indugi, facesse cosa gradita al popolo romano, e al
Santo Padre accettissima: il nome di restauratore della giustizia
si meritasse...
Anche le civette impaniano, dice il proverbio; e il Cardinale,
infiammato dal desiderio di venire a capo del suo disegno, ci
aveva messo troppo più mazza che non ci bisognava. Le
pupille del Luciani oscillarono corruscando, come quelle delle
belve prima di spiccare il salto; e la parola prorompendo
impetuosa gli si rompeva fra i denti.
- Certo, balbutiva costui, certo, Eminentissimo, col signor
Moscati non ci era verso di trarre un ragnatelo dal buco: gli
avevano fitto in testa certi scrupoli... lo assalivano tali
uggie... tanti rispetti, che nemmeno io mi sapeva dove mi
trovassi. La s'immagini, Eminentissimo, io lo sperimentai
renitente perfino ad applicare Beatrice Cènci alla tortura
preparatoria monentibus indiciis, mentre (Dio mi guardi da formare
giudizii temerari) a me sembra che la prova abbondi per farla
impiccare (domando perdono del lapsus linguae, essendo ella
nobile) - per farla decapitare dieci volte.
- Guardate un po' voi! - esclamava maravigliando il Cardinale, ed
alzava ambe le mani.
- E quando dubitai che la potesse essere ammaliata, considerando
la perspicacia dello ingegno e la pronta favella, niente affatto
naturali in giovanetta ingenua, mi fece spallucce come se avessi
pronunziato qualche eresia. La Eminenza vostra sa troppo bene,
come il diavolo quasi sempre dia il dono delle lingue a coloro cui
entra in corpo.
Sua Eminenza all'opposto sapeva, pel secondo capitolo degli Atti
degli Apostoli, che il dono delle lingue si diparte dallo spirito;
e che quando, dopo la Pentecoste, gli Apostoli scesero per la via
favellanti in più lingue, le turbe non li giudicarono
già invasi dal demonio, bensì ebbri di vino dolce():
tuttavolta, non trovando il suo conto a contradire il giudice,
approvò stringendo le labbra, ed abbassando la testa.
- Riposino pure sopra di me, continuava il Luciani, come su due
guanciali; io sono avvezzo a far presto, e bene. Quando Papa Sisto
mi mandò a Bologna pel negozio del conte Peppoli, io ebbi
l'onore di darglielo spacciato nelle mani in meno d'una
settimana...
- Ah! il povero conte, che fu decapitato nell'ottantasei...
- Domando perdono, Eminentissimo è' fu nel
millecinquecentottantacinque, il venerdì dopo la pasqua del
Corpo di Cristo, nel primo anno del suo pontificato. Quel
benedetto conte ne aveva fatte delle bige e delle nere;
sicchè anche i suoi nodi un giorno vennero al pettine.
Caduto in potestà della giustizia, siccom'egli era di
ricchezze copioso, potente di parentadi, e abbondante di partiti,
non si trovava persona la quale si avvicinasse deporgli contra;
per le quali cose si correva pericolo di doverlo metter fuori per
mancanza di prove. La Santità di Papa Sisto apprendendo
queste novelle mi spedì incontanente per le poste fino a
Bologna, affinchè significassi alla recisa a
quegl'illustrissimi signori giudici, che se non condannavano alla
forca, e subito, il conte Giovanni, Sua Santità avrebbe
impiccato loro. Messi così nello strettoio, o d'impiccare o
d'essere impiccati, impiccarono; e fecero bene: non però
senza qualche scapito della reputazione della magistratura, per i
passati indugi; avvegnachè, che cosa sia la legge nei
governi bene ordinati? Niente altro che regola di condotta pei
sudditi. Ora, chi fa la legge? Il Principe; dunque la sua
volontà è legge; scriverla, e pubblicarla spetta
alla forma, non alla sostanza; e Papa Sisto, che sapeva governare,
volle che legge fosse la sua volontà non pure scritta, ma
eziandio manifestata con la voce e col cenno().
- Eh! Papa Sisto la intendeva pel suo verso.
- Le suppliche mandate al buon pontefice in pro del Conte
sommarono a cinquecento, e tante; egli ne graziò una sola,
e fu proprio del Conte stesso, il quale allegando i privilegi del
nobile lignaggio, domandava reverentemente essere decollato
piuttostochè impiccato. Sisto, con la consueta sua
benignità, oltre la grazia supplicata, aggiunse di suo, che
per maggiore onore gli concedeva di andare al patibolo con la
spada al fianco; come di fatto successe. Però, continuava
esitando il Luciani, io non capisco come la gloriosa memoria di
Papa Sisto si degnasse raccomandarmi in morte;
conciossiachè io gli venissi in uggia per modo, ch'io ci
ebbi a rimettere il collo; e la veda, Eminentissimo, proprio in me
non era colpa al mondo, e Dio sa se io lo servissi di cuore.
Basta, un papa veramente grande egli fu; ma quando cotesta sua
accesa natura montava su le furie, non ci era modo di poterlo
attutire.
Lo Eminentissimo, che aveva detto una bugia, non era uomo da
sgomentarsi per così poco; ond'è, che senza punto
turbarsi così rispose:
- Certamente: siccome Papa Sisto passato il primo bollore di
leggieri si ravvedeva, è da credersi che, riconosciuto lo
error suo, non avendolo potuto riparare in vita, si adoperasse di
farlo in morte. - E subito dopo, studioso di divertire
l'attenzione del Luciani, interrogò: «E come vi
avvenne, illustrissimo signor Presidente, di cadere in disgrazia
ad un tanto pontefice?
- Avete a sapere, Eminentissimo, come una idea fissa si fosse
impadronita della mente di Papa Sisto, infastidito di volgari
supplizii; ed era una smania sterminata di far morire sul palco
qualche principe. Tanto lo dominava questa fantasia, che talora,
facendosi leggere per diletto la relazione della prigionia e morte
della regina Maria Stuarda, sospirava dicendo: «O Signore! e
quando verrà quel giorno in cui capiterà una tale
occasione anche a me?» Ed altra volta, affacciatosi alla
finestra, si voltò alla plaga di ponente, dove si dice che
giaccia Inghilterra; e, sollevata la mano, quasi volesse parlare
con la regina Elisabetta, ad alta voce favellò: «O te
beata, regina, che sortisti dai cieli l'onore di poter far cadere
una testa coronata! Va, che tu sei un gran cervello di
donna». Ora mentre stava sopra questo appetito, la fortuna
gli parò dinanzi la occasione per poterlo satisfare. Il
signor Ranuccio Farnese, figliuolo del serenissimo duca di Parma
Alessandro Farnese, contravvenendo al divieto del papa, si
attentò portare armi per Roma; e non solo le portò
per Roma, ma con esse venne in Vaticano, e si presentò al
sommo pontefice. Papa Sisto, come colui che con le spie non soleva
fare a spilluzzico, avvisato minutamente del fatto mise il
bargello e gli sbirri in anticamera, dove il temerario giovane
venne preso, e poi portato dritto come un cero in Castello Santo
Angiolo. Chiara la legge, il delitto manifesto, e per di
più qualificato dallo spreto dell'autorità e del
luogo venerabile. Appena successo il caso si levò rumore
grande per Roma, ed all'universale sembrava agevolissimo ottenere
grazia al signor Ranuccio, considerando il credito che godeva
infinito presso la Corte il cardinale Farnese, la fama del duca
Alessandro tanto benemerito della fede cattolica, che Papa Sisto
per via di legato speciale gli mandò sino in Fiandra il
cappello, e lo stocco benedetti; l'autorità della casa
inclita a paro delle più illustri, il parentado co' meglio
potenti Principi della Cristianità, e finalmente la
leggerezza degli anni giovanili del signor Ranuccio; ma quelli che
conoscevano il papa da vicino tentennavano il capo, e dicevano:
«e' ci è l'osso!» E questi la indovinavano. Di
vero Sisto si mostrò, piuttostochè duro, incocciato
a farlo morire; ed a quelli che gli esponevano i meriti del duca
Alessandro Farnese, rispose: «nessuno meglio di lui averli
tenuti, e tenerli in pregio; ma le virtù del padre non
dovere, nè poter compensare gli errori del
figliuolo»: agli altri, ed erano i giureconsulti, che gli
obiettavano i principi ed i forensi non andare suggetti alle leggi
statutali, a differenza delle altre che nascono dallo jus comune,
opponeva cotesta ragione non correre, avvegnachè il
principe Ranuccio, come vassallo della Chiesa, non potesse
allegare ignoranza di statuto: per ultimo a coloro che adducevano
la novella età del contumace, rivoltava contro lo argomento
osservando, la poca età doversi apprendere come circostanza
aggravante; e chi sentiva altramente parergli scemo di senno:
dacchè se così tenero tanto egli ardiva, qual
termine estremo, quale ultimo confino non avrebbe passato adulto?
Insomma, egli era un gusto a sentirlo schermire; pareva un toro
quando caccia per aria i cani nello steccato. Il cardinale
Farnese, personaggio di quella gravità che la Eminenza
vostra conosce, prese come prudente il suo partito; e fatti i suoi
apparecchi con sagacia pari alla segretezza, calato il sole si
fece a visitare Sua Santità. Giunto al cospetto del papa
prese con ogni maniera di pietose supplicazioni a raumiliarlo,
esortandolo di tratto in tratto a non empire di tanto lutto la
casa Farnese, e contristare così l'anima del campione
invittissimo della fede, il duca Alessandro. Per la qual cosa Papa
Sisto, volendo torsi cotesto fastidio dattorno, presa una carta vi
scrisse sopra l'ordine al castellano di Santo Angiolo di
consegnare alle ore due precise di notte il prigione al cardinale
Farnese, e al tempo stesso scrisse un altro ordine al medesimo
castellano, che senza porre veruno indugio tra mezzo, nè
anche di un minuto secondo, mettesse a morte il signor Ranuccio.
Pare impossibile quale, e quanta fosse l'accuratezza dello
eminentissimo cardinale Farnese, il quale, nel presagio che la
cosa andasse come veramente successe, corruppe con danari
l'orologiaro del castello, e gli fece avanzare l'ora; ond'egli
presentatosi con tutta diligenza al castellano ne ottenne
facilmente il Principe, che tosto mise in carrozza, e con tanto
precipizio spinse fuori di Roma, che correndo, senza mai fermarsi,
le poste, si ridusse in salvo ai suoi stati di Lombardia in meno
di trenta ore. A me poi, senta qual trama tese cotesto benedetto
cardinale. Papa Sisto mi aveva confidato l'ordine secondo,
affinchè lo portassi, aprendomi l'animo suo; e, volendomi
esercitare ad usar diligenza, mi diè una spinta, quasi
intendesse balestrarmi di punto in bianco in castello. Ora mentre
io mi affretto, allo scendere del ponte, o per corda tesa traverso
o per altro argomento che vi adoperassero, i cavalli stramazzano
di sfascio; la carrozza si rovesciò su di un lato, ed io,
comecchè a fatica, pure senza offesa potei uscire dagli
sportelli. Rimanendomi poca più via, mi disponeva farla a
piedi; quando mi vennero attorno parecchi gentiluomini, i quali
commiserando il mio stato si mostravano timorosi che qualche guaio
mi avesse colto: io badava a ringraziarli, e a renderli capaci,
che per grazia di Dio era rimasto illeso; ma essi, niente; non
vollero rimanere convinti, e quasi a forza mi fecero salire nella
carrozza loro, profferendosi pronti di condurmi al luogo ch'io mi
fossi compiaciuto indicare. A questo patto, per non mostrarmi di
soverchio scortese, accettai, manifestando subito il desiderio di
esser condotto in Castello Santo Angiolo. «Subito; la
rimanga servita, disse uno di quei gentiluomini; e affacciatosi
allo sportello ordinò al cocchiere: «a Castello Santo
Angiolo». Appena egli ebbe profferite queste parole ecco i
cavalli s'inalberano, prendono a imbizzarrire, e quinci in breve a
scappare via rovinosamente: andammo di su e di giù,
percorremmo in tutti i lati la. città: a me pareva trovarmi
nella botte in cui i Cartaginesi misero Regolo; sudava acqua e
sangue pensando all'ira del papa. Finalmente i cavalli si
acquietarono, e i gentiluomini, forte rammaricandosi dello
accaduto, non senza molte cerimonie mi deposero alla porta del
castello: io gli ringraziai con la bocca, mentre li malediceva
largamente col cuore. Nello affrettarmi con celeri passi cavai
l'orologio di tasca, e vidi che mancava qualche minuto alla un'ora
e mezza di notte. Riprendo animo, e, rinforzato il correre, mi
trovo davanti al castellano, a cui metto senza potere far motto la
carta nelle mani: egli la prende, la legge, la volta sotto sopra,
e poi mi sbarra in viso due occhi stralunati come avesse dato
volta alle girelle. Gli domandai che cosa aveva, ed ei rispose,
che ore pensava che fossero: ma, ripresi io, l'un'ora e mezza di
notte circa. - Domani torneranno; per oggi contentatevi che sieno
le tre. - Le tre? - Le tre, e staranno lì lì per
suonare. - Io mi trassi l'orologio di tasca, che in quel punto
segnava le due meno cinque minuti, e glielo posi sotto gli occhi.
Nel medesimo istante all'orologio del castello batterono le tre. -
Le trame dello astuto cardinale apparivano manifeste; ci aveva
gabbato tutti, e me peggio degli altri. Quando al Santo Padre
venne riferito il successo, non s'incollerì punto, com'io
aveva immaginato, col cardinale Farnese; all'opposto, quando lo
vide, gli andò incontro congratulandosi dell'arguzia e
diligenza sue; me poi, allorchè mi condussi ai santi piedi
per iscolparmi, non volle ascoltare; ma squadratomi bieco, con
labbra tremanti di rabbia mi disse: «Toglimiti dinanzi in
tua malora, e ringrazia Cristo s'io non ti mando adesso adesso in
galera». Io non me lo feci ripetere due volte; ma lascio
considerare a vostra Eminenza s'io mi meritassi siffatto
rabbuffo().
- Consolatevi, via, signor Presidente: vedete, l'ora del
risarcimento non manca mai a cui la merita, e la sa aspettare...
Orsù, andate, ed attendete al negozio, ch'io in nome di Sua
Santità vi raccomando.
Il presidente Luciani inchinandosi fino al pavimento
rinnuovò la sua alleanza con la polvere, e prese commiato.
Nel condursi a casa non aveva membro che non gli sussultasse;
tremava, il codardo. nella gioia pregustata di tribolare a voglia
sua enti sensibili, creature di Dio. Se io affermassi che in
cotesto feroce e vile intelletto non capisse desiderio di
avvantaggiarsi con promozioni e pecunia, non sarebbe vero; ma
siffatta passione veniva di gran lunga seconda all'altra di
tormentare. Guardagli la faccia, e poi dimmi se sia uomo costui;
la testa ha quadra, depressa la fronte, le orecchie indietro, il
muso assai più largo nelle mandibole inferiori che negli
zigomi, le guance pendenti, la bocca senza labbra si perde per le
rughe, e non lascia indovinare dove abbia confine; i capelli irti,
e rasi; il colore è di grasso vieto tranne la parte pelosa,
che ha lite col verderame, e lo vince; gli occhi piccoli e tondi,
e gialli come l'orpimento: creazione sbagliata, distrazione della
natura; conciossiachè con una variante leggerissima nella
gola la voce non gli sarebbe uscita articolata in parola,
bensì abbaiata in latrato; ed allora invece di doventare
uno arnese pessimo di quella, che gli uomini sogliono chiamare
giustizia, sarebbe riuscito un ottimo cane da macellaro.
Ridottosi a casa, il presidente Luciani si mostrò fuori
dell'usitato giocondo: favellò piacevole alla moglie, che
di cuore diverso dal suo gli aveva dato il cielo; accarezzò
le figliuole, poi si mise a sedere, e volle cena; festeggiando,
come la gente del volgo costuma, col bere smodatamente la
domestica allegrezza. Diventato più sciolto, anzi impudente
di lingua per virtù del vino, esclamò:
- Orsù, via, figliuole mie; venite qua, che voglio darvi
una buona novella, ed è, che prima che finisca la settimana
intendo presentarvi di un magnifico dono.
- Magari! E che cosa ci dona, signor padre? - rispose la maggiore.
- Indovinate.
- Una faldiglia di seta?
- Meglio ancora.
- Un viaggio a Tivoli?
- Meglio, meglio. Io vi donerò quattro teste tagliate di
gentildonne, e gentiluomini romani; e tra queste una attaccata ad
un collo bianco, e rotondo come il tuo.
E sì dicendo, con gl'indici e i pollici delle mani le
cingeva il collo. La fanciulla si sottrasse con ribrezzo alla
stretta esclamando:
- Cotesti sono presenti pei carnefici: io non lo voglio.
E le altre sorelle, in coro:
- Tristo dono, tristo dono; noi non lo vogliamo.
- Donna, gridò il Luciani guardando con occhi arruffati la
moglie, la nostra schiatta madreggia; - e così dicendo si
levò in piedi, si trasse il berretto fino sul naso, e preso
un lume s'incamminò borbottando alla sua camera, dove si
chiuse per di dentro.
La mattina veniente, appena fatto giorno, fu visto il Luciani
nella carcere di Corte Savella accompagnato da due vecchie
femmine, o piuttosto furie, incamminarsi alla prigione di
Beatrice.
La mesta fanciulla giaceva assorta da moltitudine di pensieri, i
quali tutti mettevano capo ad affannose conchiusioni; ond'ella
infastidita, e sazia di giorni, non rifiniva di raccomandarsi a
Dio, che per pietà da questo martirio la chiamasse alla sua
pace. All'improvviso, aperta strepitosamente la imposta della
carcere, si presentano davanti alla dolente le sinistre sembianze
del Luciani e delle sue compagne.
Costui con parlare succinto ed acre le dichiarò, essere
venuti per visitarla se avesse fattucchierie addosso; però
di buona grazia si accomodasse allo esame. Egli intanto si ridusse
in un canto della stanza, e quinci, con la faccia rivolta al muro,
ordinò alle due Megere che compissero lo ufficio.
Beatrice avvampando d'ira e di vergogna si ravviluppa nelle
coltri, e, forte stringendolesi intorno al corpo, rifiuta
sottoporsi alla umiliante ricerca. Non si rimasero per questo le
due carnefici pinzochere, che, adoperandovi le mani loro adunche
ed ossute, le strapparono di forza coltri e lenzuola. Nudo quel
bell'angiolo di amore cadde in balìa di costoro.
- Dal capo vien la tigna, diceva il Luciani dal suo cantuccio;
però incominciamo a perquisirle la testa: separate in prima
i capelli per bene, guardate con diligenza la cotenna... voi,
signora Dorotea, forbitevi gli occhiali... ve lo ripeto per la
ventesima volta... voi le troverete una macchietta livida, o nera
un poco più grande di una lenticchia... come sarebbe a dire
un granchio secco... avete trovato?
- Non trovo altro, rispose Dorotea, che un visibilio di capelli
sufficienti per farne una parrucca a tutt'e due, e ne avanzerebbe.
- Basterebbero a tutt'e tre, osservò l'altra.
- Scendete giù... guardate il collo, il seno, le spalle...
- Nulla...
- Come nulla? Egli è impossibile.
- Ella è così. Sarebbe più facile che
passasse inosservato un bufalo sopra la neve, che un pelo vano
sopra queste carni di latte.
In questo modo fu ricercata Beatrice sottilissimamente per tutta
la persona, senza che potessero scuoprire il segno indicato.
- Veramente, prese allora a brontolare, sempre nel suo canto, il
Luciani, i maestri dell'arte insegnano come il demonio per
ordinario imprima la sua macchia sul seno, o sopra la coscia
sinistra; tuttavolta, non essendo astretto a veruna legge,
voltatela bocconi, e perlustrate con la solita diligenza la
schiena.
- Ecco... troviamo...
- Che cosa trovate, nè? - domandò il Luciani, mal si
potendo contenere nel cantone.
- Troviamo a mezza vita un neo, circondato di alquanta calugine
color dell'oro.
- Bene!... benissimo! Comecchè i maestri dell'arte
ammoniscano che la macchia deva apparire livida, o nera,
tuttavolta ricorre la osservazione, che il maligno essendo
spregiatore di ogni legge, non può essersi assoggettato a
regola fissa: in ispecie adesso, che, avendola a fare con me,
avrà capito che la va da galeotto a marinaro. Signora
Dorotea prendete lo specillo, e procurate prima tuffarlo
nell'acqua benedetta.
La beghina tratto fuori un lungo spillo di ferro lo immerse,
borbottando non so quali preghiere, dentro un vaso di acqua santa.
Il Luciani impaziente domandava:
- Insomma, avete fatto?
- Illustrissimo sì.
- Or via, da brava, cacciatelo giù adagio adagio dentro la
macchia infernale.
Beatrice piangeva di rabbia nel vedersi ridotta a tanta abiezione,
e forte dibattendosi cacciava lunge da se ora l'una, ora l'altra
delle spietate pinzochere; ma costoro le tornavano sopra
più gagliarde che mai. Adesso poi al sentirsi trafiggere le
vive carni proruppe in furore, interrogando con voce concitata che
insania fosse mai quella; ed aggiungeva lei essere cristiana
quanto, e meglio di loro; e si vergognassero con quelle
superstizioni turpissime tribolare una povera fanciulla, la quale
avrebbe potuto essere a loro figliuola.
- Santissima vergine, belava la Dorotea con voce caprettina,
menando tuttavia le mani audaci, noi non vi vogliamo mica male,
cara sorella; no davvero, ma lo facciamo per vostro bene; proprio
per la salute dell'anima vostra.
Intanto il presidente Luciani, senza mai volgere la testa, aveva
borbottato nel cantuccio uno di quei tanti oremus, che
incominciano In nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti, e
finiscono col per omnia saecula saeculorum, amen; col quale si
faceva intimazione e precetto allo Spirito delle tenebre di
sfrattare immediatamente, lasciandolo libero sgombro e vacuo, dal
corpo di Beatrice Cènci; e compito ch'ei l'ebbe,
così prese a favellare:
- Lodato sia Dio; adesso mi sento soddisfatto, e potrei dire
quasimente sicuro, conciossiachè o il diavolo ci fosse, o
non ci fosse: se ci era, in virtù dell'esorcismo a
quest'ora se ne torna più che di passo in cammino per lo
inferno; o non ci era, e ormai di entrarci non avrà
più balìa.
E richiamate le donne, senza pure volgere uno sguardo alla
derelitta, usciva con esso loro di prigione alternando insieme pii
e dotti ragionamenti intorno alla potenza del demonio, a cui,
secondo il suo avviso, la misericordia di Dio ne aveva lasciata
troppa; - che se avesse avuto l'onore di consigliare il Padre
Eterno lo avrebbe persuaso a impiccarlo addirittura ai corni della
luna, e lasciarvelo penzoloni perchè servisse di esempio ai
malfattori avvenire, così in cielo come in terra: poi, dato
a ciascheduna di loro uno scudo, le supplicava a pregare per lui
San Gaetano padre della divina provvidenza, ed impetrargli la
grazia di riuscire a bene nello importante negozio che aveva per
le mani, a sbigottimento degli empii, e alla maggiore esaltazione
di santa madre chiesa cattolica. Le pinzochere corrisposero al
desiderio incamminandosi difilato alla chiesa del Gesù, e
pregando fervorosamente Santo Gaetano onde si degnasse concedere
al dilettissimo fratello in Cristo presidente Luciani la grazia di
poter mandare legalmente al patibolo tutta la famiglia
Cènci, nessuno escluso, nè eccettuato.
E mentre il dabbene Luciani stava in aspettazione degli aiuti
divini, non tenne le mani alla cintura per mettere in opera i
terreni; dacchè appuntatosi con gli altri giudici di
trovarsi la mattina di poi per tempissimo alla carcere di Corte
Savella, vi si recarono di fatto; e quivi, senza porre tempo fra
mezzo, egli ordinò si conducesse loro davanti la fanciulla.
Al posto resultato vacante per la promozione dell'auditore Luciani
avevano preposto un certo coso, sciapito più del cetriolo;
nè buono nè cattivo come uomo; iniquo poi come
giudice, e veramente pessimo; imperciocchè, da quello di
ritirare la paga nelle debite ricorrenze in fuori, non si fosse
dato il travaglio di pensare a nulla, piegando sempre, a mo' che
fa l'elitropio al raggio del sole, la sua volontà nella
parte che gli veniva indicata da tutti i suoi superiori. Impasto
vergognoso di viltà, d'ignoranza e di accidia, comunissimo
fra gl'impiegati di ogni maniera, in ispecial modo poi fra coloro
che chiamansi sacerdoti della giustizia, senza dubbio in allusione
al costume dei sacerdoti pagani, di scannare e divorare le
vittime. In ciò costoro trovano il tornaconto; onde
siffatta pratica, nata dalla natura, essi rinforzano con l'arte:
dacchè in questa guisa primieramente non consumano olio a
studiare, con vantaggio così della economia come della
salute; in secondo luogo schifano la noia del contradire, e i
pericoli della opposizione; per ultimo, leggieri e galleggianti,
si trovano a poco a poco trasportati alla riva della buona
pensione con la croce, o senza. E il vulgo non li guarda in
cagnesco; anzi gli accarezza, e li vezzeggia col nome di buoni
figliuoli: quel vulgo, che non dìstingue tra bontà
che delibera, o vuole, bontà di pendolo, che oscilla quando
riceve la pinta, - e bontà di cappone perchè nacque
cappone, e l'hanno accapponato.
Ecco Beatrice davanti al presidente Luciani Atrocemente
barbaro fu lo spettacolo, che fece trovar acuto solletico
nel contemplare nei circhi fiere duellanti contro fiere, uomini
contro uomini, od uomini contro belve: però sovente pari
erano gli argomenti di difesa; e se talora impari, la disperazione
più di una volta domò la forza feroce, e fu veduto
il condannato spingere il braccio ignudo nella gola del lione, e
soffocarlo. Ma egli è troppo più laido, e schifo
spettacolo esporre una creatura stretta di ceppi alla rabbia,
quanto quella delle belve bestiale, ma più ingegnosa assai,
di un uomo che si chiama Giudice, il quale le si muove contro
armato di terrore, circondato di forze insuperabili, accompagnato
dai tormenti che neppure il demonio avrebbe saputo ricavare dalla
corda, dal ferro, e dal fuoco.
- Accusata! - incominciò il Luciani con certo suo piglio
plebeiamente acerbo, ch'ei per avventura immaginò rendere
solenne, - udiste altra volta le imputazioni che vi vengono
apposte; desiderate che vi sieno rilette?
- Non fa mestieri; le sono cose coteste, che udite una volta non
si dimenticano più...
- Specialmente poi quando le abbiamo commesse. Ora io vi
ammonisco, come pel deposto dei vostri medesimi complici voi siate
pienamente convinta della vostra empietà; cosicchè
la giustizia a rigore di termine potrebbe molto bene farne a meno.
- E allora, perchè con tanta insistenza me lo domandate
voi?
- Ve lo domando per la salute dell'anima vostra; perchè
come cristiana e cattolica, quantunque indegnamente lo siate,
dovreste sapere, che morendo senza confessione voi infallibilmente
andreste perduta.
- Come! la cura che voi, signore, dovreste porre alla salute
dell'anima vostra, può darvi agio di pensare anche alla
mia? Lasciate che ognuno provveda alla sua salvezza come meglio la
intende. Queste sono cose che passano tra il Signore e la sua
creatura, e non ci entrate voi. Voi, se siete convinto,
condannatemi, e basta.
- Accusata! Fate senno, e avvertite che i modi temerarii adoperati
da voi al cospetto dei vostri giudici ad altro non possono
condurre che a peggiorare la vostra condizione, già grave
abbastanza; e in quanto a me poi non possono partorire effetto
veruno perchè, oltre all'avervi esorcizzata nelle regole,
porto qui meco un rimedio sicurissimo contro le malìe e le
incantagioni, quando mai vi fosse rimasta facoltà di
adoperarle a mio danno. Ora, per la seconda volta ve lo domando;
volete, o non volete confessare?
- Quello che la santa verità mi faceva debito confessare,
ho confessato; la menzogna, che voi cercate, con lo aiuto di Dio,
nelle braccia del quale io mi rimetto, non sapranno strappare i
vostri tormenti, nè le vostre blandizie.
- Questo è ciò che staremo a vedere. Intanto io vo'
che sappiate, bene altri cervelli che non è il vostro aver
saputo mettere a partito, io. Notaro Ribaldella scrivete:
«Invocato il santissimo nome di Dio. Amen. Decretiamo ec.
prima di passare ad ulteriora la vigilia nei modi et termini
consueti per ore quaranta, la quale dovrà subire l'accusata
Beatrice Cènci in luogo di tortura ad quaestionem ec.,
incaricando di assistere alla predetta il notaro Jacomo Ribaldella
per le prime quattro ore; per le seconde quattro ore il notaro
Bertino Grifo; per le terze quattro ore il notaro Sandrello
Bambagino; e così, tornando da capo, succedersi di mano in
mano, finchè non sia decorso il termine assegnato, o non
sia intervenuta la confessione dell'accusata». Firmate...
Così, dopo aver firmato il foglio che gli porgeva il
notaro, ordinò il presidente Luciani, passandolo agli altri
giudici; e gli altri giudici, come pecore (e il paragone è
benigno) lo firmarono, quasi il Luciani pensasse, sentisse, e
deliberasse per tre. Benefizio ordinario dei tribunali collegiali,
di cui la trinità può rettamente definirsi: Due
persone che dormono, ed una terza che fa le carte!
La vigilia era uno sgabello alto da terra un braccio e mezzo, col
sedile acuminato a punta di diamante, e largo poco più di
un palmo; la spalliera pari. - La mia storia non si fermerà
a raccontare come quivi costringessero la derelitta a sedersi;
come le legassero le gambe, affinchè distendendole non
toccasse il pavimento ricavando refrigerio al suo martirio; come
con una corda, calata dal soffitto per via di carrucola, le mani
dietro i reni le avvincessero. La mia storia torcerà lo
sguardo spaventato dagli sbirri, che vegliavano accanto alla
misera vergine, i quali di tratto in tratto l'andavano urtando nei
fianchi, onde con inaudito spasimo sopra la cuspide del sedile
dondolasse, o nell'acuta spalliera percuotesse. La mia storia non
dirà come il carnefice mastro Alessandro, due volte almeno
per ora, avesse commissione di sollevarla con tratti di corda, e
lasciarla quindi cascare a piombo sopra il sedile angoscioso; ed
egli, come gli era stato ordinato adempiva; e che cosa poteva
fare? Troppi erano gli occhi che lo guardavano attorno; e poi, a
lui non era dato mostrare la sua tenerezza senonchè
mandando per linea retta il paziente alla morte, e removendo il
lussurioso, e il vano dei martirii: oltre ciò nè
poteva, nè forse voleva; pietoso era, ma boia. Intriso di
sangue il pane quotidiano che lo nudriva, e più infami,
più atroci, più scellerate cose, che le sue non
erano, e da persone a lui maggiorenti si commettevano tutto
dì allora, e tutto dì si commettono anche adesso per
un tozzo di pane, destinato a mantenere per brevi istanti una vita
di verme per un mondo di fango. - La storia mia tacerà le
scene turpi, i vituperii, le oscene allusioni: prodigate alla
santissima fanciulla da tutte coteste belve dalla faccia umana, e
sopra tutti dal notaro Ribaldella, che riverberava come specchio
l'anima del Luciani: - tacerà del frequente apparire che
fece, anche nelle ore più tarde della notte, il presidente
Luciani infellonito della divina costanza di Beatrice, e il
perpetuo digrignare fra i denti di costui «stringete
più forte, squassate più spesso»: -
tacerà le lacrime ardenti, il freddo sudore, gli spasimi
ineffabili, gli spessi svenimenti della fanciulla, e la
pietà crudele dei carnefici nel ritornarla con sali e
spiriti al sentimento delle angosce: no; quelle cose, che i
vicarii di Cristo sopportarono, e non solo sopportarono ma
consentirono e promossero, oggi la penna aborrisce di scrivere, e
lo inchiostro tracciandole diventerebbe rosso per la vergogna.
Dirà ella piuttosto del coraggio sopraumano e della
costanza della inclita donzella, la quale nonostante la
immensità del suo martirio rimase ferma nel proponimento di
morire in mezzo ai cruciati, anzichè contaminare la sua
fama con la confessione di un misfatto, ch'ella non aveva
commesso. Tolta quasi spirante dalla tortura lei portavano di
nuovo al carcere, e quivi adagiavanla sul letto.
Colà fu lasciata stare due giorni: la sua intelligenza, ora
luminosa, rischiarava il dolore percorso; e il tratto di gran
lunga più amaro, che le rimaneva a percorrere, ora le
s'intenebrava circondandola di trepidante incertezza: così
il fanale di una nave per notte tempestante apparisce a vicenda e
scomparisce sul dorso, o nel gorgo dei marosi, segno funesto di
prossimo naufragio a cui palpitando la contempla dalla riva: solo
irrequieto, durava in lei il senso dell'ambascia, il quale con le
sue traffitte rammentava a quel cuore sicuro non già di
cedere, bensì il proponimento di morire in silenzio.
Il terzo giorno gli sbirri tornarono per lei, che il Luciani
chiamava a nuovi strazii. Ormai rassegnata al suo destino, ella
non repugnò andare; solo li supplicava con voce soave
volessero di tanto aspettare, che si fosse vestita: e
poichè i manigoldi capirono che così ignuda,
com'ella era, dinanzi al tribunale non la potevano trarre,
risposero acconsentirebbero attendere; però fossero brevi
gl'indugi, dacchè i giudici stessero adunati, e non
conveniva ai colpevoli farsi aspettare. Intanto che Beatrice,
sovvenuta dalla figlia del carnefice, si vestiva, così
favellò:
- Senti, sorella mia; se mi chiamano, lo sai, e' lo fanno per
tormentarmi: ora io dubito forte di rimanere morta fra le torture,
come vidi accadere a quel povero Marzio; e come ho provato con lo
esperimento proprio, che potrebbe pur troppo succedere anche a me:
però io intendo non già ricompensarti della tua
carità, Virginia mia, bensì lasciarti un ricordo di
me sventurata. Tu ti prenderai tutti i miei pannilini e le vesti,
che ho qui meco in prigione... e tieni... prendi ancora questa
croce, che fu della signora Virginia mia madre; a patto... che se
io torno viva dal tormento, e possa in altro modo lasciarti
ricordo di me, tu me la renda; avvegnachè vorrei che fosse
sepolta meco. Di queste viole, ahimè! innaffiate di pianto,
e cresciute al raggio del sole che penetra obliquo e tristo per le
inferrate della finestra, tu, finchè durano, ne farai ogni
giorno un mazzetto, che offrirai alla immagine della Santa Vergine
che tengo a capo del letto... anzi... ascoltami... Virginia, - e
qui si fece per la faccia tutta vermiglia, e favellò
più basso, - tu devi sapere ch'io ho... oh! no... io ebbi
un amante grande, ben fatto a maraviglia, e buono; ed io l'amai...
ed egli mi amò, e tuttavia io credo che svisceratamente mi
ami;... ma in terra uniti noi non potremmo essere mai... e dubito
forte se un giorno anche in cielo... colpa non mia, ahimè!
- Tu prenderai cotesta immagine, e t'ingegnerai penetrare fino al
cardinale Maffeo Barberini, e gli dirai che gliela mando io onde
procuri che l'abbia il suo amico, e gli faccia nel punto stesso
saper com'io sovente abbia pregato davanti a lei per la salute
dell'anima sua: bada, tienlo bene a mente, per non avertelo a
scordare: ed aggiungerai...
- Oe, o che vi pensate andare al corteo? È un'ora che
aspettiamo... venitevene via come vi trovate.
Beatrice andò; nè Virginia le potè rispondere
una parola, tra per la pressa degli sbirri che le ne tolse il
campo, tra per la passione che le stringeva la gola:
l'accompagnò piangendo fino alla porta, e quivi, dopo
averla abbracciata e baciata, l'abbandonò. Beatrice volse
il capo sul limitare, e vide come la pietosa fosse corsa ad
inginocchiarsi davanti alla immagine della Madonna, appendendo
sotto di quella la crocellina di diamanti, che fu della Virginia
Cènci sua madre.
Il presidente Luciani, con ambe le braccia fino al gomito stese
sopra la tavola in attitudine del cane mastino quando si posa, in
questa maniera discorreva agli onorandi colleghi:
- Pare impossibile! S'io non l'avessi fatta ricercare sottilmente,
si può dire sotto i miei occhi, avvegnachè
honestatis causa io tenessi la faccia volta alla parete, non mi
potrei persuadere che la non fosse ciurmata.
- Però, - notava gravemente Valentino Turchi con ostentata
umiltà, che lasciava trapelare la sua prosunzione come da
imposta mal chiusa sbuca fuori di scancio il raggio del sole, -
però mi permetto avvertire, che non fu fatta tosare...
Il Luciani volgendo exabrupto la testa, qual mastino punto dal
tafano, all'auditore Valentino Turchi, con voce acerba gli
rispose:
- Io non la feci radere perchè Del Rio, Bodino, e gli altri
più schiariti scrittori di materia infernale non indicano
la parte pilosa, come quella sopra la quale il demonio eserciti
per ordinario la sua potenza.
- Per ordinario; e sta bene, soggiunse il Turchi, arduo anch'egli
a lasciare la presa; ma avendo meco considerato più volte,
da una parte come Dio la gran forza di Sansone nei capelli di lui
collocasse, e dall'altra come al diavolo piaccia sempre imitare, e
volgere a male quello che il Signore opera a fine di bene;
così dirimpetto all'autorità, d'altronde negativa
unicamente, degli scrittori allegati io ho ritenuto sempre, che i
capelli potessero bene e meglio essere scelti dal demonio come
sede delle sue perfidissime incantagioni: per ultimo utile per
inutile non vitiatur; ed in faccenda siffattamente grave il
tuziorismo, voi siete per insegnarmi, non è mai troppo.
- Il vostro dubbio, riprese il Luciani piegando vinto la testa, e
con tal suono, che mal celava lo interno dispetto, non è
per certo privo di fondamento, e...
Ma qui il notaro Ribaldella, il quale era come un'eco dell'anima
del suo patrono Luciani, sovvenendo prontissimo a lui pericolante,
scrisse sopra un pezzetto di carta una parola, ed umile in atto
glielo porse mentre stava per finire il discorso. Lo vide il
Luciani, ed i suoi occhi balenarono di ferocia e di superbia:
rilevò il capo, e prima lo volse al fido creato con tale un
garbo, che pareva volesse dargli un morso, e gli volea sorridere;
poi all'auditore Valentino Turchi, e continuò a dire:
- e meriterebbe plauso se non ci togliesse modo di sperimentare la
tortura capillorum, che presagiva applicare in questa mattina; e
voi siete troppo rotto nella pratica delle cose criminali per non
sapermi istruire, come questa prova partorisca quasi sempre ottimi
effetti.
Il notaro Ribaldella sopra il frammento di carta aveva segnato:
- E la tortura capillorum?
L'auditore Valentino Turchi declinò a posta sua il capo
confuso; il Luciani insistendo favellò:
- Anzi per me sono di avviso, che si abbia stamani a incominciare
dalla tortura capillorum; secondo poi quello che butta, noi ci
regoleremo. - Oh! sì, come dice il proverbio: come il
padron ci tratta, e noi lo serviremo.
- Allo apparire di Beatrice pallida, in aria soffrente, con gli
occhi smorti dentro un cerchio azzurro, il Luciani, sempre in atto
di mastino quando si posa, s'ingegnò, per quanto gli era
dato, comporre a mitezza il sembiante sinistro e la voce arrotata:
- Gentil donzella! quanto il mio cuore abbia patito nel dovervi
porre ai tormenti, Dio ve lo dica per me; chè con parole
convenevoli non potrei dimostrarvelo io. Anch'io sono padre di
fanciulle per età, se non per bellezza, uguali a voi; e nel
vedervi straziare, non senza sgomento ho interrogato me stesso:
Luciani, qual mente, quale animo sarebbero i tuoi, se tale aspro
governo facessero del sangue tuo? Dovere di magistrato, senso di
uomo, pietà di cristiano mi persuadono raccomandare voi
stessa a voi. Deh! vi calga della vostra giovanezza. A che monta
la pervicace caparbietà vostra? Io ve l'ho detto, e vel
ripeto adesso; abbondano in processo le prove per convincervi rea:
la confessione dei vostri medesimi complici vi condanna.
Meritatevi con ingenua confessione la grazia del beatissimo Padre.
Delle somme chiavi, di cui egli ha l'augusto ministero, troppo
più gli piacque adoperare quella che apre, dell'altra che
serra. Soprattutto a lui talenta la fama di benigno; e davvero,
qual è nel nome, così nei fatti vuol dimostrarsi
Clemente. Non mi sforzate, via, signora Beatrice, ad usare rigore;
considerate che i tormenti da voi, mio malgrado, patiti sono quasi
piaceri in paragone delle atroci torture (e qui lasciò
libero il corso alla voce arrotata) che la giustizia riserva
contro i contumaci ostinati.
- Perchè mi tentate? - rispose Beatrice pacatamente. Come
se non vi paresse abbastanza la facoltà di straziarmi il
corpo, perchè v'industriate ad avvilirmi l'anima? Queste
sono le parti del demonio, non quelle del giudice, o almeno una
volta non lo erano. Il mio corpo è vostro... la forza
feroce lo pone in balìa di voi... a posta vostra
straziatelo; - l'anima il mio Creatore mi diede ben mia, e questa,
anzichè lasciarsi sbigottire dalle vostre minacce, o
prendere dai vostri blandimenti, mi conforta a sostenere
più di quello che voi non possiate tormentare.
Le sopracciglia del Luciani si strinsero come tanaglia; e
percuotendo con ambo le mani aperte sopra la tavola, urlò
furiosamente:
- Ad torturam... ad torturam capillorum... Dov'è mastro
Alessandro? Egli dovrebbe trovarsi sempre presente al tribunale
quando presiedo io().
- Egli ha dato un salto fino a Baccano per faccende di mestiere,
con ordine superiore; ed ha lasciato detto che tornerebbe in
giornata.
- Al maggior uopo tutti mi lasciano solo. A voi dunque, Carlino,
che so che siete un giovanotto per bene; fatevi onore adesso.
Queste parole volgeva il Luciani allo aiutante del boia, il quale
replicava ingenuo, stropicciandosi le mani:
- Eh! c'ingegneremo...
La verità era che mastro Alessandro, colto il destro che il
caso gli aveva posto davanti, si era allontanato da Roma. Due
sgherri ora si avventano sopra la Beatrice, le disfanno le
bellissime chiome bionde, le scarmigliano, le ravviluppano, e
legano, e stringono intorno ad un mazzo di corde così
prestamente, come fuori di ogni immaginazione orribilmente; - poi
la sollevano da terra...
La beltà sformata stringe, a vedersi, più angosciosa
il cuore che la bruttezza medesima. Se mai tua ventura ti condusse
per le contrade di Grecia, tu passasti, senza pure avvertirli,
accanto ai ruderi di qualche fortilizio veneziano, o turco; ma il
tuo spirito si contristò contemplando il Partenone mutilato
dal tempo, dai Turchi, e da lord Elgin, lasciando il passeggiero
incerto se al delubro di Minerva abbia più nociuto o la
forza distruttiva del primo, o la barbarie dei secondi, o la dotta
rapina del terzo.
I capelli più sottili della misera martoriata schiantansi,
la pelle stirata distaccasi dalla fronte, ed anche sopra le
guance, tratta violentemente verso le orecchie, minaccia crepare:
le labbra semiaperte parevano ridere, gli occhi allungati a
mandorla per le tempie davano alla donzella la sembianza di fauna.
Doloroso a vedersi! troppo più a patirsi! Il Luciani,
sempre le mani appoggiate come le zampe il mastino in riposo,
andava di tratto in tratto abbaiando:
- Confessate la verità...
- Sono innocente.
- Datele uno squassetto... un altro... un altro ancora. -
Confessate la verità.
- Sono innocente.
- Ah! voi non volete confessare? Ebbene, a testa di leccio capo di
sorbo. - Aggiungete voi altri un po' di ligatura canubis.
Carlino, obbedendo in un batter d'occhio all'ordine ricevuto,
aiutato dai valletti attortiglia dentro una matassa di canapa il
pugno della mano destra di Beatrice, e torce forte come costuma la
curandaia allorchè strizza il panno bagnato per ispremerne
l'acqua. La mano e il braccio stridono slogandosi, i muscoli si
strappano, la epiderme si lacera con istravaso di sangue e
mostruosa tumefazione. Il presidente Luciani, senza batter
palpebra, ad ogni scontorcimento abbaia:
- Confessate il delitto!
- Oh Dio! Oh Dio!
- Confessate il vostro delitto, vi dico!
- Oh Dio del cielo... soccorri la tua creatura innocente!
- Stringete più forte, e squassate con gagliardia; -
così, risoluto... per bene; in un punto medesimo stretta, e
squasso...
- Ahi madre mia! Un sorso di acqua... mi sento morire... per
carità, una stilla di refrigerio...
- Che refrigerio, e non refrigerio? Confessate.
- Io...
- Giù, via... siete?...
- Sono innocente.
A questo punto il furore del Luciani non ebbe più modo:
cieco di rabbia, tremante per ira, co' denti della mascella
superiore si morse il labbro inferiore per guisa, che ci rimasero
sopra le orme impresse, alcune pagonazze, altre stillanti sangue.
- Stringi... stritola le ossa, urlava insatanassato il presidente
degli assassini, allora chiamati giudici, finchè non crepi
fuori della strozza la confessione del suo delitto.
- Ahimè! che dolori... che martirii sono questi! Sono
cristiana... sono battezzata. - O morte! morte!
- Confessate... con...
Un nodo spaventevole di tosse sorprese in questo punto il Luciani,
e parve dovesse restarne soffocato: anelavano convulsi la gola e
il petto; umore viscoso gli gocciava giù dalla bocca e
dalle narici; gli occhi venati di sangue gli scoppiavano fuori dai
cigli, e ciò nonostante singhiozza ringhioso:
- Con... confe... confessate... scellerata!
- Sono innocente.
- Qua... tosto le cordicelle... la tortura delle cordicelle...
Cotesta era una infame contesa: gli astanti erano sazii dello
spettacolo; i carnefici stessi spossati dalla fatica; Beatrice non
dava più segno di vita.
- Le cordicelle, vi dico... le cordicelle... - tra un nodo e
l'altro di tosse singhiozzava il Luciani.
I valletti del boia sbigottiti stavano inerti, e l'ira strozzava
il Luciani, che ormai balbutiva suoni indistinti. Costoro infatti
non potevano immaginare che il presidente avesse il cervello a
segno; imperciocchè il tormento delle cordicelle
consistesse in infinite cordicelle sottili e taglienti, con le
quali si avviluppava e stringeva il martoriato per modo, che
recisi i nervi, le vene e le carni, il corpo di lui diventasse
tutta una piaga; e compariva manifesto che non potesse applicarsi
in cotesto stato alla paziente, senza volerla finire.
Sopra il limitare della porta, dirimpetto al banco dei giudici,
ecco si presenta la faccia livida di mastro Alessandro; si
soffermò alquanto, volse uno sguardo tenue sopra cotesta
scena, e sembra, tuttochè boia, che qualche cosa sentisse,
avvegnadio nel volersi abbottonare la sopravvesta vermiglia la
mano gli saltasse da un occhiello all'altro senza poterne venire a
capo: da cotesto indizio in fuori non si palesò altro in
lui che desse ad argomentare commozione, e fu visto accostarsi
impassibile alla paziente, guardarla fissa, e toccarle i polsi;
ciò fatto, con quel suo cipiglio, che metteva il ribrezzo
addosso agli stessi giudici, nonchè ai condannati, rivolto
al Luciani favellò in questa sentenza:
- Illustrissimo, spieghiamoci chiaro; volete voi che la paziente
confessi, o che muoia?
- Morire, adesso? - Dio ne liberi! Bisogna che confessi...
- E allora per oggi, non può sostenere altri tormenti.
Così a quei tempi il carnefice insegnava umanità, e
convenienza ai giudici: ai tempi nostri non le insegna loro
nessuno; - lo sanno da se.
- Mastro Alessandro, proruppe il Luciani indispettito, dell'arte
vostra io credo intendermene quanto voi, e...
Il notaro Ribaldella, che si agguantava alla fortuna del Luciani
come all'ancora della speranza, presagendo imminente qualche grave
scandalo, con quella sua fisonomia da tantummergo, troncò
le parole dicendo:
- Illustrissimo signor Presidente, voi che siete così
solenne maestro di proverbii, rammentate avermi ammonito
più volte, che chi troppo l'assottiglia la scavezza: se la
bontà di vostra signoria illustrissima si degnasse
concedermelo, direi, sempre però remissivamente ai lumi
superiori di vossignoria illu...
- Orsù, parlate, con mal piglio gli rispose il Luciani.
Allora il Ribaldella si levò agile e presto dal suo scanno,
e accostatosi all'orecchio del Luciani vi sussurrò sommesso
un suo concetto. Egli aveva ad essere infernale davvero;
conciosiachè il Luciani, che gli aveva porto ascolto con
torbida faccia, la rasserenò ad un tratto, e quasi
sorridendo gli disse:
- Jacomuzzo andate là, chè voi farete passata. -
Indi rivolto al carnefice: - Sospendete pure i tormenti, mastro
Alessandro, - proseguì a dire, - anzi confortate la
paziente, e ingegnatevi a farla riavere. - Voi altri,
prestantissimi signori colleghi, compiacetevi aspettarmi seduti
nei vostri seggi per breve ora di tempo.
Ciò detto sparì.
Quinci a poco più di venti minuti, nel corridore dond'erasi
allontanato il Luciani fu udito strepito di catene, e subito dopo
dalle aperte imposte comparvero Giacomo, Bernardino Cènci e
Lucrezia Petroni, attriti come gente che abbia fuori di misura
sofferto, e non siasi per anco rimessa dalle angosce durate. Il
Luciani li seguitava come il mandriano caccia dinanzi a se il
bestiame, che spinge al macello.
Dopo la notte dello arresto Giacomo e Bernardino Cènci non
si erano più veduti fra loro, e la Lucrezia Petroni
nemmeno. All'improvviso sentirono aprire l'uscio del carcere, e si
trovarono, senza sapere nè che nè come, l'uno
frombolato nelle braccia dell'altro.
Ognuno pensi come per tutti cotesti malearrivati fosse
pietosissima cosa, e piena a un punto di sollievo e di affanno,
incontrarsi, e piangere, e baciarsi insieme, comecchè le
braccia incatenate ogni altra dimostrazione di affetto non
concedessero.
Posciachè la piena della passione si fu sfogata quattro
volte e sei, al Luciani, il quale per contenere la inquieta
impazienza si rodeva le ugna, parve bene richiamarli, ed ammonirli
di quella, ch'ei chiamava invincibile caparbietà della
Beatrice. Cotesta sua riprovevolissima pertinacia, egli
aggiungeva, formare ostacolo alla chiusura del processo, e per
conseguenza trattenere la grazia pontificia, pronta a sgorgare,
dopo cotesto atto di umiltà, come le acque scaturirono
sotto la verga del santo patriarca Moisè: in quanto a lui
sentirsi profondamente travagliato per le torture alle quali,
così imponendo i penosi uffici del suo ministero, aveva
dovuto sottoporre la Beatrice; ormai non gli reggere più
l'animo di proseguire; venissero eglino in suo aiuto per vincere
cotesta mente ostinata; di ciò supplicarli da verace amico,
e da cristiano; qui il giudice non entrare per nulla: di questo
andassero persuasi, non poter eglino desiderare patrono od
avvocato che più fervorosamente di lui zelasse la causa
loro presso Sua Santità.
Egli è così lieve ingannare chi si assicura! Riesce
tanto gradito prestar fede a quello che si desidera! Così
hanno i miseri sete di conforto, che i fratelli Cènci e la
Lucrezia Petroni si abbandonarono affatto in balìa del
Luciani; il quale, diventato mansueto, promise loro di non farli
separare più mai. Vinti e ingannati, adesso se li spingeva
davanti a se; e gli si leggeva manifesta nel volto la superbia del
trionfo.
Le vittorie della forza sono elleno forse più, o meno
gloriose di quelle della frode? Lo ignoro: io so unicamente, che
forza e frode nacquero gemelle nel ventre della ingiustizia.
Quando i due Cènci e la Petroni videro l'osceno strazio del
corpo divino di Beatrice, e lei in sembianza di morta, proruppero
in pianto irrefrenato, e le s'inginocchiarono dintorno baciandole
i lembi delle vesti... non osavano toccarle le mani lacerate, per
tema d'inasprirle i suoi dolori. In verità di Dio stringeva
il cuore contemplare quei derelitti, con le mani legate di catene,
starsene genuflessi intorno alla donzella svenuta tutti in se
raccolti, come se l'adorassero. - Così per lunga ora
rimasero: quando Beatrice rinvenne, e prima assai di riaprire gli
occhi alla luce, la percosse un rammarichìo doloroso, onde
tenne per certo di trovarsi colà dove si purga lo spirito
umano, e diventa degno di salire al cielo; la quale opinione tanto
più le venne confermata quando, riacquistato il senso della
vista, si vide circondata dalle care sì, ma squallide
sembianze dei suoi diletti. Del quale successo quasi contenta,
esclamò:
- Finalmente, la Dio grazia, sono morta!
E richiuse gli occhi; ma gli spasimi, che cocentissimi la
travagliavano, l'avvertirono pur troppo com'ella fosse sempre in
vita. Riaperse pertanto le palpebre, e continuò:
- Ahi! diletti miei, come mai vi riveggo?...
- E noi come rivediamo te, Beatrice? Ahimè! ahimè!
Decorso alquanto tempo don Giacomo si levò in piedi, e lo
strepito delle catene intorno al suo corpo servì di esordio
lugubre al seguente discorso, ch'egli indirizzò alla
sorella:
- Sorella io ti scongiuro, per la croce di nostro Signore
Gesù Cristo, a non lasciarti fare così acerbo
governo del corpo tuo. Confessa quello che pretendono sia
confessato da noi, come noi abbiamo fatto. Che vuoi tu? Per
uscirne men peggio io non ci vedo altra strada; e, dove non
conducesse ad altro, questa pretesa confessione ci salverà
da martirii che non hanno fine, e con un colpo solo ci
troncherà i tormenti e la vita. La ira di Dio passeggia
sopra le nostre teste: ora, pretenderemo noi contrastare a quella
forza terribile che svelle le montagne dai loro fondamenti di
granito, e le travolge come fa il turbine i granelli di arena? Io
mi piego alla sferza con la quale Dio mi flagella, dinanzi a cui
io mi atterro; e poichè contendere non giova, io m'ingegno
mitigare la rigidezza del destino con le supplicazioni, la
umiltà, e le lacrime.
Bernardino, fra i singhiozzi levando supplici le fanciullesche
mani, anch'ei raccomandava:
- Confessa per amor mio, Beatrice; di quello che questi signori
vogliono, chè poi il signor Presidente mi ha promesso farmi
sciogliere, e mandarci tutti per le vendemmie a casa.
Donna Lucrezia rassegnata, a sua posta:
- Confidate, figliuola mia, le diceva, nella Madonna santissima
dei dolori: ella sola è la consolatrice degli afflitti: e,
a fin di conto, chi di noi può vantarsi incolpevole? Tutti
siamo peccatori...
Beatrice a mano a mano che la supplicavano volgeva intorno gli
sguardi minacciosi. Per sorte i suoi occhi vennero ad incontrarsi
con quelli del Luciani, i quali divampavano maligna esultanza:
ormai sicuro dell'esito del suo nuovo trovato, egli covava la
nidiata dei traditi. Ira, ribrezzo, e soprattutto senso di schifo
infinito agitarono l'anima di Beatrice, che per poco non proruppe:
pur si contenne; non tanto però, che queste diverse
passioni non le si vedessero passare per la fronte, a modo di
nuvole traverso il disco della luna. Rimessasi alquanto, con voce
fioca, che poi a mano a mano le crebbe, risoluta e gagliarda prese
ad ammonire i suoi congiunti in questa sentenza:
- Che voi non abbiate potuto resistere alla prova dei tormenti, e
piegato ai primi assalti del dolore, e fatto gettito della vostra
bella fama, come il soldato che abbandona l'arme nel giorno della
battaglia, io intesi con infinita amarezza dell'anima mia, ma mi
astengo di rimproverarvelo: solo mi sia concesso di volgermi
severamente a voi, e domandarvi perchè mi vogliate a parte
della vostra ignominia? Due avevano ad essere le Regine dei
dolori; una in cielo, l'altra in terra; ed io sono la terrena. Non
m'invidiate, vi supplico, la mia corona di martirio, dacchè
io la porti più gloriosamente che se fosse di gemme. Udite!
Uomini santi ci hanno ammaestrato come noi non possiamo volgere le
mani micidiali contro il nostro corpo, ch'è fattura di Dio,
senza fare violenza alla volontà suprema: ora, quanto a noi
ha da parere maggiore peccato distruggere con lingua dolosa la
propria fama, ch'è la vita dell'anima? E notate, che la
vita sembra più cosa nostra, e però maggiormente
facultati a disfarcene, che non della fama; imperciocchè
questa dobbiamo tramandare ai nostri posteri, e per noi hassi ad
aborrire ch'eglino del proprio nome si vergognino, o vadano
soggetti a sentirsi dire: «il vostro casato rammenta un
parricidio». Dunque Roma pagana vide una femmina di partito
durare costantissima inaudite torture, e tagliatasi co' denti la
lingua gittarla in faccia ai carnefici suoi, piuttostochè
scuoprire la congiura alla quale ella aveva partecipato pur
troppo(); ed io, vergine ingenua e cristiana, non saprò
sopportare i tormenti in testimonio della mia innocenza?
Sciagurati! E che cosa pensate con la vostra viltà
conseguire? Forse di conservare la vita? E non vi accorgete, che
la si vuole spenta non già come fine, bensì come via
che conduca a intento oggimai stabilito; nè a questo pare
che basti la nostra morte, la quale oggimai ci avrebbero dato, ma
si richieda eziandio la nostra infamia? Ora, avete voi pensato
qual possa essere questo intento? Chi può lanciare lo
sguardo nello abisso d'iniquità della Corte Romana, e
distinguere tutti i disegni tenebrosi che si ravvolgono là
dentro? Nella passata agonia una larva traversò la caligine
della mia mente, e migliaia di voci le urlavano dietro: avarizia!
avarizia! La lupa sacerdotale già assaggiava la sostanza
dei Cènci; e trovatala buona, l'è cresciuta la fame,
col pasto. Molti sono i lupi dal muso affilato venutici da
Firenze, che mostrando le costole ignude, e battendo denti a
denti, gridano preda. E il papa gliela darà... I vostri
delitti sono i vostri averi. Voi perderete tutto; la buona
rinomanza, che nessuno al mondo poteva torvi, avete da per voi
stessi gittato via; la vita e la roba, cose caduche ed in
potestà altrui, vi torranno quando loro torni in acconcio.
Io, che tronchino i giorni miei, e con la vita mi rapiscano gli
averi, non contrasto; e volendolo ancora, io non potrei; ma sta
nel mio pugno la fama, e questa non perverranno a rapirmi. Mentre
tutto ciò che è della terra mi abbandona, ecco che
più mi si stringono allo spirito due angioli; quello che ha
in custodia la innocenza, e l'altro che premia la costanza; e
grande, miei diletti, sento il potere loro sopra di me, avvegnadio
non solo mi sostengano in mezzo all'atrocità dei miei
tormenti, ma mi promettano appena saranno compiti (il che
avverrà presto) di levarmi genuflessa sopra le santissime
loro ale verso il mio Creatore. Addio terra, limo stemperato di
pianto e di sangue; addio turbine di atomi maligni, che vi dite
uomini; addio tempo, sfregio brevissimo sopra la faccia della
Eternità: un raggio delle gioie celesti mi piove sopra la
persona, e toglie via ogni pena... come mi sento felice! come sono
contenta! quanto è soave morire!...
E declinato il capo sopra la sinistra spalla, cadde di nuovo in
deliquio.
Il sole, fino a quel momento coperto dalla nuvole, trasparì
in cotesto luogo oscuro da una finestra alta, e recinse con un
raggio languido di autunno il seno e la faccia di Beatrice. I
capelli di oro sparsi per le spalle della vergine, e rimasti irti,
ed attorti sopra la fronte di lei riflettendo quel raggio, la
fasciarono intorno con la corona luminosa, colla quale, costumiamo
effigiare la immagine della Madre di Cristo. Mirabile caso, che
dimostrò come la Provvidenza incominciasse a ricovrare la
travagliata sotto il manto della sua misericordia;
imperciocchè nei capelli, adoperati in quel giorno per
arnese dell'osceno martirio. incominciasse ad apparire un segno
manifesto della prossima sua divinità.
Nessuno osava alitare. Il Luciani era sbigottito, avendo sorpreso
l'anima sua in atto d'intenerirsi: l'abborrita pietà aveva
per un momento cagionato in lui lo effetto, che i Gentili
attribuivano al teschio di Medusa. Il Ribaldella, con la faccia
appoggiata sul banco, osservava costretto una specie di tregua di
Dio co' suoi perfidi pensieri; e il notaro Grifo, per non parere,
temperava macchinalmente le penne, ma non vedeva lo spacco,
però che una lacrima gli dondolasse in su e in giù
per la curva del ciglio diritto: povera lacrima! stava in cotesto
luogo come uno esiliato in Siberia.
Beatrice con un sospiro tornò agli uffici della vita, e i
suoi congiunti genuflessi innanzi a lei, presi da ammirazione, da
pietà | e da vergogna, esclamarono fra i singulti:
- Beatrice... angiolo santo... deh! tu ci addita il sentiero che
noi dobbiamo tenere per imitarti.
Beatrice si sollevò alcun poco, e, raccogliendo quanto
potè di spiriti vitali, con voce forte favellò:
- Sappiate morire!
- E noi morremo - gridò don Giacomo levandosi in piedi, e
scuotendo su la faccia ai giudici le catene ond'era avvinto - noi
siamo innocenti; noi nè uccidemmo, nè facemmo
uccidere il padre nostro: noi confessammo per forza di tormenti,
ed in virtù delle insidie tese alla nostra inesperienza.
E Giacomo Cènci poteva anch'egli chiamarsi immune della
strage paterna, imperciocchè il padre non fosse rimasto
ucciso nel ratto di Tagliacozzo: però la sua coscienza non
era pura davanti agli uomini, molto meno davanti a Dio. Ed invero
se il disegno, o, come dicono i curiali, il conato più o
meno prossimo alla esecuzione meritamente presso i primi si
distingue dal delitto consumato, appo Dio il pensiero criminoso
scoccato appena torna indietro di ripicchio a uccidere l'anima,
che non lo seppe trattenere.
Beatrice, quasi trasmutata in faccia per la interna compiacenza,
con suono di voce dolce quanto la benedizione di una madre
concluse:
- Il martirio sopra la terra si chiama gloria nei cieli:
perseverate, e morite come i fedeli di Cristo morivano.
Il Luciani aveva agevolmente cacciato da se lo insolito solletico
di umanità come una tentazione del demonio: anzi vedendo
che nel nuovo esperimento, invece di aver fatto profitto, com'egli
divisava, era venuto a scapitare non poco, riarse nella sua bile,
che proruppe come acqua bollente fuori del vaso, fragorosa e
spumante.
- Con voi rifaremo i conti fra breve, e staremo a vedere se, come
a parole, vi manterrete prodi co' fatti. Intanto voi, mastro
Alessandro, fate di applicare alla esaminata la tortura del
taxillo.
- Ho io bene inteso, illustrissimo signor Presidente? Avete voi
detto il taxillo?
- Il taxillo; per lo appunto il taxillo: ecci ella qualche
nuovità in proposito?
- Nulla, rispose mastro Alessandro stringendosi nelle spalle: solo
dubitava non avere bene inteso.
E andò pel taxillo.
Era il taxillo una specie di bietta di pino tagliata a modo di
cuneo, larga su la base, acuta in cima, e intrisa di trementina e
di pece. Il diavolo trasformato in frate domenicano inventò
nella Spagna cosifatto tomento. Spagna! Infelice paese dove la
superstizione arò così profondo, che, anche in
questo moto maraviglioso dei popoli verso il meglio, gl'Iberi
paiono condannati a rappresentare per lungo tempo nel mondo la
parte di centauro, mezzo uomo e mezzo bestia. Dove sono i figli
dei prodi cavalieri, sempre pronti a ferire torneamenti e a
correre giostre in onore delle dame? Dove i discendenti degli
avventurosi baroni, capaci di sostenere mirabili imprese per uno
sguardo della bellezza? Dove i baccellieri di armi, che co' loro
gesti famosi somministrarono gentile argomento ai versi di
romanzo? Tacciono le armi e gli armori; gli Arabi scomparvero
sotto le rovine dello Alambra; a questi splendidi cavalieri
subentrarono gl'incappucciati fratelli del Santo Uffizio, nobil
gente avvilita, la quale non trovò mezzo altro più
acconcio per ripararsi dai tormenti, che farsi anch'ella
tormentatrice. - Mirate, di grazia, dove l'hanno() condotta i
frati: nuda fino alla cintura, coperta dello scapulare la faccia,
con fruste armate di triboli, stupida e insana si flagella sotto
le gelosie delle donne amate, nè si rimane finchè
dalle aperte vene non le sia sgorgata larga pozza di sangue, e di
sangue non abbia resa nera la sferza, che poi manderà loro
in dono come pegno di costanza, che nè per tempo
verrà mai meno, nè per morte. Così,
mercè il governo fratesco, avvinsero insieme le Grazie e le
Furie, nodo mostruoso da disgradarne quello dell'antico
Mezenzio(). Lo stesso piacere cospersero di fiele, e, contrariando
Dio e la natura, lo mutarono in tormento. Tanto possono i frati
imbestiare gli uomini!
I fratelli Cènci e la Lucrezia Petroni come smemorati
consideravano quanto sotto i loro occhi avveniva, (mastro
Alessandro recatasi in mano la zeppa, scalzò il piede
sinistro di Beatrice. Breve, asciutto e rotondo, egli pareva opera
di greco scalpello condotta in alabastro rosato) e vedono...
figgere la parte aguzza della bietta tra la carne e l'unghia del
pollice: bene a quella vista sentivano raccapriccio, ma qual nuovo
modo di tormentare fosse cotesto non bene comprendevano. In breve
saranno chiariti. Mastro Alessandro trasse fuori una candeletta, e
andò ad accenderla alla lampada, che ardeva davanti la
immagine santa del Redentore; poi l'accostò alla scheggia,
che subito crepitando prese fuoco. La fiamma si accosta
rapidissima alle dita, e qualche lingua si avventa precorrendo
come famelica di carne e di sangue.
Atrocissimi dolori erano quelli, che da cotesto tormento
derivavano; la natura umana non li poteva sopportare, molto
più se consideriamo lo strazio fatto della misera
fanciulla: e nondimeno Beatrice, temendo da un lato sconfortare i
suoi, e dall'altro desiderando porgere loro lo esempio del come si
abbia a soffrire, domava lo spasimo, e taceva. Taceva, sì;
e insinuata la carne delle guance fra i denti stringeva forte fino
ad empirsi la bocca di sangue, per divertire un'ambascia con
l'altra; ma non era potestà in lei d'impedire il brivido
intenso che le increspava la pelle di tutto il corpo, nè lo
stralunamento delle pupille smarrite, nè il mugolìo
convulso, che travaglia la creatura nella suprema ora del
transito: - nè fu in lei, misera! trattenere uno strido
disperatamente acuto, nel quale parve le si troncasse la vita, e
declinare la testa giù come morta.
Anche il coniglio, ridotto alla disperazione, dimentica la
naturale timidità, e morde. Don Giacomo non dubita
accostarsi con la faccia al tassillo imfiammato, ed azzannatolo
tenta staccarlo; ma da una scottatura in fuori non ne trasse altro
vantaggio. Allora tutti, non esclusa la mansuetissima donna
Lucrezia, spinti da moto spontaneo si avventarono contro il
Luciani, mostrando volerlo stracciare co' denti: ululavano come
bestie feroci, nè il sembiante loro pareva più
umano. Quantunque cotesta fosse ira impotente, però che
tenessero le mani incatenate, e per accostarsi ai giudici
gl'impedisse il cancello, pure il Luciani n'ebbe spavento, e,
balzato in piedi, si fece schermo con la spalliera della seggiola;
dietro la quale, come da un baluardo, latrava:
- Badate ch'ei non si sciolgano! Teneteli! Sono dei Cènci,
e sbranano.
Mastro Alessandro, giovandosi della confusione, aveva fatto cadere
il tassillo dal piede della Beatrice.
I Cènci furono di leggieri trattenuti. Il Luciani
sentendosi agitato, e considerando i colleghi suoi e gli altri
assistenti, comecchè per causa diversa, più
atterriti di lui, riputò conveniente sospendere per allora
cotesti strazii, che in quei tempi avevano nome di esami.
- Riportateli, ritto sopra il limitare della porta abbaiava il
Luciani, riportateli in carcere uno diviso dall'altro. Ministrate
loro il vitto di penitenza... bevano il supplizio... mangino la
disperazione.
Beatrice priva di sentimento fu riportata sopra una sedia in
prigione, e quivi affidata alle cure del medico; il quale fra un
sospiro e l'altro osservava, come la detenuta non potesse essere
esposta con efficacia al tormento se non prima decorsa una
settimana intera; ed avrebbe, egli aggiungeva, in caso di bisogno
avuto anche il coraggio di sostenerlo a voce, e in iscritto,
perchè innanzi tutto doveva aversi riguardo alla
umanità!...
Non vi par egli, che fosse caritatevole davvero questo dabbene
dottore fisico?
CAPITOLO XXIV
IL SAGRIFIZIO.
Non sentite che stridìo
Fa quel gufo colassù?
È là un'aquila che sgraffia!
Quanti corvi intorno a lei!
Quanti corvi a molestarla!
Presto, indietro, figli miei.
. . . . . . . . . .
Van gl'infanti: - e don Rodrigo
Ha già scritto ad Almanzor:
Vengon tutti, e senza schermo
Tutti a morte gli hai da por.
I sette Infanti di Lara,
Romanza spagnuola.
- Introducetelo immediatamente.
Così ordinava Cinzio Passero cardinale di San Giorgio al
camerario, ch'era venuto ad annunziargli come il presidente
Luciani, con grandissima istanza, domandasse di favellare a Sua
Eminenza. Il Luciani, mossi alquanti passi, si fermò a
mezzo la stanza curvato profondamente, ed in cotesta attitudine si
rimase senza profferire parola.
Il Cardinale, declinati i sopraccigli per velare le pupille
tremolanti di soddisfazione, domandava con voce lenta ed ostentata
indifferenza, precorritrice di prossima ingratitudine:
- Or bè, a che cosa siamo noi? Egli è finalmente
compito questo magno processo?
- Vostra Eminenza, rispondeva il Luciani con le braccia giù
penzoloni, ravvisa in me rinnuovato il caso di Sisifo...
Il Cardinale, meglio che dalle parole, dal sembiante del Luciani
sospettando il caso, gittata là la finta indifferenza come
maschera molesta, ardente e iroso soggiunse:
- Che cosa significa questo? Parlate senza metafore, chè
ormai mi han concio.
- Eminentissimo, significa che noi non abbiamo potuto ottenere
dall'accusata Beatrice confessione di sorte; e gli altri
Cènci, mossi dal suo esempio, hanno ritrattato la loro.
- Ma voi... voi vi sarete lasciato intenerire per avventura anche
voi.
- Io! - esclamò il Luciani, come quando si ode qualche
sproposito solenne: - eh giusto! Corda, Eminentissimo, tortura
capillorum, tortura vigilae, canubbiorum, rudentium, taxilli,
tutte le adoperai, e senza intervallo di tempo, sicchè ne
rimasi sbalordito io stesso: poco più che avessi spinto il
tormento dell'accusata, a quest'ora non ne parlavamo più,
con danno inestimabile del processo. Io l'ho costretta a rimanere
tre ore intere in deliquio.
- E neanche col tassillo ha confessato costei?
- Neppure col tassillo.
- Ma che gli fate adesso, di burro?
- Eminentissimo noi gli facciamo di legno di pino, impeciati, e
aguzzati per filo e per segno: e tutti i tormenti io ho ordinato
le inasprissero per modo, che lo stesso mastro Alessandro ha
consigliato si sospendesse la tortura, avvegnadio corressimo
pericolo presentissimo di vita.
- Chi è questo mastro Alessandro?
- Il boia, Eminentissimo.
In verità occorrono in tutte le lingue taluni composti di
certi suoni, che hanno virtù di scuotere ingratamente i
nervi umani; e la parola boia è senza dubbio fra questi. Il
Cardinale arricciò il naso e scosse disdegnoso la testa,
quasi che volesse dire: «E com'entra il boia fra noi?»
Alla quale tacita domanda il Luciani, a sua posta, tacitamente
rispondeva: «Come ci entra? ci entra benissimo, e la tua
collera nasce appunto dal non esserci entrato come desideri, o
uomo rosso, parente del carnefice in troppe più cose, che
nel colore delle vesti».
- E quando vedeste, riprese il Cardinale, come i rigori non
giovassero, o perchè non provaste di adoperare le
piacevolezze?
- Uhm! Io sono da bosco e da riviera, Eminenza: anzi mi arrisicai
fino a promettere (bene inteso però come cosa mia, onde dar
campo a vostra Eminenza ed a Sua Santità di smentirmi
quando tornasse loro comodo) la grazia della vita per tutti; -
feci in modo che i confessi si trovassero con la donzella quando
verosimilmente dovevano averla frollata i tormenti, e lei con
pianti e preghiere supplicassero a confessare, assicurandola
com'io avessi loro dato ad intendere esser questo per essi
refrigerio estremo di salvazione. Fiato gittato! La donzella,
oltre ogni credere pervicace, ha disprezzato blandizie e tormenti;
e dopo aver sofferto più che natura umana sembrava potesse
sostenere, in mezzo agli spasimi del tassillo supplicava i
congiunti ad imitare la sua costanza ritrattando la confessione. -
Come la sia andata io non so, chè non so nemmeno io in qual
mondo mi trovi; le hanno dato retta, e di confessi, revocando il
detto, sono ridivenuti negativi. La mazza ha percosso i soliti
colpi, anzi maggiori del consueto; ma talora la pietra è
più dura del martello.
- Oh! no, nessuno varrà a persuadermi che in questa
faccenda siasi adoperata la diligenza, che il negozio e le mie
raccomandazioni pareva dovessero meritare.
- In verità, Eminentissimo, ella mi mortifica a torto.
Consideri! Temendo che l'accusata potesse tenere addosso qualche
malìa, ordinai (ed io stesso presenziai la operazione) che
la visitassero diligentemente, per ricercare la macchia diabolica
indicata dai maestri dell'arte.
Il Cardinale di tanto non si potè contenere, che non
iscuotesse fastidiosamente le spalle; sicchè il Luciani, di
nuovo armeggiando col suo cervello, pensava: «sta a vedere,
che un cardinale di santa madre chiesa non crede al diavolo! Morto
lui vedremo chi vi farà le spese».
- Dunque, interrogò risoluto il Cardinale, in questo
frangente che cosa proponete voi?
- Eh! appunto era venuto a posta per sentire il savio parere di
vostra Eminenza, come quella che tutto il mondo sa ricchissima di
partiti.
Si ricambiarono due sguardi tristi: già si odiavano. La
cupidigia e la ferocia compongono un cemento infernale, che lega
indissolubilmente le anime degli scellerati fino alla consumazione
del delitto: compito il misfatto, i complici si dividono a un
punto rapina, odio, e rimorso.
Avvenuta che sia l'opera di sangue, il Cardinale odierà il
Luciani col doppio odio dello ingrato e del complice che detesta
l'altro complice; il Luciani odierà il Cardinale
perchè lo sperimenterà superbo, e lo saprà
scellerato: e non pertanto anco adesso si aborrono, perchè
il primo non cela il suo disprezzo per l'altro, e quest'altro ha
paura.
Si ascolta un lieve bussare alla porta: ottenutane licenza entra
un camerario, che ammonisce lo Eminentissimo essersi presentato
alla udienza il signor avvocato Prospero Farinaccio.
- Farinaccio! - esclamarono a un punto il Cardinale e il Luciani.
Poi il Cardinale soprastette alcun poco a pensare, ed alla fine
disse al camerario:
- Fate passare. Voi, signor Luciani, compiacetevi attendere in
anticamera i nostri comandi.
Se più acerba trafitta avesse mai potuto lacerare l'anima
del Luciani, pensi chi legge. Come! Doveva egli uscire al cospetto
di uno avvocato? Come! Doveva egli aspettare la fine della udienza
in anticamera? Egli! uso a trattare con arroganza i suoi uguali,
con superbia gl'inferiori. In qual concetto lo avrebbero d'ora
innanzi tenuto i camerarii, in mezzo ai quali avrebbe dovuto
trattenersi durante il colloquio del Farinaccio col Cardinale? O
andate, via, a dannarvi l'anima per costoro!
No, il Luciani non dannava l'anima per altrui; ei la dannava per
conto suo: per compiacere lo istinto ferino sortito dalla natura,
e sviluppato con l'abito; per satisfare alla meschina
vanità, che non vo' dire ambizione, essendo questa cosa
virile, e per nulla convenevole a cotesta anima bassa. Se a taluno
poi venisse fatto di considerare come il giudice Luciani si
assomigli al giudice Valentino Turchi, al vicario Boccale, ed a
mille altri giudici e fiscali, io mi permetto avvertirlo, e vo'
che mi creda dacchè io gli parlo per esperienza, che
ordinariamente cosiffatti giudici e fiscali si assomigliano tutti;
e la differenza unica, che corra fra loro, consista nello avere le
unghie un poco più lunghe, o le orecchie un momentino meno
corte.
La immensa voglia che sentiva il Farinaccio di comparire al
cospetto del Cardinale nepote e la preoccupazione del Luciani
nello uscire, furono causa che questi due personaggi si urtassero
malamente nel petto e nel ventre sopra il limitare della stanza; e
siccome lo avvocato era grosso e gagliardo, e il presidente,
debile per mal di sciatica, camminava sciancato e dondolante come
fanno le botti rivoltate in piano prima che si fermino, questo
ultimo corse pericolo di rientrare a complire il cardinale a mo'
dei gamberi, se non si fosse con ambe le mani attenuto alle
pettorine della veste dello avvocato. Il Farinaccio poi non era
tale, da ridere per cotesto caso: all'opposto, volendo, com'uomo
espertissimo nelle umane passioni, correggere con la lingua il
fallo involontario del corpo, circondò il presidente
Luciani col tuono di uno immenso saluto:
- Meritissimo signor Presidente, le faccio umile reverenza.
Per la qual cosa il Luciani, considerando il credito che un saluto
così ossequioso di tanto avvocato stava per procurargli
appresso i camerarii, si sentì come raddolcito, e
deliberò rispondergli, come gli rispose, con un terzo meno
della rabbia consueta:
- La reverisco.
- Eminenza, incominciò Prospero Farinaccio dopo avere
inchinato il cardinale Cinzio co' modi sciolti e sicuri che
egregiamente gli si confacevano, io vi esporrò de plano la
causa che mi conduce con tanta pressa ad ossequiare vostra
Eminenza. Io vengo a supplicarla onde mi procuri licenza di
assumere la difesa dei prevenuti Cènci, in compagnia di
alcuno dei prestantissimi colleghi miei.
- Signor Avvocato, rispose il Cardinale aggrottando le
sopracciglia, ch'è quello che domandate voi? Cotesti
scellerati vi par egli che meritino l'onore della vostra difesa?
La enormità del delitto gliela vieta; e sarebbe inaudito
concederla, ora che il processo è compito.
- Eminenza, la difesa è di diritto divino. Il Signore la
concesse a Caino, e nessuno, io penso, lo sapeva colpevole meglio
di lui.
- È vero; ma la prudenza umana oggimai ha stabilito doversi
escludere da tanto benefizio i casi atroci; e il parricidio parmi
che tra questi si deva considerare come principalissimo. Ditemi,
signor Avvocato, i truci figli concessero al padre loro tempo per
le difese? Anzi, e questo è troppo più enorme, gli
dettero tanto di tempo ch'egli potesse riconciliarsi con Dio, e
salvare l'anima sua?
- Questo io non vo' negare, Eminenza; ma mi sia permesso farvi
notare reverentemente, come appunto, trattandosi di caso
eccettuato, non si proceda con le regole comuni, e tutto sia
rimesso alla discrezione del giudice.
- Certo, ma in ciò che spetta alla esasperazione del
rigore; conciossiachè se fosse diversamente (e questo non
può sfuggire alla solenne sagacia vostra) il benefizio
crescerebbe in proporzione della gravità del delitto. Vi
parrebbe ella logica questa?
- E tuttavolta nel mondo governa qualche cosa più potente
della logica, ed è la convenienza. Io non ricorderò,
Eminentissimo, per quanti favori mi chiami legato alla sacra
persona di Sua Santità ed alla vostra, nè con quanto
zelo io abbia studiato sempre, e studii promuovere, secondo le mie
deboli forze, la esaltazione della vostra casa nobilissima: in
ciò io adempio un dovere di gratitudine, e basta. Queste
cose poi mi piacque toccare brevemente, onde la Eminenza vostra si
persuada, che se potrà trovare di leggieri un consiglio
più autorevole del mio, non potrà con altrettanta
agevolezza trovarne un altro del pari devoto. Or dunque io vo' che
sappiate, Eminenza, correre da parecchi giorni qui in Roma una
voce, e crescere quotidianamente, la quale dice impossibile cosa
essere che Bernardino, giovanetto dodicenne e d'indole mansueta,
al parricidio partecipasse; molto meno la fanciulla (e questo non
era vero, anzi era vero il contrario) a cui procacciano
compassione la fama della sua bellezza, che dicono possedere
portentosa, e del valore col quale sostenne i più rigidi
esperimenti della giustizia. La calunnia sussurra sommessa di
orecchio in orecchio volersi tutti i Cènci avviluppati in
una medesima accusa, e per conseguenza nella medesima condanna,
perchè s'insidiano gli averi di cotesta cospicua famiglia:
ancora fra i nobili reca amarezza inestimabile vedere minacciata
di completa distruzione una inclita prosapia, che affermano
derivata dai vetustissimi Romani. Adesso io credo, e meco,
Eminenza, hanno creduto molti, che per torre via ogni pretesto
alla maldicenza importi largheggiare in concessioni di difese, di
consigli, di tutti, insomma, i sussidii forensi agl'imputati. E di
vero, udite un po' che cosa si attenti vociare la calunnia. Ella
vocia: o come volete voi che possa schermirsi da volpi vecchie del
foro un bambino? Come una giovanetta inesperta? Atterriti da
minacce, circondati da seduzioni...
Il cardinale Cinzio sentiva a quel dire gonfiarglisi il cuore; ma
fino a quel punto, uso com'era a dominare gl'impeti del suo
carattere, ed a dissimulare, veniva assentendo piacevole in vista
allo Avvocato, ed anche talora gli sorrideva: inoltre la
timidità, che rende i sacerdoti spietati, gli fa eziandio
irresoluti; onde chiunque sappia valersi con accorgimento di
questo loro vizio, può contare di riuscire almeno per tutto
il tempo che la paura dura. Qui poi non potè reggersi da
esclamare con ira male repressa:
- E come ardite voi sospettare questi orrori?
- Eh! non sono io, Eminenza, che sospetto; ella è la
calunnia, la quale non si arresta qui; ma va aggiungendo, che le
confessioni spremute dal torchio di torture atrocissime non si
devono attendere; e ch'era più breve farli tutti sparire,
notte tempo, per entro ad un trabocchetto.
Il Cardinale, per contenersi, masticava della carta;
sennonchè sopra gli angoli estremi della bocca, comparivano
alcune bolle bianche di bava maligna. Il Farinaccio, che
astutissimo uomo era, conoscendo avere percosso il colpo
più forte, pensò adesso a blandire il porporato. In
simile intento, aggiungeva:
- Io ci patisco, Eminenza, propriamente ci patisco nell'udir
levare i pezzi della reputazione altrui, e della scienza;
dacchè io nei miei volumi abbia salutato, come davvero ella
è, la tortura regina delle prove: nè qui sarei
venuto, laddove io non conoscessi il modo col quale il fatto
atroce successe, e non mi augurassi cavarne dalla bocca degli
accusati la confessione ingenua, che, come confonderà la
calunnia, così porgerà al Beatissimo Padre argomento
di fare viepiù rifulgere quella sua innata clemenza, di cui
ha empito il mondo con tanti e tanti fulgidissimi raggi...
- E vi augurate davvero farli confessare? - interrogò il
Cardinale ridivenuto sereno.
- Lo spero.
- Tutti?
- Tutti...
- Voi, signor Prospero, assumete troppo ardua soma per le vostre
spalle; almeno lo temo, perocchè in costoro si manifesti
pervicacia pari alla scelleraggine: e voi intendete che le porte
della misericordia potranno aprirsi alla supplice preghiera del
pentito, non già al superbo bussare dell'ostinato.
D'altronde il processo contiene tanta copia di prove, da vincere i
dubbii dello stesso Pirrone. Noi (e qui gli occhi gli
dardeggiarono veleno) noi non siamo usi a curare i clamori del
volgo. Da quando in qua l'aquila ha temuto la vipera? L'aquila
ghermisce negli artigli la vipera e la trasporta nelle nuvole, per
isbatterla poi contro le pietre. Stanno in potestà nostra
arnesi capaci di scorciare le lingue, ed impedire che un labbro si
congiunga all'altro labbro: - noi possediamo, e voi lo sapete,
signor Avvocato, istrumenti onde quelle parole della santa
scrittura, che dicono «avranno occhi e non vedranno, avranno
orecchi e non ascolteranno» ricevano litterale applicazione;
e noi gli sappiamo adoperare.
- Oh! quanto a questo l'ho fatto avvertire ancora io, si
affrettò di rispondere l'Avvocato, che, incominciando a
temere di essersi spinto un po' troppo, pensava al mezzo di
operare una ritirata onorevole; anzi chiamato, Dio sa da qual
parte, un certo risolino, e appuntatolo con li spilli sopra le
labbra, continuò: - e non pensate che io mi sia rimasto da
farlo capire come merita; però, mosso dalla cognizione
dell'alta magnanimità e dello egregio giudizio vostro, io
tutto deliberai di significarvi apertamente onde si facciano di
quieto, senza strepiti, senza scandalo e pel meglio quelle
provvisioni, che pareranno più acconce ai desiderii ed alla
giustizia di vostra signoria eminentissima. Per cui a tutti quelli
che si mostravano peritosi di venire a informare vostra Eminenza
degli umori di questi cervelli romani, io non rifiniva mai di
predicare: «O che temete? Voi non conoscete, ignoranti,
quanta bontà si annidi nell'ottimo cuore del Cardinale di
San Giorgio; quanto lo amor suo; quanto lo zelo per tutto
ciò ch'è convenevole e decoroso alla santa sede
cattolica, ed alla dignità della sua inclita casata. E
confermando col fatto le parole, mi sono risoluto di tenervene
proposito io stesso; là onde ora non mi rimane che a
supplicare ossequiosamente la umanità vostra a prendere in
buona parte questo mio procedimento; ed attendendo meglio allo
spirito che me le ha fatte dire, che alle parole com'elle suonano,
condonarmi quelle, che, contro la intenzione mia, avessero per
avventura potuto sembrarvi libere di soverchio, e temerarie.
Al Cardinale parve, come invero egli era, stranissimo il contegno
del Farinaccio: distinguerne le cause interne non sapeva; ed uso a
malignare sopra il bene manifesto, pensate un po' s'ei mulinasse
su quel garbuglio misterioso. Non assentì pertanto al
Farinaccio, nè lo respinse: prese tempo a pensarvi su, e
gli somministrò naturalissima scusa allo indugio il
pretesto di doverne conferire insieme a Sua Santità. - Si
accomiatarono pertanto l'uno dall'altro piuttosto soddisfatti, che
no; il Farinaccio perchè sperava riuscire nel suo intento
di favellare agli accusati, consigliarli, e dirigerli nelle
difese: il Cardinale perchè contava conseguire, ad intuito
del Farinaccio, la confessione dei prevenuti, ed ovviare
così ai sospetti, ch'egli sentiva meritarsi pur troppo.
Ambedue si accorgevano che il giuoco loro correva tra galeotto e
marinaro; ambedue sentivano che s'ingannavano a vicenda; e
nondimeno conoscevano essere l'uno necessario all'altro pel
compimento degli scambievoli disegni.
*
* *
Farinaccio allo svoltare della via aperse lo sportello di una
carrozza, che stava lì ferma ad aspettarlo; e volgendo il
discorso a qualcheduno seduto dentro, favellò:
- Eminentissimi, il disegno s'incammina a bene. Ora non perdete
tempo un minuto, ed andatevene ad abbattere l'arbore che tentenna.
La paura lo tiene pei capelli; se lo lascia, non lo ripeschiamo
più di qui a mille anni.
In questo modo ragionando il Farinaccio indovinava ad un punto, e
sbagliava: indovinava, che la paura dominasse l'anima del
Cardinale nepote; sbagliava, che questa lo rendesse più
mite per gli accusati; imperciocchè avendo mestieri della
confessione loro per procedere con franco piede e capo alto alla
truce conchiusione del suo disegno, e pel colloquio tenuto col
Luciani essendo oggimai disperato di poterla ottenere per via di
tormenti, strinse il Farinaccio come una leva per muovere quel
masso che gli si parava davanti al cammino. Credersi più
scaltro che altrui è lo scoglio dentro al quale per
ordinario rompono gli astuti; onde a ragione il proverbio
c'insegna, che in pellicceria vanno più pelli di volpe che
di asino.
Prima però di continuare il mio racconto mi è forza
spendere alquante parole intorno a Prospero Farinaccio, che sta
per essere tanta parte nella catastrofe di questa storia, e dire
chi egli si fosse, e quali cagioni lo muovessero a zelare
così le difese dei Cènci.
Prospero Farinaccio nacque di stirpe popolesca; ma non tanto
sprovveduta dei beni della fortuna, che ai suoi genitori venisse
tolta la facultà di farlo educare nelle discipline
liberali: ed in fatti mandato allo Studio di Padova attese ad
imparare diritto, dove riuscì valentissimo. Tornato in
patria presto si fece conoscere eletto ingegno, ed ottenne
facilmente la fama di precipuo fra gli avvocati della Curia
Romana. Invero egli possedeva in copia dottrina (che scienza
quella degli avvocati d'allora io non vorrei chiamare), ed aveva
raccolto abbondantissimi materiali che gli valsero poi a
fabbricare ben tredici grossi volumi, i quali anche ai giorni
nostri noi vediamo schierati nelle scansìe dei forensi,
quasi leghe quivi dentro ammucchiate per costruirne le casematte
di sofisma, e di errore delle loro biblioteche. Nei libri del
Farinaccio, del Mantica, del Menochio e di altri siffatti
scrittori, che gli furono contemporanei; peggio in coloro che lo
precederono; niente meglio negli altri che lo seguitarono, invano
cerchiamo spirito di retta filosofia. Non sentenza, non,
dirò quasi, parola occorre scritta, che non venga sostenuta
dalla testimonianza d'infiniti altri dottori, che la medesima
cosa, e con le medesime frasi affermino: per modo che,
ravviluppata con tante fasce, impiastrata con tanti cerotti
addosso, quella ch'essi espongono o non ti par ragione, o parti
ragione malata; anzi in agonìa. Talora in mezzo a questi
salvatici scritti ti capitano citazioni greche o latine degli
scrittori magni, le quali pare che stupiscano di trovarsi
là dentro, come succede ad un galantuomo, preso per
isbaglio, di vedersi in prigione fra una geldra di furfanti. Un
meccanismo tutto materiale ha presieduto alla compilazione di
coteste opere; e sovente tu vedi posta a capo del capitolo, o
conclusione, o glossa, od altro simile spartimento del lavoro una
sentenza assoluta, dopo la quale vengono schierate come manipoli
in battaglia le tante dichiarazioni, e di tanto diverso concetto,
che invece di chiarirti il pensiero gli calano di mano in mano una
benda su gli occhi, e gli fanno buio: nè basta ancora; ecco
succedere le ampliazioni, le quali tirano coi denti il primo
pensiero a conseguenze così sperticatamente disparate, che
ogni memoria del punto donde hai preso le mosse va perduta. Come
se poi tutto questo fosse poco, esaurite le ampliazioni
incominciano ad attelarsi in ordinanza le limitazioni, di cui lo
scopo consiste nel restringere il principio annunziato in tanta
angustia di termini, che oggimai tu ignori qual via tu debba
tenere, o a qual partito appigliarti. Ogni raziocinio è
posto in bando: autorità fa legge; sintesi e dogma ti
battono alterni colpi sopra il cranio come due fabbri il martello
su la incudine. Interrogato un giureconsulto, qual differenza
corresse fra legato e fideicommesso, rispondeva: che in quanto a
se ei non la sapeva discernere, ma che ci doveva essere;
avvegnadio se non ci fosse stata lo Imperatore non avria distinto
un atto col nome di legato, e l'altro con quello di fideicommesso!
La intelligenza umana intisichita per difetto di luce, si sgomenta
e si accascia sul pavimento, rassegnata a cucciare sopra la
paglia: pervertito così il senso del retto, il torto e la
ragione compaiono accidentalità della forza o della frode,
secondochè trionfano o perdono; e il santo ministero della
giustizia e della difesa diventa un palio di Siena, dove,
purchè prima si giunga, anche le nerbate a traverso la
faccia contano. Mentre un curiale con le spalle gobbe, gli
occhiali sul naso, al chiarore di una lucerna sfoglia uno
scrittore in traccia dell'autorità che valga a sostenere il
suo assunto, e la trova; il suo avversario curiale con le spalle
gobbe, gli occhiali sul naso, al chiarore di lucerna va
squadernando il medesimo scrittore in traccia della dottrina
contraria, e la trova. Corre nel fòro un dettato che
ammonisce, i dottori aver detto tutto; ed è vero: ma in
sofisma, e in errore; e se avessero detto meno, beati gli uomini!
- In paragone a questo rovinare giù a scavezzacollo del
nostro intelletto, navigare senza bussola egli era andare a nozze;
conciossiachè senza bussola si arrivasse tentoni, ma alla
fine si arrivasse, e qualche stella schiariva quasi sempre il
cammino; - qui poi si precipita irrimediabilmente in perdizione.
Il contagio dello intelletto con lieve passaggio si attacca al
cuore; la coscienza del forense diventa atea, e lo studio del
diritto si converte in istudio di torturare, e, potendo,
strangolare il diritto; in trovare puntelli alla tirannide, in
cucire al dispotismo una gonnella da prete per farlo comparire
galantuomo nella processione del Corpus Domini. Ai giorni nostri
l'avvocheria va a poco a poco, e, come dicevano i latini,
guttatim, riacquistando la pristina dignità; però
rimangono anche troppi curiali che si rotolano nel fango come in
un letto di parata, e togati sofismi si divorano il mondo peggio
delle cavallette di Moisè. Carattere eterno del vero e del
bello noi dobbiamo estimare la semplicità e rammentarci che
la verità incede nuda: badi la eloquenza pertanto, e badi
bene, di non avvilupparla in mantelloni alla Bernini: a lei basta
il velo, che un giorno Socrate scultore ricingeva intorno alle
Grazie. La digressione, a vero dire, si produceva più oltre
ch'io non pensava; ma oggimai è fatta, e a cancellarla
l'animo non mi basta: la conchiuderò affermando in
coscienza, che colui il quale si avvisasse di fare della massima
parte del libri forensi un falò in onore della ragione
umana, si meriterebbe il nome di Omar della civiltà().
Il Farinaccio dunque non era uomo da paragonarsi a Francesco
Bacone da Verulamio suo coetaneo; tutt'altro: però come
perito nella dottrina forense lui salutavano principalissimo a
quei tempi. Irrequieto e insistente, spesso a forza d'industria
egli seppe condurre a buon fine difese ritenute disperate; e
ciò gli fruttava amplissima fama di sapere da quei medesimi
giudici i quali avevano ceduto piuttosto alla importunità,
che alla persuasione sua, e questo s'intende; però che
volessero confessarsi vinti dalla scienza, non già dal
fastidio. La vitalità, che in lui sovrabbondava, non gli
facendo rinvenire nello esercizio della sua professione fatica
sufficiente a stancarlo, nè i tempi concedendo vacare a
pubblici negozii, egli si diede in balia della crapula e della
lussuria...
Il suo temperamento in questo gli valse per modo, che consumata
talora la intera notte nelle lascivie e nel giuoco, la mattina poi
si mostrò pronto, e disposto al travaglio più che
mai fosse stato. Con tanta foga si abbrivò nel mare dei
vizii, che percorso in breve tutto quel tratto ch'è dominio
del peccato, giunse là dove incominciano i confini del
delitto; e corre fama eziandio ch'ei li varcasse; ma per
virtù d'ingegno, ed in grazia delle protezioni che
coltivava potentissime in Corte di Roma, gli riuscì sempre
a cavarla netta. Clemente VIII, legale anch'egli, e che per avere
appreso diritto a Roma, a Bologna e in Salamanca si reputava una
cima, lo aveva avuto in grandissima, pratica mentr'era auditore di
Ruota, e sovente diceva di lui: egli è un tristo sacco,
pieno di buona farina. Come facile a donare, il Farinaccio si
mostrava anche facile a prendere: costumava creare debiti
più che poteva, un po' per bisogno, e molto più per
genio; dacchè estimando poco i vincoli dell'amicizia, e
quelli della parentela ignorando, soleva dire che il più
saldo legame, il quale, secondo lui, tenesse uniti insieme gli
uomini era il debito, concorrendo tre funi a formarne il nodo: la
benevolenza del creditore pel debitore, la speranza di ricavarne
un grosso interesse, e la paura di perdere frutto, e capitale; per
la qual cosa egli teneva per fermo, che anche alla spada di
Alessandro Magno sariasi torto il filo, se si fosse provata a
tagliarlo. E nonostante ciò, sotto quel cumulo di vizii si
trovava rannicchiato un ottimo cuore propensissimo ad atti
generosi, purchè brevi, e di sagrifizii, a patto che non lo
stogliessero di soverchio alle sue passioni dominanti. Pronto a
sdegnarsi e del pari sollecito a placarsi, passava dal pianto al
riso, e sopra tutto oblioso di qualsivoglia più lugubre
caso; avvantaggiandosi con lo esempio del re David, che
digiunò e pregò finchè il figlio avuto da
Bersabea stette infermo, e morto poi si levò dal pavimento,
bevve e mangiò dicendo: «Salute ai vivi, e buon
viaggio ai morti!»
Ora vuolsi sapere come sul declinare del mese di agosto, certa
mattina un carbonaro, fasciando alla porta dello studio dello
avvocato quattro muli carichi di balle di carbone, entrasse
arditamente nell'anticamera con ambe le mani nelle tasche delle
brache, e il cappello piegato sopra un orecchio in sembianza di
duca. Gli scrivani, vedutolo con la coda dell'occhio, non si
mossero, e continuarono a scrivere senza mai levare il capo di
sopra la carta.
- Oe! Ci è l'avvocato?
- Qui no... a casa forse...
- Io vi domando se sia qui, non a casa.
- E se ci fosse! O che volete che compri carbone nello studio?
Ditemi, sareste di quelli che credono che si arrostiscano i
clienti?
- Dio me ne guardi! Solo ho inteso dire, che qualchevolta si
spellino. Ma ciò non monta; - districhino la lite San
Lorenzo e San Bartolommeo fra loro; io non vo' vendere carbone al
signor avvocato, bensì ho da parlargli di un mio
negoziuccio...
- Voi!... propriamente voi?
- Io... propriamente... io. O che ci è egli di strano? Si
parla al Papa che ha gli orecchi nei piedi, e non potremo parlare
all'avvocato Prospero Farinaccio che li porterà, io mi
figuro, attaccati alla testa?
- Ma lo sapete voi chi sia il clarissimo signore avvocato
Farinaccio?
- Sicuro eh! che lo so. Egli è un uomo come me: sarebbe
forse nato dal Colosso del Montecavallo, o si vanterebbe cugino
del re Porsenna? Su, via, andate ad annunziarmi, ch'io so che
è in istudio.
- O il nuovo pesce, ch'è capitato stamattina!,
mormorò sommesso il primo scrivano, e poi a voce alta
soggiunse: «ci ha gente».
- Aspetteremo -
Rispose il carbonaro; e senza un rispetto al mondo si pose a
passeggiare villanamente di su e di giù per la stanza, con
insopportabile fastidio dei copisti; i quali un po' per la stizza,
un po' per lo inusitato schiamazzo sbagliando sovente, lo
mandavano allo inferno, sotto voce però; chè la
sembianza traversa, e le membra gagliarde li persuadevano a
procedere con precauzione. Di tratto in tratto, giusta il costume
dei codardi insolenti, si sfogavano alternando motteggi e scherni.
- Il passo degli allocchi è anticipato questo anno.
- Vello com'egli è tondo; e' pare che abbia l'aria di aver
beccato più miglio che ginepro.
- Fa' di farti cucire le fodere nuove alle tasche, per sospetto
che non te le sfondi la mancia.
- Avvertirò il sere di aggiuntare due lenzuola insieme, per
farne un sacco capace a contenere li danari a conto.
Extra jocum: parente del diavolo ha da essere, tanto egli è
nero; e sento dire che il diavolo sia più ricco di Papa
Sisto, che mise dieci milioni di oro in castello().
- E se pagasse con una cambiale sopra lo inferno, toccherebbe a
Tegolino andarla a riscuotere().
- Però tu sei in colpa, e come primo scrivano la sconterai.
- Qual colpa?
- Di non avere steso gli arazzi, onde il messere non si conci il
calzare di velluto.
E così continuavano l'alternare di epigrammi, che pareano
fuochi artifiziali. Il carbonaro non si dava per inteso di nulla,
e non ismetteva il suo moto ondulatorio, nè il fischiare,
nè il canto. In questa un giovanetto, vero servo dei servi
di Dio, nudrito con le briciole dei bricioli caduti dalla mensa
dell'avvocato, alimento dei copisti, si levò dal banco, e
presa una sedia la offerse al carbonaro, quasi in isconto dei
peccati dei suoi colleghi.
Il carbonaro accettò la sedia, e poi guardò fisso
negli occhi il giovanetto, come se volesse iscrutare la causa che
lo muoveva a mostrarsi, fra tanti villani, cortese, e non
potè distinguervi altro che naturale benevolenza;
avvegnadio i clienti costumassero rado donare, o, se donavano,
altri denti stavano apparecchiati ad azzannare: sicchè il
giovanetto faceva quel buono ufficio come il povero usa col
povero, senza speranza, ma con carità. E questo sia detto
contro la opinione dei moralisti, i quali pretendono che l'uomo,
onde possa reputarsi perfetto, abbia ad essere ornato di tutte le
virtù corporali e spirituali; mentre io ho provato, che
anche qui il soverchio rompe il coperchio; e quando le sono
troppe, una aduggia l'altra come le rame in arbore frondoso.
Il carbonaro, atteso ch'egli ebbe lungo spazio di tempo, si
accorse di essere stato ingannato, e che il Farinaccio per quel
momento dimorava fuori di studio; per la qual cosa alzatosi
pianamente si accosta allo scrivano, cui, come attempato,
incombeva l'obbligo di avere più giudizio degli altri; e
strettagli forte la punta dell'orecchio, gli dice:
- Compare! Tu mi hai giuntato: pazienza! Bada, che come so
ricompensare un buono ufficio, così mi basta l'animo di
vendicarmi di una ingiuria anche dietro l'altare di San Pietro. A
rivederci a domani...
E vedendo lo scrivano come basito delle parole altere, e
più dell'atto, si affrettò, quasi per rimedio, di
aggiungere: «tu mi hai fatto perdere la occasione di vendere
le mie some di carbone»; e mosse per andarsene;
sennonchè passato davanti al giovanetto, parve tentennasse
a volere, e disvolere una cosa; la mano gli corse su l'orlo della
tasca, poi la ritrasse a poco a poco, finalmente ve la
cacciò risoluto, e trattane fuori una moneta, la porse al
fanciullo dicendo:
- To', portala a mamma; - ed uscì.
- Tegolino, urlarono gli scrivani, tienti stretto il tesoro: vuoi
tu diventare duca? Da' voce di comprare Benevento: vuoi tu che io
ne dica una parola al Papa? Il palazzo Farnese per magione ti
basta? Se no, tu ci farai la giunta come Sisto al Vaticano...
Vediamo un po' quanto ti ha dato il carbonaro.
E il fanciullo, aperta alcun poco la mano, guardando la moneta
rispondeva:
- Non so, io non ne ho mai viste; di rame non è, come i
baiocchi che mi date voi altri; lustra... ed è gialla.
- Sarà un brincolo... vediamo... Per gli apostoli Pietro e
Paolo, e gli altri dieci di seguito! ella è una doppia...
proprio una doppia di oro! Senza fallo il carbonaro ha da essere
un monetaro falso...
Ma uno scrivano meglio scaltrito degli altri, guardata prima ben
bene la moneta, mormorò sotto voce all'altro, che la teneva
in mano:
- Così tu avessi buona l'anima, com'è buona cotesta
moneta! Ma sostieni tuttavia ch'ella è falsa, e che bisogna
farne rapporto al bargello: in tal guisa la caviamo di mano a
Tegolino, e poi ce la goderemo.
- Questa moneta, non ci ha rimedio, è falsa falsissima,
prese a gridare l'altro; e ci toccherà a farne una
specificazione, come qualmente un monetaro falso l'abbia donata a
Tegolino, depositandola in mano del bargello del rione
perchè non ci caschi su le spalle qualche grosso malanno.
Misericordia! Moneta falsa! Niente di meno che forca e squarto a
cui fosse trovata addosso;-e se la mise in tasca.
Ma a Tegolino garbava poco, anzi punto, cotesto tramestìo;
e rivoleva la moneta perchè fosse stata donata a lui, e
perchè intendeva portarla alla mamma onde se ne comprasse
una gonnella, chè la povera donna si peritava a uscire di
casa con quella che aveva addosso logora, e rattoppata. Fiato
perduto! Gli altri per preci non dimordevano, e per di più
lo straziavano con i motteggi; sicchè il fanciullo prese a
piangere ed a strillare per modo, da muovere a rumore tutto il
vicinato.
In questa ecco apparire sopra la soglia dello studio, sdegnoso in
vista, un personaggio abbigliato da prete, di cui l'aspetto
però sembrava in guerra aperta col suo vestito: alto era e
robusto, alquanto calvo sul sommo del capo, ma circondato da uno
orecchio all'altro di capelli neri a zazzera; neri, folti, e
dritti aveva i sopraccigli, allora aggrottati; una ruga sorgendo
perpendicolare dalla radice del naso s'inoltrava per mezzo della
fronte; l'occhio di pupilla vivissima, e verdastra; le narici
mobili le labbra tumide e accese in bel vermiglio; le guance,
tinte ordinariamente in isciamito, ora per collera avvampanti di
fiamma.
- Che scandalo è questo? - tuono con voce di rimprovero.
Gli scrivani, come i ranocchi se odano cosa onde abbiano paura
cessano il gracidare importuno, e tuffansi nell'acqua paludosa,
chinato il capo non fiatavano verbo. Tegolino si rannicchiava
presso le gambe dell'avvocato Farinaccio, in quella guisa che i
pittori sogliono dipingere l'aquila ai piedi di Giove. Ma il
Farinaccio, per nulla placato dalla subita sommessione di costoro,
interrogò Tegolino della causa del trambusto, ed egli
ingenuo gliela espose; aggiungendo che rivoleva la moneta per
portarla a mamma, che difettava di veste da comparire alla messa.
- E per qual causa voi altri avete involata la moneta a questo
ragazzo?
La domanda era volta agli scrivani; ma dimorando a parlare,
Tegolino rispose per loro:
- Perchè prima dicevano ch'ella era falsa; e poi sottovoce
avvertì Luparino, che sarebbe stato meglio comprarne tanto
vino di Orvieto, e berselo in compagnia.
Prospero consentendo alla sua piacevole natura, mutata di subito
la collera in riso, riprese:
- Su, presto, rendete a Cesare quello ch'è di Cesare,
voglio dire la doppia a Tegolino; e per bere, a voi altri, ecco un
papetto; chè ne avanza anche per le spugne vostre
dilettissime sorelle in vino. Però, notatelo bene una volta
per sempre; io intendo, e voglio che sieno accolti co' medesimi
rispetti così poveri come ricchi, i nobili come i popolani:
io nacqui ignobile, e non sono ricco; ricordatevene: e di questo
ricordatevi ancora. che sono state fatte troppo più belle e
magnifiche cose co' baiocchi del popolo, che con i ducati dei
baroni.
E così favellando entrò nell'altra stanza. Il giorno
successivo il carbonaio si presentò alla medesima ora, e
venne con isquisita urbanità accolto dagli scrivani, mossi
dai due supremi motori dell'anima umana, la speranza e la paura:
però al carbonaio non parve che fosse uscita la stizza di
corpo pel fatto del giorno antecedente, perchè, cacciando
indietro uno dei suoi muli che sporgeva la testa dall'uscio dello
studio, punse con questo motto gli scrivani:
- State all'erta voi altri, che lì alla porta ci è
tale, che v'insidia il vostro posto di copista.
Ma Andreozzo, mordace secondo il costume dei romani, non
potè stare alle mosse di rendergli pan per focaccia:
- Oh! in quanto a questo state sicuro che non ci ha pericolo:
ciò potrà accadere quando voi sarete diventato
l'avvocato di studio.
Onde il carbonaio, conoscendo a prova che quei ribaldi avevano
più ritortole ch'egli fastella, e d'altronde premendolo
bene altra cura, andò oltre.
Il Farinaccio appena ebbe scorto il carbonaio, con modo cortese
gli disse:
- Io so che ieri i miei scrivani vi arrecarono disturbo: ve ne
domando scusa per essi: gli ho ammoniti per guisa, che spero
averne loro tolto il ruzzo di ricominciare con altri, e con voi.
Adesso favorite dirmi in che cosa io possa sovvenire ai bisogni
vostri. Parlate, e, se vi piace, sedetevi.
- Parlerò in piedi. Ditemi, intendeste voi favellare del
caso dei Cènci?
- Io? E come volete ch'io non ne abbia udito parlare? Ella
è questa la nuova che tiene tutta Roma sottosopra.
- E non sentiste mai nessuna voce in mezzo del cuore, che vi
parlasse in benefizio di cotesti infelici?
- Se io l'ho sentita! Ed anche adesso la sento; - anzi a palesarvi
il mio pensiero vi dirò, che la segretezza del processo; lo
insolito apparato; la surroga del giudice Luciani, uomo più
crudo della tortura, al presidente Moscati compassionevole e
probo; la età dei prevenuti, la presumibile inettezza di
tutti, o della massima parte di loro, ed altre più cose,
che mi giova tacere, mi percuotono la mente, e mi fanno sospettare
qualche trama abominevole.
- E allora, dite, o perchè voi, di cui il soccorso non
venne mai meno agli uomini più infami, ve ne mostrate avaro
per cotesti poveri malcondotti?
- Perchè, considerando maturamente la faccenda, ho
presentito che a lavorare questo terreno io ci romperei la vanga.
Vel dissi già; temo di segreta persecuzione... e potente:
temo che questo non abbia ad essere giudizio, bensì
assassinamento giuridico; - io vedo, caro mio, o parmi vedere, la
giustizia armata non già della spada della legge, ma dello
stiletto del bandito, e...
- Proseguite, signor Avvocato, - con voce tremante lo confortava
il carbonaio, vedendolo esitante a continuare.
Prospero si levò dalla sedia; e, fattosi all'uscio per
assicurarsi se fosse ben chiuso, tornò al suo posto, e
riprese:
- Corre voce, quantunque io per me ne dubiti forte, che essendo i
Cènci fuori di misura ricchi, e i nepoti del Papa fuori di
misura poveri ed avari, cerchisi un pretesto che valga per
incamerarne i beni, e trasmetterli poi, mediante un colore di cui
in corte non è penuria, a quel branco di affamati.
- Come! Anco con la strage di quattro innocentissime creature?
- Portansi dai cardinali cappe vermiglie perchè il sangue
non vi si scorga sopra.
- Ma voi non avete per istituto di difendere la vedova e il
pupillo? E l'avvocatura non reputasi appunto milizia
gloriosissima, per lo pericolo che l'uom corre nel difendere la
causa della innocenza iniquamente perseguitata?
- Anzi per questo la milizia togata si antepone alla sagata, ed
ecci in proposito una legge mirabile degl'imperatori Leone, ed
Antemio... ma carbonaro... ed avrei dovuto domandarvelo prima...
in grazia, chi siete voi?
- Deh! signore Avvocato, non vi calga saperlo: sono un uomo, - e
se questo può commuovervi, - un uomo che non ha uguale al
mondo nella miseria.
- No... confidenza per confidenza: come volete ch'io mi apra a
voi, se voi intendete restarvi chiuso con me?
- Le parti non sono uguali. Della discretezza vostra io non
dubito; del vostro onore molto meno: non mi trattiene paura,
imperciocchè maggior danno di quello che io patisco ormai
non mi può cascare addosso; e non pertanto io vi supplico
in grazia a lasciarmi il mio segreto...
Suonava in coteste parole tanta umiltà di preghiera,
così elle s'insinuavano dolcemente nel cuore di Prospero,
che a lui parve villania espressa insistere, e si rimase.
- Orsù, dunque, sia come vi piace; ed io allora vi
dirò (e rese la voce più sommessa) che credo pur
troppo la fama pubblica ben si apponga; e tale credendo fermamente
io, come con presagio di buon esito potrei tirarmi sopra le spalle
carico così grave e pericoloso? Voi, mio carbonaro, avete
l'aria di sapere quanto me quello che lasciò scritto Dante
Alighieri:
Chè quando l'argomento della mente Si aggiunge al mal
volere ed alla possa, Nessun riparo vi può far la gente.
- Dunque vi basta il cuore a lasciar perire senza difesa coteste
creature, innocenti quanto nostro Signore Gesù Cristo?
- In primis voi dovete sapere che la difesa dei parricidii non
viene mica de jure, bensì concedesi per grazia; in secondo
luogo, o ditemi un po' voi come facciate a sostenerli innocenti?
- Io? - Lo assicuro di certo... perchè... perchè
quegli che uccise Francesco Cènci... sono io.
- Voi? - E voi chi siete?
- Quegli che già voi, per somma cortesia, consentiste a
rimanersi incognito. Io con queste mani lo uccisi, e tornerei ad
ucciderlo nel punto in cui stava per oltraggiare la natura...
E qui gli espose a parte a parte il successo: confidandogli ogni
più riposto segreto di famiglia, e gli atti, le parole, e i
costumi del trafitto Cènci, non menochè la
virtù, e la portentosa costanza della sua figliuola
Beatrice.
Il Farinaccio a mano a mano che costui veniva favellando
s'industriava ravvisarlo; e non venendone a capo, gli passò
per la mente che potesse essere monsignore Guido Guerra; ma per la
pratica grande che ne aveva, non gli parve che i tratti del volto,
i gesti, e tampoco la voce glielo riportassero. Al fine delle sue
parole il carbonaro levò gli occhi sul Farinaccio per
iscrutare lo sguardo di lui; ma questi teneva impensierito la
faccia dimessa. Dopo lunga considerazione favellò:
- Se io vi dicessi andate, ed annunziatevi, lo fareste voi?
- Se questo giova farlo subito non mi parrebbe tosto.
- No, no: voi sareste una vittima di più, nè
torreste lo agnello di bocca al lupo. L'amore tornò infesto
alla infelice fanciulla del pari che l'odio. Il popolo le appone
la strage paterna per darle una corona di gloria, il Papa
gliel'appone per rapirle la sua sostanza... Ardua cosa (e si
batteva la fronte tutto angoscioso) ardua cosa in verità.
- Deh! signor Prospero, non gli abbandonate, per carità...
- E per di più, sempre distratto favellava il Farinaccio,
in corte mi hanno in uggia; e temo che se questa volta capita loro
il destro, mi conciano e cimano come un panno francese.
- In corte io conosco tali, che sicuramente vi darebbero favore; e
so che voi trovereste i cardinali Francesco Sforza e Maffeo
Barberini dispostissimi a secondarvi...
- Questo sarebbe qualche cosa... E come dovrei presentarmi io a
cotesti porporati?
- Andate franco; voi li troverete informati di tutto().
E nonostante questo la mente del Farinaccio tenzonava fra il
sì e il no, e gli si leggeva in volto; sicchè il
carbonaro con voce di pianto insisteva pregando:
- Ed ora che sapete tutto, li lascerete perire senza aiuto?
- E se io mi perdo con esso loro?
- Benefizio che si argomenta non è benefizio.
Questo dialogo era da ambe le parti favellato con tanta passione,
che Guido Guerra, obliandosi, adoperò la naturale sua voce;
però che il Farinaccio non si potè trattenere dallo
esclamare:
- Voi siete monsignor Guerra.
- Io? - Lo fui...
- Heu quantum mutatus ab illo! - esclamò il Farinaccio
porgendogli la mano, che l'altro strinse affettuosamente dicendo:
- Ed ora che conoscete la mia miseria... ora che la mia sciagura
vi sforza al pianto, mi lascerete voi andar via disperato?
- Ebbene, alea jacta est. Però, e non ve lo nascondo, io
passo il Rubicone con tale uno stringimento di cuore, che io non
provai mai l'uguale in vita mia. Dio ci aiuti! Questa volta io
temo che il pesce non tiri dietro il pescatore: ma non è
ciò, che maggiormente mi travaglia; - io dubito appigliarmi
ad un partito donde, piuttostochè vantaggio, abbia a
nascerne l'ultima rovina. Comprendo bene, che in istato peggiore
di quello nel quale di presente si trovano non ponno i signori
Cènci cascare; e tuttavolta non vorrei esser io quegli che
dà loro la pinta. Voi poi, Monsignore, non vi sconfortate
che per questo io abbia a procedere tepido, o irresoluto: mai no;
anzi prendete coraggio dallo esempio del nostro Redentore, a cui
in questo caso, comecchè indegnissimamente, io mi
rassomiglio. Egli pregò che il calice amaro fosse
risparmiato alle sue labbra, ma poi lo accettò di gran
cuore, e lo bevve da valoroso. - Ora andate; e vivete sicuro che
quanto cervello può immaginare e bocca dire, tutto
sarà da me messo in opera per la salute dei vostri
raccomandati.
- E a questo mi aspetto: a caso disperato sovverranno altri
partiti. - Voi la vedrete...voi vedrete, dico, la signora
Beatrice... non le parlate di me...in nulla...o piuttosto,
sì, parlategliene... e presentatele questo anello, che vi
acquisterà credito presso di lei. Fra noi sta il sangue di
suo padre...va bene...ma io l'ho sparlo per lei...ed io l'amo...ed
ella non potrà cessare di amarmi: - uno sempre legato
all'altro, e non pertanto perpetuamente divisi; - il nostro
affetto è fiore che coglierà la morte. - Qui
sfibbiò la cintura che portava attorno la vita, e gliela
porse: l'avvocato fece atto di ricusare, e le sue guance si
accesero; ma il Guerra insisteva dicendo:
- Già non si crede con questa o con altra moneta
ricompensare degnamente l'opera vostra; io mi vi professo grato
per la vita, e ricusando voi mi affliggereste: ora io di affanni
ho anco troppo, e voi, signor Prospero, lo sapete.
E il signor Prospero riteneva a tutta possa il proponimento di
recusare la moneta; ma sentiva, come neve al sole, liquefarselo
davanti al pensiero, che nel giorno seguente gli scadevano le
usure da pagarsi a Sansone giudeo; quel Sansone a cui il
Farinaccio aveva applicato quel verso di Marziale «Nec tecum
possum vivere nec sine te», ch'egli avea volgarizzato per
suo uso così:
Nè teco posso vivere, Giudeo, nè senza te.
Il Farinaccio rimasto solo si trattenne alquanto a meditare
intorno alla singolarità de! caso, e lo infortunio che
gravitava sopra la sventurata famiglia dei Cènci: poi
subito volse la mente a completare il concetto della difesa, che
prontissimo pensò aver trovato; incerto, è vero, e
pericoloso, ma che a lui parve unico da abbracciarsi. Peccato
grave del Farinaccio fu ancora questo, che tra per possedere
percezione delle cose quanto altro mai veloce, e per la
sopravvenienza delle faccende le quali non gli concedevano tempo
di approfondire i giudizii accoglieva le prime idee che gli si
presentavano alla mente, ed in quelle ostinavasi. Quasi sempre, a
vero dire, imbroccava del segno; ma se mai errava, non ci era
più rimedio; conciossiachè facendo seguitare subito
la idea dalla esecuzione, veniva a chiudersi la strada di tornare
indietro. Finalmente, come l'amen in fondo degli oremus, penso
anche ai ducati del Guerra. Avrebbe voluto non averli presi; ma
ormai che presi gli aveva, gli rinchiuse dentro lo scrigno; e
subito dopo, pronto e fedele, si mise in moto conducendosi ai
palazzi dei cardinali Sforza e Barberini, i quali trovò
confortatori nell'assunta impresa, ed a sovvenirlo col proprio
credito dispostissimi. Con esso loro concertò il colloquio
col cardinal nepote Cinzio Passero, non menochè le cose
opportune a toccarsi in faccenda così dilicata; ed eglino,
studiosi di giovare ai Cènci, si offersero, come fecero,
aspettare alla posta assegnata, dentro una carrozza senza stemma,
lo esito dello abboccamento, per agire poi con ispeditezza a
seconda dei casi.
*
* *
Il Luciani, il quale pel fastidio dello attendere brontolava come
mastino a catena, sentì chiamarsi allo improvviso per nome;
e levate le ciglia in alto, vide apparire un camerario, che gli
disse:
- Signor Giudice, sua Eminenza vi dà commiato, e vi ordina
per ora sospendere ogni procedura: in seguito ordinerà.
E queste parole il camerario gli disse superbamente,
imperciocchè i servi per ordinario posseggano l'odorato
più sottile dei segugi per distinguere quando una persona
è in fiore, quando è matura, e quanto sta per
cascare dalla grazia del padrone. Il Luciani, offeso di
quell'essere buttato là come un trabiccolo a mezzo luglio,
e più trafitto dal modo, guardò in cagnesco il
camerario, quasi gli volesse dire:
- Attendi a starmi lontano, perchè se mi capiti fra le mani
io ti farò vedere che mai cane mi morse, ch'io non volessi
del suo pelo.
Poi taciturno gli volse le spalle, e se ne andò.
- Avete veduto qual guardatura? - notò uno staffiere al
camerario. - In verità voi gli avete dimostrato troppo
disprezzo.
- Dovevate dire ribrezzo: io lo avrei volentieri gittate fuori di
finestra come una mignatta, per empimento di sangue resa inabile a
succhiare.
- Avvertite non averla gittata nel sale; imperciocchè
allora, vomitato il sangue, torni a pungere più acuta che
mai.
* * *
I cardinali Barberini e Sforza si presentarono in anticamera per
riverire sua eminenza San Giorgio. In un baleno erano annunziati,
ed introdotti con un grande levare di berretta e profondissimi
inchini, dai quali alcuni cortigiani non si rilevarono neppure,
siccome avviene ai giunchi cresciuti in piaggia, che per lo
assiduo soffiare dei venti rimangono curvati. Poichè da una
parte e dall'altra si furono reiterate quattro volte e sei le
cordiali accoglienze, e soprattutto sincere: e poichè in
diverse guise i cardinali visitatori ebbero accertato il cardinale
visitato essere venuti unicamente mossi dai desiderio di
riverirlo, questi, parendo avere sfogliato assai il carciofo,
prese a tastarli, così alla lontana, sopra le
nuovità che correvano per Roma. Allora i cardinali Sforza e
Barberini, conoscendo dove il falco aveva a cascare, intenti a
tenerlo a loro agio sul vergone, si mostrarono ignari;
sicchè al Cinzio fu di mestieri favellare più
aperto. Eglino affettando di entrare a malincuore sopra un
discorso che avevano concertato di già, ed imparato a
mente, ribadirono il chiodo già fitto dal Farinaccio,
aggiungendo parecchie altre invenzioni di loro, le quali, essi
dicevano, palesano come temerarii sieno i pubblici giudizii, e
inducono la necessità, pel decoro del pontificato, di
smentirli solennemente; molto più che correvano tempi
calamitosi per la Chiesa, e gli Eretici, non pure in Francia ma
nella Italia eziandio, stavano al varco per accogliere ed
accreditare siffatte calunnie.
Molti furono i ragionari tenuti in proposito infra cotesti
porporati, che qui non importa referire. Basti sapere che il
Barberini e lo Sforza si destreggiarono in guisa, che lasciarono
il cardinal Passero pensoso, e persuaso della necessità di
dovere abbondare in larghezze intorno alla difesa dei
Cènci; conciossiachè da queste oggimai confidava
raccogliere più largo frutto, che non dalle
asperità. Ne conferiva pertanto col Papa, che di leggieri
indusse nella medesima sentenza; e il Farinaccio, con mille
carezze blandito, ebbe la soddisfazione di sentirsi dire proprio
dalla bocca dei cardinali nepoti Pietro Aldobrandino e Cinzio
Passero, che a riguardo suo concedevasi quanto aveva supplicato.
Da questo primo vantaggio il Farinaccio ricavava ottimo augurio, e
n'esultava. Maleaccorto! I nepoti del Papa vincevano lui in
iscaltrimento, quanto egli vinceva loro in ingegno.
Il Farinaccio, dopo aver reso ad ambedue quelle grazie che seppe
maggiori, si fece a trovare, senza frapporre dimora, gli avvocati
De Angelis ed Altieri, per indurli a comporre con esso lui il
collegio della difesa; e dopo qualche difficoltà li
piegò ad essergli compagni in tal causa, che si attirava
gli sguardi non pur di Roma, ma d'Italia. Nè a conseguire
simile intento si era diretto il Farinaccio senza ragioni
potentissime, e queste erano: che oltre a possedere cotesti
avvocati pratica grande dei negozii criminali (siccome a noi
posteri fanno fede certi loro libri in numero più scarsi,
ma in merito uguali a quelli del Farinaccio) il De Angelis, come
avvocato dei poveri, godeva di molto credito fra il popolo; e
l'Altieri, come personaggio di alto affare, era eccettissimo ai
nobili romani.
Nella conferenza collegiale il Farinaccio espose il suo avviso, e
parve a loro, come veramente egli era, pieno di pericolo; ma egli
con copia di ragioni ed efficacia di parola li persuase, la
congiuntura non offerirne altro migliore: doversi prendere questa
causa a trattare come i cerusichi i casi morti. Gli avvocati De
Angelis ed Altieri, compresa la gravità del negozio, si
pentivano quasi dello impegno assunto; e, potendolo fare
onestamente, avrebbero volentieri tirato addietro la parola,
quando il Farinaccio leggiadramente gli rinfrancò dicendo:
che il cielo spettava alle aquile, e la terra ai lumbrichi; e che
se fosse stata causa vulgare non avrebbero avuto ricorso a loro,
orgoglio e lume della Curia Romana.
E questa era piaggeria così patente, e soverchia, che
pareva non dovesse essere atta a vincere cotesti uomini, rotti
alla pratica del mondo. E pure non fu così; se la bevvero
bravamente, disposti ormai di secondare il collega a tutta lor
possa: e ciò perchè, come altre volte notammo,
uomini, pesci, ed uccelli da Adamo in poi si chiappano con le
medesime reti, e non se ne accorgono: ed ormai penso che non sieno
per accorgersene più.
Il Farinaccio pose fine a tutte coteste faccende mentr'era la
notte inoltrata, e veramente per quel giorno egli aveva operato
abbastanza: un altro se ne sarebbe andato a rifare le forze col
sonno; ma egli s'incamminò a trovare i suoi compagnacci,
che lo accolsero a braccia aperte, e il pensiero dei Cènci
rimase annegato nel giuoco e nel vino.
Ma alla dimane, appena il Farinaccio ebbe aperti gli occhi
trovò cotesto pensiero sul capezzale del letto; e posto in
disparte ogni altro affare, impegnò la sua cura esclusiva
alla causa dei Cènci. Abbigliatosi in fretta, si
trovò alle carceri di Corte Savella giusta in quel punto
che ne aprivano le porte.
Il Farinaccio, familiare di cotesti luoghi, non è a dire se
incontrasse lieti aspetti; molto più che, come prigione o
come visitatore, da gran tempo aveva ammansito i cerberi di quello
inferno, e li teneva quotidianamente bene edificati. Per ogni
evento veniva munito di un permesso di monsignore Taverna
governatore di Roma, il quale esibì al soprastante, e
questi ricusò (dopo averlo sbirciato di traverso, e
ottimamente riconosciuto) allegando che faceva troppa stima del
clarissimo signore avvocato per desiderare altra prova, che la sua
onorata parola. I notari gli mostrarono la procedura, che in breve
conobbe; prima, perchè si trattava di cose consuete in cui
si era versato tutta la sua vita; e poi perchè allora,
più che ora, i processi così criminali come civili,
forte si assomigliavano alle ostriche pescate a luna scema; di
cui, gittati via i gusci, egli è bazza se rimanga tanto da
bagnarti la bocca. Sbrigatosi da questo travaglio, chiese di
conferire co' detenuti Giacomo e Bernardino Cènci, e
Lucrezia Petroni, la qual cosa gli venne prestamente concessa.
Beatrice nella sua carcere solitaria, giacente in letto, non aveva
membro che non le recasse acuto dolore, e tuttavolta assai
più le percuotevano la mente gli affanni del cuore. Ella
pensava al suo amante. Certo il destino gli aveva fulminati, e
rotti in due come una rupe: il mare gorgoglia vorticoso e bianco
in mezzo allo scoglio diviso, di cui le cime non si riuniranno
più; e pure l'una sta di faccia all'altra rammentando il
mutuo infortunio, e porgendo testimonianza che la natura le
creò unite. La sua vita adesso mancava di scopo; ella era
diventata una esistenza invano: morisse, o vivesse, Guido non
poteva più stenderle la destra neanche per reggerla cadente
giù nel precipizio, - pensa un po' se per esserle sposo; -
poichè così, piacque a Dio, e così sia. I
martirii, che innocentissima durava, davanle pegno che la
misericordia Divina la voleva salva, parendole che i suoi peccati
potessero essere scontati da quelli; e, se non era presumere
troppo, teneva che ne avanzassero; ma dove avesse dovuto soffrire
anche di più, non le incresceva per la eterna salute
dell'anima sua. Tanto, tormento più tormento meno, alle
torture l'avevano assuefatta! Il dolore le si era attaccato
addosso come una seconda pelle! Di questa vita non parliamo
più; - fumo che ha fatto lacrimare, ed è passato; -
non ne parliamo più: ormai io sono fatta cittadina del
sepolcro... Ma lui!... lui perdonerà Dio? E perchè
non lo perdonerà? Il Signore perdona sempre a cui si pente
di cuore. - Ma si pentirà egli? Egli non si pentirà,
perchè fermo in pari caso a ricominciare da capo... e
questo è certo; altrimenti egli non mi avrebbe amato; ed io
nei piedi suoi avrei fatto, e farei come lui. Ahimè!
ahimè! O Signore, salvatemelo: dopo tanto martirio su
questa terra, almeno io possa rivederlo in paradiso, e
abbracciarlo, e stringergli la mano. La mano? Sì,
perchè la Provvidenza avrà tolto dalla mia memoria
il sangue, che un dì gliela bagnò... ma tutti questi
dubbi mi fanno tremar l'anima, e provare l'amarezza di una seconda
morte... Oh! avessi qui un uomo santo che mi chiarisse! - Se Dio
nella sua bontà me lo mandasse, egli apporterebbe al
travagliato mio spirito maggiore consolazione, che il Luciani non
diè tormento a questo mio corpo...
- Signora Beatrice, - interruppe la Virginia sporgendo il capo
dall'uscio - il clarissimo signor avvocato Prospero Farinaccio
desidera conferire con voi.
- Con me? Che ho a fare io con questo avvocato? Io non lo conosco.
Basta! ne sono venuti tanti! Venga anch'egli.
- E se voi dicevate, senz'altri preamboli, l'avvocato Farinaccio,
avvertiva alla Virginia Prospero comparso in questo punto sopra la
soglia della prigione, o non avreste risparmiato tanto fiato per
l'ora della vostra morte?
Il Farinaccio s'inoltrò di alquanti passi nella stanza, poi
soprastette alquanto maravigliando; imperciocchè quantunque
avesse udito favellare mirabili cose intorno alla bellezza di
Beatrice, ora gli pareva la fama troppo minore del vero. Cotesto
suo volto divino, adesso afflitto per gli spasimi che pativa, la
sembianza purissima atteggiata ad angoscia facevano parerla uno
degli angioli, che ministrarono al Redentore nelle ore della
passione. La petulanza dell'avvocato venne meno, e le
subentrò un peritarsi insolito; ond'egli, muto, e compreso
da senso ineffabile di reverenza, si accostò al letto della
giacente.
- Che volete da me? - incominciò ella con voce soave,
avvegnadio si accorgesse, dopo alcuna dimora, che il Farinaccio
aveva smarrito la parola; ed egli allora a stento rispose:
- Gentil donzella, io vengo mosso dalle vostre sventure, e
più assai dai preghi di tale, che piange lacrime
amarissime, e irrefrenate... tale, che voi a un punto aborrite
forse, ed amate... tale, insomma, che non fu mai tanto degno di
essere vostro come nello istante in cui vi perdeva per sempre...
Il vostro cuore con i suoi palpiti già vi avrà
detto... già vedo che vi ha detto chi sia quegli che mi
manda...
- Egli? - E piange?
- Piange, e vi palesa ch'egli morrà disperato dove voi non
procuriate aiutarvi... Anzi, perchè poniate in me
confidenza assoluta ed intera... egli mi ha commesso che vi
mostri, e lasci questo anello.
Beatrice prese l'anello, e tenendovi gli occhi fitti sopra
riprese:
- Ed egli vi ha messo a parte di tutto?
- Di tutto.
- Proprio di tutto? - E siccome il Farinaccio assentiva
vivacemente col capo, ella riprese: - E allora, mio signore, che
ne dite? Le mie nozze con lui non vi pare che assomiglino quelle
del Doge di Venezia, quando, gittato l'anello nel mare, egli
sposava l'abisso?
Il Farinaccio non rispose; bensì, essendosi rimesso dalla
commozione, pregò Beatrice a volerlo ascoltare
attentamente, chè la materia importava assai; e proseguendo
nel discorso le disse a parte a parte quanto noi conosciamo, e poi
le parlò dello stato in che si trovava il processo, e per
ultimo concluse: - Ora pei vostri e per voi, io, dopo averci
meditato con quella maturità che il negozio richiede, non
vedo altra via di salute se non questa una, ed è: che voi
confessiate liberamente, vostro padre essere caduto spento dalle
vostre mani...
Beatrice lo interruppe con un grido di sorpresa: ella lo guardava
fisso come trasecolata. Se cotesto era scherzo, il tempo, il luogo
e la condizione sua lo rendevano crudele; - se consiglio, e allora
così lo pareva mostruosamente strano, che pensò
davvero, o ella o l'avvocato avere perduto il bene dello
intelletto. Il Farinaccio, dagli atti del sembiante argomentando
la sua stupefazione, soggiunse:
- Comprendo bene che deve parervi singolare il mio consiglio, e
non pertanto io mi chiamo parato a chiarirvi sopra tutti i vostri
dubbi.
- Ora come, interrogò con voce alquanto alterata la
Beatrice, dopo tanti tormenti sofferti per salvare la mia bella
fama, io da me stessa mi lacererò le viscere, lasciando il
mio nome argomento di orrore pei posteri, mentre io divisava
lasciarlo di compassione e di rammarico?
- Gentil donzella, soffrite in pace ch'io vi dica cosa
incredibile, e vera. Tutti credono che voi abbiate ucciso colui,
che ormai vostro padre non può chiamarsi senza oltraggio
della natura; alcuni ciò fanno per un fine loro
particolare, e che a parer mio consiste meno nell'odio ingiusto
contro la persona vostra, che nell'appetito disordinato della
vostra sostanza: gli altri poi lo credono perchè vi
vogliono bene, e piace alla immaginativa loro considerarvi come
donzella mirabile, e vi salutano più virtuosa di Lucrezia,
più forte di Virginia. Il popolo vi ha posto prima in
questa trinità di fortissime donne romane, e la sua
finzione adora: se alcuno tentasse di sgannarlo adesso, oltre al
non prestargli fede, lo detesterebbe; forse anche trascendendo
sarebbe capace usargli mal tratto, come quello a cui parrebbe
essere privato del suo patrimonio di gloria. Amore di popolo
è amore di Giove, che per soverchia ardenza incenerì
Semele. Dove io su questa impugnativa fondassi la difesa, perderei
a un punto me stesso, e voi non salverei. Voi pertanto negando non
arriverete a persuadere nessuno che vi asteneste, dalla strage
paterna, nè preserverete i giorni vostri nè di
colui, che per amarvi altamente vi perdeva; dacchè i
giudici considerino le prove raccolte in processo sufficientissime
alla vostra condanna come parricida, e la pratica dei nostri
tribunali conceda facultà, attesa la confessione dei
complici, di sottoporre il prevenuto impugnante allo esperimento
della tortura finchè morte ne segua.
- Amen; e parmi che a tale mi abbiano condotto, che ormai poco
più è il cammino che mi avanza. Non è poi
così doloroso il morire, come per avventura si crede dagli
uomini: posso assicurarvene io; io, a cui davvero parve toccare le
porte della Eternità, - e più di una volta.
- No, povera signora, voi non dovete morire; ed avvertite, il
proponimento vostro, estimato magnanimo presso i gentili, nella
religione cristiana è peccaminoso; imperciocchè
offenda Dio tanto colui che porta le mani violente contra se,
quanto l'altro il quale potendo salvare la sua vita non si aiuta.
- Ed io consentirò a vivere, e a vedere abbrividire i padri
al mio appressarsi! Ed io mi affannerò a vivere per vedere
la gente, curiosa insieme e impaurita, appuntare gli occhi sopra
la mia fronte come se vi fosse scritta la parola
«parricida!» Ah! no. - Così piacesse a Dio
farmi scomparire intera da questa terra, e sperderne perfino la
memoria!
- Ma che pensate voi dalla opinione di avere trafitto vostro padre
ve ne sia venuto odio, o ribrezzo? Se così ritenete, voi
v'ingannate. Quando mai, finchè gli uomini avranno un cuore
che palpita al nome di virtù, terranno a vile, o piuttosto
non leveranno a cielo la castissima donzella, che, per amore della
pudicizia diventata eroina, la difese con atto pietosamente
crudele? Quanto più stretto il vincolo tanto era la
ingiuria maggiore, e sovveniva più legittimo il diritto di
resistere. Volgete la mente alle antiche e alle moderne storie, e
guardate un po' voi se infami si reputassero o scellerati i
figliuoli, i quali per giusta vendetta trucidarono i propri
genitori. Valgami lo esempio di Oreste: vedete; comecchè la
offesa ch'ei vendicava troppo differisse dalla vostra, nè
le circostanze fossero uguali, uccidendo egli la madre dopo molti
anni che la strage di Agamennone era avvenuta, non già per
salvarsi da imminente, e in altra guisa non riparabile danno,
tuttavolta la sapienza antica immaginò che la stessa
Minerva scendesse dal cielo, ed invisibile gittasse nell'urna il
voto, il quale, troncando le dubbiose ambagi dei giudici, lo
proclamò innocente.
- Dite, signore, e voi, dopo il giudizio di Minerva, avreste data
la vostra figliuola in isposa ad Oreste? - Parlatemi in
coscienza... talenterebbero a voi le nozze di un vostro figlio con
nuora parricida?
- La mia risposta non può satisfare questa domanda,
avvegnadio io sappia il vostro caso diverso; e, come a me, confido
in breve sarà chiarito anche altrui. La giustizia non
è frutto di tutti i tempi; dovrebbe essere, ma non
è; e la verità nemmeno; entrambi hanno bisogno di
fiorire, e maturare; e chi le coglie acerbe nuoce a loro ed a se.
In tempo opportuno le genti maravigliate sapranno come una
donzella sedicenne, dopo avere sofferto tormenti a cui pazienza
nè forza umana avevano potuto durare fin lì, per
amore della propria famiglia non rifuggisse di porre in
compromesso e la vita e la fama. Io per me, quantunque volte me
faccio a ripensarci sopra, non trovo persona che abbia fatto di se
così solenne sagrifizio, e che ne abbia ricavato, non
dirò lode, bensì venerazione affettuosa, se togli
questa una; ma egli era Dio, non uomo.
E così favellando stacca da capo del letto della Beatrice
una immagine di Gesù crocifisso, e, gittatala sopra la
coperta, prosegue: «Egli, troppo più che le mie
parole, col suo silenzio v'insegna, sagrifizio che sia; - egli per
la redenzione di coloro che lo avevano offeso, lo offendevano, e
l'offenderebbero accettò lo indegno patibolo; - egli oppose
alla giustizia eterna un riscatto eterno col suo sangue prezioso,
- battesimo perenne che ci scorre sul capo come lavacro di peccato
senza fine rinascente...»
- Sì, ma Cristo non moriva mica infame!...
- E chi fu dunque più vilipeso di lui? Chi più di
lui saturarono di vituperio e d'ignominia? A lui nella grazia del
supplizio anteposero Barabba ladro; a lui sul patibolo dettero
compagni Cisma e Disma ladri: egli poi ottimamente conosceva
questo, e se lo aveva presagito, secondochè apparisce nello
Evangelo, là dove dice: «Per cagione mia voi verrete
in abbominazione alle genti; ma voi prendete la mia croce, e
seguitemi: chi si vergogna di me, di me non è degno».
- Ed io dovrei prendere questo Dio di verità in testimonio
di menzogna?
- Deh! ciò non vi trattenga punto; dacchè, innanzi
tratto, è cosa contro natura costringere l'accusato a
prestare gìuramento, ponendolo nella necessità o di
spergiurare, o di nuocersi; - ma ciò pongo in disparte. -
Come, dico io, lice per legge divina difendere la propria vita
togliendola altrui, e non avremo facoltà di difenderla
affermando il falso per fine santissimo? Forse l'omicidio non
supera lo spergiuro? Certo lo supera: e fossero uguali; se col
primo si concede, per universale consenso, tutelare la vita, per
qual ragione non hassi a potere col secondo?
- Signor Avvocato, voi mi confondete, ma non mi convincete: la mia
mente non basta a confutarvi... però io... qui... dentro al
cuore, sento che la verità non è dalla parte vostra.
Non aveva peranche terminato di profferire queste parole, che
l'uscio del carcere si aperse di nuovo; e quinci affacciandosi le
sembianze dolenti della matrigna e dei fratelli, le si schierarono
intorno del letto. Essi non fecero motto, anzi neppure un atto, e
non pertanto da tutta la persona emanava la preghiera; - uno
scongiuro muto - un pianto del cuore, che le orecchie non
raccolgono, ma l'anima tremando sente.
Ormai l'avvocato aveva esaurita la sua eloquenza; più altre
parole anzichè giovare avriano nociuto, ed ei sel
conosceva; onde se ne stava disperato di potere riuscire nello
intento. Il silenzio si produsse lungo, durante il quale Beatrice
tenne sempre fissi gli occhi nel Cristo rimasto sopra la coperta.
Allo improvviso recatasi in mano cotesta immagine, e baciatala
fervorosamente, con voce lugubre, come se recitasse il salmo dei
morti, favellò:
- Poichè a voi così piace, e così sia. Tu, o
Signore, queste cose vedi, ed ascolti; se sono empie perdonale,
perchè fatte a fine di bene; se buone, retribuiscile come
meritano. In quanto a me, io so che pei disperati non vi ha salute
oltre quella di non sperare salute. - Il fato, che ci costringe,
cesserà i suoi colpi sopra la lapide dei nostri sepolcri: -
egli volgerà altrove i suoi passi quando avrà letto
sul marmo: «Qui giacciono tutti i Cènci decapitati
pei loro delitti». Però a cagione del mio
convincimento io non voglio togliervi l'ultimo raggio della
speranza; e poichè pei morenti è supremo refrigerio
bevere col guardo la fuggente luce, così non parmi essere
vittima affatto inutile. Se io potessi soffrire per tutti voi, ed
essere accolta in espiazione, o piuttosto per placare l'acerbo
destino che perseguita la nostra famiglia, lo avrei fatto; non lo
potendo, ecco io mi sagrifico inutilmente: di questo poi ho voluto
ammonirvi, per pietà del dolore che risentireste tornando a
precipitare in fondo della disperazione...
La finestra male assicurata cedendo in quel punto al vento, che
soffiava in cotesto giorno impetuoso, si aperse, e il lume che
ardeva davanti la immagine della Madonna rimase spento. Beatrice,
per questo caso nè più, nè meno mesta di
prima, mormorò due versi del Petrarca, adattandoli al suo
stato:
Siccome fiamma, che per forza è spenta, Se ne andò
in pace l'anima contenta.
Il Farinaccio a blandire il lugubre presentimento si
attentò insinuare alcune parole di speranza, ma gli
spirarono sopra le labbra. I Cènci piangevano, e Prospero
anch'egli si trovò la faccia inondata di lacrime: egli con
ambedue le mani sì coperse gli occhi, e, declinato il capo
sopra il letto, si pose a pensare profondamente se lo sovvenisse
partito meno periglioso del disegnato per salvare cotesti miseri,
e non lo trovando gemeva. Premendolo altre cure, con muti saluti
si accomiatò da loro; e l'anima sua, quasi baldanzosa
quando entrò in carcere, ora tremava per non mai più
sentito sgomento.
- Or via, che cosa vi è riuscito ottenere da quella dura
cervice? - domandò il Luciani al Farinaccio, in aria di
scherno.
- Andate, rispose il Farinaccio abbattuto; ella confessa - per
necessità di difesa - avere dovuto uccidere Francesco
Cènci.
- Davvero? - Caspita! Ma voi operate miracoli, signor Avvocato
meritissimo. Se voi consentite a rimanere in corte, in
verità di Dio io brucio tutti gli arnesi della tortura
ordinaria e straordinaria.
E il Farinaccio, a cui increbbe nell'anima la gioia di cotesto
malnato, quasi rimproverando rispose:
- Signor Presidente, ricordatevi che i Greci (ed erano pagani)
quando riportavano qualche vittoria contro ai Greci, invece di
esultare, ordinavano pubbliche espiazioni.
- Oh! voi siete un solenne letterato, che ve la camminate per la
maggiore; io poi, che vado per le vie più trite, so che i
contadini regalano le uova al cacciatore che ha ammazzato la
volpe. M'era dunque apposto dirittamente io? - Eh! con me non si
canzona; e quel visino di ave maria non mi aveva punto ingannato.
Cara di angel, coraçon de demonio, come dice lo spagnuolo.
E l'altro, in balìa di uno entusiasmo tanto più
fervente in lui quanto più rado, tolse per un braccio il
Luciani, e, trattolo al balcone, gli mostrò il sole
splendido nella pienezza dei suoi raggi, e sì gli disse:
- Se voi poteste staccare cotesti raggi di lassù, e
comporne una corona, voi non fareste cosa abbastanza degna della
virtù di cotesta divina donzella.
Il Luciani non aveva punto fissato il sole, bensì il volto
del Farinaccio; ed ora, tentennando la testa, in aria grave
discorreva:
- Avvocato mio, io considero cotesta maliarda con occhi troppo
diversi dai vostri; e ciò per due ragioni, una migliore
dell'altra: la prima è questa... ( - e qui cavatosi il
berretto mostrò la chioma rara, e canuta - ) la seconda
è quest'altra... ( - ed apertosi il giustacuore gli fece
vedere un sacchetto sospeso al collo, contenente gli esorcismi
contro le stregonerie - ).
Il Farinaccio raffreddandosi pensò, che gittare le perle
davanti a costui egli era proprio un far contro alla legge dello
Evangelo; onde, per riparare al tempo perduto, si restrinse a
raccomandargli presto presto di ricevere la confessione della
fanciulla tale e quale gli sarebbe stata dettata da lei, e si
allontanò.
Il Luciani, poichè ebbe tentato invano di far comparire
Beatrice davanti al suo tribunale, si recò in compagnia dei
colleghi e notari al carcere della desolata, e ne raccolse lo
esame; col quale, scolpando in tutto e per tutto la matrigna ed i
fratelli, ella attirava sopra di se il misfatto, dichiarando come
nulla avesse in se di premeditato, sibbene avvenisse per moto
improvviso dell'animo, commosso dalla immanità dello
attentato paterno: e, sostituendo se a Guido Guerra, narrò
le particolarità del fatto presso a poco nel modo col quale
era accaduto.
Alla domanda del Luciani sul come si fosse provvista del pugnale,
esitò alquanto imbarazzata; poi rispose costumare da gran
tempo portarlo addosso, nella intenzione di uccidersi prima di
patire violenza; ma insistendo il Luciani si contradisse, ed
è verosimile; che se costui si fosse industriato a trovare
la verità che aborriva, come rimase pago del falso che gli
piaceva, la Beatrice non avrebbe potuto sostenere la favola
suggerita. Tale non essendo lo scopo del Luciani, ei bevve grosso,
e reputò inutile investigare più oltre,
dacchè il raccolto a parere suo era più che
sufficiente per mandare a morte tutta la famiglia Cènci,
giusta l'obbligo assunto. Nella esultanza di vedere quanto prima
giustiziati tutti i Cènci, il Luciani obliò, o per
lo meno fece tregua con l'odio che portava al Cardinale di San
Giorgio; e, prese le carte processali, s'incamminò al
palazzo di sua Eminenza, come la fiera porta la preda nella
caverna per divorarsela in famiglia. - Entrato nella stanza di lui
non aspettò di esserne richiesto; ma ferocemente
palpitando,
- Abbiamo, disse,... abbiamo la sospirata confessione! Habemus
pontificem.
Il cardinale Cinzio contemplando quanta parte di cane presentasse
la faccia del presidente Luciani, trascorse col pensiero a certe
immagini di selvaggi cannibali mandategli a donare dall'America, e
si ritrasse involontariamente due o tre passi indietro.
Però, come colui che di ottima mente era, presa cognizione
del processo conobbe subito la inverosimiglianza dei deposti, e la
contrarietà delle circostanze: espresse anche il dubbio che
i difensori non disfacessero cotesto edifizio mal connesso, come
al rompere della olla incantata vanno in fumo le stregonerie dei
negromanti. Ma qui accorreva pronto il Luciani a sciogliere ogni
dubbio, avvertendo che le circostanze particolari dovevano
trascurarsi; una cosa aversi a ritenere unicamente, e questa
essere la confessione degli accusati di aver preso parte al
delitto o consentendolo, o commettendolo; riuscire impossibile in
qualsivoglia processo accordare tutte le contradizioni e bugie,
mediante le quali i colpevoli s'industriano sottrarsi alla
vendetta della giustizia: non bisogna in queste faccende andare
ricercando il nodo al giunco; e quando, come ora, il misfatto
è patente, e confessato da tutti, non essere punto di
mestieri processi, e nè tampoco difese, come la gloriosa
memoria di Sisto V ammaestrava allorchè, nel caso dello
spagnuolo, disse: «Che processi, e non processi? In simili
congiunture i processi sono superflui, e molto meno abbisognano le
difese; tuttavolta arringate quanto volete, purchè costui
sia impiccato prima di desinare; ed attendete a sbrigarvi
perchè stamane abbiamo fame, e vogliamo desinare di buona
ora»(). Questa si chiama giustizia! Questo è parlar
di oro! Io vorrei vedere un po' se a Papa Clemente non debba
riuscire quello che a Papa Sisto riusciva, e molto mi piacerebbe
guardare in viso chiunque volesse contrastargliene il diritto.
Forse le chiavi della Chiesa, da Sisto in poi, si sono
arrugginite? O le mani a cui le confidava adesso la Provvidenza
sono diventate più fiacche? No, viva Dio; e come non
è, così nessuno deve crederlo; e il fatto ha da
chiarire chi lo si pensa, e subito.
Il cardinale Cinzio non aveva bisogno di eccitamento; e
poichè la trista dicacità del Luciani lusingava la
sua passione, a lui parve che il nuovo presidente non avesse
favellato mai con tanto senno, nè con maggiore eloquenza.
Questi successi di tanto non avevano potuto tenersi celati, che
non ne corresse velocissima la fama per tutta Roma; di modo che il
popolo se ne mostrava commosso stupendamente, e su per le piazze e
pei crocicchi delle vie si vedevano i capannelli, e si udiva un
domandare ansioso fra le persone che s'incontravano; dagli sporti
delle officine di tratto in tratto sbucavano genti per ottenerne
novelle; le donne stavano fitte al balcone con l'orecchio all'erta
per raccogliere ogni più lieve sussurro. Io penso che con
agonìa punto minore di quella con la quale gli Ebrei
stavano intenti alla cima del monte Sinai pure aspettando la
parola di Dio, i Romani tenessero in questi giorni l'animo volto
al Vaticano in attenzione della parola, che doveva decidere il
destino dei Cènci; - e questa parola si fece sentire in
mezzo alla caligine precorsa da un lampo vermiglio, annunzio di
sangue:
«Sieno legati tutti alla coda di cavalli indomati;
strascinati finchè morte ne segua; i cadaveri poi gittati
nel Tevere!»
Così aveva parlato il Vicario di Cristo Redentore. Scorse
per le ossa dei romani il raccapriccio. Parve loro udire lo
squillo della campana, che suonasse pei funerali di Roma. Molti
recusavano fede a tale inaudita immanità; altri poi, e fra
questi coloro che avevano pratica della corte e della spietata
cupidità che la governava, riputavano il Papa capace di
questo, e di altro ancora.
La fama pervenne agli orecchi del Farinaccio, e palpitando cadde
nella opinione degli ultimi; onde corse smanioso a conferirne co'
cardinali protettori, e questi con altri del sacro collegio, i
quali comecchè in questo negozio procedessero indifferenti,
tuttavolta vennero di leggieri nel concetto essere il comando
papale esorbitanza enormissima, e tale, da disgradarne quanto di
più barbaro avesse mai osato quel duro frate di Sisto V. In
vero, comecchè nove soli anni corressero dalla morte di
cotesto pontefice, i tempi eransi di alcun poco scrudeliti,
nè gli stessi Ecclesiastici andassero persuasi del bene,
che taluni predicavano avere costui procacciato alla Chiesa.
Comunemente sapevasi, che della lettera indiritta da Sisto a
Enrico III re di Francia, dove occorrevano queste precise
espressioni «attendesse a purgare col ferro e col fuoco il
sangue incancherito nelle vene dei suoi sudditi»() n'erano
rimasti scandalizzati così i Cattolici come i Protestanti;
anzi gli Ugonotti avevano avuto ardimento di dire a viso aperto
del re Enrico «che il Papa, dopo avere messo su macello di
carne umana a Roma, pretendeva aprirne un altro a Parigi; essere i
consigli del Vicario di Gesù Redentore iniqui in Roma,
scellerati da per tutto. Tale operando, e tale consigliando, come
presumeva costui chiamarsi rappresentante di Dio in terra, se di
averlo tale si sarebbe vergognato anche il diavolo?»()
Però i cardinali gravi, cui stava a cuore la decenza del
seggio apostolico, s'incamminavano al Vaticano per distorre il
Papa da cotesto avventato provvedimento. Il Farinaccio, cui pareva
essere stato giuntato, corse per altra parte a trovare il
cardinale Cinzio; e siccome gli fu detto dagli staffieri ch'egli
era andato a complire l'Ambasciatore di Spagna, rispose gittandosi
sopra una cassapanca dell'anticamera:
- Aspetterò. - E all'atto parve, che senza mutar costa vi
volesse passare la nottata; ma indi a breve, agitato dallo interno
turbamento si alzò, e si pose a passeggiare gestendo, e
brontolando. Sovente egli guardava con ansietà la porta, e
più spesso asciugavasi il sudore, che copioso gli bagnava
la faccia per la fatica, e per la pena dello inopinato accidente.
Forse tornò, forse non era vero che il cardinale fosse
uscito, dacchè io sappia come nei servi in generale, ed ho
inteso dire in quelli dei prelati romani in particolare, la bugia
è la regola, e la verità la eccezione. Fatto sta,
che dopo spazio convenevole di tempo, - quanto bastasse a far
supporre verosimile il ritorno del cardinale, - avvisarono il
Farinaccio che poteva passare. Egli non se lo lasciò dire
due volte; ed affrettandosi concitato trovò sua Eminenza
seduta e tranquilla in vista, come se ricevesse un uomo nuovo.
Però gli fu forza abbandonare presto cotesta finta
impassibilità, avvegnadio il Farinaccio, tremando di
commozione, andatogli incontro audacemente, postergato ogni
rispetto, gli favellasse:
- Dunque cosiffatta è, Eminentissimo, la fede
sacerdotale?...
Il Cardinale, argomentando dallo esordio la perorazione, gli
troncava la parola con suono contenuto, ma turbato:
- Signor Prospero, io potrei dirvi che la promessa della difesa fu
da me fatta sub modo; vale a dire, che la confessione degli
accusati non uscisse così limpida ed esplicita da rendere
qualsivoglia difesa superflua: ancora potrei dirvi onorare io (e
non sono il solo a pensare così, ma altri troppo a me
superiore professa questa opinione) quei pellegrini intelletti,
che, come fiaccole inviate da Dio a illuminarci nelle tenebre del
dubbio e dello errore, vengono a incamminarci su la via della
rettitudine; ma per altra parte io ed i miei superiori disprezzare
altamente gli avvocati, i quali, abusando dello intelletto che
certo non sortirono per questo, torcono co' loro sofismi quello
ch'è diritto, rendono, cavillando, imbrogliato quello
ch'è piano; intorbidano le acque chiare per pescarvi...
- E vi par chiara, Eminenza, la prova del delitto? Da quando in
qua della confessione complessa si accetta la parte che dichiara
la colpa, e si respinge quell'altra che la giustifica? Insidie...
- Ma io, signor Prospero, tutto questo non voglio dirvi; solo mi
piace, e giova dichiararvi quello che già avrebbe dovuto
farvi conoscere la esimia perspicacia vostra. La mia promessa fu
data, e non poteva essere altramente, sub conditione che il Papa
acconsentisse: questa condizione, e voi siete per insegnarmelo,
nel placito dello inferiore, di cui la volontà è
sottoposta, comecchè non espressa devesi sempre intendere
compresa virtualmente. Ora se il sommo Pontefice, fonte di tutta
sapienza. e mio signore e vostro, trovò buono non approvare
il mio operato, con quanta giustizia voi, per ciò che mi
sembra, vogliate lamentarvene, lascio considerarlo a voi nel
savissimo vostro intendimento.
- Nacqui in Roma, crebbi nella curia romana, e voi dovete capire,
Eminentissimi, che tutti questi ripieghi tornano affatto inutili
per me: - io li conosco. Voi prometteste; e se non eravate da
tanto da mantenere, non vi dovevate esporre. Ma no; voi
prometteste, e dovete, e potete mantenere. Forse non sa il mondo
intero voi essere mente dei consigli pontificali, voi l'Augusto
zio preferire al cardinale Aldobrandino, a voi, nepote benemerito,
nulla ricusare egli amantissimo? Io ottenni la confessione a patto
della difesa, confidando sopra certi argomenti, che or conosco a
prova quanto fossero infelici! Diasi, supplico, la difesa agli
accusati; altrimenti, sapete che cosa si dirà per Roma? Che
furono traditi gl'innocenti, e che nella capitale del mondo
cattolico Giuda ha un compagno...
- Signor Prospero, e voi?...
- Ed io sono quegli.
- La vostra mente, signor Avocato, parmi accesa oltre al consueto:
- calmatevi... questa esaltazione vi potrebbe nuocere...
calmatevi.
Il Farinaccio non era in istato di sentire il consiglio, e
nè la minaccia obliqua compresa in coteste parole; o, se
pure la sentì, e' fu come sprone a cavallo sfrenato: per la
qual cosa, bollente di sdegno e tutto avvampato nel volto,
proseguì:
- E come potrò calmarmi io? I tempi, e la corruzione
universale mi spinsero nel sentiero dei piaceri sregolati, ch'io
percorsi senza decoro, è vero, ma anche senza viltà;
e qui nel petto serbai sacro un luogo dove si fa sentire la voce
di Dio, che mi comanda palesarvi innocenti la Petroni e i
Cènci: la signora Beatrice, innocentissima, confessa a
istanza mia, per le supplicazioni dei suoi, ed in virtù del
medesimo amore, che persuase a Cristo sagrificarsi pel genere
umano. Nonostante la confessione della strage dello scellerato,
che la natura stessa si vergogna a chiamar padre, io confido che
nessun giudice cristiano vorrà condannare la figlia che
salva valorosamente la sua onestà. Dove io non ottenga
questo, io... io stesso le ho posto la testa sul ceppo; - su le
mie vesti, signor Cardinale, su le mie mani, se io non riesco, si
scorgerà indelebile il sangue innocente; quindi per me non
più quiete, nè pace; nè potrò piangere
tanto che basti, per mondarmi da! rimorso... ed io vi giuro su
questo santo messale, che in espiazione del mio non volontario
delitto io vestirò il saio del pellegrino, e dalla
Estremadura fino in Palestina, da Gerusalemme al Loreto non
lascerò dietro a me città, villa, o casale, dove io
non abbia predicato la innocenza della famiglia Cènci, e il
deplorabile errore di cui ella cadde vittima.
- Calmatevi, signor Prospero. Voi mettete troppo calore in questo
negozio; concedete ch'io ve lo dica. Voi non potete ignorare quale
alto concetto si abbia in corte di voi, e quanto ci torni grato
compiacervi, potendo. Questo in segretezza vi confido, che Sua
Santità non ha trasmesso ancora verun comandamento al
Governatore di Roma per la esecuzione della sentenza.
Procurerò frattanto di favellargli, e la supplicherò
umilmente a concedere che la difesa abbia luogo, facendole
conoscere essere in ciò impegnata la mia parola. Andate, e
state sicuro di questo, che non sarà mossa foglia senza
previo vostro avviso. - Ora, come amorevole vostro, mi sia
permesso avvertirvi, che essendo da molto tempo fermo in corte di
promuovere la persona vostra a carica cospicua, e giovarci dei
preclari vostri talenti in benefizio dello stato, voi non veniate
a rompere il disegno con le vostre mani, - troncandovi la via per
salire; e nel tempo stesso con modi e parole imprudenti non
facciate ricordare certe faccende poste a mezzo in oblìo, e
così fabbricarvi con le vostre mani il precipizio in cui
potreste rovinare. In breve avrò gusto di rivedervi.
E si divisero.
Veramente le parole del cardinale dettero un po' da pensare al
Farinaccio; ma scotendo la testa, le cacciò via come si
costuma dei fiocchi di neve posati sopra i capelli; e procedendo
infaticabilmente nello assunto impegno, radunò i colleghi
ed espose loro il minacciato tradimento, eccitandoli di
presentarsi al papa per far vive le proprie ragioni. A vero dire
non ebbe a spendere troppe parole per renderseli parziali;
imperciocchè nei varii componenti un collegio vediamo
prevalere sempre l'amore del corpo; e gli avvocati Altieri e De
Angelis, quantunque di natura dimessa, procedevano tenerissimi
delle cose giuste: incapaci certo a sopportare il martirio, ma
neppur tali da disertare, senza risentita protesta, la causa del
diritto. Convennero pertanto di condursi al Vaticano; e
poichè correva notizia che il papa ricusasse ammettere al
suo cospetto chiunque fosse andato a tenergli proposito dei
Cènci, statuirono che si presentasse il De Angelis come
avvocato dei poveri, sperando che il pontefice, ignaro della parte
che aveva assunto nella difesa dei Cènci, lo accoglierebbe;
e allora, colto il destro, lo avrebbero seguitato i colleghi, e,
genuflessi tutti ai piedi di Sua Santità, con gli argomenti
che l'occasione avesse persuaso migliori si sarebbero industriati
a farsi confermare la grazia della difesa, già conceduta
dal suo nepote cardinale di San Giorgio.
E come ebbero concertato, così fecero. Andando al Vaticano
essi videro tornare indietro le carrozze dei principali prelati e
baroni romani. Aguzzando gli sguardi taluni scòrsero nelle
sembianze disfatti, tali altri gestivano concitati, e pareva
eziandio che favellassero veementi parole; sennonchè la
lontananza impediva loro di raccoglierne il senso. Malo augurio
era quello. Fatti più cauti dalla necessità
divisarono presentarsi nell'anticamera separati, e confondersi
nella folla di coloro che aspettavano essere ammessi alla udienza;
allontanando perfino il sospetto, che gli muovesse un comune
negozio. Riuscì a bene il partito: annunziato il De
Angelis, ottenne licenza di presentarsi; ed aperta dal camerario
la porta per lui, l'Altieri e il Farinaccio, prima ch'egli si
riavesse dalla sorpresa, lo seguitarono, e tutti insieme in
diversi atteggiamenti s'inginocchiarono davanti al pontefice; il
quale, cruccioso corrugando la fronte e stringendo i sopraccigli,
interrogò con voce velata:
- Ch'è questo? - Che cosa vogliono da me le signorie loro
illustrissime?
- Santità, rispose il De Angelis levando supplichevoli le
mani, noi non ci alzeremo dai vostri beatissimi piedi se prima non
ci venga confermata la grazia, già promessa dallo
Eminentissimo di San Giorgio, di potere difendere la causa di quei
meschini dei Cènci.
Clemente VIII violentato, per così dire, contro ogni sua
previsione, dissimulava la collera che gli bolliva nelle viscere:
solo, con voce anche più velata, favellò:
- Dunque noi serbava la Provvidenza a contemplare come in Roma non
pure trovinsi scellerati che ammazzino il proprio padre, ma
avvocati altresì, i quali non rifuggano dalla difesa dei
parricidi?
Il De Angelis sbigottito lasciò cadersi giù le
braccia, non osando riaprire la bocca. Lo Altieri, cui parvero,
come veramente erano, strane le parole del papa, stava per dargli
convenevole risposta; quando lo prevenne il Farinaccio, che ardito
e franco così incominciò a dire:
- Beatissimo Padre, è nuovo udire da cui fu orgoglio e lume
della curia Romana salutati i difensori come campioni del delitto.
Noi non venimmo qui per difendere parricidi, ma ci siamo venuti
per supplicare il mantenimento di una promessa, ch'è sacra;
però che noi confidiamo potere, mercè la difesa,
dimostrare come taluno degli accusati sia innocenti, tale altro
scusabile; tutti poi meritevoli della commiserazione di vostra
santità. Voi, Beatissimo Padre, li reputate colpevoli, e
noi c'inchiniamo davanti la vostra convinzione; noi li teniamo
innocenti, e chiediamo, come di diritto, sia rispettata la nostra;
- conciossiachè la voce della coscienza ci venga da Dio, e
nelle bilance dell'Eterno pesino tutte ugualmente le coscienze
degli uomini.
Il Farinaccio pronunziava coteste parole con modo solenne;
sicchè, comunque genuflesso col corpo, per virtù
dell'anima pareva che, seduto egli nella cattedra dello Apostolo
di Cristo, ragionasse col papa umiliato per terra. Il Papa rimase
percosso; nè gli sovvenendo in quel punto altro partito
alla mente, quasi per acquistar tempo, rispose:
- Alzatevi! - Poi, levati gli occhi sospettosi sul Farinaccio lo
fissò uno istante, e gli domandò:
- E voi siete il signore avvocato Prespero Farinaccio?
- Sono Prospero Farinaccio, indegnissimo figlio e suddito di
vostra santità.
- E sua eminenza il cardinale San Giorgio ha veramente promesso a
voi la grazia della difesa dei Cènci?
- A me, Beatissimo Padre.
- Il cardinale San Giorgio manterrà quanto ha promesso.
Andate in pace.
La voce del pontefice per essere velata non suonava meno
minacciosa, come tuono, che per venire di lontano non cessa di
annunziare la tempesta; per la quale considerazione l'Altieri,
dubbioso di essersi pregiudicato nella estimativa di lui, appena i
suoi colleghi ebbero varcato la soglia della porta, che, tornato
addietro, si gettò di nuovo in ginocchioni davanti al papa,
e gli disse:
- Beatissimo Padre, degnate aver mente che essendo ascritto ancora
io al collegio degli avvocati dei poveri, non poteva in veruna
maniera negare il ministero della difesa a chiunque me ne avesse
richiesto.
Ma il Papa, simulatore e dissimulatore solennissimo, avendo ormai
recuperato intera la sua impassibilità, rispose mansueto, e
soave:
- Noi non ci siamo maravigliati di voi, ma degli altri; -
però, ripensandovi sopra, ho conosciuto come sieno
anch'essi uomini valorosi, e zelatori del nobile loro ministero.
Quando l'Altieri raggiunse i suoi colleghi gli trovò
stretti alla vita del cardinal Passero, che avevano incontrato per
via, ed abbordandolo senza cerimonie gli dicevano: tornare da
conferire con Sua Santità; avere ricavato da segni non
dubbii la sua ottima mente; volere che Sua Eminenza, se aveva dato
parola, che la mantenesse. Andasse egli pertanto, il benefizio
compisse; eglino starebbero in anticamera ad aspettare lo esito
del colloquio.
- Non sembra che voi pecchiate di troppa confidenza? notò
il Cardinale al Farinaccio ghignandogli d'un suo sorriso alla
trista.
- More romano, Eminenza, more romano. Gli antichi nostri
chiamarono il pegno da pugno, non si reputando sicuri se non
tenevano la guarentia nelle mani; e nè manco fidavansi a
citazioni, bensì strascinavano il testimonio in giudizio
per le orecchia.
Il Cardinale aggrinzò vie più le gote, e stese le
labbra; ed inchinata alquanto la persona, entrò nella
stanza del papa. Colà rimase quanto gli parve persuadergli
la decenza, e poi ne uscì fingendo allegrezza grandissima
per avere, in virtù delle umili sue supplicazioni, ottenuto
dal sommo gerarca facoltà che la promessa data da lui si
osservasse, e la proroga di giorni venticinque, affinchè i
signori avvocati con tutto comodo alle difese si apparecchiassero.
CAPITOLO XXV.
IL GIUDIZIO.
Leo rugiens, ursus esuriens, princeps impius
super populum pauperem.... multos opprimet
per calumniam.
Prov. C. 28. v. 15.
Aperta è la gran sala ove le sorti
Fur decise dei re, quando ancor Roma
Fu astuta, se non forte.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Questa è la sala che vede i dipinti di Raffaello, ed
ascolta le consulte dei sacerdoti: - questa è la sala dove
si discussero, e sovente ancora si decisero, i destini dei Re del
mondo; però che la forza, prima di spengersi, consegnasse
la fiaccola all'astutezza, siccome i servi costumavano fare nei
giuochi lupercali; e questa si affrettò a mettere in fiamma
i quattro canti della terra.
Quando i popoli, rotte ad una ad una le penne della grande aquila
che ecclissava il sole della libertà, sperarono de
riscaldarsi ai raggi de quello, ecco altre ombre si posero fra
mezzo all'uomo e alla libertà, e le mandavano le chiavi di
San Pietro - il pescatore ebreo. - Ma la forza si consuma, e
l'astutezza altresì; e se il pomo del brando romano non
giunse a conficcare il chiodo alla ruota della fortuna, molto meno
poteva farlo il pastorale del chierico. La vendetta rode di
nascosto, ma inevitabilmente, a guisa di vena di acque
sotterranee, la forza. Dietro un tronco di albero, dietro l'ara di
un nume, da per tutto e sempre tiene teso l'arco, e presto o tardi
saetterà il tendine d'Achille; ma la frode si logora
coll'uso delle sue stesse malizie, come l'orologio a polvere si
vuota lasciando cadere i grani della sabbia che misurano il tempo.
*
* *
Il Papa siede sublime sopra il capo di tutti, sotto un baldacchino
di velluto cremisi ornato di frange di oro. Sceso un gradino, gli
seggono sopra sgabelli attorno quattro cardinali: da un lato
Cinzio Passero cardinale di San Giorgio, nepote per parte della
sorella Giulia, e Francesco Sforza cardinale di San Gregorio in
Velatro; dall'altro Pietro Aldobrandino cardinale di San
Niccolò alle Carceri, nepote per parte del fratello Pietro,
e Cesare Baronio cardinale dei santi Nereo ed Achilleo, avvolti
nei magnifici loro paludamenti di porpora: poi, in un ricinto
più vasto, su stalli onorevoli, e cardinali, e vescovi, e
di ogni maniera prelati, cospicui per cappe o pagonazze o
vermiglie.
In mezzo, alla destra del trono, un banco coperto di panno scuro
per gli auditori di Palazzo e della sacra Ruota criminale
presieduti da straordinario presidente, sendo caduto infermo il
Luciani: dalla parte opposta un banco pari pel procuratore
fiscale, con parecchi cancellieri e notari: per traverso un terzo
banco destinato pei difensori.
I lanzi dalla barbuta e dalla corazza di ferro, l'alabarda sopra
le spalle vigilavano la sala, e respingevano addietro i curiosi
con brutte parole, e peggio fatti: orgoglio ad un punto ed
umiliazione antica della gente itala, appo cui è mestieri
tirare dal settentrione queste bestie dalla faccia umana per
esercitare la forza brutale. Nè mancarono dame e cavalieri
attillati, come se intervenissero a qualche festino; ed è
fama eziandio, che con i nastri neri pendenti giù dai
cartolari del processo fosse in cotesto giorno annodato più
di un laccio d'amore.
Ognuno seduto al suo posto. Intimato, secondo il solito, dagli
uscieri il silenzio, il Presidente, ottenuta licenza dal sommo
Pontefice, accennava con la destra al Procuratore fiscale, ch'egli
poteva incominciare.
Questi si levò. Intanto ch'ei si forbisce col fazzoletto la
faccia, compone la chioma e fa altre simili smancerìe,
tratteniamoci un momento a considerarlo. È del colore degli
antichi Cristi di avorio: l'occhio ha spento, opalino come quello
del pesce fradicio; i capelli tiene giù ripresi, e lisci da
una tempia, e paiono un salice che gli pianga su la testa il cuore
e il cervello da gran tempo defunti: muove le braccia come i
telegrafi marini: ora si rannicchia con la persona, ora sbalza su,
come un serpente di filo di ferro dalle scatole da tabacco. Solo a
vederlo di leggieri si comprende come al nascer suo la petulanza,
la presunzione e la stupidità menassero un ballotondo
intorno alla sua culla, e gli facessero un presente, cui egli poi
aumentò mettendoci di suo la ipocrisia.
Il nostro procuratore fiscale ecco si rovescia con molta
solennità le maniche della toga, e poi con una vocina, che
va di mano in mano rinforzando, dopo avere assicurato che per lui
non si era omessa diligenza veruna nello esame del processo, ed
invocato l'aiuto di Quello che non n'è mai avaro per chi lo
sollecita di cuore, raccontò come, a persuasione del
diavolo e da cupidità abbominevole spinti, persone non
nemiche, non estranee, ma parenti, ma moglie e figli macchinassero
la strage del conte Francesco Cènci, uomo per pietà
insigne; per lignaggio chiarissimo, per dottrina preclaro: disse
del mandato conferito ai sicarii Olimpio e Marzio; del sonno
traditore, del differito parricidio a cagione della festa della
Beata Vergine: dipinse l'orrore degli assassini, le truci minacce
della donzella per vincerne la repugnanza; il chiodo confitto e
riconfitto; il cadavere tratto pei capelli sul pavimento, e poi
con barbara immanità precipitato giù dal balcone:
favellò della prova, che in grazia delle salutari torture
emanava limpidissima dalla concorde confessione dei rei: si
diffuse intorno allo spavento del mondo inorridito a sentire come
in Roma, nell'alma sede della religione santissima, accanto al
soglio dell'ottimo fra i vicarii di Cristo siffatte scelleratezze
si commettessero. - Che più? - Il secolo corrotto
consentendo quelle licenze, che in breve toccarono l'estremo, egli
raccontò come il sole si fosse per la paura oscurato;
mentre, all'opposto, non era mai apparso chiaro come in quei
giorni: - e come le acque del Tevere, sgomentate, avessero
retroceduto alla sorgente; malgrado che a vista di tutti i Romani
avessero continuato a scorrere tranquillamente sino ad Ostia:
finalmente, apostrofando il Crocifisso pendente alle pareti,
confortò i giudici a richiamare alla mente i suoi divini
precetti allorchè comanda, che l'albero incapace a produrre
frutti buoni sia reciso, ed arso: nè qui trattarsi
già di frutti buoni, sibbene di pessimi, e scellerati.
Tentasi, egli soggiunse, di sorprendere la religione vostra, o
Signori della Ruota, col farvi considerare la giovanezza di taluni
fra i colpevoli, come se questo, invece di attenuare il delitto,
non somministrasse plausibile fondamento a procedere con asprezza
maggiore. Se di queste abbominazioni mostraronsi capaci gli
accusati o non tocca ancora la pubertà, o a quella giunti
appena, che cosa mai ci dovremmo aspettare da loro, diventati
adulti? Correremmo il rischio che la famiglia di Atreo sembrasse
un convento di cappuccini! Concluse finalmente con certa ipotiposi
da lui con somma diligenza elaborata, la quale descriveva l'anima
dello illustrissimo signor conte Francesco Cènci spinta con
violenza fuori di questa vita senza il conforto dei sacramenti, e
condannata, per avventura, al fuoco penace, soffermarsi sopra la
soglia dello inferno, scuotere i bianchi capelli intrisi di
sangue, e, sollevate le mani verso i giudici, gridare
disperatamente: «Vendetta! vendetta!»
Oh, fra i tristissimi, egli è pure il tristo mestiere
quello del procuratore fiscale! Ed anche questo perchè mai
esercitato? Per un tozzo di pane. Ma quanto più onorato il
pane molle di sudore dello artigiano! Quanto meno reo quello
intriso dalle lacrime del servo della pena! Essendo costoro
provvisionieri del patibolo, dovrebbero cibarsi co' rilievi del
supplizio. Qual differenza sovente corre fra essi e il carnefice?
Certo, se ve ne ha, torna in vantaggio del carnefice: senza odio
come senza viltà egli tronca col ferro i meschini, cui il
procuratore fiscale ha già assassinato con la parola. Un
giorno Dio li giudicherà; ed io per me penso, che la misura
del primo sarà trovata a paragone più lieve. Ma le
parole che montano? Cotesti maladetti dal Signore, co' presagi del
vituperio in questa vita e della dannazione nell'altra si fregano
i denti bianchi di pesce-cane come con una rappetta di finocchio,
e tirano innanzi, fischiando, a rigare il mondo con una traccia di
sangue.
Dei difensori fu primo ad arringare l'Altieri per Lucrezia
Petroni, il quale con graziosa gravità favellò in
questa sentenza: molto col suo ministero e con se stesso
rallegrarsi, per non dovere spaventare i suoi giudici con immagini
ricavate dallo inferno; bensì corrergli obbligo di
supplicarli a volgere lo sguardo sopra una matrona pia e mansueta,
e di levare un grido, di vendetta non già, riprovatissimo
in ogni luogo, e davanti ogni consesso di cristiani; davanti poi
il Vicario di Gesù Redentore e giudici piissimi
abbominevole; bensì grido, che unico possa suonare
degnamente nei tribunali, ed è: «Giustizia!
giustizia!»
Ricercando in processo le cause muoventi al delitto,
dimostrò come veruna di quelle accennate dal fisco
convenisse a Lucrezia Petroni. Non la cupidità,
conciossiachè nulla ella avesse a sperare dalla morte del
marito Cènci, succedendo il coniuge all'altro coniuge
intestato in esclusione del fisco soltanto; e qui invece essere
conosciuto da tutti come il Conte Cènci avesse fatto
testamento per diseredare chiunque con vincolo di parentela gli
appartenesse: per la qual cosa ad appagare l'empie voglie della
sua cupidità, quando mai l'avesse concepita, ostavano gli
eredi necessarii e il testamento. Non può averla mossa il
rancore, avvegnadio ingiurie ed offese ella avesse sofferto ben
molte per la parte dello efferato marito; ma non essendosi fatta
viva mentre tuttavia giovane e bella se ne sente angoscia in
ragione del diritto che la donna crede di possedere a non doverle
sopportare, era, non che inverosimile, assurdo ch'ella agognasse
vendicarle dopo tanto spazio di tempo, e quando erano cessate, ed
allorchè gli anni volgendo a vecchiezza, il sangue scorre
più languido nelle vene, e l'animo, anco nelle nature
irrequiete, assume più miti consigli; specialmente poi
vendicarle con partite così atroce ad un punto, e
pericoloso. Se le sevizie (le ingiurie alla fede coniugale io
metto da parte) avessero perdurato, donna Lucrezia ricorrendo ai
tribunali avrebbe ottenuto la separazione dal marito; la quale in
quanto al vincolo non concedesi, ma in quanto al domicilio, o
toro, sì: nè a lei mancavano aiuti di parentado
potentissimo, nè, provveduta di larga dote, le era mestieri
starsi presso al marito per timore di pecunia, o di scarsi
alimenti. - Molto meno aversi a credere le tentazioni diaboliche;
imperciocchè, sebbene alle tentazioni del maligno andiamo
tutti soggetti, pure, è la nostra santa religione lo
insegna, o ne vanno immuni, o le superano le anime zelatrici della
pietà. Ora, qual donna si mostrò più devota
di Lucrezia nostra? Il Fisco stesso, quantunque poi lo ritorca in
nostro danno, fa fede della pietà di donna Lucrezia
allorquando finge, che la strage di Francesco Cènci fosse
differita per reverenza della festa della Beata Vergine: ma io vo'
che il Fisco sappia, come una femmina penetrata da tanto zelo di
religione non offenderà, nè il giorno della sua
festa, nè mai, la Madre di ogni misericordia, la mediatrice
di ogni perdono.
E qui l'avvocato o s'ingannava, o tentava ingannare altrui,
imperciocchè la esperienza abbia dimostrato e dimostri,
come la devozione sincera (di quella ostentata per ipocrisia non
è da parlare) vadano congiunti i consigli più
tristi. Basti rammentare per tutti Giacomo Clemente, uccisore di
Enrico III, il quale si apparecchiò alla strage col
conforto del pane eucaristico, e con le discipline più
solenni della nostra religione. Certo egli è duro avere a
chiamare devozione sensi sì iniqui; ma ciò giovi ad
ammonirci, come anche delle devozioni se ne dieno di più
maniere: quella che circonda la morale con una corona di opere pie
e generose, e questa come santa deve riverirsi; e l'altra che,
ammogliatasi col delitto, si avviticchia com'erba velenosa intorno
alla croce, ed hassi a considerare come scellerata; e di questa ce
ne ha molta, anzi troppa; e i sacerdoti, non che sbarbarla, la
fecondano a tutt'uomo per ignoranza, per errore, e per interesse.
E s'io dica il vero lo chiarisca l'antica tariffa della Curia
Romana, che indica il prezzo col quale il malfattore può
ottenere l'assoluzione di qualsivoglia delitto.
Continuando lo avvocato prese ad esaminare atto per atto il
processo, affaticandosi con sottile industria a rilevarne le
irregolarità, e le contradizioni dei deposti, la debolezza
delle prove. Alla fine concluse supplicando la coscienza dei
giudici a non consentire che matrona così universalmente
reputata, dei poveri soccorritrice benefica, fosse sospinta per
sentiero d'infamia e di ferro nel sepolcro: ormai la sua favilla
mortale toccare il verde; non adunassero tanta procella per
ispegnerla... Anche uno istante... un solo istante, per dio, ed il
dolore e gli anni la cuopriranno di tenebre eterne... Deh!
lasciate ch'ella si spenga in pace...
Accorse secondo il De Angelis in pro di don Giacomo, ed anch'egli
si affaticò ad escludere la causa di delinquere supposta
dal fisco, e mostrò come non lo potesse muovere attuale
angustia di pecunia, avvegnachè il padre suo, per giusto
comandamento del sommo Pontefice, gli pagasse onesta provvisione,
e di più i frutti della dote della propria moglie godesse,
i quali uniti alla provvisione della consorte non erano
così scarsi, che alle spese domestiche sopperire non
potessero: molto meno doveva muoverlo a commettere l'atroce
parricidio la speranza di redare intero il patrimonio paterno,
imperciocchè corresse comunemente il grido, e lo stesso
Francesco Cènci lo andava predicando senza ambage, dei beni
liberi averlo diseredato, la qual cosa il fatto ha chiarito vera
pur troppo, e dei fidecommissarii non lo poteva privare. Vecchio
essere il Conte Cènci, ed ormai giunto con gli anni a
quella estrema parte della vita, dove ogni lieve spinta precipita
nel sepolcro; laonde dovrebbe estimarsi non solo empio, ma folle
Giacomo Cènci, se con tanta scelleraggine e tanto suo
pericolo avesse affrettato quel caso, che in breve con sicurezza,
e senza rimorso gli avrebbe procurato la natura. Or come è
verosimile questo, che il figlio si mostrasse pazientissimo ad
aspettare allorquando il padre era lieto di prosperevole salute,
ed entrava in verde vecchiezza, e fosse poi intollerante d'indugio
allorchè quegli diventa decrepito e malescio? Don Giacomo,
alieno da lussuriosi sollazzi, dai vizii che contaminano il mondo
aborrente, incolpevole gentiluomo, buon marito, buon padre, come
allo improvviso svela così efferata indole, che vince ogni
belva più cruda? Come, nato appena al delitto, doventa
gigante, e con un passo solo ne percorre intera la carriera, che i
più perversi non toccano che con i passi ultimi? Questo non
consente la natura; e tutto quello che si oppone alle leggi eterne
del vero o devesi addirittura rigettare, o per lo meno ammettersi
con molta difficoltà. E qui, riprendendo con più
veemenza l'avvocato, io considero, diceva, nell'amaritudine
dell'animo mio seguitarsi una ragione affatto contraria, la colpa;
e le circostanze della colpa quanto più procedono opposte
al discorso naturale, tanto più volentieri si accettano;
quanto più avverse allo regole della umanità e del
diritto, tanto più facilmente si accolgono. Così non
va bene. Don Giacomo, e questo secondo che merita non avvertiva il
fisco, mentre si perpetrava il delitto non si trovava già
alla Rocca Petrella, bensì dimorava in Roma. Dunque
è chiarito, che con la sua opera immediata non potè
partecipare alla strage. Se poi il fisco sospetta che vi
concorresse mediatamente per via di lettere o di messaggi, ma dove
sono queste lettere e questi messaggi? perchè non li
produce, anzi neppure li ricorda? E sì ch'ei dovrebbe
avvertire come a lui incomba il carico della prova, e a noi basti
difenderci. - Il fondamento dell'accusa sta nella confessione dei
prevenuti. Io per me, spesse volte meco considerando, son venuto
nella sentenza che la confessione dello imputato, come cosa
indegna della morale e contraria alla natura, non debba pesare
sopra la bilancia della giustizia. Invero; con quale
carità, o senno possiamo costringere un uomo ad accusare se
stesso? L'uomo che si affatica ai suoi danni fu sempre reputato
privo del bene dello intelletto; e se la Chiesa concede sepoltura
in sacris ai miseri che contro se stessi portarono le mani
violente, ciò appunto fa perchè crede che abbiano
perduto il senno. Ora, dico io, accusare se medesimo di delitto
che importa pena capitale, non partorisce forse il medesimo
effetto? Maisì che lo partorisce; e la lingua uccide al
pari, e meglio, delle mani. Però, qui mi si obietta, noi
non abbiamo confessione spontanea, ma estorta per virtù di
tormenti. Bontà di Dio! Egregia risposta invero!
Verrà un tempo in cui i posteri maraviglieranno come noi,
loro padri, siamo stati o così stupidi o così
barbari, da accettare quale argomento di verità quello, che
per propria natura è segno manifesto di ferocia e di
errore...
Un mormorio di disapprovazione si sparse per tutta la sala; e il
Farinaccio stesso, tirata al collega la toga, lo ammoniva
sommessamente a tagliar corto sopra quel tasto. Il cardinale
Baronio, che fu uomo dottissimo per quei tempi, piegato il capo
sussurrò nell'orecchio del cardinale Aldobrandino, il quale
si mostrava nel sembiante soprammodo scandalizzato:
- Questi benedetti avvocati, quando hanno preso l'abbrivio, ne
piantano di quelle che non istanno in cielo nè in terra!
- E senza corda, rispondeva quell'altro, io vorrei un po' che
m'insegnassero come faremmo a sapere una verità. A che
monta, di grazia, la facoltà concessa a cotesti parabolani,
di oltraggiare tanto impudentemente la sapienza dei sommi dottori?
Procedendo di questo passo, io vi domando, Eminentissimo, che cosa
stia per diventare l'autorità? Perchè i giudici non
gli hanno imposto silenzio?
- Eminenza, lasciamoli dire finchè ci lasciano fare: quando
presumeranno tarparci le ale, on avisera; come dicono i Re di
Francia allorchè i Parlamenti rifiutano registrarne gli
editti.
Lo avvocato De Angelis girò il timone, e, come l'Altieri,
si fece con arguta dialettica a demolire lo sformato edifizio del
processo ingolfandosi in un tritume di osservazioni, le quali
stancarono la mente degli uditori, e nocquero non poco alla
efficacia dell'arringa. Finalmente dette termine alla difesa
rammentando l'antichità della prosapia, e la chiarezza del
sangue Cincio, e poi, con migliore consiglio, la moglie e i figli
desolati di don Giacomo: andassero cauti, egli diceva, i giudici,
ma cauti bene, a imprimere tanta nota d'infamia sopra così
nobile casato: pensassero, al figlio del parricida veruna donzella
stendere la mano; nessuno aprirgli il cuore: fatto, senza sua
colpa, oggetto piuttosto di raccapriccio che di pietà sopra
la terra, cuoprirlo di vituperio non pare villania, bensì
diritto, e dovere: veruno lo chiama a mensa; in chiesa lo
fuggono... Che più? a male in cuore sopportano comune con
lui il raggio del sole, nè la terra, che tutti accoglie nel
suo seno dopo morte. Ed anche a voi, Padre ottimo massimo degli
universi fedeli, concedete che io presenti la miseria di una
moglie, il lutto dei figli: nelle mani, che io supplichevole
inalzo al vostro soglio augustissimo, piacciavi contemplare le
mani di quattro fanciulli e di una donna; nella mia voce udire le
strida di cinque innocenti, che con lacrime e singulti, dopo Dio,
da voi sperano, ed attendono misericordia.
- Eminenza, favellò il cardinale Sforza al cardinal Cinzio,
eccovi il vostro fazzoletto, che vi ho raccolto per terra; ne
avrete bisogno per asciugarvi le lacrime.
- Io? - Io non patisco di pianto.
- Però l'arringa dello avvocato Niccolò mi è
parsa concludente assai; la perorazione poi senza dubbio felice.
- Eh! secondo i gusti, Eminenza. Per me, se la raffronto co'
precetti di Aristotele e di Quintiliano, parmi la più
meschina delle amplificazioni di uno scolare di rettorica; senza
contare l'eresie giuridiche ch'egli ha detto, segnatamente la
famosa contro la confessione ottenuta per vim torturae. Ma
silenzio; ecco che si leva il Farinaccio. Stiamo a veder correre
questo barbero; il palio è di quattro teste. Quanto
vogliamo giuocare, ch'egli lo perderà?
- Quando lo dite voi, Eminenza, non ci ha luogo scommessa; come
potrei avere io convinzione diversa dalla vostra?
Il cardinal Cinzio sogguardò sospettoso in faccia lo
Sforza; ma questi, arnese vecchio di corte, gli mostrò la
fisonomia aperta quanto lo scrigno di uno avaro.
Si levò il Farinaccio crollando la testa; e, fulminato con
uno sguardo d'inesprimibile disprezzo il Procuratore fiscale, che
ineccitabile lo riceve come il serpe che ha ingolato lo
scoiattolo, con gran voce prese a dire:
- Assista Dio! Non so, incominciando la presente orazione, se in
me sia maggiore la maraviglia, o il rammarico, ma certamente mi
perturbano gravissimi ambedue; imperciocchè, prima di
esercitare lo ufficio della difesa, mi trovi costretto a
richiamarmi alla mente il ministero dell'accusa. Il procuratore
fiscale, se l'antica dottrina oggi non è venuta meno, come
difensore della legge preordinata alla sicurezza di questo umano
consorzio, deve procedere nelle sue conclusioni severo, ma senza
acerbità; solerte, ma senza furore; arguto, ma senza
perfidia; e chiunque altramente costuma, a viso aperto gliel dico,
le parti usurpa del carnefice, e forse fa peggio. Come pertanto ho
potuto ravvisare io il difensore della legge nel magistrato,
smanioso come la pitonessa sul tripode, invaso dal demone che
l'agitava? E fu mala cosa. Come riconoscerlo io, quando
ricavò dai fatti conseguenze malignamente sofistiche? E
questa fu più brutta ancora. Come raffigurarlo
allorchè udii storcergli i fatti, alterarli, e, quasi
ciò gli paresse poco, supporne dei falsi, o immaginarne dei
non veri? La quale, a parere mio, fu bruttissima. Non vi
commuovete, signor fiscale, sul vostro seggio, perchè io
quanto dico intendo provarvelo...
E questo il Farinaccio diceva per figura rettorica davvero,
imperciocchè ei se ne stesse tranquillissimo; anzi si
guardasse le unghia delle mani, per vedere se le fossero ben
nette. Il Farinaccio continua:
- Voi ardiste descriverci il conte Francesco Cènci come un
modello rimasto, mercè di Dio, sopra la terra per far fede
della età dell'oro, e scorazzaste i classici, così
greci come latini, per foraggiarvi gemme buone a comporne il
diadema di virtù, che poneste sul capo al vostro eroe. O
pudore! Religioso Francesco Cènci? Certo inauguratore ei fu
di sante immagini, ma per bestemmiarle; edificatore e restauratore
di templi, ma per profanarli; apparecchiatore di avelli, ma per
seppellirvi, siccome egli andava empiamente ogni giorno
supplicando Dio, tutti i suoi figliuoli prima di morire. Pietoso
Francesco Cènci? Certo piissimo uomo fu egli quando
imbandì il convito, nel dì che gli pervenne notizia
della strage dei figli suoi; piissimo quando, propinando col
bicchiere colmo di vino a Dio, bandiva che dove fosse stato pieno
del sangue dei suoi figliuoli, ei lo avrebbe bevuto con maggior
devozione del liquore della santissima eucarestia. Queste
mostruosità poi non sono immaginate da me, bensì
corrono per le bocche degli uomini, e vengono attestate da prelati
e baroni di tutto onore degni, che all'orribile festino,
convitati, assisterono. A cui era ignoto l'uomo? Voi tutti lo
conosceste, e sapete quali e quanti gli si apponessero delitti:
forse taluni fra voi lo condannarono; chè il piissimo uomo
dell'accusa si trovò a sopportare parecchie condanne,
componendo la pena con la Camera Apostolica mercè
inestimabile quantità di pecunia. Venite meco, Signori;
vediamo un po' questo uomo, per dottrina preclaro, quali volumi,
frutto di notti vigilate, egli lasci a edificazione ed
ammaestramento dei posteri. Eccoli; il libro delle sue effemeridi,
dov'egli, non so se con maggiore inverecondia, o nequizia, andava
notando giorno per giorno i suoi delitti. Nè i misfatti di
sangue, parlo cose a tutti note, furono in lui i più
nefandi. I vincoli che il cuore umano desidera in questo terreno
pellegrinaggio per sollievo allo squallor della vita, egli ebbe
tutti: amico fu per diventare traditore: si finse amante per
sedurre la innocenza, e poi lasciarla in balìa della
disperazione: diventò marito per adulterare, padre per
commettere incesto. Questi vincoli ei strinse pel talento di
calpestarli; prese cognizione delle leggi romane per trasgredirle;
le divine conobbe per romperle. Se Francesco Cènci non era,
avremmo creduto che Tranquillo Svetonio temperasse lo stile nella
calunnia allorquando ci lasciava scritti la vita e i costumi di
Tiberio imperatore. Spettava al Cènci di fare agli uomini
palese come le immanità di Caligola, di Nerone, di
Domiziano, di Caracalla, e di quanti altri mostri Iddio
mandò nel suo furore a flagellare la terra, cumulate
insieme, potessero superarsi. Tale fu Francesco Cènci; e se
io ho calunniato la sua memoria, possa la sua anima in questo
momento affacciarsi sopra la soglia del tribunale, e gridarmi:
«tu mentisci». O anima sciagurata, dovunque tu sii
ascoltami. Lasciando ad altri la cura di rinfacciartelo al
cospetto di Dio, io qui, davanti al suo Vicario santissimo, ti
proclamo il più perfido e il più infame di quanti
scellerati apparvero nel mondo...
Il Procuratore fiscale, come se non fosse fatto suo, attendeva
sempre a guardarsi le ugna; non così il cardinale Sforza,
che sommesso diceva al San Giorgio:
- E' par che buone mosse abbia preso il barbero.
Ma l'altro non lo ascoltava, che in cotesto punto concludeva certi
suoi pensieri con la seguente formula: egli bisogna che sia con
noi, o contro noi. Intanto il Farinaccio prosegue:
- Qui noi vediamo un cadavere, la gola squarciata da larga ferita.
Chi è egli? Un padre. Chi lo ha trucidato? Sua figlia: ella
senza impallidire lo dichiara; senza rimorso il confessa; anzi, se
non lo avesse fatto, bandisce che tornerebbe a farlo. E chi
è questa femmina dai truci pensieri, e dai fatti più
truci? Eccola; una fanciulla di cui il sembiante par formato dalla
mano degli angioli, onde quaggiù si mantenga il tipo della
celeste purità. La Innocenza può baciarla in bocca,
e dirlo: ave, sorella. La Mansuetudine parla come lei, come lei
sorride. Non vi ha persona che lei non esalti, e levi a cielo; di
molti ha sollevato i dolori, ha pianto alle angosce di tutti. Che
cosa mai può avere sospinto la egregia donzella allo
esecrando attentato? Domandatelo al Fisco, ed egli ve lo
dirà. È stato il diavolo. Oh! il diavolo, se
l'avesse veduta, l'avrebbe tolta in iscambio di un angiolo, e
l'avrebbe adorata; e noi sappiamo che il diavolo sopra gli angioli
non ha potenza: i procuratori fiscali poi non vanno immuni da
siffatto pericolo perchè nessuno li estima angioli,
nè anche se stessi. Lasciamo pertanto il diavolo a casa
sua, e discorriamo di cause più umane. Forse la
cupidità del danaro? A sedici anni la gentil donzella pensa
al danaro quanto lo usignuolo, ch'empie delle sue melodie le valli
in una bella notte di estate; vi pensa quanto la farfalla, che
tuffa le ale nel raggio del sole di maggio. A sedici anni la
fanciulla è tutta amore pel cielo e per la terra: questi
due amori si confondono in lei, sicchè il suo primo amore
per oggetto terreno ritrae sempre in se qualche cosa di divino. Ma
poniamo, via, che in lei allignasse vaghezza di pecunia; come mai
poteva questa condurla allo abbominevole misfatto? Il censo,
ch'ella redava copiosissimo dalla madre, il padre non poteva
menomarle, nè torle: folle consiglio saria stato in lei la
fiducia di ottenere o tutto o parte del paterno retaggio libero
dai fideicommissi, avvegnachè Francesco Cènci, il
quale non si era proposto altro fine che quello di spogliare i
suoi figliuoli degli averi, della fama, e, se avesse potuto, della
vita, non si sa come si sarebbe mostrato pietoso unicamente con
lei; e peggio che follia sarebbe stato per la signora Beatrice
sperare nei beni fideicommissarii di casa sua (e qui levò
la voce più sonora che mai) chè i beni
fideicommissarii per comune consentimento dei dottori non possono
per veruna causa o pretesto, neppure per fellonia, alto
tradimento, o parricidio di taluno dei chiamati, esser tolti ai
legittimi suoi successori maschi di maschio...
Il vecchio pontefice a queste parole declinò la testa, e le
sue pupille traverso i sopraccigli irsuti parvero fiamme dietro
una siepe di rovi; il cardinale di San Giorgio levò la sua,
e con l'angolo esterno dell'occhio sbirciò il papa. I due
sguardi parve si cambiassero una parola, e questa per certo fu:
- Costui bisogna che sia dei nostri...
- Felice Olimpia! - riprende a dire l'avvocato - felice, che
rinvenisti orecchio per ascoltarti benigno, ed incontrasti il
Padre dei fedeli sollecito a sottrarti agli empi disegni del
genitore, mercè onorevole parentado. I cieli non concessero
alla signora Beatrice siffatta ventura; la sua voce, fra il
trambusto di tempi agitati, in mezzo al fragore delle armi, e alle
grida di trionfo per la recuperata Ferrara, non venne intesa. Del
suo memoriale, che dal profondo della miseria ella rivolse allo
eccelso Vicario di Cristo, non occorre più traccia nella
cancelleria, se togli l'appunto del giorno in cui fu consegnato, e
la testimonianza dell'ufficiale che lo ricevè. In questo
modo si chiudevano a lei quelle vie, che si apersero altrui; solo
egli era destino che rimanesse la misera abbandonata da tutti,
esposta, novella Andromeda, sopra lo scoglio della
necessità ad essere divorata da mostri più crudi di
quello che superò Perseo!
A me prende ribrezzo raccontare le atrocità commesse dal
conte Cènci contro la sua figliuola Beatrice. Ah!
perchè la natura mi fu avara di un cuore e di un ingegno
pari a quelli che prodigò al fisco, ond'io mi compiacessi a
esporre le parole piene di vergogna con le quali il tristo vecchio
contaminò le orecchie castissime di Beatrice, e
l'empietà con le quali ingegnavasi depravarne la virginea
intelligenza? Nè gli giovarono le lusinghe, le
inverecondie, le cieche ire, le insanie trucissime, le carceri
disoneste, le lunghe fami, i sonni spaventati, le affannose
vigilie, i colpi, le ferite, e il sangue co' quali egli
tentò superarla. - Noi vediamo un cadavere con la gola
squarciata; noi raccapricciamo a mirarlo... è un vecchio...
è un padre trafitto dalla propria figliuola: nessuno lo
nega... ella il confessa: - oh! anche a me il freddo penetra le
ossa, e i denti battono per orrore; ma via, facciamoci coraggio;
osiamo investigare qual fosse, prima di diventar cadavere, costui.
Schiusa, come ladro notturno, pianamente la porta della stanza ove
gemeva la sua desolata figliuola, avvolto le nude membra dentro
una zimarra, si accosta al letto della giacente: ella dorme e
piange, perchè alla infelice non sono amici nè anche
i sonni. Egli, il sacrilego, velata prima la lampada che la
vergine teneva accesa davanti la immagine della Madre della
purità, rimuove le coltri e nuda le membra, che natura fa
sacre agli occhi dei genitori. - chiunque è qui, che abbia
viscere di padre, venga meco a vedere il vecchio empio, con la
bocca contratta verso le orecchie come un satiro, gli occhi
avvampanti dinanzi ai quali è passato il fumo dello
inferno, tremante, fremente, curvarsi stendendo le mani, toccare
il corpo della vergine, e... Beatrice si sente strisciare sopra la
persona la pelle lurida e diaccia del rettile... si sveglia... che
mai farà?
Che farà? - Se empia ella fosse stata al pari del padre
suo, o abietta, voi allora avreste udito come altramente si
sarebbero ecclissati i soli del fisco; in bene altra guisa avrebbe
il Tevere del fisco ritorto le corna verso la sua sorgente. - Io,
o padri, vi ho tratto davanti a questo spettacolo, e non vi ci ho
tratto invano... Rispondetemi, dite, in cotesto momento quale
avreste desiderato voi Beatrice... empia... abietta come non fu la
Romana vergine, o miserissima com'ella di presente si trova? -
Beatrice vide faccia a faccia la sventura, e l'abbracciò
come messaggera di Dio... avventò il ferro, e sottrasse il
suo nome alla infamia. Noi, deplorando questa suprema
necessità, dobbiamo ammirare la fanciulla valorosa, che in
altri tempi Roma le avrebbe tributato gli onori del trionfo, ed
oggi la straziò co' tormenti, e adesso le minaccia la morte
ignominiosa.
Il divo imperatore Adriano ordinò non farsi luogo alla pena
del parricidio quantevolte il figlio uccidesse il padre, o questi
quello, per una delle quattordici cause contenute nell'Autentica
Ut cum appellatione cognoscitur. Bene è vero che
l'imperatore Adriano considera la strage del figlio adoperata dal
padre a cagione dello stupro della matrigna o concubina; ma per
consenso dei dottori il disposto di cotesta legge si estende
eziandio a qualsivogiia altro caso d'ingratitudine, non già
perchè proceda affatto impunito, ma con qualche pena
più mite della capitale si vendichi.
Ora sarò io forse costretto ad affaticarmi davanti a voi
per dimostrare quale, e quanto reato sia lo incesto contro la
propria creatura? Pare a voi che gli si possa paragonare lo stupro
della matrigna, o della concubina paterna? Parvi ch'ei sia da
agguagliarsi con le altre cause d'ingratitudine, come, a modo di
esempio, se il figlio non riscattò il padre schiavo, o, se
povero, non lo sovvenne? Lascio l'ecclissi al fisco, e il torcere
dei fiumi alla sorgente; ed in prova della enormità del
misfatto io vi rammento come il divino Aristotile, nella Storia
degli Animali, racconti di un cavallo, il quale fatto accorto di
essersi mescolato inavvertentemente con la madre sua, venne
soprappreso da così insanabile dolore, che non gli parendo
ormai di potere più vivere si lasciò scoscendere
giù da una rupe, punendo così da se stesso la
involontaria empietà, e liberando il mondo da un tristo
oggetto dell'odio degli Dei.
Fino dalla più rimota antichità, in ogni periodo del
vivere comune fra gli uomini andò impunito lo sventurato,
più che colpevole, che per evitare lo incesto trafisse il
suo parente, come si legge di Semiramide uccisa dal suo figliuolo
Nino mentre lo ricercava di scellerato abbracciamento; di Ciane
figlia, la quale ammazzò il padre Cianno che l'aveva
stuprata; di Medulina, che, deflorata dal padre ebbro, quello
senza misericordia condusse a morte; e, per causa meno iniqua
delle rammentate, Oreste, trucidata la madre, mentre da una
metà dei giudici vien condannato e dall'altra assoluto,
Minerva, dea della Sapienza, scende invisibile a depositare
nell'urna il voto assolutorio, per la qual cosa il figliuolo di
Agamennone ne usciva impunito. Questo esempio a me piacque
referire non perchè si abbia a credere come buono
litteralmente; ma per dimostrare come quel popolo civilissimo
della Grecia non dubitasse immaginare che la suprema intelligenza,
uscita adulta e armata dalla mente di Giove, concorresse a bandire
degno più di pietà che di castigo il figlio spinto a
trucidare la madre, per vendetta, comecchè tarda, della
strage paterna.
La legge prima, al paragrafo finale del Digesto de sicariis,
ammonisce espressamente andare immune dal rigore della legge
chiunque uccida per causa di stupro violento, a se od ai suoi
arrecato; e contemplando caso meno duro, la legge Isti quidem,
quod metus causa ci fa scorti che dal timore dello stupro, come
quello che percuote più veemente assai del timor della
morte, possiamo a diritto liberarci trafiggendo colui che lo
incute, quando non ci sovvenga altro partito migliore. A me, la
Dio grazia, non manca copia di esempii i quali chiariscono
scusabili coloro che ammazzano il violento commettitore dello
stupro. Leggesi in Valerio Massimo come Caio Mario sentenziasse
equamente ucciso Caio Lucio nepote da Caio Plozio Mancipulano per
liberarsi dallo stupro; e Virginio era dichiarato incolpevole
della strage della figlia, però che in questo modo operando
egli la sottraesse alla libidine di Appio. Quindi a maggior
ragione deve reputarsi scusabile Beatrice Cènci condotta a
più estrema necessità. Insania, per non dir peggio,
parmi ed è la pretensione del fisco, che vuole Beatrice non
dovesse spengere, bensì accusare il padre suo. Io
già vi esposi com'ella, mediante epistole, a personaggi di
molto credito si raccomandasse, onde dagl'imminenti acerbissimi
casi procurassero preservarla. Nel giorno del convito, di cui vi
tenni parola, con accese supplicazioni n'esortò i convitati
atterriti dalla ferocia del Cènci; alfine indiresse
memoriali al soglio pontificio. Se più alto, misera!, ella
non potè levare la voce, la vorrete voi incolpare
perchè la chiudevano troppo spesse le mura, i sotterranei
profondi, resistenti le porte, la custodia rigidamente sospettosa?
Dunque incolperete la supplichevole se i vostri orecchi, assordati
dai tripudii della vittoria, non poterono ascoltare il gemito
della sventura? Ci assista Dio! Tanto varrebbe di ora in poi
mandare assoluto il ladro, e punire il derubato perchè le
cose sue con sufficienti serrami non assicurò; non
più il feritore, ma il ferito deve inviarsi all'ergastolo
perchè si lasciava cogliere inerme dalle insidie, che gli
tendeva proditoriamente il suo nemico.
E fosse, anche per ipotesi, che la bisogna andasse come il fisco
suppone; la signora Beatrice avendo ucciso, e non accusato,
meriterebbe la pena della deportazione soltanto, secondo il
precetto della legge del divo Adriano, e non quella dell'ultimo
supplizio.
Il fisco erra eziandio quando sostiene che le cagioni addotte da
me valgano in caso di attuale, ed impendente violenza, e non
quando tra la violenza e la strage corra certo spazio di tempo, ed
allorchè la morte sia stata data di mano propria, non
già procurata per mezzo di sicarii.
Va errato, io dico, imperciocchè la signora Beatrice
confessi ben ella avere ucciso il padre di propria mano,
però nell'atto stesso che stava per consumare la violenza;
ed avvertite che, desta a forza, tra lo spavento e l'ira fors'ella
non ravvisò, anzi non riconobbe di certo, il padre suo. E
poniamo ancora che lo avesse riconosciuto... Ma sapete, o Signori,
che io, non me ne accorgendo, ho profanato fin qui un nome
santissimo; imperciocchè può egli darsi, senza
offesa manifesta della natura e senza ingiuria di coloro che ne
sono meritevoli, questo titolo a Francesco Cènci? Quando
uno sciagurato rompe il confino che la natura e Dio posero fra
padre e figlio; quando egli nè protegge nè ama la
sua creatura, all'opposto la perseguita e l'odia, il corpo ne
calpesta e lo spirito, quegli non è più padre; anzi
tanto è più scellerato, e meritevole di morte,
quanto erano maggiori in lui gli obblighi di proteggere e di
amare.
E fosse anche, per ipotesi ch'io nego, che la signora Beatrice
uccidesse lo sciagurato non mica su l'atto, ma dopo, sarebbe da
irrogarsi non già la pena dello estremo supplizio,
bensì della deportazione. La legge del divo Adriano si
versa appunto sul caso di figlio spento dal padre suo, non colto
su l'atto, anzi dopo certo intervallo di tempo, mentre si
aggiravano insieme per le selve cacciando. Dove il padre lo avesse
sorpreso sul fatto, allora non lo avrebbero dichiarato meritevole
della deportazione per la strage del figlio, sibbene lo avrebbero
dimesso. Tutti i dottori ci ammaestrano come il giusto dolore
della offesa diminuisca la pena anche quando sia trascorso molto
tempo fra la ingiuria e la morte.
E nella città nostra, in questa curia stessa occorrono
esempii di pene mitigate per la fragilità del sesso,
senzachè giusta causa, o pretesto si sapesse dedurre per
attenuare il delitto; e non volgono adesso molti anni che questo
avvenne in causa di parricidio, dove alla figlia ed alla madre
colpevoli si ebbe benigno riguardo. Ed io dovrò credere che
si deva adoperare spietato rigore a danno di una leggiadra, e,
quello che importa più, innocentissima fanciulla?
Ma deh! con la innocenza sua le valga la età breve di tre
lustri appena compiti, che non consente le truci cose
concepiscansi, nonchè commettansi; le valga la stupenda
bellezza, per cui è maraviglia di quanti la mirano.
L'oratore Ipperide svelate ai giudici le grazie dell'accusata
difesa da lui, così ne inteneriva i cuori, che quelli non
si attentarono a condannarla. Ed oh! perchè non è
qui presente la signora Beatrice? che io vorrei mostrarvi quella
fronte distesa dalle dita di Dio, tutta candore, tutta
soavità, messa nel mondo a far fede quale sia il sembiante
della innocenza nei cieli, e dirvi: Orsù; segnatevi, se
ardite, una nota d'infamia!
Ma dove sono io trascorso? E dove mi ha tratto la soverchia
ansietà di veder salva ad ogni costo la egregia donzella?
Ritorno sul cammino percorso; mi pento di avere implorato
pietà; mi condanno per avere chiesto misericordia: non
perchè sconvenga ricorrere in verun caso mai ai benevoli
affetti dell'uomo, che sono sempre i migliori; ma perchè mi
sembra che di questi possa fare a meno la signora Beatrice nel
duro passo in cui l'ha travolta la fortuna. - Quando noi tutti
saremo morti, e delle nostre ossa non si troverà neppure la
cenere: - quando i nostri tempi e le nostre cose andranno obliati,
il nome di Beatrice Cènci farà palpitare il cuore di
quelli che allora vivranno: - come il segnale galleggiante sul
mare avverte che nel profondo delle acque giace l'ancora,
così Beatrice Cènci, a noi sola superstite nella
fama, ricorderà questi anni ingloriosi caduti
irrevocabilmente dentro lo abisso del passato. Poichè da
lei avrà titolo e nome il secolo, sta a voi, o giudici, a
fare in modo che ne torni ai posteri o sempre gradita, o sempre
abbominevole la ricordanza.
Deh! non si dica che qui in Roma, nella sede del mondo cattolico,
imperio, la cortigiana ebbe simulacro nel Panteon; e Beatrice, la
vergine fortissima, il supplizio: la impudicizia trovò
onori divini, la castità la morte. Oh! potessi avere io
l'autorità di Scipione, che, imitandone lo esempio,
esclamerei adesso: «In questo mese, in questi giorni, nel
decorso anno una vergine romana, superata la debolezza del sesso,
vinta ogni viltà, seppe difendere valorosamente la sua
pudicizia: più virtuosa di Lucrezia, meno infelice di
Virginia, il suo nome e il suo esempio durino orgoglio delle donne
latine. Che ci tratteniamo ora più a discutere s'ella sia
colpevole, o innocente? Andiamo, giudici, difensori e popolo al
Vaticano, per ringraziare Dio di avere riserbata la inclita
donzella ai giorni nostri».
Poi favellò succinto anco di Bernardino, e disse:
- In verità di Dio io stava per dimenticarlo; ed infatti
l'accusa contro di lui non vale il pregio della difesa.
Bontà di Dio! E come supporre un garzoncello di dodici anni
complice del parricidio? O sia che si ritenga l'asserto del fisco,
ch'è falso, o sì veramente si accetti la confessione
della signora Beatrice, ch'è vera, noi troveremo sempre
assurda l'accusa. Se la Beatrice spinta da improvviso moto
dell'animo trafisse lo scellerato attentatore, e allora non le
furono mestieri consultori, nè complici. Se, all'opposto,
come finge il fisco, fu da sicarii perpetrata la strage del Conte
Cènci, e allora a qual pro metterne a parte Bernardino?
Forse per consiglio? Davvero dodici anni non paiono età
conveniente a somministrare consigli in materia di parricidio!
Certo il magnifico Pico della Mirandola, per la portentosa
dottrina, al diciottesimo anno salutarono la fenice degl'ingegni;
ma nel dodicesimo essere reputato, ed essere capace di sedere a
consulta per commettere un tanto misfatto, la è cosa da far
tremare Satana stesso per lo suo trono infernale. O piuttosto,
invece di consiglio, ricercarono Bernardino di aiuto? Oh! al
braccio di due sicarii cresciuti sopra i monti dello Abruzzo poca
forza poteva aggiungere un fanciullo dodicenne. Orsù, via,
io temerei recarvi oltraggio se mi fermassi più oltre a
favellarvi del garzoncello: torni l'accusa di lui fra le mostruose
visioni che l'uomo, inebriato dallo spettacolo degli umani
delitti, sogna talvolta, chiudendo gli occhi sul seggio della
giustizia. -
E fece fine. - O fosse la efficacia delle parole del Farinaccio,
o, come si ha da credere, piuttosto l'audacia del volto, la voce
sonora e il bel garbo del porgere, gli astanti rimasero percossi
da questa orazione, che io, riportando, ho scevrato dal troppo e
dal vano, in ispecie da tutte le metafore, se togli una o due, per
dar saggio del gusto del tempo ormai declinato a corruzione. Un
mormorio spesso e profondo volò di bocca in bocca; e se non
fosse stato il rispetto per la presenza del Papa, e troppo
più verosimilmente la paura delle alabarde dei lanzi, la
sala avrebbe rimbombato di applausi. I giudici si ritirarono per
sentenziare.
Dopo lungo aspettare corse voce, non si sa donde mossa, il decreto
non sarebbe stato profferito che a notte inoltrata. Allora gli
astanti si ritirarono, alcuni sperando, altri temendo, a seconda
della varietà degl'ingegni e degli affetti; tutti
però supplicando la Madonna del Buonconsiglio, che
ispirasse diritta la mente dei giudici.
Il Farinaccio, inebbriato dal rumore della propria facondia non
meno che dagli elogi che da ogni lato gli piovevano addosso, e
confidando, se ragione valeva, nello esito della causa, si dette
buon tempo, secondo il suo costume, fino a notte avanzata fra i
consueti compagnacci, e femmine di partito, non rifinendo di
levare a cielo la castità, la fortezza e la leggiadria
della vergine latina; e (quello che a prima giunta sembrerebbe
strano, e poi ripensandovi sopra riesce consentaneo alla natura
dell'uomo) cotesti scapestrati e coteste male donne celebravano, e
si onoravano della virtù di Beatrice come se la avessero
costituita depositaria della fama, che ognuno di loro avrebbe
dovuto presso sè gelosamente custodire. Tornato Prospero
tardissimo a casa, un famiglio gli consegnò un piego con le
armi papali, che disse essere stato portato da uno staffiere di
palazzo verso la mezzanotte. Appunto a quella ora il destino della
famiglia Cènci era stato deciso: egli lo aperse palpitando,
nella fiducia di trovarvi l'assoluzione dei prevenuti; ma
s'ingannò. Era un breve del Papa, che lo creava consultore
della sacra Ruota Romana, con le prerogative, onorificenze e
stipendii annessi a cotesta carica. Il breve, dettato nella vacua
magniloquenza, e con le decrepite leziosaggini della curia,
vantava la prestanza, ed anche le virtù del nuovo
consultore.
- Meglio così, esclamò il Farinaccio; non è
quello ch'io sperava, ma par che metta bene. Se gli fossi riuscito
fastidioso, Sua Santità non avrebbe atteso a darmi questo
splendido segno del suo gradimento.
In cosiffatta fiducia egli dormiva sopra le piume desiderate un
sonno di oro.
*
* *
A tre ore di notte, i giudici si erano adunati nella medesima sala
dove avevano arringato i difensori. Un solo candelabro, velato da
un cerchio di seta oscura, arde nel mezzo della tavola: tutti
siedono, ed incominciano a mettere parole sommessamente fra loro.
Il chiarore velato illumina a un punto, ed adombra uno affetto che
temono, e che, insinuatosi peritoso negli animi loro,
sbigottiscono al pensiero che scivoli a trasparire nel volto; e
non pertanto l'ora, il luogo, tuttavia vocale delle parole del
Farinaccio, e la coscienza che si faceva sentire come suono
lontano per acqua cheta, li disponeva a pietà. Di repente
al preside venne fatto di gittare gli occhi sopra un volume da lui
non avvertito fin lì, riputandolo parte del processo: egli
lo aperse, lo lesse, e il suo volto di pallido diventò
livido: lo prese con mano tremante, e lo passò al collega
che gli sedeva al fianco, e questi ad un altro, e così di
seguito finchè, fatto il giro della tavola, non fu tornato
davanti al presidente. Il tremito e il pallore di lui nelle vene e
pei volti dei colleghi si trasfusero a modo di favilla elettrica:
ormai tutti costoro, con la fronte china e gli occhi intenti sopra
il tappeto rosso, stavano assorti in un medesimo pensiero: pareva
che un giogo di ferro gravasse loro sul collo. Tale, io penso,
avessero a rappresentare aspetto i convitati alle mense dei re di
Persia, dove un arciere in capo tavola, con la corda su la noce
della balestra, stava pronto a saettare chiunque avesse ardito di
sollevar anco di un pelo la testa. Cotesto foglio aveva avuto la
virtù che gli antichi novellieri attribuiscono al teschio
di Medusa; gli aveva impietriti tutti. - Di vero egli era tale da
convertire in sasso ogni cuore di carne; però che
contenesse ricopiata e corretta la sentenza, che condannava a
morte la intera famiglia dei Cènci. Lucrezia, Beatrice e
Bernardino avessero mozza la testa; Giacomo fosse mazzolato; tutti
poi attanagliati e squartati: ancora perdessero i beni, confiscati
a profitto della Camera Apostolica.
Lungo, alto, terribile fu il silenzio. Si udiva distinto lo
schioppettio delle candele, che si consumavano ardendo: l'arena
dell'orologio a polvere si faceva sentire rovesciare i granelli
sopra i granelli: il rodere della tignuola i travi della sala
feriva l'orecchio: - silenzio di morte.
- Dunque sono vili i miei giudici?
Questa voce improvvisa conturbò fin dentro le viscere quei
pallidi venduti. Donde mosse ella? Gli occhi non possono
distinguere nè da qual parte venne, nè da cui. I
labbri che la profferirono schifano la luce: fra le ombre, in alto
della sala, s'intende un uomo agitare le membra gravi. Da lui per
certo si partiva cotesta voce, e i giudici lo hanno pensato;
sicchè tutti assorgendo in piedi da quella parte hanno
appuntato lo sguardo. E chi è colui, che anche in Roma ha
comando? Egli è il sacerdote scettrato, il Vicario di
Cristo Redentore, quegli che faccia a faccia favella con l'Agnello
di Dio, che immolò se stesso alla salute degli uomini... E
chi altri, tranne che lui, avrebbe osato in Roma favellare di
morte?
Disperatamente il preside afferrò la penna: abbrividendo la
intrise nello inchiostro, che gli parve sangue; abbrividendo
firmò... ma pure firmò; e poi, senza piegare il
collo, così obliquamente con la mano sospinse il foglio al
suo collega, e questi firmò, e fece come quegli, e
così gli altri. Se gli Angioli videro cotesta infamia,
certo piangendo si copersero gli occhi con le ale. Ma essi
firmarono, poi uscirono. Clemente VIII scese con pesanti passi dal
trono, si accostò alla tavola, stese a stento la mano
trafitta dalla podagra alla sentenza, e poi gemendo di angoscia se
la ripose nel seno, come un pugnale.
I giudici si separarono muti, ognuno detestando se stesso e gli
altri. Nel buio della notte, chi qua chi là andò
studiando il passo, a mo' di ladri paurosi di essere incontrati
dal bargello. Tutti riceverono il prezzo del sangue: promossi a
carica più eminente, ebbero stipendio maggiore: nessuno
sentì la verecondia di Giuda, riportando i danari al
sacerdote; nessuno il rimorso di lui, impiccandosi al primo albero
che si parò loro davanti per la via: vissero, e morirono
disprezzati e aborriti per di dentro; piaggiati, da cui ne aveva
bisogno, per di fuori; e venuti a morte, con meno di uno scudo i
parenti comprarono un epitaffio da dozzina, il quale, inciso sopra
una lapide quattro volte più grande di quella che per molto
spazio di tempo coperse in Roma le ossa di Torquato Tasso, faceva
fede cotesto carcame essere appartenuto a magistrati integerrimi,
della patria e della umanità benemerentissimi. Ma
l'artiglio, che gli straziava fra la camicia ed il petto, non
compariva di fuori; i loro tormenti non ebbero, e non potevano
avere consolatore: soffrirono muti, nè osarono levare
neppure un gemito per sospetto che l'eco lo raccogliesse, e lo
rincacciasse loro nel volto come un'accusa. Adesso cotesti giudici
da secoli furono giudicati. Torciamo lo sguardo dal loro destino,
imperciocchè quei ribaldi non meritino nè anco una
maladizione.
CAPITOLO XXVI.
LA CONFESSIONE
Di sante preci il frate soccorrea
La derelitta alla tremenda andata;
E levata la mano la sciogliea
Benedicendo, dalle sue peccata.
Grossi, Ildegarda
Il Papa si era riposto nel seno la sentenza come un pugnale, e, a
modo di sicario, luogo e tempo studia per adoperarla. Il compianto
del popolo gli giungeva al Vaticano come il fiotto della marea in
tempesta, ed egli aspetta che quei cavalloni dello impeto popolare
posino alquanto per condurre a fine lo immutabile proponimento.
Mentr'ei così speculando attende la occasione, ecco la
fortuna mettergliene una nelle mani, ch'egli stesso non avrebbe
potuto immaginare più tempestiva, o migliore. Francesco
Cènci, come sovente a se medesimo augurava, fu fatale alla
sua famiglia non pure in vita, ma parve davvero che anche dopo
morto stendesse la destra fuori del sepolcro per afferrare i suoi
parenti, e cacciarveli dentro insieme con lui. Quel Paolo Santa
Croce parente delta famiglia Cènci, di cui fu tenuto
proposito sul principio di questa storia dolorosa, sempre fisso
nel proponimento di ammazzare sua madre donna Costanza, non aveva
fino allora rinvenuto modo per poterlo fare senza suo manifesto
pericolo. Ora accadde che cotesta sciagurata signora si recasse a
Subiaco, per curare col vivido aere della campagna la declinata
salute. Don Paolo, avvertito di ciò, si conduceva di celato
in quelle parti, e presentatolesi dinanzi la uccise senza
misericordia a colpi di stile: poi, fatta raccolta del meglio si
trovava nel feudo dell'Oriuolo, fuggì la giustizia del
mondo, non quella di Dio; conciossiachè si ricavi dalla
storia del signor Novaes, come indi a breve egli si conducesse a
fare tristissima fine. Per questo caso si sparse per Roma
maraviglioso terrore; e il Papa, usufruttandolo in pro suo, si
dispose a spiegare rigidezza. Pertanto ordinava si arrestasse don
Onofrio marchese dell'Oriuolo fratello di don Paolo, indiziato di
complicità con lui. Il bargello eseguì il comando
mentre questo povero signore tornava a casa, dopo aver giuocato
una partita al pallone nel palazzo Orsini a Montegiordano; e
comecchè dal processo non si ricavasse altra prova, oltre
quella di avere scritto al fratello che se le turpitudini materne
affermategli da lui fossero vere si comportasse da cavaliere, fu
condannato a morte. La casa Orsina, potentissima di aderenze e di
credito, a cui per la morte naturale e civile dei Santa Croce
ricadeva il feudo dell'Oriuolo, si mise a celebrare a piena gola
le lodi del papa pel salutare rigore, e trasse seco buona parte
della nobiltà. Questi elogi poi crebbero smodati quando la
Camera, senza contrasto, acconsentì che il feudo mentovato
si devolvesse a casa Orsina; e ciò fu fatto col sottile
accorgimento di fuggir faccia di cupidigia, ed appianarsi la
strada a ingoiare i beni di casa Cincia, a cui miravano gli
Aldobrandini: ancora il cardinale San Giorgio aguzzando il
cervello faceva foco nell'orcio, spargendo ad arte discorsi
dattorno per impaurire i già troppo atterriti cittadini.
Non padre, non madre, diceva la gente sobillata, essere ormai
più sicuri nelle domestiche pareti; ogni vincolo di natura
disciogliersi; pericolo procreare figliuoli, pericolo allevarli
lattanti, più imminente pericolo tenerli in casa adulti. Lo
sgomento universale prendeva mille voci e mille aspetti, senza
trascurare, come sempre avviene, anche il grottesco; dacchè
padre Zanobi, maestro dei novizii nel collegio dei Padri Gesuiti,
levando gli occhi al cielo con un grosso sospiro affermava, che ai
giorni nostri i poveri genitori correvano pericolo di
addormentarsi vivi, e di svegliarsi ammazzati.
Il popolo, seguendo l'antico costume, dopo avere gonfiato il
flutto della sua passione fino all'altezza jemale andava di mano
in mano decrescendolo, per quietarlo finalmente nella inerzia. La
compassione popolare aveva accompagnato Beatrice fino alla soglia
del carcere: colà essendole state chiuse le porte in faccia
si pose in sentinella, e vigilò tutto quel giorno e buona
parte anche della notte: finalmente si sentì stanca, e
digiuna; il sonno le prese gli occhi, la fame i visceri: aggiungi
che la notte si faceva buia, e nessuno la vedeva. Ora la
compassione, sia pur della buona, se non è vista si
scolora; e per di più la notte stringeva fredda; ond'ella,
dopo avere tentennato un pezzo fra il sì e il no, decise
ridursi a casa per tornare il giorno appresso per tempo.
Colà giunta ella bevve, mangiò, e giacque nel letto:
quando la mattina si levò aveva quasi dimenticato la
Beatrice, e una volta che fu per la strada le occorse un caso che
la fece piangere, e quello che cadde sotto i suoi sensi ebbe
virtù di farle obliare quanto aveva raccomandato alla
memoria. Il cuore del popolo deve bastare per tante sciagure, che
non può affannarsi lungamente ed intero per taluna di
quelle.
Beatrice si rimase sola co' suoi dolori. Oh! questi, sì, ci
rimangono fedeli, e non ci abbandonano mai finchè non ci
abbiano consegnato alla morte in proprie mani. Gli uomini
costumano dire: fedele come un cane. S'ingannano; e' dovrieno
dire: fedele come il dolore, e direbbero meglio.
Quando al Papa parve tempo di muovere l'antenna e sciogliere la
vela, chiamato a se monsignore Ferdinando Taverna, che stava in
agonia del cardinalato conferitogli più tardi sotto il
titolo di Santo Eusebio, gli consegnò la sentenza
dicendogli:
- Vi renuncio la causa dei Cènci, acciò quanto prima
ne facciate la debita giustizia.
E subito dopo, per sottrarsi alle molestie, ed alla paura di
doventare pietoso, se ne andava a Montecavallo, sotto pretesto di
trovarsi più sollecito la mattina seguente a consacrare
monsignore Drikestein, vescovo di Ulma nella Svevia; in
verità poi affinchè gli ordini dati sortissero
tostano, e pieno compimento.
Monsignor Taverna, arnese docilissimo delle volontà papali,
si ridusse di corsa al palazzo, dove, adunata senza indugio la
congregazione dei giudici criminali, divisarono insieme il modo di
dare esecuzione la mattina veniente alla senitenza.
Nello aulico estratto del Giornale della confraternita di San
Giovanni decollato in Roma, l. 16. carte 66, leggiamo:
«Venerdì ai 10 settembre 1599 a due hore di notte fu
fatto intendere che la mattina seguente si doveva fare giustizia
di alcuni nella Torre di Nona, e di Carcere Savella, et
però a cinque hore di notte adunai la confraternita,
cappellano, sagrestano, e fattore, et andati alle carceri di Torre
di Nona, et fatte le horationi ci furono consegnati
gl'infrascritti a morte condannati, il signore Jacomo Cènci
et il signor Bernardino Cènci fratelli, del quondam signor
Francesco Cènci. In Corte Savella alla medesima hora andata
una parte dei confratelli, et entrati nella nostra cappella, et
fatte le solite horationi ci furono consegnate le infrascritte a
morte condannate, la signora Beatrice Cènci figlia del
quondam signore Francesco Cènci, e la signora Lucrezia
Petroni moglie del quondam Francesco Cènci gentildonne
romane».
E poichè mi par debito, dopo due secoli e mezzo, rammentare
ai presenti il nome di coloro che assisterono alla miserabile
tragedia, non mi fie grave trascriverli qui come io li trovo
registrati nel medesimo estratto.
«Alle predette carceri di Torre di Nona furono presenti
messere Giovanni Aldobrandini, messere Aurelio del Migliore,
messere Cammillo Moretti, messere Francesco Vai, e messere
Migliore Guidotti; chiamati in supplemento Domenico Sogliani
segretario, e l'illustrissimo Cappellano. A quelle di Corte
Savella andarono Anton Maria Corazza, Horatio Ansaldi, Anton
Coppoli, Ruggiero Ruggieri confortatore, Giovambattista Nannoni
sagrestano, Pierino fattore et il nostro Cappellano, et io Santi
Vannini, che scrissi».
Intanto che questa mano di pietosi toscani si affatica a renderle
meno amara la morte, Beatrice che fa?
Ella dorme come nella notte in che fu desta dal singulto di un
moribondo, e questo moribondo era suo padre a piè del letto
ammazzato. - Non la svegliamo; solo accostatevi taciti a
contemplarne anche una volta la divina bellezza. Non vi pare ella
davvero creatura celeste? Guardate le guance polite, che non
poterono perdere tutto il roseo della vergine anima sua; il sonno
tranquillo gliele dipinge di una tinta più vermiglia, e le
lumeggia col riflesso dell'ale candide, che le distende su tutta
la persona. Mirate i labbri; essi bevvero molte, ahi! troppe,
delle sue lacrime, e non pertanto mezzo schiusi sorridono un
mesto, eppure dolcissimo sorriso: - una volta questo sorriso
apparve raggio di stella traverso la rugiada di una rosa; adesso
potrebbe rassomigliarsi alla luce sinistra, che il sole all'occaso
manda alla nuvola pregna della procella. Più tardi
verrà la procella; più tardi scoppierà
l'affannosa passione; adesso il raggio par tutto porpora ed oro;
adesso quel sorriso sembra posato sopra cotesti labbri
dall'angiolo custode di Beatrice.
Guardate... no, non le guardiamo gli occhi: un dì, quando
ella girava gli occhi dintorno, l'aere si faceva più
chiaro, il raggio del sole raddoppiava di splendore, vinceva le
fiammelle del giocondo festino; adesso il pianto gli ha oscurati;
per essi solo si comprende quanta mole di miseria siasi aggravata
sopra di lei. Deh! non l'abbandoni il sonno; - potesse essere
eterno! Invero, e qual sarebbe pietà desiderarle di
riaprire le pupille alla luce? Luce, e dolore non sono la stessa
cosa per lei? Se si svegliasse nello amplesso di Dio, pei campi
eterni, lontano lontano dalle angosce di questa terra maledetta...
quanta sarebbe misericordia per lei! Signore, non farla ridestare
mai più; ritira a te il tuo fiato, col quale animasti un
giorno questa cara fanciulla; mesci nella tua grande anima la
scintilla spirituale, che in lei sente e ragiona: la farfalletta
leggiadra e passeggera ebbe le ale infrante; - non imporle nuovo
volo, o chiamala piuttosto al volo immortale. Invano! Dio tiene il
dito fisso inesorabilmente sopra la fronte di ogni creatura, ed i
fati forza è che si compiano. Le sue pupille devono aprirsi
a nuove, e più tremende visioni; le fibre del suo cuore
hanno a stridere per lo strazio di più pungenti sensazioni,
e poi morrà: vuole Dio che la sua vita si consumi al fuoco
del dolore, e la fiamma ne duri finchè la possa alimentare
frammento di osso, o filo di nervo.
Ella dorme ancora; ma il sorriso svanisce dai suoi labbri, e le si
contraggono i sopraccigli. Sopra cotesta fronte così
liscia, così piana, in breve ora col vomere di fuoco
tracciò profondo il suo solco la sventura. A che pensa? Le
si avvolgono per la mente i ricordi ultimi dello amore, che
però sono divini? O rammenta piuttosto le furie paterne, e
il lampo del ferro che gli squarciò la gola, o le patite
torture? - Udiamo; ella parla.
- Ma perchè mi sei così nemico, Dio? Che cosa ti ho
fatto?
E sollevata con violenza la destra, le catene di cui l'avevano
avvinta da pochi giorni a questa parte mandarono un suono che
percosse acuto, e si disperse lento per l'aere cieco del carcere:
pure non valse a destarla; ella geme, e dorme. - Però di un
tratto le stette davanti una larva, che vestì intera la
sembianza del suo fratello don Giacomo; la quale essendosi
pianamente accostata al letto, le disse: «Su, levati,
è l'ora». Al che avendo ella risposto interrogando:
«dove abbiamo ad andare?» la larva si curvò,
quasi volesse sussurrarglielo negli orecchi, e la testa con un
profluvio di sangue le cascò giù dalle spalle
rotolando sopra il lenzuolo. Allora Beatrice proruppe in un grido
disperato, e si svegliò.
Si svegliò; e sollevato risoluta il fianco, lanciò
intorno a se le pupille atterrite. Nulla appariva mutato: la
lampada ardeva a capo del letto davanti la immagine della Vergine;
oltre il letto discerneva poco; il silenzio profondissimo occupava
la prigione, e non pertanto in un angolo di quella, ed essa non
gli aveva veduti, due genuflessi oravano mentalmente il Signore
per l'anima di lei.
Ella sentì un passo, poi due. Alfine si staccò dalle
ombre un'ombra meno fosca, che inoltrandosi lenta lenta dentro la
zona dei raggi tramandati dalla lampada rivelò il venerando
aspetto di un cappuccino, attrito dal digiuno e dagli anni. Gli
sguardi smarriti Beatrice posa intenti sopra quella pallida
faccia, e non pronunzia parola. Il vecchio leva la mano
benedicendo; e recita la orazione che ha virtù di
scacciare, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello
Spiritossanto, lo spirito maligno dal corpo degli ossessi. Ella
lasciò che fluisse la orazione, poi dolce in atto gli
disse:
- Padre! meco non ha abitato il demonio mai.
- Così sia, figlia; ma egli ci gira sempre dintorno come
lione che rugge, epperò giova starci apparecchiati a
sostenerne l'assalto. Volete, figlia mia, accostarvi al tribunale
della penitenza? Io sono qui disposto ad ascoltarvi.
- Domani.
- Domani! E perchè vogliamo rimandare a domani quello che
possiamo fare adesso? L'uomo è egli padrone del domani?
- Così impreparata, - colta alla sprovvista, - svegliata a
forza da un sogno di terrore!
- E la morte ci assegna forse un'ora per sorprenderci? Non giunge
ella inaspettata come il ladro fra le tenebre? Cristo lo ha
detto...
In questa la porta del carcere stridendo sopra i suoi cardini si
aperse, ed al chiarore di una torcia furono visti entrare il
sostituto dell'avvocato fiscale accompagnato da alcuni cursori, i
quali con volto cupo, ma senza amarezza, come senza benevolenza,
si accostarono al letto di Beatrice. Il signor Ventura, che tale
era il nome del sostituto, così incominciò:
- Se differendone la notizia potessi, gentil donzella, mutare il
vostro destino, volentieri io lo farei. Il mio penoso ufficio mi
obbliga leggervi la sentenza...
- Di morte? - esclamò Beatrice.
Il cappuccino si coperse la faccia con ambedue le mani; gli altri
la declinarono. Beatrice si aggrappò smaniosa al mantello
del padre, e gemè dal profondo del cuore:
- Oh Dio! Dio!, ella gridava, com'è possibile che io,
così giovane, abbia a morire? Nata appena, perchè
vogliono in modo tanto acerbo cacciarmi via dalla vita? Signore...
Signore, qual colpa ho io commesso? - La vita! Ma sapete voi, la
vita a quindici anni che sia?...
- La vita, le risponde il cappuccino, è soma che va
crescendo con gli anni. Felici i non nati a portarla! Dopo loro,
felici quelli a cui Dio concede di deporla presto! Che cosa trovi,
o figliuola, nei tuoi giorni decorsi, che t'invogli a prolungarne
la trama?
- Nulla, - replica precipitosa Beatrice; poi si ferma sopra un
punto, che la memoria parve presentarle luminoso; ma fissatolo
appena, si ecclissò; ond'ella umiliata, a voce via via
più spenta aggiunse:
- Nulla... nulla...
- Ebbene, dunque, animo! leviamoci presto da questa mensa dove i
cibi sono cenere, e bevanda le lacrime...
- Ma il modo, Padre mio, ma il modo... oh!
- Mille vie, e tu lo vedi o figliuola, appresta la Provvidenza per
uscire di vita; una sola per entrarvi: la più sollecita
è la migliore; ma benedette tutte, purchè conducano
al paradiso.
- E la infamia, Padre, l'obbrobrio rovesciato sopra la mia
memoria?
- Questi sono i pensieri della polvere. Davanti al giudizio di
Dio, il giudizio degli uomini che cosa importa? Che sono i secoli
davanti al soffio del Signore? La fama passa, e il tempo che seco
se la porta. Sopra la soglia dello Infinito gli anni non si
distinguono neanche come polvere. Volgi, o figlia, il tuo sguardo
al cielo, e dimentica le cose terrene.
- Ah! la morte... - mormorò Beatrice, e la funesta parola
passando per le labbra vermiglie, le ghiacciò, le
imbianchì; subito dopo il freddo sudore le cosperse la
fronte, raccapricciò per tutte le membra, e i sopraccigli
declinando gravi le adombrarono le pupille smarrite.
- Soccorso! - gridò Virginia; e già muoveva in
traccia di spirito e sale per farla rinvenire, quando Beatrice
ricuperando i sensi disse:
- È passato; - e con le mani si spartì sopra la
fronte i capelli bagnati di sudore. Poi, rivolta agli astanti,
riprese: - Perdono, signori, e' fu un momento di debolezza. Lo
ebbe anche Gesù... scusatelo dunque in me, che sono una
grande peccatrice. Adesso, signore, potete adempire il vostro
ufficio: io vi ascolto.
Il clarissimo signor Ventura allora lesse la sentenza, non
omettendo clausula e nè un eccetera, con voce lenta,
monotona, lugubre come i tocchi della campana che suona per gli
agonizzanti. Quando ebbe finito levò gli occhi verso
Beatrice, perchè aveva già ritrovato nella sua
memoria certo discorsetto intorno alla virtù della
pazienza, altre volte in pari occasioni da lui favellato, e, per
quanto glien'era parso, con moltissimo frutto; ond'ei, mutatis
mutandis, si accingeva applicarlo al caso; ma vistala inconcussa,
non è da dire se rimanesse contento di risparmiarselo.
Inchinata pertanto la persona, usciva co' suoi cursori
incamminandosi a rinnuovare lo ufficio con gli altri condannati.
«Il discorso, pensava fra se, mi gioverà con quelli
che parranno averne bisogno: niente di troppo!»
- Virginia, soggiunse Beatrice prendendo per mano la fanciulla, di
grazia esci per un momento. Il tempo, come sai, stringe; domani...
e prima di morire ho da confessarmi, ed assettare le cose
dell'anima. Va, sorella mia, ti chiamerò...
Virginia si sentiva scoppiare il cuore; partì senza aprir
bocca, e quando avesse voluto farlo non le sarebbe riuscito.
Beatrice avendo avvezzato il guardo alla scarsa luce, vede nello
angolo della prigione un genuflesso che teneva il volto nascosto
nelle mani: anche lui cuopre un cappuccio, nè trapela parte
alcuna delle sue sembianze: sta immoto così, che non
rassembra animato. Perchè si trattiene costui? E chi
è egli, che presumerebbe essere messo a parte dei segreti
del cielo? La confessione non può ascoltarsi se non da uno
solo: così è sacramento; in diverso modo sarebbe
sacrilegio.
Ella tace esitante; il cappuccino, anch'egli esitante, non sa
schiudere il labbro. Beatrice guarda ora l'uno, ora l'altro;
nè capace a penetrare quel mistero, prolunga il silenzio.
Quel prostrato è Guido Guerra, l'amante disperato di
Beatrice. E a che vien egli in cotesta ora solenne? Perchè
si attenta a contristarle i suoi estremi momenti? Non gli basta
ancora? A nessuna creatura l'odio altrui tornò così
funesto, come lo amore suo a Beatrice. Fu egli che suscitò
in quel cuore di vergine uno affetto, che poi spense nel sangue.
Fu egli che intendendo, mal cauto, a salvarla, oltre la vita le
tolse la fama, reliquia ultima degli infelici traditi. Sia pago a
tanto, e si allontani. Viene egli forse a tentare se in lei duri
tuttavia amore? A che monta ciò? Se cotesta fiamma arde pur
sempre, ahimè! come la lampada della Vestale sepolta, arde
per morire, arde per illuminare il sepolcro. O forse viene egli a
bere l'ultima lagrima della desolata? - Addietro; cotesta sarebbe
voluttà di vampiro. O piuttosto viene a ravvivare
nell'anima di lei speranze ch'ella depose già, nella guisa
stessa con la quale le antiche vergini della Grecia si recidevano
le chiome sopra le tombe dei trapassati? La lasci morire in pace:
tanto, anco vivendo, entrambi sarebbero divisi (ed ella non glielo
tacque) da una fiumana di sangue, e lungo le sponde vagolerebbero
perpetuamente senza poterla, nè volerla valicare giammai.
Quando il destino mette in moto la ruota dello infortunio a
frantumare la umana creatura, o che cosa è l'uomo per
presumere di porsi tra mezzo la macina e il macinato? Lo ufficio
supremo ed unico, che rimanga allo amico dello sventurato,
consiste nello applicare un bacio su le commessure della lapide
sepolcrale come il suggello di una epistola finita. Il Signore,
che vede cotesto atto, romperà fra breve quel suggello, e
riparerà nella pace eterna il superstite inconsolabile.
Ma Guido ormai penetrò nella prigione di Beatrice. Se un
Dio o un demonio lo abbia spinto, egli non attese, nè sa.
Vedere volle Beatrice, e la vede adesso: ogni altro ignora; e
adesso sente eziandio che stringerebbe volentieri la mano della
fanciulla, dove le fosse stesa, quando anco in quel punto cadendo
una scure le recidesse, così intrecciate, ambedue. - Sente
che vorrebbe la sua testa posata accanto alla testa di lei, le sue
labbra incollate alle sue labbra, fosse pure giù dentro la
cesta che raccoglie i capi mozzi dal carnefice. Ed ella quando,
gittato il cappuccio sopra le spalle, avrà riconosciuto
colui che fu prima radice di ogni suo male, come sosterrà
il suo sguardo? Quali parole profferirà?
Guido si leva in piedi, muta alcuni passi vacillando; poi sta, e
piange. La fanciulla udiva scenderle sopra l'anima quelle lacrime,
soavi come il pianto della sua genitrice.
- Chi è che piange? - ella disse; - io non avrei creduto
che in questo luogo si chiudessero anime più desolate della
mia.
E guardando il cielo sospirò mestamente.
Cotesta voce, che si partì dalle labbra affettuose di
Beatrice, suonò all'orecchio di Guido armonia di paradiso.
Quello che non avrebbe osato la sua passione, egli fece vinto
dalla virtù della voce: superata la paura tirò
addietro precipitoso il cappuccio, ed ecco appare la faccia di
Guido, parlante e bella come una testa del Correggio. Tacito e
tremante si accosta a Beatrice: Beatrice lo ravvisa, e
indietreggia tremando; allora anche Guido dà indietro un
passo: nè quel misero amante, nè la donzella
ardivano, non che profferire parole, alitare; solo in quel
silenzio si udiva il cigolìo delle catene, scosse dai polsi
convulsi di Beatrice.
Come uccelli non ancora pennuti, levata appena l'ala l'abbassono
affaticati, così costoro alzano appena gli occhi per
declinarli subito al pavimento. Ella, Beatrice, fuggendo, e
cercando lo sguardo di Guido, avviene alfine che posi i suoi occhi
sopra i mestissimi occhi di lui. L'anima trabocca tutta dalle loro
pupille: dalle loro labbra, strette come il cuore, non muove
nè anche un sospiro. La bocca di Beatrice non
parlerà; assai hanno favellato i suoi occhi; però
che lo spirito dello amore passandole davanti come quello di Dio,
le abbia detto: «E tu presso di lui accusasti tuo padre; e
tu nel petto gli rovesciasti una furia implacabile; s'egli ti
amava meno non sarebbe diventato omicida: egli ti fece palese
amarti di amore supremo allorquando recise a un punto la vita
altrui, e la propria speranza; Guido ti amò piuttosto
santa, che sua». - E lo spirito dello amore balenò
dai suoi occhi amore e perdono. - Guido... fate di ricordarvi le
teste di San Francesco che riceve le stimate, dipinte da Andrea
del Sarto, dal Ghirlandaio, e dagli altri gloriosi maestri
dell'arte, - tale Guido inebbriato di passione adorava. Beatrice,
cedendo allo impeto che la strascina, muove per abbracciarlo; poi
si trattiene vereconda, e piange, e al suo pianto gli altri
piangevano.
I suoi labbri, rinfrescati da cotesta rugiada di lacrime, forse si
sarebbero aperti ad una voce, quando il frate, che presso loro
spiava i dubbiosi desiri, mettendo la sua in mezzo alle loro
teste, ed adombrandole in parte con la barba canuta che gli
pendeva in copia giù dal mento, con voce sommessa
così favellò:
- Silenzio! Una parola uscita dai vostri labbri sarebbe morte a
qualche altro di voi, e vituperio a me. Voi siete congiunti in
matrimonio. Quello che Dio lega lassù, l'uomo può
separare, non sciogliere. Ora basti, figliuoli...
E con fermo braccio gli separava. Mansueta Beatrice, di leggieri
acconsente alla preghiera; ma Guido, iroso, respinge il frate;
onde questi con dolce rimprovero così lo raumilia:
- Dunque tu vuoi spargere la vergogna sopra i miei capelli canuti
perchè ti fui pietoso?
Guido piegò la testa, e baciò la manetta di ferro
che serrava il polso destro di Beatrice; vide l'anello di oro
ch'egli le aveva mandato per mezzo del Farinaccio, e
sospirò una parola, che Beatrice o non intese, o non
curò. Il frate intanto acconcia il cappuccio sul capo a
Guido, e ricingendolo col braccio a mezza vita lo trae verso la
porta. Il frate disse ai sospettosi custodi che il suo compagno,
estenuato dalle vigilie, non aveva potuto reggere al desolante
spettacolo, e lo commise alla carità dei fratelli della
Misericordia; i quali accoltolo con ogni maniera di benevolenza,
lo scortarono fuori della prigione. Egli scendendo le scale
tortuose bagnava ogni scalino di lacrime.
Beatrice, come impietrita, stava fissa sopra la porta donde era
scomparso Guido; le pareva sognare; senonchè le catene,
scosse di tratto in tratto, la rendevano avvertita ch'ella
vegliava pur troppo. Involontaria guardò la manetta baciata
da Guido, e vide le sue lacrime decomporre, a modo d'iride, la
luce della lampada che in quelle si rifletteva; parevano gemme, e
tali sembrarono anche a lei, dacchè sospirando esclamasse:
- Ecco le gioie nuziali, che mi ha donato il mio sposo.
Quando Padre Angelico tornò nel carcere, ella tutta
carezzevole lo interrogò:
- Ed ora dove è andato?
- Al convento.
- Ah com'è misero!..
- Misero assai. Non sempre alberga in convento; però
spesso, nel fitto della notte, si ode bussare un lieve tocco alle
porte, e Guido si presenta. I frati lo accolgono, e lo nascondono
per carità e per gratitudine, a cagione delle molte
elemosine di cui egli ed i suoi antenati furono larghi al
convento. Non domanda cibo, o riposo, nè vuole: va in
chiesa, s'inginocchia davanti l'altare maggiore, e passa ore ed
ore sopra i freddi scaglioni come rapito in estasi; e se non fosse
il pianto, non parrebbe vivo. Grande è la miseria dell'uomo
per cui il pianto diventò unica testimonianza di vita. Io
per me credo che s'egli avesse qualche nemico, vedendolo ridotto a
tale ne sentirebbe pietà.
Così favellava il frate, e le sue parole cancellavano dallo
spirito di Beatrice le ultime orme della notte funesta, in cui
vide a piè del suo letto trucidato il padre per la mano
dello amante.
- Ma negli altri giorni dove si nasconde egli? Padre mio, quando
lo rivedrete, vi raccomando dirgli che si allontani da Roma;
quest'aria è funesta per lui; qui vivono uomini
implacabili, ed io lo so. Sapete voi chi sente un po' di
misericordia in Roma sacerdotale? - Il carnefice.
- Glielo dirò...
- E s'ei tentennasse, aggiungerete che di ciò lo pregate da
parte mia.
- Sta bene. Orsù dunque, figliuola mia, adesso è
tempo di volgere il pensiero al cielo: prostratevi a terra;
chè quanto vi umiliate, tanto sarete esaltata. La
contrizione è gemella della misericordia; e quando esse si
presentano unite al trono di Dio, di rado avviene che la giustizia
non deponga la spada.
Beatrice genuflessa apre al confessore i penetrali dell'anima:
lievi falli, tenui colpe, e ch'ella pure reputa gravissime,
dimostrano quale e quanta sia la innocenza di quel suo spirito
fiero e gentile. Il frate nello udirla imprecava alla dura
necessità, che l'aveva condotta a spingere le mani nel
sangue paterno. - Intanto Beatrice tace, e non si è ancora
accusata di parricidio. Il padre, esperto delle passioni umane,
attribuisce il silenzio a vergogna, e di questo, invece di
adontarsene, la pregia; onde la sollecita discretamente a svelare
le sue colpe intere, confortandola a rompere ogni ritegno; ma ella
ingenua gli risponde:
- Le mie colpe, per quanto ho potuto rammentarmi, ho confessato
tutte; per quelle che omisi involontaria, voglia la Bontà
divina usarmi la sua misericordia.
- Pure, cercate...
- Ricercherò da capo: e postasi sul meditare, prolungava il
silenzio oltre l'aspettativa del padre; al quale sembrando adesso
dissimulazione quanto prima reputò vergogna, non senza un
cotal poco di asprezza le domandò:
- E Francesco Cènci, dite, da qual mano cadde trucidato?
- Io non devo confessarmi dei peccati degli altri. E queste parole
pronunziò con tale candore, che il cappuccino ne rimase
sbalordito.
- E non lo ammazzaste voi?
- Io? - Io non lo uccisi.
- E come dunque ve ne siete accusata?
- Io, padre, ho sopportato tormenti così angosciosi, che a
ripensarvi sopra mi si agghiacciano le carni, e duro fatica a
credere che il mio corpo abbia retto senza disfarsi; e nondimeno
io mi era al tutto disposta di morire fra le torture in testimonio
del vero; ma con infinite preghiere i parenti, gli amici e i
difensori mi supplicarono, e con abbondanza di ragioni mi
convinsero ad assumere sopra di me tutta la colpa;
imperciocchè in questo modo, essi speravano, avrei salvato
la signora madre e i fratelli. Quanto a me poi, sarebbe stato
agevole farmi dichiarare scusabile a cagione delle sevizie e degli
attentati del Conte Cènci. Veramente le ragioni non mi
persuasero troppo, e neanche le preghiere mi avrebbero vinto;
sennonchè parendomi mostrare troppa durezza contro i miei,
piegai la testa, ed offersi il sagrifizio della mia vita e della
mia fama per tentar di salvare quella della signora Lucrezia e dei
fratelli. Io presentiva che avrei perduto me senza giovare a loro,
e lo dissi: il fatto ha dimostrato che io ben mi apponeva.
Pazienza! A Dio piacque così, e così sia; - per me
non istette, che i miei cari non andassero assoluti.
- Ma non affermaste voi la vostra colpa con giuramento?
- Gli avvocati mi cerziorarono, come davanti la legge divina ed
umana non essendo peccato la difesa della propria vita mediante la
morte altrui, molto meno poteva offendersi Dio, che noi la
tutelassimo col giurare il falso; ed io giurai...
- O sofisti! O sofisti! E quando mai nella verità vi
è perdizione?
- Pareva anche a me; ma egli mi raccomandava che io confidassi
pienamente in lui; e tanta è la reputazione di dottrina,
che gode, che temei comparire fuori di misura presuntuosa
anteponendo il mio al consiglio di lui...
- E chi è quegli che ve lo raccomandava?
- Egli. - Guido, che mi mandò questo anello qui... l'anello
che doveva essere benedetto alle nostre nozze. - E mentre
così favellava, la faccia per pudore l'era diventata di
fiamma. E il frate instava:
- Esponete partitamente, figliuola mia, lo intero successo; forse
voi avete peccato, più che non credete, contro voi
stessa...
- Ma i segreti di Dio?...
- I segreti di Dio, rispose severo il cappuccino, stanno sepolti
nel cuore dell'uomo; e all'uomo, voi lo sapete, puossi bene
strappare il cuore, il segreto no.
Allora Beatrice espose distesamente tutto il fatto, senza
ometterne la più lieve particolarità. Il frate, che
incredulo aveva incominciato a prestare l'orecchio, a mano a mano
ebbe a credere alla sembianza ingenua, alla parola pacata, e al
candore della vergine magnanima; ond'è, che mentr'ella
favellava tuttavia, il frate si desse della mano nella fronte
esclamando:
- Signore! Signore! anima più benedetta di questa quando
mai fu veduta quaggiù?
E posto ch'ebbe fine la Beatrice alla confessione, il frate
sbigottito favellò:
- Anima santa, io ti assolvo dacchè questo sia lo ufficio
del ministero; ma io protesto che dovrei prostrarmi davanti a te,
e pregarti che tu mi raccomandi a Dio. Da quali labbra potranno
giungergli più accette le preghiere, che da queste
purissime ed innocentissime tue? Prega da te stessa Dio; io
unirò le mie preci alle tue, che certamente giungeranno in
paradiso; - nè io già pregherò per te, che
non ne hai di bisogno; bensì per questa sventurata
città, e per la salute di coloro che ti condannarono.
La fanciulla si prostrò davanti alle sacre Immagini che
pendevano dalle pareti; e rivolgendosi, secondochè le donne
costumano fare più particolarmente, alla Beata Vergine, la
ringraziava di chiamarla così presto da questa vita, e
soprattutto di averle fatto grazia di vedere anche una volta quel
caro Guido, il quale non le potendo essere compagno in terra,
sperava le sarebbe unito eternamente in paradiso...
Ma qui si fermò, quasi avesse tocco del piè la
vipera, e sbigottita domandò:
- Padre, ditemi, in carità; ma Guido mio sarà
perdonato? Sarà fatto egli degno della salvazione eterna?
Potrò io non tremare al suo cospetto? Mi verrà
concesso di stringere quella mano che ha trucidato mio padre?
- E pensi tu, figlia mia, che potremmo noi godere le gioie del
paradiso se non obliassimo gli affanni terreni? All'anima
immortale la memoria di essere rimasta prigioniera dentro il
viluppo di creta tornerebbe non solo di gravezza, ma di vergogna.
- Ah! - rispose Beatrice sospirando, - eppure io avrei non voluto
dimenticare l'amor mio, - quantunque pieno di affanni...
Allora riprese a pregare fervorosamente Dio; e il frate accanto lo
supplicava tacito, affinchè su quella cara innocente non
facesse mai venir meno la costanza.
Un confortatore essendosi in quel punto affacciato sopra la soglia
della carcere, chiamò col cenno il frate e gli
sussurrò a voce bassa una parola; questi avendola raccolta
tornava presso alla Beatrice, e sì le diceva:
- Figlia, se desideraste trovarvi insieme con la vostra signora
madre vi sarebbe concesso.
- Venga... oh! venga, povera signora madre,... ci consoleremo
insieme.
CAPITOLO XXVII.
LE VESTI.
Mi vestirai di quella veste nera,
Ch'io stessa di mia mano ho trapuntita.
Grossi, Ildegonda.
Le parole hanno un confine, e più angusto di assai che
altri non immagina: la penna non è, come pensano, il
miglior conduttore della elettricità dell'anima. Quante
sensazioni, scintillate potentissime dal cuore, vanno a morire
languide sopra la carta! La carta sovente è il lenzuolo
sepolcrale dei pensieri: però io non descrivo la ebbrezza
dello amplesso di Beatrice con la matrigna Petroni, non
l'amaritudine di toccarsi guancia con guancia, bocca con bocca, e
sopra i volti confondere le mutue lacrime.
Si gittarono bramose le braccia al collo: - ahimè, le
catene impedirono di stringerselo liberamente. Tralascio i
singhiozzi convulsi, le parole desolate, i sospiri lunghi di
fuoco; - tanto mi avanza a raccontare di queste miserie tuttavia,
che a pur pensarvi l'anima affaticata trema.
Ma tutto ha fine quaggiù; anche il pianto, quantunque egli
sia il più copioso dei retaggi lasciati dal vecchio Adamo
ai suoi figliuoli: onde per ultimo entrambe si tacquero. Il cuore
di coteste donne ha bisogno di riposo per sentire un nuovo dolore.
Beatrice osservando la matrigna donna Lucrezia con abito sfoggiato
di stoffa a fiorami, guarnito di trina di Digione, le venne fatto
di guardare anche il suo; e con somma maraviglia notò come,
senza avvertirlo, anch'ella andasse abbigliata di un abito verde
con lavorii a spinapesce di oro, ch'ella costumava, ai tempi della
vita serena, portare a preferenza degli altri.
La memoria, amica troppo spesso importuna, le ricordava com'ella
andasse di cotesta veste ornata quando prima vide Guido, e fu
veduta da lui; e le ricordò eziandio come questi (pieno la
mente giovanile dei canti del Petrarca) le dicesse sovente, che al
primo comparirle davanti le parve Laura giovanotta.
Ma non correva stagione di accarezzare coteste liete rimembranze:
onde cacciatele via da se, si pose a considerare quanto fosse
sconvenevole cosa andare a morte con siffatti abbigliamenti
sfarzosi. E pensando, come pur troppo era vero, che donna
Lucrezia, immersa nel dolore, non vi avesse nè anche ella
Badato.
- Signora madre, le disse, quando noi altre donne imprendiamo il
viaggio della vita, i nostri censori dicono che per viatico
prendiamo la vanità; e se il pericolo ci coglie, lasciamo
anzi perire la nave, che gittar via il carico. E veramente affatto
torto essi non hanno. Degli altri vizii le donne possono, volendo,
emendarsi; della vanità no; perchè quelli si
conoscono, ma la vanità difficilmente, o non mai; e neanche
si può combattere perchè non sostiene punto
l'assalto; ma cede, e fugge, e fuggendo si rimpiatta sotto la
nostra persona come l'ombra a mezzogiorno.
- Beatrice non vi comprendo; per me queste le sono cose troppo
astruse.
- Ve le renderà più piane uno sguardo che gittiate
sopra di voi; vedete un po' come senza porvi mente vi siate
abbigliata?
- O gran Madre delle misericordie, esclamò donna Lucrezia
spaventata, vedendosi in cotesto arnese; - si direbbe che ho
perduto la testa!
Beatrice notò le ingenue parole, e quasi sorrise; ma subito
dopo contegnosa soggiunse:
- E poi mostrarci così, sarebbe per la parte nostra una
jattanza a sfidare la morte, la quale è lontana dai nostri
cuori. Noi la subiamo con rassegnazione poichè Dio ce la
manda; non è vero, madre mia?
- Voi parlate da quella savia, e costumata fanciulla ch'io vi ho
sempre conosciuta.
- Orsù dunque, Virginia, proseguì Beatrice: tu fa di
provvederci una stoffa qualunque, che basti a formare due cappe;
una per me, e l'altra per la signora madre: due funi, e due
veli... Virginia, o che non mi rispondi?
Virginia si sentiva un peso sul petto, che non le dava
balìa di formare parola; a singulti, dopo molto spazio di
tempo, favellò:
- Ho un taglio di tela bambagina di colore scuro, ed un altro di
taffettà pavonazzo, che mi comperò mio padre alla
fiera di Viterbo; - ma non me ne feci mai vestiti... perchè
il meglio per me è non essere osservata... nè
conosciuta... se li volete?...
- Certamente; e ti darò da comperarne altri meno lugubri,
dacchè una fanciulla da pari tuo non ha da usare colori
foschi, nè neri; - lo vedi, io, quando vissi, li costumava
verdi... E per le funi come si fa?
- Mio padre ne tiene...
- E i veli?
- Vengono somministrati dai fratelli della Misericordia... e qui
Virginia proruppe in uno scoppio di pianto.
Beatrice si posò la mano sul seno, come per comprimere
l'affetto che ne prorompeva, e disse:
- Bene; così avremo a pensare a meno cose ch'io non temeva.
Va, affrettati, Virginia, chè le ore ci sono misurate.
Virginia tornò co' panni, e Beatrice senza frapporre
indugio si mise a tagliare la tela. Ella ne teneva un lembo,
Virginia l'altro, e le forbici scivolavano con maravigliosa
celerità rompendo i fili.
- Osserva, Virginia, come si taglia agevolmente questo filo di
tela... la vita anch'ella è un filo. - Ora, vieni qua,
aiutami un po' a cucire, - a filzetta lunga, s'intende: tanto per
quello che ha da durare, basterà. Se io dovessi vivere
quanto durerà il punto, ch'io sto per cucire, in
verità non lo farei.
E le donne si misero in giro a cucire; ma Lucrezia e Virginia poco
frutto facevano, avvegnachè versassero più lacrime
che non mettessero punti. Beatrice con dolce rimprovero le
ammoniva:
- Perchè piangete nello apparecchiarmi questo camice, che
mi deve accompagnare nel sepolcro? Qui, in Roma, Papa Giulio
piangeva quando allogava la opera del suo sepolcro a Michelangiolo
Buonarroti? E dunque perchè piangeremo noi? Certo egli se
la ordinava troppo più magnifica che queste cappe non sono;
però ei non la vide terminare, nè all'ultimo ei la
ebbe conforme al suo desiderio; mentre noi avremo la consolazione
di terminarcele con le nostre mani, ed a seconda del nostro
disegno.
E la Virginia raddoppiava il pianto.
- Credi, fanciulla mia, quello che ci rende amara la morte
è la paura di morire: la morte in se io non reputa affanno,
o almeno ella è breve affanno. I nostri vecchi, nei tempi
antichi, per assuefarsi a considerarla come cosa ordinaria
ornavano di sepolcri le pubbliche strade, e sovente i giovanetti
sopra le tombe dei padri convenivano a favellare di amore. La
morte tiene per mano la vita, e così in giro muovono
alternativamente dinanzi al tempo. Anche nel discorso dimostravano
la morte essere condizione di vita; conciossiachè eglino
non dicevano mai: Caio è morto; ma Caio visse, Caio ha
concluso il suo giorno supremo, Caio fu. Mi sovviene adesso aver
letto come taluno, per tedio di malattia, avendo deliberato
morire, astenutosi dal cibo venisse a sanare: non per questo
però consentiva a rimanersi in vita; e fatta, secondo
ch'egli diceva agli amici, i quali con preghiere si adoperavano
ritrarlo dal suo proponimento, ormai tanta via verso la morte, non
gli sembrava che la vita valesse il pregio di ritornare sopra i
suoi passi. - Se la mia memoria non m'inganna, costui si chiamava
Tito Pomponio Attico, ed era amico di Cicerone.
- E perchè dunque, interrogò Lucrezia, sentiamo
dentro noi così veemente lo istinto della vita?
- Questo, a parere mio, fu provvidenza della natura;
imperciocchè diversamente la creatura umana tanto
proverebbe bisogno di disfarsi, che il fine della creazione
andrebbe fallito. Vinta che abbiamo la paura, la morte scende
sopra i nostri occhi come un sonno allo affaticato. E qual
è lo stanco, che non desidera il riposo? Quale il
travagliato, che non volesse addormentarsi per sempre?
- Ma invece di mettere tanta paura nella morte, non era meglio
rallegrare con un poco più di contentezza la vita? Sempre
terrore, sempre paura, e amore mai...
Queste parole favellò Virginia, la miseranda figlia di
mastro Alessandro. La Beatrice la fisso dentro gli occhi. I
predestinati si conoscono: anch'ella teneva su la faccia impressa
l'orma della mano del fato. - Beatrice, rimastasi alquanto
pensosa, le rispondeva:
- Il nostro intelletto, Virginia, non arriva a comprendere la
ragione di tutte le cose; dov'egli manca aggiuntiamogli la fede,
è allora giungeremo a toccare il paradiso. - Qui tirando il
filo, le si ruppe; ond'ella, mostratolo così tronco a
Virginia, soggiunse: - questo io so dirti, che in qualunque parte
si tronchi il filo diventa capo di gugliata. Signora madre,
avvertite che le cappe dalla cima hanno ad essere scollate; e se
mostreremo il collo, ed in parte le spalle denudate, io spero che
i discreti non ci vorranno tacciare d'inverecondia, pensando al
festino a cui siamo convitate. Festino, sì, che Dio ne
aiuti, dove il rinfresco sarà di capi recisi, e di
bicchieri di sangue...
- Ed oh! fosse bastato il mio, che ormai sono vecchia, o sopra la
terra più poco ho da stare; ma il tuo, povera figliuola, ma
quello dello innocente fanciullo... ahimè! ahimè!...
E il pianto incominciava più procelloso di prima. Tanto
soppraggiunse inopinato e nuovo cotesto assalto di dolore, che
Beatrice si sentì sgomenta. La costanza, di cui ella aveva
fatto procaccio mercè gli esempii e gl'insegnamenti dei
filosofi, già stava per venire meno; allorchè,
piegando la testa, la percosse il raggio della lampada accesa
davanti la immagine della Madonna. Allora ella esclamò:
- Ah! è vero, ed io me ne scordava; quando manca ogni altro
conforto, tu sei la stella di tutte le tempeste. La fede o la
ragione delle sostanze spirituali, e noi oggimai tocchiamo la
porta della Eternità.
E tutte quelle donne di subito levandosi, quasi spinte da un
medesimo spirito, rifuggirono alla Immagine celeste come i cigni
volano sotto l'ale materne, se gli atterriva lo strido del
fulmine: e da quella sorgente inesausta avendo attinto acqua di
consolazione, tornarono da capo ad apparecchiarsi le vesti
funerarie.
Ecco le donne alternando preci e ragionamenti giungono all'alba
del giorno supremo. Dalla plaga di oriente un chiarore roseo e
diafano prometteva ai Romani una mattinata dorata e azzurra; -
unico vanto, e forse ultima sciagura rimasta alla nostra terra
senza fine sconsolata.
Adesso si presenta uno aiutante di mastro Alessandro; questi si
astenne, o non potè venire. Lo aiutante era giovane di
anni, e di sembiante duro, non però disaggradevole: costui
aveva già da qualche tempo sollevato uno sguardo di amore
verso Virginia, nè la lingua si era taciuta a domandare
corrispondenza: ella gli aveva risposto abbrividendo da capo alle
piante, ond'ei veduto ogni tentativo invano, si era rimasto... per
allora, dacchè non aveva potuto abbandonare la sua
speranza. Di fatti, egli pensò, quale uomo, per
abiettissimo che fosse, avrebbe ardito salutarla col nome di
sposa? Quale ostello ricovrarla amica? Quale convento monaca? E
morto il padre, qual tenore l'avrebbe difesa dalla pubblica
ingiuria, e dalla persecuzione della plebe? La infamia diventava
pronuba necessaria a coteste nozze.
Lo aiutante stringeva nelle mani un rasoio. Egli guardò
lei, e rimase come abbagliato da tanta bellezza; ella
guardò lui, e sentì freddo; pure assicuratasi,
incominciò a pensare: Una voce di misericordia avrebbe
tocco per avventura le viscere del pontefice? Forse alla belva
plebea si toglie lo spettacolo del sangue, che vale a renderla
sempre più feroce? - Parlate!... Indi rivolta allo
aiutante, gli favellò: - A che vi rimanete costà
come trasognato? Perchè ci costringete a così lunghi
discorsi, quando ci sono contati i momenti per vivere? Noi ci
stiamo apparecchiate a tutto.
E l'altro, esitando,
- Illustrissima... lo sa... è costume... i capelli...
- I capelli! - ella esclamò, - e portandosi pronta la mano
sul capo ne cavò il pettine, e la magnifica chioma d'oro le
scese giù come un'onda per tutta la persona. Ora, ecco,
questi sono i miei capelli; e voi che cosa volete farne?
Ma il valletto del carnefice, imbarazzato più di prima,
taceva; però che ella riprese:
- Ogni forza ha il suo diritto; - il diritto della scure è
non rimanere impedita nel taglio: - ho capito - fa presto, - e
taglia...
E la chioma cadde recisa.
Beatrice rimase stupida a contemplarla sparsa sul pavimento; le
lacrime le si affacciarono agli occhi, nè tanto valse a
trattenerle, che non le sgorgassero per la faccia e pel seno. Fin
qui nessun dolore le aveva passato l'anima come quello,
dacchè nessuno tanto l'avesse umiliata. Quando anche adesso
le concedessero la vita, come ricomparirebbe fra le gentili
donzelle sue compagne, ella così tosata dalle mani del
carnefice? Priva dei capelli, suo decoro e suo vanto, le avevano
(si perdoni la stranezza della espressione in grazia della
efficacia a manifestare il sentimento, che in quel punto assalse
Beatrice) decapitato la testa.
Eccola in mezzo alle sue chiome splendide, come l'Angiolo della
luce, nel giorno della maladizione, vide il serto di raggi che
gl'incoronava la fronte disperso ai suoi piedi. Quante cure, o
dalle sue mani stesse, o dalle altrui avevano ricevuto cotesti
capelli? Come, ed in quante diverse guise, non sapeva ella
acconciarsegli intorno alla testa? I poeti celebrando quella
chioma nei loro canti, l'avevano detta più degna assai che
quella di Berenice di splendere tramutata in astri per le volte
dell'empireo. I più bei fiori la inghirlandarono, contenti
di alitarvi sopra l'ultimo sospiro di profumo. Le gemme, forse
esultando nel premerla, scintillarono più luminose. Amore
pareva averla lisciata con le sue ale... E tutto questo dove aveva
da finire? Per essere recisa dalla mano del carnefice. -
Fatalità!
Beatrice raccolse la chioma recisa, e non le bastò a
stringerla una mano. Guatolla un pezzo, e poi così, come se
fosse persona, le rivolse la parola:
- Compagna fedele di ogni mia sventura! io avrei sperato che tu
meco fossi discesa dentro al sepolcro. Dappoichè questo non
ha concesso Dio, e tu nemmeno mi rimarrai superstite nel mondo,
forse a celare la calvizie della età matura, o a crescere
la lusinga della lascivia: nata, e cresciuta sopra capo di
vergine, tu non diventerai arnese di menzogna... e poi tutto in te
è pregno di disgrazia, e porteresti teco lo infortunio a
cui ti usasse. Giova pertanto che tu ti disfaccia, come me, negli
elementi che ci compongono; le nostre particelle fatali si
sperperino nella immensa fatalità del mondo: insieme unite
hanno fatto, e forse tornerebbero a fare prova troppo dolente.
Solo ne separo questa ciocca, e tu ti consuma...
E la gittò nel fuoco che ardeva dentro al cammino. In breve
della chioma magnifica avanza un pugillo di cenere bianca.
- A te, Virginia, prosegue Beatrice; io parto questa ciocca dei
miei capelli in due, ed a te la consegno. Se un giorno mai tu
incontrassi un uomo alto e bello, di capello biondo, col segno
della fatalità marcato tra ciglio e ciglio... tu lo
ravviserai perchè tutti gli sventurati presentano in volto
certa rassomiglianza di famiglia; ed io, vedi, quando prima mi ti
presentasti davanti ti riconobbi per mia sorella di dolore; e poi,
senti... ( - e le sussurrò vergognosa una parola negli
orecchi - ) tu gli darai questa ciocca qui: quest'altra serberai
per te. Io posso lasciarti danari e robe e gioie, e te le
lascerò; ma queste non fanno parte di me; col recarti
addosso i miei capelli avrai sempre teco un frammento del mio
ente... finchè dura almeno... poichè anche i morti
si disfanno, e le reliquie non si trovano più. A te
infortunio non possono recare davvero, perchè, poveretta!
tu sei per disperazione fatta sicura. Se potessi mutare il tuo
stato, Dio sa se lo farei; - comunque sia, ti desidero ogni bene:
- chè se, come sembra pur troppo, anche tu ti debba
struggere in giorni pieni di amarezza, ti giunga dolce la morte
come questo ultimo bacio, che ti do sopra le labbra.
CAPITOLO XXVIII.
LA FIGLIA DEL CARNEFICE.
E cortesia fu lui esser villano.
Dante, Inferno.
Virginia sentiva morirsi dentro; parlare non osava, e dal piangere
quanto più poteva frenavasi. Per non caderle morta ai
piedi, colto il destro che Beatrice si fece a mutare alquante
parole col cappuccino, uscì pianamente di carcere. Appena
le fu dietro le spalle chiusa la porta, l'aria fresca la
colpì nel mezzo della fronte come il taglio di una mannaia:
vacillò; la colse un fierissimo capogiro, le mancarono
sotto le gambe, ed una languidezza ghiacciata le strinse il cuore:
volle aiutarsi appoggiandosi al muro con ambe le mani aperte, ma
non potè, e cadde giù con un singulto lungo la
parete.
I fratelli della Misericordia, i quali vigilavano solertissimi per
adempire ogni più lieve desiderio dei condannati, la
rilevarono da terra; ed avendola riconosciuta per la figliuola del
carnefice, la posero su di una seggiola e la portarono nella sua
stanza, immaginando che per dimorare lunga pezza in luogo chiuso
l'aria le avesse fatto male. In vero, chi di loro avrebbe dubitato
che la figlia del carnefice avesse racchiuso un cuore capace di
rompersi per la pietà?
Il padre era già in piedi, ed occupato, in fede di Dio, in
piacevole studio: egli attendeva a dare il filo alla mannaia.
Quando i fratelli della Misericordia entrarono egli stava
giù curvo, e lo guardava tentando con l'ugna se fosse
riuscito a dovere.
- Mastro Alessandro, gli dissero gl'incappucciati, mirate qua;
è venuto male alla vostra figliuola: mettetela a letto, e
procurate di farla rinvenire.
E pronunziate appena queste parole se ne andarono via;
imperciocchè chi di loro avrebbe voluto prodigare le sue
cure al sangue del carnefice? La gente di giustizia pagasi, ed
odiasi, sia alta o bassa: le gittiamo l'osso, e le diamo una
pedata; e quei medesimi che hanno per istituto esercitare atti di
carità credono avertene praticata abbastanza quando la
raccattano caduta. - Alessandro tolse di peso la sua figliuola, la
scinse; e persuaso che fosse una mancanza, appoggiata in un canto
la mannaia, si dette a cercare penne di gallina per
abbrustolirgliele sotto il naso: riuscito questo esperimento
invano, prese aceto e glielo spruzzò sopra la fronte. La
fanciulla non rinveniva; il padre incominciò a spaventarsi:
la guardò meglio in faccia... quelle bolle vermiglie,
quella bava sanguigna che il boia aveva osservato sopra la bocca
di Marzio morto nei tormenti, adesso il padre osserva sopra la
faccia della sua figliuola. Si diè di un pugno nel capo, e
corse all'uscio mugolando: aiuto! aiuto!
Appena egli ebbe messo il piede nel pianerottolo, una voce da
basso sinistramente roca lo chiamò:
- Oe! mastro Alessandro... avacciatevi; prendete la mannaia, e
correte a Torre di Nona, che colà vi aspettano.
- Non posso.
- O bella questa! Vale un ducato nuovo di zecca! O che voi avete
facoltà di dire: posso, o non posso? Anima e corpo voi
siete venduto agl'Illustrissimi che vi comandano...
- Non posso... non posso: sgombrami la scala, chè ho
bisogno di andare pel medico...
- Che medico, e non medico? Dove ci siete voi non vi ha mestiero
medico... voi avete a venire a tagliare quattro teste...
- E se io non voglio venire? - E se io butto là la mia vita
e la mia scure dicendovi: Infami quanto me; più di me,
perchè alla malvagità accoppiate la ipocrisia;
ammazzate da per voi col ferro coloro, che avete prima assassinato
con la penna. Mi muore la figlia, e m'impedite di andare a
cercarle soccorso! Io non ho nulla, assolutamente nulla, che mi
rammenti nel mondo di essere uomo, tranne questa misera, e cara
figliuola; e mi contrastate il diritto di porgerle aiuto? Se ella,
la Virginia, è morta, e che cosa importa a me essere
giustiziato, piuttostochè giustiziare? Se posso salvare
Virginia io me ne andrò con lei in un deserto, in una isola
disabitata, lontano lontano da voi: - meglio mangiare corbezzole
salvatiche, che il vostro pane fatto di veleno e di farina d'ossa
di morto...
E rientrato in casa afferra furiosamente la mannaia, e la scaglia
giù per la scala imprecando:
- Va, uomo dabbene, porta la mannaia al tuo padrone, e digli che
d'ora in poi scriva con questa penna i suoi atti di accusa. Io
renuncio alla mia carica; il procuratore fiscale ne può
fare tutt'una colla sua, com'era prima che la Ipocrisia lo
dividesse in procuratore, ed in carnefice - va...
- Mastro Alessandro ha dato di volta alle girelle, esclamò
messere Ventura levando un salto maraviglioso; e ben ei seppe
esser destro, che la scure balzando giù precipitosa
mandò faville su gli scalini, e dove mai lo avesse colto
gli avrebbe tagliato le gambe nette come giunchi: poi, trattosi
prudentemente da parte, commise alla squadra degli sbirri, che gli
faceva corteggio, salisse; a forza lo traesse, e se bisognasse si
adoperassero le funi. Ieri aveva il furfante ricevuto la paga, e
più cento ducati per lo apparecchio del palco, le carrozze,
le tanaglie, il fuoco, la segatura, spugne eccetera;
epperò, che va egli fantasticando di figliuola, e non
figliuola? Se sarà morta gliela seppelliranno, e per boia
non sarà poco: intanto l'esecutore della legge obbedisca
prima alla legge. Fortuna fu che mastro Alessandro si fosse
disarmato della mannaia, altrimenti giù per cotesta scala
sarebbe corso un fiume di sangue: pure sul pianerottolo accadde
una fiera baruffa, in cui da un lato e dall'altro si avvicendarono
colpi tremendi. Il carnefice, schermendosi da un nugolo di sbirri,
ruggiva, pregava, e tuttavia percuoteva.
- Lasciatemi prima aiutare Virginia, e poi ritaglio il capo anche
a San Paolo... La figlia!... la figlia mia! Ma che siete peggio
dei lupi? Ve lo domando in carità! Quando mi capiterete
sotto, vi leverò la testa senza che ve ne accorgiate...
fede di boia onorato!
- È matto. - Ti è morta la figliuola? Allegri! Meno
galline, manco pipite! O che la serbavi perchè te la
sposasse un marchese? O che hai paura che delle baldracche vada
sperso il seme?
Così gli rispondeva la sbirraglia, a cui, vinto dal numero,
cesse mastro Alessandro. Stretto nelle braccia, lo spinsero per le
spalle giù nella scala accompagnandolo con schiamazzi e
grida oscene, le quali irridevano cotesta sua nuova tenerezza
paterna.
Mastro Alessandro superato dalla forza troncò di un tratto
le querele, e tacque.
Volgendo però la faccia alla stanza dove lasciava la
figlia, anzi l'anima sua, senza poterla aiutare nè vedere
fino a sera, dacchè tutti andavano seco lui, scoppiò
in un gemito, e forse scoppiava anche in pianto; ma lo trattenne,
udendo moltiplicare le scede degli sbirri non solo, ma di quanti
altri ancora l'accompagnavano. Certo i suoi labbri non proffersero
il voto di Caligola, ma il suo cuore desiderò che il popolo
romano avesse un capo solo per troncarglielo di un colpo. Mentre
così da Corte Savella lo traevano a Tordinona, fortuna
volle che s'imbattesse in un fratello della Misericordia fuori di
servizio, il quale sovente aveva veduto ed udito esercitare con
carità veramente cristiana lo ufficio di confortatore.
Laonde chiamatolo col cenno, così gli si raccomandava:
- Cristiano, per quanto amore portate a Gesù Cristo, vi
supplico di recarvi a casa mia, in Corte Bavella, ad aiutare la
mia figliuola che si muore.
- Caro mio oggi non sono di guardia, ed ho negozii da sbrigare in
Banchi; incombenzatene qualche altro.
E passò via.
Poco dopo occorse in un prete: era il priore di San Simone, e con
voce sempre più umile lo supplicò:
- Uomo del Signore, ho la mia figliuola... la mia unica figliuola,
che mi muore. Deh! per le piaghe di Gesù Cristo, fatemi la
carità di arrivare fino a casa mia, e datele soccorso.
Il Priore lo guardò in cagnesco, come se egli lo avesse
ricercato di andare ad amministrare la eucarestia a un lupo; poi
ipocritamente soave gli rispose:
- Figliuolo mio, vi pare?... Coteste le son faccende da donna.
- Ebbene, fate di mandarci una donna... io le darò dieci...
venti scudi... il guadagno della giornata...
Il prete aveva svoltato il canto.
Finalmente gli venne incontro una specie di bruto, scalzo, coi
piedi imbrattati di fango fino oltre la noce; della brache portava
una parte rovesciata sopra il ginocchio, l'altra cascante per
terra, e strette sopra i fianchi con una sozza corda; il rimanente
nudo, se togli uno straccio di tela sopra le spalle, ed un
berretto, che una volta fu rosso, tirato su gli occhi: era colore
di rame, camminava a gambe larghe, e tentennava: in quel punto
destavasi da una ubbriachezza, che lo aveva tenuto per morto da
bene ventotto ore. Il popolo lo chiamava Otre. Se qualche borghese
tornando tardi a casa veniva, nel buio della notte, tra la mota e
il letamaio ad inciampare dentro qualche corpo morvido che
rispondesse alla pedata con un grugnito, tirava innanzi senza
darsi un pensiero al mondo, dicendo: è Otre. Tanta era la
tristizia ed abiettezza sua, che sarebbesi creduto far torto al
più immondo animale paragonandolo con lui! A questo
pertanto si volse il derelitto Alessandro con la solita preghiera;
ma Otre lo squadrò in faccia fra stupido e spaventato, e
gli rispose grugnando:
- Vino! vino!
- Fratello, va a dare aiuto alla mia figliuola, e ti
rivestirò di nuovo da capo a piedi...
- Vino! vino!...
- Sì, ti darò vino quanto ne vuoi: anzi va a casa,
e, dopo avermi soccorso Virginia, bevi tutto il mio vino che
trovi.
- Il tuo vino? No... è mescolato col sangue. Io non voglio
del tuo vino.
E si allontanò con un grugnito.
CAPITOLO XXIX
LA GRAZIA
Onde tanta pietade in voi si alligna,
Sacerdoti crudeli.
Alfieri, Saulle.
Beatrice accostandosi a Padre Angelico, che genuflesso col volto
celato fra le mani stavasene a pregare ed a piangere davanti la
immagine della Madonna, lo toccò pianamente sopra la
spalla, e gli disse:
- Padre mio, vorreste, di grazia, chiamarmi i fratelli della
Misericordia? chè ad essi e a voi desidero commettere certe
mie novissime preghiere.
- Volentieri, figliuola; e il frate andando, tornava presto in
compagnia dei fratelli incappati. Essi tenevano il cappuccio
tirato sul volto, sicchè di loro non apparivano altro che
gli occhi, bastevoli a svelare le passioni dell'anima. Invano da
cotesti fori sariasi senza fallo riconosciuto il fratello
Aldobrandino, intervenuto costà meno per confortare, che
per ispiare: i suoi sguardi si aggiravano attorno aridi, curiosi,
micanti, e nondimeno inquieti.
Quando le si furono schierati dintorno, la Beatrice così
favellò:
- Fratelli in Cristo! Dello ufficio caritatevole, che voi mi
prestate, vi rendo col cuore quelle grazie che il mio labbro non
può pronunziare, e prego Dio che vi retribuisca secondo i
meriti vostri. Tanto più io mi sento poi penetrata di
tenerezza per voi, in quanto che standovi incappucciati,
epperò a me ignoti, volete significare con questo, che voi
non sovvenite alla persona, bensì alla creatura che soffre.
Ma io ho bisogno di maggiore aiuto da voi, che voi per ordinario
non pratichiate dispensare; ed io ardisco supplicarne sì
voi, che questo piissimo padre spirituale. La nuova mia inchiesta
sia, io prego, argomento non d'indiscretezza per mia parte,
bensì del bisogno. Mediante il notaro della Compagnia dello
Sacre Stimate ho fatto il mio testamento. Ora dubitando che i
tribunali vogliano mettere qualche ostacolo alla sua esecuzione,
supplico voi affinchè v'interponiate con tutti i nervi
presso Papa Clemente, e lo induciate a contentarsi che la mia dote
venga impiegata nel modo che sta scritto là dentro. - Voi
procurerete eziandio farmi celebrare in suffragio dell'anima mia
duegento messe, delle quali cento prima di essere seppellita, e
cento dopo: a tal fine piacciavi ricevere questi quarantacinque
ducati, che mi trovo ad avere addosso, e pel di più che
potesse abbisognare piacciavi farne ricerca a messere Francesco
Scartesio mio procuratore, che ve lo darà. Desidero che
Andrea, Ludovico ed Ascanio, soldati che durante la mia prigionia
ebbero per me viscere di carità, sieno ricompensati
largamente, onde imparino che la misericordia adoperata verso i
miseri, come sempre riceve la sua mercede nell'altro, così
talvolta la trova anche in questo mondo; e ciò li conforti
a continuare ad usarla anche a coloro, i quali mi succederanno in
questo luogo di angosce. Rendansi a messere Carlo da Bertinoro
quaranta ducati che m'imprestò. A Virginia, la quale con
affetto più che fraterno mi ha servito, e sollevato nei
giorni dolentissimi della mia tribolazione, oltre quanto le lascio
nel mio testamento abbiasi tutti i miei panni lini, lani, e
serici, ed ornamenti di oro, che si troveranno in questa carcere.
Ma dov'è Virginia? Che fa ella, che non si vede?
E girati gli occhi intorno a se, poichè non la
scòrse, continuò:
- Infelice! A lei non resse il cuore di contemplare quello che io
sono destinata a soffrire. Povera fanciulla! degna in tutto che il
cielo le desse o un'altra anima, od un altro stato! Non so se io
deva, o no, desiderare di rivederla; ma nel caso ch'io non la
rivedessi, salutatemela caramente per me, e ditele che spero
rivederla su in paradiso dove gli angioli sono tutti uguali, e
traggono origine unica, santa, ed immediata dal Sommo Dio. Quando
- e si portò la mano al petto - quando questo cuore
avrà cessato di battere, voi mi seppellirete nella chiesa
di San Pietro in Montorio: colà il sole, sorgendo dalle
cime di Montecavi, manda il primo saluto; e quantunque i morti non
sentano calore, nè vedano la luce, purtuttavia consola,
nella ora della morte, sapere che la tua tomba sarà
visitata dai luminari del cielo. Sopra le medesime colline,
più verso il mare, or fa quattro anni seppellirono Torquato
Tasso. In San Pietro in Montorio si ammira la Trasfigurazione,
ultimo quadro di Raffaello, che la morte gl'impedì condurre
a fine. Io ben posso starmi con loro, perocchè essi fossero
grandi per fama, e per isventura; ed io, nulla per ingegno, mi sia
poi per isventura grandissima. Quando il tempo avrà
logorato i dipinti di Raffaello, e fatto obliare i versi del
Tasso, i nostri nomi non andranno dimenticati per virtù di
amore, ed ogni anima vedova di felicità muoverà il
passo per questi colli come in pellegrinaggio di passione.
Raffaello, a modo dello antico Aci, annegò immaturo e
glorioso nell'onda dell'amore; il Tasso venne respinto quasi
nemico dal cuore superbo di donna reale, che senza cotesta
ingiuria noi ignoreremmo perfino che fosse nata. Per me, amaro
caso!, lo Amore invece di ferirmi il seno con i suoi strali, che i
poeti dicono di oro, mi è venuto alle spalle come un
traditore armato di scure. Ma questo non monta; e' sono favellii
di femmina; perdonateli. Nè già crediate che io il
faccia per rammarico di vita: mai no, vedete; chè se ad
acquistarmela ora bastasse il solo voltarmi addietro, io non mi ci
volterei. Intanto che io torno a ragionare con Dio, concedete,
carissimi fratelli in Cristo, ch'io mi confidi nell'assistenza
delle vostre orazioni.
Lucrezia, imitando lo esempio della figliastra, dispose anch'ella
di parecchie cose in beneficio dell'anima sua non meno che dei
parenti, come si legge nello estratto del Giornale della
confraternita di San Giovanni decollato in Roma.
*
* *
Prospero Farinaccio dormiva di un profondissimo sonno, rallegrato
da gaie immagini di trionfi, di onori e di dovizie; e tutta questa
piramide di rosee visioni gli appariva incoronata da un magnifico
cappello da cardinale, ch'egli, per vezzo, scherzando depositava
sopra le bionde trecce d'una femmina, la quale arieggiava nel
sembiante il volto della Beatrice. Allo improvviso venne svegliato
di soprassalto dal fragore di vetri stritolati, e da un picchio di
sasso nelle finestre della sua camera. Al punto stesso una voce
lugubre urlava giù per la strada:
- A che stai? A che stai? Mentre tu dormi, tutti i Cènci
vengono menati a guastarsi.
Si precipita di letto, e spalanca la finestra. L'alba appena
spuntava: tese gli occhi, ma non gli riuscì scorgere
persona; la voce in lontananza tornò a ripetere la novella
desolata:
- Tutti i Cènci vengono tratti al patibolo, e tu dormi?
Si veste smanioso; gittasi in carrozza, e, volato alla prigione di
Corte Savella, udiva confermarsi la cosa: rientra in carrozza e si
affretta al palazzo Quirinale. Ascende gli scalini a due, a tre
per volta affannoso, e arriva nell'anticamera del papa. Qui giunto
domanda con ansietà ai camerarii gli procurino accesso al
sommo Pontefice per negozio urgentissimo; andarne di morte, e di
vita: per amore di Dio facciano presto. E non sono partiti ancora?
Un camerario con molta pausa prendendolo per le braccia, e
tenendolo fermo davanti a se in aria beffarda, ma perfettamente
garbata, gli dice:
- Chiarissimo signore Avvocato, ella ha da sapere come qualmente
Sua Santità tuttavia riposi.
- Ma io so che il Santo Padre si alza di buonissima ora.
In questa un altro camerario, tolto il Farinaccio pel braccio
sinistro, gli faceva fare un quarto di cerchio a mancina
favellandogli:
- Ma si assicuri, illustrissimo, che il Papa dorme sempre.
Un terzo camerario, stretto a sua posta per l'altro braccio
Prospero, lo girava a destra, ed anch'egli lo cerziorava:
- Capisce, degnissimo signore Avvocato, Sua Santità vuol
dormire - perchè non ha chiuso occhio tutta la nottata.
Per questo modo il Farinaccio, ora aggirato da quello or da
quell'altro, si trovò ad avere descritto un cerchio intero
con la propria persona, e, tranne un profluvio di melliflue
parole, non avere ottenuto cosa che valesse. Tale correva allora
il costume in corte di Roma, ed anche di presente credo che si usi
così. - La fortuna volendo dare una mentita a cotesti nuovi
farisei, fece che in quel punto il coppiere del papa si
presentasse in anticamera con una tazza spumante di cioccolatte
apprestato pel suo padrone, e se ne andava diritto verso la stanza
cubicolare per ministrarglielo.
I camerarii, per non iscomparire così alla spiattellata,
gli ammiccavano a sostare; ma quegli ingenuo disse:
- Io non vi capisco; dianzi mi avete chiamato come se fosse il
finimondo, onde portassi il cioccolatte a Sua Santità, che
da un bel pezzo era desta, ed ora volete ch'io mi fermi.
- Tu trasecoli; noi non gli abbiamo sentito suonare il campanello.
Sua Santità dorme di certo.
- Se non udiste voi da vicino, o come va che lo sentii io da
lontano? Voi m'incominciate a doventare di quelli, di cui dice il
Vangelo: habeant aures, et non audiant.
In questa ecco udirsi squillante il tintinno del campanello, come
agitato da persona spazientita di aspettare.
- Ve lo aveva pure avvertito, che siate benedetti! - Largo,
proseguì il coppiero, che Sua Santità facilmente va
in bestia, ed a me toccherebbe la prima lavata.
E si fece più oltre per sospingere gl'importuni, e passare.
Il Farinaccio allora, prontissimo imitando lo esempio del
coppiero, in danno di questo gli tolse il bacile di mano, aperse
la porta, e penetrò audace nella camera del pontefice. Il
coppiere stette lì per gridare: al ladro! Ma subito dopo,
non gli parendo verosimile che un ladro di tanto fosse ardito di
penetrare là dentro, e molto meno poi da rifugiarsi nelle
medesime stanze del pontefice, rimase lì sbigottito; tanto
più che il Papa stesso gli accennò con la mano si
allontanasse.
Prospero, deposti sopra la tavola guantiera e tazza, si prostrava
ai piedi di Papa Clemente dicendo:
- Non mi sia ascritto a colpa, Beatissimo Padre, io ve ne supplico
in ginocchioni, di assumere le parti per me onoratissime del
più umile fra i vostri servitori.
- Alzatevi...
- Deh no! Santità, lasciatemi così col capo nella
polvere, tale dovendo essere lo atteggiamento di cui supplica
sconsolato; e me adesso opprime inestimabile amarezza...
Ed aspettava che il Papa lo interrogasse intorno alla causa della
sua venula, intendendo spiare dal suono della voce di lui che cosa
fosse da sperarsi, e che da temersi; ma il sacerdote stava
lì chiuso, e impenetrabile come sfinge di granito; per lo
che Prospero ebbe a continuare con la più pietosa voce, che
mai fosse udita nel mondo:
- Un grido, e in fede di cristiano vel giuro, un grido sinistro mi
ha desto a l'orza gridando: Sciagurato! tu dormi, mentre tutta la
famiglia dei Cènci sta per essere tratta al patibolo? - Io
poi non saprei dirvi, Beatissimo Padre, se questa voce muovesse
dal paradiso, o piuttosto dallo spirito delle tenebre.
- Perchè temete che uscisse dal maligno? Nella bocca del
diavolo non riposa la verità.
- Ah! dunque la voce fu vera? E allora, Santità, grazia,
grazia per tanto sangue innocente, che va a spargersi. Roma non
avrebbe mai veduto, dacchè fu fondata, così
spaventevole tragedia.
- Come innocenti? E non confessarono tutti il commesso misfatto?
- Mea culpa, prosegue il Farinaccio forte percuotendosi del pugno
chiuso il petto; mea culpa, mea maxima culpa. Dio ha voluto
umiliarmi. Dio ha voluto mandarmi causa di piangere,
finchè, come a San Pietro, le lacrime non mi abbiano fatto
il solco per le guance. Il senno dell'uomo presuntuoso della sua
scienza, a paragone dello intelletto di amore della vergine
è stato rinvenuto insania, e laccio di morte, Io fui
quegli, Santità, che persuasi la gentil donzella Beatrice
Cènci a confessarsi, comecchè innocentissima,
colpevole del parricidio: ella era prossima, e disposta a morire
fra i tormenti per testimonio del vero; fui io che la ritrassi dal
suo proponimento; io che le promisi come, se incolpando ed
escusando gli altri, avrebbe di leggieri procurato salvezza a se
ed a loro: a quelli, come inconsapevoli del parricidio; a se, come
da suprema necessità costretta a difendersi dalla
incestuosa violenza. Ella contrastava; ella sosteneva la difesa
migliore per la innocenza consistere nel dire la verità, e
niente altro che la verità! O parole santissime,
inspiratele da Dio! Ma io la scongiurai; con le lacrime agli occhi
le feci forza; vi adoperai lo assalto dei domestici affetti, la
generosità del sagrifizio, la virtù della
carità; ed io ed i suoi parenti, genuflessi intorno al
letto dove giaceva con le ossa rotte, e le carni straziate per
l'atrocità delle sofferte torture, tese supplici le mani
non la lasciammo finchè, vinta, ella suo malgrado e
nonostante i sinistri presagi, non ebbe promesso di confessarsi
rea nel modo che ha fatto, e nella guisa che alla tradita
fanciulla io stesso dettai. Grazia dunque, Padre santo,
pietà. Oh! s'ella avesse a morire così per mia
colpa, l'anima mia desolata dispererebbe della sua eterna salute.
- Non vi sgomentate per questo; troveremo ben noi la via di
mandarvi in paradiso.
- E dalla mia coscienza, chi mai mi salverà?
- La vostra coscienza.
Queste parole, profferite con senso inenarrabile di scherno,
caddero sul capo del Farinaccio come una falda di fuoco infernale:
levò gli occhi per fissare in volto Papa Clemente: e il
volto di Papa Clemente gli apparve di pietra:
- La mia coscienza, riprese Prospero avvilito, mi dice che non
avrò più pace.
- L'avrete, - credete a me, che me ne intendo - l'avrete.
Meritissimo signor Consultore, io vi conosco per uomo di molta
perspicacia, e nella professione vostra singolare. Voi, e di
ciò vi tributo la lode meritata, adempieste il nobile
ufficio vostro con zelo e perseveranza, che appena potevano
rinvenirsi uguali, maggiori non mai. Ora, poichè tanto
sapete fare il vostro dovere, soffrite in pace che altri faccia il
suo.
- E appunto, Santo Padre, perchè non solo il sentimento del
dovere, ma l'affetto, la necessità della vostra angusta
natura vi persuadano la giustizia, io mi feci ardito ammonirvi di
tutto quanto vi ho esposto, onde con eterno carico del vostro nome
poniate mente a non isbagliare la strada.
- Noi abbiamo rispettato (e qui la voce del papa si fece sentire
un cotal poco tremante) in voi lo ufficio dell'avvocato; adesso
rispettate in noi quello di giudice.
Il Farinaccio, prostrato sempre ai piedi del pontefice, aveva
sembianza di uno di quegl'isdraeliti, che a piè del monte
Sinai stavano in aspettazione della parola di Dio, e, come loro,
egli udiva formarsi sopra il suo capo la parola in mezzo a fulmini
ed a tuoni. Però non si dette anche per vinto, e tentando
uno sforzo disperalo insistè:
- Dove non giunge la giustizia arrivi la misericordia...
- Bisogna che muoiano!... - concludeva tagliente il pontefice, e
col piè premeva il pulvinare di velluto.
- Bisogna! - esclamò il Farinaccio levandosi in piedi. Ah!
se bisogna, allora la faccenda è diversa. Perdonate,
Beatissimo Padre, se per me siffatta necessità s'ignorava,
e concedete ch'io mi allontani con la morte nel cuore.
Il Papa si accorse aver detto troppo, e conobbe essere mestieri
emendare, come meglio potesse, la incauta parola.
- Sì; - certamente, mio malgrado, - bisogna, Il genio del
popolo, la fama di Roma. la sicurezza dei cittadini, la religione
del papale ammanto impongono a chiudere le orecchie alla
misericordia...
- Impongono che tutti muoiano attanagliati, mazzolati, e
squartati?
- Voi, come uomo di molta dottrina, sapete, signor Consultore,
come gli Egizii condannassero il figlio parricida ad essere
trafitto da infiniti taglientissimi stecchi, e poi arso sopra un
mucchio di spine: il padre che uccideva il figlio, a guardare per
tre giorni continui il cadavere dell'ammazzato. - Qui in Roma, nei
primi tempi del paganesimo, non si conobbe legge contro i
parricidi: crescendo poi la malizia degli uomini a tanto eccesso,
il supplizio orribile della legge Pompea parve mite a punirlo. Ai
tempi nostri piacciavi volgere lo sguardo ai reami di Spagna,
Francia, ed Inghilterra, e voi non troverete pene punto più
dolci. Se noi facciamo mozzare la testa al semplice omicida,
ragion vuole che corra divario di pena fra il parricida e lui.
Tuttavolta, in grazia vostra, noi assolveremo le donne
dall'attanagliatura e dallo squarto; ferma stante però la
decapitazione.
- Anche il putto ha da avere mozza la testa?
- Qual putto?
- Bernardino Cènci, Santo Padre; voi lo sapete, non tocca
eziandio il suo dodicesimo anno, e anch'egli dovrà subire
la pena dei parricidi? Io lo difesi appena, pensando che il
migliore avvocato per lui fosse la fede di battesimo; e
m'ingannai.
- Ma o che forse non confessò anch'egli avere partecipalo
al misfatto?
- Confessò, certo, confessò; ma a cotesta età
può egli sapersi parricidio che sia, e confessione che
importi? Non confessò egli perchè i tormenti
cessassero, e dopo la promessa che lo avrebbero salvo? Padre
santo! anche una volta porgete ascolto alla voce del cuore, che vi
persuade a misericordia; porgetele ascollo: anche noi un giorno
avremo bisogno di pietà.
- Voi mi mettete uno scrupolo circa a Bernardino Cènci. E
il Papa declinò il capo in atto di meditare. Poichè
si fu rimasto alquanto in cotesta positura, proseguiva:
- Ordinariamente la tristizia non supera la età; qualche
volta anche si, e di questo se ne leggono esempii; nè la
età salva nei delitti atrocissimi; - tuttavolta,
dacchè da questa parte mi viene scrupolo, e potendo vorrei
satisfarvi, meritissimo signor Prospero; onde non ve ne andiate
sconsolato, anzi rimaniate persuaso del molto conto che facciamo
di voi, intendiamo, e vogliamo graziare della vita Bernardino
Cènci. Adesso andate in pace, e lasciateci a stendere e
spedire il placet, affinchè non arrivi tardi. Ora voi
vedete, signor Prospero, che per noi istà, che voi non
abbiate a chiamarvi contento.. Andate in pace.
A Farinaccio pareva di vedere rinnuovato in se il caso del
patriarca Giacobbe, quando i figli traditori gli posero nelle mani
la vesta insanguinata di Giuseppe, ed egli ebbe a dir loro:
grazie! Partiva col cuore lacero, e il prete mascagno presumeva
avergli dato ad intendere che lo aveva vinto. A capo basso, con
voce fioca rese grazie al Pontefice per la sua degnazione, mentre
questi, in sembianza di affettuosa premura, gli andava ripetendo:
- Ora subito vi spediremo il placet, e vi autorizziamo ad
annunziare spacciatamente averlo noi concesso ai meriti di vostra
signoria...
- Ex ore leonis - mormorava il Farinaccio scendendo dal palazzo
Quirinale: - i nostri antichi consacravano agli Dei i lacerti
dell'agnello riscattato di bocca al lupo.
E così allora pensò; molto più dopo, quando
conobbe di qual sorte grazia avesse fatto al garzoncello
Bernardino il Papa Clemente. Tuttavolta, coll'andare del tempo,
col sentirselo ripetere dallo universale, e col riceverne grazie
fervidissime, non che da altri, dallo stesso Bernardino, e
trovando inoltre il suo tornaconto a credere così,
terminò col credere davvero di aver sottratto cotesto
fanciullo alla morte. I facili amori, le alterne vicende del
giuoco, la plebea gozzoviglia lenirono in prima, poi resero ottuso
affatto in lui il senso del rammarico. L'agiatezza che ricavava
dallo ufficio di consultore, il credito grande che godeva in corte
lo persuasero più tardi ad astenersi dalla difesa dei
Cènci per la rivendicazione dei beni fidecommissarii
infeudati in benefizio della Camera Apostolica. Si scusava col
dire che egli, in quanto a se, aveva fatto assai: adesso altri si
provasse: anche Gesù Cristo aver chiamato il Cireneo a
sollevarlo dal peso della croce.
Queste ed altre cose diceva con sembiante di vero, ma ell'erano
false. Vero unicamente l'atroce presagio del sacerdote scettrato,
quando a Prospero Farinaccio, che lo interrogava chi lo avrebbe
salvato dalla propria coscienza, rispose: «la vostra
coscienza!»
CAPITOLO XXX.
LA MOGLIE.
Mulier diligens est corona viro suo.
Proverbii.
Ma l'amore non dorme. Guido aveva avuto modo di sapere la sentenza
funesta appena segnata. Non la temendo così imminente,
rimase colto quasi alla sprovvista: non per questo sbigottivasi
punto dell'animo, e, ricorso ai banditi suoi novelli amici,
mandò sollecito per essi pregando, e quasi ordinando
(imperciocchè la sua autorità di giorno in giorno
appo loro fosse venuta crescendo) che travestiti di varie maniere
si avessero a trovare adunati, senza frapporre indugio, nello
Anfiteatro Flavio.
Infatti due ore prima che l'alba spuntasse incominciarono i
masnadieri a riunirsi in drappelletti di due, di tre, di quattro,
quale abbigliato da abbate, tale altro da frate: parecchi
mantennero le vesti rusticane, nè mancarono di quelli che
comparvero con abito da gentiluomo; e tanto è falso il
proverbio «la tonaca non fa il monaco», che i nostri
banditi incamuffati da gentiluomini non si sarieno distinti in
cento volte co' veri gentiluomini bagnati e cimati. Però,
fatto il conto, i raccolti non si trovarono a superare i quaranta,
numero troppo piccolo per cimentarsi in impresa di rilievo. Guido
e gli altri però non erano uomini da peritarsi per questo a
mettersi allo sbaraglio; in ispecie Guido, il quale vi si sarebbe
cacciato anche solo. Udite le opinioni di tutti, Guido
ordinò prendessero per segnale un pampano di vite, e se lo
mettessero al cappello, ovvero al cappuccio, e provvisti di armi
corte si frapponessero nella processione mentr'essa accostavasi al
palco. Colà sbarattati i fratelli della Misericordia, e
sbirri, e soldati, levassero di peso la Beatrice e la
trasportassero dov'egli, salito su di un polledro che fulminava,
l'avrebbe tolta in groppa, e menatala fuori delle mura alla
dirotta: eglino poi in mezzo alla baruffa, giovandosi del
trambusto, si sbandassero, e procurassero guadagnare Tivoli,
ov'esso gli avrebbe aspettati. I masnadieri concorsero tutti di
gran cuore in cotesta sentenza, come quelli che per natura
propendevano a cotesti fatti arrisicati; e poi, conoscendo lo
affetto smisurato che la universa Roma portava alla Beatrice,
fidavano procacciarsi grandissima rinomanza, della quale pure
erano teneri: per ultimo il premio promesso, se giungevano a
salvare la fanciulla, era veramente da Cesare, com'eglino stessi
ebbero luogo in seguito di dire più volte.
Cosa stupenda, e nonpertanto riportata dai ricordi del tempo: poca
ora dopo, nella stessa Roma, altri meditava la medesima impresa!
Fu creduto che questi fossero mossi segretamente da Maffeo
Barberini col mezzo dei suoi fidati: forse non era vero, ma egli
procedeva molto acceso in questo negozio. Il fato della Beatrice,
e la sua inclita bellezza lo avevano tocco profondamente. La
diligenza ch'egli pose a procurarsene il ritratto, di cui
parlerò fra poco, e gli onori che ottenne si rendessero
alla salma della gentil donzella, assai aperto il dimostrano.
Forse fu bontà somma in lui, educato alle ottime discipline
e cultore non infelice della poesia; forse amicizia fervente per
Guido, e potrebbe darsi anco amore per la Beatrice; avvegnadio
nè porpora cardinalizia, nè rispetto di amico
possano impedire amore d'insinuarsi nel seno degli uomini, ma solo
che, prorompendo, trapassi i confini dell'onesto: questo solo
possono, e qualche volta facciano.
Se Guido avesse le proprie congiunto con le forze di Maffeo
avrebbero per avventura conseguito lo intento; ma parendogli di
essersi prevalso anche troppo del suo amico, non volle, per
intempestiva discretezza, impegnarlo in nuove fortune difficili, e
piene di pericolo.
Questa seconda congiura per salvare Beatrice si componeva di
Artisti, i quali comecchè sieno usi ad effigiare la
bellezza fisica, tuttavolta, per quel secreto vincolo di parentela
che stringe fra loro tutte le cose buone e leggiadre, agevolmente
s'innamorano anche della bellezza morale. Quando ti senti l'occhio
afflitto dalla diuturna contemplazione della turpitudine umana,
volgilo sopra gli Artisti, in ispecie giovani, e lo riposerai.
A questa schiera di giovani facevano capo molti familiari delle
più cospicue casate di Roma, messi su sotto mano dai loro
patroni, ai quali pareva ricevere gravissimo torto in cotesta
strage Cinciana. Su tutti gli altri, ci raccontano le storie del
tempo, sentivasi agitato da smania irrequieta Ubaldino Ubaldini,
giovane fiorentino artista di grandi speranze, che sarebbe salito
in alta fama se la morte non lo coglieva immaturamente: egli fu il
pittore che disegnò la testa di Beatrice come amore
disperato gliela impresse nel cuore, nell'atto di essere condotta
al supplizio. Guido Reni in quel tempo non si era anche mosso da
Bologna, sua patria, a Roma: vi andò sul finire dell'anno
1599, o su i primi del 1600, come si ricava apertamente dalla sua
vita stampata nella Felsina pittrice. La tradizione pietosa narra
avere Guido Reni dipinto il ritratto della Beatrice nella vigilia
della sua morte: però, come erronea, vuolsi emendare;
imperciocchè se il caso fosse vero, tornerebbe in massimo
disdoro così della vergine come del pittore. Della
Beatrice, perchè si tirerebbe addosso la taccia di
biasimevole vanità, dovendo l'anima sua in cotesti solenni
momenti stare, siccome veramente stette, assorbita nel pensiero di
Dio, e negli affetti più puri: del Reni, però che la
mano del pittore che vale a dipingere, senza tremito, un caro
infelice prossimo ad esser tratto a morte immeritata, svela un
cuore stupido, o perverso. - Questo ritratto dipinto da Guido
Reni, ai giorni nostri conservasi a Roma nel palazzo dei Principi
Barberini, e va attorno inciso dal Volpato, e meglio dal Morghen.
Anche di questi congiurati era disegno fare impeto nella
processione, rapire Beatrice, e gli altri condannati; riporli
dentro una carrozza attaccata a poderosi cavalli, e trasportarli
al mare. In numero costoro sorpassavano i compagni di Guido, ma
n'erano superati per valore, e per abito di mettersi allo
sbaraglio nelle più sanguinose baruffe. Per segno fu
destinato un tassello bianco sul capo. L'Ubaldini terrebbe lo
sportello della carrozza apparecchiata, le redini dei cavalli
certo artista francese, il quale si era vantato capace di condurre
il carro del Sole senza rischio di fare il tuffo nel Po.
- Per dio! - gridava lo Ubaldini percuotendo forte del pugno la
tavola, non ha da morire... e non ha da morire;... meglio
sarebbe...
E siccome esitava a compire il suo concetto, un compagno lo veniva
stimolando:
- Meglio, che cosa?
- Meglio rompere l'Apollo di Belvedere, o il Laocoonte...
- E la cupola del Vaticano la do per giunta, arrose un terzo.
- Molto più che queste cose noi le possiamo rifare,
osservò il francese offertosi a sostenere le parti di
Automedonte; ma l'Ubaldino, sbirciatolo di traverso, tra la rabbia
e il riso gli disse:
- No, francese proprio di Francia, coteste cose non si rifanno; ma
è meglio periscano esse, che una creatura innocente.
- O preti! - esclamò un giovane artista, e tacque. Poi,
dopo essersi soffermato alquanto per trovare nella sua mente
convenevole epiteto, soggiunse: - O preti, preti! Chè ho
detto tutto, e a dire più di così io ve lo do per
bazza; voi ci volete assassinare i nostri modelli. E tolti essi di
mezzo, cui ci rimarrà a studiare per farci onore? Forse voi
altri? Oh! non capita tutti i giorni dipingere su le mura di
qualche camposanto l'Arca di Noè.
- Ah! se la Beatrice fosse nata nei tuoi panni, buon per lei! che
adesso non si troverebbe al duro passo a cui l'hanno condotta.
- E questo come ci entra?
- Ci entra benissimo, perchè e' dicono che l'ammazzano per
carpirle i suoi scudi. Ora a te possono bene strappare i denti; ma
in quanto scudi, gli è tempo perso.
- Silenzio voi altri! La bellezza, che noi vagheggiamo, ricordate
che non è di cortigiana, bensì bellezza purissima,
celeste; però ond'ella discenda sopra i nostri cuori, come
lo Spiritossanto nel giorno della Pentecoste, ed infonda in loro
virtù di operare magnanimamente, importa mantenerli
disposti con gravi, e religiose meditazioni.
Questo discorso, favellato dal giovane Ubaldini salito su di un
trespolo, troncò in un attimo le arguzie intempestive; e
tutti cotesti strepitosi, e svagati artisti diventarono serii
quanto i Padri del Concilio di Trento.
Il primo raggio di sole che spuntò dai colli di Roma
rischiarava nella prigione di Torre di Nona un molto lacrimevole
spettacolo. Giacomo e Bernardino incontratisi, corsero ad
abbracciarsi; onde poter confondere insieme lacrime e baci, si
erano provati a entrare l'uno fra le catene dell'altro; ed
essendovi riusciti, si vedevano ricingersi scambievolmente con
bracci, e catene.
- Vieni, caro, stringimi... mi pare stringere i miei figliuoli. Te
beato, Bernardino, che non hai figliuoli! Tu senti men che mezzo
l'affanno della morte.
- E non ho nepoti?
- Ahimè! I miei figli... orfani... figli di parricida,
perseguitati da un uomo maligno che può tutto quello che
vuole, e che vuole la loro sostanza! Tutti, per piacere al
potente, ammantano la viltà con la sembianza di santa
abbominazione, e cacciano via i maladetti. Dove sono gli amici?
Diventarono nemici, e fanno scontare ai figliuoli la vergogna di
averne conosciuto il padre. - Contendono ai loro petti affamati il
pane; chi li difende? Gli percuotono; essi piangono, e
perchè tacciano li percuotono da capo... La madre, rifinita
anch'essa, si adonta che il suo seno sia diventato nido di
vipere... Ah! no, no, Luisa, la mia Luisa non abbandonerà i
miei figliuoli; e quando le verrà meno il latte, gli
nudrirà di sangue.
- Poveretti! E li priveranno proprio di tutto? Anche della roba
mia? Ma io non so niente di tutte queste diavolerie, e l'ho
assicurato poc'anzi al padre confessore, che non ci voleva
credere. Egli caparbio urlava: no; ed io fermo gridava più
di lui: sì; finchè sono venuti a prendermi.
- E che innocentissimo tu sia, fratel mio, chi lo sa meglio di me?
Tu almeno conservi una consolazione, ed è che da questa
vita trapasserai alle gioie celesti. A me poi dubito forte che
questo mi venga concesso; perocchè, quantunque io non abbia
parte nella morte di Francesco Cènci, pure mi è
forza rendermi in colpa per avere altra volta macchinato contro la
sua vita, ed acconsentito che lo uccidessero.
- E non pertanto ci siamo accusati di averlo trafitto noi stessi!
Io ammazzare il signor padre, che al solo vederlo mi metteva i
brividi addosso?... Ma, comecchè fanciullo, io mi sono
troppo bene accorto, sai, che anche negando ci avrebbero fatti
morire fra mille strazii; così, confessando, almeno ci
daranno morte ad un tratto, e mi pare un bel guadagno. Dimmi,
fratello, tu che sei uso a vivere nel mondo, la giustizia è
sempre fatta così?
- Giacomo rispose co' sospiri; - ma il fanciullo, tendendo le
orecchie, prosegue:
- Senti! Giacomo, senti! Che cos'è questa campana che ci
piange sul capo?
E Giacomo allora, stringendosi al seno più forte
Bernardino, gli domandò tutto smarrito:
- Come ti senti, Bernardino?
- Io? Bene.
- E di morire ti rincresce?
- Mi pare di sì, perchè mi piacciono gli uccelli, e
le farfalle, e i fiori pei quali esse svolazzano, e veder correre
in giù il Tevere quando è grosso; - e tutto, in
somma, mi piace. Qui saluto il sole, che è chiaro e caldo;
e di là sento che fa buio, e freddo. Qui, dove sono io so;
dove vado me lo dicono, e sarà; ma non lo so di certo.
- Ebbene; or sappi, questa campana suonare l'agonìa di noi
altri, che ci sentiamo pieni di vita... Questa campana annunzia
che dobbiamo partire, a noi che vorremmo rimanere...
Quasi in conferma delle sue sinistre parole, ecco riaffacciarsi
improvvisi sopra la porta del carcere i confessori, e i fratelli
della Misericordia.
- Su; coraggio, fratelli, l'ora si approssima; disse una voce
lugubre.
- Sia fatta la volontà di Dio, rispose don Giacomo; ma lo
interruppe Bernardino:
- E sia proprio questa la volontà di Dio Gicomo?
- Sì certo, poichè nulla accada senzachè Dio
lo permetta; - e voi a dubitarne peccate gravemente, rispose il
confessore in vece di don Giacomo.
- Se così è, padre, me ne pento; e onde acquistarmi
merito in paradiso, crederò che per volontà di Dio
vengo mandato a morte innocentissimo.
- Chi di noi è incolpevole? Tutti siamo rei al cospetto dei
Signore.
- Ma non tutti sono tratti a morte di dodici anni.
- Dio prova chi ama; e voi, figliuolo, ringraziatelo con tutte le
viscere per avere tra mille scelto voi a sperimentare la sua
bontà infinita.
- Padre, riprese ingenuo il fanciullo, se vorreste prendere il mio
posto...
E il frate con atto di compunzione, strette le mani e levati gli
occhi al cielo, interruppe:
- Con tutto il cuore, figliuolo mio, se potesse farsi; ma non si
può fare.
Mastro Alessandro con la sua faccia di bronzo ruppe gl'indugi.
Pareva impossibile, eppure da cotesta sua faccia traspariva una
immensità di dolore, - feroce, - minaccevole a coloro cui
fortuna gli avesse cacciato tra le mani, e tuttavia dolore. Egli
vestì i pazienti di due cappe nere somministrategli dalla
fraternita della Misericordia; anzi quella indossata da Giacomo fu
già di Francesco Cènci, il quale finchè visse
era stato ascritto al pio istituto.
Poi tutti a passo lento incamminaronsi fuori del carcere. Don
Giacomo si fermò sopra la soglia della stanza, che
abbandonava, testimonio delle sue inenarrabili angosce, e
profferì queste parole:
- Settantasette volte maladetto l'uomo, che condanna l'uomo a
disperarsi l'anima dentro cotesto avello; quegli che con una
spinta lo precipita nel sepolcro, sia maladetto sette volte
soltanto.
Le campane continuano lo squillo degli agonizzanti; i tamburi
suonano scordati; il cielo e la terra pareva che con quei suoni si
scambiassero l'annunzio che la strage stava per compirsi, e ne
rimanessero sbigottiti. Giù nel cortile stavano attelati
parecchi squadroni di micheletti a cavallo, e un nugolo di sbirri
a piedi, e poi i fratelli della Misericordia, e il carnefice, e i
valletti del carnefice, e tutto insomma il desolante apparecchio
di forza, del quale ha bisogno di circondarsi la giustizia, -
quando non è giustizia.
Bernardino guardava tutti cotesti oggetti a modo di smemorato, ma
più particolarmente fissò due carrette, dov'entro
fornelli di carboni ardenti si arroventavano tanaglie di ferro; e
curioso, secondo la indole dei fanciulli, domandava:
- Giacomo, e coteste tanaglie a che devono servire?
Giacomo non rispondeva, e la più parte dei fratelli della
Misericordia sotto il cappuccio lacrimava; ma il giovanetto
insisteva inquieto:
- Io lo vo' sapere; dimmelo, su, Giacomo: non creder mica di farmi
paura; tanto, che io devo morire lo so.
- E' sono per noi, - rispose Giacomo; e più non potè
dire.
- Oh! Io non credeva mai che meco ci fosse bisogno di tanti
arnesi; con me è presto fatto; lo vedi, ho il collo sottile
come un giunco: il boia non avrà a durare molta fatica, io
penso.
Ancora guardò un chiodo, un mazzuolo, ed un tabarro rosso
trinato di oro, oggetti tutti che, come corpi di delitto, venivano
trasportati sopra una delle carrette per essere esposti al
pubblico.
- Giacomo, o non ti par egli cotesto tabarro quel desso che
adoperava il nostro signor padre? Decisamente il mantello rosso ci
perseguita.
I confortatori, a impedire che l'attenzione del fanciullo vagasse
dalla meditazione religiosa, posero a lui come al le tavolette,
ch'erano una maniera di cassette di legno in cui intoducevano il
capo dei pazienti, tenendone obbligata la vista sulla immagine del
Crocifisso, e sopra certe devote orazioni fatte al caso da un
dotto e pio cappuccino, incollate dintorno alle pareti. Il
fanciullo strillava urlando gli togliessero cotesto ingombro, non
gli rapissero quello che Dio solo può dare, la vista del
cielo. In questa si notò alla porta del cortile uno
agitarsi di gente, uno scansarsi di soldati, e lenta procedere in
mezzo a loro una carrozza. Le voci del popolo percuotevano
turbinose le mura del carcere come ondate di mare in burrasca:
- Grazia! Grazia!
Un lampo di vita passò dinanzi agli occhi di Giacomo, e la
sua testa si sollevò a guisa della cima del pioppo quando
è passato il turbine. Dalla carrozza scese l'illustrissimo
signor Ventura, il quale presentatosi al cospetto dei condannati,
trasse una carta dal seno, e favellò:
- Don Bernardo Cènci, nostro Signore vi fa grazia della
vita. Compiacetevi però fare compagnia alli vostri parenti,
e pregate Dio per le anime loro().
Compiacetevi. Tu nota, lettore, la parola, e ti apparecchia a
vedere pietà di sacerdote che sia. Neanche il demonio,
allevato in collegio dai reverendi Padri della Compagnia di
Gesù, avrebbe saputo o voluto adoperare parola così
satanicamente beffarda, e ipocritamente crudele.
I confortatori allora trassero a don Bernardino le tavolette,
chiamate ancora pietà; ed il carnefice riscontrato il
placet del Papa, lo liberò dalle manette: e non sapendo con
che vestirlo, per torgli l'apparenza di condannato, prese il
mantello rosso del Conte Cènci, ed in quello lo
avviluppò. Così il destino ordinava, che gli ultimi
figli di cotesto scellerato uomo si accostassero al patibolo uno
vestito della cappa nera con la quale costui tradì Iddio, e
l'altro del tabarro rosso col quale aveva tentato tradire Marzio.
Fino le sue spoglie riuscivano funeste alla propria famiglia: come
Nesso, tramandava ai suoi impregnata di odio anche la camicia.
Bernardino riveduto il sole aperto, e sentendosi salvo,
battè palma a palma, saltò, gridò per
allegrezza, chè lo istinto di vita prevalse in quel punto
potentissimo sopra ogni altra passione; ma subito dopo si accorse
quanta gli rimanesse causa di pianto, e come fosse turpe cosa
mostrarsi esultante: rannicchiavasi pertanto ai piedi di Giacomo,
e supplice gli chiedeva perdono.
In Giacomo al lampo di vita era subentrata l'ombra della morte;
aveva già l'occhio vitreo, e smarrito; tuttavolta dalla
gola estenuata profferì a stento queste parole:
- Giubbila, fratel mio; se tu potessi vedermi il cuore,
conosceresti come io n'esulti più di te. Il Signore
incomincia a placarsi meco, poichè si degna mandare un
altro padre ai miei figliuoli. Prendili dunque in custodia,
giacchè tu li puoi ricevere: io raccomando a te il sangue
mio col medesimo affetto col quale raccomando al Creatore l'anima
mia.
- Giacomo, rispose Bernardino abbracciando le ginocchia del
fratello, io ti giuro di far voto di castità, onde altri
amori non mi disturbino dallo avere pei figliuoli, che mi lasci,
viscere di padre.
- Ed ora sia benedetto Dio. Signori, possiamo andare.
Uscita fuori del cortile la processione s'incamminò verso
Santa Maria in Posterula, dove allora restauravano il collegio dei
Celestini, chiamato poi, dal nome del papa regnante, Clementino. A
mezzo la strada dell'Orso il carnefice sbarrò la cappa a
don Giacomo, facendolo rimanere ignudo fino alla cintura: poi,
dato di piglio alle tanaglie roventi, strappò un lembo
della carne di don Giacomo...
Le carni sotto l'ardore del ferro si aggricciarono; il ferro
fumò, una piaga atrocemente dolorosa si aperse, e
mandò leppo insopportabile. Cuore, vista, udito, odorato
rimanevano del pari feriti.
Bernardino balzò in piedi furioso, e tentò con le
nude mani afferrare le tanaglie infuocate; ma il carnefice le
trasse indietro: allora egli, compresa la inanità dei suoi
conati, girandosi in ginocchioni con le mani giunte supplicava:
- O, per pietà, non lo toccate; basta; troppo a lui... per
le piaghe di Gesù, qualche cosa date anche a me.
E siccome mastro Alessandro, coteste preghiere non badando,
tornava a rinnuovare lo strazio, Bernardino gridò:
- Per pietà, signori fratelli, mi ridieno le tavolette...
che io non vegga... non senta... oh! oh! mi si spezza il cuore...
E il fanciullo cadde svenuto.
Don Giacomo stringeva quanto più gli era dato le labbra, e
la pelle delle guance insinuava fra i denti, sicchè ne
aveva la bocca piena di sangue; e ciò faceva per non
gemere. Ma giù dalla fronte grondava il sudore a pioggia, i
capelli dritti come istrice, convulso tutto, singhiozzava
talvolta, ma non gemeva. In questo modo lacerato oscenamente, il
misero procedeva per le piazze di Nicosia e Palomba fino alla
chiesa di Santo Apollinare; donde piegarono a Piazza Navona,
anticamente Circolo Agonale, e quinci per San Pantaleo, li
Pollacchi, e piazza delle Pallottole fino a Campo di Fiore,
mercato dei rigattieri, dove per privilegio si giustiziavano i
condannati dal tribunale del Santo Ufficio.
In questo modo i potenti della terra, ma in ispecie i Pontefici,
costumarono un giorno partecipare alla infamia sembianza d'onore,
e tuttavia costumano. Freme il mondo, o sibila, o ride; ed ei lo
lasciano fremere, ridere, e sibilare, continuando a crear nobili
le spie, e concedere indulgenze e croci ai traditori.
Adesso la processione traversa un suolo che arde: egli è la
piazza dei Cènci. Giacomo sbalordito dal dolore, in qual
luogo lo avessero tratto o non badava, o non sapeva. Giunto a
piè dell'arco dove incomincia la cordonata la quale conduce
alla chiesa di San Tommaso dei Cènci, caddero sopra il suo
capo grida strazianti, ch'ebbero virtù con la tremenda
vibrazione loro di superare perfino l'acuto senso di dolore, che
trapassava il cervello del derelitto cerne un chiodo. Leva gli
occhi, e traverso un velo pargli ravvisare, e ravvisa certo, dalla
terrazza che sormonta l'arco dei Cènci, le braccia
sporgenti della moglie e dei figli.
La idea di mostrarsi in tale stato di abiettezza e di miseria alla
sua famiglia rimescolò tutto il sangue nelle vene di
Giacomo, e glielo spinse poi così impetuoso al cuore, che
traballò per cadere. Ma l'affetto vinse la vergogna, ond'ei
con voce piena di amore esclamò:
- I figli! Oh! i miei figli... datemi i miei figliuoli...
Gli ufficiali preposti alla esecuzione della giustizia intendevano
andare oltre; ma il popolo commosso urlò con un grido solo:
- Dategli i figliuoli.
E siccome gli ufficiali nicchiavano ad obbedire, un maroso
popolare sbarattò la processione, e mugghiando
arrivò fin presso al carro; per la qual cosa gli ufficiali,
ammiccatisi coll'occhio, trovarono giustissimo il desiderio del
popolo, e bandirono ad alta voce niente star loro più a
cuore quanto appagare il voto universale. Fatto pertanto scendere
prestamente don Giacomo giù dal carro, e gittatagli sopra
le spalle la cappa onde rimanessero coperte le ferite, lo trassero
su per la cordonata nel cortile del palazzo. Quali spasimi recasse
allo infelice cotesta tela, che confricando inaspriva le carni
arse, non è da dire; ma egli divorava i gemiti per
pietà dei suoi.
Giù per le ampie scale Luisa, con le chiome sciolte, fu
vista precipitarsi tenendo un figliuoletto in collo, ed un altro
per mano. La seguitava Angiolina recando seco altri figli, e
presto lo ebbero raggiunto giù nel piazzale. Luisa
gittò al collo del marito un figliuolo, il quale vi si
apprese con atto disperato: ella poi volle prostrarsi, ed
abbracciargli le ginocchia; sennonchè al primo muovere che
Giacomo fece dei labbri le membra le si prosciolsero; tanta
pietà la strinse, che cadde priva di sentimenti ai suoi
piedi. Giacomo non la vide, chè il fanciullo pendente dal
collo glielo impediva; onde con voce abbastanza ferma
favellò:
- Figli miei, fra breve ora un colpo torrà a voi un padre;
a vostra madre un marito. Io vi lascio un ben tristo retaggio, e
questo pensiero mi tormenta, ahi! più del mio supplizio.
Quando mi avranno sepolto qui in questa chiesa di San Tommaso, voi
abbiatevi in mente che se sarete cacciati dalla vostra magione,
nessuno potrà chiudervi in faccia le porte della chiesa
edificata dai vostri maggiori. Venite di notte, procurate che
nessuno vi veda, e pregate per l'anima del povero vostro padre.
Luisa, io non ti raccomando i tuoi figliuoli, e miei; io so... io
so, che prima di giungere a loro bisognerà passarti sul
petto. Luisa mia, dove sei?...
Non udendo risposta piegò la persona, e depose in quel modo
il figliuolino sul pavimento, dacchè con le braccia non si
poteva aitare. Allora la vide stesa priva di sensi; però
che levati gli occhi al cielo continuò:
- Signore ti ringrazio, che avendomi dato la contentezza di
rivederla prima di morire, hai tolto a lei il dolore di questa
ultima separazione. Poi, anch'egli prosteso al suolo, la
baciò in volto, e glielo bagnò di lacrime e di
sangue. Quindi baciò i figli ad uno ad uno, che gli si
strinsero addosso cercando ritenerlo con le infantili loro mani, e
mettendo guai così pietosi, che spezzavano il cuore.
- Addio... figli miei, - diceva il misero tra un singulto e
l'altro - addio; ci rivedremo in paradiso. Bernardino, adesso sono
figliuoli tuoi... rammentalo.
E Bernardino si dava tutto smanioso ad abbracciare, e a baciare
quelle creaturine, e come poteva acquetavale, promettendo loro che
presto egli sarebbe tornato a casa. Ed essi:
- Ma il babbo, dì, ce lo rimenerai?
- Io no... ma ve lo riporteranno, non dubitate... Addio.
Piangevano tutti, e si udiva alto dintorno un suono di gemiti, un
singhiozzare irrefrenato, come se a ciascheduno degli astanti
fosse tratto a morte o figlio, o fratello.
Si riprende la via della passione. Chi si sentiva fra gli
spettatori affaticato delle sofferte sensazioni, chi procedeva
cupido di nuove più acute... Anime dure!
Angiolina rimasta sola presso la desolata Luisa, si trovava
sgomenta a trasportarla nelle sue stanze. - Non uno dei tanti
servi, non uno dei tanti clienti, ed amici della famiglia
Cènci si trovava costà per sovvenirla nello ufficio
pietoso. Uomini ed animali si allontanano dalla casa che minaccia
rovina. Ella si fece fin presso la strada pure aspettando che
qualcheduno passasse. Alla fine gli occorse il vecchio Giacobbe
ebreo, che poco oltre il palazzo Cènci teneva bottega di
rigattiere (dacchè parmi avere avvertito, che cotesto
palazzo si trovasse in vicinanza del Ghetto). Su le prime
Angiolina sentì ribrezzo valersi della opera di tale che,
secondo le opinioni del tempo, stimavasi men di un cane; ma vinta
dal bisogno, così alla trista, lo richiese a darle una mano
per portare in casa la povera gentildonna. E Giacobbe, a cui non
erano sfuggiti la superbia delle parole, nè l'atto acerbo,
tentennando il capo rispose:
- Volentieri, donna mia. Il Signore nella via sua ha visitato
questa casa, e tutti i miseri hanno da essere fratelli.
Giacobbe entrò in mezzo ai fanciulli, i quali in
ginocchioni stavano piangendo intorno alla caduta reputandola
morta, e si recò in collo la Luisa consolando tuttavia i
fanciulli, ed assicurandoli che la mamma era viva. Ei la depose
sul letto, le sottomise al capo gli origlieri, e per ultimo,
tenendosi lì ritto ed ossequioso, disse ad Angiolina:
- Nati a soffrire e a morire, anche noi, che voi maledite, abbiamo
un cuore qui dentro. Se più volete da me, domandate, vi
prego, e le creature di Dio divise dalla ingiustizia sieno almeno
riunite dal dolore. Angiolina lo accomiatava, attentandosi per
fino a stringergli la mano. Luisa dopo lunga ora rinvenne: girando
attorno al letto gli occhi smarriti vide i figliuoli, come Niobe
un giorno contemplò i suoi, trafitti dalle saette della
sventura. Si appoggiò sopra un gomito sollevando alquanto
la persona, e con voce languida disse loro queste parole:
- Noi non lo rivedremo più! In breve, fanciulli, noi non
avremo più tetto che ci ricovri: - tutto perderemo in un
punto; padre, congiunti, amici, fama, e sostanze. Dimenticate chi
foste, per rammentarvi quello che siete. Quando gli amici di
vostro padre fingeranno di non riconoscervi, non ve ne adontate: i
servi vi hanno abbandonato, compatiteli; essi stanno attaccati al
pane, e voi non avete più pane: i figli dei gentiluomini si
vergogneranno di voi; bastate a voi stessi: i figli del popolo vi
fuggiranno; riconduceteli a voi con lo affetto: la mano di tutti
sarà contro voi, la mano vostra non si alzi contro nessuno.
Non maledite al padre vostro però che egli fosse misero,
non colpevole; e fosse stato anche reo, non istà ai
figliuoli giudicare dei proprii genitori: ma io vi affermo ch'ei
fu infelice, e innocente; però pregate che se egli non
può più venire verso di noi, a Dio piaccia
ricondurci tosto presso di lui. Siamo soli; raddoppiamo fra noi i
vincoli dello amore, e noi non ci accorgeremo della nostra
solitudine...
A questo punto degli accenti desolati fu udito dietro di loro un
rammarichìo, che gli accompagnava. Luisa piegata la faccia
conobbe essere Angiolina, la quale a rispettosa distanza
genuflessa aveva giunto le manine al suo pargolo, e quelle levate
con le proprie verso il cielo plorando pregava. In cotesto modo la
gentile intendeva significare alla Luisa Cènci, che non
tutti i cuori l'avevano disertata; e gliene avanzava sempre
qualcheduno il quale parteciperebbe alle sciagure della sua
famiglia, e piangerebbe con lei.
Comprese la Luisa la rampogna amorosa, e chiamata a se Angiolina
le cinse di un braccio il collo, e baciatala riprese:
- Sorella, ti domando perdono; e levati gli occhi al cielo
soggiunse: Signore, ti prenda pietà di due vedove desolate;
- se tu non ci sovvieni, noi non ne possiamo più.
E chinata la testa stette alquanto in silenzio. Poi
continuò:
- Ecco, figliuoli, voi non sarete soli: adesso avete acquistato
due creature dalle quali sarete amati. Dio vi toglie un padre, e
vi manda una seconda madre: ultima a perdersi è la
speranza, ma finalmente anch'essa si perde; una amica provata
dalla sventura non si perde mai.
Le donne continuarono a piangere; però da quel punto in poi
sentirono sgorgar meno amare le lacrime. Quando Dio dall'alto dei
cieli contempla l'amico che si stringe all'amico nel giorno del
dolore, si compiace aver creato l'uomo; ed allora soltanto si
rammenta averlo creato ad immagine sua.
CAPITOLO XXXI.
L'ULTIMA ORA.
Il bellissimo collo al ferro offerse.
Massini()
O mia Francia! Nobil terra,
O mio sangue di Borbon!
Sol compiei diciasette anni,
Nei diciotto appena or son.
Dal Re ancor non conosciuta,
Con le vergini men vo.
Quanto fei per te, Castiglia,
Tradimento non ci entrò.
Le corone, che mi hai dato,
Son di sangue e di dolor;
Ma ne avrò su in cielo un'altra,
Che ben fia di più valor.
Alla fin delle parole
Il mazzier la mazzicò,
Le cervella del bel capo
Per la sala sparpagliò.()
La processione che conduce al patibolo i fratelli Cènci,
dopo avere percorso diverse strade, giunse alla fine in via
Giulia, dove sostò davanti la carcere di Corte Savella.
Beatrice e Lucrezia meditano in silenzio. Padre Angelico anch'esso
prega; ma vigilando attento egli ascolta un rumore, che sempre, e
più sempre si avvicina. Alza le ciglia, e vede traverso il
pertugio della porta del carcere balenare una figura che gli
accenna della mano, ed egli comprende quel cenno. Oh Dio!
comecchè da lungo tempo ei logorasse la vita nella opera
senza fine amara di porgere conforto ai miseri ridotti ai supremi
infortunii, non gli bastava l'anima per avvertire Beatrice, che
era forza andare. Mentre ei stava improvvido di quello che si
avesse a fare, la fanciulla gliene offerse il modo nelle preci che
indirizzava a Dio.
- E se, ella diceva, questa immensa voglia che mi spinge fuori
della vita verso le tue braccia, o Signore, è peccato, e tu
me lo perdona. Quanto mi tarda aspettare! Io sono quasi un esule,
che sopra la spiaggia riarsa dal sole affretta col desiderio la
nave che deve ricondurlo in patria. O cielo, patria veramente pia
di tutti quelli che soffrono!
- Figlia, se ti senti così gagliarda, il Signore già
viene... è venuto a pigliarti. Andiamo.
E levatosi in piè sommette la sua mano venosa alla mano
candidissima di Beatrice, la quale, anch'essa di subito alzatasi,
esclamò:
- Quaggiù il soffrire è martirio; in paradiso
è gloria... Andiamo... andiamo.
Qui, o curiosità o pietà che si fosse, in maggior
copia si radunava la gente; la quale stipata per la via, appena
dava adito per muoversi al sinistro corteo. Uomini e fanciulli
vedeansi appollaiati, a mo' di uccelli, su per le cornici e i
remenati delle finestre, o rannicchiati in forma di grottesche
cariatidi per le bozze dei muri, pei soprapporti, e perfino ai
bracci di ferro da sostenere i lampioni. Cotesta era plebe o
lacrimosa senza pietà, o stupida senza ferocia, tutta
lamentante un fato, che nessuno fra lei avrebbe steso un braccio
per mutare: all'opposto lo avrebbe trattenuto; imperciocchè
quelle sieno feste per la plebe tanto più accette quanto
più acri di commozioni, ed apprestate a lei senza spesa.
Comparve prima donna Lucrezia col velo nero avviluppato intorno al
capo, e poi cascantele fino alla cintura: con la cappa nera di
tela di cotone di maniche ampissime, ed aperte: con la camicia di
tela eletta piegata in righe minutissime, e chiusa ai polsi,
siccome allora ne correva l'andazzo. Intorno alla vita non portava
la fascia bianca che a quei tempi costumavano le vedove in Roma,
bensì una corda, entro la quale le stavano costrette le
braccia; non tanto però, che con la destra non potesse
recarsi davanti agli occhi un Crocifisso, e con la manca asciugare
il sudore che le grondava dalla fronte: calzava pianelle basse di
velluto nero, con fiocconi di seta dello stesso colore.
L'affanno lungo non aveva potuto appassire la divina bellezza di
Beatrice. A guisa di fiamma vicina a spegnersi, parve raccogliere
tutto il suo splendore per iscintillare più vivace. Il
patimento l'aveva spruzzata con la rugiada che stilla in cielo
dalle palme dei martiri: ella sta tuttavia sopra la terra, ma come
un angiolo che apre l'ale per librare il volo al trono di Dio.
Beatrice comparve assettata in modo alquanto diverso dalla
matrigna: il velo aveva bianco; sopra le spalle un drappo di
argento; la vesta di taffettà color di viola; le scarpe
alte di velluto bianco con fiocconi, trine, e tacchi cremesini.
- Eccola! Eccola! Come balena corre questa parola di bocca in
bocca dai prossimi ai lontani; e, quasi che non serbassero cuore
ed occhi tranne per lei, intesero tutti alacremente lo sguardo per
contemplarla.
Mosso ch'ella ebbe un piede fuori della porta le andò
incontro il Crocifisso della Misericordia a mezzo involto dentro
un velo nero lungo e pendente, che, ventilato dal soffio del vento
settembrino, pareva una vela gonfia dall'aura propizia alla
partenza.
Il Crocifisso le s'inchinò davanti come per salutarla, ed
ambe le donne si prostrarono. Beatrice, adorando, con voce alta
così parlò:
- Poichè tu vieni a me con le braccia aperte, piacciati,
Cristo Redentore, ricevermi col medesimo affetto col quale io
vengo a te.
Dall'alto della carretta Giacomo e Bernardino avendo veduto la
bella innocente, rimorsi nella coscienza per averla costretta a
confessarsi colpevole in grazia di salvarli da morte, parendo loro
esser causa del supplizio di lei, e sospinti da un medesimo
affetto, prima che li potessero impedire precipitarono giù
dal carro; e, gittatisile ai piedi, gridando mercede dicevano:
- Perdono, sorella; tu vai innocente, per colpa nostra, alla
morte.
Beatrice visto l'osceno scempio delle carni del suo fratello
abbrividì, e si sostenne sul braccio del padre cappuccino;
ma tosto, ripreso animo, con serena faccia rispose:
- Che cosa ho io da perdonarvi, fratelli miei? Nè la
vostra, nè la mia confessione ci manda a morte,
bensì la sostanza; e di questo ormai avreste dovuto
accorgervi. Di che dunque avrei a perdonarvi io? Forse di avermi
fatto abilità di abbandonare per tempo questa macchia piena
di fiere col sembiante umano? Ma a me tarda di uscirne. Forse per
andarmi colà dove non sono oppressori, nè oppressi?
Ma se fosse subito, non mi parrebbe presto abbastanza. Su via,
coraggio, Giacomo; ormai possono farti un male grave, ma breve.
Chè stiamo noi qui? Affrettiamoci a riparare nel seno del
Consolatore, che ci aspetta... alla pace eterna... alla pace.
Pieni di nuovo conforto, che infuse nell'animo loro la mirabile
costanza della vergine, risalirono il carro, e imperturbati
soffersero il proseguimento della passione.
Beatrice camminava presta e leggiera, come persona cui premesse
arrivare in tempo al convegno assegnato; e passando dinanzi alle
chiese, che molte le occorsero per istrada, come Santa Maria in
Campitelli, San Carlo dei Catenai, Santo Stefano in Pesciaiola,
Santa Caterina dei Lotaringi, Santa Lucia della Chiavica, e Santi
Gelso e Giuliano in Banchi, si prostrava, e pregava con tante
affettuose preghiere, che quelli che la udirono ebbero a dire non
avere mai provato in tempo di vita loro una passione al cuore
così dolorosa, e desiderarono che Dio li gratificasse in
punto di morte a uscire con fede, e giubbilo pari al suo da questa
vita.
Uno degl'incappucciati però sembrava ricavare inestimabile
fastidio dalle frequenti proteste emesse da Beatrice intorno alla
sua innocenza, e col tentennare del capo, e lo storcere della
persona irrequieto lo manifestava turpemente. Per ultimo, essendo
egli dei confortatori, che procedevano al fianco della Beatrice,
spinse la temerità sua fino a sussurrarle dentro le
orecchie:
- Ma cui vi avvisate ingannare voi, col chiamarvi con tanta
pertinacia innocente? La giustizia umana non poteste deludere: o
che pensate riuscire meglio con la divina?
Beatrice sentì nel profondo l'oltraggio; ma ormai non la
toccando più cosa terrena, invece di adontarsene, rispose
con voce pacata:
- E perchè parlo a Dio, al quale nulla è nascosto,
io favello parole di verità.
- Ma voi avete confessato fuori dei tormenti.
- Così mi persuasero a fare per la salute dei miei; e se
questa confessione fosse stata causa della mia morte, io avrei a
pentirmene come di un peccato grave; ma la nostra morte era
stabilita prima del processo. In mano ai giudici fummo consegnati
non perchè ci giudicassero, bensì perchè ci
ammazzassero; e commetterci addirittura in mano al boia sarieno
stati tempo e spese risparmiati.
- No, voi siete colpevole; ed io vi dico che la porta della salute
è chiusa per voi, se voi, umiliandovi, non confermate coram
populo la vostra confessione.
- Sono questi i conforti co' quali mi consolate? Ricominciano
adesso i tormenti del Luciani? La mia salvezza non dipende da voi,
nè da qualsivoglia mortale sopra la terra. Tacete.
- Non tacerò. Voi siete rea, voi dovete rendervi in colpa
di parricidio...
In questa un vaso di fiori caduto dall'alto, a bella posta o per
caso, percosse sopra la spalla dello incappato: il colpo
stritolategli le ossa, lo stramazzò a rotolarsi per terra
con angosciosi guai. Accorsero i fratelli a rilevarlo, e trattogli
il cappuccio, lui riconobbero essere Giovanni Aldobrandino, nepote
del papa. I suoi parenti lo avevano mandato confortatore non
già, bensì testimone della strage. La strage fu
compita, ma egli non la vide.
Dalla via di San Paolino sboccano sopra la piazza del Castello
Sant'Angiolo, altramente detto Mole Adriana. I riti funebri dei
pagani furono aboliti da Cristo, e non pertanto i suoi sacerdoti
continuano a svenare sopra cotesto sepolcro vittime di schiavi,
che intendono riscattarsi dalla servitù. Un giorno la
vittima sagrificherà il sacerdote, ma rimarrà illeso
il Dio.
In mezzo alla piazza sorge il palco, e quivi sopra una panca e un
ceppo; sul ceppo una mannaia. I raggi del sole declinante
illuminano il ferro forbito, che par di fuoco; gli occhi di quelli
che lo guardano ne rimangono feriti. Il popolo denso e stipato
ondeggia come campo di biada matura battuto dal vento della
canicola: per cotesto moto si comprendeva quello essere il regno
delle tempeste, ma in quel momento la procella taceva. Arrivata la
processione presso la cappella di San Gelso, dove stava esposto il
Venerabile, (stazione ultima dei condannati che qui dentro,
adorando, dovevano aspettare di venir tratti di mano in mano al
supplizio) ecco cotesta massa di popolo incomincia a infuocarsi,
ed a ribollire a mo' di bronzo liquefatto per fondere campana, o
cannone; chè gl'istrumenti di morte, o di pietà si
compongono dagli uomini col medesimo metallo! - Dall'alto si
vedeva la gente fuggire qual da un lato, qual dall'altro, e
respinta respingere; sicchè il moto si propagava lontano.
Un pugno di uomini, distinto col pampano al cappello, si avanzava
chiuso e taciturno, menando colpi di stile a diritta e a manca.
Quanta, e quale si spargesse dintorno la paura, quanto lo
scompiglio, e come alte e disperate rimbombassero le grida, non
sono cose che le si possano convenientemente con parole
significare. Gli scudieri tentavano sospingere i cavalli, ma
questi spaventati ricalcitravano: gli sbirri, come coloro che
sanno quanto peso di odio si aggravi sopra lo infame loro capo,
attendevano a mettersi in salvo. Fratelli della Misericordia,
sacerdoti, torcie, Cristo, gonfaloni, ogni cosa a rifascio.
Mastro Alessandro, ritto su la carretta, si teneva sempre sotto
mano Giacomo e Bernardino Cènci, come falco che stringa due
passeri fra gli artigli. Mirabili gli atteggiamenti ed i segni
della passione, così degli uomini come delle donne, dai
veroni, dai tetti e dai palchi; pietosissimi i guai della gente
sbattuta su la piazza: alcuni calpestati, altri soffocati
morirono; donne gravide si sconciarono: parecchi perfino, o per lo
spavento, o pel calore del sole che picchiava loro sul capo
intensissimo, o per ambedue queste cause, ammattirono. Per arroto
al tramestio alcuni palchi, tra per essere abborracciati, tra per
andare stracarichi di persone, si fracassarono con orribile
rovina; e dei caduti qual si ebbe o gamba, o testa, o braccio
rotti, e nessuno rimase senza ammaccatura.
Guido sopra il suo focoso cavallo queste cose vedeva, e sentiva
struggersi l'anima dentro nella esitanza del fine. Ecco i suoi
compagni procedendo si accostano a Beatrice; ecco l'ultimo
ostacolo è remosso: ora la prendono... l'hanno presa, la
sollevano, la traggono via. Ella è salva. Il popolo scoppia
in immenso grido di gioia; anch'egli fa spalla ai rapitori; e se
nei proprii moti non s'invescasse, gli sovverebbe con più
fruttuosi conati.
Guido non si potendo padroneggiare stende le braccia, quasi
intendesse accertare lo spazio che lui separa dalla sua Beatrice.
Come ventura volle, nella smaniosa movenza della persona stretta
la gamba destra venne a ferire dello sprone il polledro, che,
già da tanto trambusto spaventato, sbuffa feroce; e come se
questo non bastasse a concitarlo, allo improvviso davanti a lui si
scoscende fragoroso un palco, dove i casi lamentati poco anzi si
rinnuovarono. Il polledro allora invaso da rabbia irrefrenabile,
sciolto dalle redini, si avventa come fulmine; e rompendo la calca
col petto, mordendola e calpestandola, trasporta seco in sua
balìa il misero amante.
Malgrado simile infortunio i compagni di Guido avrebbero condotto
in salvo la Beatrice, avvegnachè non fossero gente da
smarrirsi, e, impadronitisi della prima carrozza fosse loro
capitata davanti, avrebbero fatto prova di trasportarla con
quella: ma lo intoppo venne da altra parte, essendo stato fatale
per Beatrice che lo affetto degli uomini le nuocesse più, e
peggio dell'odio.
Il popolo, arricciandosi come l'acqua che rompa nei frangenti,
storna impetuoso, rincalzato da una squadra di armati distinti col
tassello bianco su la berretta: anche questi dicevano davvero,
dacchè menassero fendenti da recidere teste, o punte da
traforare parte parte chiunque fosse stato tardo a cansarli.
Beatrice per entro a questo contrasto sembrava navicella in mezzo
al mare in burrasca. Ora appariva su l'onda delle teste
popolesche, ora spariva, ora avanzava, ora indietreggiava; - un
passo alla fuga, - un passo al patibolo.
Il giovane Ubaldini, che dalla staffa della carrozza apparecchiata
a ricevere la Beatrice vedeva tutto, conobbe come altri si
affaticasse a salvarla, e, per difetto di accordo, invece di
aiutarsi s'impedissero, con rovina manifesta della impresa.
Atterrito dal pericolo presentissimo, precipitò giù
per correre ad ammonire i suoi cessassero di spingere avanti; al
contrario voltassero faccia, se non volevano perdere la Beatrice.
Ma il dabben giovane tra lo scompiglio, le ferite e le strida non
giunse a farsi intendere da tutti; e i pochi che lo intesero non
sapendo quello ch'egli volesse, e vedendolo disertato dal suo
posto, tennero per disperata la faccenda, ed invilirono
nell'animo.
Intanto i cavalieri sgominati prevalendosi del terreno sgombro si
raggranellavano, e si stringevano: dietro ad essi anche gli sbirri
si riunivano. Ricomposta la squadra, il capitano ordinò la
carica; la quale riuscì molto agevolmente, dando dentro a
gente scomposta. Il giovane Ubaldini, come lo consiglia amore, si
attenta solo a far testa agl'irrompenti cavalli, e ficca fino
all'elsa la spada nel collo al primo che gli si para davanti; ma
gli altri oltrepassando gli menarono due fendenti, uno dei quali
gli spaccò il cranio, e l'altro gli recise la spalla;
cosicchè ei cadde in terra per morto. La milizia a piedi
serratasi in quadrato, presentava una massa a scompaginarsi
impossibile. In questo modo da tergo incalzati, e di faccia
respinti, ai compagni di Guido non rimase altro scampo che
salvarsi dai lati, la qual cosa essi fecero con incredibile
ferocia allorquando conobbero la impresa rovinata. La Beatrice,
appunto come la navicella dopo essere stata lungamente sbattuta
viene gittata dalla crescente procella a rompere fra gli scogli,
dai moti diversi e contrarii dei suoi medesimi salvatori è
sospinta ai piedi del patibolo.
Qual cuore fu il suo in mezzo a coteste vicende? Riaperse Beatrice
il petto alla speranza? Accarezzò le liete immagini della
vita? Le sorrise amore? Le sorrise amore; ma tanto ella non
desiderò più la vita. Troppo camino ella aveva
percorso verso il sepolcro per tornarsene indietro, e ricominciare
da capo; però che tutto quello che aveva detto intorno a
questo argomento le fosse uscito proprio dal cuore. Lei oggimai
invadeva, non dirò smania, ma desiderio sincero di riposare
il suo capo nel seno di Dio: e nonostante questo le sorrise amore,
chè anche su l'orlo del sepolcro la creatura umana, in
ispecie la donna, si talenta del sapersi amata. Errano poi quando
scolpiscono Amore lacrimante sopra la tomba della vergine
innamorata: egli vi scende insieme con lei, e vi dimora;
avvegnachè anche le nude ossa tremino di amore quando
l'amico si volga alla cara defunta con un ricordo, o con un
sospiro. Beatrice vide Guido, e gli mandò lontano l'ultimo
addio. Guido vide lei, e, malgrado lo spazio, si baciarono col
guardo.
Si baciarono! A piè del patibolo, o dopo la estrema
unzione, anche una santa può soffrire essere baciata
dall'uomo che di lei s'innamorò. Non si registra fra le
colpe in cielo il penultimo bacio di amore, purchè l'ultimo
sia quello della morte. Anche Michelangiolo baciò Vittoria
Colonna mentr'ella spirava. Questi affetti non possono
comprendersi dai vulgari, bensì da menti use a disvelarsi
nel raggio della divinità; da anime, che nascendo abbiano
sortito intelletto di amore. E Beatrice, come se fosse presente,
come se gli tenesse le dita fra i ricci delle chiome bionde, in
armonia di musica favella al suo amatore queste parole:
- Ah! Guido, amor mio, sta lieto; Dio non vorrà tenerti a
tribolare quaggiù. Guido, piangi... pentiti; ogni lacrima
ti darà una penna per salire al sommo Bene: non si vola al
cielo che con ale di dolore.
Il Padre Angelico stava atterrito; e maledicendo allo spirito
maligno che suscitava in lei cotesti pensieri terrestri, la
chiamava fortemente a nome, e la scongiurava di tenere lo
intelletto intero appuntato in Dio.
- Beatrice sgombra dall'anima ogni ardore, che non sia celeste.
Non ti voltare addietro sopra la soglia della Eternità a
contemplare la vita.
E Beatrice, sorridendo:
- Padre, gli rispondeva, io sono una povera femmina peccatrice, e
voi santo maestro di divinità; e tuttavolta io vi assicuro,
che non commetto peccato pensando al mio amore. Io aspiro a nozze
spirituali; il mio desiderio si volge al connubio delle anime. Io
sposerò il mio Guido in paradiso; fra le braccia del nostro
Creatore ci abbracceremo. Amore è Dio, e Dio è
Amore...
Il buon cappuccino non andava gran fatto persuaso di quella
maniera di teologia, ma conosceva non esser tempo, nè luogo
cotesti per disputare; onde si contentò ammonirla:
- Figlia... ecco il vostro sposo Gesù... in questo
affissatevi... questo con tutta l'anima baciate...
- Oh! sì, con tutta l'anima, perocchè egli fosse
tutto amore per noi.
E così i condannati si raccoglievano dentro la cappella.
Passato il tempo che concedevasi all'adorazione del Sacramento,
onde per loro potessero conseguirsi le indulgenze a larga mano
prodigate dal pontefice, la Misericordia col Crocifisso parato a
lutto venne per Bernardino. Il povero fanciullo andò
più morto che vivo; e quando, giunto a piè della
scala, gli comandarono che salisse.
- Oh Dio! Oh Dio! - esclamò affannoso - di quante morti ho
io da morire? Due volte mi avete promesso la vita, e due volte mi
tradite. Ahimè, che strazio è questo?
Nè le parole valsero a persuaderlo del contrario, ch'egli
si tenne spacciato: e giunto che fu in cima al palco, alla vista
della mannaia deposta sul ceppo gli si drizzarono i capelli.
Allora svenne la seconda volta.
I fratelli della Misericordia gli furono attorno con acque
stillate per farlo risensare, e tornato in se lo accomodarono
accanto al ceppo, assicurandolo ch'egli non doveva morire;
soltanto starsi a contemplare il supplizio dei suoi!
La Misericordia, con le solite cerimonie, andò per la
Lucrezia Petroni. La piissima gentildonna considerando Beatrice
assorta nella sua meditazione si levò pian piano, e giunse
quasi fino alla porta senza che la figliastra si accorgesse della
sua partenza. Allora però Beatrice levati gli occhi, non la
vide più; per la qual cosa le venne fatto esclamare:
- Ah! signora madre, perchè mi avete voi abbandonato?
Lucrezia, circondata dai fratelli della Misericordia che le
celavano la vista della fanciulla, nel varcare la soglia della
cappella rispose alla pietosa domanda:
- Non ti abbandono, no. Io ti precedo a mostrarti la via.
Lucrezia, come colei che di persona era grave, male riusciva a
salire la scala; però che le ordinarono, e non si comprende
la causa, lasciasse le pianelle a piè del palco, e
così ella fece: poi si erpicò come poteva, ed alla
fine, quantunque a stento, giunse sul ripiano del palco. Il
carnefice allora le tolse il velo di capo, e il panno dalle
spalle. La donna nel vedersi così nuda il petto alla
presenza del popolo, diventò per verecondia vermiglia fino
alla radice dei capelli. Fissò la mannaia, tremò, e
con molte lacrime disse:
- Signore, abbiate pietà dell'anima mia, che ora viene al
giudizio; - e voltatasi al popolo, continuò: «E voi,
fratelli, pregate tutti Dio per me».
Poi domandò al boia quello ch'ella dovesse fare, ed egli le
rispose s'ingegnasse accomodarsi a cavalcare la tavola del ceppo,
e vi si stendesse sopra bocconi. Lucrezia pudibonda esitò
alquanto a traversare con la gamba la tavola; pure alla fine vi si
adattò: più doloroso intoppo rinvenne nello
assettarsi col capo, avvegnachè la tavola fosse angusta ed
aspra, onde le mammelle nello agitarsi le uscirono fuori della
cappa, e le si stiacciarono con molta sua angoscia.
- Oh! quanto è duro accomodarsi qui sopra!
E queste furono le parole estreme di lei. Bernardino si coperse
gli occhi col tabarro rosso. Un colpo sordo fece rintronare il
palco, e traballare il fanciullo. La testa della Lucrezia era
recisa. Il carnefice con una mano la strinse pei capelli, con
l'altra sottopose al collo tagliato una spugna; e così
mostratala al popolo, gridò:
- Questa è la testa di donna Lucrezia Petroni
Cènci...
Quel corpo rimase immobile; non così il capo, che aperse e
chiuse gli occhi più volte, e più volte, torcendo i
muscoli della bocca, borbottò interrotte parole. Mastro
Alessandro ravviluppato il capo dentro il velo nero, calò
mediante una corda a piè del palco, il capo e il corpo. I
fratelli della Misericordia ricomposero le membra nel cataletto, e
le portarono a San Gelso finchè la giustizia avesse
compimento.
La opera ferve. Il carnefice e i suoi valletti forbiscono le
tavole dal sangue; assestano gli arnesi; la mannaia si chiama
pronta, e il braccio disposto a tagliare.
I fratelli s'incamminano alla volta di Beatrice: appena ella li
vide domandò loro:
- La signora madre è morta bene?
- Ha fatto buona morte; ed ora, le risposero, ella vi attende in
cielo.
- E così sia.
Allorchè rivide il Crocifisso della Confraternita
proferì soavissimamente queste parole, raccolte, e con
religione tramandateci da cui le ascoltò:
- «Mio buon Gesù! se tu versasti il tuo sangue
preziosissimo per la salute del genere umano, confido che anche
una goccia sarà stata per me. Se tu, innocentissimo, fosti
con tanti oltraggi vituperato, e con tanti tormenti morto,
perchè ho a dolermi di morire io che sì lungamente
ti offesi? Aprimi, per la tua infinita bontà, le porte del
cielo, o almeno mi manda in luogo di salvazione».
Un valletto del boia si accosta alla gentildonzella per legarle le
mani dopo le spalle; ma ella, dando indietro di un passo, gli
disse:
- Non fa mestieri.
Ammonita che patisse anche quell'ultima umiliazione, con lieto
animo rispose:
- Orsù, dunque, lega questo mio corpo alla corruzione; ma
affrettati a sciogliere l'anima alla immortalità.
Uscita all'aria aperta trovò su la porta sette vergini
vestite di bianco, che l'aspettavano per accompagnarla. Queste
nessuno inviò. Udendo come Beatrice avesse testato tutta la
sua dote in favore delle figlie del popolo romano, esse eransi
mosse spontanee a darle questa prova estrema di gratitudine.
Volevano licenziarle, ma non vollero intendere, e si ostinarono a
seguirla. Allora un banditore trasse di tasca una carta, e lesse a
voce alta:
- Per parte dello illustrissimo monsignore Ferdinando Taverna
governatore di Roma: - Saranno applicati tre tratti di corda,
senza pregiudizio delle altre pene ad arbitrio, a chiunque, sia
con parole sia con fatti, si attentasse a mettere impedimento alla
gran giustizia, che si fa della scelleratissima casa Cènci.
E perchè mai fino a quel punto i banditori non avevano
avuto voce, ed eransi tenuti nascosti? Ranocchie maligne, non
sanno gracidare se non quando il cielo è tranquillo, ed
ogni cosa dintorno cade sepolta nel silenzio.
E le fanciulle, udita la grida, stettero più salde di
prima, osservando:
- Noi non veniamo a impedire, bensì a consolare; se avremo
peccato ci puniranno.
- Deh! non togliete a me nè a loro questa dolente dolcezza,
- disse interponendosi Beatrice; e i fratelli della Misericordia
tolsero sopra di loro il pericolo del concederglielo.
Tutti insieme si avviano. Beatrice intuona con voce sonora le
litanie della Beata Vergine, e le fanciulle seguaci le vanno
rispondendo molto devotamente: Ora pro nobis.
Eccola sul palco. Senza viltà come senza jattanza ella si
volge alle vergini, le bacia in volto, e poi così favella:
- Sorelle! della carità vostra vi renda Dio quel rimerito,
che per me non si può. Io vi lasciai la mia dota, ma
ciò non vale il pregio che mi diciate grazie;
perchè, vedete, alle nozze a cui vado, lo Sposo si contenta
di un cuore contrito ed umiliato. Io vorrei lasciarvi gli anni che
avrei dovuto vivere, per aggiuntarli ai vostri; e meglio le
contentezze che avrei dovuto godere. Sia per voi lo amore fonte di
gioie, come a me lo fu pur troppo di affanni senza fine amari! Voi
diventerete madri: amate i vostri figli, e questi sieno la corona
della vostra vita. Raccomandovi la mia memoria: serbatela cara; e
quando taluno vi domanderà di me, ditegli con fronte
secura: Beatrice Cènci morì innocente... innocente
per quello onnipotente Dio, al cospetto del quale sto per
comparire; non immune certo dal peccato, perchè davanti al
Signore chi senza colpa? Ma del delitto pel quale vengo sospinta a
morte, innocentissima. Giudici mi condannarono. Storici
scriveranno del misfatto appostomi come di cosa dubbia; ma vostra
mercè si manterrà incancellabile nella mente del
popolo il ricordo della mia innocenza. Quando la ingiustizia
avrà consumato il suo regno, ch'è breve, la
pietà eterna forbirà la nota d'ignominia stesa sopra
il mio nome, ed io sarò il sospiro di quante vivranno in
questa terra vergini belle, ed infelici. Addio.
Il sogno di Giacobbe adesso si rinnuova agli occhi del popolo
romano. Un angiolo ascende su per una scala al paradiso. Ai
più lontani apparisce il suo capo velato, poi le spalle,
poi i fianchi; adesso è sorta tutta in piedi sul palco.
- Tu hai promesso toccarmi soltanto col ferro, parla al carnefice;
tu almeno mantieni la fede, e m'insegna quello che io mi debba
fare.
Ed egli glielo disse.
Bernardino teneva sempre il volto turato col tabarro rosso: ella
gli si accostò cauta e leggiera, e depose sopra i suoi
capelli un bacio a fior di labbra. Un tremito corse per le ossa al
garzoncello, che, remosso alquanto il tabarro, guardò, e
vide la bellissima faccia della cara innocente.
E svenne per la terza volta.
Beatrice agile cavalca la panca, e si distende prona sopra la
tavola. Il molle di cotesto atto, che Amore illeggiadrì con
le grazie pudiche, percosse anche la mente del carnefice, il quale
pensando alia figlia, esita a disfare quell'amabile forma;
ond'essa, accortasi di alcuna dimora, comandò:
- Ferisci.
E il braccio scese. Tutti chiusero gli occhi; e l'aere battuto
eccheggiò di un solo, lacerante, e lunghissimo grido.
Il capo spiccato non agitò fibra: vi rimase fisso il
sorriso col quale moriva, lusingata dalle visioni di una vita
migliore; all'opposto il corpo si ritirò meglio di quattro
dita, e si dibattè tremendamente convulso; poi tacque.
Il carnefice stende la mano mal ferma a quel capo, per darlo in
mostra al popolo; ma Padre Angelico ed i Confortatori lo
trattennero: uno di loro vi pose sopra una corona di rose, e dopo
averlo avviluppato dentro il velo bianco, gridò alla gente:
- Questo è il capo di Beatrice Cènci vergine romana!
Guido poichè ebbe adoperati tutti gli argomenti per vincere
lo spaventato cavallo, ricorse all'estremo partito. Abbandona le
redini, e, prosteso giù lungo il collo, con ambe le mani
gli tura le narici fumanti. Il polledro, impedito nella
respirazione, si ferma; egli lo stazzona alquanto, poi di un
subito datogli un tratto con la briglia a sinistra, ed una
spronata a destra, lo avvolge, lo avvibra per la strada percorsa,
e tempestando ritorna sopra la piazza del castello.
Egli vi giunge allorchè il confortatore, sollevato il capo
di Beatrice, gridava: «Questo è il capo di Beatrice
Cènci vergine romana!»
*
* *
I fratelli della Misericordia quando ebbero composto anco quel
corpo dentro il cataletto, lo portarono a San Gelso. Quivi toltale
la corona dal capo, gliela cinsero intorno al collo. Il taglio,
che separava il capo dal busto, era nascosto da quel serto di rose
fresche e odorose colte sul mattino: qualcheduna appariva
più rossa che per ordinario le rose non paiono; - era
intinta di sangue.
I fratelli, rifiniti di ambascia, presero un poco di riposo.
Il palco è forbito; gli ordigni di nuovo apparecchiati. La
bocca del sepolcro non dice mai: basta. Il patibolo aspetta la
terza vittima.
Dovrà la mia storia funestare le sue ultime pagine col
racconto di un supplizio, che vince in orrore ogni più
truce immaginazione? Lo racconterò; però che scempii
siffatti durino tuttavia in parecchie parti di Europa, che pur si
vantano civili; e non corrono molti anni che gli udimmo praticati.
Certo chi gli subì colpevole era; ma la morte del reo
dovrebbe bastare alla vendetta della legge, o allo esempio degli
uomini. Che Dio vi danni, anche i supplizii hanno a pompeggiare di
lusso? La immanità, che passa il fine della pena, giova a
suscitare in benefizio dello scellerato la misericordia che
dovrebbe riserbarsi unicamente pel misero.
I fratelli della Misericordia, rinfrancata alquanto la lena,
muovono per prendere don Giacomo. Lacero, grondante sangue,
trafitto di piaghe e di spasimi, che noi non possiamo immaginare,
non che descrivere, oh! questo sì che desiderava la morte,
come il cervo assetato la fonte delle acque. Egli andò con
passi veloci coperto della cappa e del cappello della
Misericordia; salì presto la scala funesta; cappa e
cappello gli tolsero, ed ei rimase nudo fino alla cintura,
mostrando le turpissime piaghe. A cui lo vide non parve natural
cosa ch'egli conservasse in quello stato la vita, ma i sensi
altresì e la favella. Si approssima a Bernardino, il quale
tornato in se forte batteva i denti, e gli occhi fissava, immemori
di quello che vedevano. Certo il fanciullo somministrava materia
di pianto infinito, ma le lacrime erano esauste nella fronte di
Giacomo; le aveva ormai versate tutte: adesso non gli rimane a
versare altro che sangue, - e di questo anche poco. Egli pose la
mano sul capo al fratello, e, voltata la faccia verso Banchi, a
voce alta esclamò:
- Io per l'ultima volta protesto, don Bernardino mio fratello
essere incolpevole di tutto misfatto; e s'egli confessò
altramente, ciò fece per forza delle torture. Pregate per
me.
Il carnefice gli lega le gambe ad uno anello fitto nello
intavolato; gli benda gli occhi, e presa la mazzuola a mani
sciolte gliela vibra nella tempia sinistra. Egli stramazza di un
tratto come bove al macello. Il boia raddoppia altri sei colpi pel
petto, e pel tergo del caduto. Le ossa stritolandosi stridono:
schizzano dintorno sangue, lacerti di carne, e frantumi di
costole: poi il boia si curva, e gli pone sotto il collo la mazza,
sopra la fronte un piede, sopra il seno un ginocchio, e gli sbarra
la pancia, dove, tuffando il braccio fino al gomito, lo ritrae
imbrattato di sangue, con le viscere fumanti del giustiziato in
mano, le quali mostrò al popolo urlando:
- Questa è la corata di Giacomo Cènci.
E la gittò in un canto; poi a colpi di accetta lo
squartò. Uno sprillo di quella onda di sangue, che allagava
il palco, e gorgogliando grondava giù da più lati,
zampillò su la faccia a Bernardino, cui quel tepido lavacro
partecipò tanto di conoscenza quanto bastasse a comprendere
il truce scempio fraterno.
E svenne per la quarta volta.
Ora poi il popolo credè morto anco lui. Condottolo subito
in prigione, a grande stento lo riebbero; ma svagellando del
continuo, e travagliato da grossissima febbre. Per molti giorni
giacque della vita in forse, finchè, in virtù
dell'assistenza dei meglio celebrati fisici di Roma, dopo molti
mesi di malattia scampò.
La gente pendeva dubbia allora, oggi è chiarita - se a pena
maggiore avesse condannato il Papa Bernardino, o i suoi parenti. -
Il placet di Clemente dichiarava: - graziarsi don Bernardino
Cènci della vita, commutandogli la pena di morte con
l'altra della galera a perpetuità, e a condizione che
stesse presente alla giustizia dei suoi congiunti.
Clemente papa nell'anima sua, se pure non è peccato grande
contro Dio chiamare anima la sostanza infernale capace di questi
pensieri, meditava così:
- O Bernardino alla vista della strage vien meno, ed ho nel punto
stesso conseguito il benefizio della sua morte, e la fama di
clemenza: - o le sue fibre resistono alla scossa, e allora la
morte civile partorisce i medesimi effetti, in quanto alla
confisca dei beni, che lo estremo supplizio.
In questo modo perdonavano i Preti in Roma allora...
Alle ore ventidue era compita la strage.
Mastro Alessandro, circondato da gente a cavallo e dai birri per
salvarsi dalla furia del popolo, il quale, giusta il suo costume
di prendersela col sasso, e non con la mano che lo scaglia, lo
avrebbe in quel momento sbranato, s'incamminò alla sua
stanza di Corte Savella. Mentr'egli stava per farsi aprire la
porta bassa donde entrava a mo' di lupo nella tana, la imposta si
spalanca improvvisa, e ne viene sospinta una bara da mani
invisibili. E' bisognò a mastro Alessandro spiccare un
salto per non rimanerne offeso nelle gambe. Non era cosa fuori del
consueto, all'opposto ordinarissima, che quinci fossero tratti in
quella guisa i miseri consunti dal duolo, o laceri dai tormenti; e
non pertanto gli sguardi del boia rimasero per uno istante
abbarbagliati da un turbine di fuoco. Dopo la bara, curvi sul
dorso sbucarono fuori quelli che l'avevano sospinta, e fra questi
uno, il quale, come se non pregiasse, o avesse in uggia la
facoltà data all'uomo di stare dritto su i piedi con la
faccia volta al firmamento, a mo' di bestia camminava carpone.
Egli era Otre, lo stupido ubbriaco. Uscito fuori torse la faccia,
e con occhio sanguigno fissando il boia, aperse la immensa sua
bocca, e disse:
- Prendi! Dio non aspetta il sabato; ti paga subito.
E levato il tappeto mortuario, scoperse il corpo inanimato della
povera Virginia. - Poi alzatosi su dritto, e mostratigli i denti
nella guisa che le scimmie, dispettando, costumano fare,
soggiunse:
- La giunta vale la carne... to'... to'...
E barcollando si allontanava.
Il giovane Ubaldino Ubaldini fu trasportato con molto riguardo in
casa la bella Renza sua sorella, che fu moglie del signor Renzi; e
quivi, con quanta maggiore secretezza fu potuto, attesero a
curarlo; sennonchè lo affetto paterno e lo zelo dei medici
gli tornarono invano per la furiosa febbre accompagnata da
delirio, che di subito lo assalì. I medici ristrettisi con
la signora Renza, con le lacrime agli occhi le dettero il povero
giovane come spacciato; ammonendola per di più, che se
passava la nottata non sarebbe giunto a terza del giorno veniente.
In vero su lo spuntare dell'alba il male si aggravò, e
così com'era delirante chiese carta, e matita. Per
acquetarlo glieli dettero, ed egli con la benda agli occhi, e
vagellante schizzò il ritratto della Beatrice, maraviglioso
a vedersi per purità di contorno, e per somiglianza; e fu
questo il disegno che, pervenuto nelle mani a Maffeo Barberini,
servì di scorta a Guido Reni per condurvi sopra lo egregio
ritratto, del quale abbiamo già tenuto proposito.
Se taluno dubitasse della verità del fatto com'io l'ho
narrato, io vo' che sappia, cotesto essere stato miracolo di amore
nè nuovo nè unico. Trentun anno dopo la morte di
Beatrice, Giovanni Gonnelli di Gambassi in Toscana, scultore
rimasto cieco di venti anni, condusse in creta il ritratto della
donna che lo innamorò, prima di perdere la luce degli
occhi; il quale riuscì in ogni sua parte perfetto, in
ispecie poi per la somiglianza: onde maravigliando ognuno.
Giovanbattista Pallotta cardinale di San Silvestro, che ricordava
il fatto dell'Ubaldino, volendoli rendere capaci come questo
potesse avvenire naturalmente per virtù di amore,
recitò i due versi che seguono:
Giovàn, ch'è cieco, e Lisabetta amò,
La scolpì nella idea, che Amor formò().
La musa per questi versi non esulta, ma il cuore gli approva.
Monsignor Taverna avendo intanto scoperto lo asilo dov'erasi
ricoverato lo Ubaldino, mandò gente ad arrestarlo. Invano
lo avvertirono trovarsi il povero giovane in extremis; gli sbirri
vollero entrare in camera: l'Ubaldino gli udì venire, e gli
riconobbe in grazia del lucido momento, il quale per consueto
precede la estinzione della creatura. Per la qual cosa volgendosi
loro, con voce spenta favellò:
- Dite al Governatore Taverna che avete trovato un morto, il quale
non muterebbe la propria sorte con quella di lui.
E abbandonatosi sul guanciale rese l'anima al Creatore.
In quei tempi correva in Roma l'andazzo, che l'associazione dei
morti al sepolcro si facesse in tre tempi diversi, secondo la
qualità e condizione loro. I cittadini trasportavansi sul
calare del sole; i nobili, i chierici e i curiali alla una ora di
notte; i cardinali, i principi e i baroni romani alle due e mezzo
di notte.
I cadaveri di Beatrice e di Lucrezia, e le miserande reliquie di
don Giacomo rimasero esposti fino a ventuna ora a piè della
statua colossale di San Paolo, inalzata a capo del ponte Santo
Angiolo: quinci remossi, erano traslocati prima al Consolato dei
Fiorentini, poi alla Misericordia. Alle ore tre di notte il corpo
di donna Lucrezia veniva consegnato a don Lelio suo fratello, che,
a seconda del desiderio della defunta, gli diè sepoltura
nella chiesa di San Gregorio.
Gli amici di casa Cènci procurarono che le membra di don
Giacomo fossero tumulate in uno dei sepolcri, che aveva
apparecchiato ai suoi figliuoli la immanità di Francesco
Cènci.
Le sette vergini non abbandonarono Beatrice poichè fu
morta; ma vinto in esse il ribrezzo della carità, le resero
gli ultimi uffici lavandola diligentemente, vestendola di
splendidi abbigliamenti, aspergendola di acque nanfe, e tutta
circondandola di freschi fiori: la ghirlanda di rose le riposero
in capo, ed un'altra di rose bianche le cinsero intorno al collo,
dividendosi fra loro le prime tinte nel sangue della cara
fanciulla.
Da tutte parti furono veduti convenire nuovi drappelletti di
fanciulle biancovestite, per rendere onore alla sventurata
sorella; gli orfani, e tutti gli ordini della religione
francescana. Cinquanta torcie circondavano la bara; e tanti furono
i lumi accesi alle finestre nelle strade per le quali passava la
processione funebre, così copioso il nembo dei fiori
piovuto sopra la bara, che il popolo minuto paragonandola con
quella del Corpus Domini, ebbe a dire averla superata di due
cotanti.
Alternando meste salmodie la processione pervenne sul monte
Gianicolo alla chiesa di San Pietro Montorio, dove stava
apparecchiato un feretro, e quivi la deposero. Allora più
dolenti rinnuovaronsi i canti; aspersero di acqua benedetta il
corpo infelice, e con molti gemiti le mandarono l'ultimo addio.
Però la folla non isgombrò di subito la chiesa: a
coloro che uscivano altri succedevano, come i cattolici costumano
il giovedì santo per la visita del Santo Sepolcro; e
così la notte si produsse fino alla ora sesta.
A questa ora infrequenti i passi calpestano il pavimento della
chiesa. L'ostiario annunzia che la chiesa sta per chiudersi, e,
lasciato trascorrere altro breve spazio di tempo, parendogli che
fossero usciti tutti, girò la grave porta sopra i cardini,
e con vigorosa spinta la chiuse.
Cotesto fragore echeggiando di arcata in arcata, scosse per ogni
angolo della casa di Dio le antiche sepolture; - poi di mano in
mano sfumò, e fu fatto silenzio.
Delle torcie una sola rimase accesa, a rischiarare pochi passi del
pavimento attorno al feretro. Le lampade, che ardono fioche a
grandi intervalli davanti gli altari dei santi, fanno più
solenne e paurosa la oscurità del luogo.
CAPITOLO XXXII.
IL SEPOLCRO.
Ove riposa il tuo capo caduto,
Che raccolto, e da man pia ricongiunto
Al virgineo tuo collo, ebbe ghirlanda,
Simbolo dei dolenti anni recisi
Sul mattin della vita?
Anfossi, Beatrice Cènci
Si ode un'orma: si ripete. È passo di vivente, che muove
verso il feretro. Al chiarore della torcia si svelano le sembianze
di Padre Angelico, bianche come la cera della torcia che arde. A
che viene il povero frate?
Si pone a sedere sul gradino del feretro presso al candeliere; si
abbraccia le gambe, la fronte appoggia sopra le ginocchia, e
così rimane immobile a piangere e a pregare.
Da un remoto angolo della chiesa ecco si stacca un'altra ombra. I
suoi passi non s'intendono, tanto posano lievi sul marmo del
pavimento; però sono lunghi, e vacillano. Le varie lampade
pendenti giù dalla volta delle navate riflettono in
più di un lato su le pareti e sul suolo diverse ombre
lunghe; sicchè pare che colà sia convenuta una mano
di gente, forse per compire qualche tenebroso disegno. Ma cotesta
è vana apparenza; l'ombra muove da un solo... solo, se
togli la compagnia della sua disperazione. Il petto di costui si
alza e si abbassa ansando tremendamente; ma lo anelito egli
comprime per modo, che appena si sente l'alito. I piedi ha ignudi,
gli occhi fissi, e sbarrati in molto terribile guisa.
Egli è Guido Guerra. Qual pensiero colà lo sospinga
si palesa dal pugnale, che stringe nella destra: quello stesso
pugnale con cui egli squarciò la gola al padre di Beatrice,
giustiziata per parricidio; - quel pugnale che, prima del ferro
del carnefice, troncò il filo dei giovanili anni di lei.
Egli già tocca il lembo del tappeto, e già lo
rovescia...
- Io ti aspettava.
Dritto allo improvviso su i piedi gli disse Padre Angelico,
ponendogli ambo le mani sopra le spalle.
E lunghi durarono il silenzio e la immobilità loro accanto
alla bara della decollata. Padre Angelico ruppe alfine cotesto
silenzio favellando:
- Beatrice t'impone vivere. Il suo ultimo, ah! il suo ultimo
pensiero non fu di Dio... e' fu di te! Ella moriva lieta nella
speranza di rivederti in paradiso, e tanto m'impose dirti: e
più mi ordinava rammentarti te aver commesso peccati gravi,
che la giustizia divina, senza lungo pentimento, non ti può
rimettere. Vorrai tu tradire la speranza della vergine innamorata?
Vuoi tu chiuderti, sciagurato!, per sempre la via di riunirti a
lei nello amplesso del Signore? - Da' qua quel ferro, ch'io lo
deponga dentro al suo sepolcro, e tu vivi. Invece prendi questi...
sono i suoi capelli, che la infelice ti manda perchè tu li
porti sul cuore; e questa immagine della Madonna davanti alla
quale ella pregò le preghiere estreme, onde tu pure davanti
ad essa preghi, e sua mercede ottenga il perdono, che la tua
sposa... Beatrice, a questa ora t'impetra al trono di Dio. Adesso
va, figliuolo, ritirati: - non turbare la pace dei morti. Beatrice
non è qui... alza gli occhi al cielo, e là la
rivedrai.
La destra di Guido si aperse, e lasciò cadere il pugnale.
Prese i capelli, e se li ripose in seno: prese anche la Immagine,
e declinato il capo sul petto si disciolse in pianto.
Il frate allora, sempre e più sempre sospingendo il
desolato amante per una spalla, lo tolse a quel feretro per
sempre.
Guido mutava i passi tardi, e spensieratamente allontanandosi
dalla bara si accostava alla porta della chiesa. Il frate la
schiuse, e uscito all'aria aperta con Guido prese a raumiliarlo
con blandi sermoni; ma quegli infuriando allo improvviso lo
respinse, e muto si cacciò per la campagna là dove
il raggio obliquo della luna declinante faceva più
spaventevoli le ombre.
Narra la tradizione lontana, che col rinascere del sole si
ravvivassero a mille doppii più atroci le smanie nel suo
petto, e maledicesse l'ora in cui gli fu impedito recare a fine il
suo proponimento; e poichè gli era stato tolto di versare
il proprio sangue sopra la tomba dell'amata fanciulla, giurasse
propiziare la sua ombra col sangue altrui: immane voto, ch'egli
troppo bene mantenne. Fattosi capo di masnada non diventò
terribile nella campagna romana soltanto, ma con sottile ingegno
insidiò e spense parecchie vite nella stessa Roma, in mezzo
a guardie, e perfino nella sicurezza delle domestiche pareti.
Venuto a morte nel 1605 papa Clemente VIII, e succedutogli, dopo
il brevissimo pontificato di Lione XI, il cardinale Cammillo
Borghese col nome di Paolo V, partecipe delle spoglie della casa
Cènci, e da Guido Guerra supposto eziandio complice della
strage, gli fece assapere che dettasse il testamento,
perchè in un modo o nell'altro per le sue mani aveva a
morire. E, come se questo non fosse abbastanza, per rovesciare
immensa formidine nell'animo del pontefice si aggiunse il
vaticinio di certo astrologo, il quale gli prognosticava vita di
breve durata. Ond'egli, dimessi cuoco e scalco, stavasi intanato
nel Vaticano, non osando comparire in pubblico; o se talvolta
usciva, stallieri armati lo circondavano per dinanzi e di dietro.
Se taluno gli porgeva carta o memoriale, ei, per sospetto che
fossero avvelenati, lasciavali cadere in terra().
Un giorno Guido, contemplando i capelli di Beatrice,
vergognò della vita abiettissima che conduceva; ed
aspirando a maggiore vendetta, toltosi allo improvviso da Roma si
condusse in Fiandra ove durava tuttavia feroce la guerra, che
cotesti popoli sostenevano per la independenza e per la
libertà, Ma arrivò tardi; e la guerra traendo al
termine, dopo il suo arrivo non successe cosa di momento;
sicchè in breve si trovò, con inestimabile
rammarico, ad essere presente alla pace. Allora si volse a
guardare la vita passata, e considerò come tutti i suoi
passi lo avessero sempre più allontanato dal sentiero, che
pria di morire le raccomandava la donna dell'anima sua. Nè
poco valse a mutargli l'animo anche una lettera, che gli scrisse
l'antica madre chiamata a miglior vita dalla Provvidenza, la
quale, in mercede dell'amarezza di cui aveva contristato il suo
cuore materno, lo scongiurava di rendersi a Dio, ed ottenere il
perdono dei suoi peccati. Accogliendo coteste voci della
coscienza, a lui parve bene non ridursi a poltrire in qualche
chiostro annegando il pensiero nella pinguedine e nell'ozio; e pur
volendo gratificarsi la Misericordia divina, si recò
sull'alpe di San Bernardo, dove per la cura indefessa, e stupendo
coraggio mostrati a porsi ad ogni più fiero cimento per la
salute dei miseri sepolti dalle lavine, venne in fama di pio come
d'imperterrito; e giova sperare che la giutizia placata gli abbia
consentito di rivedere, colei, che tanto amava, nella dimora dei
giusti.
Dove riposa adesso il corpo di Beatrice? Dalla chiesa di San
Pietro in Montorio è scomparsa la Trasfigurazione di
Raffaello e con essa la lapide della Vergine tradita. Però
il quadro della Trasfigurazione, collocato in sede più
degna, riceve tuttavia gli omaggi della posterità; mentre
il pellegrino devoto ricerca invano la sepoltura della Beatrice. I
frati, come il buon figlio di Noè, affannosi a velare le
vergogne della Corte dei Papi, hanno voltato sotto sopra la
pietra, e la iscrizione è scomparsa Poveri frati! Troppo
gran manto ci vuole per cuoprire i peccati empii, e rei dell'avara
Babilonia(); nè le memorie cancellansi come le vite, e i
marmi. Il pellegrino, cui punge amore, vada a San Pietro in
Montorio; si fermi davanti l'altare maggiore oltre la balaustrata.
Costà, in cornu epistolae, a piè dei gradini
dell'altare guardi la lastra di marmo pentelico, che fa angolo con
le lastre laterali: quivi sotto dormono in pace le ossa di
Beatrice Cènci vergine sedicenne, condannata da Clemente
VIII vicario di Cristo a morte ignominiosa, per parricidio da lei
non commesso.
Tanto basterà pel pellegrino devoto, onde ravvisi il luogo
ove giace la donzella; ma se non gli fosse sufficiente, aguzzi
bene lo sguardo, e leggerà sopra la pietra questo
epitaffio, che, sostituito dalla mano di Dio a quello che
v'incisero gli uomini, non si cancellerà più mai
fino alla consumazione dei secoli:
«L'avara crudeltà dei Sacerdoti ha bevuto il sangue e
divorato gli averi della tradita, che giace qui sotto».
*
* *
Il martedì seguente, che cadde il 14 settembre 1599, la
Compagnia di San Martello, godendo il privilegio di liberare un
prigione per la festa di Santa Croce, ottenne si rendesse alla
libertà don Bernardino Cènci, a patto, che dentro lo
spazio di un anno pagasse scudi venticinquemila alla Compagnia
della Santissima Trinità di Ponte Sisto. Come Bernardino,
spogliato d'ogni sua sostanza, potesse pagare questi
venticinquemila scudi, davvero non si sapeva comprendere; ma la
Curia, ingorda sempre, tese uno archetto per tentare di spremere
danaro dalla pietà dei parenti, che casa Cènci in
Roma ed altrove annoverava nobilissimi, e potentissimi. Fatto sta,
che questi venticinquemila scudi non furono pagati; anzi crescendo
ogni giorno l'abbominazione nel pubblico per vedere la massima
parte dei beni di casa Cènci arraffata dalla famiglia
Aldobrandina, il Papa con atto del 9 luglio 1600 ebbe a restituire
i figli di don Giacomo nel possesso di parecchi beni confiscati,
come quelli che andavano sottoposti a vincolo di fideicommisso,
non senza però il compenso di buona somma di danaro, come
si rileva dal mandato per transigere conferito a monsignore
Ferdinando Taverna, nel quale occorrono le seguenti parole:
«Pro aliqua condecentiori Camerae pecuniaria summa per
eosdem Iacobi filios persolvenda transigas». Nel luglio poi
del 1601, instando più urgente assai la medesima causa, e'
fu mestieri aprir di nuovo la mascella al mastino e rendere tutti
gli altri predii, tranne lo immenso feudo di Casale di Torre Nova,
di cui il Papa era stato sollecito a investire Giovanfrancesco
Aldobrandini pel prezzo simulato di scudi novantunmila. Morti
Clemente VIII e Paolo V, Luisa Vellia, la valorosa vedova di don
Giacomo, alacre a recuperare la mal tolta sostanza dei figli,
dimostrata la iniquità di cotesta vendita richiamandosi di
notoria ingiustizia sofferta, domanda la restituzione, o la
facoltà di dimostrare la frode, e la lesione enormissima
dello istrumento contro Pupissa Aldobrandina, Paolo Borghese, ed
altri mentovati nella supplica umiliata a Gregorio XV. Altre
memorie di queste contestazioni non mi è riuscito trovare;
ma le liti fra gli eredi Cènci, Aldobrandini, e Borghese
durarono secoli; e non sono bene quaranta anni, che i tribunali di
Roma udirono rinnuovarsi l'antica querela fra il Principe
Borghese, e il Conte Bolognetti Cènci.
Laddove poi sembrasse a taluno avere io proceduto con leggerezza
incolpando di tanta infamia la memoria di questo Pontefice, io vo'
ch'egli ponga il pensiero principalmente a due cose, ed è:
la prima, che nè nuove nè rare apparirono siffatte
infamie nella Corte Romana; la seconda, che quando l'oro del
condannato si versa nell'arca del giudice, a questi sta con prove
limpidissime chiarire le genti, ch'egli non fece causa comune col
boia.
INDICE
Introduzione
Cap. I. Francesco Cènci
II. Il parricidio
III. Il ratto
IV. La tentazione
V. Ancora di Francesco Cènci
VI. Nerone
VII. La chiesa di San Tommaso
VIII. Disperazione
IX. Il suocero
X. Il convito
XI. Lo incendio
XII. Dello asino
XIII. Il tradimento
XIV. Monsignore Guido Guerra
XV. L'ammazzata di Vittana
XVI. Il memoriale
XVII. Il Tevere
XVIII. Roma
XIX. Le fantasime
XX. La notte scellerata
XXI. Il mantello rosso
XXII. La tortura
XXIII. I giudici
XXIV. Il sagrifizio
XXV. Il giudizio
XXVI. La confessione
XXVII. Le vesti
XXVIII. La figlia del carnefice
XXIX. La grazia
XXX. La moglie
XXXI L'ultima ora
XXXII. Il sepolcro