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F. D. GUERRAZZI
L'ASSEDIO DI FIRENZE
MILANO
LIBRERIA EDITRICE DANTE ALIGHIERI
Via Giardino, Num. 33
1869
Proprietà Letteraria.
A
N. G. A.
Io promisi un giorno dedicarvi questa opera mia. Da quel giorno in
poi voglie, costumi voi avete mutato ed affetti. Io mi mantengo
tenacemente lo stesso. E mentre in questo modo soddisfo all'ultima
promessa che vi ho fatto, io spero, e non invano, che la vostra
coscienza sia per domandarvi: E tu come adempisti i tuoi giuramenti?
- Addio. -
L'Autore.
INTRODUZIONE
.......Fermamente credo
Che gli estinti dei vivi
Sién più felici; e molto più i non nati.
Che non videro i mali
Che stanno sotto il sole.
Cleop., trag. del card. Delfino.
Sei sola anima mia: non mentire a te stessa; - leva la voce e
prorompi in un lamento. La pazienza! Oh! la pazienza è cosa
dura e conviene meglio alla groppa del somiero che all'anima,
dell'uomo: converti dunque in flagello questa catena spirituale e
percuotila in volto ai tuoi oppressori. I potenti della terra hanno
flagelli di ferro, ne hanno ancora di scorpioni(): tu adopra il tuo
di pazienza offesa. - Ardisci! A David valse la fionda, nè i
tuoi nemici sono giganti, o il sono di stoltezza soltanto. - Tu
già non ti duoli per impeto d'ira o per debolezza codarda, ma
perchè una condanna di sventura più e più
sempre si aggrava sul capo della stirpe destinata a morire. Quando
lo stoico alza la faccia dicendo: Non piansi mai, - mentisce a
sè stesso. Perchè non isgorgò la lacrima dal
cavo de' suoi occhi, affermerà il superbo non avere mai
pianto? Forse sotto la superficie gelata di un fiume scorrono le
acque meno rapide al mare? Tutto piange quaggiù, e la natura
stessa versa un pianto quotidiano sulle miserie della creazione con
le rugiade dei cieli. Lamenta, lamenta, anima mia. - Le muse i
genii, le fate e Apollo cessarono; ogni altra lieta immaginazione
cessò; il dolore che prima di essi inspirava i canti degli
uomini, il dolore che soppravvive ai sepolcri, il dolore che apre e
serra le porte della vita, il dolore che regge la misura del
tempo..., eterna, unica musa dell'uomo è il dolore.
Troppo innanzi tempo imparai a diffidare di molte, forze di tutte le
speranze umane: io vivo in mezzo agli uomini; ma per me non chiedo,
non ispero nè temo nulla da loro. E che mai potreste darmi, o
gente che morirete? L'odio, la prigione, l'esiglio? Me gli avete
già dati; e furono come la pietra lanciata in aria dal pazzo,
che ritornò a percuoterlo sopra la testa. La compassione? Oh!
trangugiate per voi cotesta tazza di aceto e di fiele: io posso
sopportare il vostro odio, la vostra pietà non potrei;
serbatela per voi, che voi, come me, aveste nascimento e avete la
vita e avrete la morte; in voi, come in me, stanno le malattie del
corpo, le imbecillità dello spirito, gli errori, i dolori, i
trascorsi e le colpe.
Ingombra questa nostra terra, infelice una gente la quale, o
prostrata dagli anni, o torpida di fibra, o per pinguedine
fastidiosa, o cieca ad un punto e codarda, penosamente si strascina
per lo esilio breve della vita e va gridando a quelli che
precorrono: Adagio, adagio; nella quiete sta sicurezza. Qual mai
sicurezza? E non sapete voi che la vita è un correre alla
morte? La quiete non è vita. Trapassare da una in altra
vicenda, agitarsi incessante nel tripudio e nell'affanno, percuotere
ed essere percosso, amare, odiare, ora angiolo, ora demonio, e verme
e Dio... questa si chiama vita. Se ciò sia bene o male,
dimandane a colui che, potendo, non volle creare tutto ad un modo.
Ma se difetto di passione l'umana felicità costituisse,
l'uomo e il sepolcro sarebbero fratelli di vita, qual corra
differenza tra l'uomo e la pietra vi dirà santo Stefano che
morì lapidato. O impassibili! Supplicate dai sacerdoti di
Giove il destino di Niobe. Badate però; Giove, aspettando i
suoi successori in divinità, è fatto dio da museo, e i
vostri sacerdoti hanno potenza di convertire un cuore in pietra, ma
per loro soltanto: come la idrofobia, questa facoltà non
passa in seconda generazione, e ciò vuolsi considerare per
qualche cosa di bene ai tempi che corrono.
Odano dunque coteste genti, ma non ascoltino; guardino, ma non
vedano: io abborro dal giudizio loro: e quantunque la mia voce si
levi presso le dimore degli uomini, desidero che suoni solitaria
quanto il ruggito del lione per le arene del deserto, come lo strido
dell'aquila su i dirupi delle Alpi.
Meco stesso ragiono; adopro la facoltà d'interrogarmi e di
rispondermi. Come si chiama lo spirito che dentro me interroga, e
come l'altro che dentro di me risponde? La prima operazione
apparterrebbe per avventura al cuore, la seconda al cervello? La
potenza di argomentare procede unita o disgiunta da quella di
sentire? Antichi filosofi sostennero la esistenza di due anime nel
medesimo corpo. La mia anima procedeva ignara di tutto questo: lessi
i libri dei filosofi e riuscii a saperne molto meno di prima.
L'etiche e le metafisiche loro assai si rassomigliano alla
descrizione della luna immaginata da messer Lodovico Ariosto, o al
commento (Dio lo perdoni!) del Newton intorno alla visione
dell'Apocalisse.
Anima, perchè vivi? L'anima vuota alla risposta mi ritorna a
guisa d'eco la domanda: perchè vivi? Qualche vizio di
più, qualche nobile passione di meno, e una ruga sopra la
fronte, e una ferita nel cuore, ed ogni giorno un fiore caduto dalla
corona della speranza... ecco i benefizii del tempo.
Anni felici della mia giovanezza, ond'è che mi passate
traverso alla memoria come i ruscelli delle patrie colline al
tormentato della sete? Giuochi infantili, sonni placidi, amore...
perfidamente lusinghieri, versate a piene mani una rugiada di gioia
su l'alba della vita per indurre la creatura a sopportare l'ardore
increscioso del giorno e le più dolenti tenebre della sera.
Io sorgeva in quei giorni mattiniero quanto la lodoletta pellegrina,
a ricevere sul capo la prima benedizione della luce; te, o sole,
esaltava occhio di Dio, glorioso, vigilante sopra la felicità
dei figliuoli di Adamo; e quando con lo sguardo innamorato aveva
seguito la tua curva di fuoco ai confini dell'oceano, lo rialzava al
firmamento, salutando ad una ad una le costellazioni comparse sul
bruno orizzonte: però il mio spirito ebbro di raggi e di
armonia spaziava con ala infatigabile su quei globi luminosi.
Talvolta mi sorgeva nell'anima un desiderio di penetrare oltre il
manto dei cieli i misteri di Dio, e meditando mi sprofondava per
quegli azzurri sereni; se non che a poco a poco mi si facevano
opachi, finalmente neri, ed io mi rimaneva esclamando: Che cosa
importa conoscere? Dio vive!
Queste visioni lusingavano la mia fanciullezza, avvegnachè il
mio spirito fosse innamorato di Dante e del Klopstok, i divini
poeti.
Nè la terra mi si offerse meno bella del cielo. Ammirai le
forme del lione, gli screzii della tigre, le liste verdi e di oro
del serpente in faccia al sole; stimai l'aconito degno quanto il
giglio delle valli di ornare le trecce alla bella fidanzata; non
seppi la ragione per cui gli uomini celebrassero l'alloro, dalla
savina abborrissero; gli steli della cicuta ebbi in pregio...
E l'oceano! Oh! Aroldo() si compiacque scherzare con l'onde
dell'oceano, come con la criniera di un cavallo indomato: io ti amai
col trasporto di un primo amore.
Affidava il mio corpo al cumulo delle acque, e quando spumanti mi
fremevano attorno: Ecco, io diceva, esse mormorano per il piacere di
rivedermi. Sovente m'immergeva negli abissi a toccare le aliche
profonde, immaginando così di stringere la mano dell'elemento
diletto. Chi ridirà la gioia del sentirsi sospinto, con la
velocità di un dardo scoccato, alla superfice delle acque?
chi quella di osservare traverso le gocce che grondano giù
dalla fronte moltiplicati all'infinito i raggi dei pianeti?
Contemplava nell'emisfero l'astro dell'amore, lo riguardava poi
riflesso sul mare, e mi pareva su le onde tremolasse più
lieto; allora, preso dal piacere, io guizzava esclamando: Salute
all'oceano, poichè Dio lo destinò a riflettere l'astro
dell'amore!
E come spensierato commisi il mio corpo alle acque, così
affidai la mia anima all'anima dell'uomo. Ahimè deluso! non
mi era anche nota la maledizione dello spirito(). Io reputava
impossibile la parola proferisse un pensiero non sentito dal cuore.
Paragonai la vita non con la eternità, di cui non concepiva
idea giusta, bensì co' secoli precorsi; e mi parve tanto
breve, tanto miserabile cosa, ch'io argomentai gli uomini,
sentendosi destinati ad altre sorti, poco curassero i diletti
caduchi della terra. Per questo modo la vita umana immaginando quasi
preparazione di vita celeste, mi piacqui fingerla uguale all'ora
facile dei testamenti, in cui anche gli avari sono larghi di loro
sostanza ai superstiti. Vidi gli uomini che si stringevano una mano,
e non curai osservare dove celassero l'altra; notai gli amplessi,
trascurai i volti: feci tesoro di qualche bello atto di cortesia, e
reso cieco gridai: La creatura si ama!
Ma il tempo si portava le illusioni.
Il sole sta immobile globo di fuoco a illuminare l'ozio di pochi,
l'affanno di molti, le miserie di tutti; indifferenti si versano i
suoi raggi sul ferro dell'assassino e sopra la ferita
dell'assassinato, sopra la vita e sopra la morte. Se Giosuè
lo costrinse col miracolo a fermarsi nel cielo, non fu per benedire
una pace, sì bene a illuminare una strage().
E quando le ombre si addensarono sopra la terra, gemei e dissi:
L'ora dei tradimenti si avvicina. Guardai le stelle e mi parve
impallidissero alla maledizione che il sicario nascosto nella
tenebra mandava a quei fuochi di amore. Le strida delle migliaia dei
disperati mi percossero, udii il pianto, vidi le mani stese verso il
cielo... il cielo stava inecittabile e chiuso come una volta di
bronzo, quanto una massa di granito. Non più rallegrava il
mio spirito la pelle dipinta degli animali; vidi le labbra
sanguinose, conobbi il veleno e commosso da troppa passione domandai
alla fiera della foresta: Perchè laceri la creatura di Dio?
La fiera della foresta mi rispose sbranando. Seppi la donna avere
sfrondato la savina per disperdere il frutto dell'amore; calpestai
la cicuta, ne svelsi le radici, le detti ai venti: invano;
già gli uomini ne avevano estratto la bevanda che spense
Socrate, il più virtuoso dei filosofi.
Ahimè! ahimè! Non querce, olivo e alloro, ma ferro,
laccio e veleno sono le tre corone della virtù.
Il vento sorgeva impetuoso. Io me ne andai lungo le sponde del mare,
e da lontano mi apparve un rompente che sbalzava nella rabbia della
distruzione: presso la sponda raccoglie l'ira e la forza ad inondare
la terra, ma gli si oppone la parola di Dio, e la superbia di lui
rimase rotta traverso gli scogli in minutissimi spruzzi; si
spiegò sopra sè stesso fremendo, e tra quelle spume
scôrsi una tavola.... la reliquia della barca del pescatore.
Da quell'ora in poi in ogni mormorare di flutto ravvisai l'agonia
del pescatore, il pianto della moglie e le strida dei figli...
poveri figli! Oh! tu sei forte, oceano, contro la barca del
pescatore; ma con placide onde, un giorno, i vascelli Portoghesi e
Britanni veleggianti alle Indie orientali lambisti, amico il seno
agli Spagnuoli per le stragi americane schiudesti. Mi attristai nel
profondo, considerando come gli uomini, la natura e tutto
congiurassero in danno del debole: pensai l'oceano anch'egli
fosse lusinghiero del potente, e il mio spirito fu dipartito dal
mare.
Conobbi la fiera dal sembiante umano: erano le sue imprese la
calunnia delle altrui virtù, interpretava come oltraggi i
consigli di amore, si tormentava l'intelletto per ravvisare nel
benefizio una offesa onde trarne argomento di ricompensarlo con
l'odio; vituperò come misfatti i voti più puri
dell'anima ardente in fiamma di carità, chiamò la
scienza dei grandi follia, avvelenò affetti santissimi,
punì il pensiero, insidiò vite e le spense; uguale
rimaneva pur sempre l'amico stendere della mano e il sorriso soave e
la parola cortese e l'umile invocare dell'Eterno... Io vo' vederti
il cuore, o creatura perversa! E un giorno pure ebbi tra le mani un
cuore. Egli mi apparve di fuori lucido e liscio, sì che quasi
affascinava a vagheggiarlo. Lo tagliai per ispiarne l'interno. Oh!
chi descrive la serie infinita delle fibre che vanno l'una
confondendosi nell'altra? Chi la serie portentosa delle vene
disgradanti senza numero? Con la punta del coltello presi a
seguitare la traccia di un filo, vi applicai argutamente il tatto e
la vista; nondimeno lo perdei, nè mi riuscì seguitarlo
fino al suo principio o al suo termine. Risi della scoperta...
Così... così e non altramente doveva essere composto
il cuore dell'uomo!
Ma il dolore concetto dissimulava, e quantunque volte un pietoso
ufficio mi chiamò a favellare alle turbe, volgendomi ai
giovani solamente, però che i tempi mi avessero insegnato
come i capelli bianchi non sieno aureola di pazienza a' vecchi capi,
ed ogni anno saccheggi una virtù, e l'uomo prima assai di
morire diventi cadavere, volgendomi, dico, ai giovani soltanto, gli
ammoniva: «Fratelli! io vi conforto ad essere grandi: certo
nel proferire sì fatta parola tremo nelle ossa; pure a Dio
piaccia che per viltà mi rimanga del manifestare altri
sentimenti. Regge il creato una legge dura che impone: Sii grande e
infelice: ma un'altra legge impera più universale che
comanda: Sii uomo e muori. Ora se nessuna forza può
tôrvi la bella morte, che cosa mai presenta la vita onde la
conserviate a prezzo del vituperio? Invidiereste voi forse la stilla
del cielo che scende tacita e si confonde inosservata nel mare? Chi
non amerebbe piuttosto un giorno dell'esistenza dell'uccello,
esistenza di canto e di volo; chi non più tosto il minuto del
fulmine, minuto di fragore e di luce che il secolo del verme dei
sepolcri? Gravi mali vi aspettano, il vostro cuore lacerato si
romperà; morrete: ma presso il morire ricorderete l'esilio di
Dante, le catene del Colombo, la corda del Machiavelli, il carcere
di Galileo, i delirii del Tasso (e non ricordo le morti per ferro,
per laccio, per veleno e fin anche per fame, perchè le
sventure dei grandi sono troppe e troppo dolorosamente copiose), e
di queste memorie vi farete zona di costanza intorno ai reni per
durare imperterriti nella miseria, traverso la quale la stirpe dei
tormentatori vi travolgerà. La tirannide umana che vi
appariva dianzi quasi colosso di bronzo, ora la schernirete vedendo
le sue piante di creta, e la sperderete con quella stessa agevolezza
con la quale l'angiolo di Dante si sgombrava dal volto il fumo
dell'inferno.»
Così favellavano le labbra; l'anima intanto inaridiva
nell'amarezza.
Ora dentro di me si levò una voce che disse: «Non
sempre Dio si pentì di avere creato l'uomo. Tu vivi in secolo
che vinse il paragone di tristezza con ogni più vile
metallo(). Ricerca per le storie, e troverai tempi secondo il tuo
cuore. Circondati di memorie. Dalla virtù dei morti prendi
argomento di flaggellare le infamie dei vivi. Le opere famose dei
trapassati ti daranno speranza del valore dei posteri:
imperciocchè nulla duri eterno sotto il sole, e la vicenda
del bene e del male si alterni continua sopra questa terra. Tu
vivrai una vita di visioni degli anni passati e dei futuri.»
Apersi il volume della storia, investigando questa epoca di umana
felicità, e lessi con l'anelito del moribondo che sospira la
luce. Oh quanti giorni consumati invano! Oh quante volte caddi col
capo sulle pagine funeste, dolente, non disperato, esclamando:
Sarò più avventuroso domani! Venne il domani e il
giorno appresso e l'altro, nè da alcun lato si diradava la
tenebra. Questa è la storia delle fiere del bosco! Gittai il
libro, ma col libro non gittai la conoscenza del male. Notti
vegliate su i volumi di coloro che mi hanno preceduto, irresistibile
agonia di sapere, qual frutto apportaste all'anima mia? Con
l'avvilimento e il dolore ho tessuto il manto funerario alla
speranza.
Guardai l'Italia, e vidi sorgere una gente, sparpagliarsi pel mondo
a incatenare la creatura di Dio; poi la pazienza degli oppressi
convertirsi in furore, l'antica iniquità caduta, giunti i
giorni dell'ira; popoli barbari, come fanno degli armenti i
mandriani, cacciarsi davanti altri popoli barbari alla volta delle
nostre contrade: inonda il torrente dalle Alpi a Reggio, un trono
è leva per sovvertire un altro trono; noi infelicissimi,
vinti, portiamo la impronta della caduta di tutti. Dopo le contese
sacerdotali succedono le civili. Guelfi e Ghibellini; Bianchi e
Neri; Montecchi e Cappelletti; Maltraversi e Scacchesi; Bergolini e
Raspanti: sangue gronda ogni sasso alla campagna, sangue ogni torre
in città; repubbliche discordi, misere, perpetuamente
guerreggianti tra loro; interni ed esterni tiranni, lascivi, avari,
paurosi delle tenebre stesse, e pure senza misura crudeli; traditori
e traditi; braccia poste all'incanto, anime italiane vendute;
città nobilissime patteggianti coi turpi masnadieri; alti
inteletti sotto la feroce ignoranza dei sacerdoti curvati; per
ultimo, come la tempesta si leva dagli abissi del mare, ecco sorge
la tirannide, Briareo maledetto, che le cento mani distende, il
cielo e la terra arraffando contamina, snatura anime e corpi, semina
il deserto e sta.
E tu, Firenze, figlia generosa di nobile madre, cedesti alla
onnipotenza dei fati, come conveniva all'ultimo santuario della
italiana libertà! Inclita per magnanime geste, consacrata dal
sangue dei martiri, la tua caduta farà sospirare il nostro
cuore finchè la creta animata si scaldi al sole dell'opre
magnanime. Ahimè! pur troppo la vita dei reami e delle
repubbliche è misurata come quella degli individui!
Però non ti valse prodezza nè consiglio de' tuoi;
giacque la tua libertà sepolta con essi, e luminosi di gloria
immortale vivete insieme nello stesso sepolcro.
Non confidate nella speranza: ella è la meretrice della vita.
Dunque un destino inesorato ci condanna, come il serpente antico, a
nudrirci per sempre di cenere, a traversare il futuro non movendo
altro suono che quello del tergo percosso dalle verghe e del piede
avvinto dalle catene?
Chi disse questo! La forza non ha concluso un patto eterno con
veruna nazione del mondo. Qual mano di uomo strappò l'ale
alla vittoria? A Roma gliele troncava il fulmine, ma tornarono a
crescere co' secoli, ed ella fuggì via. Finchè
sollevandosi al cielo le vostre braccia sentiranno il peso dei ferri
nemici, non supplicate.... combattete: anche col ferro in pugno si
prega; anzi cotesta preghiera è la sola che si addica agli
oppressi. Iddio sta co' forti! La vostra misura di abiezione
è già colma: scendere più oltre non potete: la
vita consiste nel moto, dunque sorgerete. Ma intanto abbiate l'ira
nel cuore, la minaccia su i labbri, nella destra la morte; tutti i
vostri dii caschino in pezzi, non adorate altro Dio che Sabaoth, lo
spirito delle battaglie. Voi sorgerete, cadrete, tornerete a
sorgere: la vendetta e l'ira vi renderanno immortali. La mano del
demonio settentrionale, che osò stoltamente cacciarsi tra le
ruote del carro del tempo per arrestarlo, indebolita vacilla e
sarà infranta. Se potessimo porgli una mano sul cuore,
conosceremmo la più parte delle sue pulsazioni muovere adesso
dalla paura. Ma se ci fosse dato di porgli una mano sul cuore, certo
non sarebbe per sentirne le pulsazioni... Oh no! viva per morire
sotto le rovine dello edifizio che ha fabbricato; prima di restarci
sepolto intenda il grido di obbrobrio che mandano gli oppressi sul
tormentatore tradito dalla fortuna. La morte percuote del pari gli
eroi della virtù e gli eroi del delitto: Ma Epaminonda tenne
l'anima chiusa col ferro finchè non conobbe la vittoria della
patria, e morì trionfando; lui poi trapassi la spada sul
principio della battaglia, e non gli sia tolta dalle viscere
finchè non sappia la nuova della sua sconfitta; perisca,
soffocato dal fumo dei cannoni che annunzieranno la nostra vittoria;
si disperi nell'udire i tamburi che saluteranno l'aurora del nostro
risorgimento. Sventolerà un'altra volta la nostra bandiera su
le torri nemiche, terribile ai figliuoli dei Cimbri;
scoperchierà lo spettro di Mario l'antica sepoltura; un'altra
volta trascineremo per la polvere al Campidoglio le corone dei
tiranni dei popoli... Ma saremo allora felici? Che importa? Tornino,
oh tornino desiderati quei giorni all'orgoglio italiano! Amaro
è il piacere di opprimere, ma è pure un piacere; e la
vendetta delle atroci offese rallegra ancora lo spirito di Dio...
Qui sorge una voce amica e mormora queste parole: «La scienza
del dolore non ha mestiere d'insegnamento, perchè nacque
congiunta col cuore dell'uomo.»
Ed io rispondo: «Bada, la prosperità è proterva,
la mestizia pensierosa, e nel pensiero sta il principio delle
imprese: a Cesare davano ombra i foschi nel sembiante. nelle chiome
scomposti e scinti; i lieti poi e gli azzimati non curava; umana
arena questi a cementare i fondamenti di tirannide.»
Altre voci, e non amiche, ora parmi che si levino e dicano:
«Noi non intendiamo donde muovi nè dove vai.»
Ed io rispondo: «Peggio per voi; le vostre sono anime
invano.»
Se tu dunque che leggevi fin qui ti senti il cuore e lo inteletto
sicuri, se le lagrime non ti tolgono la vista delle miserie umane,
vieni, mi segui nel dolente pellegrinaggio del pensiero: ti
narrerò storie feroci, ti dirò cose che ti suoneranno
terribili quanto le strida di un dannato, e pregherò Dio che
non valgano a persuaderti. A te poi comando di non compiangermi e,
se ti piace ancora, di non maledirmi; gemi soltanto sopra la dura
necessità che produceva i casi i quali verrò
raccontando: non gli ho inventati già io. Se tu potessi
smentirli, se cancellarli dalla memoria, dove stanno impressi con
parole di sangue, oh! io ti saluterei consolatore della
umanità.
Io scrittore lascio questa prefazione come prima la dettai, se togli
che in più parti la corressi per quello concerne lo stile,
conciossiachè mutarne i concetti oggimai non tornerebbe
efficace. Tuttavolta però, più pacato ora, meglio
perito nei casi della vita, di non pochi anni più prossimo al
sepolcro, io giudico com'essa non esponga dottrine affatto buone
nè vere. Sapienza è non disperare mai; e nello
attendere e nello sperare stanno le virtù supreme dei popoli.
In quanto all'odio poi, se un dì fie dato inalzare lo
edifizio della umana felicità, certo non su l'odio,
bensì sopra il fratellevole amore che Cristo insegna
avrà da fondarsi: ciò nonostante, adesso ci corre
obbligo di odiare; che lo schiavo non può volgere la mente
grata a Dio, e Dio abborre vedersi supplicato da mano gravi di
catene.
Passate le Alpi, e tornerem fratelli.
L'Assedio di Firenze
CAPITOLO PRIMO
NICOLÒ MACHIAVELLI
Perchè egli è ufficio di uomo buono quel bene che per
la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto
operare insegnarlo agli altri, acciocchè, essendone molti
capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.
Machiavelli.
Che se la voce sua sarà molesta
Nel primo gusto, vital nutrimento
Lascerà poi quando sarà digesta.
Dante.
Il suo passo era di uomo libero in terra libera, grave e solenne: ma
sembrava sviato, come di persona improvvida o poco curante dei
luoghi che gli si paravano dinanzi in suo cammino. Vestiva abito
straniero: la cappa soppannata di pelli, il giustacuore di velluto
bruno, calze di panno strettissime di colore scuro; le scarpe, il
collarino e ogni altra parte in somma del suo abbigliamento
rammentava la foggia di Francia. Portava avvolta intorno al berretto
certa catena d'oro dalla quale pendeva una medaglia parimente d'oro
ove stava effigiata una salamandra nelle fiamme, col motto: ardo,
non brucio; impresa e motto inventati per Francesco I da madama
d'Alençon sua sorella, valentissima in coteste arti
cortegiane.
In cotesti tempi dame e cavalieri si affaticarono a indovinarne il
significato; ma, per quello che la tradizione lontana ci
tramandò, pare che madama d'Alençon intendesse,
mediante sì fatta impresa, ammonire Francesco allora duca
d'Angonlème, quando prese ad amare la giovane sposa di Luigi
XII, Maria d'Inghilterra, dalla fecondità della quale correva
pericolo di rimanere escluso dal reame di Francia.
Lunghi i capelli cadevano oltre le orecchie allo straniero e quivi
tagliati in giro; costume anch'esso nato in Francia da brutta
necessità. Imperciocchè i monarchi, disegnando
abbattere la potenza dei baroni, per superarli di forze non
abborissero chiamare in aiuto loro gente condannate ad avere mozze
le orecchie (specie di pena oltre modo infamante usata in quei
tempi): e pervenuti poi a miglior grado di fortuna, cotesti usciti
dalle galere con quella usanza tentarono ricoprire la propria
vergogna(). Ciò che in principio fu turpe bisogno
diventò subito presso quegli strani ingegni dei Francesi
vaghezza di costume; appunto come, sul declinare del secolo passato,
dalle stragi della rivoluzione ricavarono nuove foggie di
abbigliamento del sesso gentile().
Ma se straniere erano le vesti, il volto lo diceva italiano, nato
alla grandezza e alla sventura. Sopra la sua fronte sublime potevano
la gioia e il dolore spiegarsi nell'ampiezza della loro potenza; e
certo sovente se ne alternarono il dominio: se non che la gioia
fugace la percosse appena col ventilare delle sue ali leggerissime
di farfalla, mentre il dolore vi lasciò la impronta delle sue
varie procelle, a guisa d'iscrizioni funerarie sopra la fascia dei
sepolcri. Quel suo sguardo acuto manifestava ingegno prepotente, un
ingegno capace di fissare lo splendore dei cieli, volgerlo alla
terra e in un baleno d'intelligenza comprendere i pensieri, le
sensazioni, gli affetti che passano tra i pianeti e la terra, fra il
creatore e la creatura, e quindi sollevato dal fango tornarlo di
nuovo a fissare nel firmamento, come protesta immortale contro lo
spirito che accolse l'idea della stella e del fango, del piacere e
dell'angoscia, del palpito dell'amore e del verme della
putrefazione, del tiranno e dello schiavo; e ne lanciò a
piene mani la moltitudine nel mondo quasi in retaggio di maledizione
alla stirpe che si pentì di aver creato con anima e lingua
bastevole a rimandargli contro una maledizione(). Da molto tempo la
sua bocca obliò il sorriso che nasce dalla vista della
bellezza, dai racconti delle imprese onorate, da quando insomma,
commovendo, ha virtù di esaltare l'anima umana. L'affanno
inaridisce tutti senza distinzione gli affetti, la lacrima del pari
che il sorriso, come fa delle piante e dei fiori il vento del
deserto. Ben egli ancora rideva, ma un brivido del cuore sembrava
cagionasse cotesta crispazione convulsa delle labbra; le morbide
curve disegnate dalla bocca quando susurra parole di amore erano
sparite; invece si scomponeva in triste linee angolari, come colui
che gusta per errore una bevanda amara.
E non pertanto, malgrado segni così profondi di rovina
spirituale, due corde vibravano eterne in quel cuore: - la poesia e
la speranza. Egli aveva provato il pane dell'esilio, nè quel
suo passo incerto nasceva da noncuranza, no; quando prima lo mosse,
ebbe in pensiero di recarsi a un punto determinato; poi la gioia di
rivedere, dopo gli anni incresciosi dell'esilio, i luoghi diletti
della sua giovanezza lo vinse sì che, dimentico di ogni altra
cosa ora si aggirava alla ventura per le vie di Firenze. Oh quanto
è funesta amica la memoria al povero esiliato! Quanto mal
destra consolatrice! Invece d'infondere sopra la piaga olio e vino
come il Samaritano dell'Evangelo(), senza volerlo vi sparge zolfo
infiammato. La memoria i casi più riposti della vita ricerca
limpidissima, senso comparte ed affetto ai luoghi cari per un
ricordo di amore, cari eziandio per lo stesso dolore: e poi tutte
queste cose rallegrando col raggio più puro che mai
scintillasse in cielo italiano, ad ora ad ora ne abbaglia lo spirito
all'esule, non altrimenti che il fanciullo, per giuoco raccolta la
luce del sole entro uno specchio, si compiace rapire per un momento
la vista al passeggero con un oceano di splendore. Però
l'esule si strugge nell'agonia di un desiderio febbrile e, consumato
da cotesta ardente contemplazione, comprende in qual maniera i Greci
antichi potessero imporre alle furie il nome di Eumenidi, che
significa dolci(). E perchè dovea una parte della
città preporre all'altra? Non componevano tutte la diletta
sua patria? Errava così alla ventura, perchè dovunque
si volgesse incontrava argomenti di pietà, di piacere e di
travaglio.
Se i luoghi percorsi un qualche bel fatto cittadino o una strage
fraterna gli rammentassero, avresti potuto conoscere dal passo, che
ora procedeva più lento ed ora si accelerava come se premesse
lastre di fuoco. Adesso notava le masse portentose dei palazzi
baronali, fatte più smisurate dalle tenebre, e gemeva su gli
odii che gli ostelli destinati al quieto vivere civile tramutarono
in fortezze; e più lungamente ancora si tratteneva a
considerare le umili case dei popolani appoggiate a coteste superbe
dimore per averne sostegno, nel modo stesso che nel mondo i deboli
si raccomandano ai potenti per conseguirne tutela; e nel modo stesso
che nel mondo i deboli, dal continuo curvarsi, acquistano soltanto
avvilimento e abbandono, cotesti abituri per la prossimità
delle soverchianti magioni venivano a perdere la luce e il vivido
circolare dell'aria. Procedendo oltre, penetrava con gli sguardi
dentro le officine degli artefici; e tentennando il capo,
contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e
corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione
di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano
una corona al capo o una catena ai piedi.
Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i
tetti signorili, nè la misura dell'anima procedeva alla
rovescia con la larghezza dei luoghi che la ricettano: pure ella fin
d'allora le modeste più che le sublimi case si compiaceva
visitare.
Così di pensiero in pensiero trascorrendo e per diverse vie
camminando, venne a riuscire appiè del Ponte Vecchio. Andava
oltre; e giunto che fu a mezzo del ponte, si affacciò alle
spallette, dove declinato il capo, si pose a considerare il corso
del fiume. In quel punto la sua mente era tolta alla visione dei
tempi passati. Vide un barone vestito di bianco sopra un bianco
palafreno arrivare con lieti sembianti in capo del ponte,
all'improvviso prorompere una mano di armati, stringersegli addosso
e, senza pur dargli tempo di raccomandarsi a Dio, rovesciarlo dal
palafreno e rompergli la persona di mille ferite; vide sgorgare
larga vena di sangue, macchiare le pietre del ponte e la statua del
nume che i pagani proposero alla guerra; ed a lui stesso
sentì spruzzarsene il volto, onde atterrito recava ambedue le
mani alla fronte a rimuoverne il sangue fraterno. E poi apparve il
demonio della discordia, che quel sangue raccolse e, mescolato con
l'ira di Dio, tornò a diffonderlo, quasi rugiada di delitto,
sopra una terra sacra alla sventura: allora, fecondate dall'umore
mortale, scorsero generazioni che, rinnovando il caso degli uomini
usciti dai denti del serpente di Cadmo, sembrò venissero alla
luce per trucidarsi soltanto: d'ira ebbre e di sangue, si lacerarono
le membra, delle proprie viscere composero miserandi flagelli; le
antiche sepolture, baccanti di strage, scoperchiarono, e strinsero
le ossa degli avi onde percuoterne il capo ai nipoti.
Nel fragore delle acque rompentisi per le pile, echeggianti sotto
gli archi del ponte, a lui parve sentire il grido lanciato dalle
trascorse generazioni nei tempi futuri; suono orribilmente confuso,
voragine di dolore, di pianto, di delitti e di memorie. Come narra
la fama che all'imperatore Pertinace dentro la piscina si
affacciasse spaventevole uno spettro a minacciarlo di morte(),
così in quelle rapide onde del fiume egli pensò vedere
i secoli passati, in forma di truci gladiatori, fuggire dalle arene
sanguinose e correre verso l'eternità, incalzati colla spada
nei remi dei secoli succedenti. I lumi accesi sopra la riva
mandavano obliquamente per la superficie del fiume lunghe strisce di
luce, sicchè le onde grosse e veementi, nel trapassarle,
riflettevano un raggio sinistro che bene si rassomigliava al
corruscare dei ferri parricidi.
Il pellegrino non vale a sostenere i fantasmi della propria
immaginazione, e gli occhi solleva al firmamento. Il cielo in parte
era ingombro di nuvole, ma vi scintillava una stella splendida come
la libertà, bella quanto la speranza. Quale misteriosa
corrispondenza passasse tra il pellegrino e la stella io non saprei;
però ei la fissava con immensa alacrità, aveva tutta
l'anima trasfusa nello sguardo, e sollevò la destra come per
invocarla. La stella parve battere l'ale a guisa di colomba e
tremare luminosa e ingegnarsi a fuggire la nuvola nera che di mano
in mano divorava oscurando il bello azzurro del cielo; invano: il
nuvolo l'aggiunse, e il firmamento pianse perduto quel soave raggio
d'amore. Egli allora declinò lo sguardo, dalla parte
più lontana del cuore disciolse un sospiro e, vinto dalla
passione, fuggiva a corsa dal ponte per sottrarsi al doloroso
presentimento.
L'affanno cerca il consorzio degli uomini, la gioja spesso gli
oblia: in molti ciò accade per raziocinio, e vuolsi
biasimare; in moltissimi per natura, e vuolsi compatire. Il
pellegrino, adesso vinto dalla passione, si risovenne dell'uomo per
cui si era mosso da prima e che aveva dimenticato nella dilettevole
contemplazione. Sceso il ponte, camminò per gran parte della
via chiamata dei Guicciardini: già era prossimo alla fine del
suo pellegrinaggio, quando gli parve vedere, e vide certo, una
figura immobile davanti la casa dell'amico. Siccome avviene per la
notte si presentava disegnata in nero sopra un fondo men bruno: la
veste talare, che chiamavano lucco, descriveva cadendo bellissimi
contorni; una mano le pendeva giù lungo la persona, l'altra
sottoposta alla fronte e appoggiata allo stipite, in sembianza di
statua che pianga sopra l'urna dei defunti.
Il pellegrino soprastette alquanto col cuor chiuso, aguzzò lo
sguardo e sentì suo mal grado agitarsi; riprese a camminare
più lento, mormorò alcune parole, levò
strepito: invano; lo sconosciuto, assorto in profonda meditazione,
non pareva cosa viva. Si fa più appresso, più appresso
ancora: coteste forme non gli tornano ignote; esita nel ravvisarle,
le ravvisa, e con tale una voce che svelava una piena immensa di
affetto, una speranza adempita, forte sclamò:
«Buondelmonti.»
Lo sconosciuto anch'egli, quasi desto per forza, balzava indietro
gridando:
«Alamanni.»
E l'uno nelle braccia dell'altro precipitava e sentiva sopra il suo
cuore palpitare il cuore dell'amico col palpito più generoso
che mai fosse concesso ai nati della creta.
Troppo gli agitava profonda quella intima melodia onde potessero
significarla con parole. Come la virtù visiva per solenne
splendore si acceca, così l'altissimo sentimento smarrisce la
via della favella; però precorre il linguaggio dei labbri
mortali un colloquio dello spirito che forse non morrà,
colloquio di arterie frementi, di effluvii di vita trasfusi da una
mano all'altra, dall'una all'altra guancia. Stettero muti e
giubilarono e quasi benedissero i travagli sofferti da Dio che volle
sgorgasse la dolcezza della gioja dall'amaro dell'angoscia, in
quella guisa che finsero i poeti con le lacrime di una donna
disperata si componesse la mirra, profumo soave agli uomini e agli
dêi.
Quando poi si fu alquanto quetata la veemenza della passione, Zanobi
Buondelmonti prese a interrogare dicendo:
«E donde vieni, Luigi?»
«Vengo di Francia, ove trovai favore presso il Cristianissimo;
ma la grazia dei re all'anima repubblicana è tale un
supplizio, Zanobi, che l'Alighieri nostro non avrebbe dovuto
dimenticare di metterlo giù nel suo Inferno.»
«E come ti si volsero gravi gli anni dell'esilio? Ti piacque
ella la terra? Ti si mostravano i cittadini cortesi?»
«L'esule, amico, e tu lo sai a prova, conserva gli occhi per
piangere, non già per vedere; il cuore gli vive, ma per
sentire la propria sciagura. Il pane dell'esilio mi parve amaro, e
certo parve anche a te; incresciosa la casa dove non ti richiama
affetto di vivente o di defunto. Il sole in sembianza di fuggiasco
trascorre per quell'aere caliginoso e raccoglie a sè tutti i
suoi raggi, quasi per timore di contaminarveli dentro; egli
comparisce su l'emisfero come spossato dalle fatiche di aver vinto
le tenebre; per gran parte dell'anno egli guarda quei luoghi colle
palpebre socchiuse, ma non li veste con la magnificenza della sua
luce, nè le cose riempie e gli uomini di vita e di poesia.
Anche coteste terre traversano ampie riviere, ma invano cercai gli
argini fioriti del patrio fiume, nè vidi percuoterne le
sponde i piè leggieri di donne o di donzelle innamorate,
nè riflesse in quell'onde le infinite ville di cui va lieta
la prossima campagna: la Senna mi apparve a guisa di un fiume di
piombo che senza fremito di acque, senza riflesso d'immagini, unito,
opaco, si accostasse pesantemente al mare. Per gli uomini poi,
nè il cielo nè la terra amano i miseri e l'odio degli
avventurosi ti prostra del pari che il beneficio. Astero di Anfipoli
tolse un occhio, lo sai, a Filippo di Macedonia con una freccia
d'argento. Il potente dona per ozio, per fastidio, per tracotanza;
dona ancora per debolezza o per ira, di rado per la benignità
di natura o per amore del prossimo; e quando egli si avvisa di
cacciare fuori un lamento sopra la ingratitudine umana, il mondo gli
crede, perchè non sa o non vuole comprendere come sovente la
mano che finge stendersi al beneficio meriterebbe di essere
tagliata. Al misero poi che sotto la sferza dell'elemosina trae
doloroso un rammarico maledicono tutti, perchè non pensano
che con un fiorino può maggior ferita apportarsi che con un
pugnale. Da ogni parte odi muovere lagnanze di uomini ingrati:
potresti tu annoverarmi coloro i quali sanno beneficare? L'anima del
cane non bada al volto di cui gli getta l'osso, ma l'anima dell'uomo
rimane profondamente contristata dal modo del beneficio. Ora tu
intendi come il disprezzo mi gravasse, nè meno la
pietà altrui mi riuscisse importuna. Nello stato al quale
venimmo condotti il cuore sta chiuso nè lascia entrarvi od
uscirne un affetto. Infelice colui che in questa terra non seppe
inspirare altro che odio; ma infelicissimo quegli che abbisogna
della pietà degli altri!
«Veramente, Luigi», rispose il Buondelmonti, «la
miseria flagellando scuopre la carne viva, sì che le fibre
spasimano ad ogni lieve crudezza: però non vuolsi negare come
l'uomo di rado e malvolentieri perdoni qualunque sorta di
superiorità, e il felice beneficando si dichiara coll'atto
superiore allo sventurato. - Qual merito è il suo per vivere
più contento di me? - nella rabbia del cuore si domanda
l'offeso dalla fortuna: e, la ingiustizia confondendo con l'uomo che
la rappresenta, trasuda odio per tutti i pori del corpo. I beni
acquistati per accidente di fortuna più di leggeri egli
assolve che gli altri concessi per fatalità di natura: la
ricchezza quindi più agevolmente della grazia, la grazia
della forza, la forza della bellezza, la bellezza dell'ingegno. Pel
genio poi non vi ha perdono in questa terra: gli volgano i casi
favorevoli o avversi, egli è solo. Messo sul capo de' suoi
fratelli, ben egli ha potenza di pestarlo o illuminarlo, ma gli
è vietato baciarlo; dove si chinasse un momento, sarebbe una
stella caduta, avrebbe tradito il suo officio per pochezza di cuore:
soffra, sia grande e tacia. Dalle angosce della sua solitudine
usciranno insegnamenti a migliorare il vivere degli uomini tra loro:
intanto sè stesso nudrisca divorandosi; sublime di grandezza
e di dolore, si apra il petto e, a guisa di mistico pellicano, le
schiatte dei fratelli rigeneri con un battesimo di sangue e di
scienza. Così, per certo, si mantiene dal destino in giusta
lance cui ebbe troppo, e cui troppo poco; così forse merita
pietà chi maggiormente pensiamo degno d'invidia. Sempre a
sè medesimo gravoso, spesso ai suoi fratelli, funesto,
vilipeso, sconosciuto, perseguito, il genio è condannato ad
una perpetua ebbrezza di angoscia e di gloria.»
«Forse è così, come dici, o Zanobi: e l'una
parte e l'altra avranno torto o più tosto ragione;
però che l'esperienza m'insegnasse queste due parole non
corrispondere a cosa effettuale di per sè stessa stante,
sì bene essere modificazioni di cose secondo i tempi o le
sorti o gli uomini diversi. Francesco Sforza tolse via la repubblica
di Milano; e poichè i cittadini non sentirono virtù da
impedirlo e da spegnerlo, fu duca ed ebbe ragione: se lo tentava
quando i Lombardi con la creta e con la paglia contrastarono
all'imperatore Barbarossa, sarebbe stato ridotto in pezzi e avrebbe
avuto torto. Arnaldo da Brescia, Giovanni Hus e Martino Lutero
intesero ad un medesimo fine: i primi due vennero al mondo troppo
tosto e capitarono male; il terzo nacque in tempo giusto, ed ogni
giorno, come tu vedi, prospera. Ma, lasciando per ora di ragionare
intorno a sì fatto argomento, dimmi tu pure come e quanto
pativi: è cosa dolce sopra la terra dei nostri padri
discorrere insieme gli affanni dell'esilio. Di te non intesi novella
mai: e quando mi ricorreva al pensiero la tua cara immagine
fraterna, involontarie le labbra mormoravano la preghiera dei
defunti.»
«Ed in vero io non vissi. In quella guisa che gli antichi
credevano lo spirito dipartito dal corpo non sapesse o non potesse
abbandonare i luoghi dove giacea sepolto il compagno della sua vita,
così io mi aggirai per le varie contrade d'Italia. A Roma
poi, più sovente che in altre parti traeva come a sicurissimo
asilo. La luce abborriva e gli uomini, perchè io non ho cuore
da sopportare la vista di un popolo caduto sì basso. E pure
coloro i quali adesso mangiano e bevono e dormono in Roma ardiscono
vantarsi sangue latino, chiamarsi figli degli antichi Romani!
Sì certo, come i vermi potevano dirsi figli di Bruto
diventato cadavere. La notte invocava che col suo più denso
velo ricoprisse le infamie d'Italia, e la supplicava eterna; usciva
pel buio a vagare, simile ad un insetto, traverso le infinite volte
del Colosseo, monumento sul quale i secoli, poichè invano
tentarono distruggerlo, si posano come sopra un trono conveniente
alla loro maestà; ma nell'insetto era potenza d'immaginare, e
quindi riempiva cotesta arena di aneliti, di grida e di strage, e
quei gradini popolava di una gente a cui porgeva acuto diletto un
colpo mortalmente ferito, un'agonia fortemente sofferta; e da
cotesti spettacoli vedeva sorgere la gente romana e correre a
portare nell'universo catene e seme di futura vendetta: però
le larve sparivano, e tremendo mi stava davanti gli occhi il
sepolcro delle rovine di Roma; sì, dico, sì, anche le
rovine sono state sepolte: chi ne conobbe fin qui tutte le sue ossa!
Se rimanessero intere le rovine della superba città, ne
uscirebbe una voce di spavento allo straniero, una voce di
risurrezione ai nostri stolti e codardi: grandezza, gloria, popolo,
costumi e rovine di Roma, tutto precipitò nella morte. I numi
muoiono anch'essi. Del tempio di Giove avanza una colonna sola,
quasi cippo sepolcrale di religione defunta. Ahimè! l'aspetto
dell'antica miseria non giova a confortare la nuova. Cessiamo dal
piangere sopra le glorie passate; piangiamo più tosto, e a
maggiore ragione, la odierna viltà che ci contende di
sollevare l'anima dalla terra. Ogni popolo trama il proprio destino;
ogni uomo può violentare la sua Parca. Non è questo il
terreno dove vissero i Romani? non è questo il cielo che li
copriva? non queste le stelle che tante volte scintillarono sopra i
nostri trionfi? Nulla è mutato; noi solo siamo fatti diversi.
Ecco, io diceva a me stesso, giunse nella terra dei padri miei il
giorno d'ira e di abiezione, nel quale i popoli portano le catene
come ghirlande di fiori e credono non avere mai la testa tanto
bassa, la voce tanto dimessa, il dorso tanto curvo da prostituirsi
al proprio simile: ora che più resta all'uomo nato libero?
Avventi contro Dio la sua anima, come saetta dall'arco, e mora
incontaminato. Moriamo. E a corsa m'incamminava verso la patria,
chiuso nel tremendo pensiero di maledirla e di spegnermi. Valicai
furente i gioghi dell'Appennino: l'anima mia si accordava con gli
urli dei lupi vaganti pe' boschi e li vinceva in ferocia; le mani
atteggiate ad imprecare, mi affacciai dalla sommità dei
colli, giù per le valli lanciai uno sguardo infocato quanto
il fulmine del cielo.... Ahi la patria! la patria! nel giorno del
dolore più leggiadra mi apparve che in quello dell'esultanza,
siccome grazia aggiunge e vaghezza al volto della donna il pallore
che la mestizia vi diffonde coll'alito gentile. Occorrono sopra la
terra creazioni di così incorrutibile bellezza su le quali la
traccia della sventura non si manifesta come oltraggio, ma quasi un
bacio; e la nostra patria, o Luigi, è tra queste. Gli occhi
mi s'ingombrarono di lagrime, mi caddero le mani; ed in quel modo
che Balaam, chiamato a maledire il popolo di Dio, lo benedisse tre
volte, io le invocai bellezza sempre uguale, destini diversi. Scesi
dai colli con l'ansia d'una madre la quale, spaventata dai lunghi
sonni del figlio, si curva sopra le sue labbra a spiarne la vita, ed
entrai nei casolari degli agricoltori: colà vidi accendersi
volti alla memoria della nostra abiezione, quivi udii suonare la
parola della libertà: allora mi accôrsi che la patria
non era anche morta; onde, prostrato sopra la terra de' miei padri,
con le viscere del cuore supplicava: Desta, o Signore, la bella
addormentata. Tu, padre, schiudi le dimore celesti, a tutti
ospitale: l'anima del forte e quella del debole sono parte
dell'anima tua; perchè dunque tu soffri la schiatta dei
tormentatori? Le mani strette dalle catene non possono sollevarsi
verso di te. Vedi, i fratelli hanno contristato lo spirito dei
fratelli, gli hanno percossi, gli hanno fatti piangere:
perchè tanto splendide creasti le sfere, così
squallida la terra? Manda la figlia migliore del tuo pensiero, la
libertà, ad albergare tra gli uomini; e la terra fie che
emuli di magnificenza il firmamento: allora queste due creazioni
alterneranno in tua gloria un cantico nuovo, e i cieli, fino ad ora
cupamente muti, palpiteranno di echi divini. Lévati dunque
giudice e comanda che lo svegliarsi di un popolo sia come quello di
un leone e non riposi finchè non abbia divorato la preda e
bevuto il sangue degli uccisi(). Ora, ecco, Iddio ha esaudito la
preghiera dell'esule; e di forza, di amore pieno e di ardire, a pena
giunto qui, piegai i passi a salutare il grande, che da noi vuolsi
onorare dopo Dio prima, perchè, se da lui avemmo la vita e la
patria, egli c'insegnava ad amarla ed a morire degnamente per
lei.»
«E già tardammo anche troppo», soggiunse Luigi
Alamanni; e così favellando prese pel braccio il Buondelmonti
e salirono.
Non incontrarono persona nè udivano muovere passo o
articolare parola: una lampada appesa alla volta della sala ardeva
solitaria e prossima a morire. Appena v'ebbero posto il piede i due
amici, si avvivò, mandò su le nudi pareti un getto di
luce, quasi volesse dire: - contemplate la povertà di
Nicolò Machiavelli -, e si spense. Allora ristettero pensosi
e meditarono se quella miseria o il grande che la soffriva
maggiormente onorasse, o i suoi concittadini che gliela lasciavano
sopportare avvilisse. Percossi dallo insolito silenzio, si avvolgono
per lunga serie di stanze prive di lume; alla fine giungono in parte
dove vedono scaturire una striscia di luce; si accostano all'uscio
ed aprono.
Nicolò Machiavelli giace vicino all'ultima sua ora; la
contesa tra la distruzione e l'esistenza era già scorsa; la
distruzione aveva prevalso e spiegava su quel corpo le sue insegne
come sopra terra presa; la pelle livida, le tempie cave, la fronte
arida, il naso attenuato e recinto di un cerchio nericcio, la
calugine delle narici sparsa di polvere giallastra, il pallore, il
sudore e quiete inerte foriera del sepolcro; - egli tendeva le
labbra a guisa di assetato, come anelante di un sospiro che gli
rinfrescasse le viscere; gli occhi lucidi di vetro, senza sguardo di
cosa terrena, però intenti alla contemplazione degli oggetti
posti oltre i confini della vita: ora solenne nella quale l'anima,
non bene uscita dalla spoglia mortale nè ancora volata alle
dimore celesti, sembra soffermarsi sopra la soglia dello infinito,
esitante tra le gioie promesse e gli effetti goduti; colloquio
misterioso fra il Creatore e la creatura che niuna mente vale a
comprendere, nessuna lingua a descrivere, forse di amore, forse di
rabbia, ma certamente pieno d'ineffabile amarezza.
Un giovane di vaghe sembianze, genuflesso a canto il letto, si
cuopre il volto con la destra abbandonata del moribondo e la bacia e
tacito vi sparge sopra largo rivo di pianto: un dolore senza fine
amaro si ostina a prorompere urtandogli impetuoso le fauci; la
pietà del moribondo stringe il giovine a comprimerlo,
sì che si ripiega fremente a spezzargli sul cuore, e il corpo
si agita tutto di scossa convulsa.
A capo del letto, dalla parte diritta, sta un frate di volto severo,
stringe i labbri tra i denti, guarda il moribondo e non fa atto di
pietà o d'impazienza; se non che la fronte, con vicenda
continua, ora gli si corruga ed ora gli si spiana; come i nuvoli
sospinti dalla bufera davanti al disco della luna, tu puoi scorgere
i pensieri procellosi che l'attraversano.
Dalla sinistra, un uomo membruto di persona, con le braccia conserte
sul petto, tiene il capo chino al pavimento; copiosi capelli rossi
gl'ingombrano la fronte e parte delle late spalle, la barba fulva
gli oltrapassa scendendo la cintura; dal mezzo dei sopraccigli
orribilmente aggrottati sorge quasi un fascio di rughe le quali
vanno, a modo di raggi, dilatandosi per l'ampiezza della fronte:
male quindi sapresti indovinare se quivi il dolore ristretto
lanciasse coteste linee rodenti ad occupare le facoltà del
cervello, o se piuttosto, dalle varie regioni del cranio partendo,
colà esse si condensassero; veramente stavan fitte in quel
punto atroci a sentirsi quanto le sette spade raccolte a trafiggere
il cuore della madonna dei dolori: non atto, non gemito lo
chiarivano vivo, nè il muovere dei peli estremi dei labbri
per respirare; solo tu avresti veduto a poco a poco comporsi due
grosse lacrime nel cavo de' suoi occhi, tremolare incerte lungo le
orbite e sgorgare dalle palpebre giù per le guancie, come
secreta vena di acqua tra massi di granito. A prima giunta quella
testa ti appariva feroce, quindi ancora atta a esprimere la
pietà; finalmente, senza pure accorgertene, ti sentivi
disposto ad amarlo; aspetta ch'ei parli e lo conoscerai.
Appiè del letto occorreva un'altra figura vestita di corazza
d'acciaro, con ambe le mani coperte di manopole di ferro soprammesse
al pomo della lunga spada; anche il suo volto rendeva decoroso largo
volume di capelli cadenti, le guance rase ed i labbri, la fronte
purissima, dove avrebbe potuto, come sopra il santuario, deporre un
bacio l'angiolo della innocenza; ed egli stesso sembrava un angiolo
che i credenti affermano vigilare intorno i letti dei giusti
moribondi a respingere gli assalti dello spirito infernale. Cotesto
era un corpo che gli anni passando non guastano, soltanto modificano
a generi diversi di bellezza, e cotesta era un'anima che l'angoscia
piega alquanto, non rompe, - la gioia rallegra, non esalta: anima e
corpo, in somma, di rado concessi da Dio alla terra per far fede tra
uomini degenerati quale nel suo pensiero divino avesse concepito la
creatura, prima che una colpa senza perdono la diseredasse del
paradiso terrestre: anelante di sacrifizio, egli avrebbe notte e
giorno supplicato che i misfatti e le pene degli uomini la giustizia
eterna sopra il suo capo accogliesse e vittima di espiazione
l'accettasse; ed egli non avrebbe mica diviso la croce col Cireneo
nè per viltà rimosso dalle sue labbra il calice della
Passione; per tutti i regni della terra non ne avrebbe ceduto una
stilla. Lui, onde cara e onorata cadesse la patria tra noi,
disposero i cieli ad essere il martire della libertà,
l'ultimo dei generosi Italiani.
Varie altre persone stavano sparse per la stanza atteggiate in modi
diversi e pur tutti esprimenti dolore: onde quando io considero
quante abbia maniere a manifestarsi l'angoscia e quante poche la
gioia, come via unica per venire nel mondo ci fosse dato il seno
materno e per quante infinite riusciamo al sepolcro, mi turba il
pensiero che una forza maligna ci abbia lanciati nel mare della vita
col sasso della miseria legato intorno al collo. Non disperiamo
però: imperciocchè quantunque a noi non soccorra
rimedio altro che le lacrime, tuttavolta la stilla perenne ha
virtù di cavare il diamante, e le generazioni succedendosi in
questa opera possono piangere a bell'agio e cancellare il decreto
inciso nel granito per la mano del fato.
Marietta, moglie di Nicolò, e tre dei suoi figli, Guido,
Piero e Bernardo, si erano da molto tempo ridotti a dimorare in
campagna; nè, per essere il male sopraggiunto improvviso al
padre loro, avevano potuto riceverne notizia. Forse in cotesto punto
insieme raccolti discorrevano delle cose della patria e sorti
migliori speravano pel padre, il quale, con tanto pericolo suo e
vantaggio di lei, l'aveva di opera e di consigli sovvenuta in tempi
grossi, ed ora per certo non egli avrebbe voluto negarle i suoi
ammaestramenti acquistati dalla esperienza degli anni e dalla lunga
pratica nei pubblici negozii; ma in quel punto la speranza levava
l'áncora di casa Machiavelli, lasciandola in balia della
miseria. Disegni umani!
I due amici, osando appena alitare, s'inoltrano nella stanza;
procedendo vengono a posarsi traverso la linea visuale degli sguardi
del moribondo. I suoi occhi cessano subitamente dalla fissazione, le
pupille quasi smarrite ondeggiano da un angolo all'altro, poi
tornano consapevoli a fermarsi sopra gli oggetti circostanti; allora
l'esultanza salutò di un estremo sorriso quel volto pieno di
morte, come il sole dall'orlo del giornaliero sepolcro di un raggio
languidissimo colora il sommo delle basiliche, delle torri e dei
monti già a mezzo ingombri dagli orrori crescenti della
notte. Egli mosse le labbra e favellò:
«Io vi aspettava: silenzio! Parole ho a dirvi degne che per
voi si ascoltino, per me si favellino, nè alla umanità
nè alla patria inutili affatto e per la mia fama necessarie.
La natura mi chiama, ed io sto disposto a rispondere. Perchè
piangete? Chiamerà anche voi; e poichè la vecchiezza
precede la morte, considero la morte pietà; io però
bene devo ringraziarla di questo, che ella non volle chiudermi gli
occhi, se prima non avessi contemplato il giorno della risurrezione;
adesso sì che mi sento capace da vero d'invocare col cuore il
nome di Dio, poichè la mia bocca, sopra la piazza della
Signoria, davanti la faccia del cielo, ha gridato: Viva la
libertà!... Silenzio! onde il senno dei tempi non vada
disperso. Le schiatte umane passano come ombre; se non che, prima di
ripararsi sotto il manto di Dio, nelle mani delle schiatte
sorvegnenti consegnano la fiaccola della scienza: a guisa del fuoco
sacro di Vesta, quantunque ella muti sacerdoti, pure arde sempre e
cresce nei secoli nè ormai più teme vento di barbarie.
Accostatevi e raccogliete l'estreme parole, però che vi
aprirò il mio pensiero come se fossi davanti al tribunale
dell'Eterno.»
I due amici, compresi da senso religioso, si appressano e, salutati
appena d'uno sguardo i circostanti, si pongono ad ascoltare.
Nicolò riprendeva:
«La fortuna trama in gran parte la tela degli umani
avvenimenti. I Romani, i quali quasi quanto vollero fecero,
più che agli altri dii are innalzarono e tempii alla Fortuna;
e con ciò dimostrarono sapientemente conoscere una forza
superiore alle forze mortali che spesso si compiace secondare
sovente ancora i disegni loro impedire. La fortuna sola vuolsi molto
più accetta tenere della virtù sola:
imperciocchè quella vedemmo tal volta condurre a lieto fine
le imprese, la seconda capitare sempre male. Siccome la vita dei
popoli si prolunga nei secoli, così la prosperità loro
non si comprende da una o due imprese avventurose, sì bene da
una serie di fatti prudentemente concepiti e virtuosamente operati:
per la qual cosa giudico la fortuna fuori di misura giovevole nella
vita breve di un uomo poco avvantaggiare il governo degli stati ed
anche riuscirgli nociva, se la virtù non ponga il chiodo alla
sua ruota. La fortuna in molti casi si mostrò favorevole ai
Fiorentini: più volte li preservava dalla servitù,
come al tempo di Castruccio e dei Visconti; più volte gli
restituiva a libertà, come nel passo di Carlo VIII e adesso.
Nel 1494 i meglio saputi cittadini tenevano la patria spacciata; e
invece rimase Piero dei Medici sbandito, il cuore del dominio salvo.
Ora nel 27 pareva volesse il Borbone rovesciare Fiorenza, e invece
assaltò Roma, depresse il papa e ne fece abilità di
toglierci giù dalle spalle quello increscioso giogo dei
Medici. Furono questi doni della fortuna; e appunto perchè
doni, o poco gli avemmo cari, o ci curammo poco di custodirli,
siccome dovevamo e meritavamo pur troppo; se ci avessimo speso
dintorno sudore e sangue, gli avremmo per certo più
diligentemente mantenuti; gli Ebrei presero in fastidio la manna,
comechè soavissimo cibo si fosse, perchè gliela
mandava il cielo, e senza fatica a sazietà la raccoglievano;
agli uomini poi non riesce mai sgradevole quel pane che con molto
travaglio essi ottengono. Le cose della fortuna si distendono molto,
approfondiscono poco; quelle della virtù diversamente
procedono: onde, tutto ben ponderato, io prepongo alla fortuna la
virtù non infelice.
Non ragionerò dei provvedimenti buoni negletti, dei pessimi
seguiti dal 1494 al 1512, spazio nel quale durò la seconda
cacciata dei Medici; già la storia i tempi, gli uomini e le
colpe loro incise sopra le sue tavole di bronzo e le dava in
custodia alla memoria. Il tempo stringe, lunga è la via;
nè già si tratta adesso di speculare sopra le azioni
antiche, bensì somministrare consigli per le presenti e per
le future. La fortuna, poichè volse la ruota ora favorevole
ora avversa ai Medici, parve romperla per loro nel 1527; rimasero
uomini a pena eredi del sangue di cotesta famiglia, diseredati
affatto della virtù. Andava e va tuttavia la città
divisa con diverse maniere fazioni: eravi chi teneva pei Medici, e
tra questi parte la monarchia assoluta desiderava, parte voleva i
Medici non già signori ma capi di governo largo; della
fazione avversa alcuni più odiavano i Medici di quello che
amassero la repubblica, altri più amici della repubblica che
nemici dei Medici, altri finalmente la tirannide al pari dei Medici
detestavano. Dall'un canto e dallo altro stoltezza, tranne gli
ultimi: imperciocchè nei rivolgimenti degli stati bisogni
mirare a fine preciso, e le sfumature non giovano; sicchè,
quando i tempi grossi incalzano, tu ti trovi senza concetto,
sospinto là dove aborrivi precipitare. Il popolo rimaneva
come il cammello giacente sotto il peso; lo sentiva grave, ma,
scarrucolato dagl'inetti novellatori di consigli mezzani, non sapeva
a qual partito appigliarsi per gittarselo giù dalle spalle.
Correva l'aprile del 1527 quando Dio, accecando i nostri oppressori,
consigliò al cardinale Passerini da Cortona di lasciare
Fiorenza e andarsene in compagnia d'Ippolito e di Alessandro e della
Corte a Castello per complire il duca di Urbino, il quale si era
quivi ridotto con l'esercito della lega. Valicate appena le porte, i
giovani, come quelli che nella mente loro concepivano un disegno
assoluto e virile, levarono rumore, uscirono armati dalle case
Salviati e, tratti i gonfalonieri delle compagnie, si recarono ad
assaltare il Palazzo. Nessuno si oppose; però che gli stessi
avversarii, discordando nei pensieri, argomentassero nel tempo in
che faceva bisogno adoperare ferocemente le mani. Il popolo restava
inerte, chè la tirannide lunga lo teneva assopito; ben era
aperta al lione la gabbia, ma non osava lanciarsi; era la sua catena
spezzata, ma non ardiva scuotersi per gittarne lungi i frammenti;
guardava, non sapeva e, gridando libertà, libertà!
applaudiva.
Baccio Cavalcanti, salito in Palazzo a nome dei giovani, impose al
gonfaloniere e alla Signoria bandissero i Medici: alcuni dei Signori
che, per godere il benefizio del tempo, s'ingegnavano interporre
indugi rimasero feriti; mandato a voti il partito, nessuno
dissenziente, i Medici ebbero il bando. Consiglio audace,
provvidenza infelice. I cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi, avvisati
del caso, tornarono spediti a Fiorenza, il conte Noferi li precedeva
con mille fanti: facendo loro spalla i partigiani dei Medici, senza
nessuno impedimento trovare, penetrano in Fiorenza e procedendo
incontrano davanti la chiesa di San Pulinari Tomaso Ciacchi della
repubblica svisceratissimo; toltolo in mezzo, comandano gridasse:
Viva i Medici! rifiutava; percosso, nel rifiuto si ostinava; ferito
mortalmente sul capo, più e più sempre esclamava: Dio
e libertà! Il popolo guardava, non sapeva e gridando: Palle,
palle! applaudiva. Insanguinata la terra di quel nefando omicidio,
assaltano il Palazzo; i giovani, comechè in tutti avessero
sette archibusi, deliberano a difendersi. I Palleschi, i quali
poc'anzi paurosi si nascondevano, adesso prorompono, più
infesti, come suole, coloro che si mostrarono più vili; arde
la porta del Palazzo dalla parte degli Antellesi; all'altra puntate
le picche, le spingono di forza, sicchè le imposte curvandosi
meglio di un braccio si scostano dagli stipiti.
Se in quell'ora di turpe baldanza i soldati dei Medici entravano in
palazzo, la patria nostra avrebbe pianto lacrime amare sul fiore
della sua gioventù trucidato. A Dio piacque che quel
santissimo e forte petto d'Iacopo Nardi quivi a sorte si trovasse
rinchiuso; in quel fiero trambusto, punto egli smarrendosi di animo,
confortò i compagni a far testa anche un momento, e dipoi,
salito sul ballatoio (come colui che di ogni particolarità
spettante alla patria era indagatore e conoscitore solenne),
scopriva certe pietre colà a disegno raccolte e in modo
disposte che, leggermente intonacate al di fuori, sembravano un
fermo parapetto; allora rotti i lastroni delle buche, uniti nel
proponimento di salvare la patria, precipitarono cotesti sassi sul
capo agli assalitori(). Se alla improvvisa rovina fuggissero coloro,
non è da dire; lasciarono le porte, l'incendio fu estinto, e,
peritandosi di accostarsi da capo, presero a sbarrare le strade.
Sopraggiunsero intanto i signori della lega; Federigo da Bozzolo
intervenne mediatore in nome di Francia, e chiariti i giovani
intorno la vanità delle difese, assicurati di universale
perdono dal cardinale Cortona e da Ippolito concesso, dal duca di
Urbino guarentito, dopo alcune pratiche, ottenne il Palazzo
restituissero. Io non incolperò di siffatto evento veruno;
imperciocchè, quantunque non fossero presi i necessarii
provvedimenti a mantenere la libertà, tuttavolta, anco presi
non avrebbero, atteso il tempo breve, giovato; quello di cui
riprendo i cittadini più savi si è questo, che o il
moto non impedissero, o insieme non cospirassero prima, onde o
potesse sostenersi meglio, o venisse con più onore a mancare.
La caduta di un popolo deve essere tale, carissimi miei, che lasci
memoria di terrore ai tiranni, legato di vendetta ai figliuoli degli
oppressi; tra il popolo sommosso e un re bandito, unico patto il
sepolcro; sta sulla sua spada il perdono; affetti, giuramenti, onore
e Dio sono onde che rompono nello scoglio dell'interesse di regno.
Questo per lo addietro si è visto, e tolga Dio che si veda
anco in futuro: però torno a ripetervi che, tratto il ferro
una volta, il popolo ha da gettarne via il fodero; dove tanto si
acciechi da riporlo finchè il suo nemico non giaccia
cadavere, invece di cacciarlo nel fodero, se lo caccerà nelle
viscere; e di questo stia certo. Invece il cardinale Cortona, a
ciò indotto dal conte Pietro Noferi, mandava a Roma una nota
di gente da uccidere, comechè perdonata; e se la paura di
maggiori disastri non tratteneva Clemente, avreste veduto un po'
voi, come diceva Luca Albizzi, se sapeva ben egli schiacciare il
capo ai colombi rimessi in piccionaia. La fortuna ad ogni modo ci
voleva liberi: il 12 maggio giunse notizia del sacco di Roma dato
dagli imperiali, il papa a stento rifuggito in castello. Il
cardinale Cortona, povero di consiglio, nè voleva fidarsi
altrui nè da sè era bastante a prendere un partito: i
soldati chiesero le paghe; Francesco del Nero cassiere del pubblico
nega i danari e ripara a Lucca; il Cortona, di natura miserissimo,
piuttostochè rimetterci del suo, si sprovvede di quella
estrema difesa e dichiara volere lasciare il governo della
città.
I giovani, immemori del passato pericolo, tornano ai tumulti; per
questa volta la fazione degli ottimati, incapace a muoversi, riesce
a trattenerli. La Clarice moglie di Filippo Strozzi va a casa Medici
ed aspramente ripresi Ippolito e Alessandro di aversi voluto fare
tiranni, li consiglia a partirsi; s'ella non era, nessuno ardiva
abbattere cotesta tirannide cadente: nè in lei fu tutta
virtù, sibbene o petulanza donnesca, o rancore contro il
sangue illegittimo di casa sua, o sdegno contro papa Clemente che
non volle creare cardinale Piero suo figlio, e mandato il marito
Filippo a Napoli per ostaggio dell'accordo conchiuso con i
Colonnesi, non lo aveva poi atteso, ponendolo così in
pericolo presentissimo della vita, o finalmente speranza, cessato il
governo dei Medici, di vedere la sua famiglia principale in
Fiorenza. Mentre la Clarice, accesa nel volto con voce alta
così favellava, si levò rumore tra i soldati della
guardia; un archibuso fu sparato contro di lei, sicchè tra
crucciosa e atterrita quinci si dipartiva, accompagnandola i
più notevoli cittadini. Intanto si raguna in Palazzo la
pratica per deliberare intorno ai casi presenti. Filippo Strozzi, a
grande istanza pregato da Ippolito, si reca alla Signoria per
ritirare la dichiarazione del Cortona intorno all'abbandono del
governo di Fiorenza; ma la pratica aveva già vinto una
provvisione per la quale si convocava il consiglio grande e,
creatosi intanto un reggimento che tenesse gli uffici fino al 20 di
giugno, i Medici in condizione privata si restituivano.
Senonchè i giovani, prudentemente pensando, cessato il regno,
non potere il principe più oltre abitare la città,
tranne morto, accennano prorompere. Allora Nicolò Capponi,
Filippo Strozzi, Giovanfrancesco Ridolfi ed altri maggiorenti, i
quali, siccome corse fama, già da buon tempo innanzi si erano
concertati a Legnaia, confortarono i Medici a dare campo su quella
prima caldezza alle ire popolari, ritirandosi al Poggio. Filippo
deputavano a scortarli sotto pretesto della sicurezza loro, invero
poi per farsi restituire le fortezze di Livorno e di Pisa: fin qui
la colpa tutta del popolo; imperciocchè, se egli avesse
sostenuto la fazione dei giovani, nè i Medici sarebbero
usciti, nè gli avrebbe lo Strozzi accompagnati. Consigliava
la ragione di stato i Medici e i cardinali Cortona, Cibo e Ridolfi
si sostenessero per cambiarli poi con alcuno dei più notabili
nella guerra futura, o, come fecero i Romani della testa di
Asdrubale, balestrarne i capi mozzi tra le genti del papa, quando ei
si fosse attentato assediare Fiorenza, mettendo così tra il
popolo e il suo tiranno il sangue e la disperazione: quello che
maggiormente nuoce in simili imprese è tenere l'animo
vôlto agli accordi; perchè i codardi vanno rilenti alle
offese, le difese o poco curano o del tutto abbandonano, e la patria
rovina. Bentosto se ne raccolsero gli amari frutti; Filippo Strozzi,
per tale una causa che la fama bisbigliò sommessa, e la
storia tacerà vergognando, perocchè ella sia vergine e
musa, lasciò fuggire Ippolito a Lucca; e per ricuperare le
fortezze, oltre alla perdita del tempo, tra Piccione contestabile
della fortezza di Pisa e Galeotto da Barga di quella di Livorno vi
si spesero meglio di quindicimila scudi. Francesco Nori e la
Signoria depongono l'ufficio; non aspettano il giugno per convocare
il consiglio; determinato il modo di eleggere il gonfaloniere,
l'adunano sul finire di maggio e creano Nicolò Capponi.
Il consiglio eleggeva, il Capponi accettava; fallo grave nel popolo,
nel Capponi gravissimo: errò il popolo, il quale andava
immaginando che, come egli aveva ereditato dal padre Pietro le
sostanze, così pure avesse dovuto redarne quell'impeto che
valse a salvare la città dalle cupidigie francesi e rendere
il suo nome immortale; errò ancora, perchè non conobbe
la temperanza e la moderazione di Nicolò, in tempi quieti
lodevoli, avrebbero a mal partito ridotto la città nei casi
presenti, dove si chiedeva consiglio audace ed opera piuttosto
avventata che gagliarda: ma sopratutto il Capponi e sè stesso
mancava ed alla patria: forse Dio, che può leggere nei cuori,
e le colpe misura dalla intenzione, lo perdonerà, non
derivando i suoi falli da mal volere; ma non può perdonarlo
la storia: ardua cosa e per avventura impossibile alla mente umana
investigare le cause segrete dell'animo; e poco rileva conoscere se
l'effetto sinistro si parta o da talento pessimo o da mancanza di
cuore; ella giudica dall'utile o dal danno: per la qual cosa tu puoi
sentenziare in coscienza che Nicolò Capponi fu traditore alla
patria. L'uomo che si reca sopra le spalle il carico tremendo di
porsi a capo dei tumulti dei popoli e indirizzarli al risorgimento
si metta una mano sul cuore e senta se col buon volere Dio vi
trasfuse la potenza: tale egli deve accogliere e tanto cumulo di
qualità diverse, discordanti ed anche contrarie, ch'io per me
raccapriccio in pensarvi; un cuore infiammato di carità,
poetico quanto quello di Platone nel contemplare la bellezza del
fine, ed una mente severa come un teorema d'Euclide; egli buono,
alle umane miserie soccorrevole, amico e padre di tutti, quando il
bisogno lo stringa, deve con fronte imperturbata tal dare principio
alla sua orazione nel consiglio dei padri: «Anche ventimila
capi recisi, e la repubblica è salva!» - Se gli si
parano nelle vie i figli, Giunio Bruto gli spense; se il padre,
Marco Bruto l'uccise: e i posteri entrambi hanno salutato sublimi.
Nelle cose politiche il delitto comincia soltanto là dove la
necessità cessa.
Quindi consideri con profondo consiglio le condizioni del popolo:
dove la morte della parte corrotta valga a fruttare libertà,
lui celebreranno gli uomini salvatore e Dio se ci adoprerà la
scure: dove poi i partiti sanguinosi rimangano inerti se le genti
prima di morire, renunziato l'alito divino, si convertirono in
creta, se la speranza, rivolta a terra la fiaccola, la spenge
piangendo su quella città come sopra un sepolcro, allora, la
fama di crudele evitando, lasci arbitro della morte chi creava la
vita; ad esempio delle vergini di Sion, l'arpa appenda al salice e
pianga, o del tutto si taccia, perocchè nei regni della
disperazione ogni suono rincresca, anche quello del pianto.
Nicolò Capponi non ebbe la mano forte da cacciarla nei
capelli di un popolo assopito e squassarlo ferocemente
affinchè si svegliasse; i Medici non aborriva; un governo di
ottimati desiderava; però i Palleschi non ispengendo,
lasciavali vivere a macchinare danni alla patria: offendere gli
uomini per volontà o per necessità è trista
cosa, pessima poi offenderli e lasciarli in condizione da
vendicarsi; avesse almeno tolta loro la roba! Chè con minore
efficacia si sarebbero allora travagliati contro la repubblica, ed
egli provveduto di pecunia, la quale come avvantaggiava le cose
nostre, così quelle degli avversarii riduceva a mal termine.
Onde in processo di tempo convenne aggravarsi sui cittadini
amorevoli della repubblica, balzello aggiungere a balzello, vuotare
in somma le borse di pochi privati senza potere a gran pezza
rispondere alle pubbliche spese.
Correva pertanto a Nicolò Capponi strettissimo l'obbligo di
togliere la vita ai nemici dello stato; se non voleva la vita, le
sostanze; se non le sostanze e la vita, almeno la reputazione: nulla
fece di questo, che anzi i Palleschi si onorano e tengono in pregio
per modo che con esempio pessimo sembra, a volere ottenere favore
dalla repubblica, bisogni dichiararsi amorevole al principato. La
Signoria, procedendo nei primi decreti cieca e codarda, ai popoli
concesse armarsi: il gonfaloniere non solo concederlo, sibbene
doveva con severissime pene ordinarlo e a tutti dai quindici ai
sessant'anni; la patria dichiarare in pericolo, egli primo donando
ogni suo avere, promuovere i sacrificii privati, nella salute della
repubblica riporre la speranza estrema dei cittadini; siccome narra
la storia di Alessandro Magno, il quale, le munizioni ardendo e i
bagagli, costrinse i suoi soldati alla necessità del vincere
o del morire. Sovente dall'amore più e meglio conseguiamo che
dalla paura; ma se l'amore non basta, vi si adoperi il ferro; abbia
il popolo a forza il proprio bene: a forza il tiranno gli mette la
mannaia sul collo; sarà misfatto dunque mettergli a forza la
corona della libertà sul capo?
Il Capponi invece esitò, come uomo che diffida e già
disegna l'accordo, e non si accorse che quello sarebbe stato la sua
sentenza di morte; non che largheggiare alla patria del suo, tra i
concetti atti di reggimento accogliendo la bassa cura di minuti
interessi, egli non vergognò avvolgersi per gli opificii
della seta e invigilare il compito de' suoi operai; bandiva gli
Ebrei dal dominio, raccoglitori acerrimi di danaro e all'occasione o
volontarii o costretti sovventori; leggi emanava su le femmine, le
taverne e le bestemmie, inutili o perniciose, imperciocchè i
costumi non si migliorino in virtù di una legge penale, e
perchè chi tutto intende riformare spesso nulla riforma;
dipoi, convertito in frate, predicando in Palazzo le orazioni del
Savonarola, gridava misericordia e faceva sì che fosse eletto
Gesù Cristo re di Fiorenza. L'aiuto divino ottimo: buono non
pure, ma necessario invocarlo; però non devono gli stati
tanto fidare nel cielo da porre in disparte i provvedimenti terreni.
Mentre ogni dì ardevano ceri e cantavano salmi, nè
armi raccoglievano nè vettovaglie. Aiutati, che Dio ti aiuta.
Certo, ben può il Signore rinnovare il miracolo di Gedeone;
ma ella è prudenza questa, commettere alla salute della
patria a' soprannaturali sussidii? Quando i cieli mente per
concepire e mani per operare compartirono all'uomo, non intesero
forse ch'egli di per sè provvedesse alla propria tutela?
Nè vuolsi biasimare meco, e sia con pace di voi, fra
Benedetto da Foiano, che l'ordinaste (continuava Nicolò
piegando alquanto la faccia verso il frate di austere sembianze, il
quale stava al diritto lato del giacente), la processione della
Madonna della Impruneta per la ricuperata libertà,
avvegnachè le diligenze messe in opera nei reggimenti nuovi
ad allontanare i tumulti non saprebbero mai essere troppe; ed anche
perchè, non essendo cessata la peste, la vedemmo aggravare
per quello insolito mescolarsi del popolo.
Ma di ben altra riprensione era degno il Capponi quando non pure
trascurò afforzare la città, ma ben anche
suscitò impedimenti di ogni maniera al divino nostro
Michelangelo, il quale intendeva circondare il monte di bastioni: o
sia che lasciasse svolgersi dalla opinione universale, essere i
monti le mura di Fiorenza, e i pochi non potere assediarla
perchè pochi, nè gli assai per mancamento di
vettovaglie; o sia che più tristo consiglio lo movesse, tolta
ogni fidanza nelle armi cittadine, si volse a procurare le
mercenarie. Notate la fede! Giovanni da Sassatello, condotto dalla
Signoria con ottanta cavalli leggeri, ruba le paghe e se ne fugge al
papa; peggio lo strazio per avventura del danno. Don Ercole di
Ferrara ebbe onore e soldo di capitano generale della repubblica; ma
la repubblica pensate voi che sarà mai per avvantaggiarsi del
consiglio e del sangue di un duca nelle battaglie? Ben a ragione la
fama ci chiama orbi: da quando in qua vedemmo principi mettere a
repentaglio lo stato e la vita a difendere repubbliche? E quasi
tanti falli fossero pochi per la rovina della patria, a colmo della
misura crearono Malatesta Baglioni governatore generale delle
milizie fiorentine.
E chi è Malatesta? Un fuoruscito della Chiesa. E donde nasce?
Da una famiglia che vince in tradimenti il paragone con quella di
Atreo. Or come questi, il quale non seppe mantenersi nelle sue case,
vorrà insegnarci a difendere le nostre? Forse imparava egli
fuggendo il modo di tener fermo? Colui che potè abbandonare
ai nemici le sepolture de' suoi padri, male darà schermo alle
dimore dei nostri figliuoli. Già a Dio non piaccia che le mie
triste parole si avverino, com'io temo pur troppo vedere rinnovato
nel nostro paese Cristo venduto, in lui Giuda venditore.
Sconsigliati! Sconsigliati! prezzo del sangue è Perugia;
nè sempre sarete in tempo con i traditori come lo foste con
Baldaccio dell'Anguillara e con Pagolo Vitelli. Pur troppo le
funeste guerre fraterne hanno spento tra noi la militare
virtù come in Roma l'accrebbero: perocchè in Roma le
contese cittadine terminassero con una legge, in Fiorenza poi con le
uccisioni e gli esilii conchiudessero; in Roma il popolo godere dei
supremi onori insieme con i grandi desiderava, in Fiorenza per esser
solo nel reggimento combatteva: prevalso in popolo tra noi, i grandi
disparvero e con essi i sensi generosi, la ferocia nelle armi;
attesero i cittadini ai guadagni, diventarono ricchi, la roba
acquistata disegnando godere, di fare coi petti riparo alla patria
abborrirono, le sorti loro commisero ad anime e a braccia vendute;
quindi milizie mercenarie vilissime, turpitudini di condottieri
venali, il vituperio e la rovina d'Italia.
«Pure gli antichi ordinamenti di giustizia tanto non valsero
ad abbattere la virtù militare tra noi che a ora ad ora
alcuna scintilla limpidissima non prorompesse; e per tacere di
più antichi capitani, non furono fiorentini quel maraviglioso
Giacomo Tebalduccio e l'altro fulmine di guerra Giovanni dalle Bande
Nere, e tuttavia nol sono il Bichi, l'Arsoli e una schiera che
aspetta il destro per sorgere più grandi di loro? Qual
è lo sciagurato che dubita non accogliere nel suo grembo
Fiorenza figli che sappiano morire per lei? Questo fallo, se non ci
si rimedia in buon tempo, partorirà amarissimi frutti;
avvegnachè, amici miei, chiunque, e ponete mente alle mie
parole novissime, chiunque commette la cura della sua libertà
a mani straniere merita diventare schiavo. Nè le condizioni
nostre di fuori a termine migliore ridotte che quelle dentro; la
esitanza nostra ci ha fatti contennendi e sospetti; nemici molti e
potenti, amici nessuno. Il papa all'antica libidine di regno
aggiunge la nuova ira delle offese ricevute allorquando i giovani le
armi, i simulacri della sua famiglia e la statua di lui misero in
pezzi nell'Annunziata.
L'imperatore, che or dianzi intendeva privare Clemente del potere
temporale e convertirlo in vescovo di Roma, minacciato adesso dal
Turco, prosperando Lautrec con le armi di Francia nel regno,
disperato di stringere lega con qualunque governo italiano, accorto
la riforma della libertà delle coscienze in Lamagna essere
scala a conseguire le libertà civili, muta all'improvviso
consiglio, lo libera di castello, gli spedisce fra Angelio suo
confessore a tenerlo bene edificato, gli fa presentare dal
Mussettola la chinea bianca e i settemila ducati pel censo del regno
di Napoli, se lo rende amico, nè di presente v'ha cosa ch'ei
non si mostri presto a operare per confermarlo nella nuova amicizia:
noi non volemmo stringere lega con Carlo quando il tempo ci correva
propizio, e i più pratici cittadini la persuadevano, ed egli
per messer Andrea Doria quasi ce ne richiedeva; ora poi non osiamo
dichiararglisi manifesti nemici. Abbiamo i Veneziani alienati da noi
allorchè non gli sovvenimmo nel caso del Brunsvicco, il
quale, tempestando si calò dalle alpi di Trento con
dodicimila fanti e diecimila cavalli; onde presi da sdegno
notificarono al nostro ambasciatore Gualterotti sarebbero in pari
caso per fare lo stesso a noi: i Vineziani però, come sono
prudenti, non vorranno trarre dagli altrui falli argomento per
fallire; non pertanto l'ira vince talvolta la ragione, sicchè
desideriamo vedere anche con danno proprio patire colui che stette
indifferente ai nostri mali. In chi dunque fidiamo? La fede di
Francia, incerta sempre, incertissima adesso.
Meco medesimo considerando sovente come in ogni tempo gl'Italiani si
mostrassero e tuttavia si mostrino corrivi a commettere ogni loro
speranza nei Francesi e dall'altra parte quanti eglino abbiano
peccati da scontare verso di noi fino dal regno di Pipino, con
espresse parole scrissi: «I Francesi, quando non ti possano
far bene, tel promettono; quando te ne possono fare, lo fanno con
difficoltà o non mai.» Francesco I s'intende di stato
anche meno di Luigi XII, al ministro del quale io ebbi ardimento
significarlo alla recisa in faccia; di rado lo muove la religione;
più presto che a re non conviene, il talento; però
battuto dalla fortuna adesso va più cauto alle offese e molto
si lascia governare da madama sua madre, nè intelletto da
concepire un disegno nè costanza gli compartirono i cieli da
metterlo in esecuzione, e sopratutto stanno i suoi figliuoli in
potestà di Carlo V: ora pensate s'egli possa amare o voglia
la libertà vostra più di quella dell'erede del suo
regno. Noi siamo soli. E che perciò? Dobbiamo noi forse
piangere come perduta la nostra città? Non è mai
lecito disperare della salute della patria, insegnava Focione,
nè l'hanno per anche ridotta a tale da rendere ogni
provvedimento tardo.
Il Capponi mal si regge nel posto che non avrebbe mai dovuto tenere;
forse ne scenderà per salire al patibolo; e gli starebbe
bene, come colui che all'ambizione smodata accoppia ingegno per
esitanza imbecille e codardia manifesta, la quale lo induce ad
adombrare la natía virtù con partiti paurosi, che egli
e i suoi chiamano temperati e prudenti, riprendendo quasi
esorbitanze i consigli capaci di mettere con molta gloria a pericolo
la vita e la sostanza dei cittadini, e perciò anche le sue;
astiosamente avverso a chiunque si conosce superiore per intelletto
e per animo; insomma della libertà di un popolo che voglia
risorgere davvero, vergogna ad un punto flagello. Voi, giovani, nei
quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi,
Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e
il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si
scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i
popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a'
casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a
salvare Fiorenza, ella è certamente quella di Francesco
Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi
conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre
ai nemici bisogna vincere; e poi noi combattiamo in casa e per noi,
il nemico sopra terra dove ogni cosa gli si volgerà infesta,
e con armi infedeli, mercenarie tutte e con intendimenti diversi,
dacchè i capitani del papa non possono accogliere il concetto
istesso dei capitani di Carlo: confido non poco nella fortuna, nella
provvidenza di Dio moltissimo, il quale non soffrirà la
rovina della innocente mia patria. E se preghiera alcuna trova
grazia al tuo cospetto Signore, ti raccomando questo suolo, che mi
raccolse infante e già mi apre il seno pietoso alla quiete
eterna, con tutta l'anima prossima a comparirti davanti; te lo
raccomando anche prima dei figli, anche prima della medesima anima
mia!»
Dalla interna commozione agitato, qui si rimase il Machiavello; ma
in quel modo medesimo che, cessati i remiganti, la navicella
continua nell'incominciato cammino, così, perchè
tacessero i labbri, dalla fronte, dagli occhi, da tutta la faccia
non ispirava meno amore di patria e di libertà.
Come dimentico della malattia che lo aggrava, si solleva alquanto
sul fianco e stende la destra verso una tazza colma di tisana a capo
del letto.
Quando la morte si apparecchia a vincere con la infermità la
vita, raccoglie penosamente nel corpo del moribondo la somma di ogni
male sofferto, e le carni, i nervi e l'ossa corrode con infiniti
dolori diversi: la morte giunge amara all'uomo; e se fosse stato un
bene, come Saffo cantava, Dio l'avrebbe creata per sè;
però il Machiavello appena ebbe mosso la destra, la ritornava
nella prima positura, chè intorno alla scapula e giù
nei muscoli gli corse uno spasimo acuto come quando fu posto alla
prova della corda; la guancia sinistra si contrasse di forza verso
l'occhio, seco traendo le labbra in atto di angoscia; ma si
ricompose all'improvviso e sorridendo riprese: «Dante,
porgetemi, prego, cotesta tazza.»
Fra' Benedetto da Foiano, sottoposto un braccio ai guanciali,
solleva amorevolmente il corpo del giacente. Dante gli appressa alle
labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli
prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda,
sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti
favella:
«Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun
liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della
vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non
è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima
mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran
mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un
bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in
pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi
saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia
del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato
l'amore.»
Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva
lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai
moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo,
continua:
«Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria:
queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...;
che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi
calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci
spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini mi accusano averli
adoperati ad ammaestrare tiranni; questi bracci niegano accostare
alla mia bocca una bevanda, ed essi affermano essersi distesi ad
implorare l'elemosina ai miei persecutori; della fama incontaminata
in fuori non lascio ai miei figli altro retaggio, e non pertanto
m'invidiano anche la fama. O uomini, quanto vi avrei adorato
migliori e quanto vi amo anche tristi! A voi, carissimi, affido il
mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udrete parola che rechi
oltraggio alla mia memoria, più generosi di san Pietro, non
vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo
invidioso, tacete, imperocchè all'odio della mia virtù
si aggiungerebbe allora l'odio che nasce dal sentirsi dichiarato
iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi
in mio nome: Nicolò Machiavelli non insegnò di
tôrre ai ricchi la roba, ai poveri l'onore, a tutti la vita:
sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande; pochi
o nessuno averlo compreso; e che quando egli potè onorare la
patria, eziandio «con pericolo e carico suo, sempre volentieri
lo fece perchè conosceva come l'uomo non debba avere maggiore
obbligo nella vita sua che con quella, dipendendo prima da lei
l'essere e di poi tutto quello che la fortuna e la natura ci hanno
concesso;» aggiungete credere io nella virtù come in
una via per la tristizia degli uomini smarrita, e che essi potevano,
anzi dovevano, ritrovare per indirizzarsi di nuovo al
perfezionamento: la politica scevra dalla morale per me affermarsi
impossibile; nè già per morale intendere io la
immagine astratta della cosa, «sibbene la verità
effettuale della medesima», secondo i tempi, i casi e gli
uomini diversa; a patto però che se la presente morale non
fosse ottima, dovesse pur sempre dirigersi al meglio: la politica
magnanima convenirsi ad un popolo grande, come il romano; essere in
lui non solo virtù, ma necessità; non potere da questo
concetto deviare senza riuscire agli occhi proprii ed altrui
contennendo con danno inevitabile della maestà e forze sue;
ai deboli invece convenirsi deboli consigli, e, se circondati da
tristi, ordinare i casi l'uso della perfidia e giustificarlo: se non
che allora devono i deboli mettere in opera l'ingegno per uscire da
cotesto stremo dove è necessità la perfidia, e
sollevarsi a quello nel quale sia necessità comportarsi
magnanimamente.
Amai la repubblica, ma, e molto più, amai la indipendenza,
perocchè la seconda mi sembrasse necessità di vita, la
prima poi accidente di forma. Considerai pertanto se stato alcuno
italiano, governato a reggimento popolare, potesse conseguire il
santissimo fine di rassettare le membra a questa misera patria:
Venezia e Genova non mi parvero, come in vero non sono, libere
città; volsi l'ingegno a meditare se con Fiorenza ci venisse
fatto di riuscire, e non rinvenni virtù necessaria.
Più che amorevoli del vivere libero conobbi i cittadini
travagliati dal desiderio di dominare, disposti ancora a servire,
purchè servendo potessero opprimere altrui; molti, odiatori
di leggi o buone e triste ch'elleno fossero, siccome vaghi di
licenza, non già del composto vivere civile; alla salute
pubblica preponenti i comodi privati; più agli uomini avversi
che alle cose; da vecchia e vergognosa tirannide liberati, intenti a
gettare le basi di una nuova e molto più vergognosa, creando
il Soderini gonfaloniere perpetuo: allora pensai essere necessaria
una servitù e doversi ordinare una forza «la quale con
potenza assoluta ponesse freno alla materia corrotta, le ambizioni
degli individui prostrasse», e la schiatta umana afferrando
pei capelli la costringesse a ritemperarci nelle battaglie, ad
abbandonare i vizii nella corsa faticosa verso la indipendenza.
Chè se abbiosciata libertà, che indarno mentisce nome
di civile, deve approdare a tirannide, meglio tirannide barbara che
mette capo alla libertà. Forse chi sarebbe stato da tanto,
sè troppo estimando superiore agli uomini, i quali spingeva
incontro al bene a colpi di flagello, non avrebbe deposta la sferza,
se non per convertirla in scettro; ciò poco doveva montare,
imperciocchè la difficoltà dell'impresa consiste
nell'agitare ferocemente le generazioni e cacciarle nella via del
moto; all'altro provvederanno il tempo, la fortuna e la
necessità delle cose.
Però, favellando di coloro a cui la fortuna prestava
occasione di riformare gli stati, diceva: «Questi essere dopo
gli iddii i primi laudabili; e perchè pochi furono che
avessero comodo di farlo e pochissimi gli altri che lo sapessero,
così a piccolo numero ridursi coloro che lo facessero.»
E fermo nel mio concetto insegnai: «Il prudente ordinatore di
una repubblica che abbia animo di volere giovare non a sè, ma
al bene comune, non alla sua propria successione, ma alla comune
patria, doversi ingegnare di tenere l'autorità solo;
nè mai savio intelletto riprendere alcuno di azione
straordinaria che per ordinare una repubblica usasse: convenir bene
che, accusandolo il fatto, lo scusasse l'effetto; e quando fosse
buono come quello adoperato da Romolo uccidendo Tito Tazio e il
fratello Remo per ordinare Roma, sempre doverlo scusare;
perchè colui che è violento per guastare, non quello
che è violento per racconciare, si deve riprendere; non
pertanto corrergli obbligo di essere virtuoso e prudente da non
lasciare ereditaria ad un altro quell'autorità che si ha
presa, perchè, essendo gli uomini più pronti al male
che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello
che da lui fosse stato virtuosamente ordinato.»
Dipoi, celebrando coloro che intendono restituire gli uomini alla
maestà della propria origine, non dubitai affermare:
«Dovesse un principe innamorato di gloria desiderare di
possedere una città corrotta, non per guastarla, come Cesare,
ma per riordinarla, come Romolo; e veramente i cieli non potere dare
agli uomini maggiore occasione di gloria, nè gli uomini
poterla desiderare maggiore. E in somma considerassero coloro ai
quali compartivano i cieli una tanta occasione come fossero loro
proposte due vie: l'una che gli fa vivere sicuri e dopo morte gli
rende gloriosi; l'altra che gli fa vivere in continue angustie e
dopo morte lasciare di sè una sempiterna infamia.» Per
le quali cose tutte mi volsi a favorire Cesare Borgia, come quello
che, per essere figliuolo di papa Alessandro e sovvenuto da Luigi
XII, di voglie e di animo pronto, sembrava sortito a ricomporre le
membra sparse d'Italia: nè già il Valentino,
crudelissimo ai baroni della Chiesa, era tiranno del pari spietato
ai popoli venuti in sua potestà; perchè
racconciò la Romagna e la ridusse in pace ed in fede; la qual
cosa se bene si considera, vedremo lui essere stato più
pietoso dai Fiorentini, che per fuggire il nome di crudeli
lasciarono distruggere Pistoia: onde i popoli gli posero amore,
avendo incominciato a gustare una vita sicura, laddove prima, per
essere retti da signori impotenti, vôlti piuttosto a spogliare
che a correggere i sudditi, intesi a disunire anzichè a
congiungere, gemevano per quotidiane violenze e latrocinii.
E che le mie parole non si possano mettere in dubbio si fece
manifesto quando la fortuna, di prospera che gli era, gli si volse
all'improvviso contraria; imperciocchè la Romagna lo
aspettò più d'un mese, nè Baglioni, Vitelli e
Orsini ebbero seguito contro di lui: e se alla morte del padre non
lo avesse condotto il veleno a termine estremo, non rovinava;
«ed egli stesso il dì che fu creato Giulio II mi disse
bene avere pensato a quanto potesse succedere morendo il padre, e a
tutto avere trovato rimedio, eccettochè non pensò mai
in su la sua morte di stare anche lui per morire.» Inoltre,
che il Valentino, un tempo felicissimo tra i capitani, non fosse il
più malvagio dei principi, o che alla voglia di superarlo gli
emuli suoi non accoppiassero pari lo ingegno, consideratelo in
Oliverotto da Fermo, spento per suo comando a Sinigaglia;
perditissimo uomo era costui, ladrone più che soldato,
carnefice più che principe, e parricida del Fogliani, il
quale con amore veramente paterno lo aveva allevato.
Dei Baglioni sapete i costumi: Orazio ordinò si uccidesse lo
zio Gentile; e quasi dubitasse quel delitto poco a guadagnargli
l'inferno, di sua propria mano trucidava più tardi messer
Galeotto Baglioni, mentre si disponeva a rendersi prigione sotto la
fede del duca d'Urbino. Il Valentino agli occhi miei rappresentava
astrattamente un uomo spaventevole; praticamente, la potenza capace
di rilevare l'Italia sopra l'antica sua base; divenuto privato,
forse le qualità raccolte in lui erano tali da condannarlo
alla pena dei masnadieri: finchè resse da principe, poteva di
fronte agli altri ammirarsi ed anche lodarsi rispetto allo scopo,
quantunque la bella morte da lui incontrata in Navarra combattendo
alla espugnazione del castello di Viana lo mostrasse degno di non
essere affatto sbattuto dalla fortuna. E sempre fisso nel medesimo
pensiero, caduto il Borgia, mi volsi a Lorenzo dei Medici duca
d'Urbino e lo ammaestrai delle condizioni dei tempi e partitamente
gli scopersi le vie per mantenersi e crescere. S'io lo guidassi
traverso le male bolge dell'inferno per quinci trarlo a rivedere le
stelle, consideratelo nella esortazione a liberare l'Italia dai
barbari che chiude il libro del Principe. Esaminate con mente pacata
i miei scritti, e nonchè vi apparisca discrepanza veruna tra
loro, comprenderete di leggieri come tutti insieme cospirino allo
scopo proposto. Il Principe, a guisa di punto di partenza; i
Ritratti dei popoli stranieri, le Storie e le Osservazioni intorno
gl'Italiani contenute nelle mie Commissioni, siccome mezzi di
appianare la via; i libri sopra la Guerra, come precetti a ristorare
le milizie proprie, le mercenarie sopprimere, perpetua cagione di
servitù; finalmente i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio,
come termine estremo.
Dalle Lettere per me dettate a mitigare o fuggire la
malignità dei tempi non deve ricavarsi argomento per
giudicarmi meglio che dalle risposte fatte al cancelliere quando fui
posto a esame nella congiura del Boscoli. Nè certo, dopo la
casa Borgia, veruna altra in Italia pareva più acconcia di
quella dei Medici a conseguire l'intento. Leone X, pontefice di
singolare giovanezza, uno stato floridissimo, cresciuto per opera di
Alessandro VI e di Giulio II, reggeva; la repubblica nostra come
signore dominava; il conquisto di Milano e di Napoli disegnava; in
lui erano facoltà e mente capaci; lo circuiva numerosa
famiglia. Giulio, adesso papa di meschini concetti, mostrava da
cardinale attitudine maravigliosa in eseguire gli altrui
divisamenti. Viveva Giuliano duca di Nemours, Lorenzo duca d'Urbino
viveva. Non pertanto andarono tutte queste speranze disperse. Leone
morì di morte immatura, Giuliano anch'egli precipitò
nel sepolcro per debolezza del corpo, vi si gettava da sè
stesso precocemente Lorenzo a cagione della immoderata lussuria.
Mancò papa Clemente a sè stesso, la famiglia generosa
a lui.
Simili eventi dimostrano non già la fallacia nello
argomentare, sibbene la miseria degli umani disegni, i quali ti si
nabissano sotto quando meglio ti paiono fermi. L'uomo trama, la
Fortuna tesse; e se alla seconda non piace corrispondere al concetto
del primo, a questo basti avere ricercato la cagione delle cose con
quella prudenza che per lui si poteva maggiore. Forse così
pensando la mente errava, non però il cuore; ad ogni modo
tutte le cose nostre hanno un destino che l'uomo non può
vincere, e il mio consiste nel contemplare la mia fama avvilita da
coloro che ammaestrai ad essere grandi.... Vi aveva io forse
raccomandato che voi prendeste cura della mia fama? Se pure l'ho
detto, adesso mi disdico. Che giova dar di cozzo nei fati? In quella
guisa che voi, Zanobi, avrete veduto a Roma gli obelischi, una volta
decoro della superba città, adesso giacere infranti, mezzo
coperti dalla terra e dall'erba, così deve per un tempo
giacere il mio nome, finchè non appariscano anime forti da
rilevarlo sublime. Intanto uomini che si vanteranno filosofi,
travolti anch'essi dalla mala opinione dei tempi, esulteranno della
mia morte e non dubiteranno raccontare ai posteri «essersene
rallegrati i buoni e i tristi; i buoni per conoscermi tristo, i
tristi più tristo di loro.»; e la verità, la
quale ascende tal ora animosa i roghi e i patiboli, e dalle stesse
fiamme scellerate e dal corruscare dalle mannaje si compone di un
aureola di luce divina, tal altra poi fugge dall'errore suo nemico
tutta tremante e si ripara nel seno di Dio; la verità, dico,
si rimarrà per lunga stagione di spargere il suo lume sopra
la mia memoria.
Quando tenebre di servitù e di obbrobrio oscureranno
l'Italia, la mia fama rimarrà muta, e sarà benefizio
dei cieli, chè la lode di codardi offende amara, come
l'ingiuria dei generosi. Ma se mai l'alba della libertà fie
che torni a diffondere raggi vitali sul fiore appassito dalla
speranza, allora come la statua di Mennone soneranno le mia ossa un
fremito di gloria; i posteri verranno alla mia tomba per trarne
responsi di virtù, insegnamenti di civile prudenza. Intanto
fatevi qui presso me, Francesco Ferruccio; il vostro cuore è
un tempio della Divinità: accostatevi, e finchè Dio
soffre che di voi rimanga vedovo il cielo, vi stringa amore di
questo capo diletto; a voi lo confido; lo raccomando a voi: di lui
mi renderete conto nelle dimore dei giusti; egli è mio
sangue: stendete la mano, ecco io vi depongo sopra la facultà
che mi concesse la natura di benedirlo quando mi salutarono padre;
voi non avete figliuoli.... ed egli è figlio infelice di
padre infelicissimo; amatelo dopo la patria primo; ed accettando voi
il sacro deposito, Nicolò Machiavelli vi scongiura che
operiate in maniera che egli possa al vostro fianco salvare la
patria o morire gloriosamente per lei.»
Francesco Ferruccio, rimosse le mani dal pomo della spada, toltesi
le manopole di ferro, scoperta la fronte, levati gli occhi al cielo,
come se volesse invocare Dio testimonio della promessa, stringe con
ambe le sue la mano destra al moribondo, e quindi imponendole sul
capo al giovanotto Ludovico solennemente profferisce queste parole:
«Egli morrà con me!»
E Ludovico solleva dolentissimo la faccia, guarda il Ferruccio in
soave atto d'amore e torna a declinarla sulla mano del padre,
rompendo il freno a pianto disperato.
Piangevano tutti.
Dopo uno spazio lungo di tempo Nicolò con languida voce
riprende:
«I pensieri, gli affetti, la terra cominciano a volgermisi
tenebrosi intorno alla mente: il passato si oscura, il futuro mi
accieca dentro un mare di luce, sento la eternità: partite.
Se in cosa alcuna meritai di voi, compiacetemi, di grazia, in questa
ultima preghiera; partite: a morire basto solo. Dai letti dove si
addolorano i destinati a morire, male s'innalzano con riconoscenza
gli occhi al firmamento. Ornai gli umani soccorsi non possono
giovarmi più in nulla: io sto nelle braccia di Dio. Voi
consacraste alla patria la vita: ogni istante perduto è un
tradimento... un tradimento, intendete? Or via dunque andate...
partite... A voi la patria... e Ludovico..., ai posteri raccomando
la fama... Addio.»
I circostanti, il voto del moribondo adempiendo, si allontanarono
dalla stanza; se non che ora l'uno, ora l'altro senza mostrarglisi,
gli resero gli uffici estremi, finchè, aggravandosi il male,
il giorno appresso 22 giugno 1527, quando pare che la campana pianga
la luce scomparsa dal nostro emisfero, spirò la sua
grand'anima Nicolò Machiavelli.
Con poca accompagnatura di amici, ma confortato con molte lacrime e
sincere, lasciando inestimabile desiderio di sè in quanti
conobbero il cuore ch'egli ebbe, scese nell'avello de' suoi padri
nella chiesa di Santa Croce.
E una tenebra fitta di vituperio si condensò sopra questa
misera Italia. Le ceneri del Machiavelli stettero per quasi tre
secoli ignorate; e fu pietoso consiglio della provvidenza,
imperciocchè altrimenti i nipoti le avrebbero date ai venti
della terra. Una torma di vermi nati dalla putredine della
servitù prese a contaminarne la memoria, una crociata
d'infamia bandirono al suo nome, con i terrori della religione lo
circondarono, lo conficcarono sopra i patiboli!... Compreso di
compassione per la imbecillità della stirpe dalla quale io
pure nasco, tacerò, o piuttosto ferocemente animoso le
strapperò la fascia dalle piaghe, mostrandole, comunque
turpi, alle generazioni future?
Io strapperò cotesta fascia e narrerò come i Gesuiti
ardissero effigiare il simulacro del grande e, appostavi la seguente
iscrizione: «perchè fu uomo scaltrito e subdolo, di
pensieri diabolici maestro, aiutatore del demonio
eccellentissimo», lo abbruciassero sopra la pubblica piazza
d'Ingolstad in Baviera. E tanto crebbe cotesto osceno baccanale
d'ignoranza ribalda e svergognata che fino un principe ne
sentì pudore. Così è: a Dio piacque tra i
prodigi della sua potenza creare un principe di cui il volto non
fosse sconosciuto alla verecondia. Leopoldo austriaco, primo di
nome, consentiva gli si ponesse una lapide, e nel sepolcro di lui
innalzava un monumento durevole alla propria memoria.
Poichè questo principe s'inchinava a quel grande, egli
avrà fama anche dopo che saranno disperse le monete effigiate
con la sua immagine: monumento unico al quale il più delle
volte è raccomandata la rinomanza dei principi.
NOTE
(a) A maggior prova di questo si narra che Giulio II mandasse Pietro
Oviedo, spagnuolo, al governatore di Cesena, che lo teneva pel duca,
con uno scritto del Valentino, col quale gli si ordinava cederla. Il
governatore rispose non potere obbedire agli ordini di un signore
prigione, e meritare gastigo chi veniva pel suo disonore; per la
qual cosa fece gettare l'Oviedo giù dalle mura. Tommasi, Vita
di Cesare Borgia.
(b) Lord Nassau Clavering, conte Cowper e il cavaliere Alberto
Rimbotti promossero ancora il monumento del Machiavelli in Santa
Croce. Antonio Spinazzi scolpiva; il dottore Ferroni componeva la
iscrizione famosa: Tanto nomini nullum par elogium. Merita di essere
consultata sulla vita e gli scritti del Segretario l'opera
recentissima del signore Artaud intitolata Machiavel, tomo II,
presso Didot, Parigi, 1833. Quantunque io non partecipi affatto le
sue idee intorno al mio eroe, riporto con piacere le sue parole,
tomo II, pag. 494, dove, dopo di avere esaminato i diversi ritratti
del Machiavelli e dimostrato come spesso lo abbiano confuso con
quello di Lorenzo il Magnifico e più spesso con l'altro di
Cosimo I, errore in cui cadde Morghen, e nel 1831 il Passigli nella
sua edizione delle opere del Machiavelli in un solo volume, dice
avere ristabilito il vero in testa del suo libro mercè il
raro Ingegno del sig. Ruhierre, il quale espressa nell'incisione:
«lo splendore igneo dello sguardo del nostro Fiorentino e
quella specie di solenne impassibilità con la quale par che
domandi ai secoli presenti che cosa aspettino da lui e per qual
ragione tra tanti autori antichi e moderni sia stato scelto il suo
nome, poi vilipeso e condannato a diventare una ingiuria plebea, un
insulto spietato.» Alcuni fatti discorsi in questo capitolo
dal Machiavelli avvennero qualche tempo dopo la sua morte.
CAPITOLO SECONDO
LA RITIRATA D'AREZZO
Ne' suoi tempi è stato uomo memorabile e degno di essere
celebrato da tutti quelli che hanno in odio la tirannide e sono
amici della libertà della patria loro.
Giannotti, Vita di Francesco Ferruccio.
Puro è il giorno e sereno: - dalla parte di oriente un color
d'oro, diafano, a mano a mano più limpido: - all'improvviso
il sole sgorga dai monti con un raggio, due raggi, - un oceano di
raggi, su questa terra ch'è sua delizia e suo amore: immagine
di Dio, senza curarsi se nello spazio che inonda viva chi lo abborre
o chi l'ama, egli veste il creato di splendore benigno; e, tutte
belle diventate le cose in quel battesimo di luce, mal puoi
discernere tra loro quali sieno le superbe, quali le abbiette.
In quella prima allegrezza della natura ogni ente si commuove, le
anime si aprono alla pietà, come i fiori alla rugiada;
diventa il buono migliore, meno tristo il malvagio.
Il sole, quanto il pensiero dell'uomo, rapidissimo si sprofonda per
la immensità dello spazio e gode balenare lo sguardo
infiammato per le acque della Chiana e dell'Arno. Le acque si
scuotono e fremono in un continuo agitarsi d'oro e di azzurro, e
direi quasi, sembrano palpitare di luce. Gli alberi al vento
mattutino mormorando confondono le frasche, come giovani innamorati
sussurrantisi nell'orecchio un misterioso favellio: dove te ne
prendesse vaghezza, tu potresti ad una ad una annoverarne le foglie,
tanto le contorna lucidissimo l'emisfero. L'iride cinge ogni erba;
suona ogni pianta una voce d'armonia. Odi trasvolare per l'aria
infiniti accordi divini, altri sottentrarne più rapidi e
più melodiosi, nè ti è concesso distinguere
donde si muovano o come ti arrivino; sicchè tu credi, ora
sì, ora no, l'aura ti porti all'orecchio l'inno degli
angioli, col quale al tornare della luce esaltano nelle sfere la
gloria del Creatore. È un cielo puro e sereno: - un bel
giorno d'Italia.
Ma e perchè a tanta esultanza della natura non si mesce la
voce dell'uomo? Chi trattiene nelle sue case il colono?
Perchè non esce ai quotidiani lavori? L'eco non rimanda il
muggito dei bovi; non si ascolta per le valli il tintinnio degli
armenti; dai focolari non sorge nuvola alcuna di fumo la quale,
paurosa di deturpare la maestà dei cieli, si tinga dei colori
della conchiglia marina e rammenti lo schiavo costretto a mutare
sembiante all'apparire del suo signore. Sarebbero forse venuti i
tempi vaticinati nei quali il sole deve splendere invano? La morte
ha inaridite la fonte delle lagrime umane? Il mondo alfine si
è fatto cimiterio della universa stirpe d'Adamo?
La città d'Arezzo, vuota anch'essa di gente come la campagna,
- sembra la Gerusalemme di Geremia, o piuttosto Pompeia tolta dalla
sua antica sepoltura di lava. Ma nella cittadella varie centinaja di
uomini d'arme stanno disposte intorno alle artiglierie; silenziosi
però ed immobili, come impietriti. Così la canzone
moresca immagina stanziare nelle caverne dei monti di Granata per
virtù d'incantesimi esercito infinito di Saracini, che
sciolto un giorno da un guerriero fatale irromperà, distrutti
gli infedeli, a restituire il sangue degli Abenceraggi nelle torri
paterne dell'Alhambra. Alzati i ponti levatoi; le sentinelle non
mutano passo; non soffia alito che valga a muovere leggiermente le
pieghe del gonfalone del comune di Firenze, inerte giù lungo
la stacca; quivi sola par viva la corda apparecchiata a dar fuoco
alle artiglierie per la colonna sottile e perpendicolare di fumo che
tramanda verso del cielo.
Fra i molti quivi raccolti per vesti o per sembianze notabili si
distinguono due personaggi, quantunque di forme affatto diversi tra
loro; - s'impadronirono entrambi di due colubrine lunghe, spigliate,
che a bocca aperta paiono anelanti di balestrare contro i nemici la
disperazione e la morte. Il primo appoggia il gomito destro sopra la
parte anteriore della colubrina, e vôlto il cubito al capo, vi
abbandona sopra la faccia; - la mano manca sta aperta sul pomo della
spada; il corpo affida al femore sporgente e sul piede sinistro
forte piantato sopra la terra, mentre la tocca appena con la punta
del destro posto a traverso; grande era e bello, del tutto chiuso
dentro modesta, ma forbita armatura; - il capo scoperto, e quindi
appariva il volto, che un arcano pensiero e una cura insistente
atteggiando a malinconia lo rendeva più gentile; le palpebre
socchiuse velavano il suo sguardo; - certamente, l'anima commettendo
all'onda delle sensazioni, egli gusta nel suo segreto la
voluttà che muove all'aspetto delle maraviglie della natura.
Tu lo incontrerai mai sempre dove si offre acquisto di gloria o
pericolo d'avventura, imperciocchè egli sia Francesco
Ferruccio. Udendo i Dieci della guerra come Malatesta avesse perduto
Spelle e si fosse accordato di lasciare Perugia, gli mandarono
Giovambattista Tanagli col protesto di seco lui condolersi per
quella prima sconfitta, ma in sostanza poi per ordinare al Ferruccio
e al Verazzano i duemila fanti delle milizie fiorentine ritirassero,
ed in Arezzo sotto il comando di Antonfrancesco Albizzi, commissario
della Repubblica nelle terre della Val di Chiana, riunissero. La
qual cosa avendo il Ferruccio con molta prudenza operata, era
rimasto in Arezzo con quella autorità che la virtù non
manca di partecipare agli uomini superiori nei casi difficili. -
L'altro, di membra maravigliosamente robuste, si assomigliava ai
crepuscoli scolpiti da Michelangelo sopra le sepolture di Giuliano e
di Lorenzo dei Medici, - curvo su la colubrina ne stringe i lati
nelle ginocchia tenaci, ne afferra con le mani venose i manichi
estremi, - il sommo del capo egli ha calvo, coperto di una pelle
giallastra, se non che intorno intorno sopra le orecchie e dietro la
nuca lo ricinge una corona di cappelli in parte neri, in parte
bianchi, alcuni torti, tali altri irti, che ben parevano venuti in
lite tra loro: le guance squadrate, la mascella e il labbro
inferiore sporto in fuori, il superiore mezzo nascosto fra i denti,
a cagione degli spessi morsi sanguinoso: le pupille infiammate gli
balenavano tra mezzo i peli ruvidi del sopracciglio, a guisa di
fuoco pei rovi d'una siepe: inoltre tutto crispato di rughe e
abbronzito dal sole e cincischiato da non poche margini... davvero
egli era un volto cotesto da fare nascondere spaventato un fanciullo
nel seno della madre, da fare stringere sotto le vesti il pugnale al
pellegrino che lo avesse incontrato per via: - e nonpertanto
Giovannantonio da Firenze, bombardiere, soprannominato il Lupo,
annoveravano come uno tra i pochi soldati che militando rispettasse
la canizie dei prigionieri, perchè si rammentava la madre
lasciata a casa, vecchia ed inferma; e ad ogni immagine della
Madonna addolorata occorsa per la via si faceva devotamente il segno
della croce e sospirava, perchè sentiva l'affanno della
vecchia madre, sola nel mondo e priva del conforto di saperlo vivo:
- uno dei pochi ai quali il nome santo di patria rabbrividisse le
carni, spremesse dal ciglio dolcissime lacrime. In qual modo al
cielo piacque poi balestrare quella testa sopra le spalle di Lupo
bombardiere, - fosse caso o intenzione, - io per me non lo posso
significare.
Lontano lontano svoltando da un colle ecco apparisce una nuvola di
polvere che pare dorata ai raggi del sole. Lupo volta subito la
faccia al Ferruccio e lo vede immobile. La nuvola crescendo si
dilata, sempre e più sempre si avvicina. Lupo guarda il
Ferruccio, nè questi ancora fa sembianza di muoversi. Davanti
la polvere adesso si scorge a correre un cavaliero di splendida
armatura; ha la visiera alzata e mostra un volto di adolescente; -
sprona un cavallo nero di sangue generoso; - nella destra stringe
un'asta con pennoncello giallo, dove stanno ricamate le armi
imperiali, - l'aquila dalla doppia testa.
A giusta distanza pervenuto, egli scende dal corsiero, al braccio
sinistro avvolge le briglie, con l'altro spinge di forza il calcio
dell'asta e lo pianta nel terreno in segno di conquista.
Lupo, stillando sangue dagli angoli della bocca, vibra uno sguardo
feroce al Ferruccio.
Chi per una notte di procella nell'onda travolta dagli dêi
infernali ravviserà lo specchio del lago Trasimeno? - Certo,
un dì le sue acque fremendo (e pareva che piangessero)
tornarono indietro dal margine tranquillo tutte contaminate di
sangue: atterrite esse videro sul campo dei Geti le reliquie misere
della battaglia, dove travagliandosi ferocemente le belve umane non
si addiedero del terremoto che sobissò centinaia di
città italiche; e per le canne e il limo il genio del luogo
sottrasse il cadavere del console Flaminio all'ultimo oltraggio per
un Romano, - la pietà di Annibale; - ma per ordinario mite le
blandisce il raggio della luna, e su la cheta superficie mestamente
si spandono i rintocchi della campana del convento, posta nella
isola maggiore del lago, che chiama i rivieraschi alla preghiera.
Chi potrà adesso ravvisare il Ferruccio? Negli occhi dilatati
scintillano trucemente le pupille: il volto per l'impeto del sangue
gli si fece nero, le vene tra turgide e tese: con mani potenti
stretta la colubrina, la volge a seconda de' suoi desiderii, quasi
fosse una spada od altro più maneggevole arnese di guerra:
con tutta l'anima nello sguardo mira attentissimo, - punta la
colubrina, - la ferma e con voce terribile grida
«Fuoco!»
Non bene anche spirava su le labbra il comando, nè ancora i
piedi tornavano a posarsi sopra la terra, donde schivandosi aveva
spiccato un salto, che il bronzo balenò; - precipitando
rimbombante contro del parapetto lo percosse, rimbalzò,
stette; la palla mortale si era partita tra una vampa di fuoco.
Vico Machiavelli, senzachè pure se ne accorgesse il capitano,
con la miccia tesa da gran tempo aspettava impazientissimo il cenno.
Il fragore del bronzo si diffuse lontano pei campi: d'eco in eco se
lo rimandarono i monti circostanti, e, come se fosse stato il segno
magico capace di levare l'incanto, le milizie fiorentine, d'inerti a
un tratto divenute irrequiete, con sembianti diversi d'ira, di
curiosità e di anelito accorsero alla spalletta per vedere; -
e sopra gli altri Lupo e il Ferruccio con tutto il busto spenzolati
dal muro, facendosi di ambe le mani solecchio allo sguardo contro la
luce, spiavano bramosamente l'esito del colpo.
Il cavaliero nemico, compito l'atto oltraggioso, sta in forse se
debba aggiungere all'atto un grido di scherno: - in questa la palla
percotendolo nel ventre un poco sopra l'inguine gli dirompe
gl'intestini e, via trapassando dai reni, stritola le vertebre e
fiacca la spina dorsale; - allora fu vista la parte del corpo
inferiore alla ferita, piegati i ginocchi, cadere per lo innanzi, la
superiore indietro, sicchè la nuca venne a battere di forza
su le calcagna. Il cavallo tratto da impeto irresistibile seguita il
moto dell'ucciso; ma quando teso il collo fiutò dalle aperte
narici l'odore del sangue, - quando con lo sguardo esterrefatto in
quella massa informe di carne lacerata non riconobbe più il
suo signore aombrò pauroso e si dette imperversato a fuggire
pei campi, trascinando il tronco avvolto dentro la medesima nuvola
di polvere nella quale vivo e baldanzoso era apparso pur dianzi.
«E tale mai sempre abbia saluto», esclamava il
Ferruccio, «l'empio ladrone che vende l'anima ai nemici della
libertà di un paese innocente!»
O giovanetto! la fortuna ti concedeva singolare vaghezza di forme;
forte tu eri e animoso: non pativi difetto di beni terreni; scendevi
raro germoglio dal sangue degli Chalons: Filiberto, principe di
Orange, capitano dell'esercito imperiale, in te abbracciava il suo
nepote e il suo erede... Perchè dunque lasciasti i tuoi dolci
castelli? perchè i tuoi genitori canuti? Tu avresti lieti
fatti e soavi gli anni loro, che adesso strascineranno fra la
disperazione alla morte: - te avrebbe amato una donna, a te sorriso
i cari figliuoletti. O se nella tua anima ruggiva lo spirito delle
battaglie, perchè muovere ai danni d'un popolo innocente?
Largo campo di onore forse non ti si apriva in Palestina, dove
gl'infedeli contristano il sepolcro di Cristo? Allora il tuo sangue
avrebbe bagnato il sacro terreno che bevve prima il sangue del tuo
Salvatore; ti avrebbero i cieli largito la palma del martirio, dato
la terra lagrime e voti. Adesso il trovatore nella sua mesta ballata
ti saluterebbe campione della fede, la tua prodezza esalterebbe, ti
piangerebbe come una pleiade scomparsa dal coro degli astri; - per
te gemerebbe la vergine ascoltante, e la tua fama rinverdirebbe nei
secoli per la rugiada delle lacrime pietose. Ora, morendo, tuo
ultimo desiderio fu precipitare intero nell'oblio, perchè nel
cuore consapevole sentisti come per cotesta unica via ti fosse dato
scampare a infamia. Te misero! che, a tanta distanza di tempo e
mentre dovrebbero dormire spenti gli sdegni, la carità patria
contende non solo di sciogliere un sospiro sul tuo fato infelice, ma
anzi comanda di calpestare il suo teschio ed imprecarvi sopra queste
parole: «Bene si ebbe innanzi tempo la sua stanza il serpente
in questo vôto cranio; bene fecero i vermi della terra pasto
delle tue membra giovanili; bene ti sta la morte immatura; se tu
più avessi vissuto, avresti ordito maggiore trama di colpe;
ti fu l'obbrobrio lenzuolo sepolcrale, ti pose lo avvilimento la
lapide, il maledire dei popoli v'incise sopra la iscrizione, e la
giustizia divina ve la mantiene immortale, onde facciano senno i
maligni che non abborrono vendere il proprio sangue contro la
libertà delle genti.»
Intanto dalle radici estreme del monte si dilatò sul piano
una moltitudine meravigliosa di fanti e cavalieri levando dense
nuvole di polvere, - e tra mezzo coteste nuvole sventolano bandiere
con l'aquila, bandiere con le chiavi di s. Pietro; gli elmi, le
corazze, le partigiane e gli altri arnesi guerreschi mandavano
lampi; - l'aere d'intorno intronava un suono discorde e terribile di
trombe, di pifferi e di tamburi, commovendo i petti, secondo la
natura degli uomini, a rabbia o a terrore; procedevano senza
osservare le ordinanze, come se poco curassero il nemico, o fossero
sicuri di avere a patti il paese; - s'inoltrano spensierati; - privi
di qualunque riparo si accostano alle batterie fiorentine.
Dio certamente gli accieca.
All'improvviso con immenso fragore prorompe dalla fortezza un
turbine di fuoco, di ferro e di fumo: - il cielo si oscura; la
faccia del sole si cuopre come un velo funerario per non contemplare
la strage nefanda, - ma il vento rinforzando si porta altrove il
fumo e la polvere, sicchè si fanno manifesto allo sguardo
cavalli inferociti erranti senza cavaliere di su di giù per
la campagna, un cumulo di morti giacenti in atti diversi, i vivi in
rotta, i feriti implorare soccorso e non ottenerlo, tentare carponi
con miserabili conati sottrarsi da quel luogo micidiale e non
poterlo; - armi sparse e spezzate; - di membra il terreno fatto
infame e di sangue.
Come vennero, sparvero; togliendo riparo dietro certi argini alzati
traverso i campi, sicchè, senza quella testimonianza di
strage, quanto avvenne sarebbe apparso un sogno d'infermo.
«Tal sia di loro!» dopo alcuni momenti di silenzio
interruppe il Ferruccio.
«Così piacesse a Dio e a san Giovanni glorioso,»,
rispose Lupo; «ma, per quanto e' mi sembra, il diavolo vuol
tenere in conto di caparra questa prima mandata di scomunicati...
Vedete, capitano! guardate laggiù quella casa...»
«Dove?»
«Costà, costà, a piè del colle,
ov'è la torre rovinata... diritto alla mia mano... la vedete
voi? Diavolo! e che siete diventato cieco?
«La vedo, sì, adesso la vedo... E quando ci sono
entrati? e che cosa fanno?...»
«Mettono fuori dalla finestra una bandiera... due... un'altra
ancora; la prima parmi imperiale... la seconda del papa... la terza!
no... sì... oh! diavolo! come c'entra cotesta?... È il
cavallo sfrenato... la insegna d'Arezzo.»
«Ah! Machiavello, quanto ben dicesti, a cotesto cavallo
doversi imporre un duro morso e di ferro.»
«Ed ora che cosa significa quella turba? Sembrano gente del
contado... in abito da festa... Sì, sì, è la
festa dei morti.»
«O Lupo mio, in cotesta casa per certo si raccolsero i capi
dell'esercito; - e mentre noi qui ci travagliamo per la
libertà della terra, la gente del contado, sempre nemica alla
patria nostra, va a prestare l'obbedienza allo straniero; - ed ecco
come sempre, di voglie divisi, siamo fatti facile preda dei barbari.
Stolti! Andate e imparerete di che sappia la signoria di Carlo!
Quando mai le colombe si raccomandarono allo sparviere? Almeno Dio,
allorchè vi rapiva il cuore per difendere la libertà
vostra, vi avesse tolte le ginocchia con le quali vi avvilite; - o
se con l'anima di Bruto ve ne fosse pure stata compartita la forma,
ora io qui non dovrei vergognarmi di nascere da una stirpe
comune.»
«Possa l'anima di Lupo non andare in luogo di salute, s'io non
mando a costoro la diceria bella e fatta.»
In questo modo favellando, il bombardiere gira a quella volta la
colubrina. I soldati gli si dispongono intorno, sicuri di ammirare
un qualche tiro stupendo.
Lupo imperturbato, aggiusta il bronzo, prende la corda infocata e di
propria mano dà fuoco.
Tra una rovina d'intonaco infranto precipita rotto in ischegge lo
stipite della finestra; vanno in fascio le imposte, la bandiera
imperiale tentenna e cade nella polvere.
Subito dopo furono viste sboccare furiosamente genti di varia
maniera, e confuse, spaventate sbandarsi per la campagna. Invano,
fermo sul limitare, un cavaliere, sprezzando il pericolo, con la
voce e co' cenni le richiama. La paura chiude loro gli orecchi; quei
codardi non hanno vita che nelle gambe.
Il cavaliere era Filiberto di Chalons, principe di Grange, capitano
dell'esercito.
«Bel colpo! Viva Lupo! che tiro, eh? Non ve lo aveva detto
ch'egli era un valentuomo?» si ascoltava suonare in giro a
Lupo; e il capitano Gualterotto Strozzi lo baciava in volto,
Mariotto Segni gli stringeva la destra, Francesco del Monte la
sinistra; ed egli esultava, rideva, non capiva in sè dal
contento, e:
«Ve ne farò vedere degli altri, se Dio mi dà
vita», ripeteva baldanzoso.
«E sì che io avrei giurato ve ne fosse rimasto
uno», mormora il Ferruccio tra sè, e fruga e rifruga
dentro un borsone di velluto cremisino ricamato in oro, il quale,
secondo il costume dei tempi, teneva appeso alla cintura: - mentre
così favella, si accosta a Giovannantonio.
«O che pensate di fare, capitano? gli domandava quell'ultimo.
«Pensava, e certo non vorrai usarmi la scortesia di
rifiutarlo, pensava donarti un bello scudo d'oro dal sole, che mi
pareva esser rimasto qua dentro.»
La faccia di Lupo diventa vermiglia, biechi torce gli sguardi, si
morde per ira le labbra: il Ferruccio invece pacato continua a
cercare lo scudo, ma non lo rinvenendo comincia ad arrossire egli e
a turbarsi. Lupo, a mano a mano che vede il Ferruccio confuso,
compone il suo sdegno; finalmente si risovenne Ferruccio averlo la
sera innanzi donato a certo povero soldato il quale, infermo pei
travagli sofferti, se ne tornava, ottenuta licenza, a Firenze; onde
si pose a guardare fisso Lupo, Lupo, lui, e proruppero entrambi in
uno scoppio di riso.
«Valgami il buon volere, Lupo: per questa volta almeno
bisognerà che tu te ne chiami contento.»
«E sempre il buon volere basterà a Lupo», rispose
gravemente il bombardiere, «e ringrazio la fortuna di avervi
impedito cosa nè a voi nè a me convenevole;
perchè, credete, capitano, quantunque io sia povero e rozzo e
di poca levatura, pure sotto questa grossa corazza batte un cuore
che ama la patria davvero e conosce, capitano, essere ai buoni
figliuoli di lei anche troppa mercede potere operare un fatto che le
ridondi in vantaggio e in onore.»
«Senti, Lupo: sull'anima mia, io non pensava pagarti la tua
virtù; no, Lupo. Se avessi qui avuto due spade, te ne avrei
offerta una, intendeva darti una memoria la quale valesse a
rammentarti sovente questo nostro incontro, e, morto me, tu potessi,
mostrandola ai tuoi compagni, raccontare: Il capitano Ferruccio me
la donò in Arezzo quando con un colpo di colubrina gettai
nella polvere la bandiera tedesca.»
«E chi ve lo ha detto che morirete prima di me? Avreste per
avventura imparato negromanzia? Io non spero sopravvivere a voi
nè lo desidero, capitano..., e neanco lo voglio. Oh! io ho
camminato più passi di voi sulla strada della fossa.»
«Me lo ha detto il cuore: ad ogni modo, prendi questa borsa
vuota e conservala per amor mio; onde tu l'abbi cara, sappi ch'io vi
riponeva le paghe delle Bande Nere quando, in compagnia di messer
Giovambattista Soderini commessario della Repubblica, seguitai il
campo di monsignor di Lautrec all'impresa di Napoli.
«Ma che ho da farmi io di cotesto borsone? Sono forse
diventato il doge di Venezia o il soldano di Babilonia? Se io non
l'empio con le ghiaje del Mugnone, già non pensate voi ch'io
possa empirlo mai d'altra roba in questo mondo!»
«E perchè no? Co' tuoi peccati...»
«Tradimento! Tradimento!»
Questa voce terribile interruppe all'improvviso quei loro discorsi,
e voltandosi, videro comparire Iacobo Altoviti, capitano della
cittadella, il quale, ansante, disfatto, come percosso da subita
pazzia, non poteva proferire altra parola.
«Tradimento! Dove? - Come? - Di chi? - Tu' se' il
traditore!» grida inferocito il Ferruccio; e senza altro
aspettare, gettagli addosso le mani poderose, forte lo stringe nei
fianchi e, digrignando i denti, lo porta levato da terra a
precipitarlo dai muri della fortezza.
«Per Dio! Ferruccio, non mi ravvisate voi? sono Iacopo... Io
vi dico che la patria è tradita; il commessario ha dato
volta; fugge quel codardo... maledizione sopra di lui...»
«Qual commessario? - Chi fugge» e lo lasciava il
Ferruccio, ma gli occhi stravolgeva pur sempre, nè aveva
membro che gli stesse fermo, e fremeva e ruggiva in modo
spaventevole.
«Non io, Ferruccio... e lo vedrete. - Mentre altri abbandona
il suo posto io corro al mio.»
«Chi dunque fugge?»
«Non avete guardato la città?»
«Messere Iacopo, Arezzo mi stà alle spalle, il nemico
di faccia...»
Allora l'Altoviti, afferrato pel braccio il Ferruccio, seco lo mena
alla parte opposta della fortezza, e, gli additando la città,
diceva:
«Vedete!»
«Cristo!»
Egli vede le milizie fiorentine in rotta; - i fanti, abbandonate le
insegne, sbandarsi dove meglio loro talenta; - per correre
più spediti gittare alcuni l'armatura per terra; - invano
trattenerli i capitani; inutili le preghiere e le minacce:
avviluppati nelle spire della moltitudine, abbandonare anch'essi
loro malgrado quella terra che avevano disposto difendere
finchè l'anima gli bastasse: e sì che molti furono
allevati alla scuola del signor Giovanni delle Bande Nere, la morte
da vicino animosi contemplarono, pericoli presentissimi affrontarono
e vinsero. Qual fiero caso adesso sovrasta? Chi dunque li caccia?
Nessuno. La paura è un contagio. Purchè possono
più velocemente sottrarsi, si riputano i cavalieri beati; -
spronano, - sferzano i cavalli, come se il ghiaccio della spada
sentissero penetrarsi nei reni: ah! cotesta è una gara di
corsa di cui sarà dato in premio l'infamia.
Precorre a tutti il commessario Antonfrancesco Albizzi, come quello
che migliore destriero cavalca, e cui stringe più forte la
paura. Se lo sapesse il nemico, rimarrebbero oppressi tutti, senza
potersene salvare uno solo! Di quanto scherno non darebbe cotesta
fuga argomento, se la sapesse, al nemico! Il Ferruccio declinando
per vergogna la faccia, gli viene fatto di posare lo sguardo sopra
la città. Una testa si affaccia alla finestra, - poi due, -
poi cento, come le rane in palude, passato il rumore di che hanno
avuto paura, si levano sulle acque contaminate e ritornano al
gracidare increscioso. Di lì a breve le porte delle case si
schiudono, e vedi uscirne uomini ratti ratti che traversando le
strade si recano ora da quel cittadino, or da quell'altro, nel modo
stesso che il serpe vibra la lingua, o i ramarri, nei giorni
canicolari, si lanciano rapidissimi di cespuglio in cespuglio: -
cominciano a radunarsi i capannelli; ci ascolta una sorda
agitazione; la plebe prorompe; lontano si diffonde un trambusto, uno
schiamazzo, un battere di tamburi, un urlare: Viva san Donato! Viva
l'imperatore! Morte a Marzocco morte a Marzocco! O popolo, quante
volte hai gridato e dovrai ancora gridare - Viva la morte, e morte
alla vita! Dalla tua ignoranza acciecato, e dalle lusinghe altrui
sedotto, per quanto tempo ancora il tuo destino sarà quello
del bove - vita di bastone, morte di macello!
S'innalza una bandiera imperiale col verso di Zaccheria scritto
all'intorno: ut de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus
tibi; cresce il tumulto; le armi della repubblica Fiorentina
atterrate: l'onda del popolo bramosa di mettere le mani nel sangue
allaga le strade: ogni cosa in confuso; amici tremano e nemici; la
fiera ha rotta la sua catena; guai a chi la incontrerà!
Un tanto evento non sembrava partorito dalla occasione, e veramente
non era. Di lunga mano i cittadini cospiravano: le occulte trame
adesso si discoprivano.
Arezzo, un tempo dai marchesi e dai conti governata, dopo il secolo
undecimo, a guisa delle altre città di Toscana e la
più parte d'Italia, in repubblica si costituiva. Nei padri
nostri la virtù difettasse o la sapienza, non seppero legarsi
in vincolo federativo, il quale come la quiete interna assicurasse,
così potenti di fuori gli rendesse e temuti. Della
libertà civile praticarono un solo argomento, quello della
partecipazione di qualsivoglia cittadino agli uffici supremi dello
stato; la sicurezza individuale, nè statuirono nè per
avventura conobbero. Eternamente con miserabile guerre si
lacerarono; e quando lo straniero venne a ridurre in servitù
le belle contrade, invano chiamarono i figli generosi; giacevano
spenti, - nè i sepolcri restituirono i morti. In coteste
scellerate contese, sopra tutti insanirono i popoli aretini; oltre
misura rissosi, il nome ebbero di cani botoli, e l'Alighieri vi
aggiunse:
/* Ringhiosi più che non chiede lor possa. */
Poichè nei casi dei governi la libertà disordinata
mena sempre alla licenza, e la licenza genera tirannide, tosto
comparvero i signori. Guglielmo Ubertini, vescovo, conquistò
Chiusi, vinse i Sanesi alla Pieve al Toppo: abbandonato dalla
fortuna, rimase vinto a sua posta e morto nella giornata di
Campaldino, dove il nostro maggior poeta si trovò a
combattere tra le prime schiere. Meglio per lui, se non avesse mai
il pastorale mutato con la spada; o se, avendo cinta la spada,
l'adoperava in impresa più santa, perocchè egli fosse
uomo prode di guerra e di virtù antica.
Dove vivono genti disposte a servitù, i padroni si rinuovano;
chè, cessato il tiranno, rimangono le cause della tirannide:
agli Ubertini subentrano i Tarlati. Guido Tarlato di Pietramala,
stretta lega col Castruccio, continua a travagliare Firenze. Non
pertanto Arezzo, vuota di sangue, si piega al dominio fiorentino.
Piero Tarlati, più noto nelle storie col nome di Pier
Saccone, tentato invano ogni estremo rimedio per mantenere
indipendente la patria, si accomoda col comune di Firenze e gliela
vendè per trentanovemila fiorini d'oro; mostruoso
accoppiamento di virtù e d'avarizia! Nel 1343, cacciato da
Firenze il duca di Atene, gli Aretini ricuperarono la
libertà; ma al buon volere mancando la potenza per
sostenersi, non istette guari che in sua potestà li ridusse
Ludovico duca d'Angiò. Lui morto, i Fiorentini con
quarantamila fiorini di nuovo la comprano dal capitano che in nome
del duca la governava. Il popol vile, venduto a guisa d'armento,
stette nel dominio di Firenze fino al 1502; allora si
ribellò, non per virtù propria, ma instigando
Vitellozzo Vitelli generale del papa Alessandro VI; il quale, sotto
colore di vendicare la morte di Paolo suo fratello, condannato dai
Fiorentini ad avere mozza la testa pel tradimento di Pisa, invero
poi per allargare lo stato a Cesare Borgia, che lo pagò
più tardi a Sinigaglia, si condusse con l'esercito su quel di
Arezzo. I Fiorentini, d'armi sovvenuti e d'istanze presso papa
Alessandro da Luigi XII di Francia, lo riconquistarono.
Nicolò Machiavelli, nella presente occasione consigliando sul
modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, scriveva
dovesse la Signoria assicurarsene nel modo prescritto dai Romani, i
quali pensarono: «che i popoli ribellati si debbano beneficare
o spegnere; essere ogni altra via pericolosissima; a lui non parere
nessuna di queste cose avessero praticata, perchè non si
chiama benefizio far venire gli Aretini a Firenze, toglier loro gli
onori, venderne le possessioni, sparlarne pubblicamente, tener loro
soldati in casa; nè chiamarsi assicurarsene lasciare le mura
in piedi, lasciarvi abitare i cinque sesti di loro, non dar loro
compagnia di abitatori che li tenessero sotto, e non si governare in
modo con essi che, nelle guerre che fossero fatte a Firenze, non
avesse più a splendere in Arezzo che contro il nemico:»
onde, bene considerato il termine col quale la Signoria la teneva,
egli formava questo giudicio sicuro: «Che come fosse assaltata
Fiorenza, di che Iddio guardi, o Arezzo si ribellerebbe o darebbe
tale impedimento a guardarla che la sarebbe spesa insopportabile
alla città.» I modi praticati dalla Signoria nè
amore rivelavano nè vigore, e il popolo presuntuoso,
anzichè attribuirli a benevolenza d'indole o ad esitanza, gli
attribuiva recisamente alla paura e si faceva più pronto alle
offese. Accostandosi i nemici, ordinarono ai cittadini sospetti
sgombrassero le città, a Firenze si presentassero: tardo e
debole provvedimento. Nelle commozioni dei popoli voglionsi bene
esaminare le cause per le quali accennano muoversi, e secondo la
diversità di quelle usare degli opportuni rimedi.
Se il popolo, agitato dalla passione di una famiglia o di un uomo
s'infiamma, cotesto ardore dura poco, e tolta via la famiglia o
l'uomo, può stare sicuro che in breve si quieterà;
dove poi il popolo si muova per passione propria, a nulla giovano i
bandi o le morti di alcuni cittadini; di tutti i semi quello che
abbiamo veduto partorire maggiore copia di messe è il sangue
dei martiri della libertà versato sopra la terra della
oppressione, egli troverà sempre un Lando e un Masaniello;
nè al potere riescirà spegnerli tutti,
imperciocchè troppi sieno coloro nel petto dei quali arde un
fuoco divino che aspetta tempo a manifestarsi. Allora bisogna o nei
suoi desiderii compiacere il popolo, o con molte soldatesche
frenarlo, o, snaturandone gradatamente lo spirito, assuefarlo a
servitù, come fece Cosimo I a noi Toscani, o diroccarne le
mura, gli abitatori disperderne, seminarne il terreno di sale, come
fece Federico I ai Milanesi, i quali due ultimi spedienti, oltre
all'essere tirannici, talvolta riescono incerti, ed invero valsero a
Cosimo, a Federico no. E poi, alle cause interne di ribellione si
aggiungevano gli stimoli di fuori. Il conte Rosso da Bevignano,
citato come sospetto a comparire davanti Simone Zati commissario,
fuggì di Arezzo e prese soldo nel colonnello di Sciarra.
Divenuto caro al principe di Orange per la sua piacevole natura e
più per l'ingegno maravaglioso col quale sapeva condurre le
imprese avviluppate e difficili, cominciò, secondo il costume
dei fuorusciti, a dargli ad intendere che avrebbe ribellato Arezzo,
che stava in sua mano il destino della città, che la voleva
consegnare a lui solo; e a queste aggiunse altre più cose
assai, a cui il principe o credendo o piuttosto simulando credere,
gli diede patente amplissima per vedere che cosa e' sapesse fare. Il
conte si abboccò con i suoi partigiani, gli adescò con
l'antica lusinga della libertà, come se ribellarsi a Firenze
per vivere nel dominio del principe potesse chiamarsi
libertà, apparecchiò armi, raccolse danari, e le
bandiere notate da Lupo alle finestre della villa erano il segno
convenuto pel quale i congiurati, mosso rumore in città,
dovevano dare campo a quei di fuori di assalire le mura senza troppo
lor danno. Veramente, se la codardia dell'Albizzi non fosse stata,
cotesta impresa avrebbe avuto il termine a cui vediamo ogni giorno
capitare i tentativi dei fuorusciti; ma in ogni modo adesso si
facevano manifesti i prudenti consigli di Nicolò Machiavelli
e la imprevidenza dei capi.
Il capitano Ferruccio, a cotesto spettacolo doloroso, diventò
pallido come la morte: grondava sudore; all'improvviso traendo
l'Altoviti davanti una immagine riposta in certo tabernacolo sopra
le mura dei quartieri, parlò:
«Iacopo, giuratemi per questa immagine benedetta che voi non
renderete la cittadella, se prima non ne venga l'ordine dai Dieci.
Dal tenere questa fortezza forse dipende la salute della patria...;
della vergogna non parlo...»
L'Altoviti levò gli occhi e conobbe rappresentare la immagine
san Donato, protettore degli Aretini.
«Qui nel mio petto, Francesco, io serbo miglior santo che non
è costui», e si accennava il cuore. «I due ultimi
bariloni di polvere saranno adoperati a mandar all'aria la fortezza
e me...»
«Sta bene, addio!»
E profferite le parole, il Ferruccio si caccia giù per le
scale; alcuni gii tengono dietro senza ch'ei se ne accorga: scende
in città e se ne corre rapidissimo all'albergo. Siccome in
quel punto ei non teneva ufficio pubblico, non si era ridotto ad
abitare i quartieri. Certo ospite antico della sua famiglia lo aveva
accolto in casa; se ciò non fosse stato, nella fuga dei
Fiorentini d'Arezzo gli avrebbero condotto via la cavalcatura.
Irrompe nella scuderia; il buon destriero turco, nel sentire
appressarsi il suo signore, si commove tutto e nitrisce; egli, dato
di piglio agli arnesi, comincia ad adattarglieli intorno al corpo
con incredibile ardore; siccome accade in quella furia, ora gli
cascano di mano, ora l'uno scambia con l'altro e, invece di
affrettarsi, ritarda; il cavallo freme irrequieto, squassa la testa,
percuote il terreno, impaziente di lanciarsi.
«Sta, sta, Zizim; non è un giorno di esultanza questo;
se tu potessi vedere il cuore del tuo padrone come geme contristato,
ne avresti pietà; tra poco ti converrà far prova di
quanto sei veloce; ingegnati di correre, di volare, ma comunque tu
voli, non ti risparmierò i fianchi; te li sentirai pungere;
il tuo bel candore sarà contaminato di sangue... Per Dio! non
ti addestrava a tal prova; nè tu vi ti aspettavi... ed io
nemmeno. Avevamo disposto a morire insieme in un giorno di
battaglia...; ora..., prima che venga la stagione dell'onore, il
vituperio ci affoga. Corri non per acquisto di gloria... ma per
fuggire vergogna...; nonpertanto, sia per procurarle decoro, sia per
salvarla dall'obbrobrio..., sempre ben muore il cittadino per la sua
patria... or sei sellato... va'!
Gli balza in groppa, tira la spada e con la voce e con gli sproni lo
spinge: il buon corsiero, compresa la voglia del suo signore, corre,
vola, divora la via; par che non tocchi la terra, e par saetta
scoccata dall'arco. Il cavaliere trascorre rapido tanto che gli
oggetti gli fuggono vertiginosi, sformati; dinanzi gli occhi; l'aria
rotta violentemente su i labbri non gli concede articolare parola...
eppure urla in maniera spaventevole: giunge dove una turba di popolo
adunata dintorno alla bandiera imperiale esultava baccante di
allegrezza; il buon cavallo la fende come fiumana; l'onda della
plebe si frange clamorosa e volta le spalle sopraffatta dal terrore;
giace la bandiera deserta, e già tra i gridi discordi si ode
mormorare; «Viva Marzocco!»
Poichè fu la paura un poca quieta, si domandarono le genti
chi le avesse sbarattate, chi fosse, come si chiamasse; non seppero
dirlo: alcuni affermarono con giuramento essere comparso uno spirito
infernale che non aveva forma di cosa conosciuta; per furia, per
rumore e per luce terribile; solo una chioma tesa per ventilargli
dietro per l'aria a guisa di cometa, di augurio funesto: altri
invece sostennero avere veduto un volto di angiolo, un cavaliere
celeste, certamente san Giorgio.
Il cavallo, dell'impeto rovinoso punto rallentando, arriva alla
porta; In cotesto istante una mano di cittadini, recati sassi e
travi, tentava sbarrarla. Ferruccio, rinforzando la voce, tale manda
fuori un urlo che anch'essi atterriti si danno alla fuga; irrompe
pei campi; tende lo sguardo e, lontano lontano, riconosce il codardo
Commissario.
Dai fianchi del cavallo sgorga un nuovo spruzzo di sangue; di
più non può correre, nondimeno sente più e
più sempre trafiggersi. Ecco raggiunge le milizie disperse,
le passa, le ha passate.
Dietro al cavaliere si leva un rumore: «È il Ferruccio!
Anche il Ferruccio si salva!» Ei non lo intende, o non lo
bada... continua a precipitare dietro le tracce del Commissario. La
strada svolta e rasentando una macchia si curva, sicchè
all'improvviso costui gli scomparisce dagli occhi. Il Commissario di
troppo ha precorso; difficilmente gli riuscirà raggiungerlo:
tutto è perduto!
Antonfrancesco Albizzi, senza cappuccio, con le vesti scomposte,
pallido, lo sguardo fisso, tolto fuori di sè, rabbiosamente
spronava, quando ad un tratto gli balza indietro il cavallo, forte
squassato pel morso, e una voce minacciosa gli grida:
«Fermatevi!»
«Per la Madonna santissima della Impruneta», tutto
affannato in suono di pianto supplicava il Commissario, «non
mi ammazzate! Non vi mettete l'omicidio sull'anima! Sono un povero
marraiuolo... un fante di stalla...; a buona guerra non mi potete
toccare un capello..., vorreste dire ch'io sono un nemico preso con
le armi alla mano?... Frugatemi in nome di Dio...; io non ho armi...
Le vesti... le vesti non mi appartengono. Lasciatemi andare, e ve le
darò... mi basta andarmene in farsetto... con i fiorini che
troverete in tasca... un riscatto da principe in verità...,
ma lasciatemi... lasciatemi per tutti i santi del paradiso...»
Per quanto s'ingegnasse o dicesse, il cavallo non poteva avanzare,
una mano di ferro lo teneva fermo al terreno.
Vico Machiavelli, quantunque avesse sotto peggior cavallo del
Ferruccio, avendo notato più quieto come tirando diritto
dentro la macchia si venisse ad acquistare considerabile spazio di
cammino, vi si era messo alla ventura, e, trovatala sgombra,
potè riuscire ad arrestare il Commissario.
Quando il Ferruccio ansante ebbe trascorsa la curva descritta dalla
macchia ed ormai immaginava il Commissario lontano, con somma sua
maraviglia se lo trovò di subito davanti, e, preoccupato
com'era, dall'Albizzi in fuori, non gli venne fatto di vedere
null'altro:
«Commissario!... Commissario!...» prese a favellare il
Ferruccio, così come l'anelito glielo concedeva; «se
alla salute e all'onore della patria non si potesse, come spero,
riparare, la tua testa rotolerebbe adesso per la polvere della
strada.»
«O capitano! siete voi! Venite, difendete il nostro
Commissario. Voi siete valentuomo, voi, e l'ho sempre detto.
Difendete il vostro Commissario; mi vi raccomando...»
«Vile uomo! difenderti io? Di' piuttosto, perchè fuggi?
Così tieni il posto alla tua fede commesso? Perchè hai
lasciato Arezzo? perchè?...»
«Signore! O che anche voi mi uscite fuora nemico? Voi eravate
nella cittadella e non potete aver veduto il tumulto della
città... Io stavo sopra un vulcano... la terra mi si franava
sotto... tutti insorti... tutti armati e minaccianti la morte...; o
che doveva far io?»
«Morire.»
Questa risposta percosse il Ferruccio, il quale, essendosi alquanto
rimesso da quel primo furore, declinò lo sguardo e si accorse
della presenza di Vico; onde, geloso com'era della militare
disciplina, increscendogli che altri avesse ascoltato le acerbe
rampogne profferite contro il Commissario, con mal piglio rivolto al
giovane, gli disse:
«Anche voi qui? Partite.»
«Ma io...»
«Partite, vi comando! Davvero, voi andrete molto oltre nel
mestiere delle armi, se al primo incontro abbandonate così la
vostra bandiera...»
«Mente per la gola chi lo sostiene», rispose Vico
vermiglio fino al bianco degli occhi, traendo mezzo fuori la
spada...
Sentì il Ferruccio a quell'atto superbo commuoversi l'anima,
e per poco stette che non lo abbracciasse e baciasse; pur, sempre
mantenendo il sembiante severo, riprese:
«Tornate, Vico, alla vostra ordinanza e quivi con l'esempio
mostrate quello che tanto bene sapete raccomandare con
parole.»
Vico, a capo dimesso, traendosi dietro per le briglie il cavallo,
mestamente si allontana e pensando come il capitano, di cortese e
benigno che gli si era fino a quel giorno mostrato, a un tratto
avverso gli si facesse e oltraggioso, sospira nel profondo del
cuore, e gli prorompe il pianto dagli occhi.
Il Ferruccio, accompagnandolo col guardo, non potè impedire
che a sua posta gli si velasse di lacrime, perocchè dentro
gli si sporgesse un pensiero il quale diceva: Crescono i figli
nostri migliori di noi, e forse, ahi! indarno.
«Dove scorgessi in te parte alcuna di uomo, spécchiati,
comanderei, in cotesto giovanotto e vergognati. O casa Albizzi,
funesta sempre a Fiorenza, sia che nascano da lei genti feroci, come
Pietro, Maso e Rinaldo, o codarde, come sei tu.... Or via, scendi da
cavallo...»
«Voi mi volete uccidere...»
«Tolgo io forse le sue giustizie al carnefice?»
«Ma perchè devo scendere?»
«Perchè quando i Dieci ti deputarono alla salute della
patria furono o stolti o ebbri o ribaldi; perchè, durante il
tempo che nome conservi e comando di magistrato della Repubblica,
ogni turpitudine tua ridonda in onta di lei; e perchè
finalmente devi riparare al mal fatto, lasciandoti poi, quando sarai
tornato Antonfrancesco Albizzi, facoltà ampia di vivere e di
morire infame a tuo senno.»
«I vostri modi, capitano Francesco Ferruccio, passano il
segno...»
«Taci, obbedisci, o ti taglio la gola.»
E l'atto col quale accompagnò le parole indusse l'Albizzi a
scendere senza farglielo ripetere due volte. Ferruccio si
lanciò giù dal suo cavallo ed accennò al
Commissario che salisse su quello; dipoi, assicuratosi per questa
guisa che Antonfrancesco gli avrebbe tenuto dietro, balzò in
groppa al palafreno donde era sceso costui e, tormentandolo nella
bocca e nei fianchi, lo costringe ai più strani contorcimenti
che mai abbia fatti cavallo nel mondo; - poco dopo lo abbriva di
tutta carriera contro le compagnie disperse, le quali come prima
ebbe incontrato, cominciò ad esclamare in questa maniera:
«Che vi caccia, soldati? Procedete in sembianza di fuggitivi,
e nessuno v'incalza. - Almeno aspettate, per Dio! che vi
sopraggiunga il nemico alle spalle. Il Commissario, ordinandolo i
Dieci, comanda la ritirata, e voi fuggite? Davvero io non avrei mai
creduto che le milizie allevate alla scuola del signor Giovanni, -
le reliquie delle Bande Nere, ignorassero qual corra differenza tra
una ritirata e la fuga. I Dieci deliberarono, presidiate le
cittadelle del dominio, raccogliere quel cumulo d'arme che si
potesse maggiore intorno a Fiorenza... Parvi questo pauroso o
improvido consiglio? Su via, ordinatevi, e ben per voi che il
Commissario, trasportato lontano da questo mal domo animale, - e
qui, ferendolo lo costringeva a inferocire, - non si accorse della
vostra vergogna: - presto, - presto, - ordinatavi, che già
sopraggiunge, - ognuno al suo pennone; - i sergenti a capo delle
compagnie; quattro per fronte; - date nei tamburi; - torni a
sventolare la bandiera... Viva la Repubblica! Viva!»
E quivi nasceva una confusione in apparenza maggiore di prima, ma
indi in breve squadronate in bell'ordine comparvero le milizie.
Intanto il Ferruccio spronando di nuovo alla volta dell'Albizzi,
piegato il corpo dalla sella, gli susurrava sommesso all'orecchio:
«Commissario, la tua onta è coperta, - giustificata la
fuga; n'ebbe colpa il cavallo; - dacchè non hai virtù,
fa di mentirla; - mostrati in parole valente. Nota bene, contro
gl'insegnamenti della milizia io ordinai la ritirata, ed io l'ho
fatto a posta onde tu salvi la reputazione di magistrato della
Repubblica...; però biasima il comando..., raddoppia di
fronte le file..., manda gli archibusieri alla coda..., ai fianchi
due squadroni di cavalli per tentare la campagna. L'Altoviti tiene
fermo nella cittadella finchè gli basti la vita; - comanda al
marchese del Monte, uomo animoso e dabbene, insomma diverso affatto
da te, di prendere mille fanti e affrettarsi in soccorso
dell'Altoviti. Per onestare la tua infamia, basta che tu mentisca, e
di leggieri il farai, imperciocchè i codardi sieno maestri di
menzogna. - Addio. - Ora cesso cittadino e, ridivenuto soldato, ti
obbedisco.»
Machiavelli nostro, massimo conoscitore di questa umana natura,
scrisse in alcuna parte delle opere sue, difficilmente occorrere
uomo del tutto buono, come del pari riesce difficile incontrarlo
affatto tristo: però l'Albizzi sentì pungersi il cuore
di rimorso profondo più adesso, che il Ferruccio vedeva
studioso di giustificarlo, che quando con parole acerbe lo
rampognava pur dianzi; e poi cominciava per prova a comprendere
quello spirito altissimo; e sè a lui paragonando, lo agitava
un gruppo di passioni così diverse, di ammirazione per esso,
di avvilimento per sè, di rimorso, di vergogna e di terrore,
che il sangue a guisa di marea ora gli si spingeva sul volto, ora,
ritraendosi verso il cuore, glielo tramutava in colore di defunto.
Ma se il suo onore era perduto davanti alla sua coscienza e al
Ferruccio, poteva e doveva sostenerlo in pubblico per reverenza
della patria: - quindi, composto quanto gli riuscì meglio il
sembiante, trasmise con voce sonora gli ordini consigliati e
comandò a Francesco marchese del Monte, tolti seco i mille
fanti, accorresse in aiuto dell'Altoviti, accompagnandolo con
sì calde raccomandazioni di travagliarsi in pro della
Repubblica, e parole sì ardenti di sacrifizio e di zelo che
molti, persuasi della sua fuga, si ricrederono, prestando fede alle
parole del Ferruccio.
Cotesta ora fu piena di amarezza per l'Albizzi, un'ora di passione;
mai croce al mondo tanto pesò sugli omeri mortali:
sicchè il Ferruccio, sottilmente investigando quel volto che
a mano a mano a fior di pelle s'increspava per lo interno lacerarsi
dell'anima e il fremito fitto che gli investiva le membra al
pensiero terribile che di repente gli suonasse negli orecchi la
parola: - cervo, lascia la pelle del lione; - insieme a disprezzo
prese ad averne pietà, sempre più imprecando sventura
sul capo dei Dieci, i quali, il nome anteponendo alla virtù,
lo avevano scelto a Commissario.
Così senz'altro accidente procederono fin presso a poche
miglia da Firenze: andavano mesti e taciturni, perchè pesava
a tutti il dolore di cotesta fuga, e, al rivedere che facevano
adesso le mura dilette della patria, sentivano più fieramente
tormentarsi la coscienza... Che cosa sarebbe stato di lei, se, come
principiarono, avessero continuato a difenderla? Sopra gli altri
dimesso nell'animo s'innoltra l'Albizzi, col mento abbandonato sul
petto, stordito da pensieri senza séguito, - da dolori senza
nome; - chiunque lo avesse incontrato per la via, lo avrebbe detto
un masnadiere condotto a guastarsi.
Giunti che furono in parte dove il sentiero si divide in due diversi
cammini, l'uno dei quali mena a Firenze, l'altro ai borghi e alle
ville circostanti alla città, il Ferruccio, frenando
all'improvviso il cavallo, chiamò:
«Messere Antonfrancesco!»
L'Albizzi, assorto nella sua meditazione, non lo intendeva,
sicchè egli poco dopo più forte replicava:
«Messere Antonfrancesco!»
«Chi mi vuole?»
«Se non vi fosse gravoso, piacerebbevi dirmi qual cosa
divisate di fare?»
«L'ufficio mio, capitano: andarmene ai Dieci ed esporre loro
un ragguaglio fedele della mia commissione.»
«Allora più poca via vi rimane a fare in questo mondo:
- dai Dieci al bargello, dal bargello ai sepolcri della vostra
famiglia.»
«E perchè, Ferruccio, perchè? Forse non ebbi
consiglio da Malatesta di abbandonare Arezzo? Forse non è
vero, ch'essendo debole, mal si poteva tenere, e, perdute queste
genti, la città nostra diventava affatto disarmata? Forse la
cittadella non si trova adesso convenientemente presidiata?»
«E vi gioveranno siffatte difese quando là presso ai
Dieci troverete un uomo che prenderà a perseguitare la vostra
vita, come veltro la fiera, e narrerà la fuga, la paura, la
viltà vostra, sostenendo la vostra morte all'onore e alla
salute della patria necessaria; senza il vostro sangue tutta
disciplina militare spenta, ogni vincolo sciolto; a cagione
dell'esempio pessimo i valenti diventare deboli, vilissimi i vili;
il vostro capo, in ogni tempo per la colpa commessa giustamente
reciso, doversi adesso mozzare per giustizia e per ragione di stato;
i principii delle repubbliche avere ad essere inesorabili, testimone
Roma? E quando gli esempi e gli argomemti non bastino, cotesto uomo
si squarcerà le vesti, si cuoprirà il capo di cenere;
prostrato a terra, con le mani giunte, piangendo dirotto, nel nome
santo di Dio implorerà che la scure del carnefice vi percuota
la testa...»
E siccome l'Albizzi, esterrefatto, si guardava attorno e poi i suoi
occhi negli occhi del Ferruccio fissava, quasi per domandare chi
fosse quel suo implacabile nemico ed in qual modo lo potesse
accusare dopo che egli con tanto sottile accorgimento gli aveva
onestata la fuga, il Ferruccio, forte percotendosi il petto,
esclamò:
«Io sono quel desso!»
L'Albizzi, profondamente avvilito, non riusciva a formare parole.
Stettero alquanto in silenzio, e quindi riprese il Ferruccio a
favellare così:
«Io però non vi odio, Antonfrancesco... nè
voi... nè altrui...; odio la colpa... il colpevole non
posso...; nè vorrei che voi moriste disonorato, no... non
vorrei; il vostro delitto è certo, certa la pena...; se il
piè ponete in Fiorenza, il palco infame vi aspetta; ponetevi
in salvo pertanto, cercatevi un asilo finchè vi si offra modo
di morire onoratamente combattendo per la patria..., dico morire...
dacchè vivere più non potete; quando pure vi poneste
sul capo gli allori di Alessandro e di Cesare, non basterebbero a
gran pezza per ricoprirvi il brutto segno che l'ultima vostra azione
v'impresse nella fronte; solo può rigenerarvi il battesimo di
sangue..., perocchè allora i cittadini, l'andata vita
tacendo, incideranno sopra la vostra lapide queste parole:
Morì per la patria; e i posteri, senz'altro cercare, l'anima
vi conforteranno di suffragi e la memoria con le lodi serbate ai
valorosi...»
E stava per continuare, quando, per la via traversa che mena alle
castella del contado, ecco apparire un uomo di villa accorrente a
gran fretta, levando dietro a sè un lungo polverio. Venuto
presso ai nostri personaggi, il Ferruccio, accennandogli prima con
la mano sostasse, lo interrogò dicendo:
«Donde vieni e dove vai?»
«Io vado, messere, per una trista novella..., trista in
verità..., una novella che nessuno vorrebbe portare, e pure
bisogna che qualcheduno porti, perchè la è cosa che
riguarda l'anima; e un figliuolo mal può dipartirsi contento
da questo mondo, se prima non lo abbia benedetto suo padre. Vengo da
Nipozzano.»
«Nipozzano!» esclama Antonfrancesco Albizzi alzando di
subito la faccia, «casa mia!»
«Domine! ho io le traveggiole, o siete ben voi messer lo
padrone! Oh non vi aveva mica riconosciuto! Ma dacchè la
è andata così, fatevi animo e raccomandatevi al
Signore, perchè lo hanno spacciato...»
«Chi dunque? chi?»
«Messere Lorenzo, il padrone giovane... il vostro figliuolo si
trova in extremis...»
«Dio eterno, qual castigo mi dài!...»
Francesco Ferruccio, del tutto fisso nella sua idea di onore patrio,
di decoro della milizia italiana, oltre la quale le cose altrui poco
curava, le proprie nulla, quasi lieto diceva:
«Messere Antonfrancesco, nè più onesto nè
meglio conveniente motivo di questo vi potea parare la fortuna
davanti per abbandonare la ordinanza e ritirarvi lontano dalla
città.»
L'Albizzi, udite le parole, immaginando irridesse al suo dolore, lo
guardò in atto di rampogna e poi levò disperato gli
occhi lagrimosi verso il cielo. Allora sentì il Ferruccio il
detto inconsigliato, e la sua anima gentile n'ebbe rincrescimento
profondo; onde con voce piena di pietà, toccandolo
leggermente sul braccio, soggiunse:
«Nè più doloroso..., messere, nè
più per un padre desolante davvero...; e se Dio ve lo mandava
in pena delle vostre colpe..., parmi anche troppo.»
L'Albizzi, riconciliato, gli strinse la mano, - e senza altre parole
aggiungere, traendo un gemito, si allontanò.
Durante l'assedio egli stette ritirato in campagna. Un po' per
paura, un poco per vergogna, non ardì prendere parte alcuna
negli sforzi gloriosi operati da' suoi concittadini in difesa della
patria; la sovvenne di pecunia, ma poca: scrivono mille scudi.
Spenta la libertà, la tirannide istituita, mal potendo
l'animo suo comportare i nuovi modi, cospirò contro Cosimo I,
Tiberio toscano: preso a Montemurlo cogli altri congiurati, dannato
nel capo, troppo tardi imparava dovere gli uomini liberi mettere a
repentaglio le sostanze e la vita a mantenere la libertà
quando ha fiore di verde; l'occasione nelle cose politiche condurre
con una mano la buona fortuna, con l'altra la morte; i provvedimenti
intempestivi come non procurano la gratitudine altrui, così
quasi sempre cagionano la rovina a cui li tenta. Morì per le
mani del tiranno, non per la libertà; lo mosse insofferenza
di servitù, non amore del bene del popolo, sicchè i
posteri gli negarono per fino quel sospiro di pietà, - tenue
mercede eppur cara, - di cui tanto si confortano le ombre dei grandi
infelici.
Il cavallo di Arezzo insaniva sfrenato, ma non per durare, il conte
Rosso promise la libertà agli Aretini, e non gliela
potè mantenere; promise al principe di Orange il dominio
libero della città, e non gliela potè consegnare.
I superbi disegni di Filiberto di sposare Caterina dei Medici, che i
cieli destinavano alla corona di Francia, farsi signore di Toscana e
forse d'Italia, vennero meno. L'imperatore fu per ragione di stato
costretto a mantenersi leale col papa.
Clemente VII, occupando in processo di tempo Arezzo e al governo di
Firenze lo ritornando, considerato come i principi nuovi non devano
sopportare gli uomini capaci di sollevare a piacimento loro i popoli
soggetti, impiccò il conte Rosso. La sua morte insegnava che
se talvolta i principi adoperano l'antica lusinga della
libertà a guisa di leva per conseguire il fine proposto,
ottenuto che l'abbiano, se ne servono per rompere la testa a chi ci
ha creduto. Ammaestramento rinnovato le cento volte dopo e nei tempi
recentissimi eziandio, nondimanco sempre invano per questa nostra
stirpe umana, nata a fidarsi, a pentirsi e a fidarsi di nuovo in
chiunque abbia voglia ed ingegno d'ingannarla.
Abbandonato il contado di Arezzo dalle milizie fiorentine; presa dai
nemici Cortona; Montevarchi perduto e Figline; gli uomini di
Castelfiorentino sopraffatti; - la guerra si riduce sotto le mura di
Firenze.
NOTA.
Nell'opera intitolata - Assedio di Firenze, illustrata con inediti
documenti, occorre un passo della lettera 51 di Carlo Cappello,
ambasciatore veneto presso la Repubblica di Firenze il quale
annunzia come le genti di Arezzo sarieno state la sera del 19
settembre 1529 a Firenze, però che avessero deliberato di
lasciarlo, onde non tenere troppi presidii e trovarsi meno forti.
Sul quale proposito l'Annotatore dottissimo osserva che per queste
parole andrà meno odiosa ai posteri la fama dell'Albizzi;
imperciocchè il modo di questo annunzio e il silenzio dello
spavento che alla notizia si dice scombuiasse Firenze porgono
testimonianza cotesto abbandono essere stato prescritto, non
già volontario; la quale opinione gli viene confermata da non
vedere ricordato Arezzo tra i luoghi che voleva leggere la Signoria
nella lettera 58 del medesimo oratore. La memoria dei defunti
è cosa sacra nè va tocca con leggerezza da cui sente
la religione della storia; ma nè per le allegazioni delle
lettere del Cappello nè per l'avvertimento del signore
Albèri parmi deva punto alterarsi il giudizio da solenni
storici contemporanei portato sopra il turpe fatto di
Antonfrancesco. Esaminando diligentemente la corrispondenza intera,
trovo che, essendo riuscito ai Fiorentini di tenere ferma la
rôcca di Arezzo, quivi quanto più poterono si ressero
(lett. 52); per la qual cosa viene fatto di domandare: se cessero la
città, perchè serbarono la rôcca, che pure
distraeva dall'esercito 300 fanti dei buoni? Ancora dalla lettera 53
e seguenti si cava che i Fiorentini urgevano i Veneziani
affinchè movessero le loro genti da Urbino, le quali, unite a
4000 fanti mandati da Firenze, facessero prova di ricuperarlo; e se
i Veneziani non si volevano muovere, la Signoria, come disposta a
riavere Arezzo, spediva Andreolo Zati commissario in Casentino a
levare gente e tentare la impresa. Ora, perchè tanto affanno
a ricuperare quasi subito quello che si era abbandonato poco anzi
spontanei? Arrogi che le prime notizie, per ordinario, non
esperimentiamo le meglio sicure; nè il Cappello in tutto e
per tutto concorda col Varchi, informatissimo narratore e pacato: di
più, l'altro documento estratto dalla Riccardiana, messo dal
medesimo signor Albèri in fondo del volume, dichiara:
«Accordossi adunque il Malatesta con gl'imperiali e venne con
le genti fiorentine verso Arezzo: la quale terra desiderando i
nostri che fosse difesa per rompere la strada ai nemici,
mostrò egli al Commissario tante difficoltà in tal
cosa ch'egli deliberò abbandonarla, e così tutti
vennero alla volta di Firenze; ma arrivati che furono a San
Giovanni, ebbero commissione dai Dieci di mettere tanta gente in
Arezzo che la difendesse.» Per ultimo, ella è arte
consueta dei governi dissimulare o diminuire la fama delle cose
infortunatamente successe: di ciò frequenti esempi nelle
storie e in quella romana durante la seconda guerra punica preclari.
Antonfrancesco Albizzi fu ottimate codardo di codesti tempi, che
vale quanto moderato ai dì nostri: e con la sua infamia
rimanga.
CAPITOLO TERZO
IL PAPA E L'IMPERATORE
Darà l'Italia in preda a Francia o Spagna
Che, sossopra voltandola, una parte
Al suo bastardo sangue ne rimagna.
Ariosto, Satira II, alludendo a Clemente VI.
Adesso dormono polvere; - forse nè anche polvere: - ma allora
erano due fra i più potenti della terra, - un papa ed un
imperatore.
E fino a quel punto di odio mortalissimo si aborrirono. Il
più lieto pensiero in cui si assopissero la notte, - la
immagine più cara che alla dimane sul guanciale del riposo
ritrovassero, porgeva loro la speranza di potere un giorno l'un
l'altro incontrare giacente sui gradini del proprio palazzo, - nudo,
- assiderato dal freddo, - supplicante una elemosina, - che
l'imperatore nella mente superba esultava concedere larga ed amara,
- e il papa invece si compiaceva negare, via procedendo in sembianza
di non accorgersi di quel caduto. Imperciocchè, quantunque il
cardinale di Richelieu non avesse ancora insegnato la regola, il
cuore di Clemente VII aveva per istinto sentito, le donne e i
sacerdoti non dovere perdonare giammai.
E non pertanto adesso stavano intesi a comporre gli antichi rancori,
a discutere che cosa avrebbero guadagnato a mutare l'odio in
amicizia, a stringersi le mani per quindi insieme aggravarle
più peso sopra il collo dei popoli.
Gli accoglieva magnifica sala, di seta splendida e d'oro, con la
vôlta dipinta da uno dei più valenti artefici che
resero quel secolo singolare nella storia dell'arte.
E il dipinto della vôlta rappresentava il concilio dei numi,
il convito degl'immortali che pure erano morti, Giove l'antico
onnipotente, che adesso non poteva più nulla, e le altre
divinità bandite dalle dimore dei cieli. Eppure cotesta
religione ebbe una volta adoratori, martiri, voti, preghiere,
superstiziosi, dileggiatori, olocausti di bestie, olocausti di
uomini e sacerdoti crudeli; ora poi non se ne rinviene memoria in
nessun cuore, ed è forza cercarla sui libri: religione da
eruditi, religione da pittori per decorarne le vôlte o le
pareti delle sale.
Cotesta religione doveva dileguarsi davanti un'altra religione di
amore e di pace che gli uomini predicò fratelli e
maledì l'uomo il quale tormentando faceva piangere la
creatura di Dio. Ma il tristo seme d'Adamo, sfidata la maledizione
celeste, contaminò l'opera dell'Eterno; la nuova religione
circondò di terrori, di superstizioni, di scherni, di vittime
umane, di sacerdoti crudeli e, per aggiunta, dei papi - re e
sacerdoti, - i quali si cingono con tre corone la testa, come per
simbolo che pesano funesti alla terra tre volte più dei re,
somiglievoli in tutto all'antica chimera, congerie mostruosa di
drago, di capra e di lione, però non come la chimera
favolosi, ma vivi pur troppo e palpitanti e laceranti nelle sedi del
Vaticano.
Clemente VII e Carlo V insieme ristretti s'ingegnano a ordire un
patto che valga a costringere le generazioni per sempre dentro un
cerchio fatato, dentro una rete di diamante; si affaticano a
rinnovare l'esempio di Prometeo, apparecchiando all'umano
intendimento catene eterne e l'avoltoio divoratore. - Stolti! Se gli
occhi declinavano al fuoco che ardendo loro davanti nel marmoreo
camino aveva ridotto in cenere copia di legna, se verso la
vôlta gli rialzavano dove erano effigiate le immagini degli
dêi come caratteri d'una lingua che più non s'intende,
avrebbero compreso: «le cose nostre tutte hanno lor morte, -
siccome noi,» e l'opra infaticabile del tempo rompere le trame
orgogliose degli uomini non altrimenti che fossero veli di ragno.
Seduti entrambi, Clemente da un lato, Carlo dall'altro di una lunga
tavola coperta di velluto cremesino a frangie d'oro, con le insegne
della Chiesa ricamate in oro; e sovr'essa carte e pergamene di ogni
maniera, - brevi, diplomi e capitoli quivi spiegati, quasi museo e
satira delle scambievoli loro insidie, quali col suggello di Spagna,
quali colle armi dell'impero, parte con le palle dei Medici, parte
ancora con la immagine di san Pietro che pesca e invano rammenta al
superbo pontefice la povertà della chiesa primitiva di
Cristo.
Con benigne sembianze si contemplano: ma l'anima di Clemente nel suo
segreto si strugge d'invidia per Gregorio VII, a cui fu tanto la
fortuna cortese che gli trasse davanti nella rôcca di Canossa
l'imperatore Arrigo IV con i piè nudi e il capestro al collo,
ad implorare tutto umiliato misericordia per Dio: Carlo poi forte
gemeva di desiderio nel cuore rammentando la felicità di
Filippo il Bello, il quale non pure potè mettere le mani
addosso a Bonifazio VIII in Alagna, ma fare anche in modo che,
siccome era vissuto da volpe e regnò da lione, così
morisse da cane.
Egli era potente di giovanezza e di forza, sicchè le imprese
delle varie sue armi potevano denotare in quel tempo gli attribuiti
diversi dell'animo e del corpo di lui; in esso la vigoria del lione
di Borgogna, in esso la tenace immobilità delle torri di
Spagna, in esso finalmente lo sguardo dell'aquila austriaca, -
sguardo di preda, - sguardo di cupidigia insaziabile. Quanto gli
acutissimi suoi occhi sopra le carte geografiche del mondo potevano
contemplare, tanto bramando il suo pensiero abbracciava. Se il
Creatore aveva dato alla terra una cintura di mari, egli, la corona
del suo capo dilatando, intendeva racchiudervi dentro la terra e
l'oceano; - a guisa di cancelli eterni disegnava porre le punte del
suo imperiale diadema là dove il creato termina, e l'abisso
incomincia.
Fronte ampia, dove i pensieri incalzavano del continuo altri
pensieri, come fanno le onde del mare. All'improvviso però
cotesta fronte di rugosa diventa piana, i concetti vi si aggirano
sconnessi nel modo appunto ch'è fama volassero con
sùbita vertigine per l'antro della sibilla le foglie ove
stavano scritti gli oracoli del dio. - Cotesta vicenda istantanea
rammentava il metallo, il quale, prorompendo infiammato dalla
fornace per fondere la statua di un eroe, spezza talora la forma e
si disperde nelle viscere della terra. Aveva con i regni eredato i
vizii del sangue de' suoi maggiori. Il padre, Filippo, gli trasfuse
nelle vene l'anelito perpetuo di dominio dei principi austriaci e
l'ardimento dei duchi di Borgogna. La madre, Giovanna, gli dava la
cupa penetrazione dei sovrani di Spagna e il germe della
infelicità che oppresse la vita di cotesta infelice regina.
Esultino i popoli! il dolore si posa anche sulla corona dei re; -
anzi più sovente sopra le sublimi che non sopra le teste
dimesse, in quella guisa che l'uccello di sinistro augurio
presceglie a sua dimora la torre del barone in preferenza dal tetto
della capanna del povero; - il dolore si spande sopra le gemme dei
diademi e fa parere anch'esse lacrime o gocce di sudore affannoso;
il dolore corrode internamente il cerchio d'oro e stringe
inosservato le tempie, come la striscia di ferro della corona
lombarda.
Esultino i popoli! perchè i potenti gemono, ed eglino possono
rifiutare l'elemosina della compassione, - o rispondervi con un eco
di scherno.
Giovanna, figlia di Ferdinando e d'Isabella, moglie dell'erede di
Massimiliano imperatore, signora delle Spagne, dell'Indie, dei Paesi
Bassi, forse di mezza Europa, non ha chi la uguagli in miseria.
Almeno Niobe fu convertita in pietra e cessò a un punto le
lacrime e la vita: ella poi deve durare lungamente in tale uno stato
che non può dirsi vita e non è morte, - a piangere la
sua ultima lacrima, a bevere l'ultima stilla di un calice senza fine
amaro. Costei delirava d'amore per Filippo, e Filippo la fuggiva, ed
in breve consunto da amplessi che non erano suoi, sul primo fiore di
giovinezza le morì tra le braccia. Le tolse la mente
l'angoscia: stette muta, ordinò prima si seppellisse il
cadavere; poi, cambiato consiglio, volle si imbalsamasse; lo
vestì di abiti magnifici, lo stese sopra un letto di
broccato, e quindi si pose ad aspettare che si svegliasse,
imperciocchè aveva sentito dire di un re il quale era
resuscitato dopo quattordici anni dalla sua morte; preso da geloso
furore, non consentiva che donna alcuna si accostasse a quel letto;
se ministro o consigliero andava per consultarla, il dito gli
ponendo sui labbri, bisbigliava sommessa: «Aspettate che il
mio signore si svegli.»
Tale fu la madre di Carlo, e tale fu egli stesso quando, dalle
infermità domato e dagli anni, mutò la porpora
imperiale in cocolla da frate, e rotta la corona sopra la soglia di
un convento, dei bricioli se ne fece un rosario per contarvi sopra i
paternostri e le avemarie. Dopo tanto sorso bevuto alla coppa del
potere, la gettò via lontana da sè, quasi lo avesse
inebbriato di fiele. Miserabile! Chè quando a Laredo in
Biscaglia baciò la terra dicendo: «O madre comune degli
uomini, nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo
ritornerò nel tuo», cotesto grido non mosse mica da
anima fortemente contristata, bensì fu lamento neghittoso di
pellegrino il quale si lascia cadere sull'argine della via e quivi
aspetta piangendo la morte. Nè quando volle innalzarsi il
feretro e assistere vivo alle sue esequie, lo vinse ira o disprezzo
o fastidio degli uomini, come Silla e Diocleziano, sibbene la paura
dell'inferno. Prima che lo cancellasse la morte dal libro dei
viventi, il demonio dello scherno aveva spento con un soffio la
fiamma di cotesto spirito superbo, e sopra la fronte nuda di
capelli, di corona e di pensiero, ridendo scriveva: «Qui
dentro giace sepolto l'intelletto di Carlo V imperatore!»
Però da questo tempo a quello in cui si era ristretto a
parlamento con Clemente VII ci correranno trent'anni: adesso egli
gode meditando che ne' suoi regni non tramonta mai il sole: - anela
portare il mondo sul pugno come dal paggio si costuma il falcone;
due soli potenti intende che abbiano a temere i mortali nel creato!
lui in terra, Dio nel cielo.
Clemente papa, scuoti la polvere del tuo sepolcro, rompi la lapide e
mòstrati qual eri allora e quali disegni concepivi:
mòstrati insomma quale apparrai nella valle di Giosafatte.
Ricusi forse svegliarti dal tuo sonno di marmo? Dirai che al
cospetto dell'Eterno soltanto vuoi comparire il giorno del giudizio?
Esci: la storia apparecchia il giudizio di Dio e rimuove dalle tombe
degl'iniqui la mala erba dell'oblio, onde vi cada intera la
maledizione delle schiatte succedentisi nei secoli. Vorrai forse
minacciare me de' tuoi fulmini? Ben altri fulmini che non furono i
tuoi stanno spenti a Sant'Elena. I nostri pargoli adesso
getterebbero via le tue scomuniche come trastulli vieti, - i
giullari non vorrebbero rammentarle neanche come facezie. - O san
Pietro glorioso, sarebbe il mondo diventato tutto luterano? Mi pare
che strilli dal fondo del suo avello cotesto snaturato figliuolo di
Firenze. - No, no, cònfortati, papa Clemente; te, Lutero,
Calvino, quanti vi hanno preceduto, quanti vi hanno seguito, mitre,
corone, porpore, cappucci, Numa, le leggi delle XII tavole,
sant'Ignazio da Loiola, Leopoldo I, san Domenico, e tutto quello che
fu, il Destino ripose dentro immanissima urna, e l'agita, l'agita,
finchè la sorte o la ragione non venga ad estrarne l'arcano
della umana felicità. - Esci dunque, Clemente. Ecco, secondo
il costume dei papi e dei re, tu vesti un manto vermiglio. A quanti
oppressori vissero di sangue talentò mai sempre il colore
rosso, - certo perchè non vi si distinguesse sopra quel
sangue! O sciagurati! Dio discerne il sangue del popolo dal sangue
della porpora. La tua barba diventò bianca per gli anni, il
tuo volto rugoso, le pupille ti tremano sotto le ciglia come alla
lepre, il corpo hai irrequieto, ogni rumore ti mette spavento.
Nessuno ti sta alle spalle; chiudesti di tua mano le porte, e non
pertanto ti volgi improvviso dubitando che sopraggiunga Alarcone, il
quale, prigioniero fuggitivo, ti riconduca in castello Santo
Angiolo; o il più fiero Giorgio Frandesperg, che adempiendo
al suo giuramento ti getti al collo il capestro d'oro. La fama di
prudente, conseguìta in tanti anni di ministro di Leone X, ti
sei divorato in un giorno di papa; su la cima delle umane grandezze
la vertigine ti ha preso; la tua mente è sabbia dove il
pensiero fabbrica, la paura rovina. Tu giaci sull'orlo dell'avello,
ma i tuoi concetti non appartengono alla pace eterna; se innalzi un
braccio, lo fai per percuotere; se stendi una mano, lo fai per
rapire. Nel naufragio del tuo pensiero rimase a galla solo un'idea,
e tu la vieni afferrata come la tavola di salute. - Tu ami il tuo
bastardo, e tu pure, Clemente, sei tale: papa Lione ti concesse la
dispensa, sicchè tu potesti arrampicarti per tutta la scala
della gerarchia ecclesiastica; però in faccia al mondo non
v'ha cosa che valga a salvarti dall'onta degl'illegittimi natali; -
il tuo bastardo è camuso, ha i capelli crespi, le labbra
tumide, brutto di corpo, di anima più brutto.... Beatissimo
Padre, ti saresti per avventura mescolato in amore con una schiava
africana? Ah! quantunque illegittimo figlio di Giuliano dei Medici,
io mi aspettava da te gusto migliore pel bello; - pure sei padre e
lo ami. Dura condizione dei potenti, che, buoni sieno o tristi i
loro affetti, tornino del pari perversi ai propri simili! Stravolto
adesso da cotesto amore, che cosa gl'importa il giusto e l'onesto?
Ad ogni costo egli vuole deporre una corona su quel capo di moro. Se
lo poteva, avrebbe lui convertito la tiara di pontefice in diadema
da re; non riuscendogli, si volse altrove a lacerare il manto
d'Italia per girargliene un brano sopra la spalle; gli si offerse la
patria libera, bella e innocente, o se pure delitto alcuno era in
lei, colpevole di avergli dato la vita. - Non importa: quand'anche
del metallo della croce che soprasta la cupola del duomo di Firenze,
quando anche dei merli del Palazzo Vecchio, - quando delle ossa de'
suoi concittadini dovesse formargli la corona, basta ch'ei sia
coronato! Fra brevi anni di lui rimarrà un pugno di polvere;
- i presenti lo malediranno e i futuri; - che importa? Lo esecrino,
purchè lo temano; diventi polvere, perchè coronata.
«Gloria in excelsis Deo, et in terra pax!» riprese Carlo
V, come continuando un discorso interrotto, e si alzò
accostandosi al fuoco. «La pace è fatta. Vi pare egli
che quanto promisi all'arcivescovo di Capua in Barcellona vi
confermi adesso, Beatissimo Padre? Sebbene nella impresa di vostra
casa occorrano i gigli di Francia, i Medici domineranno
Fiorenza.»
«Ma fin qui io non veggo....», interruppe il pontefice,
e poi si rimase esitante a librare se il concetto che stava per
esprimere potesse riuscire di troppo sgradito all'imperatore; - pure
essendogli forza aprire manifestamente l'animo suo, con voce un poco
più dimessa soggiunse: «Ma fin qui io non veggo che
promesse di promesse, mentre per me si devono di presente adempiere
le condizioni del trattato.»
«L'esperienza lunga che avete, Beatissimo Padre, degli umani
negozii vi farà di leggieri comprendere non derivare da mala
volontà l'inadempimento momentaneo delle mie promesse;
ciò avviene perchè di natura loro riguardano a tempo
successivo. Onde preporre la vostra famiglia alla suprema
autorità di Fiorenza, bisogna adoperarvi le armi; onde
restituire alla Chiesa Ravenna, Ferrara e gli altri Stati perduti,
bisogna ancora adoperarvi le armi; perchè il ducato di Milano
prenda il sale dai vostri dominii, fa di mestieri che il tempo
gliene apparecchi la necessità.»
«Sì, ma finalmente le guarentigie non guastano
nulla.... e l'arcivescovo di Capua ve ne dovrebbe avere toccato a
Barcellona...., e la Maestà Vostra dava il suo imperiale
consenso....»
«Non basta forse a papa Clemente la promessa di Carlo
imperatore?»
«Promesse! trattati!» replicò il pontefice con
maggiore stizza di quello di cui altri lo avrebbe creduto capace e
che non avrebbe voluto egli stesso, alzandosi in piedi; ed
accennando sdegnoso varie carte spiegate sopra la tavola.
«Ecco, nel 1525, prima della battaglia di Pavia, mi dichiarai
neutrale tra la Maestà Vostra e il Cristianissimo; padre
comune dei fedeli, mi parea, ed era il partito da praticarsi
migliore tra due principi cristiani dei quali non mi era riuscito
prevenire le sanguinose contese; la battaglia avvenuta, Lanoia
vostro stipula meco questo trattato di pace, riceve
centocinquantamila fiorini d'oro, - e la Maestà Vostra
nè ratifica il trattato nè restituisce il danaro; nel
27, Lanoia vostro mi sottoscrive quest'altro trattato, col quale si
obbliga allontanare il contestabile di Borbone da Roma quando io gli
paghi ottantamila fiorini; - ritirato il danaro, il Borbone non pure
si accosta a Roma, ma con barbarie inaudita la manda a sacco.... ora
lascio giudicare a voi se le promesse e i trattati mi
affidino.»
E qui i suoi negli occhi di Carlo V fissava, il quale imperturbato
se ne sta con le spalle volte al camino e con una mano si liscia il
mento, - forse per nascondere un sorriso sottilissimo che suo
malgrado gli scomponeva i peli dei labbri. Poichè rimasero
per uno spazio di tempo in silenzio, Carlo con lente parole riprese:
«Santità, appunto perchè ricusai ratificare i
trattati, mal vi dolete di fede rotta. Il vicerè di Napoli
Lanoia, i limiti del suo mandato eccedendo, non poteva obbligarmi; -
dove per me fossero stati approvati i patti illegalmente conclusi da
lui, ora non vi dorreste voi di averli veduti inadempiti. Col sacco
di Roma io rigetto lontana da me l'accusa. Borbone il fece, e
Borbone certo ne pagò la pena cadendo ucciso sotto le mura
della sacra città. Qual cuore fosse il mio alla notizia,
pensatelo voi, Beatissimo Padre. Per tutti i miei regni ordinai
pubbliche preghiere per ottenere dal cielo la vostra
liberazione...»
«Ma poichè stava in potere della Vostra Maestà,
meglio delle preghiere, a mio parere, valeva un ordine a don
Ferdinando d'Alarcon mio carceriere di liberare il vicario di Cristo
e...»
«Orsù! riconduciamo la consulta al suo primo punto,
dacchè, in modo diverso procedendo, noi verremmo a smarrire
del tutto la dritta via. Intende la Beatitudine Vostra abbattere la
libertà di Fiorenza, me commette all'impresa e da me chiede
sicurezza. Santo Padre, vi sareste per avventura dimenticato essere
io l'imperatore Carlo V? Ad assoluto signore domandate voi
guarentigia per abbattere repubbliche? Già troppo le nostre
contese hanno fatto crescere le petulanze dei popoli; ed io vi dico
in verità che, dove non ci stringiamo in lega salda e
potente, non andranno secoli che noi rimarremo divorati da cotesta
idra, di cui, ponete mente, se cento capi mordono per la
libertà, cento altri mordono per la eresia...»
Caso fosse o piuttosto astutezza, Carlo con siffatta sentenza veniva
a porre il dito proprio sopra la piaga aperta nel cuore del papa;
conciossiachè questi, messo subito da parte il pensiero del
danaro, del quale come colui che grandemente misero e taccagno era,
intendeva domandargli conto per industriarsi a rattrapparlo, se non
tutto, almeno in parte, uscì nelle considerazioni gravissime
che seguono:
«Carlo imperatore, ora io dalla vostre parole comprendo come
vi abbiano finalmente toccato lo spirito i consigli della Santa
Sede. Le cose medesime che adesso vi sfuggono dai labbri non vi
diceva Leone X? non vostro maestro Adriano VI? non io medesimo ve le
ripeteva le mille volte? È tempo che il trono e l'altare si
abbraccino per sostenersi; tempo che noi ci diamo un bacio diverso
da quello di Giuda, - da quello che ci diemmo troppe volte, da
quello che ci siamo dati fin qui. Finchè i popoli guelfi si
mantennero o ghibellini, nè crederono potere altrimenti
vivere che parteggiando per lo impero o per Roma, allora la nostra
lite fu contesa tra i pastori pel gregge; - ora pur cotesto gregge
incomincia a conoscere che può fare a meno della vostra
aquila e delle mie chiavi si tramuta in torma di lupi, la quale non
pure brama divorare, ma intende divorare sola. - Quando Lamagna
tolse a difendere quel figlio di perdizione, Martino Lutero, io bene
conobbi, ed altri uomini pratichi delle faccende umane conobbero
meco, la querela non già, come sembrava, consistere nelle
indulgenze compartite, nella comunione dell'ostia e del calice e
negli altri punti di dissidenza contenuti nelle tesi di cotesto
maledetto; no, i cervelli tedeschi, ansiosi di libertà, vaghi
di mostrare la energia da lungo tempo compressa, intesero scuotere
il dolce freno di Roma, come primo anello di una soggezione,
qualunque fosse per loro insopportabile; rotto questo, vorranno
romperne un altro... E della catena, Carlo pensate che voi ed io
teniamo i capi. La riforma religiosa è palestra dove
disegnano esercitare le forze loro per quindi volgersi alla riforma
della potenza imperiale. Il giorno della morte dei papi sarà
la vigilia dell'agonia pei re. Ben previde la gloriosa memoria
dell'imperatore Massimiliano la importanza dei casi presenti; se la
morte non lo rapiva, vi avrebbe provveduto di certo. - Voi, Carlo,
le ammonizioni del Vaticano dal vostro spirito rigettaste come si
scuote dai sandali la polvere di terra maledetta, voi la Chiesa
santissima affliggeste, voi la sposa di Cristo ne' suoi vicarii
avviliste; - ma più della sua Roma saccheggiata, più
del suo pontefice ridotto in ceppi, ella piange a cagione del
decreto della Maestà Vostra promesso alla dieta di Spira nel
1526, il quale sanzionò la tolleranza della setta diabolica
dell'empio Lutero sino alla convocazione del concilio generale:
nè per sè sola ella piange, ma ed anche per voi,
Carlo; e dì e notte addolora e nel santuario si raccomanda al
divino suo sposo Gesù che illumini l'intelletto vostro e
sensi v'ispiri di pietà e di prudenza per scambievole nostra
conservazione. I perversi settatori, nella ignoranza del cuor loro,
fidenti che la Chiesa stia per esalare l'ultimo fiato, continuano
nel cammino preveduto e minacciano il vostro trono imperiale.
Ditemi, Carlo, la lega di Smalkalda testè stretta tra loro vi
ha guasto mai il sonno? I principi luterani si uniscono in un sol
corpo ed implorano contro voi l'aiuto di Francesco di Francia. Se
gli movesse amore di setta soltanto, vi pare egli che ricorrebbero a
Francesco, vostro emulo eterno, e della Santa Sede apostolica
figliuolo amantissimo? Già spento nel folle loro pensiero il
lione di Giuda, si avventano all'aquila di Costantino. Ah! Carlo,
avete seminato il vento, badate a non raccogliere la
tempesta.»
Carlo ascoltava attentissimo il discorso di Clemente col collo teso
e gli occhi fissi, nella guisa che il mendico guata per vedere qual
moneta e quanta esca dalla mano del suo benefattore; - quindi,
altamente commosso da quei raziocinii, prese a mormorare:
«Egli ha favellato da quel valentuomo che il mondo conosce
essere. Nè Aristotele mai nè san Tomaso d'Aquino
potevano argomentare in più acconcia maniera.»
«Ma se le vostre parole suonano sincere, Carlo, voi siete uno
di quelli che il meglio vedono e approvano, mentre al peggio si
appigliano. - Se quanto ne stringa bisogno d'imporre un freno ai
popoli conoscete, se alle mie sentenze applaudite, se la tolleranza
vostra della setta scellerata condannate, e perchè dunque,
non ha guari, al Doria concedeste facoltà di rendere Genova
libera? O tra i principii vostri ed i fatti manca concordia, o
commetteste errore politico. Comunque sia, non giungo a comprendervi
nè, considerate queste cose tutte, io posso nel solo vostro
stato imperiale fidarmi abbastanza per vedere spenta la
libertà di Fiorenza.»
«La barca di san Pietro si governa con poche vele, Beatissimo
Padre, ma ben altra si vuole industria a condurre le faccende del
mondo. Se nella Germania poco mi valse la tolleranza dei Riformati,
cotesto fu consiglio meditato lungamente e molte volte discusso tra
i miei più savi ministri, - e i tempi che correvano ne furono
per la massima parte cagione, e infine il fulmine dell'impero non
diventò ancora per pazienza contennendo quanto il fulmine del
Vaticano. Voi biasimate troppo. - Intorno a Genova, rammentatevi
com'ella non si governi a popolore reggimento; vedete quivi la somma
delle cose ristretta in mano agli ottimati: e credete, Clemente, i
popoli preferiranno sempre la signoria di un solo a quella di pochi.
- Fiorenza invece, non affatto aristocratica mai, ogni dì
più pende alla democrazia. In lei soltanto contemplo e temo
lo spirito di conquista; - ella cadrà. - Che mi parlate voi
di messere Andrea Doria? Purchè abbandonasse le parti di
Francia, gli avrei, non che altro, quasi donato la mia parte di
paradiso. L'avventurato Genovese ha reciso l'ale alla vittoria e se
l'è fatta serva. Ma se al Doria concessero i cieli la
facoltà di vincere, non gli compartirono del pari l'arte di
governare; egli cede al mio genio. Sembra a voi ch'io gli abbia
posto nelle mani una palma, e v'ingannate; io ho fatto come gli
incantatori, i quali, affascinando, donano cenere per oro. Deluso
dalle mie parole, gli porsi a stringere una spada per la punta, non
già per l'elsa, sicchè egli vi si taglia la destra
nè se ne accorge ancora. Può egli il Doria ritornare
privato? Il cittadino che di tanto prevalse nella sua patria da
rivendicarla in libertà, ond'ella si mantenga libera davvero,
deve come Licurgo salire un rogo e ordinare che la sua cenere sia
dato ai quattro venti della terra: - messere Andrea invece vive e
governa nella sua città. Gli umori dei nobili genovesi non
quieteranno mai: io già vi scorgo invidie, odii e rancori di
sangue. I Fieschi le ire apparecchiano e le armi: lasciamo che il
furore di cotesta famiglia si accresca; allora le fazioni cittadine
diventeranno più funeste alla città, si turberanno gli
ordini, andrà sottosopra lo stato e, povero di viveri, vuoto
di sangue, implorerà come elemosina un braccio potente che
possa farlo morire in pace. - Nè il desiderio mi trasporta a
immaginare cose vane; altre volte i Genovesi ne hanno somministrato
l'esempio, dandosi in balìa dei duchi di Milano e dei re di
Francia; inoltre Andrea Doria percorse gran parte del suo cammino
vitale; la sua famiglia procede diversamente da lui: - la sua
virtù rimarrà sepolta seco. - Io vedo tempo nel quale
la repubblica di Genova viene come un ruscello a portare il tributo
delle sue acque nel fiume maestoso della mia potenza. - Ordisco una
gran trama col pensiero, ne seguo con costanza le tracce, ne aspetto
con pazienza l'esito avventuroso.»
Clemente papa, col mento sollevato, guardava Carlo V e ad ora ad ora
crollava la testa tra pago e sdegnoso; sdegnoso nel conoscere
l'intimo concetto di lui, contento per averlo preveduto da gran
tempo: e poi offeso da quella serie di pensieri di gloria, come il
tristo fanciullo gode scompigliare con una pietra le limpide e quete
onde del lago, vi lanciò malignamente tra mezzo la domanda:
«E alla morte ha mai pensato Vostra Maestà?»
L'imperatore, quantunque per natura cupissimo, nondimeno a cagione
della stessa intensità de' suoi pensieri lasciava vincersi
talvolta dalla passione, ed esaltato, non sapeva così di
leggieri reprimere la favella; sicchè continuava dicendo:
«La Francia è giglio fragile, eia mia aquila lo ha
già sfrondato; - se non m'ingannava un mal genio, tu a
quest'ora saresti, o Francesco, uno scudiero nella mia corte
imperiale; - la mezza luna non tanto scintilla sublime nei cieli che
non valga a raggiungerla il volo della mia aquila: - leopardo
inglese, dacchè lasciasti comprarti le branche,
apparécchiati a darmi la tua corona in cambio de' miei
ducati; - e tu, san Pietro, sappi che la mia testa è capace
di portare ancora... la tiara... perchè no? Massimiliano
imperatore voleva farsi papa...»
«La morte! la morte!» gridò più alto il
pontefice negli orecchi all'imperatore.
«La morte! proruppe Carlo V, «che fa a me la morte? I
codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come
una corona di fiori. È meglio lasciare l'opera interrotta che
non incominciata... - I monumenti più grandi che il mondo
conosca si devono al pensiero della morte; - parlo delle Piramidi. -
La morte sta nelle mani di Dio, l'uso della vita in quelle
dell'uomo. - La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si
posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in
America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita,
non giungo ancora a trent'anni; e se in questo punto mi toccasse la
morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, - ai miei
nemici, - a voi stesso: - Parvi ch'io abbia ben sostenuta la mia
parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se
non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre,
bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme
dell'oblio. - Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli
uomini direbbero: - Meritava vivere di più. - Papa Clemente,
se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di
voi? - Egli è vissuto troppo poco, od è vissuto anche
troppo?»
«Ve lo dirò quando saremo morti», rispose il
pontefice, continuando a muovere le labbra in un cotal riso amaro
che ben dava a conoscere quanto lo avesse penetrato addentro cotesta
acerba puntura: «però fino da ora io mi dispongo a
lasciare novellare la gente; dove poi mutassi pensiero,
ordinerò, come Diogene, che mi pongano al fianco una verga.
Adesso vediamo di concludere, Carlo; - quando pure io possa
confidare in voi intorno al sopprimere la libertà di
Fiorenza, non devo del pari fidarmi in voi per ciò che spetta
lo ingrandimento della mia famiglia. Di ciò pertanto domando
guarentigia. Nicolò della Magna dovrebbe pure avervi fatto
motto di sponsali da contrarsi in facie Ecclesiæ tra madama
Margherita vostra figlia ed Alessandro duca di Civita di Penna: - ve
ne sareste per avventura dimenticato?...»
«Io non dimentico nulla, ma non li reputava condizione
necessaria per la pace: e se le mie preghiere trovano grazia al
vostro cospetto, vi supplico umilmente, Padre santo....»
«No, no, Maestà, avete mal creduto: ella è una
condizione sine qua non; - condizione senza la quale andrebbe
scomposta ogni cosa, andrebbe tutto in peggiore stato di
prima....»
«Ma perchè a cimentare la pace tra noi vogliamo imporre
un destino ad un cuore che palpita appena di vita? Le labbra di
nostra figlia non anche per elezione proferiscono il nome di padre,
e noi vorremo costringerla a pronunziare quello di marito come una
necessità? - Perchè le opere nostre, di qualunque
natura elle sieno, dovranno riuscire sempre a qualcheduno
dolenti?»
«Se la fanciulla non intende amore, più di leggeri
potrà inspirarglielo Alessandro mio: il cuore vergine, quando
prima si chiude al raggio della passione, ama il cielo, ama le
acque, le piante, e tutto ama.... Pensate or voi, Maestà, se
la vostra figlia si volgerà con affetto a giovane di cortese
sembiante il quale le starà attorno studiosamente con ogni
ossequioso ufficio dovuto al sesso, alla età, al grado di
lei! - E poi, Carlo, il mio sole tramonta, il vostro ascende nella
pienezza della sua luce; - la morte mi ha chiamato e la sua voce mi
ha commosso le viscere. Quando io tra poco giacerò cadavere,
chi prenderà cura della mia famiglia? Chi sosterrà la
sua causa? Se, vivo, appena potei difendere me stesso, non
dirò già da' vostri eserciti invitti, ma da un solo
principe romano, da un Pompeo Colonna, pensate se il mio nome, me
morto, potrà difendere altrui! Voi, Carlo, disegnate dominare
sul mondo; la vostra aquila intende, voltando, far il giro del
globo; il cielo ha una stella per voi, e, da quanto apparisce,
sembra questo universale dominio decretato dall'alto, dacchè
non valse fino ad ora argomento umano a deviarlo o impedirlo. Unite
dunque la vostra famiglia alla mia, ond'ella abbia riparo sotto le
grandi ale della gloriosa aquila vostra.
«Santo Padre, in che mai vi affidate? La ragione di stato non
conosce figliuoli. Il re non ha cuore; per ciò che riguarda
l'affetto, tanto è ch'ei palpiti vivo nella sua reggia, o
giacia scolpito di marmo sopra la sua tomba. Più fabbricate
in alto, e più correte pericolo di precipitosa rovina; -
più accostate il fragile edificio della potenza della vostra
famiglia alla mia aquila, e più vi sovrasta il caso che un
suo batter d'ala la cancelli dalla memoria degli uomini. Forse la
rondine, per costruire che fa il nido alle vôlte del Colosseo,
gliene partecipa la immobilità? Si leva la bufera, e il nido
va disperso nei turbini, mentre rimane immobile quell'eterno
edifizio.
«No, Carlo, non favellate così: io conosco il vostro
cuore meglio di voi stesso. Se la vostra figlia ha freddo, voi le
getterete addosso per coprirla un lembo del vostro manto imperiale;
s'ella avrà fame, dal vostro convito di popoli le manderete
una provincia per saziarla. Nessun padre della vostra famiglia fin
qui pose le mani nel sangue de' suoi figliuoli.»
«Ma un nepote le ha poste in quelle dello zio!»
esclamò l'imperatore traendo un sospiro, «e i tempi
futuri stanno chiusi nella mano di Dio.» Dipoi, simulando
risolversi con gran pena per quello a cui si era disposto molto
tempo avanti, soggiunse: «Si unisca la mia casa alla vostra, e
possa il presente trattato mantenersi indissolubile, come il
sacramento che statuiamo adesso tra i nostri figli...; - però
- mi è corsa una voce intorno a cotesto vostro duca di Civita
di Penna, e me lo hanno detto camuso, - di sembiante osceno, - rotto
ad ogni maniera di libidine... figlio di schiava africana...»
E qui, piegando la persona, susurra l'estreme parole nell'orecchio
del papa.
«Chi ve lo ha detto?» proruppe impetuosamente il
pontefice; «non lo credete! e' v'ingannano: egli è
buono, prudente e cortesissimo giovane, egli vi amerà come
padre... dopo Dio primo. Voi lo avrete, Maestà, ministro
pronto dei vostri voleri, figliuolo ossequentissimo e servitore.
Certo egli non si cura acconciarsi i capelli nè si mostra
pieno di smancerie o cascante di vezzi: le fogge aborre e i costumi
di cinedo: per lo contrario, valido di membra, non depone mai il
giaco; e di corpo prestante, non cede a nessuno negli esercizii che
si addicono a perfetto cavaliere...» E continuava tutto acceso
nel volto, con gesti sdegnosi, quando si accôrse che Carlo lo
fissava con tale uno sguardo indagatore e maligno ch'egli
temè essersi troppo lasciato scoprire. - Si rimase in tronco
pertanto senz'aggiungere altre parole.
«Io non avrei mai creduto che tanto vi stesse a cuore il
vostro nepote Alessandro, Beatissimo Padre», riprese Carlo con
ostentata ingenuità; «ma dacchè voi volete che
sia così, e così sia. A tempo debito Alessandro
condurrà in moglie la nostra figlia Margherita. In questo
modo vi piace? Rimane adesso null'altro da discutere e statuire tra
noi?»
Clemente, guardato prima con molta diligenza un taccuino che si
cavò dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:
«Più nulla.»
«A quando l'incoronamento?»
«I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo
e le forme col maestro del sacro palazzo.»
«Addio, dunque, Beatissimo Padre.»
«Anche un istante, dilettissimo figlio, anche un
istante», soggiunse Clemente accostandosi a Carlo V; e toltasi
dal collo una croce d'oro, ne alzò la lamina superiore, ed
esponendo scoperte le reliquie quivi dentro incastonate, riprese
così: «Quando gl'infedeli, che osano adesso insultando
minacciare la vostra Vienna imperiale, avevano tutti tremanti
sgombrato il sepolcro di Cristo, un principe di Gerusalemme, un
Lusignano, presentò alla Santa Sede questo frammento
preziosissimo del vero legno della croce dove moriva il nostro
divino Redentore. Se i giuramenti che vi si fanno sopra non si
mantengono, il cielo e la terra non accolgono più cosa sacra
che basti a vincolare gli uomini tra loro. Carlo, giuriamo su questo
legno bagnato del sangue di Gesù di conservare inalterabile
la pace statuita tra noi.»
«Santità», riprese l'imperatore commosso, ed
altrove volgendo la faccia allontanava con la destra la santa
reliquia, «non vogliamo, di grazia, porre la colpa traverso
una via ch'ella poi non c'impedirebbe percorrere quando la
necessità ne stringesse o l'utile ne invitasse: e inoltre noi
non saremo a condizione pari; imperciocchè voi teniate le
chiavi di san Pietro e con esse la potestà di legare e di
sciogliere, mentre io non troverei in veruna parte del mondo un
altro papa Clemente che me sciogliesse dal trattato di Bologna, come
voi scioglieste Francesco I di Francia dal trattato di Madrid. Non
giuriamo pertanto; facciamo meglio, industriamoci di mantenere
perenne l'utile che adesso troviamo nella scambievole unione. In
ogni caso io sono fermo di non giurare.»
Il pontefice turbato si tacque.
Carlo agita un campanello d'argento. Le porte della sala si aprono
strepitose, e quinci si vedono in due ale lunghissime disposti in
ginocchio da una parte gli ufficiali dell'imperatore, dall'altra del
papa, e in fondo, di faccia, un prelato in piedi con la triplice
croce, insegna della presenza del vicario di Cristo. Carlo medesimo
si prostrò davanti a Clemente e in atto di riverenza divota
supplicò:
«Beatissimo Padre, vogliate compartirci la vostra apostolica
benedizione.»
E il papa, sollevata la destra, susurrò la benedizione. Quali
pensieri gli si avvolgessero per la mente, Dio gli sa che li vide,
ma anche noi possiamo dichiarare che certamente non furono di amore.
Però dei circostanti taluno ne rimase intenerito fino alle
lagrime; - tal altro ne sorrise come di scena rappresentata
valentemente da attori famosi; - tutti poi si accordarono nel
credere che cotesti due potenti avessero trovato utile bastevole per
diventare amici.
E Carlo disparve; - le porte si chiusero, - Clemente si trovò
solo nella stanza. - Allora, declinato il capo sul camino,
meditò, - meditò per lunghissima ora: all'improvviso
si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l'imperatore
durante il colloquio:
«Carlo d'Austria!» cominciò a dire alzando il
dito e comprimendolo sopra l'angolo della tempia destra, «le
libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città
dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano
dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per
divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba.
La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della
tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno
di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il
tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per
ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei
venuto in capo al mondo per offrirtela; - pròstrati,
Maestà, umiliati, perchè mi tarda importi questa
corona sul capo; - io la circonderò di punte invisibili e
angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il
pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti
adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello
schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede
o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana!
Affrettati a prostrarti, Maestà: io m'innalzerò tanto,
quanto tu l'abbasserai; e allorchè, Maestà, avrai
baciato la polvere de' miei calzari, ti travaglierai indarno per
dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in
processo di tempo se vorrai abbattere l'idolo che tu stesso avrai
fatto grande, o non vi riuscirai, o rimarrai infranto sotto la
rovina di quello.»
«Chi siete? donde venite e dove andate?»
Con uno strido da uccellaccio notturno gridò certa squallida
figura, lanciandosi a guisa di gatto dal banco dei doganieri in
mezzo alla porta di Santo Stefano a Bologna ed afferrando per la
briglia il cavallo di un uomo che agli atti e alle vesti sembrava un
cavallaro.
Dov'egli non avesse profferito coteste parole, non lo avrebbero
reputato mai creatura umana. Siffatti sciagurati, se pure uscirono
di mano, alla natura, ciò avvenne per certo nell'ora del
crepuscolo, verso notte qual mal si discerne quello che si opera, e
le membra spossate non si reggono dalla fatica; colpa od errore del
quale ella meriterebbe riprensione, e lo dovrebbe riparare con un
ammenda onorevole.
Una testa, di sotto, di sopra, tutta tonda, colorita con la serie
infinita dei gialli e dei verdi che presentano le mal'erbe cresciute
per la superficie delle acque corrotte, e su le mascelle più
verdi a cagione della barba. La fronte poi, ingombra di capelli neri
ed irti; e quella fronte, larga quanto basta per improntarvi sopra
il marco dei falsarii. I suoi occhi, a vero dire, accennavano una
scaltrezza intensa, ma limitata entro angustissimo cerchio; -
scaltrezza da tagliaborse, da baratore di carte, e nulla più.
Una testa da incutere spavento, se non avesse mosso a riso, - da
mandarsi senza processo al patibolo, - o da presentarla a' fanciulli
per giuoco. Le spalle aguzze, la persona rigida e piegata in avanti,
le braccia aperte, quasi per equilibrare l'osceno edifizio del
corpo, e le mani stese, perpetuamente moventisi a quell'atto che fa
lo sparviere o uccello altro di rapina quando raspa per ghermire; -
forse la continua fissazione dell'anima, - se anima può dirsi
lo spirito che dentro cotesti enti rumina sempre malefizii ed
insidie - partecipava quel moto alle sue mani, imperciocchè
egli fosse una di quelle creature le quali in ogni tempo oscillano
tra la catena, il capestro e la lapidazione del popolo inferocito, -
disprezzate a un punto e abborrite, - capaci di vendere trenta
Cristi per un danaro solo; vergogna della specie alla quale
appartengono come un'ulcera al corpo umano; - qualche cosa
più di un carnefice, qualche cosa meno di un giudice; -
allora si chiamavano cancellieri criminali, - oggi commissarii,
delegati, arnesi insomma di polizia.
Il cavallaro, giovane e di membra validissime, stette alquanto in
forse di rispondergli, o balestrarlo venti passi lontano; pur
finalmente tra sdegnoso e beffardo, disse:
«Messere, siete voi del Cottaio o del paese del prete Gianni,
che non conoscete l'assisa del comune di Fiorenza? - O non vedete il
giglio roseo, insegna della nostra repubblica?»
«Che gigli e che non gigli? Io non so di gigli. - Dello stato
di Fiorenza non conosco nè approvo altra insegna che le palle
dei Medici.»
«Sapete voi, messere, come corre il proverbio al mio paese? Se
non ti piace, mi rincara il fitto.»
«Eh! se permettessero di fare a me, non vi lascerei nè
anche gli occhi per piangere, non che la bocca per
proverbiare...»
«Fate una cosa, messere: unite le vostre armi con quelle
dell'imperatore e moveteci la guerra...»
«Io vi farei paura...»
«E ve lo credo senza giuramento; paura da sconciare le donne
gravide...»
«Ch'è questo?» interruppe sopraggiungendo un
secondo cavallaro assai attempato e di sembianze più mansuete
del primo; «ch'è questo, messere?»
«Non si passa», risponde il cancelliere.
«Manco fatica, più sanità; e ce ne torneremo
addietro...
«Non si torna addietro.»
«Saremmo per avventura ritenuti prigionieri?»
«Così fosse!»
«Dunque?»
«Scendete, aprite, le valigie, perchè i gabellieri le
visitino.»
«Deh! che mal'ora scegliete a burlare, messere! lasciatene
andare per la nostra via, chè siamo della famiglia dei
magnifici ambasciatori spediti dalla Signoria di Fiorenza al sommo
pontefice.»
«Egli è bene per questo ch'io vi debbo frugare.»
«Ma a voi, che mi parete uomo di lettere, non dovrebbe essere
mestieri insegnare come presso tutti i potentati della terra, il
Turco inclusive, gli ambasciatori e le famiglie loro godono
franchigia di dazii e gabelle.»
«Sua Santità in casa sua ha promulgato una legge
diversa...»
«Non sono leggi queste che ogni principe promulga a suo senno.
Io sono vecchio del mestiere; ho accompagnato ambasciatori
all'imperatore, al Cristianissimo, ai Viniziani, ai pontefici, a
questo stesso papa Chimenti, e nessuno fin qui mancò di
praticare l'antica usanza della franchigia.»
«Cominceremo ora.»
«Se voi siete ad ogni modo fermo del vostro proposto, a noi,
come fanti, non appartiene conoscere che cosa sia conveniente a
farsi. I magnifici ambasciatori ci stanno dietro il piccolo cammino;
noi andremo per essi, e...»
«Non potete tornare indietro.»
«Aspetteremo.» E la voce del vecchio cominciava a
infiochirsi per ira, il volto a divampargli il fuoco.
«A me tarda adempìre l'obbligo mio; non posso mettere
indugi tra mezzo, bisogna che vi lasciate frugare, e subito, - e per
forza.»
«Va, torna dal tuo signore e digli che se l'ordine ti commise
e la insolenza per significarlo, dimenticò poi darti la forza
per eseguirlo.»
Queste parole proferì il giovine cavallaro Bindo di Marco
Berardi, soprannominato il Gorzerino, e al punto stesso forte
percosse con la mano aperta sul petto al cancelliere, ed
abbrancatoglielo quanto era largo, lo sollevò da terra, e con
quel vigore che la natura aveva posto nel suo braccio, e che l'ira
accrebbe, lo lanciò impetuosamente lontano da sè.
Descrisse il cancelliere una curva per l'aria volando, e toccata
ch'ebbe con i piè la terra, prese a muoverli celerissimi uno
dietro l'altro correndo all'indietro, finchè, perduto
l'equilibrio, a braccia stese e a gambe levate casca supino nel
fango della via. La zimarra nera ripiegandosi gli si avviluppa sul
capo; ond'egli quanto più si sforza tôrsi d'impaccio,
tanto più vi s'intrica e le vesti curiali di mota e
d'immondezza contamina. Amici e nemici prorompono in altissime risa.
Pur finalmente si sbrogliò costui; scomposti i capelli,
livido, tremante di rabbia, lanciò attorno uno sguardo, donde
parve scaturire un getto di veleno.
«Ridete eh?» prese a balbettare fissando i gabellieri.
«Si tolga il demonio l'anima mia, se io non vi faccio gli
uomini più dolenti del mondo. Vedremo un po' se riderete
quando mastro Spedito vi acconcerà la corda attorno al
collo.»
Quindi la persona volge per parte, mentre tuttavia mantiene il volto
di faccia; guarda in un lato, mentre co' piè s'indirizza in
un altro, siccome fanno le nottole allorchè volano per le
tenebre dei cieli, e con voce baldanzosa continua a gridare:
«Fuori, sergente Montauto, arrestateli, - legateli, - menateli
in prigione...»
E in meno che non si dice un amen una torma di uomini armati
comparve, come se fosse piovuta dai nuvoli o scaturita dalla terra.
Bindo di Marco, staccatasi prestamente la daga dal fianco, la trasse
fuori e, il fodero gettato per terra, esclama:
«Fo voto a Dio che chiunque di tanto è ardito da
muovere un passo oltre quel fodero, lo stendo morto ai miei
piedi.»
E fieramente turbato si pone in atto da eseguire la minaccia.
«Ah! per questa volta monna Lessandra non rivedrà
più la faccia del suo marito, nè la Dianora bella la
faccia di suo padre», susurrò sommesso il vecchio
cavallaro passandosi una mano sopra la fronte.
Intanto il sergente Montauto, senza punto badare alle parole di
Bindo, calatasi giù dalle spalle una partigiana, la spinse
contra il fianco destro del giovane; e già stava per ferirlo,
e lo avrebbe ucciso di certo, se il compagno, lo soccorrendo in buon
punto, non avesse con un colpo di daga tagliato meglio che un palmo
dell'asta della partigiana; e subito dopo con quanta aveva di voce
nella gola gridava:
«Che modi sono eglino questi, messere sergente? Dove avete
appreso la milizia? Da quando in qua si è inteso dire che
venti uomini armati di partigiane non adontino assalire due uomini
armati soltanto di daga?»
E Bindo inferocito nel medesimo tempo anche più forte
gridava:
«Marrani! poltroni! venite oltre, che Dio vi mandi il mal
giorno e il mal anno; - vi mostrerò ben io che le vostre
partigiane sono di paglia.»
«O Bindo, per la testa di san Giovanni Battista! manda cotesta
lingua al beccaio, se ami riportare le tue ossa a casa...»
«Berrovieri del papa! Scherani usciti da bastonare i
pesci...»
«Deh! Bindo, ci ammazzeranno qui come cani, nè tu
potrai difendere la diletta tua patria...»
E Bindo, fatto senno, alle ultime parole si tacque...
Il cancelliere, salito di nuovo sul banco dei doganieri, non cessava
un istante dal replicare:
«Ammazza, ammazza!»
Il sergente Montauto, un poco atterrito dal colpo del vecchio, un
poco trattenuto per la vergogna, non ardiva di stringere da
più vicino i cavallari.
In questo, il popolo si spingeva, si urtava, si affollava, a mano a
mano spazio maggiore di terreno occupava, come il serpente tocco dal
calore del sole distende le terribili spire e striscia maestoso pei
campi; - curioso, anelante domandava chi fossero - a che
venissero - perchè gli molestassero.
Fra mezzo al popolo si erano intanto insinuati gli oscuri agenti del
governo sospettoso, spie, sbirri ed uomini altri siffatti, pessimi
vermi di società putrefatta; e ad ogni domanda rispondevano
un inganno, ad ogni fatto apparecchiavano una insidia, i più
clamorosi notavano ed attendevano il destro di legarli e condurli al
bargello.
Il popolo deluso gridava: «Dalli! dalli! che sono
contrabbandieri; - vennero ad appiccare i cedoloni in
vituperio di Sua Beatitudine e di Sua Maestà cesarea; - hanno
portato veleno per attossicare il papa, l'imperatore e i baroni;
dentro le costoro valigie c'è il fuoco infernale, c'è
la scomunica;» e infamie altre cotali.
Ma la ragione all'improvviso balenando sull'anima del popolo, gli
dimostra apertamente la frode: - I contrabbandieri non si accostano
di bel giorno alle dogane; il veleno non è cosa da portarsi
in valigie: - il fuoco nemmeno; nè si scomunica il papa; - e
allora vergognando taceva.
Per somma infelicità di questa nostra umana natura, la
ragione, illuminando l'anima del popolo a modo di baleno, dura poco,
sicchè presto ricade nel buio della ignoranza e nel furore,
miserabili malattie, e non le sole nè le più turpi, le
quali con dolcezza infinita de' suoi oppressori lo tengono del
continuo travagliato; onde di nuovo più fieramente che mai il
popolo prorompeva: «Giù le valigie! Aprite le valigie!
Vogliamo vedere quello che sta chiuso nelle valigie! Le valigie! le
valigie!»
E negl'intervalli la voce del cancelliere, come lo strido
dell'uccello dal sinistro augurio, ripeteva: «Ammazza!
ammazza!»
I cavallari, fermi nel proposito di non si lasciare manomettere, se
ne stavano apparecchiati a morire non senza vendetta.
Il Montauto, dall'universale consenso del popolo imbaldanzito,
usciva dalla sua prima esitanza e comandava ai soldati abbassassero
le partigiane e quei due ostinati investissero.
Sangue italiano sta per versarsi e da mani italiane sopra terra
italiana.
«Gli ambasciatori!»
Udita appena questa voce, il popolo, secondo il suo costume, si
volge ai nuovi venuti, come a personaggi sopraggiunti in buon tempo
a rendere più complicato il dramma. I soldati sospendono
l'assalto; rimangono tutti ansiosamente aspettando ciò che
stava per nascere.
Ed in vero onorevoli di fanti e palafreni i magnifici ambasciatori
della Repubblica Fiorentina si accostano; - vestiti di lucchi di
panno vermiglio, co' cappucci di colore più cupo e i lunghi
becchetti avviluppati intorno al collo in molto maestosa maniera; -
uomini di grave sembianze, contegnosi e severi, siccome conveniva a
cittadini di città libera, usi a obbedire alla legge soltanto
e da loro stessi proposta ed approvata.
E poi gli seguitava una bellissima accompagnatura di giovani, i
quali per vaghezza di vedere la incoronazione dell'imperatore quivi
erano tratti e per godersi delle feste; imperciocchè le
pubbliche calamità, invece di trattenere gli uomini da simili
passatempi, gli rendano anzi molto più vogliosi di prima, al
naturale talento aggiungendosi il bisogno di sollevare l'animo dai
presenti fastidii.
Si aperse spontanea l'onda del popolo, accolse dentro di sè i
sopravvenuti, e loro si richiuse fragorosa di dietro.
Procedendo di alquanto spazio, prima degli altri, un ambasciatore,
che sembrava il meglio autorevole, fissò di uno sguardo bieco
i cavallari e, senza nessuna cosa domandare, senza nessuna risposta
attendere, comandò:
«Riponete le daghe.»
E poi rivolgendosi al Montauto riprese:
«Soldato, perchè assalite la nostra famiglia?»
«Magnifico ed onorando signore, io non lo so...»
«E senza saperne la cagione voi eravate sul punto di spengere
due uomini... due cristiani!...»
«In verità, magnifico messere, noi altri soldati
facciamo sempre così. Per ammazzare gente non fa punto al
caso saperne le ragioni e le cagioni. Se a voi piace conoscere
più oltre, domandatene qui al mastro doganiere...»
«Che mastro o che non mastro!» interruppe il
cancelliere, il quale, nel considerare come verun conto si facesse
di lui, tutto si scontorceva di rabbia. «Io ho dato l'ordine,
ed io intendo ch'e' venga eseguito subito. - Subito frugateli, vi
comando...»
Ma il popolo, che aveva preso un tal quale diletto alle parole del
personaggio, percosso ancora da certo ribrezzo per cotesto suo
strido increscioso, rammentò le sevizie del cancelliere uso a
infierire contro di lui; e prevalendosi della occasione di
spaventare chi tanto spesso lo empiva di terrore, voltò
l'immenso suo capo, terribile per mille occhi, - per mille bocche, -
e lo interruppe a sua posta urlando:
«Sta cheto, ribaldo!»
E il cancelliere, umiliato, dimise lo sguardo, si morse lo labbra,
sospirò: - ma quando rialzando gli occhi gli venne
fatto vedere da lontano disegnarsi nell'orizzonte la cima delle
forche, si fregò le mani e susurrò commosso, come il
devoto che recita il responsorio al suo santo avvocato:
«Là ti aspetto!» - e si tacque.
«Mastro, vorreste o sapreste voi dirmi la cagione di questo
trambusto?» continua, appena gliene fu dato luogo,
l'ambasciatore volgendo la favella al doganiere.
«Magnifico ed onorando messere, Sua Santità il sommo
pontefice ci ha fatto, non è molto, significare il comando di
sostenervi e guardarvi diligentemente nelle valigie: i vostri
cavallari si sono opposti armata mano, e ser Manetta cancelliere del
podestà ha chiamato la milizia per costringerli a
forza.»
«Guardare nelle nostre valigie! Ciò è fuori di
ogni consueto e contro la convenienza. Ci credete voi forse
frodatori di gabelle?»
«Io vi ho in pregio di persona onorata e dabbene; ma voi
intendete, messere, che noi siamo servitori, e ci tocca obbedire
alle voglie del padrone.»
«Orsù, vediamo se troverò io il modo di
acconciare questa bisogna. Immaginate pure le nostre valigie piene
di mercanzia gravata di gabella qual volete maggiore; io vi
pagherò il dazio a prezzo di tariffa.»
«È giusto!» il popolo interrompeva,
«è giusto!»
Allora le spie raddoppiavano gli sforzi e incitavano ora questo ora
quello: «No, vogliam vedere; qui dentro gatta ci cova. - Ve lo
aveva assicurato pur dianzi che portano veleno, e voi non la
volevate capire: - vedete come s'ingegnano a non mostrare le valigie
e non sine quare, - ci hanno il veleno, il veleno...»
E il povero popolo traviato urlava di nuovo: «Vogliamo vedere!
vogliamo vedere! Ci hanno dentro il veleno.»
L'ambasciatore fiorentino, turbato da cotesto schiamazzo, sciolse
con atti sdegnosi la sua valigia dalle groppe del palafreno e, la
gettando ai piedi del doganiere, sclamò:
«Guardate!»
Il popolo urtandosi, in punta di piedi, l'uno con le mani su le
spalle dell'altro, tutto occhi, tutto orecchi, a collo teso, a bocca
aperta, stette a vedere che cosa contenesse la valigia
dell'ambasciatore.
Il doganiere vi stese sopra le mani, e profferite che ebbe
così presto presto, come per uso, le parole:
«Mi duole recarvi dispiacere», scioglie le fibbie e ne
trae fuori:
«Un lucco di panno vermiglio!»
E il popolo:
«Povere vesti sono coteste! I baroni spagnuoli e tedeschi le
costumano d'oro e di seta.»
E un vecchio del popolo:
«Ma e' se le fanno co' nostri danari.»
«Due farsetti di rascia cremesina e un cappuccio.»
E il popolo:
«I baroni li portano di velluto e di broccato, con belle piume
e fermagli o medaglie che costano un tesoro.»
E il vecchio:
«Sì, un tesoro, ma a noi: - ai baroni la violenza per
rubarlo.»
«Una borsa piena di fiorini!»
E il popolo:
«Oh!»
E il vecchio Petronio:
«Nei fornimenti dei baroni spagnuolì e tedeschi bene
avreste trovato la borsa, - ma vuota per riempirla de' tuoi ducati,
popolo bestia che sei.»
«Ha ragione Petronio! Viva il vecchio Petronio! Viva!»
Continua la visita del primo ambasciatore: poi vennero con eguale
diligenza frugati gli altri e la famiglia loro e l'accompagnatura,
nella quale si trovò Benedetto Varchi scrittore della storia
dei tempi presenti. Rimaneva di tanti un uomo solo, Guglielmo
Rucellai, il quale anch'esso aveva seguitato gli ambasciatori per
godersi le feste della incoronazione, giovine di piacevolissima
natura e compagnevole se altri fu mai, grande amico del buon vino
quando ne trovava, accomodandosi anche al tristo se non riusciva a
scavarlo migliore: e la sera precedente alla osteria tanto ne aveva
bevuto alla salute della libertà, tanto alla salute della
patria, del Marzocco, della Signora, del Giglio, eccetera, come
dicono i notari, che alla fine fu forza prenderlo in quattro e
gettarlo sul letto. - Ora ei se ne stava intronato dalla ebbrezza
non bene svanita, nè aveva potuto comprendere ancora la
cagione di quel rovinio, quando il doganiere lo scosse dicendogli:
«A voi, messere!»
«Oh che c'è egli?»
«La valigia!»
«Basta che mi lasciate la vita, - per la valigia... o ne
faremo un'altra, o ne faremo a meno...»
Il doganiere apre, fruga, e:
«Ch'è questo? - Un rocchetto!... due... dieci! - Al
frodo! al frodo! Il messere ha la valigia piena di rocchetti di oro
filato e tirato...»
«Davvero!» sclama il Rucellai fregandosi gli occhi:
«o chi diacine ce gli abbia messi!»
Luigi Soderini ambasciatore percosse la spalla a messere Andreuolo
Niccolini altro ambasciatore, e gli disse:
«Questo è il caso della coppa nel sacco di
Beniamino.»
E messere Andreuolo a lui di rimando:
«Certo sì, non però con la intenzione di
Giuseppe.»
Ma il popolo ingannato, senza por mente che lieve sarebbe stata la
gabella frodata, e che non potevano supporsi capaci personaggi di
ogni bene della fortuna largamente forniti di siffatta bassezza,
proruppe:
«Oh! vedi, ve' i dabbeni ambasciatori; - e' vennero a frodare
la gabella al papa! Alla riviera i contrabbandieri! alla
riviera!»
E qui seguivano schiamazzi, scherni e voci disoneste.
Il capo, che sembrava, dell'ambasceria fu visto impallidire: subito
gli si accesero le guance, impose con la destra silenzio al popolo,
con la manca si tolse in atto sdegnoso il cappuccio. - E quel suo
volto comparve venerabile alle turbe: - invero malinconico, pieno di
dignità, - forse anche di grandezza. Dove poi si considerasse
sottilmente, piuttosto che manifestazione presente, accennava una
memoria di grandezza; tipo generoso in origine, tralignato quindi
per tempo o per avvicendare di generazioni; - pareva un getto
ricavato da forme sublimi, ma per uso consunto. - La fiamma del
genio guizzò intorno a cotesta fronte, a guisa del fuoco
fatuo sull'orlo dei sepolcri, - non vi posò, come lo Spirito
sul capo degli apostoli nel giorno della Pentecoste. Il popolo, il
quale non sa tanto addentro discernere, rimase percosso dalla nobile
sembianza.
Egli, spingendo oltre il palafreno, ad alta voce esclamò:
«Chiunque di voi nacque italiano saprà chi fosse Pietro
Capponi! Ora chi fra voi vorrà credere che io suo legittimo
figliuolo, io Nicolò Capponi venga a frodare la gabella a un
papa dei Medici?»
Per avventura il Montauto, tra le bande della Repubblica Fiorentina
militando, non solo aveva conosciuto l'illustre cittadino Pietro
Capponi, ma essendo a campo seco lui sotto il castello di Soiana, lo
sorresse ferito a morte nelle sue braccia; onde a quel suono adesso
sentì commuoversi le viscere, e tocco da reverenza e da
stupore si trasse indietro chinando la persona. I soldati, imitando
quel moto, si scostano anch'essi: e agli ambasciatori fu fatta
abilità di procedere liberamente per la via.
Il popolo, mutando subito affetto e costume, innalza al cielo chi
volle gettare alla riviera poc'anzi, e grida:
«Viva Pietro Capponi! Viva Fiorenza!»
I quali applausi crebbero poi all'infinito quando Nicolò
Capponi e suoi compagni, messa mano alla borsa, gli gettarono dei
pugni di fiorini: - non ebbero finalmente più modo
allorchè, scavalcati alla prima chiesa che loro si offerse
davanti, gli ambasciatori molto devotamente si recarono a
ringraziare Dio del trascorso pericolo, e fatto chiamare a sè
il rettore, gli consegnavano certa somma di danari affinchè
provvedesse di convenevole dote due delle più povere
fanciulle della cura.
NOTE.
(a) Filippo il Bello, mercè l'opera e i consigli di Musciatto
Francesi cavaliere fiorentino e di Sciarra Colonna barone romano,
prese Bonifazio VIII papa in Alagna. Invano questo pontefice
vestì gli abiti sacerdotali, si pose maestosamente a sedere
sul trono; ch'ebbe a soffrire i più crudeli oltraggi. Sciarra
con la mano coperta dal guanto di ferro lo percosse sul volto. -
Onde l'Alighieri esponendo quel caso scriveva:
Perchè men paia il mal futuro e il fatto,
Veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
E nel Vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso,
Veggio rinnovellar l'aceto e il fiele,
E tra vivi ladroni esser anciso.
Purg., canto XX.
Il popolo di Alagna, che prima aveva tenuto mano alla sua
cattività, lo liberò il terzo giorno: nondimeno fu
tanto lo sdegno concepito che fra brevi giorni morì come
arrabbiato, e fu adempita la profezia di Celestino, il quale disse
ch'egli entrerebbe nel pontificato come una volpe, vivrebbe come un
lione e morrebbe come un cane. Villani, Stor., c. 8.
(b) Alessandro de' Medici, scrive Lorenzino dei Medici, fu figlio di
Lorenzo duca d'Urbino e della moglie di un vetturale nativa di Colle
Vecchio, serva nata in casa dei Medici: aggiunge che Alessandro la
fece avvelenare perchè i fuorusciti disegnavano torla da
casa, dove lavorava la terra, per menarla a Napoli e mostrarla
all'imperatore, onde vedesse da chi fosse nato colui il quale ei
comportava che comandasse Fiorenza (vedi Apologia di Lorenzino de'
Medici). Scipione Ammirato, Stor., lib, X, dice di avere ricavato da
Cosimo I che Alessandro era figlio di Clemente VII e di una schiava
africana. - Il suo colore oscuro, aggiunge il Boscone nella Vita di
Lorenzo il Magnifico, tomo IV, i capelli ricciuti, le labbra tumide
accrescono probabilità al racconto per parte della madre; e
per quella del padre la predilezione che questi (cioè papa
Clemente) gli ebbe sopra il cardinale Ippolito.
CAPITOLO QUARTO
LA INCORONAZIONE
Giunta l'aquila al nido ond'ella uscio,
Possiate dir, vinta la terra e l'onde:
Signor, quant'il Sol vede è vostro e mio.
Annibal Caro, Sonetto a Carlo V.
Voi lo vedete! I potenti della terra si cingono una corona di punte
per avvertire i popoli ch'eglino intendono lacerare e ferire. Alcuni
di loro, non so bene se io mi dica meno perfidi o più cauti,
cuoprirono ipocritamente queste punte: chi con perle, come i conti;
chi con gigli, come i re; chi con fronde di alloro, come
gl'imperatori; ed altri con altro. Però badate, per andare
coperte, le punte non cambiano natura; la tigre ha facoltà di
rendere la sua branca gentile quanto la mano della vergine. Ma se un
giorno le punte, volgendosi nella testa di quale cinge corona,
restituissero a costoro il male che fecero altrui, se condizione di
chi anela portarla fosse averne le punte confitte nel cranio;
credete voi che si troverebbe per uno il quale volesse sostenere la
corona appartenergli per diritto divino? E non pertanto, se a
siffatti martirii non fossero serbati dalla eterna giustizia i
tormentatori dei popoli, gli uomini lancerebbero contro il
firmamento tale un grido che farebbe impallidire le stelle, tremare
gli angioli nei loro sogli dorati, sospendere la ineffabile armonia
delle sfere... gli uomini urlerebbero: - Il Creatore è
tiranno!
Io per me penso esistere nel mondo enti di così strana natura
i quali invidiano il trono a Lucifero, quantunque di fuoco, i quali
con animo lieto stringerebbero a scettro anche uno stinco della
propria madre; e perchè no? Fu ambito il regno dove i
principi si cingevano le tempie con la corona di spine, e i
discendenti di Goffredo Buglione non abbandonarono Gerusalemme se
prima non vennero cacciati dalla lancia ottomana.
Corona di ferro! poichè, a guisa di Olla ed Oliba, le infami
meretrici vedute dal profeta Ezechiello, ti lasciasti stuprare da
contatto straniero, possi un giorno, priva di gemme sozza di fango,
essere adattata per collare al collo di uno schiavo! - Tu sei stata
infedele ai capi italiani, tu hai volato di capo in capo, come
femmina rotta alla libidine insanisce negli abbracciamenti
vituperosi; tu ti sei data a chi ti ha voluto prendere...
Però, quando i popoli italiani risorgeranno alla vita di
gloria, nessuno vorrà del tuo ferro per fabbricarsene un
pugnale, tutti rifiuteranno il tuo oro per comporsene l'elsa della
spada.
Ah sacerdoti! - E voi che la prometteste allo straniero, e voi che
faceste innanzi all'occhio di lui coruscare il lume delle sue gemme
come un sorriso di donna lusinghiera, e voi che gliela poneste sul
capo nel modo che altri spingerebbe la femmina comprata nel talamo
lascivo... come vi chiamerete voi? La mia favella ha un nome per
voi, ma le labbra non osano profferire l'oltraggio che avete le
mille volte meritato.
Da Desiderio perduta, voi la donaste a Carlomagno francese, poi agli
Ottoni alemanni, poi a Bavari, poi a casa Lucemburgo, poi a casa
Hohenstauffen; quindi la profferiste agl'Inglesi, di nuovo a
Francesi, poi a casa di Habsburg; poco prima se la contesero
Francesco di Francia e Carlo di Spagna: - Federico di Sassonia la
ricusò, e tu adesso aneli, o Carlo di Gand, un diadema che
altri raccolse un momento e subito dopo gittò via come cosa
indegna di occupare il suo pensiero. Egli ebbe dai posteri il nome
di sapiente, - per te quello di stolto è troppo poco.
E la stella della tua casa ricambiò con le gemme di cotesta
corona un saluto di luce per un tempo assai lungo; poi la fortuna
stese la mano e disse: Basta.
Comparve nel cielo un'altra stella che vinse la tua; venne sulla
terra un Fatale destinato a far l'ultima prova se la tirannide
potesse durare tra gli uomini splendida di gloria e di potenza, con
l'ale del genio incerate alle spalle; - la tirannide di Napoleone: -
i popoli hanno diruta la terra dagli artigli della sua aquila
vittoriosa; quale altra tirannide può adesso aver vita nel
mondo? Se il leone non ha potuto regnare, domineranno i lupi? Egli
cacciò le mani nelle chiome agli antichi tiranni e tolse a un
punto il sonno dagli occhi e la corona dalle teste di loro. - Oh!
com'è miserabile cosa un re senza corona! lo sarebbe meno
senza senno: - in questo modo moverebbe la nostra compassione, - in
quell'altro eccita il nostro riso: egli tolse loro le corone e le
gettò dai balconi della sua reggia ai parenti, ai compagni
della sua fortuna, in quella guisa che un cavaliere novello sparge
pugni di monete alla plebe in segno di larghezza.
Te poi, o corona di ferro, non volle donare il Fatale, e
chiamò il sacerdote a imporgliela sul capo. Il sacerdote si
mosse a dargliela, imperciocchè egli potesse prendersela: ma
quando si accostò all'altare, e il sacerdote
incominciò le sue preghiere, egli impaziente vi stese le mani
poderose e da sè stesso se ne cinse le tempie; allora il
sacerdozio ebbe uno sfregio nella faccia il quale ormai non varranno
a coprire nè benda di tiara, nè lembo di manto
pontificio, sfregio che sembra una sentenza di morte incisa con
ferro rovente sopra la carne: e tu saresti già morto, o
sacerdozio, se alzando un grido di terrore altri non veniva a
soccorrerti. Qual soccorso però! Per impedire la tua caduta,
essi ti hanno posto ai fianchi due lancie per puntelli. - Ora che
cosa hai tu fatto? Ti sei procurato una lunga e dolorosa agonia; tu
hai voluto funestare le genti con lo spettacolo schifoso della tua
decrepitezza.
Ma se il sacerdote, quando il Guerriero fatale oltraggiò
l'altare, avesse avuto il convincimento del sublime suo ufficio;
dove bene avesse sentito sè essere vicario di Dio in questa
terra, gli avrebbe rivolta la corona rapita e, la rompendo sopra i
gradini dell'altare, avrebbe detto: - ecco io la spezzo,
perchè tu la cingi alla tirannide dei popoli; - umiliati,
pugno di polvere, davanti al Dio che cancella le intere generazioni
col cenno del sopracciglio che solleva alitando un turbine di mondi;
- e dov'egli ti avesse resistito, tu avresti levata al cielo la
destra, e Dio l'avrebbe armata de' suoi fulmini.
Adesso il cielo la ridonò alla tua casa, Carlo di Gand, - ma
per quanto? - Poichè nel libro del destino non è
concesso penetrare come nel libro della speranza, io abbandono il
presente e il futuro, e ritorno nel tempo passato.
Già ve l'ho detto: un giorno si apparecchia negli anni che
Carlo vorrà liberarsi il capo da cotesto dolore di corona; -
ora l'anelito dell'amante che per la prima volta aspetta la faccia
desiata della sua donna è troppo poca passione per
paragonarla a quella che agita Carlo.
Contemplatelo nella sala del suo palazzo: corre più che non
cammina da un lato all'altro, facendo sibilare per l'aria
violentemente commossa la veste grave di oro tessuto e di gemme;
talvolta si ferma davanti uno specchio di argento, e la mano ponendo
sopra le chiome sospira: «Oh! quanto mi tarda averle
coronate... Ferdinando mi aspetta; Lutero e Maometto minacciano la
mia stella...» E all'improvviso volgendosi verso un cavaliere
il quale presso al balcone con un telescopio alla mano pareva
speculasse il firmamento, gridava: «Or dunque, Cornelio, il
tempo buono viene o non viene?»
«Divo Cesare, non è venuto.»
E Carlo riprendeva a passeggiare agitato e mormorava: «Che
questo sia il giorno più fausto della mia vita non può
revocarsi in dubbio: in questo nacqui... in questo vinsi a Pavia...
in questo prenderò la corona reale e imperiale. Apostolo san
Matteo, tra tutti i santi del paradiso un buon consiglio concepisti
davvero quando prendesti a proteggere l'augusta mia vita... Tosto
ch'io abbia danari, ti farò cesellare un altare e sei
candelabri d'oro...» E così continuava.
Cornelio Enrico Agrippa esercitava presso di Carlo l'ufficio di
astrologo ed era anco medico e giureconsulto in utroque iure,
facoltà le quali possono, anzi dovrebbero, andare unite
insieme; ed egli ora lo aveva caro, ora lo rampognava e scherniva:
ma l'astrologo, il quale troppo bene sapeva prendere il destro, nei
giorni di favore gli estorceva in sì gran copia
dignità e danari da consolarsi negli altri dell'oblio; e i
modi di lui verso il suo reale padrone sentivano a un punto dello
schiavo e del tiranno: se ruggiva il leone, ed egli blando, di
parole carezzevoli, curvo col dorso; se invece esitava, ed egli
superbo, rigido di persona, con la voce tonante. Non vestiva
già zimarra bruna, nè intorno ai fianchi stringeva una
cintura rabescata con i segni dello zodiaco, squallida la barba, in
capelli scomposti, come gli altri suoi fratelli: al contrario,
abbigliate le membra di bei drappi di seta alla foggia di Spagna,
col collarino bianchissimo, arme e croce da cavaliere; a vedersi
leggiadro. L'età sua o giungeva appena ai quarant'anni, o di
poco li passava; di sembianze argute, di colore ulivigno, i capelli
lucidi e neri, gli occhi più neri e del continuo agitati, le
labbra tumide e accese, tremanti in perpetuo sorriso, il quale di
leggieri si convertiva in sghignazzio, ed allora gli si scoprivano i
denti e gran parte delle gengive, - siccome avviene a tutti gli
animali che appartengono alla specie delle scimmie, quando loro
accada di schiudere la bocca.
Tale fu Cornelio Agrippa; e, di natura maligno, si compiaceva adesso
di fare scontare a Carlo con le torture dell'ambizione il disprezzo
di cui lo avviliva sovente. Appena nell'inquieto suo moto
l'imperatore gli volta le spalle, egli staccando l'occhio dal
telescopio guarda dietro il divo Cesare e crollando il capo dice:
«Povera creta!»
«Cornelio, fa che si operi presto la congiunzione dei
pianeti», proruppe Carlo percotendo dei piedi il pavimento.
«Sacra Maestà, io contemplo, non muovo le sfere.
Però l'ora si avvicina: i miei occhi sono abbagliati
dall'osservare lo splendore della vostra stella; io non ne posso
più sull'anima del mio cane figliuolo.»
«Non bestemmiare, marrano, o io ti consegno mani e piedi
legati al papa nostro signore.... Perchè deponi il
telescopio? Vien' qua, non temere, mio buon Cornelio; torna a
guardare.... esamina bene... nota la congiunzione, la casa e il
sembiante dei pianeti...»
«O Zoroastro glorioso!» rispose l'Agrippa lasciandosi
andare sopra una sedia a braccia aperte, «oh come ho io a
fare? Voi mi volete cieco ad ogni modo.»
«Cavaliere Agrippa, accettate di presente questi cento ducati
per comperarvi del taffetà verde da asciugarvi gli occhi, -
fin qui noi siamo imperatore eletto soltanto; domani, diventati
imperatore consacrato, avrete dono imperiale.»
«Meglio è perdere la luce nel contemplare la vostra
stella che acquistarla nel guardarne alcun'altra... Io mi ripongo
all'opera.»
«Cornelio, dimmi, ma dov'è questa stella che tu affermi
mia? Io ci credo senza averla mai veduta...»
«E che importa vedere per aver fede? Dio vedeste voi
mai?»
«Non lo vidi, sibbene lo sento.»
«E gl'influssi della stella non sentite voi? Chi vi fece
eleggere imperatore dei Romani a preferenza del Cristianissimo? Chi
rese le armi vostre fortunate? Chi vi mena davanti a un pontefice
umiliato?»
«Ma mostrami la stella: io voglio vederla...»
«Accostatevi, Maestà, guardate dietro la direzione del
mio indice, sopra la croce del campanile di San Francesco; alzate
gli occhi, piegateli a destra in quella plaga del cielo...»
«Non vedo... non vedo nulla.»
«Aguzzate lo sguardo.... tendete, stringete forte le
ciglia.... colà.... la vedete voi?»
«Ahimè!» esclamò Carlo con ambo le mani
cuoprendosi gli occhi, «io vedo... ho sentito il dolore di
mille spade che mi pungessero le pupille, - un milione di atomi
luminosi, una vertigine di fuoco....»
«Or dunque pensate, se io possa o no sostenere il lume della
vostra stella....»
«Non importa... guarda... non istancarti di contemplare; io ti
darò una duchea... un principato... ma guarda.» E
tuttavia le mani soprapponendo agli occhi tornò a camminare
di su e di giù per l'aula reale.
«Cornelio Agrippa, fissandolo dietro e con quelle sue labbra
aperte malignamente sorridendo, mormorò: «Vedi, ve' che
teste da portar corona! Un'accensione di sangue cagionata dallo
sforzo degli organi visivi egli scambiava in splendore di stelle....
ah!»
«Agrippa!» esclama Carlo, calmata che fu la doglia delle
sue pupille, «io voglio anche una volta veder la mia stella. -
Additamela; io voglio...»
«Silenzio! Ecco, la mirifica congiunzione succede; - adesso si
opera il portento dei cieli; il cielo della stella austriaca
è compito: dapprima lambiva rasentando Saturno...
apportatore, per essere frigido e uliginoso, d'infermità
corporee, come chiragra, podagra ed idropisia...»
Qui Carlo trasse un gemito, perocchè una crudele podagra
spesso lo tormentasse e gli facesse risovvenire che apparteneva
anch'egli alla terra.
«Possano i re non avere mai col mondo vincolo meno doloroso di
questo», diceva in cuor suo l'astrologo maligno; quindi a voce
alta continuava: «e poco dopo si spiccò dal pianeta di
Saturno, e a modo di ninfa che corre co' capelli sparsi lungo la
riviera, trapassò gran parte di cielo spandendo lontano il
fulgore de' suoi raggi; si fermò alquanto nella casa di
Marte, il quale l'accolse nella guisa che si ricevono gli ospiti
augusti; quinci si rimosse tendendo alla stella di Giove,
l'aggiunse, si ricambiarono un bacio di luce; ed ecco quella parte
del firmamento ormai apparirà più chiara agli occhi
mortali pei due astri fratelli. - O Cesare augusto, divo,
fortunatissimo, concedi ch'io primo mi prostri ai tuoi piedi. Dopo
Dio chi più potente di te? Il mio cuore, come tazza di
soverchio piena, non può contenere la sua gioia; i miei occhi
sono costretti a piangere lagrime dolcissime di tenerezza...»
E prostrato abbracciava le ginocchia di Carlo.
Stava per profferire più parole assai, quando Carlo, vinto
dalla fumosità libera, prese ad esclamare:
«Sento l'influsso della mia stella. - Che in paradiso un
apostolo avesse cura speciale della nostra sacra persona, cel
sapevamo; - che nel cielo girassero pianeti a noi propizii, non
ignoravamo; grandi cose abbiamo fatto, più grandi ne faremo
in seguito. Conquistato che avremo il mondo, chi ci insegnerà
la via di arrivare agli astri del firmamento?»
Cornelio Agrippa steso ai piedi di lui pensava: - Sta lieto, Carlo,
con due dita di lama di Cordova tu potrai fare un assai lungo
viaggio. -
«Quale indugio è mai questo? I miei momenti sono secoli
per gli altri: ogni istante della imperiale nostra vita contiene il
destino di cento generazioni. Che fa egli questo neghittoso di papa?
s'egli non istà pronto ai nostri cenni, noi lo rimanderemo
come un veterano invalido...» - E così favellando
alzò i piedi per balzare, sicchè forte percosse con
uno nella bocca all'Agrippa, e poi correndo ad afferrare un
campanello lo agitò violentemente a più riprese.
Cornelio, sorgendo e con la mano tentandosi le labbra per vedere se
lo avesse ferito, mormorava rabbioso: «Cane di Fiamingo, tu
paghi le verità da re, - impiccando chi te le dice, - e le
menzogne da sacerdote, con le promesse! Un giorno o l'altro, io
faccio conto che tu abbia a inventare le indulgenze imperiali.
Superbo e misero, io ti avrei lasciato e ti lascerò forse tra
poco pel tuo emulo Francesco di Francia; un imbecille coronato al
par di te, ma più prodigo di quello che rapisce ai suoi
popoli: - trattanto io mi compiaccio di tormentarti... ho qui in
tasca sei congiunzioni di stelle tutte funeste per te... per ora va'
lieto a prendere la corona; per oggi il tuo demonio ti scioglie la
catena: - ungiti del crisma; poi, unto o no, con la corona o senza,
tu non sarai meno il trastullo dei miei ozii fantastici.»
Comparve alla subita chiamata il signore di Rodi, maggiordomo
maggiore; il quale, semiaperta la porta, sporgeva il capo e parte
del petto, non osando penetrare più oltre. Tosto che Carlo lo
vide, lo interrogò dicendo:
«Sire di Croy, qual'ora è ella?»
«L'ora che piace a Vostra Maestà.»
«No, Adriano», rispose blando Carlo, lusingato da
cotesta sconcia piaggeria; «il sole non tramonta mai nei
nostri regni, ma egli si mantiene pur sempre il re delle ore: se gli
illustrissimi cardinali vennero, come spero, a incontrarci, dite
loro che noi gli aspettiamo...»
I cardinali Ridolfi o Salviati non istettero molto a presentarsi
splendidi di cappe vermiglie; e tolto ambedue Carlo sotto le
braccia, con molta solennità lo condussero all'aula reale del
primo piano del palazzo.
Quivi, parte delle pareti atterrando, avevano praticato certa capace
apertura dove metteva capo un ponte magnifico, ornato di alloro, di
mirto e con fronde verdissime di ogni ragione, decoroso per
fasciature d'oro e per le armi alternate dell'imperatore e del
pontefice, il quale percorrendo meglio che duecento braccia di
cammino conduceva al tempio di San Petronio insensibilmente
digradando; a mezzo il ponte, parata di splendidi arazzi, illuminata
da mille torchi, sorgeva una cappella dedicata alla Beata Vergine
fra le Torri.
Uscendo dalla reggia per la indicata apertura, primo a toccare il
ponte fu un drappello numerosissimo di giovanetti nobili, i quali e
per la dovizia delle vesti e per la bellezza dei volti mettevano in
tutti maraviglia e contento.
Succedevano ai giovanetti, gentiluomini e cavalieri di varii ordini
equestri, ognuno vestito alla sua foggia e decorato delle varie
insegne dell'ordine a cui apparteneva; poi venivano baroni, conti,
marchesi, duchi, principi del sacro romano impero e i primari
ufficiali della corte di Carlo. Poco dopo, singolare a vedersi,
compariva una immensa caterva di araldi abbigliati con svariatissime
assise, spediti per assistere alla solennità della
incoronazione non pure dai regni di Aragona, Navarra, Napoli,
Sicilia, Granata, dalla Borgogna, dalla Germania e da molte
principali provincie e castelli appartenenti a Carlo, ma ed anche da
re e principi stranieri, come di Francia, Inghilterra, Scozia,
Portogallo, Ungheria, Polonia, Boemia, Austria, Savoia e altri
infiniti. Passati questi, sopravvennero i maggiordomi della corte di
Carlo portanti mazza di argento in segno della propria
dignità; ai quali teneva dietro Adriano sire di Croy, signore
di Rodi, maggiordomo maggiore, tenendo alzata la sua mazza di mole
assai più grande delle altre. Immediatamente subentrano,
coll'ordine che sarà per noi riferito, i principi cui
incombeva l'ufficio di recare gli arnesi all'incoronamento
necessarii. Primo di tutti l'illustrissimo principe Bonifacio
Paleologo, marchese di Monferrato; egli veste una cappa di seta di
color vermiglio, sovr'essa un manto di porpora; gran parte delle
spalla e del petto gli cuopre una pelliccia di candidissimi
armellini. Lasciamo senza descriverli i molti ornamenti d'oro e di
gemme, che davano bagliore in chiunque li contemplava; ma non
possiamo trattenerci dal rammemorare la corona marchesale, con
ingegno meraviglioso lavorata, insigne per gemme d'inestimabile
valore. Nella mano destra egli porta lo scettro d'oro. Viene secondo
lo strenuissimo e magnificentissimo Francesco Maria della Rovere,
duca di Urbino, non meno di gemme splendido e d'oro del Paleologo,
che porta levato lo stocco imperiale d'infinita ricchezza; seguita
terzo il valoroso principe Filippo dei duchi palatini del Reno e di
Baviera, doviziosamente ornato della corona e della porpora ducali,
il quale sostiene il mondo dorato. Finalmente succede il
potentissimo Carlo, duca di Savoia, anch'egli vestito della porpora
ducale e incoronato di una corona che fu pregiata meglio di cento
mila ducati; a lui spettava portare con ambe le mani le due corone
reale e imperiale. - Ecco Carlo: - la gioia soverchia lo tinge co'
colori medesimi della paura; ha il volto pallido, le labbra
pavonazze, gli occhi spenti: e' sembrava un condannato tratto a
guastarsi. I cardinali diaconi, avvolti di ampio piviale, col capo
coperto di mitria, gli stanno a' fianchi; il conte Enrico di Nassau
gli sorregge dietro la coda del reale paludamento. Secondo l'ordine
e prerogative loro seguono gli oratori di Francia, Inghilterra,
Scozia, Portogallo, Ungheria, Boemia, Polonia, del duca di Ferrara,
Veneziani, Genovesi, Sanesi, Lucchesi, Fiorentini, e di altri non
pochi. In ultimo luogo i consiglieri e i secretarii del consiglio di
Cesare, separati dalle altre turbe sorvegnenti da una mano di
cavalieri armati di corazze d'oro, e di mazze d'arme dal manico
d'argento.
Giunto Carlo nella sacra cappella, il cardinale di Tortosa, commesso
a tale ufficio mediante un breve del sommo pontefice, il quale fu
letto dal vescovo di Malta, cominciò a salmeggiare le preci
opportune alla solennità: concluse le orazioni, gl'illustri
conti di Nassau e di Lanoia, custodi del corpo di Cesare, presero a
spogliarlo nel petto e per le spalle di ogni sua veste,
sicchè gli nudarono tutto il braccio destro e gran parte del
seno. Allora il cardinale di Tortosa, non senza aggiugnere altre
efficacissime preghiere, gli unse le coste e tutto il braccio
coll'olio sacrosanto dei catecumeni. Il reverendo padre Guglielmo
Vandanesse, vescovo di Leon, le parti unte con candido bisso gli
asciuga. Ciò fatto, tornano a vestirlo con la cappa reale di
teletta d'argento, con un manto velloso di porpora svariata di oro e
finalmente con una stola lunghissima, o vogliamo dire sarrocchino di
bianchi armellini. Condotto a piè dell'altare dai cardinali
Salviati e Ridolfi, il cardinale di Tortosa prima gli cinse la
spada, la quale avendo Cesare tratta, tre volte vibrò
nell'aria e tre declinò a terra, poi riposatala alquanto sul
braccio sinistro tornò ad acconciarla nel fodero. Siffatta
cerimonia mandata a fine, Carlo si prostra davanti l'altare, e il
cardinale di Tortosa, sempre recitando orazioni adattate all'uopo,
ora gli consegna lo scettro, ora il globo, ora finalmente gl'impone
sul capo la corona di ferro, ad alta voce proclamandolo re di
Lombardia.
«Re di Lombardia!» gridarono i vicini; - «re di
Lombardia!» risposero i lontani; e tanto e siffatto urlo
riempì l'aere che pareva andassero subissati il cielo e la
terra. I popoli alle parole aggiunsero il batter forte dei piedi,
onde si levò un denso nuvolo di polvere, e la terra prese
sembianza di vulcano che fuma: dai terrazzi, dai balconi, di sopra i
tetti si vedevano donne, cavalieri, popolani, gente in somma di ogni
maniera, sventolare pennoncelli di colore, fazzoletti bianchi, rami
d'alloro o di mirto: - lungo i muri dei palazzi, dagli architravi
delle porte e finestre, intorno ai fusti, su per i capitelli delle
colonne si spiccavano figure a guisa di cariatidi viventi, le quali
agitavano le braccia in segno di allegrezza.
Uno spirito gentile, tra tanta congerie di uomini, i desiderii, la
speranza e l'alito della vita aveva posto nell'immaginare la
tribolata sua patria potente e felice; contemplando adesso tanto
consenso di universale esultanza, dubitò di sè; per un
momento i suoi terrori ebbe vani; onde di nuovo sollevò lo
sguardo per ben conoscere se straniero veramente o Italiano fosse
l'avventuroso coronato a re di Lombardia; e lo considerando pur
troppo straniero, pensò tra sè: - Ecco, come gli
Abderitani, oggi un popolo intero è diventato pazzo furioso;
quando egli avrà ricuperato il bene dell'intelletto, si
troverà schiavo. La mano che un'ora prima applaudiva al
signore straniero, un'ora dopo sarà grave di catene: quando
le vorrà rompere sarà chiamato ribelle: l'amore della
libertà gli appresterà il patibolo in questo mondo e
la dannazione nell'altro, così ordinando principi e preti
seduti alla mensa dove si cibano i popoli; la lima che rode le
catene delle nazioni volontariamente serve è fatta di sangue
e di lacrime... Ahimè! quanta copia di pianto e di sangue per
consumare cotesti ferri che esultando adesso cotesti sciagurati si
adattano al collo! -
E gemendo si coperse il volto per piangere lacrime solitarie sopra i
destini della sua patria. O Luigi Alamanni, se tu ai tempi nostri
avessi vissuto, sapresti come egualmente i popoli applaudano alla
morte dei re! La fiera del popolo arrangola, sia che menino in alto
Carlo Magno a coronargli la testa, sia che vi traggano Luigi Capeto
per mozzargliela dal busto!
Gli archibusieri alemanni e spagnuoli in numero di ottomila
spararono gli archibusi; i bombardieri, quanti poterono rinvenire a
Bologna e trasportare di fuori sagri, falconetti, colubrine,
smerigli, serpentini, basilischi, girifalchi e simili altre
artiglierie costumate a quei tempi, così e con altri
più terribili nomi appellate dagli uomini tuttavia sbigottiti
dai micidiali effetti di quelle: onde, secondo che narra Cornelio
Agrippa in quel suo stile ridondante di ampolle, parve che
«Giove avesse dato la via a ciò che di più
fragoroso custodiva ne' suoi tesori di fulmini e di tuoni.» Le
campane frementi si lanciavano per l'aria, come cavalli inferociti;
da un punto all'altro temevano di vedere scaturire la fiamma dai
legni e dal ferro confricati in cotesto portentoso dondolio: - ahi!
bronzi un tempo chiamati sacri, dacchè il vostro ufficio
dimenticaste di laudare Dio, convocare il popolo al tempio,
raccogliere il clero, piangere i morti, cacciare la pestilenza,
onorare le feste dei Santi, dacchè, dico, il vostro ufficio
dimenticaste o spregiaste, la vostra voce si spande pei piani e per
le valli solitaria come la voce di san Giovanni nel deserto; chiama,
ma nessuno risponde, imperciocchè la voce che ha celebrato
l'esaltazione del tiranno e le sue stragi non possa glorificare il
nome del Signore, il Santo dei santi; e nonpertanto anche voi
potreste rigenerarvi; in questa giornata di tenebre e di
servitù abbiamo tutti peccato, - uomini e cose; -
compiangiamoci dunque e pentiamoci tutti: scendete dalle vostre
torri, fondetevi in cannoni, portate nel vostro seno la morte allo
straniero; - allora, purificate da questo battesimo di fuoco, quando
tornerete a squillare, i popoli accorreranno, siccome consapevoli
che voi li chiamate per esaltare la gloria di un Dio che protegge i
liberatori della patria.
Intanto per altra parte il pontefice s'indirizzava con la sua
compagnia al tempio di San Petronio. Precedevano a due a due i
camerarii, gli ostiarii, i segretarii apostolici; seguivano dodici
dottori dell'antica università di Bologna, ora dianzi da
Cesare insigniti con ordine cavalleresco e con la dignità di
conti palatini. Quindi otto patrizi della città in abito
senatorio, e poco appresso il rettore della università
decoroso per vesti purpuree. E gli uni dopo gli altri seguitavano il
potestà avviluppato in un lucco di teletta di oro, i giudici
di Rota, e cinquantatrè tra vescovi e arcivescovi venerabili
pei loro manti pontificali. Secondo l'ordine delle speciali
prerogative, venivano i cardinali Medici, Grimaldi, Caddi, di
Mantova, Pisani, Santa Croce, Cornaro, Grimani, di Perugia, di
Ravenna, Campeggio, Anconitano, di Santiquattro, di Siena e Farnese,
ognuno dei quali portava la mitra e procedeva ornato di piviali
doviziosissimi. Subentravano i magnifici conti Ludovico Rangone e il
signor Lorenzo Cibo, entrambi gonfalonieri di Santa Chiesa, armati
di tutte armi. Finalmente, assistito dagli elementissimi cardinali
Cesarini, Cesi e Cibo, compariva Clemente VII nello splendore della
sua pompa pontificia, avvolte le membra nel famoso piviale, di cui i
lembi si congiungono sul petto mediante il bottone non so se io mi
dica più celebre a cagione del lavoro di Benvenuto Cellini, o
del diamante una volta appartenuto a Carlo il Temerario duca di
Borgogna. - Guardate il vicario di Cristo! Il successore di Colui
che andava a piedi e le più volte scalzo, ora, reputando poca
magnificenza cavalcare mula o palafreno, si fa trasportare sopra un
pulpito sulle spalle di otto servitori a guisa di somieri e dimostra
come da gran tempo il padre dei fedeli tenga gli uomini in concetto
di bestie. - Egli non può sopportare il pallido raggio del
sole di febbraio, e con ampio baldacchino di seta il capo difende e
la persona. - I santi, dei quali egli si dice ministro, non temerono
riarsa dal sole di Siria la fronte per predicare alle turbe ed
annunziare vicino il regno dei cieli. - Dietro alla cattedra
pontificia si affolla la torma degli abbati, protonotari, prelati,
gentiluomini, i quali il più delle volte non sono uomini
gentili, e gente altra infinita di siffatta risma. Penetrati nel
tempio, ognuno si dispose, conservando il grado che gli spettava,
nel coro o davanti l'altar maggiore, e diedero salmeggiando
immediatamente principio all'ufficio chiamato Terza; conchiuso il
quale, i cardinali, cominciando dal decano Alessandro Farnese, che
poi fu papa col nome di Paolo III, padre di Pierluigi l'infame
stupratore di Cosimo Cheri vescovo di Fano, ossequiarono a Clemente
la consueta obbedienza baciandogli le mani - gli arcivescovi e i
vescovi fecero lo stesso; se non che il papa, invece di porgere al
bacio loro la destra, presentava i piedi. Orgogliosa impudenza da un
lato di cui non abbiamo esempio, tranne nelle oscene cerimonie del
sabato, dove la favola narra convenire le streghe a fare omaggio al
demonio in forma di becco; umiliazione dall'altro della quale pur
troppo occorrono ricordanze nelle storie degli uomini.
Ma torniamo all'altro, dico a Carlo di Gand. - Per tutti i santi del
paradiso, ch'è questo mai? Quale strana fantasia lo ha preso?
Ella è cosa da concitare a riso, non che altri, san
Bartolomeo quando lo scorticavano vivo. Carlo il re della Spagna,
delle Indie, di Germania, d'Italia, Carlo, adesso comparisce vestito
da canonico; così è: gli significarono non potere
essere consacrato imperatore dei Romani dove prima non avesse
consentito ad ascriversi tra i canonici di san Pietro! Egli
dubitò un momento non lo togliessero a scherno e fu per dire
a monsignore Ariosto vescovo di Berutti che gliene esponeva la
necessità: - Va' via marrano, o ti faccio precipitare dal
ponte! - Ma poichè il vescovo sosteneva senza mutare
sembiante quella sua bieca guardatura, povero di consiglio, stretto
dal tempo, si lasciò vincere, sicchè in un punto,
spogliato dei regali abbigliamenti, da una mano passando nell'altra,
fu rivestito della toga, del rocetto e della mozzetta secondo il
costume dei canonici. - Roma, le tue percosse, sia che il mondo
offendessero o il pensiero, erano pur gravi una volta! In questo
stato, non so se io mi dica più compassionevole o ridicolo,
lo condussero nel tempio di San Petronio i due mentovati cardinali,
ai quali se ne aggiunsero altri due, i seniori fra l'ordine dei
vescovi, cioè di Santiquattro, Lorenzo dei Pucci (il quale
sosteneva tutte le cose, comunque iniquissime, non disdire al
pontefice), e l'Anconitano. Appena ebbe posto piede nel tempio, con
terribile fragore precipitò il ponte per la lunghezza di
forse venti passi: la gente ammucchiata forte percosse sul terreno;
alcuni ne riportarono sconce ferite, altri col sangue vi persero la
vita.
Spesso mi avvenne considerare come in siffatte solennità che
i principi danno ai popoli vi si mescoli dentro un mal genio e la
faccia pagare a questi ultimi a prezzo di sangue, sia per ammonirli
che non dovevano ridere, sia piuttosto, come credo, che la gioia la
quale muove dai re non possa comparire vermiglia, se non si tinga
col rosso del sangue.
I cardinali tenendo in mezzo Carlo, come fiera in guinzaglio, lo
menarono a piè dei gradini della cattedra del pontefice e
quivi stettero. Clemente gli abbassò uno sguardo dall'alto, e
non potè reprimere un moto dei labbri in contemplando
l'augusto Cesare in veste da canonico; il quale sguardo e il quale
moto di labbri avendo troppo bene compreso Carlo V, sentì
ribollirsi dentro l'orgoglio del sangue spagnuolo, gli occhi
mandarono faville, e una idea gli traversò trucissima
l'intelletto, di afferrare cioè per le gambe il pontefice,
rovesciarlo dal trono, dalle chiome strappargli il triregno, ed
imponendolo sopra il suo capo gridare: - Io sono il re dei re!
Ma sollevando di nuovo la faccia vide, o gli parve vedere, il
sembiante del papa pieno così della divinità da lui
rappresentata che sentiva sconfortarsi dentro dal rimorso quasi
avesse meditato il parricidio.
Di subito lo trassero nella cappella dedicata a San Gregorio, dove
lo avvolsero nell'amitto, nel camice e nella dalmatica, e sopra gli
posero il manto imperiale di ricami e di gemme gravissimo;
sicchè non avrebbe potuto di leggeri sostenerlo, se il conte
di Nassau da tergo, i vescovi di Bari, del Palatinato, di Brescia e
di Caria nel regno di Leone dai lati, non ne avessero sorretto i
lembi: in questo modo abbigliato, lo fecero andare fino a mezzo del
tempio, dov'è la ruota di porfido; quivi tre volte benedetto
si accostò all'altare maggiore, costrutto ad immagine
dell'altare di San Pietro in Roma. Genuflesso sopra aureo pulvinare,
colà rimase finchè non ebbero cantate le litanie dei
Santi; allora due nuovi cardinali, cioè Campeggio, primo dei
preti, e Cibo, primo dei diaconi, lo condussero in un'altra cappella
consacrata a San Maurizio.
Qui dal cardinale Alessandro Farnese, primo dei cardinali vescovi e
decano del sacro collegio, furono rinnovate le unzioni per le coste,
per le spalle e pel braccio destro coll'olio del crisma, e il
vescovo di Caria lo asciugò. La quale cerimonia essendo
condotta a fine, i cardinali Salviati e Ridolfi lo tolsero di nuovo
e lo menarono a fare riverenza al pontefice. Questi allora scendendo
dalla cattedra sublime, si accostò agli altari e diede
cominciamento alla messa solenne: poichè egli ebbe ad alta
voce intuonato per Cesare l'introito, Carlo si fece presso agli
altari, dove abbracciò e baciò Clemente su la guancia
e sul petto. Gli tennero dietro i principi commessi all'ufficio di
portare le insegne dell'impero, e con varie cerimonie le
depositarono sopra la santa mensa. Ciò eseguito, Cesare e i
principi tornano ai seggi loro apparecchiati nel coro;
imperciocchè il trono imperiale, in cui doveva egli sedersi
dopo la incoronazione, sorgeva a destra della cattedra pontificia in
cornu epistolæ dell'altare maggiore. Avanzata che fu la messa
fino alla lettura della epistola canonica, la quale Giovanni
Alberini suddiacono apostolico cantò in latino, e Braccio
Martelli camerario di Sua Santità in greco, i cardinali
Ridolfi e Salviati addussero per la terza volta Carlo al cospetto
del papa. Qui si rinnovarono, presso a poco le medesime
solennità di sopra descritte. Il vescovo di Pistoia prese
dall'altare la spada e la porse al cardinale diacono; questi al
pontefice: il quale, trattala fuori del fodero, la benedisse prima e
poi la depose nelle mani di Cesare, trasferendogli i diritti della
guerra con queste parole da lui latinamente proferite: «Prendi
la spada santa, dono di Dio, adoprala a disperdere i nemici del
popolo del Dio d'Israele!»
Se un membro del popolo miserabile d'Israele, - un Ebreo - si fosse
adesso presentato all'imperatore e gli avesse detto: - Difendimi,
perchè questo pontefice mi ha ridotto in condizione peggiore
dei cani, e tra me e lui non corre altro vincolo tranne quello del
porre ch'ei fa una volta l'anno il piede sul collo ai miei rabbini,
certo il figlio del Dio d'Israele sarebbe stato strizzato
così che nissuno poi avrebbe potuto rinvenirne i frammenti.
Il Dio d'Israele non è più Dio di Palestina, - neppure
il Dio degli apostoli; il Dio d'Israele ha ripiegato le tende dalle
antiche dimore e le piantò in Roma presso il palazzo del
Vaticano; egli è il Dio dei preti. - I Fiorentini, da cui
nacque Michelangiolo, che dopo tanto spazio di tempo sentì ed
effigiò quel terribile legislatore degli Ebrei -
Moisè, - i Fiorentini, che per pubblico partito si elessero
Cristo principe della Repubblica, erano i nemici del popolo
d'Israele, gli avversarii, i ribelli a Dio, i maledetti da lui, per
l'esterminio dei quali il padre dei fedeli dava la spada santa
all'imperatore. O sacerdoti, quanto fareste ridere, se non aveste
fatto piangere cotanto!
E Cesare nudò il ferro e tre volte ne percosse l'aria ed
altrettante ne declinò la punta verso il suolo, - forse per
dimostrare ch'egli intendeva sulla terra dominare, e nel cielo.
Strinse lo scettro, pegno di fede e di virtù che non aveva,
colla mano destra; nella manca il papa gli pose il mondo in simbolo
della facoltà ch'e' gli dava per governarlo.
Queste consegne di tutto o parte del mondo operate dai sommi
pontefici, siccome efficacissime nel diritto, non furono sempre, o
quasi mai, praticabili in fatto. Chi può contenderne loro la
facoltà? Dio esiste signore del creato, il papa vive in Roma
vicario di Dio nel mondo; dunque il papa può disporre di
quanto in esso si comprende. Questo sillogismo ha la sua promessa,
la sua minore, la sua conseguenza; a me pare tutto e in ogni sua
parte perfetto. La luna, il sole, le stelle, le comete,
poichè non sono contenute in questa terra, rimangono escluse,
quantunque non sia chiarito bene: le altre cose tutte senza
eccezione di sorta stanno sottoposte al papa; tanto il Lappone come
l'Ascolano, l'abitante del Kamciatka come quello delle paludi
pontine: - ma questi non udirono mai favellare di lui, nessuno
annunziava loro il regno dei cieli, non conoscono il Dio del papa di
Roma. - E che importa se non lo conoscono? Peggio per loro; andranno
dannati nell'inferno, ma non per questo rimarranno meno fermi i
diritti della Santa Sede Romana. Se così non fosse, si
chiamerebbe ella cattolica, che significa universale? Dove la cosa
non istesse per l'appunto come io la diceva, avrebbe potuto Martino
V concedere al re di Portogallo tutte le terre che loro riuscisse
scoprire dal capo Baiador alle Indie? Ed Alessandro VI, il papa di
santa memoria, avrebbe potuto con la famosa sua bolla tirare la
linea da un polo all'altro e largire ogni paese scoperto dalla parte
di occidente agli Spagnuoli, l'altro da oriente ai Portoghesi? Uno
scrittore eretico osserva come non occorresse alla mente del santo
pontefice il pensiero, che, ciascuno seguitando dal suo lato la
continuazione delle scoperte, potevano un giorno ritrovarsi a
contatto e rinnovare agli antipodi la questione di proprietà.
L'eretico ha torto, perchè non sa essere li sommi pontefici,
siccome ispirati dallo Spirito Santo, infallibili.
Finalmente il santo padre gli cinse le chiome della corona
imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava
curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che
il papa non gli lascerebbe compire l'atto, e rilevatolo a mezzo, lo
avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come
resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore
di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da
rinnovare cotesto ossequio; e poi, Clemente lo aveva già
detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato
l'impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette
lunga pezza nell'attitudine dello schiavo: in quel punto la corona
gli pesò sul capo non altrimenti che se fosse stata una
montagna; allora gli parve che il mondo, poc'anzi da lui sorretto
nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: -
come il serpente della Scrittura, egli si nudrì di cenere e
la sentì amara, - senza misura amara; sicchè il suo
cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla
rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella
dell'anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di
filosofia, secondo che racconta frate Iacopo Passavanti nello
Specchio della vera penitenza, avrebbe avuto virtù di
traforare da una parte all'altra con insanabile piaga i piedi del
pontefice, se per avventura vi fosse sopra caduta.
Ciò che riferiscono intorno alla proprietà letifera
dello sguardo di alcuni animali e' vuolsi tenere per favola;
imperciocchè il basilisco non abbia guardato mai in maniera
più truce di quello che facesse Carlo il pontefice, quando si
fu rialzato; ma non gli concessero tempo di proferire parola: le
reti dei successori di san Pietro avviluppano con tanto prepotente
vigore, quando uomo v'incappa, che nè impeto d'ira o
profondità di consiglio valgono a romperlo: - lo tolsero in
mezzo, lo salutarono imperatore con tanta luce di ceri ardenti, con
tanto fumo d'incenso, con tanto fragore di voci lo confusero che
egli, stordito, immemore di sè, per poco stette che non
cadesse svenuto sul pavimento: egli sentiva suo malgrado
strascinarsi; soffriva le angosce dell'uomo vicino ad annegare, che
vede approssimare la morte e non può aiutarsi.
O signore e signori qui convenuti per farmi il piacere di sentire
questa storia che non oso chiamare bella, perchè spesso fa
pianger me che la racconto, o ridere di un riso tristo il quale mi
ha guasto il cuore e la bocca, io non so se v'abbia detto; e se nol
dissi, ve lo dico adesso; la cattedra del pontefice e il trono
imperiale, per velluti cremesini, per frangio d'oro, per pulvinari,
per baldacchini mirabilissimi essere stati eretti alla destra
dell'altare in cornu epistolæ. Ora avvenne, mentre queste cose
succedevano, che un personaggio di alto affare del seguito
dell'imperatore si accostasse a certa colonna sostenente l'arco
della cappella. Dalla parte interna rasentavano la colonna i
balaustri che racchiudevano il recinto dove si celebrava la
funzione; dalla parte esterna, la colonna scendeva alquanto verso il
pavimento inferiore e si posava sopra la sua base. Il personaggio,
gli usi di corte non sapesse o non curasse, o qualche forte pensiero
gli tenesse occupato la mente, con le braccia sotto le ascelle, una
gamba sopramessa all'altra, toccava con l'omero sinistro la colonna;
- erano le sue membra per robustezza singolari, - quadre le spalle,
- il collo rigido e grosso, - sicchè a vederlo pareva
l'Ercole Farnese appoggiato alla sua clava. Gli anni di lui
giungevano forse ai sessanta; - vestiva abito positivo di velluto
nero spartito a strisce di seta celeste, con manto, calze e scarpe
del medesimo colore: nella sua gioventù la bellezza si era
compiaciuta per certo di ornargli il sembiante; - le cure, gli anni
e le fatiche adesso glielo avevano reso severo. Foltissima la
capigliatura gli copriva la testa; delle tempie però era
calvo, e quivi la pelle compariva più pallida per via della
continua pressione dell'elmo. - I suoi capelli non rassomigliavano
all'argento per la bianchezza soltanto, sibbene ancora per una certa
consistenza metallica di cui sembravano dotati: e le masse della
barba eziandio giù per le mascelle e pel mento gli scendevano
come scolpite. I venti delle tempeste, il sole ardente e le pioggie
avevano percosso quel volto; nè avendolo potuto vincere, gli
erano ormai diventate amiche: teneva il labbro inferiore non poco
sporgente in fuori, atto che suole imprimere l'abitudine
dell'impero. - Adesso cotesto suo volto accennava il conato della
spirito il quale tenta chiamare una memoria smarrita o si sforza di
rompere il velo del tempo per leggere nei futuri destini. Aveva in
somma l'espressione del poeta che invoca dalla sua musa un concetto
che varrà poi a scuotere le anime di maraviglia o di terrore
o, se vuoi meglio, l'espressione del guerriero che dall'alto della
montagna dardeggia lo sguardo sulla pianura per afferrare il momento
della vittoria. I suoi occhi stavano fissi nei troni imperiale e
pontificio, - e il raggio sfolgorato dagli ori e dalle gemme si
riverberava per modo nelle sue pupille profonde che un fuoco
interno, ardente in mezzo al cervello, pareva che le accendesse.
All'improvviso una voce gli percuote le orecchie:
«Ardisci! - Muovi un passo ed occupa quei seggi vuoti.»
A lui parve il suo genio avergli bisbigliato coteste parole; - e
come se fosse stato il concetto di cui andava in traccia, senza
mutare attitudine, si rimase a considerare se ciò potesse
riuscirli e il come e il quando. Poichè si fu trattenuto
alquanto in cosiffatta disamina, la voce stessa più forte
mormorò:
«Ardisci! - Occupa i seggi vuoti: - un passo e basta.»
Si scosse all'avvertimento, - si guardò attorno lento e
feroce a guisa di leone, non vide nessuno; - uno sgomento ineffabile
lo travagliava quando, volgendo la testa dalla parte opposta della
colonna, vide di contro a sè nella medesima posa atteggiato
un uomo da lui singolarmente riverito e avuto in pregio.
«Siete voi, messere Alamanni?»
«Messere Doria, son io...»
«Ditemi, Luigi, come vanno le cose della patria?»
«Il mal la preme e la spaventa il peggio...»
«Ostinati che siete! ma e perchè non accordaste con
Cesare quando ve lo consigliai a Barcellona? Perchè non
aderiste ai miei conforti a Genova? - Avreste allora conservata,
parte della libertà, la quale adesso avrete a piangere
interamente perduta...»
«Prima, perchè, se le cose vanno male, non sono mica
disperate per questo; - nè abbiamo deposto tutta speranza di
vincere. Un'altra volta un imperatore vide le mura di Fiorenza; le
vide, ma non l'espugnò...»
«Oh! allora non adoperavano come ora le artiglierie, che a
tempo fisso disfanno le più solide torri, ed ogni più
arduo impedimento rendono piano agli arditi assalitori...»
«Sì; ma ora, come allora, dietro le mura diroccate
stanno altri muri - più gagliardi, - i petti dei
cittadini...»
«Dio vi protegga, messere Luigi; così vi conceda le
sorti favorevoli com'io ve le temo contrarie.»
«Ad ogni modo, i padri hanno creduto migliore partito essere
tirannide intera che non mezza servitù: imperciocchè a
questa a mano a mano si adattino le anime degli uomini; ed essendo
della nostra natura abituarci a tutto quanto non riesce
insopportabile, la mezza libertà converte in libertà
intera, la vera libertà in desiderio, poi in languida
speranza, finalmente, ogni vigore spento, la patria si addormenta al
suono delle catene; nella tirannide per lo contrario intera v'ha
fremito implacabile, guerra a morte tra l'oppressore e l'oppresso, -
tra il tiranno e lo schiavo patto unico la morte; il tradimento,
virtù; studio, la strage; il popolo incatenato può con
le lacrime dell'ira, con i ruggiti della rabbia consumare le catene,
- comunque di ferro; - il popolo assennato non romperà i suoi
ceppi mai, - comunque di seta si fossero...»
«La tirannide, Luigi, può far piangere ai popoli un tal
pianto che gli anni non valgano ad asciugarlo; può di tal
piaga ferirli che gli anni si consumino invano a sanarla. La
tirannide semina il deserto e la morte. Sentiste voi mai muovere
rumore nei campi santi?»
«Sì, io ho udito fremere l'ossa negli avelli; - e i
Greci a Maratona...»
«Voi siete poeta, voi; io poi, educato nella esperienza delle
armi e dei governi, conosco a prova gli stati non reggersi con
siffatti entusiasmi; - alle armi conviene opporre le armi; le
parole, quando inferociscono i soldati, buone; senza i soldati,
siccome sempre infelici, le più volte ancora contennende. Io
quando dal ponte della mia galera, il guardo teso sul mare, scorgo
da lontano le vele nemiche, già non conforto i miei compagni
rammentando la virtù latina, le glorie liguri: e' non
m'intenderebbero; addito loro le galere e dico: - Prodi uomini, voi
lo vedete, il nemico ci stringe; il vento ha in filo di rota, e a
noi riesce impossibile la fuga; nè voi d'altronde avete
fuggito fin qui. L'armata avversa supera di un terzo la nostra, ma
la nostra è munita senza pari, governata da voi, capitanata
da me Andrea Doria soprannominato Buona fortuna. Su via,
apparecchiate le armi: - vincendo, nostre diventeranno le ricche
spoglie, nostri i riscatti dei prigioni, la gloria nostra; perdendo,
diventeremo poveri e infami per aggiunta. - Ella è più
agevole cosa rizzarsi in piedi all'uomo che se ne sta a sedere che
non all'altro il quale giace lungo e disteso sulla terra. Male fece
la vostra città ad avventurare così grossa posta; io
per me penso che ne vada della morte o della vita...»
«Ormai, messere Andrea, cosa fatta capo ha, come disse Mosca
Lamberti: e voi in ogni modo potreste provvedere...»
«E come, Luigi, come?»
«Francia è vuota di sangue e di danari. L'imperatore
stringono la Riforma e il Turco. Il papa si assomiglia agli antichi
cadaveri conservati nei sotterranei, i quali si sciolgono in polvere
tostochè gli abbia tocchi la luce. - Italia! Italia! La
regina dei popoli, - la donna coronata un giorno di torri, ora di
spine... deh! non vi dolga che anco una volta io dica: - Ardisci...
ti stanno presso i due seggi vuoti; - un passo e basta.»
«E' pare, un passo, - ma egli è un abisso: - io ho
molto bene considerata la bisogna ed ho meco stesso disaminato se le
mie gambe fossero potenti a sì gran salto; non venne anche il
tempo. Adesso vi perirei, e meco perirebbero le speranze. Per un
passo mosso invano davanti, conviene darne cento
all'indietro...»
«Se voi soccombete, nessun nome potrà pareggiarvi nella
fama; se vincete, la terra non contiene creatura da paragonarsi con
voi.»
«A me non garbano queste virtù di sacrifizio, nè
gli anni miei mi persuadono mettermi allo sbaraglio dentro fortune
dubbiose e difficili; mia divisa è il trionfo. Altri si
contenti uscire dal mondo bello di fama e di sciagura; - io voglio
vincere. Nè mi consolerebbe nella caduta dovessi pure,
precipitando, imporre il mio nome ad un mare.»
«A voi, come ad Icaro, non giungono nuove le vie del
firmamento: - i venti vi hanno trasportato mille volte il nome di
Andrea Doria»
«Quindi io di tanto più temo la fortuna avversa quanto
fin qui mi si mostrava favorevole. La fortuna, siccome donna, ama i
giovani, dice Gianiacopo Trivulzio, e dice bene: ed io son vecchio,
Luigi. La tarda età forse può disegnare gli alti
concetti, ma il tempo e il vigore le mancano per condurli a
fine...»
«Cominciate, Andrea; - non è poi così povera
questa nostra patria di anime generose da rimanere spassionate ai
nobili esempi.»
«Non oso; repugno dal mettere in avventura l'ultima spanna di
terra dove la speranza può gettare la sua àncora: non
mi parrà serva affatto l'Italia, finchè io lasci
Genova come una porta aperta alla libertà. Finchè gli
italiani uomini potranno trovare in Italia una spanna di terra dove
tendere l'arco, aggiustarvi il dardo e tôrre la mira al cuore
della tirannide, ogni momento della sua vita potrebbe essere
l'ultimo...»
«Messere Andrea, i poeti hanno nell'anima gran parte di
Dio...»
«Lo dicono.»
«Prova ne sia che io adesso leggo i pensieri più
riposti del vostro cuore, nè la carne che lo fascia
m'impedisce più di quello che fosse acqua limpidissima di una
fonte o di un lago.»
«E che cosa vi leggete voi?»
«Vi leggo, e apertamente vo' dirlo, che a voi piace parere
più ch'essere grande; che il misero pensiero di ampliare la
famiglia di potestà e scemarla di fama s'insinua tra i
concepimenti magnanimi di cittadino e gl'impedisce di spandersi. La
patria, piuttosto che amare, non odiate; la desiderate grande, ma
perchè Giannettino e gli altri vostri nepoti della sua
grandezza partecipino; non ardite avventurare il bene acquistato
perchè ve lo siete fatto vostro...»
«Per Dio! se non fossimo qui dinanzi gli altari...»
«Mi uccidereste, - e non per questo avreste ragione...»
«Luigi, io non voglio sdegnarmi con voi. - Le vostre parole
non mi recano oltraggio; - al vostro cervello perdona il vostro
cuore; - mi conoscerete quando il tempo avrà umiliata o
spenta la fronte che adesso si corona.»
«Pessimo è, a parere mio, quel consiglio che conta con
la morte altrui, non con la vita propria. Questo desiderio di morte
è come palla che gli uomini si rimandano dall'uno all'altro
tra loro: - chi le darà l'ultimo colpo? No, lasciatemi, io
vo' dire tutta ed intera la verità...»
«Va' via, importuno; i popoli mi hanno innalzato una statua,
come a liberatore della patria... »
«Quei popoli stessi la ridurranno in mortai per pestarvi il
sale; forse un giorno il popolo la getterà a terra, e la
tirannide, che ti conoscerà anche traverso la caligine dei
secoli, la riporrà sulla base, come simulacro consacrato a
remoto congiunto. Tu hai desiderato la statua piuttostochè
desiderato meritarla. Attila ordinò si gettasse sul fuoco un
poema, e per poco stette non vi facesse gettare il poeta Marullo
perchè lo aveva eguagliato ai numi immortali. Tu bevi
l'adulazione a grandi sorsi, come tazze di vino; e, come il vino, ti
ha tolto il senno. Un cittadino che amasse la patria libera davvero,
non avrebbe consentito che i suoi concittadini si deturpassero ad
atti convenienti soltanto fra schiavi e re...»
«Alamanni!»
«Silenzio! Tu hai cessato la tua grandezza, e la tua voce non
ha più potenza di ricercarmi il cuore. Addio: - l'estreme
parole furono favellate tra noi; - la medesima plaga del cielo non
cuoprirà più le teste dell'Alamanni e del Doria.
L'ultima stella è caduta. - Io gemerò, finchè
abbia vita, sulla perduta tua fama. Dopo Camillo romano, a nessuno
fu dato essere più grande di te. Vorrei lasciarti e non
posso. - Ah! Doria, salva la patria. - Addio: - io ti getto, in
pegno di un'amicizia che spira, la scelta di farti il più
grande o il più infame degl'Italiani. Abbatti la statua e sii
contento che la tua memoria viva nella nostra anima; rendi alla
patria le navi con le quali la salvasti e con le quali, volendo,
potresti nuovamente ridurla schiava; - o se pur vuoi continuare a
governarla, dirigine il corso contro ai barbari: - barbari io chiamo
tutti gli stranieri in Italia. - Le Alpi passate e il mare,
tornerò ad appellarli cristiani... fino allora, barbari e
cani.»
«E la fede giurata all'imperatore?»
«La devi prima di tutto al tuo paese. - E al Cristianissimo
non l'avevi per avventura giurata? E non per questo ti trattenevi
dall'abbandonarlo. - Se il re Francesco scambiavi con Carlo, ti
guadagnasti il nome di traditore... se l'uno e l'altra per la patria
tu lasci, o felice o infelice, gli uomini altari t'innalzeranno e
preghiere...»
E fu fatto silenzio.
«Luigi!» dopo un breve spazio di tempo esclamò il
Doria, ma non ottenne risposta, «Luigi! Luigi!»
replicò frettoloso, come se forte gli premesse di
comunicargli un arcano.
Luigi si era pianamente di colà rimosso, lasciandogli la
tremenda alternativa di essere grande od infame.
Andrea Doria fu egli grande od infame? Io non posso giudicarlo.
Dirò soltanto che la profezia dell'Alamanni si avverava. Il
popolo rovesciò la sua statua, il tiranno sopra l'antica base
la restituiva. Nè si conobbe l'Alamanni, in questo solo,
profeta.
«Viva Carlo V imperatore dei Romani, signor del mondo! Viva
Augusto! Viva Cesare!»
Queste grida discordi ed assordanti tolsero il Doria della sua
distrazione: - guardò di nuovo gli scanni pontificio e
imperiale, e vide Carlo e Clemente starvi nell'orgoglio della
potenza loro intronizzati.
L'ufficio della messa continuando, cantano preghiere, con le quali
invece di supplicare Iddio e i suoi santi per tutte le creature, gli
supplicano per un uomo solo, per Carlo di Gand. Agli angioli, ai
troni, agli arcangioli, alle potenze, ai cherubini, alle vergini, ai
martiri ed alla rimanente corte celeste non si dice più:
Orate pro nobis; sibbene: Vos adiuvate illum. E' sarebbe stata cosa
gioconda vedere come in quel punto, Dio esclusivamente occupato per
Carlo, il mondo si governasse senza di lui. E se, come sembra, il
nostro globo continuò a vivere in pace con gli altri, il sole
non rimase di scaldare, la terra di produrre, il mare di volgere
l'eterne sue onde... uno scrupolo comincia a penetrarmi nello
spirito, che mi farò chiarire dal reverendo mio padre
confessore... un sant'uomo in verità. Ma no; tolga Dio, che
per insania altrui la nostra mente vacilli: Carlo V nell'ardua
superbia della sua vanità non richiamò a sè
maggiore cura dell'Eterno, nè minore di quella che se avesse
appartenuto alla famiglia delle scolopendre.
Recitato l'Evangelo, cantato il Simbolo Niceno della fede cristiana,
pervennero all'offertorio. L'imperatore le vesti imperiali
depositando, rimasto con la tonacella dalmatica, si accostò
all'altare e depositò la sua offerta ai piedi del pontefice:
- trenta monete d'oro del valore di scudi dieci l'una; - trecento
ducati! Veramente questa donazione non giunse alla dovizia di quelle
di Costantino e di Carlomagno! - Il papa la guardò
sorridendo. I ricchi prelati della corte romana torsero la bocca in
segno di disprezzo; - a Carlo, avarissimo siccome rapacissimo,
sembrò avere dato anche troppo. I suoi cortegiani, per
onestare la miseria dell'atto, inventarono avere egli il costume di
offrire ogni anno tante monete di dieci ducati l'una, quanti si
fossero gli anni della sua vita, ed in quel giorno appunto
annoverarne trenta.
All'Agnus Dei, e' fu mestieri che egli si accostasse al pontefice e
di nuovo lo baciasse sopra la destra guancia e sul petto. Almeno
Giuda, - con tutto che Giuda, - baciò una volta sola e poi si
appiccò per disperazione; - ora anche la sua fama si oscura.
Carlo e Clemente adesso genuflessi aspettano il sacramento della
Eucaristia. Il cardinal Cibo (quel desso a cui Filippo Strozzi fece
il legato del suo sangue perchè se ne saziasse), sollevando
la patena, mostra al popolo il santo corpo di Cristo: - il cardinal
De Cesi, presolo dalle mani di lui, lo porta al pontefice, e questi
si ciba in copia del pane sacramentato; l'anima e più le
viscere conforta col vino generoso che il sangue gli rappresenta del
suo Redentore, il quale nessuna vita sacrificò, tranne la
sua. Tra pochi mesi il vicario di questo Dio, egli medesimo
Clemente, comanderà che ogni giorno il pane si estremi e
l'acqua a frate Benedetto da Foiano, e a lui agonizzante
contenderà la breve particola del mistico pane, per paura che
valga anche di un minuto a prolungargli la vita. Oh! come è
degno tempio della Divinità il seno di cosiffatto papa.
E poi si accinse a comunicare l'imperatore; - il conte di Nassau e
il sire di Croy, tenendo i lembi di un pannolino magnificamente
ricamato, lo stendono davanti il suo volto. Il pontefice sorge e
aspetta che gli porgano l'ostia. Carlo solleva inquieto gli sguardi
e accenna al vescovo di Caria del regno di Leone; - questi pure gli
rispose col guardo, ed egli allora apre la bocca per cibare il corpo
di Cristo. - Qual cosa mai significava quel cenno? Significava che
Cesare stesse sicuro; avere il vescovo, suo fidato, assistito alla
composizione dell'ostia per conoscere che nessuna altra materia vi
si mescolasse dalla farina in fuori; imperciocchè Carlo
sapesse Roberto re di Sicilia essere stato avvelenato nell'ostia, e
di pari morte rimasto spento l'imperatore Enrico VII per le mani del
reverendo Bernardo da Montepulciano, frate di san Domenico Guzman,
di cui Dio riposi le ossa secondo i suoi meriti!
Nè altro adesso mi occorre descrivere di questa messa, tranne
la fine. Carlo, dai suoi cerimonieri ammaestrato doversi in simili
bisogne mostrare, anche non avendola, larghezza, combattuto da un
lato dall'orgoglio spagnuolo, dall'altro dalla miseria tedesca,
pensò un bel tratto, e fu di versare a piene mani titoli e
onori tra i suoi famigliari: - piovvero ad un tratto baroni, conti,
marchesi e duchi, che tante forse non furono le cavallette mandate
da Moisè a disertare l'Egitto. - Oh! la bella cosa sarebbe,
se anche noi potessimo pagare a titoli coloro i quali ci rendono
servigio: io per me non dubiterei di conferire una croce di santo
Stefano papa e martire il mese, per salario al mio servo: - potrei
dargli di meno?
Il papa però non volle rimanere vinto, e in quel punto
s'istituiva tra loro una gara di beneficenze; - sicchè,
quando asceso sui gradini più sublimi dell'altare si volse al
popolo e lo benedisse, aggiunse le parole: «Concediamo a tutti
intiera remissione di tutti i peccati e indulgenza plenaria per
quattrocento anni!!!»
Se i popoli rimanessero tolti fuori di sè per l'allegrezza,
non è da raccontarsi; ed io, che dopo tanta distanza di tempo
m'immagino quanto gaudio nei cuori loro dovesse scendere
dall'aspetto imperiale e dalla indulgenza di quattrocento anni, non
posso trattenere dolcissime lacrime di tenerezza. Potessi almeno
rendere partecipi i miei nobili lettori, in benemerenza dell'avermi
seguitato fin qui, dei tesori inestimabili profusi dal sommo
pontefice e dallo imperatore augustissimo a chi sa quanti paltonieri
e plebei! Perle veramente sciupate contro il testo espresso dello
Evangelo!
Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di
baccante scapigliata; perchè nessuna scintilla d'intelletto
gli balenasse su l'anima, qui è pane, qui copia di vino,
camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l'aquila
imperiale. «Che per più divorar due becchi
porta», come un giorno cantò l'Alamanni; la quale da
uno de' suoi becchi versava vino rosso, dall'altro vino bianco, e
giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini
deturpati da oscena ubbriachezza. Sicchè l'Alamanni a cotesto
spettacolo ebbe a dire: - Ecco l'aquila imperiale rende oggi a
spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi
sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma
gliele rende stemperate nel veleno della stupidità. -
Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te,
conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno
uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi
dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l'orso ammansito, per
sollazzare i tuoi sovrani padroni. Dalle finestre, dai terrazzi egli
ordina ti sieno gittati pani e vivande. - Potessi cibarti per un
anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme
l'assedio, saresti meno infelice; ma domani l'insolito cibo ti
recherà molestia, forse anche la morte. - Feste, forni e
forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano
i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine,
a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travágliati da
mattina a sera, e l'opera delle tue mani, il sudore della tua fronte
devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno
la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti cuopre e il sole che
ti scalda... o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto
spazio di terra da riporvi dentro le tue ossa, perchè non le
rodano i cani, ed anco perchè morto tu col fetore non gli
offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia. Bada,
non ti esca di mente che ora ingombri la piazza meno per solazzarti
che per divertire i tuoi principi. Rallégrati, ma bada di non
ispaventarli; però che, vedi, nella tua esultanza empi talora
l'aere con tale un grido di frenesia che agghiaccia il cuore al
tiranno, ond'egli battendosi la fronte accorre tutto pallido al
balcone per vedere se tu balli o se meni strage delle sue lance
spezzate. Anche le menadi con in pugno le fiaccole accese,
trascorrendo pei boschi sacri, mettevano spavento; però
furono distrutte, i misteri loro aboliti. Non obliare uomini armati,
delatori ed armi recingere i luoghi dove i tuoi principi ti chiamano
a festa; nella medesima guisa che la fama racconta, ai capi delle
mense dei re di Babilonia stessero sagittarii con archi tesi a
trafiggere chiunque osasse di levare la faccia. Infatti Antonio da
Leva, di tutt'arme vestito, siede in luogo sublime per farti al
bisogno fulminare da venti bombarde e da ottomila archibusieri
pronti ad un moto della sua mano. Ahi! popolo, quel tuo riso in
verità mi angustia il cuore; e' mi ha l'aria dello
sghignizzare convulso dell'uomo il quale, posata la testa sul ceppo,
aspetta la mannaia che cada.
In ristoro di ciò il re dell'armi chiamato Borgogna getta
pugni di monete con l'effigie dell'imperatore da un lato e le
colonne col motto plus ultra dall'altro. - Prendi cotesta moneta; -
domani, o popolo, quando il tuo padrone te ne chiederà due,
tu potrai in questa maniera, per un giorno almeno, allenire il tuo
danno.
Intanto Carlo, si affretta con presti passi alle porte del tempio;
la mal'aria ch'esce dai sacerdoti gli aveva cacciata addosso la
quartana della superstizione; sperava dissiperebbe il cielo aperto
quel fascino: il papa temeva ed aborriva; gli avrebbe in cuor suo
fatto mozzare la testa e non osava sostenerne lo sguardo; le prime
idee di venerazione al capo della Chiesa, al padre dei fedeli, al
vicario di Cristo gli ritornavano alla mente angustiandolo:
così gli sorgevano nell'anima altissimi concetti, i quali
poi, non sapendo egli svilupparsi dalla caligine dell'antica
ignoranza, gl'impedirono di riuscire, come altramente sarebbe stato
l'uomo più grande del suo secolo.
Il subdolo sacerdote presentì le ire di quello spirito
orgoglioso e gli aveva posto opportuna avvertenza. Finchè
ambedue stavano agli altari, poteva dubitarsi l'imperatore avesse
reso omaggio al vicario di Cristo, non già a Clemente dei
Medici. Fuori degli altari gli ossequii sarebbero stati, più
che al vicario di Cristo, resi a Clemente. Però ell'era cosa
disagevole ottenerli; si provvide all'inganno. Varcate di pochi
passi le porte del tempio di San Petronio, uno scudiere armato
raffrena per le redini un bianco cavallo, inquieto, ardente,
dovizioso di gualdrappa, di frontale e di ogni altro arnese
consueto; cotesta non pareva cavalcatura del pontefice, solito a
procedere in lettiga, o montato sopra mula o palafreni. Carlo, di
aria impaziente e di luce, desideroso di rinfrescarsi il sangue nel
bello aspetto del cielo sereno, perocchè un cielo sereno
d'Italia in qualunque stagione sia di per sè stesso una festa
e infonda tale conforto nel cuore che indarno speri da gioie
artificiali. Carlo stese pronte le mani per acconciare alquanto,
siccome avviene ai cavalieri, la gualdrappa e le staffe, - e quindi
balzare in arcione.
Ma lo fermava pel braccio il pontefice e in suono di umiltà
gli diceva:
«Non farlo, figliuolo mio e imperatore invitto; mi basta la
umanità che fin qui mi hai dimostrato...»
Carlo lo guardava attonito: - all'improvviso non comprendeva; - poi
si accorse essere cotesto il cavallo del pontefice, ed egli avere
per errore umiliata la dignità imperiale fino a fare mostra
di volergli tenere la staffa; vinto da ineffabile angoscia, aperse
le labbra tremanti e favellò:
«Veramente alla persona vostra...»
«La nostra persona», interruppe il pontefice, «di
per sè stessa è nulla, ma poichè ella
rappresenta il Creatore di tutte cose, forza ella è che le
creature ci si curvino dinanzi...» E con giovanile leggerezza
salito sul destriero salutava della mano lo imperatore e da lui con
lo immenso suo seguito si dipartiva.
I partigiani di Roma, i quali videro da lontano quell'atto,
esultarono, immaginando rinnovarsi i bei tempi di papa Gregorio e di
papa Innocenzo. Tanto vero è che spesse volte l'odio e
l'amore, più che d'altro, dipendono dal modo di guardare da
lontano o da presso.
Carlo punge il suo nobile corsiero; la corona imperiale sì lo
molesta che talora gli prorompono le lagrime dagli occhi. Una mano
di Bolognesi, Angelo Ranunzio, Giulio Cesarino, il marchese
dell'Anguillara, il Rangone, il Cibo ed altri infiniti portano
bandiera e gonfaloni con le chiavi, con l'aquila, rossi, bianchi,
gialli e neri, e gli sventolano al cospetto dell'imperatore. Alla
fantasia accesa di Carlo sembravano un turbine di spettri de' suoi
antenati che gli s'avvolgesse intorno alla testa, e l'onta fatta
alla memoria loro lamentasse, la viltà sua gli garrisse. Il
trambusto delle voci e dei gridi, il frastuono degli istrumenti ed
il suo nome ricorrente tra mezzo, urlato in tutti i suoni, lo
atterrivano, come se l'inferno si fosse scatenato per dirgli
vituperio.
Allora aborrì i campi aperti, il sole, la gloria terrena, e
sospirò un asilo tranquillo, comunque ignorato, - allora
desiderò la cocolla di frate scambiare col suo manto
imperiale, e vide di passo in passo farsi più vicino alla sua
imperiale magione, coll'anelito del marinaro il quale dopo un
viaggio pieno di tempeste e di pericoli saluta la riva; - vi pose
appena il piede, che, senza aspettare la solita accompagnatura, ogni
qualunque cerimonia mettendo da parte, salì veloce e,
licenziati gli altri, si chiuse nella sala privata insieme
coll'astrologo Agrippa. Qui, libero da ogni sguardo molesto,
spogliò le vesti imperiali e le sacerdotali di cui lo avevano
avviluppato, e tempestando le gittò in questo e in quel lato,
e...
«Al corpo di Dio!» diceva in suono di lamento,
«come la camicia di Nesso, costoro hanno stillato il sangue
nelle mie vene.»
Quindi le mani cacciando alla corona, se la tolse impetuosamente e
la scaraventò di contro alla parete; molti capelli essendosi
attorti per le punte e pel cerchio, egli se gli strappò con
acuto dolore, e prorompendo in un urlo disperato, ambe le mani
portò di nuovo alla testa, esclamando:
«Ah! mi ha portato via il cranio e il cervello. - Agrippa,
vieni qua, guarda diligentemente; - per certo avvelenarono la
corona...»
Agrippa guardò, e vide che la corona gravissima gli aveva
intorno alla fronte inciso un solco profondo in mezzo, di color di
piombo, digradante ai lati in vermiglio acceso.
«Stia pur lieta la Maestà Vostra; io l'assicuro che non
è veleno...»
«Per santo Iacopo di Gallizia!» esclama l'imperatore
sentendo forte bussare alle porte, «chi è che osa
sturbarmi?»
«Maestà!» con tal una voce che, più che ad
altro, si assomigliava per la paura al belare della pecora, rispose
il sire di Croy, novellamente promosso al grado di conte; «il
banchetto è apprestato; - non manca che la Sacra
Maestà vostra per dare acqua alle mani...»
«Aspettino! io non ho fame.» E poi di nuovo volgendosi
all'Agrippa continuava: «O dunque che cosa è
ella?»
«Il sangue acceso, - l'anima esaltata dall'insolito
giubilo.»
«Giubilo! Hai tu mai incontrato uomo di plebe più
avvilito di me? Hai tu veduto quali modi ostenti meco - imperatore e
re - cotesta schiatta di mercanti? Avevano tra noi convenuto ch'io
facessi l'atto del prostrarmi, ed egli mi avrebbe rilevato a
mezzo... invece egli finse dimenticarmi ai suoi piedi... ha bevuto
un lungo sorso di gioia del suo trionfo e della mia
stupidità. - Ora tutta l'acqua dell'oceano non varrà a
lavarmi dalla fronte macchia siffatta. - Dammi l'elmetto, Agrippa: -
cuopri la mia vergogna sotto il ferro del guerriero: - mi abbisogna
vincere almeno dieci battaglie per diventare soffribile a me stesso;
- io, vedi, mi disprezzo; e dispero ormai questo mio capo possa
contenere il disegno di dominare sul mondo, dacchè ha toccato
i piedi d'un uomo. - E tu, Agrippa, mi hai dunque deluso quando
traevi l'oroscopo? Così si avverano i tuoi presagi? Se' tu
l'ingannatore, - o la tua scienza è bugiarda?...»
«Non proseguite, Sacra Corona, o le stelle si vestiranno a
lutto per l'angoscia dei vostri rimbrotti. Se volete dominare sul
mondo, cominciate a dominare sopra voi stesso, nè consentite
che l'ira vi tragga a maledire la scienza del re Salomone, la
scienza divina. - A dovere era tratto l'oroscopo; - i cieli non
mentiscono; - la vostra carriera luminosa è tutta descritta
lassù nel cospetto eterno: - noi per avventura male lo
applicammo, e questo punto, che noi reputavamo rappresentato dalla
congiunzione della vostra stella con Giove, forse era compreso dal
breve scontro col tardo pianeta di Saturno. E poi voi stesso non
contemplaste la vostra stella?»
«Sì, certo: - io la vidi... ma adesso, più dei
miei conquisti futuri, più assai dei miei trionfi passati,
forte mi stringe un desiderio intenso... un'agonia...»
«Di che cosa, Maestà? Non istanno nelle vostre mani il
bene e il male? Non fate voi la pioggia ed il sereno? Ad ogni vostro
pensiero non potete aggiungere il fulmine della vostra potenza per
volerlo eseguito?»
«Potente come sono, in questo non posso nulla, perchè
io sono d'impedimento a me stesso. - Se quando tenni questo papa
prigione, lo avessi fatto rinchiudere in una gabbia ed esporre in
ludibrio ai popoli!... ma ora io l'ho innalzato, alla faccia del
mondo, ho sancito la sua autorità... gli posi in mano le
verghe per flagellarmi.»
«Io conosco il mezzo alla vendetta.»
«Ah! io ti darei un ducato», riprese Cesare, e per poco
non gli gettava le braccia al collo; «in qual parte di cielo
lo leggevi? Spiegalo... io ti ascolterò senza curare di fame,
nè di sonno.»
«Non l'ho letto nel cielo: - sibbene nello inferno.»
«Nell'inferno, Agrippa?»
«Non vi atterrite, Maestà; - voi sapete che dalle arti
diaboliche, come ogni altro cristiano, meritamente io rifugga;
voleva dire nel cuore dell'uomo. - Sapete voi che Clemente prima di
esser papa fu Giulio figliuolo bastardo di Giuliano dei Medici
trucidato nella congiura dei Pazzi?»
«Pur troppo lo so...»
«Sapete voi come Lione X su i primi mesi del suo pontificato
lo eleggesse cardinale?»
«Anche questo sapevamo.»
«Ma voi non saprete i canoni della Chiesa sotto pena di
nullità impedire che i figli nati da illegittimo connubio
sieno promossi alla dignità dell'episcopato; - voi non
saprete come per ovviare a siffatto impedimento s'inducessero falsi
testimoni, i quali, la grazia umana alla verità preponendo,
deposero la madre della quale era stato generato costui
innanzichè ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre
Giuliano, averne avuto la fede segreta di diventarle marito.»
«Va oltre...»
«E non saprete neppure come al pontificato ascendesse con
manifesta simonia, però che suoni universale la fama ch'ei lo
comperasse mediante una cedola segretissimamente firmata di sua
mano, con la quale si obbligava di conferire al cardinale Colonna la
vice - cancelleria e il sontuoso palazzo fabbricato dal cardinale di
San Giorgio...»
«Dunque?»
«Ed alla Maestà Vostra importa ancora moltissimo
comporre le differenze dei luterani, le quali come offendono il
papato, così un giorno potrebbero offendere anche voi. - Io
penso che non vogliate andare tanto pel sottile intorno alle tesi di
fra Martino: - la bisogna sta di porre un calcio in gola a
Giovanfederigo duca di Sassonia, al langravio Filippo e a papa
Clemente; - tutto ciò conseguirete in un punto.»
«E in qual modo? Spácciati: - come san Lorenzo mi pare
di starmi sopra le brace...»
«Convocando un concilio ecumenico. - Quivi sarà deposto
Clemente come bastardo e simoniaco, esoso all'universale; quivi
perderanno la riputazione Giovanfrancesco e Filippo, alcune
pretensioni concedendo, alcuni pretendenti guadagnando, poco dando
ed a pochi, a tutti moltissimo promettendo; insomma adoperandovi le
arti di regno, che io so per avere sentito dire, e voi per pratica
diuturna molto meglio di me sapete. Che ve ne sembra, Sacra
Corona?»
Carlo non lo ascoltava più; - accostandosi alla porta,
chiamò Adriano di Croy e gli disse:
«Sire conte, - mandate ad annunziare la presenza della nostra
augusta persona; - voi accompagnateci con le debite cerimonie al
convito.»
«Sacra Maestà! Sacra Maestà!» -
correndogli dietro gridava Cornelio Agrippa.
«A che chiamate, cavaliere?»
«E il ducato?»
«Oh! un ducato non si ha mica per le mani come un consiglio. -
Abbiamo promesso conferirvelo, e lo avrete: - però noi non ci
siamo prescritto spazio fisso di tempo... sperate... lo avrete...
sarete consolato.»
Cesare incamminandosi al banchetto, queste diverse parole si
facevano a mano a mano più languide e meno distinte, come la
gratitudine dei re all'avvenante che si dilunga dal benefizio.
NOTE.
(a) «L'histoire des trois gros diamans pris à Granson
Mérite d'être rapportée, et la renommée
qu'ils ont eue, l'espèce de vanité attachée a
leur possession, témoigneront quelle était la
splendeur de ces princes de Bourgogne, dont les dépouilles se
sont distribuées entre les rois, qui se les sont
enviées et disputées a prix d'or. - Le plus beau,
celui qui fut ramassé sous un chariot, fu revendux par le
curé de Montagne à un homme de Berne au prix de trois
ecus: plus tard un autre Bernois, nommé Barthélemi
May, riche marchand qui faisait le commerce avec l'Italie, offrit a
Guillaume de Diesbac un présent de quatre cents ducats en
reconnaissance de ce qu'il lui avait fait acheter ce diamant pour
cinq mille ducats. En 1482, les Gènois l'achetèrent
sept mille ducats et le vendirent le double à Louis Sforce le
More, duc de Milan. Après la chute de la maison de Sforce le
diamant passa en la possession du papa Jules II pour vingt mille
ducats. La grosseur est égale à la moitié d'une
noix. Il orne la tiare du pape, etc.» (Barante, Storia dei
Duchi di Borgogna, tomo XXI.) Egli erra: - quel diamante orna il
bottone del piviale del papa. Vedi Vita di Benvenuto Cellini.
(b) "Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava ser
Lò, il quale insegnava loica e filosofia, e avea molti
scolari. Intervenne che uno de' suoi scolari, tra gli altri arguto e
sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì.
E dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo
studio, questo scolaro morto gli apparì: il quale il maestro
riconoscendo, non senza paura domandò quello che di lui era.
Rispuose che era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello
inferno erano gravi come si dicea, rispuose che infinitamente
maggiori, e che colla lingua non si potrebbono contare; ma ch'egli
gliene mostrerebbe alcuno saggio. Vedi tu, diss'egli, questa cappa
piena di sofismi, della quale io paio vestito? questa mi grava e
pesa più che se io avessi la maggior torre di Parigi, o la
maggiore montagna del mondo in su le spalle, e mai non la
potrò porre giù. E questa pena m'è data dalla
divina giustizia per la vanagloria ch'i' ebbi del parermi sapere
più che gli altri e spezialmente di sapere fare sottili
sofismi, cioè argomenti di sapere vincere altrui disputando.
E però questa cappa della mia pena n'è tutta piena:
perocchè sempre mi stanno davanti agli occhi a mia
confusione. - E levando alto la cappa, che era aperta dinanzi,
disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? tutto è bracia e
fiamma d'ardente fuoco penace, il quale senza veruna lena mi divampa
e arde. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della
carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuailo infino
alla morte sanza pentimento o proponimento di rimanermene. Onde,
conciossiacosachè io perseverassi nel peccato sanza termine e
sanza fine, e avrei voluto più vivere per più potere
peccare, degnamente la divina giustizia m'ha dannato, e tormentando
mi punisce sanza termine e sanza fine. E o me lasso! che ora intendo
quello che occupato nel piacere del peccato e inteso a' sottili
sofismi della loica non intesi mentrechè vivetti nella carne:
per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello inferno
sanza fine all'uomo per lo peccato mortale. E acciocchè la
mia venuta a te sia con alcuno utile e ammaestramento di te,
rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la
mano tua, bel maestro. - La quale il maestro porgendo, lo scolaro
scosse il dito della sua mano che ardea in su la palma del maestro,
dove cadde una piccola goccia di sudore e forò la mano
dall'uno lato all'altro con molto duolo e pena, come fosse stata una
saetta focosa e aguta. - Ora hai il saggio delle pene dello inferno,
disse lo scolaro; e urlando con dolorosi guai sparì. Il
maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata
et arsa; nè mai si trovò medicina che quella piaga
curasse, ma infino alla morte rimase così forata: donde molti
presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro, compunto
tra per la paurosa visione e per lo duolo, temendo di non andare a
quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, diliberò
d'abbandonare la scuola e il mondo. Onde in questo pensiero fece due
versi, i quali, entrando la mattina vegnente in iscuola, davanti a'
suoi scuolari, dicendo la visione e mostrando la mano forata e arsa,
rispuose e disse:
Linquo coax ranis, cra corvis, vanaque vanis.
Ad loycam pergo quæ mortis non timet ergo.
Io lascio alle rane il gracidare e ai corvi il crocitare, le cose
vane del mondo agli uomini vani: e io me ne vado a tal loica che non
teme la conclusione della morte, cioè alla santa religione. -
E così, abbandonando ogni cosa, si fece religioso, santamente
vivendo infino alla morte." Passavanti, Specchio della vera
penitenza, Distinz. III, cap. 2.
CAPITOLO QUINTO
PAPA CLEMENTE VII
E' vi fu un tratto una donna lombarda
Che credeva che il papa non foss'uomo,
Ma un drago, una montagna, una bombarda.
E vedendolo andare a vespro in duomo,
Si fece croce per la meraviglia:
Questo scrive uno storico da Como.
Berni, Capitolo in lode del Debito.
E che il gran vecchio onde ti appelli erede,
Tiranneggiando in noi del ciel l'impero,
Vergogna il prenda, ove talor ti vede.
Alamanni, Satira II, parlando di Clemente VII.
Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta
del suo palazzo: ella era di forma ottagona con bellissime colonne
di ordine ionico. Da quattro lati vi fanno capo altrettante porte di
rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell'arte
così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati
di quadri rappresentanti martirii di santi, membra segate, capi
fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza,
ribrezzo; - intorno all'architrave superiore si innalza una parete
che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola
elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco.
Clemente posa in ampia sedia decorosa di velluto cremesino e per
bollettoni dorati: un pulvinare di velluto sottosta ai suoi piedi;
dinnanzi ha una tavola ricoperta di velluto; - sopra la tavola un
Cristo effigiato con tanta maestria che par che spiri; - e un
messale stupendo per gl'industri lavori di fermagli e cesellature
co' quali maestro Benvenuto l'ornò.
Il papa, deposta la pompa degli abiti pontificali, veste la cappa
rossa, la mozzetta, o sarrocchino di velluto soppannato di pelli
bianche come neve; - il capo ha coperto di un berretto che i preti
chiamano camauro, di velluto anch'esso e soppannato di pelle. Gli
occhi tiene fissi sopra il messale, ma come gli occhi già non
vi teneva fissa la mente. Quel messale ad ogni pagina aveva una
cartapecora miniata da artefice illustre, rappresentante il passo
del Vangelo che ricorreva quel giorno. La cartapecora in quel punto
aperta davanti al pontefice mostrava Gesù Cristo nell'orto di
Getsemani sudante sangue, rifinito da incomprensibile angoscia,
supplicare al Padre che rimuovesse dalle sue labbra il calice della
passione; - se poi non si potesse altrimenti, avrebbe fatto la sua
volontà. Come un Dio offeso sè a sè stesso
sacrificasse per placarsi non si comprende: al nostro intendimento
umano sembra che il meglio senza tanti andirivieni saria stato
perdonare addirittura e risparmiare a sè il dolore, agli
uomini il delitto. Dove per lo contrario cotesto fatto deva
spiegarsi nel senso di un padre il quale per amore dei suoi
figliuoli non aborre dai martirii e dalla morte, allora la storia si
volge al cuore piena di tenerezza.
Ma la mente del papa era le mille miglia lontana da cotesta immagine
di sacrifizio: - egli fu ne' suoi tempi delle cose mondiali
speculatore arguto; nelle bisogne di stato, diligente ed assiduo; -
nel deliberare grave, nel deliberato costante: - più che
d'altro si pasceva di ambizione; la quale non potè mai, per
impedimento di fortuna, saziare a suo talento; e quando pure lo
avesse potuto, non sarebbe per questo rimasta in lui la libidine di
desiderare il bene degli altri. - A tante e siffatte qualità
degne d'impero mancò animo pronto, audacia e costanza
nell'eseguire, - e mancò eziandio (ma questo non credo sia
qualità, non che necessaria, utile ai potenti della terra)
misericordia del prossimo: - ebbe viscere di granito.
La umiliazione di Carlo (sebbene contro la sua natura, la quale
consisteva nel simulare e nel dissimulare stupendamente, egli non
avesse potuto trattenere un sorriso di compiacenza nel vederselo
così prostrato dinnanzi) non gli piacque come trionfo,
sibbene come mezzo di aumentare la sua autorità: - pensava
adesso a lenire la piaga di quell'anima superba; del concilio pur
troppo, quantunque di cosa lontana, temeva; - più del
concilio egli dubitava cesare non fosse per rendergli contrario il
lodo pel quale aveva compromesso in lui insieme col duca d'Este
intorno alla reversione del ducato di Ferrara alla Sedia Apostolica;
- a queste e a ben altre cose egli pensava, ed attendeva a ristorare
le maglie della rete di san Pietro, logore dagli anni o dalla
incredulità, con un filo di violenza ed un altro di frode.
Dietro la sedia stava in piedi un uomo immobile, cosicchè lo
avresti tolto per una apparizione dell'altro mondo; con la destra
stringeva un pomo della spalliera, la manca abbandonava lungo il
fianco; - era pallido, di capelli nerissimi, vestito di nero; -
quella sua fronte non compariva pacata, ma stanca dai lunghi
combattimenti morali: - la quiete di un gruppo di nuvole raccolte
nel cielo durante una notte di estate, quando non soffia un alito, e
il demonio delle tempeste incatenato non può cacciarsele
vertiginose davanti ai danni della terra.
«Giovanni!» senza mutare attitudine e neppure volgere la
pupilla dal punto dove stava fissa, cominciò il papa,
«molto abbiamo fatto per voi...»
«Beatissimo Padre...»
«Non c'interrompete; - siate con noi più orecchi e meno
lingua che potete: - molto abbiamo fatto per voi; e ciò vi
rammentiamo soltanto perchè possiamo fare cose molto
maggiori. Cavalcherete al campo sotto la nostra pa... sotto
Fiorenza.»
Gli occhi del personaggio chiamato Giovanni coruscarono a guisa di
baleno dall'orbita profonda.
«Colà attenderete a notare diligentemente le cose che
vedrete, inviandocene debita relazione o sommario, dove la materia
abbondi, per un cavallaro a posta a Roma, o a Orvieto, o a Bologna,
secondo che vi terremo avvisato.»
Tranne quello dei labbri, il papa non fece altro moto fin qui: - ora
della mano chiusa sopra la tavola stendeva il dito pollice quasi per
annovare le diverse commissioni che conferiva a cotesto suo fidato.
«Osservate sopra tutti Baccio Valori nostro commessario al
campo: egli ama sè prima; con immensa distanza dopo la
libertà, poi i Medici: - noi l'adoperiamo, giovandoci il
credito e l'autorità di lui; egli si pose ai nostri stipendii
perchè non si affida nello stato presente di Fiorenza, e non
potendo guadagnare nulla col popolo, s'industria avvantaggiarsi con
cui intende dominarlo: - forse, chi sa? un giorno renderà
alla nostra stirpe il danaro che ci cava di sotto con la sua testa
per cambio della moneta, e non sarà troppo, ma
basterà. Per ora temiamo non voglia navigare con ogni vento e
tenere il piede in due staffe... Spiatelo... se vedete ch'ei ponga
più corde al suo arco, avvertiteci in tempo, onde anche noi
possiamo mettergliene al collo una sola.»
E qui spiegato l'indice, continuava: «Vi raccomandiamo in
seguito il principe di Orange: se costui avesse ingegno quanta
possiede mala fede e valore, noi saremmo spacciati. Ma cotesta
è stoffa di cui la trama sente di ribaldo, l'ordito del
pecorone. Egli intende a grandi cose; - al conte Rosso di Bevignano
ha dato ordine non consegni Arezzo ad anima viva, inoltre gli
confidò in segretezza volersi instituire re d'Italia, o
almeno di Toscana, sposare la duchessina Caterina e comporsi in
qualche modo, dopo aver messo il becco all'oca, con lo imperatore e
con noi: - il conte in segretezza lo ha confidato a quanti lo
vollero e non lo vollero sapere: se noi temessimo troppo di lui, a
quest'ora avrebbe un altro generale l'esercito, gli avelli della sua
famiglia un altro morto... Non pertanto badatelo. - Noi confidiamo
meglio sul capitano dei nostri nemici che non su quello del nostro
proprio esercito...»
«Il signor Malatesta Baglioni!»
«Egli stesso, Giovanni. Vivi col tuo nemico oggi come se
dovesse diventarti amico domani; vivi oggi con l'amico come se
domani dovesse riuscirti nemico. Ma di lui in seguito: - ora, per
procedere con ordine, udite e riponete in mente.» A questo
punto stendeva il medio e poi proseguiva: «Importa moltissimo
che veggiate di rinvenire modo ad appiccare qualche pratica con i
cittadini: - eccovi il filo onde svolgiate agevolmente la matassa;
prendete questo segno e a chiunque vi porterà il compagno
date piena fede. Monsignore da Carpi già e Giovambattista
Negrini vi appianavano il sentiero; voi avete ingegno quanto basta
per dispensarmi da troppe parole. In Fiorenza troverete di tre sorte
fazioni: Palleschi, Ottimati e Arrabbiati. Ai primi voi prometterete
poco, e noi manterremo meno: primo, perchè e' presumono farci
ricuperare la città quando non hanno potuto impedire che noi
la perdiamo; e siccome intendono vendercela, pagandoli secondo
quelle ingorde loro voglie, a noi non basterebbe, non che Fiorenza,
Roma; poi, guardati molti, moltissimi sostenuti come sospetti, non
possono affaticarsi senza danno manifesto della cosa in pro nostro;
terzo finalmente, tutto quello potranno fare faranno senza
incitamento, costretti dalla condizione in che e' si trovano: - dal
governo popolesco nulla hanno a sperare; - di mutare parte ormai non
è più tempo; mutando, dall'infamia in fuori, non
possono guadagnare altro: - quindi ci si manterranno fedeli... - Con
gli Arrabbiati perderete l'opera e il consiglio; - costoro a suo
tempo convertiremo con le mannaie. Perchè quali parole ha
detto Gesù Cristo nostro divino Redentore? Ogni albero che
non fa buon frutto va reciso e buttato al fuoco. - Rimane la parte
del Capponi, o vogliamo dire Ottimati: questi il tiranno odiavano,
non la tirannide, e la mia famiglia cacciarono per ampliare la
propria; - ma più del principato detestano la repubblica: ed
ora che esperimentano sotto il governo democratico essere divenuti
incresciosi all'universale e confusi con l'onda del popolo, non
dubito che sieno per porgervi ascolto; imperciocchè l'uomo
più volentieri si accomodi a servire un solo e dominare su
cento che a non servire a molti e a non dominare veruno...» -
Ora stende l'anulare e continua: «Nè meno vi
raccomandiamo Zanobi Bartolini, uomo superbo, amante della
libertà, ma di sè più assai: guadagnarlo
è impossibile, ingannarlo difficile; qui conviene adoperare
l'estremo dell'arte. Questi uomini di acuto intelletto presentano
quasi sempre un lato da potere essere offesi, e consiste nello
stimare sè troppo, - troppo poco altrui: - fingerete che noi
ci abbandoniamo nelle sue braccia, che vogliamo in tutto e per tutto
rimetterci in lui, che la libertà intendiamo aver ad essere
salva, arbitro egli a dettarne i regolamenti, padrone di provvedere
alle sicurezze e d'imporle; null'altro desiderare noi oltre quello
che si concede a qualunque cittadino non omicida, non ladro, di
vivere cioè e di morire nel dolce luogo ove sortimmo la
vita.» - Spiegò tutta la mano e riprese: «Fuori
di modo gioverà accontare la parte col signor Malatesta.
Quantunque cotesti scapestrati giovani gentiluomini abbiano ridotto
in pezzi la nostra statua, noi perdoneremo loro per averci ammazzato
di cera, purchè si curvino ad adorarci di carne.»
«Beatissimo Padre, il mondo conosce la saviezza vostra; e
certo quello mi dite del signor Malatesta muove da profondo
consiglio. Pure se la mia audacia non vi offende, Santità,
avete quanto basta pensato alla scelleraggine di costui?»
«Ella è una cosa questa di cui egli farà i conti
col diavolo a suo tempo. A noi anche giova la sua nequizia. E poi
imparate gli uomini non essere nè del tutto buoni nè
cattivi affatto; - basta sapere adoperarli: - e qui sta l'arte. E
così come voi e noi lo riputiamo scellerato e sia,
credereste, Giovanni, che un giorno una intera popolazione
supplicasse la Regina del cielo per la salute di lui e, conseguita
la grazia, consacrasse una tavola votiva a Maria
consolatrice?»
«Il popolo di Dio, per quello che lamentano i profeti, non
edificò altari negli alti luoghi e vi adorò Moloc? Ma
se la fama è vera, il glorioso pontefice Leone X vostro
cugino, ora corrono dieci anni, non fece strangolare in castello
Giampagolo padre del Malatesta? Non ha egli da vendicare il sangue
di suo padre sopra la vostra famiglia?»
«Certi beneficii nuovi non tolgono di mezzo ingiurie vecchie;
- ora però a tale è condotto Malatesta che,
mantenendocisi avverso, la vendetta perderebbe e gli stati; delle
due cose, siccome savio, accomodandosi ai tempi, renunzierà
ad una, - sarà la vendetta della morte paterna: noi faremo in
modo che il giorno per questa non arrivi mai. E poi Nicolò
Machiavelli osserva in qualche parte delle sue scritture che gli
uomini la morte del padre ti perdonano, la perdita della roba no; e
la esperienza ce lo fa toccare con mano.»
«Renunzierà alla vendetta!... - Ella parmi cosa indegna
cotesta del nome italiano; l'inferno aspetta colui che si tura le
orecchie per non sentire il grido del sangue de' suoi.»
«Voi volete dire, il cielo aprirà alla sua anima i
tesori delle sue beatitudini.»
«A Malatesta?»
«Certo che sì. - Rinunziare alla vendetta è
opera meritoria, - rinunziarvi
[Footnote 1:] a causa della maggiore esaltazione della Chiesa poi
diventa opera anche più meritoria; - non bastando questo, noi
gli concederemo l'indulgenza plenaria per le colpe commesse e per
quelle che commetterà. - Andate ad aprire la porta...»
Si era fatto sentire un battere lieve ad una delle quattro porte
della stanza: ma così sul subito non riusciva, tranne a
coloro che erano pratici, conoscere a quale avessero bussato;
sicchè Giovanni Bandini non sapeva come eseguire il comando
del Papa. - Questi, accortosi dell'esitanza di lui, alzò la
mano e gli additò la destra porta avanti di sè. Il
Bandino apriva.
Dalla porta uscì un nuovo personaggio, e le imposte gli si
chiusero, come per moto proprio, senza rumore alle spalle.
Egli aveva la veste, non la sembianza, di cappuccino; - si
gittò giù sopra le spalle il cappuccio esclamando con
ardita voce che singolarmente contrastava al mistero col quale era
stato introdotto:
«In fè di Dio avrei molto meglio tolta sul capo una
partigiana che questo cappuccio di frate. - E' mi pare che mi abbia
spento quel po' d'intelletto che v'era rimasto dentro... Di grazia,
il cappuccio di frate costuma sempre così?»
Il nuovo venuto era un capitano perugino, anima dannata di Malatesta
Baglioni; si chiamava Cencio, per soprannome Guercio: alto della
persona ed aiutante; di volto ignobile, di colore giallastro,
intorno agli occhi un cerchio tra il verde e il violetto, increspato
d'infinite rughe in segno di lascivia, e forse anco cagionate da
quel continuo stringere dei muscoli visuali che l'uomo fa nei climi
di mezzogiorno per le sue costumanze costretto a consumare la vita
nei campi aperti inondati dal sole. Il soprannome accennava un
difetto di lui; quando la pupilla destra fissava in certo punto
determinato, deviava la manca in molto sconcia maniera; quando la
manca andava al segno, sbalestrava la destra. Abietto come uno
schiavo, arrogante come un compagno ai misfatti d'un principe,
insopportabile come un plebeo che reputa l'opera sua necessaria. -
Così almeno ce lo descrivono le memorie dei tempi.
Un raggio di luce piombando dalle finestre superiori circondava la
persona del Pontefice. La gravità del volto, la magnificenza
delle vesti, la solennità dell'attitudine, santificate, per
così dire, da quel raggio solitario, lo rendevano venerabile.
- Il petulante soldato gli si accostò nel modo che si usa fra
antichi famigliari e non fece atto nessuno di riverenza e di
ossequio. Clemente allora stese la mano quasi per vietargli
s'inoltrasse più avanti; ma egli gliela prese e, forte
stringendola, esclamò:
«Che Dio vi conceda il buon giorno e il buon'anno, messor lo
Pontefice, Voi mi parete, con buon rispetto vostro, Lazaro
resuscitato: state lieto, che presto riavrete Fiorenza: su, allegro
via: se non sollevate l'animo, davvero, prima di tornare a Roma, ho
paura che ve ne andiate a Scesi...» E così continuava.
Il Papa ritirò la mano, e le guance per vergogna gli
diventarono vermiglie. Poco fa un imperatore prostrato gli baciava i
piedi, adesso un masnadiere gli stringe la mano non altramente che
se fosse un fratello in ribalderia o femmina di partito. Così
è: chi si compiace andare per vie fangose, non deve dolersi
se s'imbratta i sandali; - e fin dalle età rimote Dante
insegnava: In chiesa co' santi, in taverna co' ghiottoni.
«Santità, che vi par egli? Vi ho servito ha dovere?
Avrei voluto riporre i rocchetti d'oro che mi furono consegnati per
ordine nostro nel forziere di qualche magnificenza di ambasciatore,
ma e' non mi riuscì mai di penetrare di notte nella loro
stanza; - e poi, vedete, io non mi sapeva risolvere a perdere que'
bei rocchetti d'oro; ho propriamente violentato la mia natura; in
fè di Dio, non vi salti in capo un'altra volta di comandare a
un soldato che si disfaccia di così ricca roba. Se si
tratterà di levargliela... oh! allora la bisogna sarà
diversa; di questo me ne intendo più di voi, Beatissimo
Padre; avrei loro tolto anche il cuore senza che se ne accorgessero.
- Comunque sia, vi ho contentato. - Voi avreste veduto come quel
pecorone del Rucellai cascò dalle nuvole quando gli trovarono
i rocchetti d'oro dentro la valigia; e fu una bella burla... una
burla papale in verità. - Io dei rocchetti non ne ritenni pur
uno; - ci potete credere, com'è vero che noi siamo qui; - ci
posso giurare sul Sacramento. - Vostra Santità, che comprende
il sacrifizio, - lo sforzo, - vorrà ricompensare da par suo
la mia virtù.»
Il volto del Papa non dimostrava nessuna delle interne passioni; e
nonpertanto un pensiero di sangue gli traversava l'anima: quel
giorno era l'ultimo pel masnadiere, se la restante sua vita non
avesse dovuta adoperarsi nel tradimento in favore di papa Clemente,
Il Papa, non gli bastando rendere i suoi concittadini infelici, che
nel suo perfido consiglio li voleva anche infami, meditò
l'oltraggio di far nascondere i rocchetti d'oro nelle valigie degli
ambasciatori e come frodatori di gabelle vituperarli alle porte di
Bologna, i ricordi dei tempi raccontano essersi indotto a simile
turpitudine pei mali conforti di Baccio Valori. La giustizia divina
vedremo un giorno premiare costui secondo i meriti suoi con un
guiderdone di sangue; ora i Medici esaltano l'empio cittadino. -
Alla distruzione della patria egli vigila commessario del Papa nel
campo. - Cammina per la tua via; Dio non paga il sabato; intanto i
Medici ti porgono la sinistra con una borsa di danaro, tu non vedi
la destra; tempo verrà che ti daranno anche quella e armata
di scure sul capo. - Però il fatto riuscì diverso dal
come lo avevano immaginato. I soldati commossi all'oltraggio
onorarono gli ambasciatori; il popolo sospinto all'insulto,
accortosi dell'inganno, applauso alla venuta loro meglio non avesse
fatto a Carlo V. - E il Papa, che aveva raccolto quel fango senza
potere insozzarne i suoi concittadini nel volto, si rimase con le
mani imbrattate.
«Orsù via», interruppe Clemente a gran pena
frenando l'impeto dell'ira, e nondimeno favella con parole sommesse
e gli angoli della bocca dilata quasi al sorriso, «soldato,
adempi la tua commissione: - affrettati a dirci, perchè il
nostro tempo ci è caro, se il tuo signore Malatesta,
risovvenendosi alfine di essere figlio e suddito della Sedia
Apostolica, si delibera abbandonare le parti dei ribelli che ha
tolto a sostenere. S'egli vuol farle, si faccia ed in breve;
dacchè, consenta egli o repugni, poco importa alla somma
delle cose, la quale sia nell'arbitrio nostro; noi ci volgiamo a lui
solo perchè ci punge paterna cura di vederlo rientrare nel
grembo di santa Chiesa, la quale come madre amorevole le andate
ingiurie dimenticando gli apre le braccia; - perchè vogliamo
risparmiare l'effusione del sangue cristiano; - perchè non
rimanga guasta la terra.»
«Papa Clemente, voi siete nato vestito: - a Malatesta tarda
uscire di Fiorenza quando a voi tarda di entrarvi; ed anzi, quando
presi commiato da lui, mi richiamò addietro e mi
raccomandò significarvi... aspettate un poco che mi rammenti
per l'appunto come mi ha incombenzato dirvi.... ecco, così: -
Cencio, farai in modo di persuadere a Sua Santità che il
giorno più bello della mia vita sarà quello in cui,
mercè l'opera del suo servo Baglioni, tornerà la sua
famiglia ad albergare il palazzo de' suoi maggiori...»
Clemente in questo punto tradì sè stesso: balzò
in piedi, proruppe in dimostrazione di allegrezza, e, mal sapendo
che cosa si facesse, si trasse dal dito l'anello pontificale e lo
pose in quello del masnadiero. Cencio, come colui che astutissimo
era, se lo cavò subito dal dito e lo ripose diligentemente
nella cintola. Il Papa, fissandolo dentro agli occhi,
interrogò:
«Guarda dall'ingannarmi. Io ti farei mettere in pezzi anche
nel tempio di Cristo in Gerusalemme! Tu non mentisci?»
«In fè di Dio, e vi par'egli che vorrei commettere un
tanto peccato? Forse non so che per ogni menzione conviene penare
sette anni nel purgatorio? O che credete l'anima non prema anche a
noi? Però il pericolo è grande, e vi abbisogna mercede
proporzionata. - Sul prezzo ci accomoderemo di leggieri; sul modo
del pagamento, con maggiore difficoltà...»
«Desideri Malatesta; - si sforzi a desiderare: - noi qualunque
sua voglia faremo piena. Ama la salute dell'anima? - Noi gli
apriremo le porte del paradiso, senza che pur di volo tocchi il
purgatorio.»
«Anche questo a qualche cosa è buono, ma or si
domanda», e con la mano il masnadiero faceva atto del
soppesare, «e ora si domanda.... via.... meno spirituale
guiderdone.»
«Ben lo sapevamo noi che senza prezzo nulla si compra: -
esponi il patto.»
«Prima di tutto, il signor Malatesta vuol sangue.»
«Sangue? Di cui sangue?»
«Di Sforza e di Baccio Baglioni, seguaci, complici ed aderenti
loro: oramai pretende che voi non gli abbiate a ricovrare sotto il
manto della Chiesa; mandateli in pace; ognuno abbandonate nelle
braccia di Dio. Sorga tra loro arbitra la giustizia della
spada...»
«Avanti.»
«Tutti i capitani e soldati tanto a piè quanto a
cavallo delle terre della Chiesa allo stipendio dei Fiorentini sotto
la condotta del signor Malatesta sieno perdonati; i beni salvi; se
presi adesso, restituiti senza spendio di sorte alcuna.»
«Ancora.»
«Il signor Malatesta, con qualsivoglia grado e dignità
e con suoi parenti, seguaci, compiici e aderenti, possa a suo
beneplacito liberamente tornare a Perugia e quivi commorare in buona
grazia di Sua Santità.»
«Questo non era mestieri domandare; - ben lo aspettavamo noi:
- la presenza del signor Baglioni reca onore e decoro al dominio
della Chiesa.»
«Tanto meglio: rimesso il bando al capitano Prospero della
Cornia per l'omicidio di Jeronimo degli Oddi e i suoi
figliuoli.»
«Il Figlio di Dio», riprese il Papa additando il Cristo,
«perdonò a coloro che lo sospesero in croce; - a santa
Chiesa sua sposa imitare gli esempi divini è soave: chieda il
capitano Prospero col cuore pentito, il perdono del misfatto al
cielo, noi lo abbiamo perdonato....»
«Si conceda indulto al conte Sforza da Scarpeto pei maleficii
commessi, e gli sieno restituite le possessioni.»
«Abbia l'indulto e i beni.»
«La Santità Vostra conceda pieno assoluto dominio al
signor Malatesta di Nocera sulla Valle Toppina, Bevagna, Tunigiana,
Castellabono col titolo di duca; Rota Castelli e la metà di
Chiusi libero; - un vescovato di diecimila scudi d'entrata l'anno
per lo nipote; - la figlia del duca di Camerino per Ridolfo suo
figliuolo; - e finalmente componga a suo favore le differenze pei
castelli con gli Orvietani.»
«Avanti.»
«Per lui non ho a chiedere più nulla. - Se nella vostra
larghezza voleste donare anche a me qualche beneficio... meglio dei
vostri abbati sapremo governare una badia... ed io, vedete, sono
stracco dei travagli del campo, - e sento che il cielo mi chiama
proprio alla vita contemplativa...»
Il Papa, rammentandosi allora di avergli nella prima caldezza del
sangue donato, un anello di troppo grande valore, e se ne pentendo
adesso, punto dall'avarizia, della richiesta di Cencio, immaginava
fare suo pro, e quindi rispondea:
«A questo avevamo pensato noi: - sta per pacificarsi l'Italia;
e ci conviene provvedere allo stato di uomini leali che militarono
in vantaggio della Chiesa: anzi, ora che ci ricorre in mente, e' ci
pare che tu faresti bene a restituirci l'anello. - Egli è
troppo piccolo dono ai meriti tuoi. - Per una volta che renderai
adesso, ti ristoreranno in futuro dieci volte cento. Ancora avverti
che te lo potrebbero trovare indosso e farti capitare male, ben
conoscendosi alla forma come appartenente a vescovo o
prelato.»
«Deh! Padre Santo», fingendo devozione favella Cencio,
«lasciate che per la salute dell'anima mia non me ne
scompagni: io m'accorgo dovere contenersi in lui virtù
mirifica da salvare da incantagioni e malìe; ed io ho tanta
paura del demonio che mi par di morire al solo sentirmelo rammentare
davanti! - Che mi faccia capitare male non dubitate: io lo
terrò celato, nè me lo terranno vivo; e quando
sarò morto, voi sentite che peggio non mi potrà
accadere.»
«Bene, sia. Torna tosto al suo signor Malatesta e
raccomandagli si affretti; - avrà piena la mercede secondo le
sue inchieste, e a noi spetta concedergliela anche maggiore: egli ci
parve umile troppo e rimesso; si affidi alla larghezza medicea. Al
nepote potremmo anche concedere il cappello rosso. - A lui... il
gonfaloniere di santa Chiesa conta circa settant'anni; egli, se
giunge, non sorpassa i quarantacinque...»
«Malatesta vi prega che la Santità Vostra, così
per ricordo, si degni porre il nome qui sotto questa
cedola...»
«Di gran cuore.» - E il papa firmò senza pure
guardarla.
«Poi mi disse ancora: Cencio, bada, il proverbio spagnuolo
insegna: parola e penne il vento le porta via, - la promessa grave
sfonda la carta dove sta segnata... sicchè procura farti dare
tanto in mano che mi assicuri. - Io, ben me ne accorgo, sono un mal
destro negoziatore: e queste cose non ve le dovrei dire, o dirvele
in maniera più soave, ma per me, quando si può andare
per la piana, fuggo l'erta e la scesa. - Patti chiari, amicizia
lunga...»
«Ah! Malatesta pretende sicurezze?»
«Le pretende!... no, le desidera. Siccome egli è
bellissimo novellatore, costui sovente costuma di raccontarmi che
male hanno dipinto i pittori il Tempo in sembianza di vecchio con la
falce in mano; dovevano, egli dice, invece immaginarlo giovane e
poderoso con una granata con la quale dì e notte
infaticabilmente spazza stelle, spazza dii, spazza vite, amori,
odii, gratitudine, e tutto spazza, e fattone mucchio lo getta dentro
certa riviera che si chiama l'oblio...»
«Digli che rimarrà a Fiorenza con la sua gente
finchè non abbia adempito ai trattati. Accostati! guarda
quest'uomo in faccia.»
«L'ho guardato.»
«Bada non dimenticarne il sembiante.»
«State sicuro; - non potrei dimenticarlo volendo: ha qualche
cosa in volto che mi rammenta il mio signore Malatesta.»
La fronte di Giovanni Bandini diventò livida; le sue labbra
tremarono.
«Questi verrà in campo, nostro commissario segreto; -
il tuo signore e tu stesso manterrete le pratiche con lui: - secondo
che l'occasione vi si offra, corrisponderete insieme intorno alle
cose a sapersi necessarie. - Or va'... va' con Dio.»
«Messer lo Pontefice, statemi sano», riprende Cencio e
fa atto di stringergli la destra. Clemente la tira a sè con
disdegno; e l'altro, senza pure accorgersene, continua: «A
rivederci, e non in Pellicceria, come disse la volpe al suo cugino
lupo: a rivederci per darci tempone e bere un gotto alla memoria
della libertà di Fiorenza.»
Il Pontefice tendendo il braccio comanda:
«Giovanni, date commiato a questo capitano.»
«Mi paiono mille anni di farmi frate; - la barbuta comincia a
pesarmi sulle tempie: oh la bella vita ch'è la vita da
abbate...!»
«Soldato!» esclama Clemente richiamando indietro Cencio,
«vorresti mutare l'anello che noi ti donammo con mille ducati
d'oro del sole? - tu ci miglioresti di un terzo.»
«Che è, che fa a me il terzo? Forse io conservo per
intendimento mondano l'anello che toccò il dito della Vostra
Beatitudine? Io me lo tengo caro, perchè mi preservi dalle
tentazioni del demonio e dal peccare più oltre; - i miei
peccati mortali, vedete, sono più di sette...»
«Or dunque vattene.»
Giovanni Bandini, posto ch'ebbe fuori della stanza costui e chiuso
diligentemente le porte, tornò indietro e disse:
«Incomportabili cose a cotesti ribaldi concedeste,
Santità.»
«Non rammentate voi il consiglio di Guido da Montefeltro a
papa Bonifazio VIII?
Lunga promessa coll'attender corto Ti farà trionfar nell'alto
seggio.»
«I benefizii dunque?»
«Lui ordinerò diacono, e Malatesta suddiacono, quando
il demonio celebrerà la messa.»
Ed ambedue tornarono nell'attitudine prima. Dopo un silenzio non
breve, fu inteso pienamente percuotere ad una delle quattro porte.
Il Papa visibilmente trasalì e comandò al Bandino
andasse ad aprire, dicendo:
«Ecco gli oratori fiorentini.»
Mentre andava il Bandino, egli curvò più del solito le
spalle, - il messale si trasse davanti, - accomodò il Cristo;
- poi stette in sembianza impassibile ad aspettare.
Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi
Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini,
oratori del comune di Fiorenza. - Giunti appena che furono al
cospetto del Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi:
ma Clemente, rilevandoli con la voce e co' gesti favellava:
«Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su
via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L'imperatore ha da curvarsi
al cospetto nostro e baciarci i piedi: - voi poi siete parenti,
amici, tutti figliuoli della medesima madre. - Messere
Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite,
parliamo di Fiorenza nostra in famiglia. A quale stato la povera
città si trova adesso condotta?»
«Dentro», rispose severo messere Nicolò,
«non si patisce difetto di animo nè di vettovaglia
nè d'armi: - i barbari fuori, raccolti ai nostri danni,
tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli
uccidono o sperdono. - Tanta e sì grande ingiuria appena
potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il
giorno finale; - dappertutto seminano il deserto...»
«O Fiorenza mia, dove ti meneranno questi sconsigliati?
Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla
dalla rovina. - Accordiamoci a cacciare via i barbari che la
divorano... queste immani bestie tedesche, che dalla voce e
dall'aspetto in fuori nessuna parte hanno di uomo, come scriveva la
buona anima del nostro messere Nicolò....»
«Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito
nostro contristato», riprese a dire il Capponi,
«l'intendere la buona mente della Santità Vostra verso
la patria comune... vostra madre e mia. Brevi i patti della pace e
consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca
il dominio, del presente reggimento nulla s'innuovi.»
«Libertà!» interruppe il Pontefice a mano a mano
infervorandosi nel dire: «e parvi libertà questa dove
senza cagione parte de' cittadini s'imprigionano, molti più
si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte?
Paionvi modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il
nostro a Careggi, proporre di spianare l'altro in Fiorenza e farvi
una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Onesto
ed ordinato vivere è quello della città dove i
più tristi e senza pena penetrano nei tempi di Dio, le
immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e
vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa
Cosimino? Una mano di ribaldi è prevalsa e tirannicamente vi
governa; niuna signoria più grave di quella dello schiavo
diventato padrone. Almeno nei tumulti dei Ciompi sorse un Michele
Lando, uomo di cuore retto, di cui lo spirito camminava nelle vie
del Signore. Ora chi vi regge? Un Francesco Carduccio, un fallito,
un uomo che cerca, pescando nelle acque torbe, fare suo pro
dell'altrui, che i beni dei servi di Dio sacrilegiamente vende per
abbandonarvi un giorno, sazio dell'oro e del sangue di voi! -
Sconsigliati! sconsigliati! Ravvedetevi una volta!»
«Beatitudine, questo modo di vivere piace all'universale.
Allora qual cosa rimane al semplice cittadino? O accomodarsi al
volere dei più, o tôrre bando volontario dalla patria.
Chiunque pretende imporre un reggimento nuovo al suo paese, e sia
pure migliore del vecchio, contro alla volontà dei cittadini,
quegli è tiranno...»
«Or bene, messer Nicolò», riprende il Pontefice,
«fate piena balìa, adunate il parlamento, e stiamoci a
quanto delibererà il popolo.»
«Popolo sì, non plebe; la plebe vedemmo sempre corriva
ai propri danni; voi conoscete il ricordo posto nella sala della
Signoria:
/* Che chi cerca di fare il parlamento, Cerca tôrti di mano il
reggimento.» */
«Non ci aspettavamo da voi udire citati, o messere
Nicolò, i barbari versi dell'apostata Savonarola...»
«Dite piuttosto del martire della libertà.»
«Su questo proposito non favelliamo. Ora dunque proponeteci
voi tale forma di governo per cui i miei parenti tornando in
Fiorenza stieno sicuri che non verranno loro troncati i sonni da un
ferro nel cuore; per la quale non temano che un giorno le proprie
ossa e quelle dei loro padri sieno tolte dalle antiche sepolture e
date miserabile pasto alla fame dei cani.»
«Siffatte abbominazioni noi non abbiamo commesso...»
«No?» sempre incalzando continua il Pontefice,
«sarebbe questo il primo sangue dei Medici che bagna il
terreno della patria? La prima volta questa che una madre di nostra
casa piange sopra i figliuoli trucidati? - Mio padre Giuliano non
giacque miseramente trafitto nel santuario? L'inclito zio Lorenzo
non salvò a gran pena la vita dal pugnale nemico? Quanta
mostrarono i Medici benevolenza ed amore ai Fiorentini, altrettanto
questi gli ricambiarono con rabbiosissimo odio. La storia della
nostra famiglia è una serie di benefizii invano prodigati, di
morti, di esilii e di confisce immeritamente sofferte, crudelmente
decretate. E voi stesso, messere Nicolò, diteci: qualcosa
guadagnaste voi con questo ingrato popolo maligno in guiderdone
delle vostre cure, degli uffici penosi, dei travagli durati? Per
poco stette non vi mozzassero il capo.»
«Santità, quando mi elessero gonfaloniere, mi
proibirono espressamente mantenere corrispondenze particolari coi
signori stranieri: mandando lettere a Vostra Beatitudine e da lei
ricevendone, con tutto che io lo facessi per bene, non disobbedivo
meno all'ordine del popolo; egli poteva punirmi; non volle; - mi
rimandò dall'ufficio, e in questo operò generosamente,
non iniquamente.»
«Or via, nobili uomini, datemi ascolto: io voglio abbia un
reggimento Fiorenza che, senza offendere la libertà, una
della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come
principale cittadino, voi altri ottimati della città gli
componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche
bisogne. Poichè le fortune e la virtù di per sè
stesse distinguono l'uomo e il cittadino della povertà e
dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce
necessità di natura.»
«I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e
li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo
a nostra posta istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal
germe di prossima discordia?...»
Clemente soprastette alquanto prima di rispondere,
imperciocchè vedeva ogni arte riuscirgli meno; alfine,
tenendo la faccia dimessa a terra favellò:
«Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò
con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli traviati.»
Iacopo Guicciardini, troppo diverso da Francesco l'istorico di
triste memoria, camminava svisceratissimo della libertà; - di
animo audace, pronto di lingua; - lo avevano aggiunto quarto
all'ambasceria per opera dei Piagnoni o Arrabbiati, onde con la sua
avventatezza temperasse la pacata natura degli altri. Fino a quel
punto, di ciò caldamente supplicato dai compagni, taceva;
adesso poi, sentendosi divampare il sangue, l'ira prorompergli dai
precordii, gridò:
«Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete
voi re di Fiorenza, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come
principe la nostra città....»
«Noi siamo vicario di Cristo.»
«Per proteggere», replica il Guicciardino, «non
già per distruggere; per beneficare, non per uccidere. Cristo
abita nei cieli: in terra quella signoria che noi gli concediamo
egli prende. Sua legge è l'Evangelo, legge che predica gli
uomini liberi ed eguali. E voi osate chiamarvi vicario di Cristo -
mostrateci il mandato; - se stiamo all'opere, voi mi parete il
vicario del...»
«Messere Iacopo! esclamarono i suoi compagni facendoglisi
attorno, - e lo tiravano per le vesti e con cento modi diversi
s'ingegnavano a farlo tacere - «acchetatevi, per Dio! voi
rovinerete la patria e noi...»
«Se a voi importa la vostra quanto a me la mia vita,
lasciatemi favellare. Alla patria non può avvenire peggio di
quello che adesso le avviene. Le mie parole rimarranno come
testimonianza tra i posseri; e non sia detto che, mentre tanti
liberi petti cimentano la vita in pro della patria, nessuno tra noi
sia stato valente ad esprimere generose parole. - Giulio dei Medici,
molti avete dedotto gravami contro la vostra terra, molte vi lasciai
discorrere menzognere lodi in vantaggio della vostra famiglia. Ora
sappiate la vostra casa essere stata tra noi come l'insetto della
nuova Spagna, il quale penetra nella pelle sottile quanto una corona
d'ago e poi s'ingrossa sì che t'uccide. Tre volte in
novantaquattro anni noi lo cacciammo, perchè volle i suoi
concittadini ridurre in servitù, la patria convertire in
mensa dove noi, i nostri figli, le facoltà nostre potesse
divorare a bell'agio. Meglio per noi se i padri nostri avessero
avuto più crudeltà nello spengerla affatto, o meno
debolezza per richiamarla. Ogni anno la famiglia vostra ha svolto
una spira per avvilupparci dentro, come fecero i serpenti di
Laocoonte e dei suoi figliuoli. Lorenzo si usurpò la fama di
grande, Lione eziandio: hanno eglino forse creato il proprio secolo?
Nessuno uomo è potente a creare un secolo; - Dio solo lo
crea, e la fortuna. Lorenzo, se ai virtuosi sovvenne, ciò fu
per libidine di fama e con danari non suoi: - a Roma lo avrebbero
punito come reo di peculato, - noi deboli e stolti lo salutammo col
nome di ottimo, liberalissimo. A che parlate di sangue? A che
rinnovate la memoria degli antichi delitti? Interrogate le tombe e,
per ogni stilla di sangue dei Medici versato, sorgeranno spettri a
presentarvi tazze colme del sangue loro sparso dai vostri maggiori.
E per venire a noi, perchè adoperate adesso e lusinghe e
ambagi e minacce? Perchè vi sta immobile nella mente il fiero
disegno di fare schiava la vostra patria infelice? Se alcuni giovani
protervi guastarono nell'Annunziata le statue della vostra famiglia,
se la vostra immagine tolsero da San Pietro Morone, quale colpa
è nello stato? Forse un reggimento sta mallevadore per le
azioni dei singoli cittadini? Dove la Sedia vostra Apostolica avesse
a pagare pei delitti di coloro che vi seggono sopra, ora (tacendo
degli altri), pei misfatti di Alessandro VI, dove l'avrebbe
condannata la giustizia di Dio? I signori Otto di Guardia ordinarono
si atterrassero le vostre armi; e bene ordinarono, come quelle che
non s'innalzavano a decoro della famiglia, bensì in segno di
principato. - I beni della Chiesa alienammo, poichè due
vostre bolle o brevi ce ne somministravano facoltà. - E che?
- Scrollate il capo? Forse mentisco io? Le bolle non si ponno
negare, a meno che a voi non piaccia interpretarle, secondo il
vostro costume, efficaci ad alienare i beni ecclesiastici per
combattere la patria, non già per difenderla. - Aprite,
Giulio, l'animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno,
nè uomini nè santi. Voi intendete assoluto signore
dominare su Fiorenza.
Voi vorreste le nostre teste scalini per salire sul trono e quindi
le prime ad essere calpestate. «Or bene, dunque sappiate,
poichè la Repubblica non ha potuto impetrare mercede alcuna
da voi per liberarsi da sì gran danni che le fa attorno
l'esercito vostro, averci ella commesso di far intendere alla
Santità Vostra, essere in tutto deliberata a sostenere la sua
libertà fino alla morte. In tanto giusta causa non trovando
pietà appresso voi, come si converrebbe a vicario di Cristo,
ricorre al trono di Dio e lo supplica che, viste le ragioni dell'una
parte e dell'altra, dia di noi quel giudizio che gli parrà
giusto. Sappiamo che nella difesa che fa la città, la quale
è pur vostra patria, difende in prima la libertà, dono
largito da Dio ai mortali per lo più bello e più
maraviglioso ch'egli mai conceda dopo la vita; dipoi vi si difende
la religione, i figliuoli, la roba, cose sopra tutte carissime, le
quali dal vostro esercito, composto di barbare nazioni, ci sono
disperse, parte ammazzate, parte messe in pericolo, senza scorgersi
in voi non dico ombra di misericordia, anzi scorgendosi in voi
ognora più una grandissima crudeltà contro di lei
nella quale nato, allevato e per suo mezzo a così alto grado
condotto vi siete. Dalla pietà di questa condotta in tante
miserie se non vi muovete, quale altra cosa vi muoverà a
compassione? Non posso, rimettendomi nella memoria i crudi strazii
ch'ella patisce, contenere il pianto e non dirompermi di tal maniera
nelle lagrime che più non possa, non dico parlare, ma
sostenere questa infelicissima vita. E voi, che dite tenere il luogo
in terra del Redentore piissimo dell'universo, non vi commovete e
non comandate che si lasci stare quella patria innocente, che
più non si affligga con tanta rovina...»
A tante e tanto gravi parole il Pontefice si era lasciato andare
genuflesso davanti la immagine di Cristo, e quivi a braccia aperte,
fingendo singhiozzare come preso da immenso dolore, orava;
«O mio divino Redentore, senza mormorare mi sottopongo alla
dura prova con la quale intendi cimentare gli ultimi anni della mia
vita. Ella è superiore però alla mia natura,
sicchè vi soccombo sotto. A me la taccia di crudele? Non amo
la mia patria io? Tiranno io, o coloro che, ridotta in pochi
Arrabbiati la pubblica autorità, i meglio autorevoli
cittadini bandirono o imprigionarono?...»
«Alzatevi! alzatevi!» esclama il Guicciardino,
«tanto Dio non ingannerete voi. Oh! meglio che pregare
ipocritamente il divino Redentore, a voi potenti della terra
gioverebbe lealmente imitarlo...»
«Messere Iacopo, io ricevo col cuore umiliato la tribolazione
che l'Altissimo per la bocca vostra mi manda. In voi discerno uno
strumento della volontà divina e vi onoro. Quando pure non
fosse così, questo mio Dio, che pregò pei suoi
uccisori perchè non sapevano quello si facessero, mi
conforterebbe a pregare per voi che non sapete quello che vi
diciate.»
«Non so quello ch'io mi dica io? O papa Clemente, trema che
cotesta effigie del Redentore non si animi per miracolo; temi quella
lingua si sciolga e riveli intiere le cupezze dell'animo tuo. Se
Cristo stacca di croce la sua destra inchiodata.... trema.... non la
leverà per benedirti....»
«Orsù», interrompe il Pontefice levandosi in
piedi, «tregua alle parole; oramai ne proferimmo anche troppe.
Iacopo, la vostra lingua è riottosa come le acque di un
torrente. Voi ponete la vostra causa nelle mani di Dio, ed ancora io
ve la pongo; discerna egli e giudichi: - dacchè traemmo la
spada, - la spada dunque difinisca la lite.»
«Tu hai raccolto tutti i venti del settentrione per divellere
dal tronco la fronda inaridita. Come Faraone, superbisci pei tuoi
cavalli, per le tue molte milizie: - bada al mar Rosso! - Dio
può rendere la fronda inaridita tenace quanto la querce delle
Alpi. Ai buoni è concesso dai colpi di fortuna appellare
all'Eterno. - Alle vittorie dei tristi esultano i dannati. Se
talvolta un consiglio profondo esalta l'empio, ciò il fa
perchè senta più fiero il dolore della rovina.
Tranquilli, se non lieti, ci diamo in balia degli eventi,
perchè, vincendo, ci aspetta la fama di avventurosi e di
onorati; soccombendo alla impresa, il mondo ci chiamerà
infelici, ma onorati pur sempre. - Tu poi affacciati al futuro,
ardisci con occhi aperti contemplare il tempo che viene.., e di'...
qual cosa tu vedi?... Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia,
chè non ci sobbissi sul capo, dacchè l'ira di Dio ci
gravita sopra. - Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono
carità patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il
David del Buonarotti si moverà prima a difendervi che il
cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa
di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto
le rovine di lei.»
E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la
mano sul battente della porta per uscire.
«Iacopo, fermatevi», esclama il Papa, «e udite le
mie estreme parole. Sieno i Medici per autorità nello stato
vostri compagni non principi; componete di quarantotto famiglie un
senato, e in quello risieda il potere di governare...»
«Se il mio antico genitore mi avesse proposta infamia e
delitto siffatti, io mi adopererei a fare sì che la scure del
carnefice insanguinasse i suoi capelli bianchi.»
E senz'altre parole aggiungere usciva della sala.
«Voi, messere Nicolò dotato come siete di più
temperata natura», riprende Clemente, «considerete col
buon giudizio vostro la mia offerta; - non vogliate delle cose
l'estremo: accomodatevi ai tempi; - dominiamo insieme.»
«Le insinuazioni vostre», gli rispose il Capponi,
«mi suonano uguali a quelle che mosse Satana a Gesù
Cristo quando dal pinaccolo del tempio gli mostrava i regni della
terra: ufficio di cittadino è turarsi le orecchie e fuggire
dalle tentazioni.»
Profferiti cotesti accenti, Nicolò Capponi tenne dietro a
Iacopo Guicciardini.
«Dunque non mi riuscirà a farvi intendere ragione,
ortinati e protervi? Messere Andreuolo, fatevi messaggero dei miei
sensi agli ottimati...»
«Dove un mio figlio sapessi ambasciatore di tanta nequizia, io
gli andrei contro per ispezzargli la testa alla parete.»
Ciò detto, il Nicolini scomparve.
«Almeno voi, Soderini...»
«Io vi scongiuro, papa Clemente, a spargervi le chiome di
cenere, umiliarvi nel santuario e domandare mercede davvero dei
vostri peccati; se pure i vostri peccati non superano la
misericordia infinita.»
E lasciò solo il pontefice.
Papa Clemente per bene due volte con intensissima rabbia si morse le
mani ed esclamò:
«Il mondo mi diventa la torre di Babele: quando domando vizio,
incontro virtù; - quando abbisogno di virtù, trovo
vizio... Pure tanta vita mi avanza da adoperare in modo che i vostri
nepoti ricercando a' vostri figli libertà che significhi,
quelli additando loro le vostre dimore demolite, i vostri sepolcri
scoperchiati, rispondono: La libertà significa morte e
rovina!»
CAPITOLO SESTO
LUCREZIA MAZZANTI
All'atto incomparabile e stupendo
Dal cielo il Creator gli occhi giù volse
E disse: Più di quella ti commendo
La cui morte a Tarquinio il regno tolse.
Ariosto, Orlando furioso, c. XXIX.
Lupo! o Lupo! prendi il boccale - e bevi un sorso a rinfrancarti il
cuore; - tu mi hai una cera da De profundis.»
Queste parole dirigeva certo soldato del dominio di Firenze, e con
le parole offeriva un vaso pieno di vino a Lupo bombardiere, di cui
vedemmo il bel colpo nella cittadella di Arezzo. E questa avventura
succedeva a notte avanzata dentro un corpo di guardia accanto la
porta di San Nicolò, unica tra le tante di Firenze che
tuttavia si mantenga nella antica sua forma. Un solo lume sospeso
alla vôlta rischiarava di splendore vermiglio piccola parte
della vasta stanza: e tu vedevi dei soldati quivi raccolti alcuno
disteso per le panche in atto di dormire, altri seduti novellare dei
casi di guerra; tali altri, e questi erano i più, bevere
spensierati, come uomini per cui il tempo scorso è nulla, il
futuro anche meno, e si godono il presente fugace - e lieto,
perchè vuoto di affanno.
Un fra loro, di volto leggiadro e, comechè giovanissimo, a
tutti capo, se ne stava appoggiato con le spalle alla parete, la
faccia china, immerso in pensieri i quali, a giudicarne dalle
sembianze di lui, non dovevano essere buoni nè tristi: -
questo era Ludovico Machiavelli. Lupo invece sedeva con le pugna
strette, fortemente puntellate nelle guance sotto gli zigomi; gli
occhi socchiusi: ad ora ad ora prorompe dall'intimo petto profondi
sospiri. - Guizzando intanto la fiamma sanguigna sopra quei volti, -
per tutta la scena, - presentava un quadro fantastico, stupenda
materia ai dipinti di Gherardo delle Notti o del Rembrandt.
«Lupo!» riprese un altro soldato, «bevi: - il tuo
buono umore è ito in fondo del boccale; ripescalo coi labbri
e ridiventa gaio, perchè la tua tristezza ci uggisce, e
troppo più della tristezza cotesti tuoi sospiri, che
spingerebbero in mare il bucintoro. - Piagni forse i tuoi
morti?»
«Pel Battista, lo hai detto! Io piango un morto... piango
l'onore dell'Italia e di noi altri», e, siffatte parole
proferendo, tal diè del pugno sopra la tavola che i distesi a
dormire si svegliano di soprassalto levando la testa sospettosi di
qualche sinistra avventura.
«L'onore della milizia italiana spento?» domandò
ansioso il giovane Vico. «Qual cosa v'induce a giudizio
sì iniquo sopra il vostro sangue?»
«Sta a voi domandarmelo, Vico? Non siete fuggito anche voi
d'Arezzo? Così è - noi infelici reliquie delle Bande
Nere, tanto famose nelle guerre passate, ne abbiamo or dianzi
bruttata la gloria. Occhi miei tristi, che tante volte e tante
vedeste dalle bande onoratissime del signor Giovannino i Tedeschi
assaliti e dispersi, perchè mai vi ostinate a rimanere aperti
per contemplare una fuga infame senza pure essere affrontati?... O
morte! o morte!» E il prode uomo si batteva con le mani la
fronte.
«Confortatevi, Lupo: col capitano Ferruccio non fuggiremo
più...»
«Sentite, Vico, riponetevi bene nella mente le parole del
veterano: - i peccati di viltà non hanno remissione; - la
viltà sparsa una volta porta il suo frutto, - frutto di
esempio pessimo e di danno alla patria, irrevocabile. - Io ho pianto
due volte in questa vita: - la prima fu, quando una notte del mese
di gennaio io mi scaldava al camino da una parte, e la mia povera
madre filava dall'altra: mi aveva narrato le mille cose fatte e
dette da mio padre e da mio nonno (che Dio gli abbia in pace), e le
giostre avvenute ai suoi tempi e la congiura dei Pazzi, chè
ella si trovò in chiesa alla strage e nel trambusto vi
perdè il cappuccio di vaio e la collana d'argento. - La
povera donna nel bel mezzo del discorso si arresta... e subito dopo,
con voce mutata, mi dice: Lupo, accóstati, ch'io ti
benedica... ti lascio solo... O gran Madre del Signore, ricevi
l'anima mia! - Levai la faccia e vidi la povera madre con la destra
in atto di benedire, - gli occhi aperti, e la bocca aperta
anch'essa, ma storta da un lato. - Iddio l'aveva chiamata alla pace
degli angioli. - Lupo è rimasto solo davvero sopra la terra.
L'altra volta ch'io piansi fu... - Compagni miei, vi chieggo
perdonanza se vi funesto con dolorosi racconti. Io mi taccio e
rumino da me stesso la mia angoscia.»
«Di', di', Lupo; le parole del veterano riescono sempre
gradite all'animo dei suoi compagni.»
«Ora dunque, figliuoli miei, - perchè io per
età, vedete, potrei esservi padre, comechè non abbia
tolto mai moglie e non mi sieno nati figliuoli; ma certa volta udii
raccontare da messer Pietro Aretino, svisceratissimo del signor
Giovanni, come un antico capitano a certo che lo riprese di non aver
tolto donna, ed in questa maniera privato la patria di eredi delle
virtù sue, rispondesse: Sappi che io lascio due figliuole e
tali che se la patria ne imita l'esempio, diventerà non pure
famosa, ma unica per la gloria delle armi nella Grecia: e
ricordò due battaglie da lui virtuosamente combattute e
vinte. - Fin qui Lupo non operava nulla che gli fruttasse onore;
però non vi ha impresa, comunque arrisicata ella sia, per la
quale non senta l'animo e le voglie disposte. Adesso mi trovo ad
avere tanto detto fuori del seminato che non so più donde mi
sia partito o dove io mi abbia a ritornare: - mi sembra dovessi
narrarvi come piangessi le seconde lagrime in mia vita, ed ecco
proprio il modo in che andò la cosa. - Il signor
Giovannino... Nessuno di voi ha egli veduto il signor Giovanni dei
Medici? - Ebbene, quando passate da Orsamichele, sostatevi a
guardare il San Giorgio di Donatello: immaginate voi che muova le
braccia, che parli di forza, che lanci lo sguardo acuto quanto un
verrettone, ed avrete la immagine vera del fortissimo capitano. - Il
signor Giovannino con alquanti cavalli leggieri si pose alla caccia
dei Tedeschi nel serraglio di Mantova. - I nemici, che lo chiamavano
il gran diavolo, - tanto si mostrava nelle zuffe avventato e feroce,
- si danno scorati alla fuga: - noi proseguiamo ardentissimi quella,
più che battaglia, beccheria; - la strage della gente tedesca
ci giungendo gradita, non come di nemici vinti, sibbene come di
genia bestiale, oscena peste del mondo. Uno di questi scomunicati,
mole gigantesca di mala carne, all'improvviso volta faccia a me che
lo inseguiva, e tale mi scarica a traverso un colpo di mazza d'arme
che mi avrebbe schiacciato il capo come un pinocchio. - Lupo era
leggiero in cotesti tempi; mi abbandonai pertanto sul dorso del
cavallo, spronai oltre e lo colsi così impetuoso della punta
nel ventre che lo passai fuor fuora meglio di un palmo dal tergo. -
Qui sento picchiarmi sulla corazza: - pensando vicino un nuovo
nemico, mi volto con truce proponimento, e vedo il capitano
Giovanni, il quale al cenno aggiungendo le parole: Prode Lupo,
favellò, domani ti promoveremo a sergente delle nostre
milizie... - Appena i suoi labbri tacevano che lo vidi, atterrato
per forza prepotente, avvilupparsi nella polvere; - accorsi a
rilevarlo, ed egli: Cristo! esclamò, la stessa gamba di
Pavia: ormai è destinata a rimanere sul campo. - E
così come disse fu: una palla di falconetto gli aveva rotto
sopra il ginocchio la medesima gamba destra che al Barco di Pavia,
scaramucciando, gli ferirono sconciamente verso la noce. Incalzando
i Tedeschi, noi non temevamo delle artiglierie, sendo avvertiti che
non ne avevano: ma nella notte il duca Alfonso di Ferrara, secondo
che il diavolo lo persuase, nascosti dentro certe barche di
vettovaglia mandava loro pel Po quattro falconetti; e in questo modo
egli fu cagione prima della ferita, poi della morte del signor
Giovanni. Imperocchè, trasferito a Mantova in casa Luigi
Gonzaga, gli furono attorno i cerusici e deliberarono segargli la
gamba. Quando io lo vidi accomodato sopra la sedia, mi tremarono i
polsi, mi sentiva scoppiare il pianto, che pure trattenni per non
isconfortare quel povero signore. - Egli poi guardava le seghe, i
coltelli, le tanaglie e l'altro apparecchio infernale da cacciare i
brividi addosso a chi non ci aveva a far nulla; e sorrideva. Intanto
Abram giudeo, scamiciato fino ai gomiti, cominciò a tagliare,
rasente la ferita, le carni. Il signor Giovanni siede e guarda; io,
temendo non lo facesse trasalire lo spasimo, me gli accosto e lo
recingo con le braccia alla cintura. Quasi gli avessi fatto
ingiuria, mi si rivolge con mal piglio e grida: Ch'è questo
che fate, Lupo? Andate via: io so molto bene reggermi da me senza li
vostri ajuti. - A Dio non piacque salvarlo. - Dopo pochi giorni
rimase spento con danno inestimabile della milizia italiana quel
pro' guerriero, bellissimo di corpo, forte di braccio, ingegnoso,
feroce, nella età verde di ventinove anni. Corse voce nei
tempi, papa Chimenti corrompesse il cerusico giudeo, e questi gli
segasse la gamba con ferri avvelenati. Intorno alla qual voce io non
saprei consigliarvi a crederla e a discrederla nemmeno; di questo
però vi assicuro, papa Chimenti volergli male di morte, e lui
essere capace di questo o di altro; quanto al giudeo poi, io lo
conobbi uomo dabbene. - In siffatti casi ho pianto, - due sole volte
in mia vita... - Ma vedete, in quel modo che ieri udii predicare a
fra' Benedetto, il capitano Moisè, traendo il suo popolo per
lo deserto, e mancatagli l'acqua, percosse un sasso, e quinci
uscì copiosissima fonte, in quel modo dico l'angoscia mi ha
battuto sul cuore e ne fece scaturire lagrime e sangue. Ora poi a
cagione dell'ultimo vituperio nostro il mio cuore si è del
tutto spezzato; in breve spero mi sarà concesso di fuggire la
vista del sole, che aborro, e sottrarmi così agli eventi
futuri, che l'animo mi presagisce funesti: - se non sapemmo
difendere la patria in Arezzo, come la difenderemo noi qui, no, io
per me non so capire davvero: pari i muri, i petti pari...»
A cotesti discorsi i soldati tacevano siccome rimorsi dalla
vergogna, o scorati da presentimento. Più di tutti il
Machiavello. Uno fra loro, crollando ad un tratto la testa come per
cacciarne i cupi pensieri, favellò:
«Lupo, le tue querele paionmi generose, non savie. Noi
possiamo di quest'infamia lavarci le mani, e non mica come Pilato.
L'onta ricade intera su l'Albizzi, il quale comandò la
partita: ed ora, chiamato dai signori Otto a sindicato, dovrà
renderne ragione col capo.»
E Lupo rispondeva:
«Il sangue macchia, non lava; la colpa del commessario si
confonde con quella dei soldati; e nel mondo si leva un vituperio
per tutti che tu non sai placare. Per Dio! così non
istà bene. Se osservi il comando del capitano codardo, una
condanna di obbrobrio insieme con lui ti contamina; se ti rifiuti
agli ordinamenti della milizia, ti puniscono di morte: - il caso di
Pandolfo Puccini informi...»
«Lupo, io ti assicuro», osservò Ludovico,
«la passione aombrarti l'intelletto: al soldato, quando
obbedisce il cenno del superiore, la fama è salva.»
«Poniamo via», riprende Lupo, «e che egli
obbedendo allo iniquo comandamento non abbia infamia come soldato:
ma fuggirà egli per avventura anche il danno come cittadino?
Io per me lo ripeto, - così non istà bene. Immaginate,
compagni, che, avendo noi giurato fedeltà al Palazzo di
Fiorenza, domani la Signoria si avvisasse comandarci di abbattere
Marzocco, gridare morte alla Repubblica, viva le palle: dovremmo, o
no, obbedire? Se no, tristi soldati; se sì, pessimi
cittadini. Io, non ho letto sui libri; - la disciplina in campo del
signor Giovanni costringeva, fuori di misura, severa: e nondimanco
ho sempre tenuto fisso in mente qui sotto giacere un qualche grave
errore da doversi emendare.»
«Ogni male viene dalla testa», soggiunse Ludovico;
«bisogna attendere prima di tutto a nominare buoni signori e
buon capitano, poi rimetterci interamente ai comandi; - se togli
ciò, nissun governo, nessuna disciplina possono
reggere.»
«Sì bene: ma quando l'errore è commesso? Forse
la pioggia non bagna le membra del soldato come quelle del
cittadino, non le assidera il freddo, non le arde il fuoco? Il
soldato che impegna le braccia ha forse venduto il cuore e la mente?
Se il soldato vive nei campi, rinnega per questo la patria? Non
conserva egli sempre desiderii ed affetti di cittadino? E se
abbandona la cara famiglia pei rischi della guerra, ciò non
fa egli appunto per tutelarla da oltraggio straniero? Ora dunque,
quando conosce a chiara prova un comando imbecille o traditore,
sarà obbligato ad eseguirlo e così con le sue mani
procurare un fine contrario a quello pel quale mosse dal dolce luogo
dove pure lo trattenevano pietà dei parenti, dolcezza di
marito, amore dei figli? Ditemene quante volete e sapete, voi non
arriverete a persuadermi che il soldato che mise a cimento la vita
per la libertà della patria debba obbedire come bestia
insensata e feroce allorquando gli ordinano di ammazzarla.»
«E per altra parte, se concedi facoltà al
soldato», riprende il Machiavelli, «di ponderare, prima
di obbedirlo, il comando (lasciamo da parte che molti ne farebbero
pretesto di tradimento o d'ignavia), innanzi che l'uomo si fosse
determinato a soddisfarlo, l'occasione andrebbe perduta;
perocchè voi sappiate, Lupo, il destino delle battaglie
pendere sovente da un minuto.»
«Voi siete dotto, voi, e da tale nascete che la sapeva lunga e
la sapeva contare; sicchè poco sforzo ci vuole a far
comparire scempie le mie parole. - Certo che in mezzo alla
battaglia, quando il capitano ordina: Avanti! - il soldato si fermi
e risponda: Lasciatemi pensare; - mi sembra cosa bestiale. - E se
dall'altro canto considero che intendono ridurre il soldato in
condizione di arnese composto di ossa e di carne, da spingerlo
avanti, indietro, da parte, senza intelletto, senza cuore; e' mi par
cosa anche più bestiale della prima. Tra le due
estremità deve trovarsi una strada di mezzo. Io non ce la so
vedere; ma il sangue mi bolle allorchè penso un soldato
figliuolo del popolo possa riuscire, per disciplina, parricida e
stromento di servitù nelle mani del tiranno o del
traditore.»
«Veramente, dinanzi alla legge suprema di conservare la
libertà, credo ancora io che la disciplina taccia; allora
qualche cosa che sta sopra alla disciplina delle milizie approva la
ribellione, anzi la persuade; voglio dire la patria e Dio.
Però triste indagini paionmi queste. Di che temiamo noi? Noi
abbiamo signori animosi, capitani provati.»
«E Malatesta?... - Ma via porgetemi il boccale, ch'io voglio
bagnarmi la bocca. Ho parlato tanto! e forse, e senza forse, folli
parole, - peccato della vecchiezza.» - Qui bevve e riponendo
il boccale sulla tavola, continuò: «Vedete, l'uomo si
assomiglia al boccale pieno di vino. Il tempo ogni anno vi beve un
sorso lungo, sicchè in fondo ci rimane il peggio: colla
età cascano i capelli e il giudizio. Viva la gioventù,
forte, audace, fidente... Io stasera, invece di concitarvi con belle
storie di guerra, vi attristava con torbide fantasie di vecchio
gufo. - Ve ne domando nuovamente perdono: io me lo concedo tanto
più di leggieri in quanto che penso il vostro cuore per
parole non crescere nè diminuire. - Animo! su, compagni! non
è la prima volta che gl'imperatori videro le nostre mura. -
Le videro, non le espugnarono. Non dico vero, Ludovico? Messere
vostro padre deve pure averlo scritto nelle sue storie.»
«Sì, certo, e udite come la racconta, che io me la sono
serbata a mente: «L'imperatore (era Arrigo VII), deliberato di
domare i Fiorentini, venne per la via di Perugia e di Arezzo a
Firenze, e si pose con lo esercito suo al monastero di San Salvi
propinquo alla città a un miglio, dove cinquanta giorni
stette senz'alcun frutto: tanto che, disperato di potere disturbare
lo stato di quella città, ne andò a Pisa. Correva
l'anno del Signore 1312.»
«O perchè messere vostro padre, il quale pure
sapientissimo uomo era, in così magnanimo fatto spese tanto
poche parole?»
«Perchè dubitò la ignavia del secolo presente su
le glorie passate si riposasse. Di vero, cavare sollievo nella
presente miseria dalla memoria delle perdute facoltà senza
sbracciarsi a mutare stato la è cosa da gente vile.
Più lungo fu esponendo i falli e le colpe dei tempi,
affinchè i cittadini ne sentissero vergogna e
l'emendassero.»
Così consumando il tempo nel novellare di molti e varii
argomenti, all'improvviso fu udito mosso di fuori uno schiamazzo di
voci confuse, minaccevoli e supplicanti, umili, crucciose, e
imprecazioni e bestemmie; - poco dopo un rumore come di carra
rovesciate, di corpi caduti; e qui guaiti, urli furibondi, senza
misura crescenti; quindi un celere scalpito di cavalli sopra il
selciato della via.
Adesso, mentre i soldati del corpo di guardia staccavano le
partigiane dalla parete per accorrere in aiuto, spalancato
fragorosamente le porte, balza in mezzo della stanza una femmina,
come palla briccolata dalla bombarda, la quale, corsi allo indietro
tre o quattro passi, quasi compiendo l'urto di spinta impressa
contro di lei, andò a percuotere supina il capo nella parete.
Indifferenti a cotesta apparizione, i soldati uscirono dal corpo di
guardia; rimasero Ludovico e Lupo per ragione di ufficio ed anche
per vaghezza di soccorrere la misera donna. Le si accostarono
pertanto e, rilevandola, la trovarono giovanissima, bella e di
gentile aspetto: le sue vesti apparivano schiette, quali costumano
le donzelle di contado, se non che fatte di panni più fini e
con sottile lavorio ricamate di passamani e nastri di seta. Le si
vedevano sul volto delicato i segni di patimenti sofferti, certo a
lei più gravosi quanto più nuovi: pallida era ed aveva
bianche le labbra, gli occhi chiusi siccome morta.
Ludovico, invece di porgere mano a Lupo onde sovvenire alla
fanciulla, si rimase immemore a contemplarla. Ludovico toccava la
età nella quale un'arcana malinconia si diffonde nel sangue:
quanto una volta piaceva ora rincresce: - il ragno intreccia a
festoni la sua tela intorno al tanto una volta diletto leuto; la
spada anch'essa polverosa penderebbe dal chiodo, se amore di patria
non gliela cingesse ai fianchi; il seno si gonfia a spessi sospiri:
sovente tendeva l'orecchio, quasi aspettando una chiamata; si
sentiva invogliato a piangere e non sapeva perchè; nella sua
mente si avvolgevano forme indistinte e pur vaghe d'ineffabile
bellezza, a guisa di volti di angioli specchiantisi sopra l'onda
commossa di un lago; - ed ora quelle sembianze, contemplate a
frammenti, par che gli stiano definite dinanzi; - la voce che
aspettava gli si è fatta sentire, e l'eco della sua anima
già vi ha risposto, la corda è vibrata, conosce il
fine dei dubbiosi desiri.
Lupo, sdegnoso per la inerzia di Ludovico, così lo riprende:
«Vico, davvero io vi credeva più caritatevole verso il
prossimo. - Datemi una mano perchè io non so quello che mi
faccia: - fosse ella colubrina o smeriglio saprei il modo di
aggiustarli io... una fanciulla così delicata... in questo
stato... che cosa volete? non me ne intendo e intanto la poverina
patisce... - Qua via, porgete il lume, vediamo mo' s'ella fosse
rimasta ferita nel capo. - Tenete ferma la mano; - così non
vedo nulla: - ma che diavolo avete nelle braccia che le vi tremano
come se la quartana vi fosse venuta addosso?» - Così
favellando Lupo spartiva dietro il capo il volume delle chiome alla
donzella e, al moto delle dita aggiungendo il soffio, speculava se
vi fosse lacero o contusione. - «Gran male io non ci veggo;
ora abbisognerebbe un po' di aceto... cercate, Ludovico, se vi
venisse fatto di trovare o penne di pollo o esca od anche carta, che
gliela bruceremo sotto il naso e la faremo rinvenire: - io la
scingerei, ma non mi attento; e' sono cose queste che non si
aspettano a' maschi...»
Ludovico, come risensando, senza dar mente alle parole di Lupo,
aveva già tratto un pannolino di tasca e, intintolo
nell'acqua, dolcemente bagnava le tempie alla donzella. Nè
stette guari che, in quella guisa che l'aere vermiglio all'orizzonle
annunzia vicina la lampa del sole, il colore della giovanezza e
della salute, diffondendosi sul volto alla fanciulla, presagì
vicino il ritorno dell'anima agli usati offici. Alfine trasse un
gran gemito, e lo splendore degli occhi si manifestò. Li
volse esterrefatta d'intorno, e la prima parola che uscisse dalle
sue labbra fu:
«O padre mio! Dov'è mio padre?» E chiuse gli
occhi di nuovo. Di lì in breve riaprendoli, gli fissa nella
faccia di Lupo, e prendendone terrore, a braccia aperte si ripara al
seno di Vico esclamando: «Salvatemi, in nome di Maria
santissima, da quel ceffo di fiera... difendetemi da quell'empio
ladrone... uccidetelo, o uccidetemi...»
«Per la testa di San Giovambattista!» proruppe Lupo,
«valeva il pregio davvero che io mi prendessi tanto impaccio
di scioglierle la lingua a cotesta calandra! Che ci ho a fare io, se
gli anni mi hanno mutato in bianco quello che un giorno ebbi nero, e
il sole ha mutato in nero quello che dalla natura sortii bianco? Se
le ferite mi hanno cincischiato il viso, ciò è
avvenuto perchè, tranne una volta... una volta sola..., non
voltai mai le spalle al nemico. Ed io vo' che sappiate, fanciulla
mia, tornare a maggiore infamia pel soldato gli sfregi alle spalle
che non si vedono che gli altri visibili sopra la faccia. -
Nè sempre apparvi quale comparisco adesso; - e qualche occhio
di donna pianse alle mie partenze, e qualche labbro sorrise ai miei
ritorni. Ma ci corrono anni da questi a quei tempi! - Però
non dubitava di avere ceffo da mettere paura, - da masnadiere, - da
ladrone. Voi, fanciulla mia, avete scambiato il sorbo per noce. - Io
sono Lupo bombardiere agli stipendi della Repubblica di Fiorenza...
onesto e dabbene quanto può esserlo qualunque altro
bombardiere in questo mondo e in quell'altro.»
Ludovico sosteneva quel caro peso; fremeva, godeva e taceva;
un'arcana voluttà gl'investiva le membra. La donzella pur
sempre a occhi chiusi, col capo dimesso; di repente si svelle dalle
braccia di lui, palma percuote a palma, le mani si caccia tra i
capelli, prorompe in dirottissimo pianto e, fuggendo verso la porta,
empie l'aere notturno col grido:
«O padre mio! o padre mio!»
«Vico la seguitando veloce, la trattiene; e confortandola con
dolci parole, le dice:
«Non temete; il padre vostro ritroveremo; vi ricondurremo alle
vostre case... ai vostri parenti...»
Qui lo interrompe un alto riso della fanciulla: - egli allora, tra
stupido e soddisfatto aggiunge:
«Sol che vi piaccia mantenere l'animo lieto e
tranquillo.»
«Vuoi rendermi la casa! Oh! rendimela via, e con essa la mia
cameretta linda, polita, col soffitto tinto d'azzurro, e il
letticciolo con le coperte di rascia rossa e il bel capoletto di
Sicilia: - rendimi la immagine della Madonna dell'Impruneta di Luca
della Robbia e la lampada e il vaso dove ogni giorno mutava fiori
freschi di mia mano côlti nel giardino... Ma come farai a
rendermela, se quando ne uscii, il pavimento, le pareti, il soffitto
tutta andava in fiamme?... Mi vuoi gettare tra il fuoco? In che
peccai? Cotesta è la stanza dei dannati, ed io non ho fatto
male a persona nel mondo. - Io sono innocente, io! - Tu mi hai
parlato di madre: menami a vederla, e ti dirò fratello,
perocchè io sappia ogni creatura nascere da una madre ed
essere amata da lei sopra ogni cosa: ma io, sai? non ho conosciuta
la mia... nessuno ha risposto allorchè domandai: siete mia
madre voi? - ed io fin qui ho dubitato di essere venuta al mondo
senza. Ben ho padre e amatissimo. - Almeno lo aveva un'ora fa; - ora
poi non so più s'io lo abbia. - Deh! se lo sapete,
insegnatemelo, siatemi pietosi, rendetemelo. Non conosco altro che
lui nel mondo: - che cosa dovrei fare sola, orfana, abbandonata a me
stessa? - Adesso poi che madonna Lucrezia è morta. - Oh! le
sventure vengono sempre e troppo accompagnate. - Non credete forse
che madonna Lucrezia sia morta?... Io stessa l'ho veduta, invocato
il nome santo di Dio, precipitarsi a capo rivolto nell'Arno. Oh
quanto era gran dolore non poterla soccorrere! e, potendo, non
avrebbe mica voluto, perchè ella si uccideva per fuggire
vergogna. - Io stesso per lungo tempo l'ho cercata lungo le sponde
invano; e dopo trovai mio padre che sedeva sui tegoli inceneriti di
casa... e corsi e corsi veloce, cosicchè le stelle del
firmamento mi parevano un nastro lungo lungo di luce; - e ora l'ho
perduto da capo... Signori, abbiate pietà dell'orfana;
riconducetemi da mio padre... O padre mio...»
In questa le guardie della milizia fiorentina tornarono; e chi
sorridendo, quale imprecando, depositano le armi: se non che, vista
la desolazione della fanciulla, si acquetarono tutti, ed uno di loro
soltanto raccontò: causa del trambusto una squadra di
cavalleggeri uscita a foraggiare, che tornando carica di preda aveva
trovato la porta ingombra di gente del contado, di carra, di somieri
e di masserizie, con le quali fuggendo riparavano alla città;
che, non essendo riuscita, ad ottenere per amore si slargassero per
lasciarla passare, si era cacciata di forza tra quel cumulo di
uomini, di bestie e di cose, sicchè sbarattandolo e
rovesciandolo era passata di galoppo tra mezzo. Poco il guasto o
nessuno; qualche mulo o cavallo aombrato correre alla ventura per la
città, ma presto lo avrebbero ritrovato; la fanciulla di
certo caduta per urto di cima a qualche carro dove si stava
addormentata: trattenerla nel corpo di guardia pareva il consiglio
migliore, perchè non istarebbe guari la sua gente a venire
per lei.
La fanciulla porgeva attentissimo l'orecchio, fissava arguto il suo
sguardo nel volto del parlante, sospettosa non la dileggiassero; e
quando le parve sincero, alquanto si assicurò: allora con
ambe le mani traendosi dietro il capo i molti capelli caduti sulla
fronte, disse:
«Faccia Dio che presto ritorni! - Ma dove mi hanno condotta?
Dove mi trovo adesso?» E vedendosi circondata da tanti uomini
i quali curiosamente la guardavano, arrossì vereconda e
declinò le palpebre.
«Figliuola mia», le rispose Lupo, «già non
voglio dire che non potresti stare con miglior gente, perchè
la sarebbe soverchia presunzione cotesta; pure così come ti
trovi, sei sicura quanto nel monastero delle Murate. - Tu stai in
Fiorenza presso la porta San Nicolò, tra giovani
costumatissimi e ascritti alle bande della milizia cittadina. - Io
poi mi chiamo Lupo e sono bombardiere preposto alla colubrina
piantata in cima alla torre della porta.»
«Signor Lupo», soggiunse con umil voce la donzella,
«io mi abbandono nelle vostre braccia; - fatemi da padre
finchè non abbia ritrovato il mio vero. - Di ciò vi
avremo obbligo infinito tanto mio padre che io; e pregherò
per voi la madre mia ch'è nei cieli.»
«Sta' pure di buon animo, figliuola mia; tu sei in mezzo a'
tuoi. Anzi, ora che penso, onde diminuire le ansietà di
questa povera fanciulla, e' sarebbe bene alcuno di voi, con buona
licenza di messere Vico, si movesse in traccia di suo padre per le
prossime vie.»
«Dio ve ne renda merito», disse la fanciulla; - e poi
volgendosi a Vico e per la prima volta consapevole riguardandolo,
volle parlargli, e si confuse anch'ella; onde si rimase in silenzio.
«Come volete, Lupo, ci poniamo in traccia del padre
suo», notarono alcuni, «se i nomi di lei e di quello
ignoriamo?»
«Andate», disse la fanciulla, «e se per la notte
incontrate voce alcuna di pianto che chiami Annalena, - quegli
è mio padre. Se non udite la voce, il dolore lo ha
ucciso.»
«Orsù dunque voi, Marco Guidi e voi Pierfilippo,
aggiratevi qui d'intorno e vedete se per sorte vi ci abbatteste. -
Tornate presto e non passate l'Arno.»
Due uomini obbedivano al comando di Ludovico.
«Figliuola mia», riprese a favellare Lupo, «se io
non ti rinnuovo troppo disperata memoria, dimmi a che termine si
trova il nostro infelice contado?»
«Ahi! trista me! - I tormenti che videro questi occhi vincono
le parole. - Atti nefandi, abominazioni da demonii, immanità
efferate, delitti quali non dovrebbe tollerare la pazienza di Dio.
Chiunque adesso percorresse le terre già tanto fortunate del
nostro contado, gli parrebbero un deserto; - le tempeste dei cieli,
i fulmini, li terremoti insieme raccolti non potrebbero apportare
danno uguale a quello che hanno cagionato questi empi ladroni. Le
vigne svelte, gli alberi abbattuti, la terra sconvolta non serba
traccia delle fatiche dei campi. Le case ardono, le chiese rovinano:
e tutti questi danni ed altri maggiori non uguagliano i tormenti dei
miseri abitatori. Le donne tratte in ischiavitù, ad uffici
vilissimi costrette, battute, ferite... gli uomini appiccati ai
pochi alberi rimasti alla campagna, miserabile spettacolo dalla
lontana, più misero da vicino, perocchè allora si
conosca espresso quanti abbiano patiti crudelissimi strazi prima di
morire...»
«Occhi di Dio, dove dunque guardate?» Muggì
piuttosto con voce di toro che non urlasse con grido umano Lupo. E
la fanciulla spaventata balzò in piedi per fuggire.
«Ah!» proseguiva Lupo, «tutto questo avviene
perchè fummo codardi; - se avessimo tenuto fermo in Arezzo,
il nemico non iscorazzerebbe adesso il contado: bene sta,
dacchè non adoperammo le braccia a difenderci, forza è
che gli occhi consumiamo a piangere.»
«Oh! non versate ancora tutte le vostre lacrime, perchè
tale vi narrerò una sventura a cui se il piangere non manca,
vi si spezzerà il cuore per troppa compassione. Mio padre ha
stanza... e devo dire, aveva, - ma l'animo non sa credere come in un
giorno possano tanti infortunii accadere che appena mesi
basterebbero a immaginarli, e non pertanto avvennero in un'ora sola,
e noi sopraviviamo, - mio padre aveva stanza in Val di Greve presso
San Giusto: in certo luogo fuori di mano, ombroso per copia di
piante, era fabbricata la casa nostra, asilo d'innocenza, per me di
pace non interrotta, per lui di riposo agli antichi travagli,
dacchè mio padre, da me in fuori non ha parenti al mondo, e
spesso piagne sopra altri e la moglie defunta, e più sovente
egli versa lacrime d'ira che mi fanno paura. Ora correranno tre
notti il padre, accompagnandomi alla mia cameretta, mi baciò
in fronte, mi benedisse e mi salutò dicendomi: Addio, a
domani. - Poi, quasi un qualche presentimento lo funestasse, rifece
i passi per rammentarmi assicurassi bene per di dentro le imposte,
essendo la casa bassa, la contrada piena di ribaldi, molto il
pericolo dei ladroni, più che soldati, dell'esercito della
lega, le difese poche o nessuna. Ond'io, maravigliando dell'insolito
sospetto, domandai: Perchè tanto temete? - Ed egli a me:
Perchè mi sei sola in terra. - Siccome mi aveva consigliato,
chiusi diligentemente le imposte, - poi mi prostrai davanti alla
immagine della Madonna e le porsi le consuete preghiere pel padre,
per tutti ed anche per me; - mi giacqui pacata proponendo levarmi
mattiniera avanti l'alba per cogliere fiori, destare il padre
spruzzandogliene sul volto la rugiada e irriderlo dei notturni
terrori. - Il sonno mi vinse: all'improvviso, comechè tenessi
le palpebre chiuse, uno splendore mi offende la facoltà
visiva: dubbiosa di avere oltrapassata l'ora proposta, balzo a
sedere ed apro gli occhi. - Pensate voi qual cuore fosse il mio
quando vidi piena di fumo la stanza, - la fiamma sguizzare
spaventevole lungo il soffitto! - Preso consiglio dalla paura, fatto
fastello dei panni, scinta, scalza, scarmigliata i capelli, proruppi
fuori. - La Madonna aveva miracolosamente preservata la cameretta
della sua devota; - la rimanente casa in fuoco; - parte della scala,
la inferiore, vacillante travolta in fiamme, ma sempre in piedi; la
superiore caduta; ogni indugio sicurissima morte. - L'anima mia
raccomandata al Signore, mi slanciai; il divino ajuto soccorrendomi
toccai uno degli scalini rimasti; - bruciavano; - volai; -
dall'ultimo gradino movendo il primo passo, sentii sotto il piede un
corpo morbido, e mi parve ancora intendere un sospiro; - declinai lo
sguardo: - uno dei piedi mi vidi contaminato di sangue, e nel corpo
mi apparve la spettacolo miserabile di un servo infranto, mezzo arso
dalle fiamme - forse egli precipitava dalla parte più alta
della casa, dove aveva stanza.
«Affrettai il passo, non sapendo nè curando pensare in
qual parte fuggissi: - unica cura fuggire. Risensando, mi trovai
dietro la siepe foltissima del giardino, e dall'opposto lato
scôrsi mio padre, il quale in mezzo ad una banda di scherani
con le ginocchia piegate supplicava così: - Alfine anche voi
una donna ha partorito; avete sembianza umana: lasciatevi piegare;
concedete ch'io vada a salvarla... la figliuola... solo, unico
conforto alla mia vecchiaia; - lasciatemi: - quanto possedevo vi ho
dato. - Faccio sacramento sopra tutti i santi del paradiso non
essermi rimasto un picciolo per riscattarmi. A che volete ritenere
un povero vecchio? A che sono buono io? - Ahimè! sentite! -
è rovinato un trave... forse sul corpo della mia figliuola...
scioglietemi... lasciatemi. - Ed altre aggiungeva tanto
compassionevoli parole che faceva passione a sentirlo. Ma gli
scherani non gli badavano, intenti a dividersi le nostre masserizie
più care. Ben poteva tenermi nascosta, ma come può
figliuola abbandonare il padre in balìa a tanto affanno?
Disprezzato il pericolo, mi palesai e corsi ad abbracciarlo
esclamando: Sono salva! - Egli non poteva abbracciarmi, che ambe le
mani dietro al dorso gli avevano legate; - mi baciava... piangeva...
mormorava parole per passione soverchiante confuse. Così i
nostri mali obliavamo, quando uno dei masnadieri in sembianza
superiore agli altri mi viene appresso, e di forza piegandomi verso
lo incendio mi guarda allo splendore delle fiamme della mia casa con
piglio tra ladro ed osceno, poi vôlto ad un suo cagnotto,
comanda: - Menala assieme con le altre. - Stende il cagnotto le
mani; - io mi riparo alle spalle del padre; e questi, siccome ira ed
amore lo consigliano, privo d'ogni altra difesa, a morsi mi difende;
- ed ora prega, ora impreca affannoso. - Il caporale, infastidito da
coteste imprecazioni, esclama: Pieraccio, fa che il tristo corvo si
accheti; - e per sempre. - Il cagnotto si trasse indietro,
calò giù dalle spalle l'archibuso, tolse di mira il
padre mio, ed accostando la corda accesa al focone, sparò
contro di lui. - Egli cadde rotolando dentro la fossa che circondava
il giardino, ed io ancora caddi, come se il colpo medesimo avesse
ucciso due creature. Quanto tempo durassi in tale stato, non saprei:
allorchè rinvenni, mi trovai dentro una capanna angusta, e
intorno a me certe fanciulle del vicinato per lunga domestichezza
mie familiari. S'ingegnavano con diversi argomenti richiamarmi alla
vita. Posai pertanto di alcun poco la paura; e sopra tutto mi fu a
bene cagione la vista di monna Lucrezia Mazzanti da Figline. Questa
magnanima donna, di cui vi narrerò il pietosissimo caso, che
aveva di qualche anno condotto a marito Iacopo Palmieri da Fiorenza,
abitava in villa poco lontana dalla casa che fu nostra nel popolo di
Dudda: - lei citavano esempio di domestica virtù; per
santità di costumi venerata, dai poverelli per la sua
beneficenza benedetta, a cagione della donnesca sua leggiadria a
quanti la conoscevano gradita, discreta, ben parlante, amorevole.
Io, da gran tempo priva di madre naturale, lei madre per elezione
riveriva ed amava. Conveniva in sua casa mio padre; e talvolta,
quando stava in villa a San Casciano, un messere di alto affare, a
cui mi facevano baciare la mano per ossequio, dicendomi di lui
infinite novelle e come avesse corso pericolo di vita per causa
della libertà e lo avessero posto al martoro, come de' casi
degli uomini fosse speculatore arguto, espositore eccellente,
virtuoso, dabbene... lo salutavano col nome di messere Segretario...
sovente ancora messere Nicolò...»
«Il padre mio!» esclama Ludovico.
«E sì che mi pareva osservare sul vostro volto
sembianze a me già conte da tempi remoti...» E mentre
così la vergine favellava, il capo declinando, arrossiva. -
Poco dopo riprese: «Che fa egli? vive?»
«Dio lo ha chiamato alla sua pace.»
«Fortunato lui, che i suoi occhi non vedono le presenti
miserie! - Siccome me lo dicevano della patria amantissimo,
pietà divina certo lo tolse allo spettacolo di così
profondo infortunio. - A lei dunque mi voltai interrogandola dove
fosse mio padre: ed ella rispondevami starsi in luogo sicuro; non
dubitassi; lo avrei riveduto un giorno, sotto cielo meno inclemente,
circondato da creature più buone. Coteste parole non mi
confortavano punto; ricordai lo scoppio dell'archibugio, il padre
scomparso, e stemperandomi in pianto, più e più sempre
invocava il mio povero padre. Le compagne, male sapendo come
consolarmi, dolenti anch'esse per eguali sventure, piansero al mio
pianto, ai miei gridi gridarono. Sola madonna Lucrezia, trattenute
le lagrime, non facendo atto che apparisse vile, con soavi parole ci
conforta, in mille modi diversi s'ingegna raumiliarci: - Il pianto,
ci dice, ai colpi di fortuna non giova anzi gli aggrava; togliessimo
animo pari ai casi con i quali il Signore intenderà provarci;
rammentassimo le donne di coloro i quali con rischio della vita
avevano pigliato in mano la difesa della patria non dovevano
piangere; a nemico superbo opponessimo altero petto; un giorno
anch'essi scontrerebbero amare queste esultanze nefande; a Dio
volgessimo il cuore rassegnato e contrito; alla Madre Santissima ci
raccomandassimo; serbassimo la vita finchè potevamo con
onore; se no, scegliessimo la morte, e il cielo si aprirebbe a
raccogliere la nostra anima cantando le glorie dei martiri.
Così accesa nel volto con occhi lucenti favellava la
santissima donna, quando, schiusa la porta, apparve tra noi
l'abborrito ordinatore della morte di mio padre. Le compagne mi si
strinsero attorno, come colombe paurose del nibbio; io lo guardava
fisso e sentiva ribollirmi nel cuore orribile sete di sangue,
sicchè se mi fossi trovata in mano daga o archibugio e avessi
saputo come si uccide un uomo, lo avrei trucidato di certo. -
Costui, che seppi tenere grado di capitano, e chiamarsi
Giovambattista da Recanati, si restrinse a colloquio con Madonna;
procedevano da prima le sue parole dimesse, la persona piegava in
atto di ossequio, - poi diventò a mano a mano, concitato nel
dire, gli occhi gli avvamparono ardenti. Madonna rispondeva raro,
come schermendosi da molesta domanda, e noi la vedevamo ora
impallidire, ora arrossire a guisa di persona posta al tormento.
All'improvviso quel tristo proruppe: - Fin qui pregai. Ora sappiate
ch'io posso volere e voglio... - Lucrezia lo supplicava tacesse, il
luogo considerasse e le persone; ma l'altro non udiva ed ambe le
braccia distese per afferrarla. In quello estremo la donna gli
strappa la daga dal fianco e, alquanto indietreggiando,
gliel'appunta alla gola gridando: - Scostati, o sei morto. - Il
capitano si trasse in disparte e, contraendo le guance, fece greppo
e mostrò i denti come fiera che si apparecchia a divorare la
preda. - Era il suo riso. Poco appresso rincorato, - Madonna, le
disse, rendetemi la daga: voi ricambiate odio per amore; - questo fa
torto alla vostra pietà. - Ed ella: - Sì, certo, io
non voglio comparire davanti al mio Creatore coll'omicidio
sull'anima. Non a voi, capitano, sibbene a me stessa, darò la
morte, se vi accostate anche un passo. - Non ne farete niente,
Lucrezia! - e si favellando si avvicina; allora ella volge la punta
al proprio seno e si apre le carni, cosicchè ne spiccia larga
vena di sangue. Noi alzammo un terribile grido. Il capitano
urlò fieramente anch'egli e, fatto delle mani croce,
supplicò si rimanesse, - sarebbe partito. E si partiva:
mentre stava per oltrevarcare la porta, Madonna con voce carezzevole
lo richiamò indietro, e a lui tutto lieto dell'animo che
immaginava nella donna mutato, ella disse: - Pregarlo di farci
respirare aere meno grave, ci cavasse per qualche ora dal carcere
infame; lasciasseci vagare pei campi paterni. - Ed egli: -
Purchè sia meco! - Lucrezia rispose di rimando: - Sia.
Uscito dalla stanza, corremmo alla donna, fasciammo la piaga
leggiera, ed ella, come già rapita a sensi diversi, lasciava
fare: - diventarono mute le sue labbra: - si nascose il volto nelle
mani e così stette fino a sera, premendola un fiero
proponimento. Il pianto fu a noi tutte in quel giorno cibo e
bevanda. Declinando il giorno, comparve il capitano Recanati in
compagnia di alquanti suoi scherani, e con esso loro noi tutti
uscimmo. Lucrezia volse frettolosi i passi alle sponde dell'Arno. -
Talora si ferma, il cielo considerando e la terra: e poichè
il cielo appariva divinamente sereno e la terra lieta di verdi
piante... - ah! gli uomini non possono contaminare la natura., -
gemè dall'intimo petto. - La brezza vespertina mordeva acuta,
e noi la vedemmo dilatare le narici ed aspirarla a lungo tratto,
come se intendesse inebriarvisi. - Cotesta era carità di
patria, pensiero di godere le voluttà di cui il natio luogo
va pieno prima d'immergersi nella morte. - Ora le campane delle
parrocchie annunziano la estrema ora del giorno. - Voi sapete come,
in cotesta ora, in quel suono si comprenda un'arcana mestizia che
vince il cuore dei più tristi e li dispone ai rimorsi della
notte. Madonna si pose in ginocchio, - noi ne seguitammo l'esempio,
ed ella a noi volgendosi ci disse: - L'ultima ora di un giorno e di
una vita è compiuta; pregate per un'anima che sta per
passare. - Il senso di quelle parole non ci era chiaro, - pure
pregammo con ardentissimi voti. Cosa stupenda e a me medesima, dove
non l'avessi con i propri miei occhi contemplata, incredibile. I
masnadieri e il capitano, i quali ci vigilavano da vicino, commossi
dallo spettacolo di amore e di fede, loro malgrado si prostrarono
anch'essi, sforzandosi richiamare sui labbri l'orazione nei primi
anni della vita imparata dalla pia genitrice.
Noi donne stavamo sopra il ciglione dell'argine; - menava sotto
vertiginose le acque l'Arno grosso per le pioggie cadute nei giorni
precedenti. Madonna Lucrezia si leva: - aveva nel volto gran parte
di cielo; il crepuscolo dorato lo vestiva di luce serafica: ci
guardò mesta, non abbattuta; secura non baldanzosa; e aprendo
la bocca favellò: Figliuole mie, che voi sceglieste piuttosto
la morte con onore che la vita con vergogna, stamane con parole io
v'insegnava; guardate, - adesso ve lo confermo con l'esempio. - Ah!
il pianto mi toglie facoltà di raccontarvi partitamente
com'ella, spiccato un salto, si precipitasse nel fiume: - come
vedessimo ora apparire su le acque, ora scomparire sotto, la
santissima donna; e tanta era in lei la voglia di preporre
l'onestà alla vita che quante volte l'impeto dei vortici la
respinse su a galla, altrettante ella mettendosi le mani sul capo si
attuffava giù nel fondo. Urlando correvam lungo le rive
dell'Arno, strappandoci i capelli e invocando Dio. Il capitano,
improvvido di consiglio, rimase stupido di terrore. I suoi non si
movevano; - egli poi, quando si riscosse ed ebbe trovato barche e
corde per riaverla, trasse dal fiume un cadavere. - Scendeva intanto
la notte. - Il corpo inanimato adagiarono sopra una bara: -
portavano intorno due torce infiammate; e il capitano seguiva livido
e muto. - Già ci accostavamo al campo quando vedemmo, quasi
scaturito dal seno della terra, un uomo sordidato di fango, co'
capelli scomposti sul volto, ardentissimi gli occhi, stringere una
daga ed avventarsi contro il capitano Recanati gridando: - Rendimi
mia moglie! - E il capitano, quasi agitato dalle medesime furie,
trasse in un baleno il suo pugnale gridando più forte: -
Rendimi l'amor mio! - L'uno contro l'altro correndo rovesciano un
masnadiero che porta una torcia; - di subito li circondano le
tenebre; - ne segue fiero scompiglio: - i portatori fuggono, la bara
precipita rovesciando la morta sopra i due forsennati... Se quel
tremendo avvenimento giungesse a separarli, se più
infelloniti si uccidessero, io non so dirvi, perocchè anch'io
mi detti alla fuga, - e tanto corsi, tanto mi affaticai che, quando
per lassezza mi rimasi, la notte era alta; - intorno a me silenziosa
la terra; solo da lontano mi veniva un rumore come di acque che si
rompano per le pile dei ponti. Pensai movessero dal campo; e
rinfrancata, quantunque mi sentissi rifinita di forze, ripresi il
cammino opposto a quel suono.
- Andai per un tempo alla ventura, poi, ravvisando strade a me note,
deliberai tornare dove fu la mia casa, sperando rinvenire il corpo
di mio padre, dargli sepoltura e quindi commettermi alla fede di
taluno conoscente od amico. - Pur giunsi, - riconobbi i cancelli
atterrati, il bel giardino svelto; - ma mi premeva altra cura. Dal
terrore agitata e dalla pietà cercai per le fosse l'amato
cadavere. Per quanta diligenza io vi adoperassi, non mi venne fatto
trovarlo. - Mi avvio dolente verso l'aia dove surse la casa, adesso
ingombra di frantumi e di ceneri. - Mentre più mi avvicino,
odo un sospiro fievole, e subito dopo vedo un simulacro umano in
mezzo a quelle rovine; intendo più alacre il guardo... e mi
parve lo spettro di mio padre. Se pure fosse stato tale, amore mi
consigliava di andargli incontro, ma la paura mi vinse, e fuggii
prorompendo in altissimi stridi. - Nel tempo stesso la voce paterna
mi percuoteva le orecchie chiamando: - Figliuola, figliuola! -
Così vicini a riunirci per miracolo del cielo, di nuovo ci
dividevamo, - e forse per sempre, - se all'improvviso il cane
fedele, superstite a tante sciagure, non mi avesse, afferrando il
lembo della veste, impedito di correre. Ci abbracciammo dimentichi
dei sofferti mali; caduto era il padre non già di palla,
bensì per essergli mancato il terreno di sotto i piedi, e al
tempo stesso, sparando l'archibuso, parve rimanere ucciso, mentre
per divina provvidenza la palla, strisciategli le vesti, appena
l'offendeva. Precipito il racconto: albergammo in casa amica; ci
ristorammo della fame e del disagio; e poi, così volle mio
padre, saliti sopra poderoso cavallo, per lungo circuito, correndo a
precipizio, ci riducemmo a Fiorenza. - Forse dieci miglia discosto
incontrammo un convoglio di carra e di gente che abbandonavano il
contado: infranta nella persona, desiderai adagiarmi sopra un carro
pieno di strame e di leggieri me lo concessero i villani dabbene;
qui presi sonno; mi risvegliai precipitando e caddi tra voi. - Ed
ora mio padre dov'è? E perchè tarda? Qualche fiera
avventura gli accadde, e voi me la celate pietosi. O padre
mio!...»
Una voce lontana penetrò nel corpo di guardia, che chiamava:
«Lena! Annalena!»
«Silenzio!»
«Lena!»
«Ah! padre, padre, padre!...»
E tutti uscirono dalla porta a gola spiegata gridando:
«Qua. - Da questa parte. - Venite oltre. - Qui è vostra
figlia.» Cessa la voce, - s'intendono passi precipitati;
arriva un vecchio ansante, si slancia con giovanile leggierezza fra
le braccia della vergine, - ella di lui; e piangendo, mormorando
parole slegate, alternando baci e carezze, godono piena la gioia
umana, - la cessazione del dolore!
Alcuno dei circostanti piegava altrove il volto, vergognando
mostrarlo lacrimoso; Lupo rideva, non capiva in sè dalla
contentezza.
Poichè si furono alquanto rimesse quelle calde dimostranze di
affetto. il vecchio con labbra ridenti e cuore devoto rendeva
mercede agli ospiti della figlia.
«Oh!» rispondeva Lupo, «qui non ci capiscono
grazie; noi non abbiamo fatto altro che dirle buone parole... e
queste costano tanto poco, e tante ne sprechiamo invano e per male
che davvero non meritano pregio le pochissime proferite per bene. Io
ve l'ho conservata, come padre; e sebbene la presenza vostra mi
tolga la dolcezza di questo nome, siate ben venuto, buon uomo. Se
però non vi offendesse la proposta, e voi voleste accoglierla
con quell'animo col quale ve la offeriamo noi, starebbe a voi
renderci gli uomini più lieti di questa terra (perdonate il
rozzo dire alla sincerità delle intenzioni)... accettando
parte delli nostri danari...»
«Lupo ci vince in valore, in magnanimità, in anni, in
tutto», esclamarono i giovani.
«Per gli anni, sta pur troppo e, mio malgrado, bene; pel
rimanente, e nasca quello che sa nascerne, voi mentite per la
gola.»
«Gente dabbene, la vostra cortesia supera la parola: io ve ne
rendo con l'animo quelle grazie che so e posso maggiori. Dal
naufragio della fortuna tanto ancora mi avanza da sostentare me e la
mia figliuola finchè il nemico duri nelle nostre contrade.
Allora spero che Dio vorrà concedermi tanto di vita da
restituire in lieto stato le mie terre, rialzare la casa...»
«Amen!» risposero i circostanti.
«Però», disse Lupo, «vecchio come siete,
era meglio che riparaste a Lucca o a Siena e vi toglieste ai disagi
dell'assedio, come hanno fatto i nostri più doviziosi
mercatanti.»
«Il mercante non conosce patria; - i suoi affetti e le sue
memorie stanno nel forziere. - Agevole cosa è pertanto
trasportare un forziere. L'agricoltore pone nei campi l'amore, le
fatiche, le ricordanze o liete o triste della vita; nè i
campi possono da un luogo all'altro trasferirsi. A me bisogna
rimanere in patria o morto o vivo.
«Già non intendeva io consigliarvi ad abbandonarla,
sibbene rimanervi lontano finchè durano i pericoli della
guerra.»
«Lontano o vicino, i pericoli della patria mi riuscirebbero
del pari dolorosi e forse più gravi stando lontano,
perchè accresciuti dall'ansia, dall'incertezza e dal timore.
E che? Manca forse vigore a queste braccia per adoperarle in difesa
del mio paese? Quella guerra è invincibile dove combattono
per soldati il vecchio di sessant'anni e il giovanetto di quindici.
Me avventuroso se potrò dare al dolce loco natio gli estremi
giorni di questa mia vita angustiata per mille dolori!
Scaverò ai fossi, porterò terra ai bastioni,
porgerò le armi ai combattenti; - e, ogni via di salute
disperata, precipitando dall'alto apporterò con la mia la
morte di qualche nemico. Se, come spero, le ragioni della patria
prevarranno, mi sarà di conforto nel morire il pensiero che
la mia diletta figliuola sia commessa alla fede di madre
amantissima, - voglio dire Fiorenza. - Se invece, (disperda Cristo
l'augurio); rimane spenta la libertà, il vivere che monta?
Tra morire e vivere da schiavo la differenza è questa: i
morti non sentono nulla, i vivi si consumano sotto il peso delle
catene. Lena mia, ti faccio manifesto il mio testamento alla
presenza di questi valenti uomini; dove il lione coronato rimanga
insegna della Repubblica, tu vivi, serbati agli affetti di sposa, -
alle santissime cure di madre; se le palle trionfano... eccoti...
prendi questo coltello... comunque corto egli sia, può
sciogliere un'anima dai legami del corpo.
Ludovico si muove all'improvviso e ponendosi di faccia al vecchio lo
interroga:
«Messere Lucantonio, mi ravvisate voi?
«Oh! se vi ravviso», rispose tosto il vecchio andandogli
incontro e abbracciandolo, «messere Ludovico, vi siete fatto
fiero e gagliardo, la Dio mercede. Vedete un po' come siete
cresciuto, si può dire, a giorni. Il vostro signor padre
(scusate se vi rinnovo il dolore) ci ha lasciato; - povero uomo!
meritava vivere più lunga vita; ma Dio sa quello che fa: - io
però non me nè darò mai pace; non isperavo
nè desideravo sopravvivergli. Duri tempi, figliuolo mio, ma
non affatto sfortunati a chi, come voi, eredò tanta copia di
domestiche virtù.»
«Messer Lucantonio, profferendovi grazie delle cortesi vostre
parole per ora, favelleremo a bell'agio intorno a siffatto
argomento. - Volevo dirvi un'altra cosa: - l'incomodo della via, i
travagli sofferti devono rendere al vostro corpo necessario il
riposo. Qui presso nel popolo di Santa Felicita è la casa del
vostro amico defunto; - mia madre e i miei fratelli abitano Pisa da
molto tempo, e il modo del ritorno è loro tolto. - Venite ed
accettate ospitalità...»
«Io non consentirò...»
«Pensate che il figliuolo del vostro amico non merita rifiuto
e che l'alterezza, quando è troppa, diventa superba.»
«Sicuro, eh! il soverchio rompe il coperchio», veniva
approvando Lupo.
«Sia come volete. Messeri, amici da un istante, noi lo saremo
per la vita: - porgetemi la mano; così come le mani, si
uniscano le anime nostre. Lupo, io per me nulla sono... ma se
voleste essere pagato col mio cuore, io ve lo manderei dentro una
coppa a casa... Addio.»
E salutando con le mani, da destra a sinistra piegando la persona,
si accommiatava.
Lupo, staccando il lampione e rischiarando la via, mormorava:
«Pagare! il cuore! Che diavolerie sono elleno queste? Avrei
per avventura ceffo di quelli che mangiano gli uomini alle Indie?
Messere Lucantonio, vedete non farvi male... andate piano... qua
v'è uno scalino da scendere... a rivederci... buona notte. E
voi, Annalena, rammentatevi di me nelle vostre orazioni.»
«Addio... buona notte...», si udì alternare da
una parte e dall'altra. - Poi fu fatto silenzio.
Lupo rientrando depose il lampione, si avviluppò nel gabbano,
e ponendosi a giacere stulla panca, mormorava - Lupo
vergógnati! Quell'uomo conta un terzo anni più di te,
ha veduto la sua casa incendiata, le sostanze disperse, le terre
guaste; e nondimeno pieno di fede spera, o pieno di ardimento
fermò nel cuore il suo fine... Tu invece, dubiti... ti
sconforti e, quello ch'è peggio, sconforti altrui. - Egli non
soldato, tu allevato e cresciuto nei campi. - E ciò da che
nasce? Nasce dall'essere in lui il cuore buono, il senno ottimo... -
Tu veramente, Lupo, cuore non hai cattivo, si potrebbe sostenere
anche buono..., ma per il senno... Ah! Lupo, tra te e te puoi
confessare che sei tondo come l'O di Giotto... e non vedi più
in là mezza spanna del naso.
NOTE
Pubblicata ch'io ebbi quest'opera, si ridestò fra miei
un'alba di amore per le cose patrie. Indi in vari scritti poi furono
visti comparire intorno ai fatti toccati in questa Iliade di un
popolo oggimai scomparso dal mondo: fra gli altri ricordo un
opuscolo breve di mole sopra il caso della Lucrezia Mazzanti, dove
mi si movevano parole piuttosto acerbe per essermi dilungato
soverchiamente dalla storia; e non è vero: la storia fu
alquanto resa più vaga per cagione della estetica persuasa in
opere di siffatta maniera; ad ogni modo, uso per natura e per
consiglio a lasciare correre i giudizi sopra di me e le cose mie,
non ispenderò altre parole, soddisfatto da questo, che il mio
libro valse a fare viva la memoria di magnanimi defunti ormai
cascata in dimenticanza, ed opera che, vergognando dell'obblio,
ponessero a Lucrezia Mazzanti, una lapide commemorativa sul ponte
della Incisa. Troppo più l'anima mia sarebbe stata paga, se
con la memoria dei nomi avessi potuto suscitare la virtù
necessaria ad imitare i fortissimi esempi dei padri nostri.
Ahimè! tanto non possono i libri, o non lo possono soli. La
iscrizione posta sul ponte alla Incisa dice così:
MDXXIX - Lucrezia de' Mazzanti - Donna d'alto cuore - Plebea - Dagli
amplessi aborrendo - Di soldato alla patria nemico - Inviolata -
Annegossi - Nè a lei - Maggiore dell'altra Lucrezia - I tempi
consentirono un Bruto - E la Repubblica Fiorentina - Periva - Questa
memoria - Dopo CCCXIX anni - Antonio Brucalassi poneva.
Pietro Contrucci ne fece un'altra men bella, a parere mio, ed
è questa:
Lucrezia Mazzanti - Anzichè da brutale soldato nemico -
Patire vituperio - Si annegava nell'Arno - O fortunata! - Che a Dio
rendesti - Pura l'anima, intemerato il corpo - E lasciando sì
alto esempio alle femmine - Sfuggisti ai mali - Che disertarono la
tua Fiorenza.
Peggiore di tutte quella di Benedetto Varchi dettata in latino,
nella quale, dopo avere narrato che Lucrezia venuta a galla tre
volte, tre volte si ricacciò sotto, conclude che la Lucrezia
romana rimase svergognata e morì una volta, mentre l'etrusca
morì tre volte e scampò la vergogna. - Grullerie
manifeste!
CAPITOLO SETTIMO
LA PRATICA
Gran cosa, che, di sedici gonfaloni, quindici
furono di tanta altezza e generosità di animo
che risolvettero veder perdere piuttosto
la roba e la vita combattendo che l'onore
e la libertà cedendo.
Varchi, Stor., lib. X.
Chi vuol veder quantunque può natura
In fare una fantastica befana,
Un'ombra, un sogno, una febbre quartana,
Un model secco di qualche figura,
Anzi pure il model della paura.
Una lanterna viva in forma umana,
Una mummia appiccata a tramontana,
Legga per cortesia questa scrittura.
Berni, sonetti.
La storia è poderosa quanto il grido dell'angiolo che deve
suscitare dalle tombe le ossa inaridite; - ella evoca le ombre delle
andate generazioni e le costringe al giudizio.
Ma lo spirito, insofferente del confine a lui imposto dalla forza
misteriosa che chiamiamo Dio, quando s'ingegna conoscere da quello
che il mondo soffriva quanto egli ancora sia destinato a soffrire,
merita l'inferno comune con Satana. - I fati posero il genio del
rimorso a custodia dei sepolcri, - e contendono dalle reliquie dei
morti derivarsi argomento di esperienza pei vivi. Continue paure
sgomentano gl'indagatori delle arti arcane vietate ai mortali, ed
è la storia tra queste. Come l'albero della scienza
dell'Eden, sta nella vita umana lo studio; quello produsse la morte
del corpo, questo la certezza del male, ch'è la morte
dell'anima.
Infelicissima vita dell'uomo giunto a penetrare gli arcani difesi!
perocchè i cieli mente bastevole a separarlo dai suoi
fratelli di miseria gli concedessero, tanta poi che valesse per
sollevarlo alle sostanze spirituali gli negassero. Ora la superbia
lo trattiene dall'inclinare lo sguardo sopra una stirpe che egli
calpesta e disprezza perchè non sa migliorarla; la
disperazione gli dice fissarsi invano occhio mortale nell'alto. Fin
dove poteva sorgere, egli è sorto: adesso si roda le viscere.
- Ah quasi per errore egli venne tra le cose create: quanta sarebbe
pietà riporlo tra le disfatte!
Un tempo fu, adesso per molta età diventato antico, in cui
gli uomini ordinarono al poeta adombrate dal velo delle allegorie le
sentenze della dottrina morale rappresentasse; ed Eschilo allora
immaginava cantando il figlio di Giapeto, salito all'Olimpo per
conforto di Pallade, rapirne il fuoco celeste e vivificare con
quello lo spirito umano. Geloso il tiranno dei cieli, lo condannando
ad immortale supplizio, mandava l'avoltojo a pascere il fegato
perenne al sapiente infelice. Incatenato alle rupi del Caucaso,
chiama Prometeo l'etere, la terra e il mare in testimonio
dell'atroce ingiustizia. Lui incitava al meglio il grido della
natura; una pietà profonda, un sublime pensiero lo spinsero a
fare meno triste le sorti della bestia che parla. Ora come
secondavano gli dei tanto amorevole benignità? La creatura
amante e, comechè incolpevoli, le creature amate ebbero
comunanza di pena. A tormentare la prima fu mandato l'eterno
carnefice; - a tormentare le seconde vennero la infermità, la
tristezza, ed Esiodo poeta aggiunge illepidamente le donne...
Più sicuri noi contempliamo la dura verità. Santo
Agostino e Rabano ci narrano come Prometeo fosse uomo inclito per
dottrina, il quale meditando sulle ragioni delle cose svelava agli
uomini le proprie miserie, e palpate le piaghe loro, non seppe poi
con qual farmaco mitigarle. Gli uomini tratti dalla ignoranza
nell'angoscia maledirono l'importuno maestro, che si consumò
nell'angoscia di aver procurato irrimediabile un male con intenzione
del bene.
Avventuroso lo stolto! - Bacone de Verulamio due afferma essere le
condizioni della vita figurate dalla sapienza antica nelle persone
di Epimeteo e di Prometeo. «E chi, egli ragiona, improvvido
del futuro seguitò la scuola di Epimeteo prendendo diletto
delle cose presenti, senza darsi cura dell'avvenire, placava il
genio maligno e, lusingandosi di vane speranze, traeva la vita come
nella dolcezza di sogno fortunato. - Gli alunni di Prometeo, per lo
contrario, indagatori acuti degli uomini e delle cose, ogni letizia
appassirono. Stretti alla colonna della necessità, da paure
continue agitati, perderono la pace del cuore; e se pure spunta per
essi un'alba di conforto, nuovi terrori sopravvengono improvvisi a
disperarli con l'antica agonia.»
Avventuroso lo stolto! La disputa se la scienza giovi a migliorare
le condizioni umane pende indecisa. A Giangiacomo il suo genio
disse: Nega, - ed ei negò, e le genti lo chiamarono scempio.
E che monta il giudizio della gente? La storia insegna le
verità maravigliose essere state mai sempre schernite col
nome di follia. E sì che Gesù Cristo predicando alle
turbe in Galilea tale dava principio alla sua orazione: - Beati i
poveri di spirito, - e sì che i santi Paolo e Gregorio
ordinarono l'incendio di molte migliaia di volumi: ed oh! piacesse a
Dio che potessimo davvero di tutti i libri del mondo costruire un
rogo per farvi sopra un atto di fede dei miserabili sofismi chiamati
col nome di ragione umana.
Ma via, che cosa ella è mai nostra scienza? Un deserto senza
confini e senza oasi. Presunzione soverchia di noi stessi ci
consiglia di porvisi dentro alla ventura; - il dubbio ci punge
sempre ad andare oltre; e se mai avviene che un qualcheduno ritorni
a casa sano, mostra manifesto sul volto il segno della
curiosità delusa, della stanchezza disperata per aver saputo
che nulla possiamo sapere quaggiù. Il nostro intelletto va
ingombro di perchè senza risposta; e se l'angiolo custode non
ti riposa la mente da queste domande, tu vedi in brevi apparire la
pazzia, la quale irridendoti ti scuote davanti il suo bastone co'
sonagli. «La sapienza degli uomini si assomiglia alla cenere,
i suoi ragionamenti superbi sono mucchi di fango.»
Perchè dunque la bestia che parla si vanterà superiore
alla bestia che la voce non modula a guisa di parola? «Forse
perchè la prima ha senno e mani da trucidare la seconda? Non
sempre si lasciò uccidere, sovente anch'ella uccise; e pel
rimanente, che cosa dice lo Spirito? «La condizione della
bestia è in tutto eguale a quella dell'uomo; ambedue muoiono
di pari morte, ambedue composti di terra si disfanno in terra. Chi
può affermare che l'alito dei figli d'Adamo si volga in su e
quello delle bestie si volga in giù? «La verità
per noi è come per i re di Gerusalemme e di Cipro, come i
vescovi in partibus, un segno senza idea. Ponzio Pilato, certo
giorno che non aveva altro da fare, interrogò Gesù
Cristo in che consistesse la verità; - poi non attese la
risposta ed uscì fuori. - Danno inestimabile fu che il
proconsole Pilato non avesse pazienza di fermarsi un momento!
Dunque?
Vi aveva forse promesso di concludere? E se pure ve lo avessi
promesso, può egli in siffatte materie tenersi la parola? Voi
forse pensate ch'io sia per volgermi all'oceano e supplicarlo di
nuovamente nascondere la terra, siccome uscita dai suoi precordi!
invano. No, rimanga la terra, continui a lambirne i confini estremi
l'oceano, la ricuopra il cielo, imperciocchè io le desideri
destini migliori, ed anche, vaticinando, io gli spero. Però
desiderando e sperando ho detto a me stesso due cose: gli uomini non
saranno mai tutti nè in tutto felici; nel tempo in che
viviamo, molte piaghe furono sanate, moltissime altre si apersero,
nè giungemmo a gran pezza alla cima che i sofisti
s'immaginano, nè con le slombate e pedantescamente codarde
fisime loro ci perverremo mai. Se Dio levò la mano su tutte
le generazioni della terra, e' non appare che fosse per benedirle
tutte: alcune egli guarda con occhio ardente, come acceso di
collera, e quivi tu incontri il deserto dalle arene infocate; altre
egli non guarda mai, e quivi piovono nevi perenni e ghiacci eterni
si addensano; ogni speranza di miglior ventura è morta tra
loro. Se quello che raccontano può credersi, cioè
avere la terra un cielo che si compia mediante ordine lungo di
secoli, per cui la Libia un giorno diventerà Siberia, allora,
mutata la vicenda della pena sembra che si possa concludere,
vivranno sempre i tormentati. Noi non siamo intero sangue latino; -
noi uscimmo dal fianco di madri barbare, e molto di loro ritraggono
le nostre membra; - dove non mi occorresse altro argomento per
confermarmi in questo mio dubbio, me ne persuaderebbe l'odio
veramente fraterno che adesso portiamo ai nostri antichi fratelli
teutoni. A posta loro essi si spingono verso il mezzogiorno,
desiderando scambiare le brume del cielo natio coll'azzurro del
nostro, anelando il grappolo delle nostre vigne, l'olivo delle
valli: - Lasciate, essi ci dicono, riscaldarci le membra intirizzite
ai raggi del vostro sole; - voi ne avete goduto tanti anni! -
Importuni Polinici che ci domandano il trono di Tebe, e da noi
odiati come Eteocle odiava. Poichè la natura si mostrò
a molti matrigna e ad altri molti madre parzialissima, io penso
ch'ella abbia gittato nel mondo il pomo della discordia; e qui per
quanto uomo s'affatichi, invano speri di trovare rimedio. Ancora
nasce il debole ed il forte, nasce l'uomo di alto intelletto e lo
scemo di senno; - irreparabili ingiustizie. Con opera non interrotta
di secoli l'uomo arriverà forse a bilanciare in parte
siffatte discrepanze, ma pure rimane sempre l'apparizione del genio
suprema ingiustizia, meteora luminosa che sè stessa arde e
gli occhi ai riguardanti consuma, forza prepotente, la quale,
secondo che muove Arimane od Oromaze, afferrato pei capelli il suo
secolo, lo strascina precocemente verso la libera civiltà o
lo risospinge nella serva barbarie. - Ora parlo di noi uomini
viventi. A coloro che tra i riposi di molli origlieri immaginano il
sogno facile di umana felicità, compassione. A coloro, i
quali consultano i destini degli uomini sui libri dalle fodere
dorate, e non palpitano per le piazze e pei trivii in mezzo alla
plebe vestita il corpo di fango, l'animo di delitto, compassione e
dileggio. A coloro i quali non meno vili e più dannosi dei
lusingatori cortegiani adulano le moltitudini, dileggio ed
obbrobrio. Non sollevate ancora gli occhi alle stelle, avvertite a
non traboccare dentro la fossa adesso adesso aperta ai martiri della
libertà, o se gli sollevate, fatelo per pensare che i vostri
mali vincono di numero le stelle dei cieli; voi avete concetti
superiori, proponimenti inferiori al bisogno; mente alta, cuore
codardo, braccio infiacchito; voi ordite un secolo avaro e superbo;
obliosi movete oggi la danza dove ieri surse il patibolo per i
vostri fratelli; come solevano i baccanti, voi empite l'aere di
gridi, perchè nè da voi nè da altri s'intendano
i lamenti dei mortariati e turbino le vostre vituperose feste; se vi
uccidono l'amico, non dirò che a guisa dei lupi vi lacerate a
brani il corpo di lui, bensì come pecore stupide continuate
la pastura spensierati e leggieri; vanitosi, celebrate i fatti
progressi, e non sapete che la millesima parte della lebbra sociale
non fu per anche sanata, che, qualunque parte, comechè
piccolissima, della lebbra rimanga, di per sè basta a
procurare la morte. Teti tuffando Achille nelle acque di Lete
obliava bagnargli il calcagno, e Paride, quivi appunto percotendolo
l'uccise. I vostri fratelli furono balestrati in esilio, voi appena
fuori delle porte gli avete dimenticati; - i vostri fratelli furono
percossi di morte, e voi avete avuto, non che d'altro, paura di
gemere sopra il fato acerbo di loro... di proferirne il nome! - i
vostri fratelli furono sepolti in carcere, e voi non li avete
consolati. E voi i civili, voi? Voi non avete la energia della
barbarie nè il senno della civiltà virile. Prima di
desiderare la libertà, imparate ad essere uomini; -
piuttostochè volere repubblica, attendete a purgare i rei
costumi. Finchè vi state così superbi, parabolani,
frivoli, obliosi, leggieri, pei mali altrui di ghiaccio, fuoco per
ogni maniera di diletti, io non abbisognerò della testa di
Medusa per farvi impietrire: - pietra siete da voi. - Io vorrei come
dentro uno specchio mettervi dinanzi l'anima vostra: - mostro
più schifo non partorì natura, nè mente di
poeta immaginò.
Io troppo bene conosco che, da insidiose blandizie lunsingati,
saliti adesso, pel discorso inconsueto, in furore, mi maledirete...
Maleditemi... e smentitemi, se potete; - intanto io vi dichiaro
codardi, frivoli insanabilmente e in tutto degni della presente
servitù. - Adesso riprendo la storia.
Quando avveniva un caso grave di pace o di guerra, in Fiorenza era
costume del governo di chiamare a consulta, che dicevano Pratica,
oltre i magistrati, certa copia di cittadini autorevoli a fine di
ricercarli della loro opinione intorno ai privati pareri. Il quale
abuso biasima meritamente l'istorico Iacopo Nardi, come quello che
partoriva pessimi effetti; primo, perchè, non potendo adunare
tutti i cittadini che invero erano o si reputavano autorevoli, gli
esclusi si rimanevano scontenti e queruli; poi quelli che sapevano,
secondo la consuetudine, avere ad esser chiamati, poco pregiavano i
pubblici uffici e sè non esentavano con danno della
repubblica; finalmente, i condottieri e i principi, ai quali
bisognava negoziare con Fiorenza, riconoscevano questi concittadini
come perpetuo magistrato, e così il governo veniva a perdere
di reputazione. Siffatta costumanza cominciò dal tempo delle
civili discordie tra guelfi e ghibellini, bianchi e neri, nel quale
avveniva che i principali della fazione fuoruscita, tornati
vittoriosi a casa, volessero ingerirsi nelle consulte, trattandosi
della salute propria e della parte. E quantunque nel secolo della
nostra storia cotesta necessità fosse cessata, pur tuttavia
continuava il costume; tale essendo la natura delle abitudini, buone
o triste elle sieno, quando una volta si lasciano invecchiare nella
mente dei popoli.
Il caso era grave davvero, perchè si trattava se dovesse
Fiorenza accordare co' patti dettati dal Papa, o se piuttosto, rotti
gli accordi, mettersi alla ventura delle armi. Inoltre il
gonfaloniere Francesco Carducci tanto più volentieri aveva
adunato la Pratica in quanto che col chiamarci uomini di varie
fazioni pensò potere conseguire che, trattando domesticamente
tra loro, venissero a dimettere alquanto della scambievole
selvatichezza ed accordarsi in pro della patria comune: o se non
riusciva a persuaderli di fare di per sè stessi questo bene,
convenissero almeno a confermare il gonfalonierato di lui, il quale
avrebbe molto acconciamente saputo provvedere alla comune salvezza.
Pensò ancora di acquistarsi grazia nell'universale;
però che, sebbene si sentisse atto a grandi cose; non
ignorava essere giunto a quel sommo grado con sorpresa di tutti e
sua, scemargli il credito le poche fortune, il fallimento della sua
ragione mercantile in Ispagna, il parentado, comunque illustre (che
si vantava discendente di san Giovanni Gualberto, antico barone del
contado e galantuomo davvero), oggi ridotto in pochi ed umili capi.
Le quali cose, come vedremo, il Carducci non solo non ottenne, ma
invece acquistò le contrarie; - colpa non sua, sibbene della
fortuna, la quale delle due faccie che gli umani casi presentano,
sorridendo all'una, è cagione che l'altra, malgrado gli
argomenti umani, vada in rovina.
Nelle stanze della Signoria assai prima che la campana, detta la
Tonaia, chiamasse i cittadini in Palazzo, egli aveva convocato
uomini di ogni maniera faziosi. Erano andati prontissimi tutti
Iacopo Nardi, Michelangelo Buonarotti, Bernardo da Castiglione,
Zanobi Buondelmonti, Lorenzo Cambi ed altri non pochi per amore di
libertà: Zanobi Bartolini e Ludovico Capponi per iscoprire
gli umori e governarsi a seconda del vento; Luigi della Stufa,
Matteo Nicolini, Ottaviano dei Medici, Luca degli Albizzi, Franceso
Antonio Nori per paura, tenendo scopertamente per le palle.
Il Carducci, a mano a mano che giungevano, con dimostranze cortesi
gli accoglieva, domandava perdono se avesse loro arrecato disturbo,
ma in cosa di tanto momento non credersi facoltato a deliberare
senza di loro: attendessero che gli altri venissero; egli intanto
esaminare i rapporti della provincia. - E così favellando si
accostava ad una tavola immensa ingombra di carte, dove faceva
sembiante di leggere. - Il Carduccio, per ordinario pallido, adesso
era livido, sia che avesse vegliato la notte, o le cure soverchie lo
travagliassero; - e Iacopo Nardi, considerando cotesta sua faccia
cadaverica ricinta sotto il collo da un lucco di velluto cremesino,
sentì come abbrividirsi dentro, parendogli quelle pieghe
rosse rivi di sangue che scaturissero dalle vene tronche della gola:
rispose al sorriso del gonfaloniere stringendogli forte la mano e
sospirando profondo. Questi però, simulando di leggere,
osservava attentissimo gli atti ed ascoltava i detti dei convocati,
e a tal fine adoperava l'udito, che la natura gli aveva concesso
maraviglioso, e la strana facoltà di potere in due punti
diversi indirizzare nel momento stesso il raggio visuale degli
occhi. Vide i Palleschi ossequiosi volgersi agli Arrabbiati, e
questi con mali modi e peggio parole ributtarli e restringerli
insieme; - notò i Palleschi e gli Ottimati rimanersi
ristretti alcun tempo, ricambiarsi la favella, ma alla perfine
dividersi per istudio degli ultimi a malgrado dei primi: non gli
sfuggì il corpulento Bartolini fare ad ognuno e restituire
saluti, e non pertanto schivati i colloquii rimanersi solo:
nè il Carduccio sfuggì al Bartolino; acuti entrambi,
entrambi speculatori sottilissimi degli uomini, ingegnosi, amanti di
libertà; ma il Bartolino per ingiurie ricevute, quindi facile
a piegare il Carduccio per ambizione e come cosa propria, quindi
istrumento di libertà capacissimo e fedele. Poichè lo
scopo di averli adunati per tentare se potessero mescolarsi il
gonfaloniere conobbe perduto, egli, depositando sulla tavola il
fascio delle lettere, quasi avesse terminato di leggerle, dirigendo
la parola ai convocati, così cominciò:
«Male nuove, messeri. Il dominio per la massima parte perduto;
la rimanente, secondo i rapporti dei commissari, travagliata dai
partigiani dei Medici, vacilla nella nostra devozione: - pericoli
maggiori dentro: l'erario vuoto.»
«Se per lo addietro», rispose tempestando Bernardo da
Castiglione, fosse stato creduto a me e agli altri che sono del mio
animo, forse in questo giorno noi non avremmo a consultare se si
debba perdere o non perdere questa libertà; perchè se
ci fossimo vendicati arditamente contro alle case, contro alla vita
e contro alla roba dei nemici nostri e traditori della patria, noi
non avremmo oggi tanta paura di loro in questi travagli, nè
il Papa, confidato in questi perversi cittadini, avrebbe mosso la
guerra per rimettere sè e loro nell'antica tirannide.»
E l'Arrabbiato guardava bieco i cittadini palleschi.
«Cotesti vostri modi», riprese Ludovico Capponi,
«messere Bernardo, ci avrebbero dato tirannide nuova, peggiore
dell'antica: rammentate che ai forti piacciono i consigli magnanimi,
ai deboli i crudeli. Procedendo come abbiamo fatto fin qui, ci
rimane sicura speranza di accordi pei quali, sfuggita la guerra,
conserviamo libertà onestamente moderata ai tempi, ai costumi
ed alle voglie degli uomini possibile.»
«Libertà da Giulio dei Medici voi non vi potete
attendere neppure moderatamente onesta! Sperate piuttosto mille
fiorini in prestanza dal giudeo senza pagargli l'usura. Ah!
Ludovico, sul letto dove si fanno cotesti sogni, si alzano le forche
per cortinaggio, e pende un bel capestro per tendina.»
«Patteggiando, messere Bernardo, restiamo intieri, abbiamo
forza e possiamo costringere a tenere i patti; - vinti poi,
dispersi, spenti, nelle sostanze rovinati, empiremo le terre
d'Italia di pianti inutili e le più volte derisi.»
«E chi vi ha detto, Ludovico, di esulare per Italia! i
Saguntini non esularono; - non esularono i Cartaginesi; - non
esularono i Sanniti, - non i Giudei; e intorno alla prima parte del
vostro discorso, io vo' che sappiate dieci battaglie perdute non
pareggiare il danno di sei mesi di tirannide.
«E quale sarebbe il parere vostro, onorando messere
Zanobi?» domandò all'improvviso il gonfaloniere
guardando fissamente il Bartolino.
E questi spedito rispose:
«Vi dirò, magnifico messere gonfaloniere, le opinioni
di per sè stesse non valgano nulla; - tutte buone, tutte
cattive: e' bisogna prima disaminare per bene i fatti; e questo,
come vedete, spetta a voi: - se davvero il dominio è perduto,
la fede dei cittadini e soldati vacillante, la pecunia nulla,
accorderei salvando parte di quello che altrimenti mi toccherebbe a
perdere intiero; se poi non per anche giungemmo a tanto estremo, non
precipiterei nulla per godere il benefizio del tempo ad aspettare le
nuove dei Luterani e dei Turchi.»
«Queste risposte sanno di oracoli. - Dei due fatti bisogna
supporre uno: - così non verremo a capo di nulla», -
mormorava a mezza voce il Carduccio; e il Bartolino, tornato alla
primiera impassibilità, fingeva non intendere parola.
«La fede dei cittadini vacillante?» favellava pieno di
passione Iacopo Nardi. «Sì, ma di pochi tristi. Le
casse vuote? Sì, perchè non volete prendere il danaro
dove si trova, ed invece lasciate adoperarlo ai nostri danni. Almeno
volgetevi alla carità del popolo: i ricchi non hanno viscere,
e il popolo vi porterà il suo ultimo soldo, il suo ultimo
figliuolo...»
«In fè di Dio io non so chi mi tenga le mani che non te
le cacci nei capelli e non ti renda più mondo dello zuccone
di campanile»
«Silenzio, donna! Abbiate rispetto al palazzo dei
Signori.»
«Senti! O che li tolgo in dispregio io? Ma fammi almeno
contenta di dire a messere Francesco da parte mia che ho da
parlargli.»
«E chi siete voi?»
«Io mi chiamo monna Ghita e sono setaiuola conosciuta per
tutto Borgo San Friano.»
«Or bene, monna Ghita, aspettate.»
«Aspettate! - Ella è una parola cotesta; ma noi poveri
lavoranti non siamo mica come voi altri signori soldati, che ve ne
state il giorno intero a baloccarvi con la partigiana in su le
spalle mentre v'è chi pensa a infornarvi il pane e a mescervi
il vino: a noi tocca guadagnarcelo menando le mani da mattina a
sera; e tante volte non basta.
Prima dell'assedio un'ora o due non guastava; ora poi il vivere
è così caro che, non l'ora, il minuto assottiglia il
vivere: non sapete voi che il grano costa sette lire lo staio quando
se ne trova, e il vino dieci fiorini d'oro il barile? Ma voi non
sapete nulla, perchè non li comprate... - Corto - andate o
non andate ad avvertire messer Francesco?»
«Buona donna, andatevi con Dio: - vi par egli che il magnifico
gonfaloniere possa lasciare la consulta per ascoltare una
femminuccia qual siete voi.»
«Soldato, tu se' forestiero e servo: se tu fussi de' nostri,
sapresti qui non si conoscere femminucce nè madonne, il
grande contare meno del popolano; se il grande vuol tenere gli
uffici, essergli forza ascriversi alla matricola delle arti: - la
mia famiglia appartiene all'arte di Por Santa Maria, come quella di
messere Francesco Carducci: ambedue abbiamo traffico di seta; egli
la compra in balle, io gliela incanno, gliel'addoppio e gliene fo
matasse... eppure intrambi eguali di condizione.»
Siffatto colloquio discorso con voce concitata le più volte
sdegnosa, nella stanza antecedente alla sala dove stavano a consulta
il gonfaloniere e gli altri cittadini, sospese i ragionamenti di
loro; e quale più qual meno si mostrava curioso di conoscere
la cagione della pressa singolare che faceva la donna. Onde il
gonfaloniere, quella vaghezza leggendo sul volto ai circostanti,
senza aspettare di esserne sollecitato chiamò la guardia e le
ordinava lasciasse passare.
E subito dopo comparve arditamente una donna di sembianze strane;
alta della persona, magra, adusta dal sole sicchè sembrava di
colore del rame. I muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene
turgide, le labra vermiglie e, comunque tacessero, agitate; le
narici ansose, gli occhi fulgidissimi e perpetuamente volgentisi da
un lato all'altro; i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta.
Moveva le braccia a guisa di remi; e considerando le mani forti e
l'unghie adunche di che andavano fornite non era da reputarsi di
poco momento la minaccia fatta al soldato. - Entrò, come
dissi, audace nel sembiante e negli atti; ma tosto che si vide in
mezzo a quel consesso, declinò lo sguardo e si rimase muta e
vergognosa. Per lo che il Carduccio, motteggiando, amorevolmente le
domandava: «Ora via, monna Ghita, lasciaste voi per avventura
la lingua al beccaio?»
«Messer no, bensì credeva che il soldato mentisse il
consesso, nè mi aspettava trovarmi al cospetto di tanti
magnifici che vanno per la maggiore...»
«E non andate anche voi per la maggiore? Il vostro nome non
è egli scritto nella matricola dell'arte della seta?»
«Oh! per l'arte, dite bene; ma infine dei conti a me pare che
tutte le disparità mettano capo a queste sole due: avere e
non avere... E nondimeno io parlerò, e questi signori mi
scuseranno: e se non mi vorranno scusare, mi rincarino il fitto,
perchè io faccio opera buona. E per dirvela in breve
(chè a voi altri messeri premerà il vostro tempo, ed a
me preme anche il mio), ecco di che si tratta: e' mi hanno fatto
sapere come qualmente la Signoria ordinò si gridasse per le
strade e si appiccasse su pei muri un bando, affinchè
chiunque si trovasse da avere figliuoli da diciotto a trentasei anni
ed ori ed argenti, li portasse al palazzo della Signoria per essere
adoperati in difesa della nostra patria... Ora mi trovo ad avere
questo figliuolo... - Vieni oltre, Ciapo, e saluta i messeri.»
Qui gli occhi di tutti si fissarono sopra un garzone adolescente
tuttavia, ma grande e grosso, di membra validissime, armato di
spada, di partigiana e di barbuta. Egli come volle la madre, si
avanzò di alcun passo e con piglio soldatesco riverì
il gonfaloniere e gli altri adunati. Allora monna Ghita
continuò:
«Ciapo non arriva ancora a diciassette anni, ma Ciapo è
tale da fiaccare l'ossa con un pugno a quanti qui siete dentro, sia
detto senza superbia. Cotesto vostro bando, con reverenza di voi
tutti, messeri, non mi sa di nulla. Oh! che? son gli anni che
rendono capace di portar arme e affaticarsi nel campo? il mio Ciapo
di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare nel
diciassette come si arriva alla festa di san Zanobi, può fare
quello, e più, che non fa un altro di trenta. Dunque deve
farlo ancora egli. Ciapo è buon figliuolo; ha il santo timore
di Dio, lavora per la sua povera madre, e prega tutte le sere per
l'anima di suo padre. - Da lui in fuori io meschina non ho altri nel
mondo. Rimango sola; - ma che monta questo? Quando ho sentito il
bando, gli ho detto: Ciapo, prendi la barbuta, la partigiana e la
spada di tuo padre e vieni ad arrolarti alla ordinanza della
milizia. Adesso ti bisogna difendere tua madre e la tua casa. - Qui
Ciapo mi ha risposto: Non ci moviamo, madre mia: per voi, dormite
sicura che nessuno vi toccherà la punta di un dito; in quanto
alla casa poi, che domine volete che portino via? E' non v'è
chiodo d'appiccare il capuccio. - Le quali parole mi fecero
impressione, perchè Ciapo diceva la verità, essendo i
miei anni tanti da rendermi ora più paurosa del demonio che
dei soldati, e la casa ignuda di masserizie quanto il palmo della
mano: ma stata alquanto sopra di me, soggiunsi: Va tuttavia, se non
difenderai le donne e robe tue, difenderai quelle degli altri; e poi
mantenendo questo stato, se un signore ti reca ingiuria, dimani
diventa si può dire come te di petto alla giustizia, e tu
puoi accusarlo agli Otto, mentre nei reggimenti dove un solo comanda
a tutti e sempre, non sai in che modo rifarti. - E senti ancora
quello che predicava il beatifico frate Girolamo, perchè non
hai avuto il bene di ascoltare quella santissima bocca: - Cristiani
e fratelli miei, vale meglio pane di fava in repubblica che pane
d'oro sotto il principato. - E Ciapo m'interruppe esclamando:
Basta... andiamo. - Io dunque ve l'ho condotto, e vi prego a volerlo
accettare, ch'egli mi promesse di portarsi da valentuomo e da
figliuolo degno di Bindo del Tovaglia suo padre, che Cristo abbia in
gloria.»
Le guancie livide del Carduccio comparvero lievemente tinte in
rosso; sciolse un sospiro, e la soverchia commozione gli
troncò la parola. Gli altri, rimordesse coscienza o
maraviglia esaltasse, tacevano. - La donna soggiunse:
«Solo vogliate nutrirlo, imperciocchè io non potrei
fare le spese a me ed a lui. - Oh! un'altra cosa. Davvero ella
è una miseria, ma ogni pruno fa siepe:» (così
favellando monna Ghita si fruga per le tasche) «in fondo della
cassa ho trovato questo paro di gocciole d'oro che mio zio Baccio
aggiunse alla donora quand'io andai a marito; se avessi trovato di
più, di più vi avrei portato; e mi ricordo che mi
disse esserci il valsente di meglio che quattro fiorini d'oro, e
averglielo affermato con sacramento l'orafo che sta da San
Brancazio: - io non ci credo, perchè gli orafi vivono senza
fede nè legge; nondimanco, costino quello che costino,
varranno a pagare una settimana un uomo d'arme. - Messeri, state
sani; il Signore vi dia il buon giorno e il buon anno. Badate ad
avere cura della patria: io per me torno a badare al filatoio: se
avete seta da filare, vi sovvenga di monna Ghita, nel borgo San
Friano; tutti v'insegneranno la mia casa, perchè la chiesa
conviene che campi sopra la chiesa. Ciapo, figliuolo mio,
ricórdati, davanti al Crocifisso che tengo a capo del letto,
avermi promesso di tornare ad annunziarmi libera patria, o non
tornare più: attendi a mantenermi la promessa, perchè
se mi capiti in casa vinto, io ti chiudo l'uscio in faccia e dico al
vicinato averti raccolto per la strada, non già portato in
questo fianco nè con questo seno nudrito: hai tu inteso?
Addio.»
Il Carduccio, alzate le mani, corse ad abbracciare la donna e
intenerito esclamava:
«Ghita, se la repubblica contenesse dieci cittadini dell'animo
vostro, il nemico non accamperebbe adesso sotto le mura di
Fiorenza.»
E gli altri, simulando od esprimendo verace ammirazione, l'erano
attorno celebrandola con ogni maniera di lode. La donna,
districandosi da loro, come selvatica, con alta voce gridò:
«Mal concetto, messeri, prendo di voi; ed ora incomincio a
dubitare della patria davvero, perchè voi tanto non levereste
a cielo il debito del buon popolano, se aveste cuore e volere da
soddisfare al vostro. Badate che al cavare delle tende non si abbia
a dire di voi come del perdono di sere Umido: baci di molti, e
quattrini punti.»
Iacopo Nardi, tratta fuori di tasca una carta, notava; e quando ebbe
notato la piegò e se la ripose diligentemente in seno,
mormorando: - Quando ogni altro esempio di virtù ai nostri
tempi mancasse, questo unico basterebbe a farmene scrivere la
storia.
Michelangiolo anch'egli non alitava, l'anima tutta gli si era
trasfusa negli occhi; l'osservava in ogni suo moto nel girare dei
muscoli, nello stringere delle ciglia. E non contento di starsi alla
superficie, le penetrava oltre la cute e, per così dire,
indovinava la recondita notomia di quel volto: dardeggiando veloce
lo sguardo da lei ad un foglio e dal foglio a lei, con la mano
rivelatrice dell'alto intelletto effigiava il tipo della parca che
taglia la vita, la quale poi dipinse con le altre due compagne,
meraviglia dell'arte, nella tavola che si conserva nella galleria di
Palazzo Pitti a Fiorenza.
«Magnifici signori,» disse un mazziere della Signoria
entrando in fretta, «gli oratori spediti a Bologna, arrivati a
Porta San Gallo, hanno mandato un cavallaro innanzi per avvertirvi
che scavalcheranno al Palazzo.»
«Ordinate che cessino di sonare la campana: - se vi aggrada,
messeri, possiamo scendere in sala. - Voi, monna Ghita...» La
donna era scomparsa; e quando nello scendere le scale, il
gonfaloniere si accostò al balcone, la vide traversare veloce
la piazza, come vogliosa di rimettere il tempo perduto.
Entrarono nella sala, assai diversa da quella che ai tempi nostri
vediamo. Non per anche ella appariva contaminata su le pareti con le
immagini di due atroci ingiustizie, una della Repubblica, l'altra
del Principato, voglio dire le guerre di Pisa e Siena. - Non per
anche i popoli, ponendo il piede dentro quel recinto, sentivano
comprendersi dal ribrezzo al pensiero dell'incesto quivi commesso
dal primo gran duca Cosimo dei Medici, d'iniqua memoria, sopra la
sua figlia Isabella. - Ella era quale l'aveva ordinata frate
Girolamo Savonarola al suo amico Simone detto il Cronaca, semplice,
bassa, scarsa di lumi, col solaio scompartito a quadri di legnami,
larga braccia trentotto, lunga novanta. Mai non avevano fabbricato
in Italia sì vasta sala nè i Veneziani nè i
papi nè i duchi di Milano o i re di Napoli. Quando la voce di
frate Girolamo fece prevalere il reggimento popolare al governo dei
pochi, che aveva durato sessant'anni in Fiorenza, provvidero si
costruisse un locale capace di contenere tutti i cittadini adunati
in consiglio generale. Il buon Simone con tanta prestezza attese si
conducesse a termine che lo stesso Savonarola ebbe a dire «che
gli angioli in quell'opera si esercitassero in luogo di muratori ed
operai perchè più presto fosse finita.»
Quantunque io abbia affermato poc'anzi che il Savonarola predicando
facesse un reggimento largo e popolare prevalere allo stretto e dei
pochi, già non si creda ch'ei partegiasse a rendere la plebe
signora, dominio acerbo quanto quello del tiranno. Fu pei suoi
conforti composto il Consiglio prima di ottocento trenta, poi di
mille settecento cinquantacinque cittadini, oltre i trent'anni,
amorevoli della repubblica, netti di specchio. Imperciocchè
egli sapeva essere le adunanze della plebe istrumento certissimo di
servitù; epperò quando i cittadini ambiziosi non
potevano vincere co' modi legali, s'ingegnavano chiamare la plebe in
piazza, rimettere in lei l'autorità del governo e lusingarla
o costringerla ad eleggere alquanti uomini i quali avessero soli
autorità di riformare lo stato quanta ne aveva il popolo di
Fiorenza tutto insieme. I quali due modi si chiamavano parlamento e
balía. E la storia aveva insegnato esserne derivati pessimi
effetti, simili a quelli che anticamente partorirono nella
repubblica romana e in tempi più recenti nel regno di
Polonia, allorchè una Polonia stava in piedi, e i popoli si
eleggevano un re. Frate Girolamo, che del reggimento degli stati, se
quel suo zelo soverchio per la religione non l'offuscava, intendeva
assaissimo, attese molto diligentemente a persuadere altro essere
libertà, altro licenza, popolo non doversi confondere con la
plebe, consiglio generale differire da tumulto in piazza; ed in
ammaestramento perpetuo che la sfrenata larghezza dei consigli
è madre certa di tirannide, volle nella gran sala a lettere
maiuscole fosse scritta la stanza seguente:
Se questo popolar consiglio e certo
Governo, popol, della tua cittate
Conservi che da Dio ti è stato offerto,
In pace starai sempre e in libertate:
Tien' dunque l'occhio della mente aperto,
Chè molte insidie ognor ti fien parate,
E sappi che chi vuol far parlamento
Vuol tòrti dalle mani il reggimento.
Intorno alla mura della sala avevano ritta una ringhiera col piano
alto tre braccia sopra il pavimento, balaustri davanti e seggi come
in teatro; quivi dovevano sedersi i magistrati della città.
Nel mezzo della parete volta a levante, sopra residenza più
eminente, stavano il gonfaloniere di giustizia e i Signori: - nella
facciata dirimpetto era l'altare, e accanto all'altare la tribuna,
in quel tempo chiamata bigoncia, per gli oratori. Nel mezzo poi
della sala si vedevano panche disposte in fila per i cittadini. Tal
era, nei tempi di cui narro la storia, la sala del Palazzo della
Signoria, ai giorni nostri volgarmente chiamato Vecchio.
Mi sia concesso con quella brevità ch'io potrò
maggiore esporre quali si fossero i magistrati che partecipavano
alla Pratica, come nascessero; quanto e quale potere esercitassero.
Duri tempi ci stanno addosso; sicchè all'uomo, per ristorarsi
delle presenti miserie, conviene che si volga al passato o al
futuro. Tra le memorie e il desiderio noi trasciniamo vita piena
d'amarezza; - il futuro si distende grande, infinito davanti a noi,
ma vago, illuminato da splendore incerto, dove ogni creatura
immagina a suo senno un fantasma. Il passato invece si mostra
circoscritto, ai bisogni nostri incompleto, pur nondimeno distinto.
Il passato è irrevocabile, - il tempo caduto nella
eternità uscì dal dominio degli uomini e da quello di
Dio. Del futuro non ispuntò anche l'alba del giorno fatale, e
le generazioni, quasi disperate della lunga notte della doppia
tirannide che le opprime, tengono da secoli la faccia volta
all'oriente osservando se comparisce il raggio divino. - Quanto
tarda a comparire quel raggio! A cui talenta spaziare pei campi
dell'avvenire, vi s'immerga intiero e ci rallegri con illusioni, con
isperanze, con vaticinii e, se gli riesce, con sicurezza di meglio,
onde tre quarti del genere umano continuino il travaglioso
pellegrinaggio della vita. In verità la nostra misura
è colma, il peso grave, l'assenzio dell'anima senza fine
amaro. Io punto da diversa voglia continuerò a ricercare
nelle ceneri dei padri, a interrogarne i sepolcri. Ah! padri miei,
voi premete un duro guanciale di terra; voi preme una grave coltre
di terra; - voi forse ora siete tutta terra... e nonpertanto
v'invidio perchè riposate.
Il magistrato dei Signori ebbe origine antica, fu ordinato nel 1282;
- dapprima erano tre, poi sei, essendo la città divisa in
sestieri; alla fine otto, quando la ridussero a quartieri. Ma,
siffatto magistrato non bastando a frenare la prepotenza dei nobili,
crearono nel 1292 il gonfaloniere di giustizia, al quale dettero
sotto venti bandiere mille uomini, onde si trovasse sempre parato a
favorire le leggi. Primo eletto fu Ubaldo Ruffoli; e trasse per la
prima volta fuori il gonfalone per disfare le case dei Galletti,
avendo uno di quella famiglia ucciso in Francia un popolano. Il
gonfaloniere e la Signoria esercitavano, da principio, grandissimo
potere, stando nella facoltà di quelli fare o non fare quanto
loro meglio piacesse. Dal 1494 insino al 1512, e dal 1527 al 1530
poi, sibbene il Consiglio Grande fosse vero e legittimo signore,
nondimeno cotesti due magistrati ritenevano gran parte della sua
autorità. Uscito fuori dal bisogno e per avventura dall'ira,
cotesto ufficio riunì un tempo entrambi i poteri che noi
diciamo deliberativo ed esecutivo; in seguito, procedendo nella
scienza di governare lo stato, l'autorità del deliberare fu,
come si doveva, restituita ad ampia assemblea, ed essi ritennero il
potere esecutivo, il quale nondimeno divisero in altri magistrati
subalterni, come sarebbe a dire i Dieci, ai quali commisero
l'incarico di vigilar su le cose della pace e della guerra, i Nove
preposti a provvedere alle milizie del contado, gli Otto
all'amministrazione della giustizia criminale, ed altri ad altre
cose.
Dopo la Signoria, nel reggimento della Repubblica Fiorentina
comparivano notabili i sedici gonfalonieri. È incerto se
Giano della Bella nel 1292, o il cardinale da Prato, mandato nel
1303 da papa Benedetto XI a pacificare la città,
gl'istituisse. Fu da principio ufficio loro esclusivo sovvenire la
Signoria e il Palazzo, correre alle case dei popolani, se vedessero
i grandi assembramenti per isforzare il governo, operare in somma
quanto fosse necessario onde rimanesse illesa la legge, e
perchè meglio l'ufficio loro eseguissero, ebbero nel 1323 i
cinquantasei pennoni, tre per gonfaloniere, ed alcuni quattro, con i
quali, quando il gonfaloniere di giustizia chiamava il popolo alle
armi, erano tenuti ad andargli dietro con le compagnie loro
assegnate. Mutati i tempi e gli ordinamenti, non più si ebbe
bisogno che uscissero in arme ad accompagnare il gonfaloniere di
giustizia nella tumultuosa esecuzione di sentenza che pareva, ed era
le più volte, vendetta: ma nondimeno, avendo acquistato
riputazione grandissima, ordinarono che la Signoria, quando avesse a
fare alcuna pubblica deliberazione (come confermare le spese
commesse dai magistrati della Repubblica, creare nuove leggi,
imporre gravezze), non potesse alcuna cosa eseguire senza di loro.
Avevano titolo di venerabili; insieme con i dodici Buonuomini
componevano i così detti Collegi, e si chiamavano ancora li
Tre maggiori. Chiunque il padre o l'avo del quale non era veduto far
parte di questi maggiori non poteva essere promosso agli uffici
pubblici. La città andava divisa in quartieri, per la riforma
che ne fu fatta dopo la cacciata del duca di Atene. Per lo innanzi
fu spartita in sestieri. Ogni quartiero aveva un gonfalone
collegiale e quattro particolari. San Spirito prese per gonfalone
collegiale la colomba bianca con raggi d'oro fuori del becco in
campo azzurro; gli altri scala bianca in campo rosso; quadro bianco
seminato di nicchi rossi in campo azzurro; sferza nera in campo
bianco; drago verde in campo rosso. Santa Croce ebbe in gonfalone
collegiale croce rossa in campo bianco; - gli altri furono, due
ruote cerchiate bianche e nere; una ruota di carro di color d'oro in
campo azzurro; toro nero in campo d'oro; lione d'oro in campo
azzurro. Santa Maria Novella per gonfalone primario un sole d'oro in
campo azzurro; e gli altri, lione bianco in campo azzurro; lione
rosso in campo verde; vipera verde in campo d'oro; unicorno bianco
in campo verde. San Giovanni, il tempio in campo azzurro; gonfaloni
minori, le chiavi rosse incrociate in campo d'oro; il vaio bianco e
nero; il drago verde in campo d'oro; lione nero in campo bianco.
Terzo maestrato maggiore costituivano i Buonuomini; dodici di
numero; istituiti nel 1321; nel qual tempo essendo la città
molto travagliata dalla fazione di quelli che volevano entrare nel
governo, e non provvedendo a sì fatto disordine i Priori come
dovevano, furono eletti questi dodici Buonuomini, perchè
assistessero i Priori, i quali d'ora in poi non potessero fare
deliberazione alcuna d'importanza senza il consiglio loro: si
dissero Buonuomini perchè cavati fra quelli che avevano fama,
oltre la sufficienza, di grande bontà. Nella riforma del
1494, epoca della seconda cacciata dei Medici, si provvide che
eglino insieme ai sedici gonfalonieri ed alla Signoria
intervenissero a fare stanziamenti, creare nuove leggi ed altri
ordini; nè senza la presenza loro il Consiglio Grande potesse
eleggere magistrato, o far cosa altra qualunque. Incombeva loro
altro ufficio, ed era la guardia della porta del Palazzo nei tempi
turbolenti contro chiunque volesse sforzare i Signori. Però,
durante lo spazio compreso nella nostra storia, di e notte
vigilarono alla custodia della Signoria.
Dei Nove non occorre per ora parlare, i quali attendevano alla
milizia del contado e del dominio fiorentino; e perduto il dominio,
furono deputati sopra le fortificazioni della città.
Altrove terremo proposito degli Otto di guardia, magistrato
criminale sostituito ai capitani di popolo. - Diremo adesso
brevemente dei Dieci di libertà e pace.
I Dieci furono magistrato assai antico, imperciocchè se ne
trovi fatta menzione nella storia delle guerre che Firenze sostenne
con suo infinito pericolo contro i duchi di Milano. In pace si
sopprimeva, in guerra si tornava ad eleggere. Qualche volta invece
di dieci fu composto di otto, e si chiamarono di Pratica.
L'amministrazione dei Dieci si estendeva oltre ogni credere; in loro
stava la salute o la rovina della patria; a loro apparteneva
negoziare co' principi, praticare gli accordi, promuovere le leggi
rispetto alla pace o alla guerra, soldare capitani, fanterie e gente
di armi; e, bisognando condurre governatore o capitano generale, a
loro spettava considerare diligentemente chi per fede e valore fosse
degno di tanto grado, comechè simile condotta non si tenesse
per conclusa dove prima non la confermasse il consiglio degli
Ottanta. Era parimenti ufficio dei Dieci apprestare le fortezze del
dominio, mettervi presidii, artiglierie, polvere e di ogni maniera
provvisioni. Avevano autorità di mandare commissari
particolari del dominio, od anche eleggere per commissari quelli che
andavano in reggimento. Gli ambasciatori e commissari generali
sebbene nel consiglio degli Ottanta si creassero, nondimeno, quando
andavano ad eseguire i negozi, la Signoria imponeva loro che
scrivessero ai Dieci; e quanto questi comandassero, facessero:
però gli ambasciatori innanzi la partita andavano per le
istruzioni a quel magistrato; giunti presso i principi, a lui
scrivevano tutto quello che occorreva, e i comandi che per risposta
ricevevano, eseguivano. L'autorità di questo magistrato
compariva in diritto eccessiva, perchè poteva muovere guerra,
far pace, stringere lega con cui meglio gli pareva: nondimeno in
fatto non assumeva sì grave carico, e nelle deliberazioni di
momento si consigliava con la Pratica. Furono segretari dei Dieci,
col titolo di Segretari della Repubblica Fiorentina, gli uomini
più illustri che a mano a mano onorassero i secoli. Tanto
piacque nei tempi andati ai Toscani mantenere presso i popoli
stranieri fama d'ingegnosi e schivare quella di stupidi: Coluccio
Salutati; Lionardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini,
Cristoforo Landini esercitarono l'ufficio di segretario; più
grande di tutti loro Nicolò Machiavelli, a, cui, ristorato il
governo repubblicano, fu per opera degli ottimati preferito un
Francesco Tarugi di Montepulciano, e questo morto di lì a
breve tempo, con molto migliore consiglio elessero per segretario
Donato Gianotti, reputato e dabbene, dalle opere del quale sono
estratte per la massima parte le precedenti notizie.
Già la sala era ingombra di cittadini chiamati dal suono
della campana; e andavano trattenendosi in vari ragionamenti, divisi
in capannelli, liberamente discutendo le proprie opinioni,
sicchè ne usciva un frastuono simile al zufolio del vento per
le foreste. Quando comparve la Signoria ogni uomo si tacque e si
affrettò ad occupare il posto conveniente alla dignità
di ciascheduno. I magistrati si posero sulla ringhiera, il popolo
per le panche, il gonfaloniere con la Signoria sopra il suo seggio.
Appena seduti e ricambiato il salutare, i tavolaccini apersero
l'ultima porta della sala a mano sinistra del gonfaloniere, ed uno
di loro gridò:
«I magnifici ambasciatori.»
E subito dopo furono veduti entrare Iacopo Guicciardini, Andremo
Niccolini e Luigi Soderini, mesti in sembiante e in gramaglia,
cosicchè a molti quella improvvisa comparsa era segno di
augurio sinistro. Fattisi presso al seggio dei signori, con molta
solennità gli ossequiarono, aspettando per favellare che ne
fosse loro trasmesso il comando.
«Quando partiste», cominciò il gonfaloniere,
«da Fiorenza, eravate quattro. Donde avviene che siete
scemati? Dov'è messer Niccolò Capponi? Quale cura lo
trattiene adesso?»
«Nissuna: - anzi egli adesso va sciolto da tutte, rispose
Iacopo Guicciardini. - In Castelnuovo di Garfagnana spirò la
sua dabbene anima, invocando la patria e con preghiere caldissime
raccomandandola.»
Lorenzo Segni, che per avere condotta a moglie la Ginevra, figliuola
di Piero Capponi, era cognato di Niccolò, udendo l'acerba
novella, forte si percosse la fronte ed esclamò:
«Ahimè! perdemmo il migliore cittadino di
Fiorenza.»
Lionardo Bartolini, soprannominato il Leo (il quale era uno dei
Sedici; e patteggiando per la setta degli Arrabbiati, non si
scompagnava mai da Bernardo, Lorenzo, Giovambattista, Dante ed altri
della famiglia Castigliona; da Battista del Bene, detto il Bogia,
Giovanni degli Adimari chiamato Zocone, Giovanni Rignadori, per
soprannome Sorgnone, ed altri della medesima setta), mal comportando
la lode smodata ad uomo, che sempre avevano ripreso mentre viveva,
rispose ad alta voce:
«Ed il peggiore magistrato...»
Lorenzo, levando la faccia e torcendo nel Bartolini gli occhi dove
il subito furore aveva inaridito le lacrime della pietà, come
quello che arditissimo uomo era, con grande animo soggiunse:
«A me non faceva mestieri altro esempio per convincermi essere
i peccati delle republiche la ingratitudine e la invidia.»
«Via il pallesco! - Taccia l'ottimato! - silenzio!...»
E queste parole con gridi deliranti si urlavano, con frequente
pestare di piedi e gesti furibondi, dalla fazione degli Arrabbiati.
«Silenzio a tutti!» balzando in piede dal suo seggio
prorompe il Carducci.» Non è luogo questo, nè
qui foste adunati per celebrare o riprendere le azioni dei
cittadini. Il predicatore al mortorio preconizzerà il defunto
messere Nicolò; la storia lo giudicherà nei suoi
volumi. Ambasciatori, esponete.»
«Quantunque», con voce concitata incominciò a
favellare Iacopo Guicciardini, «a noi fosse più grave
patirli che a voi ascoltarli, ci sia non pertanto permesso di tacere
gli strazii vergognosissimi co' quali papa Clemente, il dabben
cittadino, intese a renderci contennendi davanti i maggiori baroni
della cristianità adunati a Bologna per la incoronazione
dell'imperatore. Noi non mancammo, a seconda delle istruzioni
ricevute, di visitare i cardinali Farnese, Santa Croce e Campeggio;
in particolare colloquio raccomandammo la Repubblica al gran
cancelliere, ma, secondo il costume di corte, avemmo cerimonie e
c'industriammo ottenere la udienza promessa dal maggiordomo
maggiore. Dopo lungo aspettare per bene quattr'ore, vilipesi e
derisi nelle anticamere, fummo licenziati a cagione che, essendo
sopravvenuto a Sua Maestà un subito negozio, non poteva darci
ascolto. Non mancammo però di complire monsignore di Nassau,
il quale, poco intendendo, meno facendosi intendere, non so se per
dileggio o per ignoranza, rispose non bisognare intercessione,
però che il papa, essendo dei nostri, avrebbe certamente
adoperata benignità alla sua patria. Don Francesco di Covos,
commendatore maggiore di Lione, invece di confortarci, ci minacciava
guai, se non avessimo convenuto con Sua Santità e presto. -
Ah! cittadini miei, quanto io ami la patria, sapete; i sagrifizi che
io sono pronto a fare per lei potrete uguagliare, non superare. A me
poco premono gli averi, la vita nulla: e nondimanco io torrei
piuttosto danni anche maggiori, se maggiori si possono apportare
all'uomo, che soffrire un'altra volta tormento come questo, senza
pari nel mondo. Per compire intiero l'ufficio doloroso, non volemmo
tralasciare il confessore di Cesare, il quale distintamente ci
rispose avere Sua Maestà fatto consigliare questa causa,
tenerla giusta, tanto più poi persuadendola il vicario di
Cristo e cittadino della nostra città; per la quale cosa
doveva presumersi fosse non pure giusta, ma pia; inoltre avere
Cesare obbligata la sua parola e non esserle per mancare giammai,
sapendo egli confessore che Cesare era quanta fede fosse nel mondo.
Ancora disse che la città, per avere stretto lega co'
Francesi e mandato gente al campo di Lautrec a sovvenirlo nella
impresa di Napoli, doveva considerarsi decaduta dai privilegi
concessi dai passati imperatori.»
Un turbine di grida interuppe l'oratore, che si rimase con labbra
tremanti, ansioso di proseguire; e alla domanda di Dante da
Castiglione, la quale, malgrado il trambusto, gli percosse piena le
orecchie al modo di tuono:
«E con qual fronte sosteneva costui siffatte
scelleratezze?»
«Con fronte da frate», rispose il Guicciardino, «e
con atti tali che sembrava crederle come appunto le diceva. Ma loro
io non incolpo; - ai nemici non bisogna chiedere nulla: ben io mi
dolgo e in pieno consiglio ricordo, affinchè i padri
insegnino ai figli, i figli ai nipoti, ad abborrire eternamente i
nomi dei cardinali Ridolfi, Salviati e Gaddi, fiorentini tutti, alla
patria spietati, solo di sè curanti, nè a fame
nè a lacrime e nè a disperazione credenti,
purchè la mensa abbiano di vivande preziose imbandita e
ascoltino i motteggi dei loro buffoni o i suoni dei musici. Dalle
istanze supplichevoli, dagli umili scongiuri che cosa acquistammo
noi? Stolti conforti, come la gente chiericuta costuma di
rassegnarci ai divini voleri, quasi Cristo predicatore alle turbe
della libertà potesse mai volere schiavi i suoi figliuoli! -
Ma qual bestemmia mi usciva di bocca? Io ti domando perdono,
Gesù crocifisso, signore e padre della Fiorentina Repubblica.
Tu nulla hai di comune con i preti di Roma; quando te invocano,
quando te rammentono, certo col tuo stesso nome vogliono significare
qualche altro Dio. Tu versasti il tuo sangue prezioso per la salute
degli uomini, - i preti hanno raccolto quel sangue e lo hanno
ministrato ai popoli misto di veleno...»
E proseguiva con inestimabile dolcezza di quanti Piagnoni si
trovavano nella sala, i quali, ricordando il fiero piglio di frate
Girolamo e quel suo ardente predicare, già cominciavano a
singhiozzare sommessi, ed era da temersi che all'improvviso cadendo
in ginocchio non prorompessero nelle voci di viva Cristo, e
cantassero in coro la strana canzone del Benivieni:
Non fu mai più bel solazzo.
Più giocondo nè maggiore,
Che per zelo e per amore
Di Gesù divenir pazzo.
Quando il Carduccio, severamente riprendendo l'oratore,
parlò:
«Messere Iacopo, la Signoria intese ieri la predica di frate
Benedetto in Santa Maria del Fiore; oggi vorrebbe qui dentro
favellare di negozi».
Il Guicciardino allora condusse in breve il suo dire a fine
aggiungendo:
«Quanto uomo può immaginare, e bocca discorrere, tutto
esponemmo al principe dei nuovi farisei; - vi adoperammo lacrime,
sospiri e perfino, con manifesto pericolo di noi, minacce. Rispose
Clemente alle minacce, lusinghe; alle lusinghe, minacce;
tentò corromperci; pose in opera il perverso ingegno a
disgiungere la nostra dalla causa della patria; e quando pieni di
pietà e di sdegno uscimmo dal suo cospetto, non adontò
mandarci per un suo camerario all'albergo questa carta. Qui dentro
è riposta la sua mente intera. Spettabili Signori e miei
onorandi concittadini, in mercede dei travagli patiti, mi concedete
che i miei occhi non si contristino a leggere così fatta
abominazione, nè la mia bocca si contamini a proferire
gl'ipocriti sensi di questo crudelissimo nostro nemico.»
E tesa la mano presentava al gonfaloniere una carta, la quale egli
prendendo fece per un tavolaccino portare a messere Donato Giannotti
segretario della Repubblica; e subito dopo gl'impose:
«Ser Segretario, leggete.»
Il Giannotto, obbedendo al comando, si levò in piedi per
leggere. In quella vasta sala, da tanta gente ingombra, si sarebbe
inteso il ronzìo d'un insetto, - così profondo vi si
diffuse allora il silenzio. E dalle ringhiere sporgevano alcuni il
capo e parte del busto per meglio ascoltare: altri ritti sulle punte
dei piedi appoggiavano il mento sulla spalla di chi stava loro
davanti, altri atteggiati in altre sembianze e pur tutte rivelatrici
dell'alta intensità dell'anima. La voce del Giannotto,
comechè picciola, riempiendo la sala, diceva:
«Dilectis filiis civibus florentinis Clemens papa VII salutem
et apostolicam benedictionem. - Mediante gli onorevoli vostri
oratori ci avete fatto sapere essere in tutto disposti di accordare
con noi; la quale disposizione, comunque giunga tardi per la nostra
giustizia, arriva in tempo per la misericordia nostra.
Epperò, ricevendoli nell'antico favore della Santa Sede
Apostolica e trattandosi dell'onore nostro, intendiamo e vogliamo vi
rimettiate intieramente nelle nostre braccia, chè mostreremo
al mondo che, per essere nati nella vostra città, vi saremo
fratelli; e per essere capo dei fedeli, vi faremo da padre.»
Si levò uno scoppio spaventevole di urli, di mani percosse
sui banchi, di sghignazzari di scherno. La terra battuta
mandò rumore e nuvolo di polvere, quasi vi sottostasse il
vulcano.
Il Carduccio stende ambo le mani per comprimere il tumulto come uomo
che tenti frenare l'impeto di cavalli indomati; e poichè indi
a brevi momenti decrebbe (chè l'ira, l'odio, l'amore e ogni
altro affetto col tempo si placa), non senza grave turbamento
incominciò:
«Già voi li sentiste: - i patti coi quali ci offre pace
il padre di tutti i fedeli e nostro vi sono alfine manifestamente
proposti; - con la superba tirannide che non conosce vergogna,
costui ve li definisce e pone dinanzi agli occhi. Gli porgano i
cieli la mercede che merita; - almeno noi sapremo a qual partito
attenerci, rifiutare i consigli incerti e nelle risolute
deliberazioni confermarci. Volete pace? ebbene incominciate a
disimparare la libera favella repubblicana, educate le labbra a
proferire le parole: di umiliati al temuto trono, di supplica
ossequíosa, di servo indegno e di suddito, di prostrato agli
augusti piedi, e tali altre siffatte bruttissime e disoneste
laidezze, che se l'uomo si attentasse adoperare verso il suo
Creatore, questi di certo nol sopporterebbe, dicendo: solleva la
fronte; se io avessi voluto che tanto si umiliasse la creatura, non
vi avrei impresso la immagine di me; guardami in faccia,
perchè i sacerdoti mi hanno calunniato, ed io sono Dio di
amore. - Apparecchiate le vostre sostanze; il tesoro raccolto con
industria e parsimonia da secoli il tiranno divora in un giorno; -
alla libertà rifiutaste il vostro soverchio, adesso date alla
tirannide anche il necessario; nè confidate schermirvi con
ingegnosi partiti: la tirannide conosce tali strettoi da premere in
una scossa l'oro, il sangue e le lacrime di un popolo, - e l'oro
prende tutto, del sangue beve un sorso e poi lo restituisce al
popolo con le sue lacrime intere perchè ritorni a piangerle.
- Educate le vostre donne a compiacersi delle libidini del tiranno;
voi stessi persuadete che vi tornino ad onore, e quando il principe
lascerà nelle vostre case una striscia velenosa come il
rettile, mostratela ai vicini, vantandovi: Il duca ci degnò
della sua presenza. - Nè questo basta ancora: - noi tutti non
vorrà sopportare vivi; con la morte degli uni acquistano
grazia i superstiti. - I nomi nostri imborsiamo, leviamone a sorte
quaranta, e le teste dei sortiti in bacile d'argento presentiamo con
le chiavi della città, quando il vicario di Cristo si accosti
alla dolcissima sua patria, - dono gradito a chi lo riceve, pegno di
favore a cui il porta. Cittadini, ecco la pace di Clemente VII,
servo dei servi di Dio. La guerra per altra parte ci si mostra piena
di pericolo. - Ma evvi pericolo maggiore della pace? Noi possiamo
perdere la guerra, ma possiamo anche vincerla; e quando pure la
perdiamo, qual danno ricaveremo più grave della pace? E forse
il vincitore, anche nella vicenda più trista, sapendo quante
morti abbia sofferto in espugnarci, o rispetterà la
virtù dei superstiti o temerà di ridurli a disperati
partiti. Resistendo, acquistiamo tempo; e il differire, causa di
sventure nelle guerre offensive, nella difesa abbiamo veduto sempre
giovare. Già le cose dei Luterani in Germania molestano
Cesare molto più che altri non pensa; il Turco si tiene
grosso sotto Vienna, sicchè il fratello dell'imperatore, non
che abbia potuto abbandonare gli stati suoi per assistere alla
incoronazione di lui, a grande istanza lo chiama per divisare i
ripari contro Solimano; nè le forze del papa e di Carlo
sommano a tanto quanto si temeva; e le milizie nostre superano il
numero che speravamo; le mura abbiamo forti, dei soldati forestieri
fioritissima cerna e, meglio delle mura e dei soldati forestieri,
cittadini disposti in un fermo volere. Io pertanto vi conforto a
combattere. Ma voi, prestantissimi uomini, liberamente consigliate;
chè, qualunque sia per essere la determinazione vostra, la
Signoria e i Dieci non solamente approveranno come utile,
eseguiranno come onorevole, ma eziandio commenderanno come
onesta.»
Terminata l'orazione del gonfaloniere, avvenne un momentaneo
scompiglio, perchè ognuno dei cittadini adunati si raccolse
sotto il suo gonfalone per discutere la proposta e dare il voto. Se
non che tanto era il generale consenso che poco vi fu mestieri
disputa, e tutti convennero nell'affermativa. Allora, secondo il
costume, i gonfalonieri, cominciando da quello di Santo Spirito e
secondo l'ordine succedendo gli altri, si recarono in bigoncia, dove
esposero la risoluzione del rispettivo gonfalone con la formula
breve e consueta: - Di tanti che sono, tutti dicono di sì.
Quantunque uso volesse che nel riferire la mente dei suoi il
gonfaloniere adoperasse la formula concisa rammentata poc'anzi,
già non s'intende mica che fosse loro proibito favellare
più diffusamente: ed in fatti Lionardo Bartolini, il quale
era gonfaloniere dell'Unicorno, salito tempestando in bigoncia,
gridò:
«Tutti i miei dicono di sì; ma dicono ancora: i
magistrati attendano a guardarli alle spalle, mentr'eglino
combattono di faccia: non tutti i nostri nemici stanno in campo;
molti, in città, molti, con inestimabile dolore e sconforto
dei buoni, in questo stesso recinto...» Uno applauso
forsennato lo interruppe; - parve ai Palleschi giunta la loro
estrema ora di vita. - Il fiero Arrabbiato continuò:
«Io li vedo, io li conosco; potrei nominarli o accennarli!...
Che pazienza, che viltade è mai questa? Se non vogliono
aiutarci, non ci nuocciano almeno. Perchè non sopportano essi
in parte il carico comune? Dunque l'odio manifesto contro la patria
basterà ad esentare dalle gravezze; e quanto più
l'uomo si mostra alla Repubblica amorevole, più gli farete
sopportare i balzelli e gli accatti? Bell'arte di governo, in fede
di Dio! Utile accorgimento di stato! Or via affrancate la timida
mano: con migliore prudenza vorrebbero consegnarsi al sepolcro. Se
non vi piace, sosteneteli, aggravateli con le tasse, i beni interi
dei frati vendete. Perchè ne avete venduto il terzo
solamente? O fu giustizia venderne parte, e giustizia sarà
venderli interi; o fu necessità di stato, ed allora, le cause
della necessità tuttavia sussistendo, ragion vuole che
pienamente il concetto vostro adempiate. Se ci pretende la Signoria
animosi, cominci ella a somministrarcene l'esempio; a testa debole
non mai udimmo andare congiunte mani robuste.»
Ora in un lato della sala intorno al gonfaloniere del drago verde di
San Giovanni stava raccolta una mano di gente, la più parte
piccoli mercanti e bottegai: soperchiati costoro dai minuti
interessi, a quanto accadeva non porgevano ascolto - La repubblica
stava dentro la bottega loro, - felicità suprema dormire i
sonni interi, - sapienza di stato il mezzo di vendere a ingordi
guadagni quello che avevano comperato a poco prezzo; ed ora
detestavano la guerra, perchè se una bombarda avesse loro
guasta la insegna dipinta a nuovo, sarebbe stato infortunio da far
piangere una settimana monna Filippa o monna Lessandra; e se un
giorno i nemici fossero penetrati in città ed avessero
scomposti, guasti e vuotati i barattoli, se rubate le masserizie in
casa, se poste le mani addosso a monna Filippa o a monna Lessandra,
- misericordia! sarebbe stata la fine del mondo. Sicchè per
loro volevano accordare in ogni modo, a qualunque patto. Sapete voi
come si chiamasse o chi fosse il gonfaloniere del drago verde?
Statemi a udire, chè io ve lo dirò partitamente senza
pure lasciare inosservata un'iota. Egli si chiamava messer Bono Boni
e apparteneva a quella trista mandra che non avrebbe pari nel mondo
se non la vincessero i giudici nella nequizia, - voglio significare
lui essere dottore di leggi. Aveva le spalle incurvate sotto il peso
invisibile, forse delle commesse ribalderie. Quando camminava, gli
era mestieri dondolare con moto a semicerchio da un piede all'altro,
e questo moto accompagnare con ambe le braccia, che parevano staffe
di cavallo che corra senza cavaliere: la testa grossa e compressa
gli pendeva sul petto come un melone per benefizio di acque
cresciuto più che non convenga al suo gambo. Non aveva un
colore fisso, perocchè il fondo del volto fosse di un misto
di giallo rosso, poi chiazzato di macchie vermiglie e di punti
nerastri, quasi lo avessero contaminato col fango di macello: -
essendo balusante, spesso aguzzava gli occhi dirigendone il raggio
alla punta del naso lunghissimo, sicchè pareva che a modo dei
santi indiani, i quali guardandosi la punta del naso si procurano
beatifiche visioni, egli vedesse su quella estrema parte germogliare
i pensieri. Come poi la natura tanto largheggiasse di naso in costui
faceva meraviglia; certo nel fabbricarlo non avendogli dato cuore,
poteva supporsi che avesse supplito in tanto naso: - ma la cosa non
è così, ed ecco come sta la storia, la quale abbiamo
trovato su libri degni di fede. Cotesto naso non gli venne dalla
natura, ma dall'accidente: un giorno ch'egli si arrampicava su per
gli scaffali dello studio in cerca di libri legali, mancatagli la
scala di sotto, rimase appiccato pel naso traverso due codici; -
pareva un pesce preso all'amo di madonna Giustizia pescatrice. Ne
dubitereste voi forse? In verità vi dico che questo
può darsi; rammentate la luna. Femmina e diva, ella scese
talvolta in terra a prendere diletto nelle caccie; ed io vi giuro
avere le mille volte incontrata madonna Giustizia ora vestita da
pescatrice, ora da cacciatrice, tal'altra... in somma io l'ho veduta
sotto tali aspetti da disgradarne Proteo. Il nostro dottore
favellava con due voci: ora pareva, ora non pareva lui, ed era
sempre lo stesso. Egli, fosse naturale inclinazione o piuttosto
abitudine di mestiero, quando nulla aveva da rodere d'altrui, rodeva
sè stesso, e così forte si lacerava le unghie da
mostrarne sovente le mani sanguinose. Fin qui Bono Boni (di cui
vedemmo il ritratto mirabile così che ci sembrasse vivo)
faceva ridere: ma Bono Boni aveva poi dentro tutte le facoltà
disposte a far piangere. Nel suo genere completo quanto Guccio
Imbratta o ser Ciappelletto, prima di tutto si doleva poi
dell'altrui bene che non si affliggesse pel proprio male;
purchè gli altri perdessero un occhio solo, egli avrebbe
consentito a patto di rimanere privo di ambedue: costumava portare
nella tasca destra il ritratto del Frate, nella sinistra l'arme dei
Medici; e se incontrava un Piagnone, torceva il collo, inumidiva il
ciglio e a lungo gli commentava la profezia del Savonarola: -
Florentia flagellabitur, et post flagellum renovabitur et
prosperabit; - sicchè lo lasciava edificato delle dottrine e
santità sue: se invece gli occorreva un Pallesco, così
alla sfuggita gli Mostrava l'arme e poi, toccato il cuore, gli occhi
levava al cielo e se ne andava sospirando. Se l'astio lo rodeva
contro una qualche persona, egli cominciava a celebrarla: tentato il
terreno, se lo trovava arrendevole, sgorgava il veleno a bocca di
barile; se incerto, lo circondava, lo stringeva, con proposte
continue di fede e d'amore si onestava, sicchè lo rimandava
convinto; nè bastava dichiararsi contrario alle tristizie
sue, imperciocchè così lene lene con la sua lingua di
vipera egli blandiva e tanto sottilmente il tossico v'insinuava che
pur giungeva cacciargli il sospetto nell'anima. Penetrava nelle
famiglie, come il tarlo: alacre in procacciarsi donazioni e legati;
fiutatore dei cadaveri solenne meglio dei corvi, e' si teneva seduto
accanto il letto del moribondo non altrimenti che l'avaro sopra lo
scrigno: lo spirito vacillante gli arroncigliava, nè alcuno
sperasse levarglielo di sotto tranne la morte: chi lo conosceva
sotto la pelle, lo affermava entusiasta della misericordia pei
morti, spietato poi per la misericordia dei vivi. È fama che,
essendo spirato il suo zio paterno ab intestato, egli non
consentisse abbandonare la stanza mortuaria per paura che
espilassero dalla eredità i pochi panni del defunto;
sicchè, gittato il cadavere giù dal letto, vi si
ponesse egli a dormire dicendo: buona ventura abbiamo stassera;
acquistiamo robe e risparmiamo il fuoco per iscaldarci i lenzuoli. -
Tali, e non tutte, erano le facoltà morali del nostro dottore
di legge: siccome Guccio Imbratta, lui fregiavano certe altre
taccherelle che si lasciano per lo migliore. - Però non si
creda che vivesse lieto tutta la sua giornata: la coscienza spesso
lo infastidiva, ma finchè la luce durava, riusciva a
cacciarla come mosca importuna. - Venuta la notte, non trovava
riposo, dava volta su questo e su quel fianco, nè il sonno
veniva; - spesso abbandonava il letto mormorando: - Alla croce di
Dio, mi hanno ripieno l'origliere di pianto! - Lo spirito agitato
gli mostrava cento mani di vedove e di pupilli spogliati da lui
circondarlo in atto di chiedere; ed egli urlava: - Lasciate di
tormentarmi; renderò quanto vi ho tolto; a voi... prendete e
andatevene in pace. - E qui apriva uno stipo e immaginava mettere
monete su quelle mani stese. Ma alla dimane trovando il terreno
seminato di fiorini, diligentemente gli raccoglieva, irridendo
sè stesso de' suoi terrori e ad ora ad ora esclamando: Se a
cinquant'anni non hai saputo disfarti della coscienza, o Bono Boni,
oggimai ti puoi accomodare a morire novizio.
Quando ebbe a riferire Bono Boni per suo gonfalone, salì in
bigoncia e con un tal suo garbo che tentò rendere dignitoso,
e a tutti parve di scimmia, salutò l'uditorio, stette alcun
poco pettoruto sopra di sè e poi cominciò a favellare
dicendo:
«Magnifici Signori e cittadini prestantissimi. - Poichè
i più gravi tra i filosofanti, tra i quali a causa di onore
rammento Aristotele nel suo trattatto De republica, poichè i
più gravi tra i filosofanti c'insegnano doversi adoperare
maturità di consiglio nelle deliberazioni dove può
andarne la salute dello stato, noi abbiamo molto bene ed in ogni sua
parte considerata la bisogna; avegnachè Celso, quel sommo
lume della giurisprudenza, ch'è, come sapete, conoscimento
delle cose divine ed umane, e scienza delle leggi avverta
acconciamente non potersi decidere se prima non si esamini
nell'insieme e nelle singole spartizioni il caso concreto. Onde,
veduto il pro e il contro quid faciendum, quid vitandum, siamo
venuti nel presente concetto che se i beni e la vita senza la
libertà sono poca cosa, la libertà senza i beni e la
vita è ancora meno. Vivere libero piace, ma più di
tutto piace vivere. Della libertà, dei beni e della vita,
prima giova porre in salvo la vita, poi i beni, poi la
libertà. - Conviene procedere con ordine e misura; dovendosi
perdere, si comincia dal meno necessario e si va su su verso quello
che fa maggiormente di bisogno. - Il buon nocchiero assalito dalla
bufera concede parte delle merci al mare tempestoso per salvare il
restante. E nel caso nostro il papa è la procella, Fiorenza
la nave in travaglio, e la Signoria il nocchiere. Di quaranta che
sono nelgonfalone drago verde trentacinque votano l'accordo, cinque
la guerra.»
«Giù da cotesta bigoncia in tua malora!»
urlò Lionardo Bartolini: «se tu aggiungi un'altra
parola per l'accordo, ti taglio in pezzi senza misericordia. -
Giù, giù di bigoncia il tristo uccello! - E' vorrebbe
rogare il testamento alla Repubblica. - Gittiamo dalle
finestre.» Tra uno schiamazzo alto, discordante di voci
diverse o d'ira o di scherno, più distinte si udivano quelle
già rammentate. La prosunzione combatte con la paura;
nè il dottor di legge, che si dava vanto di perito nel dire,
sapeva indursi ad abbandonare la bigoncia; ma, crescendo il tumulto,
scese a rilento, esclamando: «Anche il fiore della vera
eloquenza è perduto sotto questo iniquo reggimento!»
I Signori, i più modesti cittadini e i tavolaccini imposero
silenzio; il quale avendo a gran pena ottenuto, successero a mano a
mano gli altri gonfalonieri, i Buonuomini e ad uno ad uno i Signori.
Il Carduccio, il quale era rimasto in piedi con immensa
ansietà finchè il numero dei votanti rendeva incerte
il consiglio della Pratica, appena conobbe decisa la guerra,
lasciò andarsi abbandonato sul seggio, quasi da giubilo che
non aveva ardito sperare.
E riprendendo forza, terminati i voti, si levò in sembiante
ardito e con voce più ferma che mai favellava:
«E guerra sia! Questa volevamo, questa con preghiere
ardentissime dal cielo supplicavamo. Ma con gli animi pronti
abbiate, o cittadini, pronte le sostanze e la vita. Se la Signoria
non ricorse a violenti partiti, ciò non fece perchè la
mano le tremasse o l'animo, no certo; sibbene perchè,
sentendosi forte, non teme ingiuria da nemici interni: ciò
fece ancora per mostrare al mondo che questo nostro stato presente
aborre da rimedi estremi nelle strettezze nelle quali si trova, ed
in cui spedienti siffatti non solo si scusano, ma si commendano e
approvano. Ognuno conosca dal governo del tempo infelice con quanta
giustizia la Repubblica sarà per procedere in tempi quieti.
Però, cittadini, ora bisogna che dimostriate intera la
carità vostra verso la patria. A noi non mancano milizie
sì forestiere che nostre: a noi non mancano munizioni da
guerra, - di vettovaglia non patiamo difetto; - solo il danaro
scarseggia. A che vale la provvisione di vendere i beni delle arti,
se nessuno si presenta a comperarli? Il gonfaloniere dell'Unicorno
propone che, come vendemmo la terza parte dei beni ecclesiastici,
così noi li vendiamo interi: - e a cui noi dovremo venderli?
Simili argomenti non procacciano pecunia. Fra tasse ordinarie,
accatti, gravezze e balzelli straordinarii, fin qui giungemmo a
tredici. La prudenza e le leggi non ci concedono oltrepassarne il
numero. Carità, carità, cittadini! Potessero uscire
fiorini dalle mie vene! Il popolo minuto corre volonteroso e si
disfà dei suoi pochi argenti in pro della patria: voi di
molti beni provveduti dalla fortuna contemplerete il bello esempio
indarno? Il cuore chiuderete e la borsa? Messere Zanobi Pandolfini
spontaneo donava mille scudi, messere Alessandro Malegonelle
ottocento, messere Michelangiolo Buonarroti mille....»
«Il quale non vi darà più oltre pel valore di un
bagattino!» proruppe sdegnato Michelangiolo.
«E perchè, messere Michelangiolo? Perchè?»
domandarono mille voci ad un tratto.
«Perchè quando mi piace dare quello permettono le mie
povere facultà, come io lo dimentico, così vorrei lo
scordassero gli altri - nè ci ha mestieri strombettare pei
cantoni, - Michelangiolo dava tanto, quasi in dileggio della mia
povertà, o in rimprovero del poco volere...» Profferite
le quali parole se ne stava cruccioso.
«Lode al Signore», continuò il Carduccio levando
in alto le mani, «il quale volle ai tempi nostri mostrare di
che sia capace un cuore benigno unito a sublime intelletto.
Michelangiolo voi siete grande; il mondo lo sa, e voi non ve ne
accorgete. - Ora, signori colleghi e cittadini adunati, questi
spettabili Dieci hanno inteso i vostri pareri, e anderannosi
accomodando a quelli. E, per concludere le cose deliberate, vi
raccomando rammentarvi la promissione fatta nel Consiglio Grande in
nome di tutto il popolo fiorentino a Gesù Cristo figliuolo di
Dio, di non volere altro re accettare tranne lui solo; e, della
vostra promessa ricordandovi, egli molto bene si sovverrà
della sua di sostenervi e difendervi. Addio. - Non sarebbe il tempo
bello di gloria, ove non fosse pieno di pericoli. Verrà
giorno che sopra le nostre lapidi i figli riconoscenti incideranno:
E' fu di quelli che si trovò alla Pratica per difendere la
libertà di Fiorenza contro Clemente papa.»
In questo modo la Pratica si sciolse; e, con fragore come di acque
lontane, i cittadini sgombrarono la sala; giù per le scale
andavano bisbigliando chi una novella, chi un'altra. Molti lodavano
l'ardire del Carduccio, e dicevano che se Pietro Soderini avesse nel
1512 cotale animo avuto, la Repubblica non si perdeva di certo;
alcuni pochi lo biasimavano, come se si fosse a troppo grave risico
avventurato, ed all'opposto degli altri affermavano che, come il
Soderini aveva perduto la Repubblica per essere troppo rispettivo,
questi la perdeva perchè troppo avventato. Ma il popolo,
amico delle vigorose deliberazioni, conosciuto l'esito della
Pratica, applaudiva empiendo l'aere di gridi: - Viva la Signoria!
Viva la Pratica! Non vogliamo accordi! Chi brama Fiorenza, venga per
essa! - ed altri siffatti. Come il vento, quando all'improvviso
soffia sopra la terra levando il turbine della polvere, gli uomini
avviluppa e le cose sicchè o non si distinguono o si
distinguono in confuso, la fama percorrendo tra il popolo vi sommove
passioni, affetti e voleri pieni d'impeto e di fallacia: onde corse
voce da prima, le contese in Consiglio essere state molte e gravi,
avere i cittadini l'uno all'altro detto ingiuria, nè mancate
le minaccie e le percosse; per la qual cosa il gonfaloniere,
smarrito l'animo, era caduto privo di sentimento sul seggio; la
parte pallesca prevalere, i repubblicani spacciati; se non fossero
pronti agli aiuti, gli avrebbero trovati spenti.
«O Dio, che avverrà di messer Dante?» diceva un
popolano. «A questa ora possiamo recitare un De profundis a
messer Lionardo», esclamava tal altro. - E ognuno andava
ricordando l'uomo in cui aveva maggiore affetto riposto. I dodici
Buonuomini tenevano le porte custodite diligentemente: da qualunque
lato meno impossibile penetrare in palazzo oltre le porte; quelle
partigiane forbite toglievano l'animo ai più audaci. Intanto
la fama diventava più limpida; una contesa era avvenuta, ma
non tanta; le ferite nulle, tutti concorrere nella guerra, da uno
solo in fuori, il gonfalone del drago verde: gonfaloniere del drago
essere Bono Boni dottore di leggi. «Quell'uomo pio....»,
cominciava a favellare un Pallesco. - «Che pio e che non
pio?» interrompeva un Arrabbiato: «egli è un
gabbadeo, un furfante da ventiquattro carati, un ribaldo da mandarsi
al mare per bastonarvi i pesci, un pendaglio da forca. - Alla
Dianora mia zia rubò la dota; - a Braccio vaiaio
divorò le campora di Brozzi; - e' inghiottirebbe la luna se
gli riuscisse agguantarla.» - «Chetatevi, male
lingue», parlò certo vecchio autorevole fra il popolo:
«la vostra bocca fa peggio della campana del bargello, che
suona sempre a vituperio,» - «Fratel mio», gli
rispose un vispo popolano, «le cose e' si chiamano pei nomi
che hanno. Se io vi salutassi: - Ciapo calzaiuolo; che Dio vi abbia
nella sua santa guardia, - lo torreste in mala parte? Mai no,
perchè vi chiamate Ciapo e siete calzaiuolo; così se
diciamo: - Bono Boni dottor di leggi è ladro, - egli è
perchè comprende l'una e l'altra cosa. Glielo abbiamo
ordinato noi di affibbiarsi addosso cotesta giornea?»
Intanto ratto ratto traversava Bono Boni il cortile del Palazzo per
uscire quanto meglio poteva inosservato; ma la cosa non gli
riuscì come la pensava, imperciocchè una mano di
giovani nobili lo inseguivano dileggiando.
«Sere», gli urlava dietro Alamanno de' Pazzi,
«sere! badate che vi fabbrichi ben salda la corazza mastro
Spada.»
«Se le ribalderie fanno imbottito», soggiungeva il Bravo
da Somaia, va pur franco alla guerra; non troverai spada che ti
arrivi sul vivo.»
«Bisognerebbe», replica il Morticino degli Antinori,
«mandare al campo messere dottore con tre compagni a scelta
per affamarlo in tre giorni.»
E Bono non rispondeva, sibbene affrettava il passo, tenendo sentiero
obliquo, come i rettili fanno quando fuggendo cercano un buco dove
possano riparare. - Dal suo volto spirava un misto di rabbia e di
paura da mettere sospetto e indurre a riso: quei suoi occhi lustri
come la lama brunita del pugnale, avrebbero desiderato dare la morte
guardando, secondo che si racconta del basilisco. Il popolo,
vedendolo posto in dileggio da personaggi autorevoli, ruppe il freno
schiamazzando: - Ben venga il sere, che gli faremo la corona di
bietole.» - «Dacchè teme la guerra, mandiamolo a
Pisa, - e per Arno, - sì, per Arno: - all'acqua il barbone! -
all'acqua il dottore!»
Un popolano lo afferra pei lembi del lucco e per poco nol fa
stramazzare bocconi: - un altro lo tira pel beccuccio all'indietro:
se lo spingono da una mano all'altra lo pestano, gli lacerano le
vesti; ed egli non proferisce parola, sbarra gli occhi stralunati,
la lingua grossa tiene fitta al palato; in breve lo riducevano in
massa deforme di fango e di sangue, se il soccorso tardava.
A Dante da Castiglione increbbe l'atto turpe, non già per
Bono, ch'ei ben sapea meritarsi anche peggio, ma per l'esempio
pessimo e pel disdoro che veniva a ridondare sopra la città.
E, disposto com'era impedire che il popolo si disonorasse, con mani
potenti levato in aria l'infelice corpicciuolo del dottore se lo
pose dietro alla persona, dipoi, opponendo il petto virile alla onda
popolare:
«Che furie, che sdegni sono eglino questi?» prese a
parlare; «si vede bene che del vivere libero non sapete
più nulla, dacchè in così brutta maniera ne
abusate. Se il dottore ha misfatto, ricorrete agli Otto o alla
Quarantia e accusatelo: v'è il magistrato per ricevere la
querela, vi sono le leggi per punirlo. Se il dottore mal
consigliava, la Pratica concede libertà di parole; e voi
rispettate i consigli tristi, se volete averne sempre dei liberi e
dei buoni: e poi il dottore non può incolparsi, o poco
incolparsi; colpa bensì è di loro che lo elessero a
gonfaloniere o gli commisero la relazione. Sicchè lasciatelo
stare. Il popolo di Fiorenza fa per impresa il lione; - imitatene la
generosità. Vi pare egli subbietto di sdegno Bono Boni
dottore di leggi? Miserabile creatura! lasciatela stare. Voi,
Tebaldo, che sempre conobbi per uomo dabbene, date primo l'esempio.
E voi, Bindo, non vi vergognate? Di bene altre ire ora abbisogna la
patria. Su via, seguitemi, andiamo alle mura per vedere l'esercito
nemico che tiene assediata la città: - guerra al
nemico!»
Tebaldo e Bindo, i quali parevano tra i popolani i meglio clamorosi,
si quietarono e, mutando voglia, si misero ad urlare quanto ne
poteva loro la gola: - «Alle mura! alle mura!»
Al Morticino degli Antinori, giovane ferocissimo ed emulo antico del
Castiglione, increbbe quel parlare modesto, e più del parlare
l'autorità grande esercitata sopra le turbe, onde, morso da
invidia, si avvicina a Tebaldo e gli susurra all'orecchio:
«E chi siete voi da lasciarvi menare così pel naso da
quel Morgante maggiore? Alla statura, ma più alla durezza, e'
mi sembra il fratello del Davidde di Michelangiolo: - diamo la baia
anco a lui; prendiamo a sassi il protetto e il protettore.»
«Questo non faremo noi», con mal piglio, rispondeva
Tebaldo: «e chiunque si attentasse di farlo, proverebbe come
le mie braccia pesino. Chi siete voi, messere? Io non vi conosco.
Dante mai sempre ci si mostrava amico, - anche al tempo dei Medici,
sapete, egli mi domandava: Tebaldo come stai? come va la moglie e i
figliuoli? e lavori ve ne sono? - e quando io era tristo e crollava
la testa, mi confortava sommesso: «spera, non sempre rideranno
costoro; non per anche abbiamo fatto i conti; Dio non paga il sabato
e per ogni tuo bisogno fa capo a casa. Noi non nascemmo gentiluomini
per essere ingrati....»
Ed un altro del popolo riprendeva:
«Aggiungi, frate, ch'io mi rammento aver veduto il messere a
codazzo dei Medici e dei cardinali quando dominavano la
città. Ora, dite voi altri, ci vedemmo noi mai messer
Dante?»
«A che perdiamo più tempo con questa figura da campo
santo?» continua un altro. - «I compagni si sono
avviati, e noi arriveremo ultimi. Lasciamo il dottore, - un giorno o
l'altro ci darà maggiore diletto, quando si dimenerà
dentro il paretaio del Nemi».
Rimasero sulla piazza dei Signori Bono e il Morticino, - quegli
salvato dal danno, questi impedito dal farglielo: - e non per tanto
o non si odiavano, o si odiavano di un odio minore a quello che
portavano entrambi a Dante. Se avesse potuto l'uno contemplare lo
sguardo dell'altro, che tenevano ardentemente teso sopra il
Castiglione, il quale si allontanava, si sarebbero abbracciati come
fratelli, - per istringersi poi nel vincolo più saldo che mai
possa legare due cosiffatte creature, - voglio dire il delitto.
Pensava Bono nella codarda anima sua: «Oh! potess'io pagarti
la difesa con una manciata di veleno nel vino che beverai
stamane.»
L'Antinori sentiva una voce fastidiosa, come di sega, mormorargli
intorno alle orecchie: «Cotesto uomo nè vincerai
nè uguaglierai tu mai: ti supera in tutto, fa di suscitargli
querela e tenta ch'egli muoia per le tue mani o tu per le sue.
Umano cuore! Era pur meglio tu talvolta rimanessi creta!
CAPITOLO OTTAVO
GIOVANNI BANDINO
Io con gli occhi dolenti e il viso basso
Sospiro e inchino il mio natio terreno,
Di dolor, di timor, di rabbia pieno,
Di speranza e di gioja ignudo e lasso.
Alamanni, Sonetti.
O paese, o paese, o paese!...
Geremia, cap. XXII, v. 22.
Se la tua mano non si contaminò giammai effigiando immagine
di tiranno, - se nel tuo petto arde la fiamma del genio italiano,
giovane fabbro che avesti dal cielo potenza d'imporre alla pietra
sembiante umano, vieni e scolpiscimi Italia. - Prima di volgere la
mente a concepirne il pensiero contempla il suo cielo azzurro e
sereno, le cerulee marine, i campi floridi, i colli ridenti; - poi
guarda il Colosseo, i ruderi del Foro romano, le basiliche del medio
evo, il tempio di Michelangiolo; - rammenta i fieri giuochi dei
gladiatori, le solenni ecatombi, il muggito dei bovi percossi dalla
bipenne empire le volte del Panteon di Agrippa, Giulio Cesare
pontefice massimo; ancora, - il memore intelletto diffondi sui
trionfi dei re della terra incatenati al Campidoglio, sopra la lega
lombarda, su Federigo Barbarossa, il Serse superbo dei bassi tempi
disfatto, - all'improvviso chiudi la porta del passato e guarda un
gregge di preti e di frati, sozza ftiriasi, brulicanti pei capelli e
per le membra di una donna estenuata, - una generazione d'idioti,
genuflessa davanti a mille idoli dipinti di rosso, di verde e di
giallo, svolgere col volto compunto una serie di globi di legno, o
di pietra... Questo è il rosario!
Domenico di Guzman, fondatore della Inquisizione e carnefice degli
Albigesi, inventò il rosario... Oh! la preghiera di colui che
la natura vergogna chiamare col nome di uomo, e la chiesa
salutò come santo, giungerà mai gradita al Dio delle
misericordie?
Sopra il trono di Augusto contempla un vecchio che non sa regnare e
pure non cessa dalle libidini del regno, e vestito di gonnella
muliebre stende la mano tremante a tutti i suoi nemici limosinando
fra lo scherno e il ribrezzo un giorno, - un'ora, un minuto di
regno.
Giovane scultore, fingi quanto ha di più superbo la
grandezza, di più abietto la miseria; fingi una fortuna che
superi la maraviglia, una sventura a cui non bastino lacrime, - una
dimostrazione infinitamente estesa di bene e di male, - una vita che
rimase sotto gli artigli che la lacerano, sotto ai denti che la
divorano; - tutte queste cose immagina ed altre più assai,
perchè, vedi, la mia favella manca a narrartele intere; -
ponmi qui la mano sul petto, io tenterò trasfonderti nel
sangue le vibrazioni del mio cuore; - poi scolpiscimi Italia. Fa
ch'ella posi il fianco sopra un lione addormentato; - abbia la
corona di torri, però che Dio la creasse regina, nè
mano di uomo può rapirle il dono de' cieli, - ma la
più parte ricoperte di edera e per lunga stagione scrollate;
le stieno intorno al braccio sinistro avvolti sei aspidi dal veleno
narcotico... hai bene compreso? aspidi. Se tu non indovini quello
che significhino questi aspidi, vatti con Dio, non sei lo scultore
che cerco. Sei aspidi che le stillano nelle vene il sonno e la
morte. Il volto di lei sia solenne d'immortale bellezza e sventura,
- come di persona che abbia inteso una voce dall'alto, - un comando
di risorgimento. Sopra la fronte attonita apparisca la contesa tra
il sopore del veleno e la vergogna, la memoria di quello che fu e la
coscienza di quello che al presente ella è. Ricerchi con la
destra brancolando la spada da secoli e secoli abbandonata ai suoi
piedi.
Perchè no?
Cola di Rienzo tribuno strappò un giorno lacrime di rabbia al
popolo romano con la pittura della Italia combattuta nelle
procelle...
Io innalzerei un tempio consacrandolo alla Italia sconsolata e poi
chiamerei i suoi figli gridando: «Venite a confortare vostra
madre che piange un pianto di secoli!»
Custode del tempio, noterei i nomi dei pellegrini, farei tesoro
delle ire dei popoli; e quando avessi contato venti mila volte
centomila, salirei sul giogo estremo delle Alpi medie... (Angioli
del giorno finale, datemi voi la voce che risveglia i defunti!) ed
urlerei con tutta la forza delle mie viscere ai quattro venti della
terra: «Figliuoli d'Italia, avete pianto tutti! Tutti avete
fatto rosso il terreno col sangue delle vostre vene! O Calabrese, tu
hai giurato davanti al simulacro, come l'alpigiano giurò; -
abitatori delle tre sponde italiche, le vostre ire qui fremerono
uguali ai vostri flutti intorno alle vostre marine; qui pari suono
mandarono le catene di tutti... Sorgete dunque tutti una volta in un
solo volere nel nome santo di Dio!
Salute, o Firenze la bella! Fabbricata su campi lieti di fiori,
appellata dal nome dei fiori, essi ti concedevano eterna la
facoltà di piacere, e tu sei fiore caduto dai giardini
celesti in testimonio delle magnificenze del paradiso germogliato
sopra la terra. Una corona di colli ridenti ti circonda vaga a
vedersi come la cintura di Venere. Colà sagrificava Lorenzo
dei Medici alle grazie e alle furie, in quella parte meditò i
suoi scritti Francesco Guicciardini storico sommo, pessimo
cittadino; da quell'altra Gallileo, Colombo dei cieli, quantunque
volte lanciò lo sguardo al firmamento, altrettanti mondi vi
discoperse, sicchè forse gelosa dei suoi arcani Natura
è da credersi gli chiudesse nelle tenebre l'audacissimo
sguardo. A vederti su l'ora del meriggio, quando il sole ti
scintilla nelle pienezze dei raggi sul capo, quando il cielo che di
te s'innamora ti cinge limpido e diafano, e per le tue vie si sparge
fragore di gente o di opere, tu rassomigli a una menade che stanca
di correre per le balze riposa palpitante, e mentre bagna le lunghe
trecce nelle onde dell'Arno, si vagheggia come consapevole della sua
leggiadria nello specchio delle acque. - Verso sera poi, nell'ora
mesta dell'Ave Maria, se il sole declinante ti manda da lontano un
addio di fuoco ed infiamma il vapore di che il tuo fiume diletto ti
cinse la fronte, quasi nimbo radiato col quale incoronano i
cristiani la testa ai loro santi, allora tu sembri una vergine di
Raffaello, divina per espressione di affetto materno, per luce
celeste che discende dall'alto e per gloria di angioli esultanti. -
Ma di', Firenze, che cosa hai tu fatto dei tuoi giorni di gloria?
Dove i tuoi lioni coronati? Dove gli uomini grandi? Ahimè!
Nessuna fra le tue sorelle italiche più di te comprende nel
seno illustri defunti. Glorie di sepolcro! Superbia di avelli!
Infelicissimo vanto! Certo un pugno della cenere di cotesti morti
vale troppo meglio di mille tuoi vivi... non pertanto ella è
cenere. O Firenze! dove sono i tuoi grandi? Tu ridi... veramente
così com'è quel tuo sorriso par cosa creata in cielo;
però una volta assai diversa ridevi. In campo l'elmo,
impugnata la lancia, vergine e diva ti mostravi alle genti quale
apparve Minerva uscita dalla testa di Giove; poi l'elmo t'increbbe,
deponesti la lancia, facile sorridesti a chiunque passò per
le tue vie; - lo straniero ti vide, si accese di te e, un giorno che
tu ne stavi immemore, la mano ti pose sul core delicato... Ah! da
quel giorno i tuoi occhi furono gravi di lascivia, - il tuo sorriso
si uguagliò a quello della Odalisca che suo malgrado sorride
al feroce sultano perchè non l'offenda con le battiture...
E se degradata fra tutte le tue sorelle italiche te continuano i
popoli a salutare col nome di bella, quale eri allora che sola in
questa terra di sventura vigilavi intorno ai tuoi bastioni, riparo
l'ultimo delle italiane libertà? - Quando l'oste nemica,
Tedeschi, e Spagnuoli si affacciarono al monte dell'Apparita e
l'occhio profondando giù nella valle ti videro, stettero
immoti e non proferirono parola.
Potrebbe forse l'aspetto delle meraviglie della natura accogliere
potenza di placare nel cuore umano le furie della cupidigia e del
sangue? Così talvolta per conforto dell'anima sconsolata
immagina il poeta, - ma invero là dove si curvano più
placidi i cieli, e la terra manda più soavi fragranze, quivi
in copia maggiore vivono rettili velenosi e belve ed uomini pei
quali la vendetta è un delirio, il sangue più dolce
che l'umore della vite. La empietà, smisurato macenilliero,
di cui le radici penetrano nell'inferno, e la cima forse nel
paradiso, sparge mortale influenza sopra tutta la terra. - Volgiti a
settentrione, e udrai grida disperate di offesi i quali chiamano
invano il Creatore in soccorso della creatura: - volgiti a oriente,
e ti percolerà un singulto a cui rispondono eccheggianti
secoli senza fine, Abele non lasciò discendenza, noi tutti
nascemmo dal fianco di Caino; - portiamo il peso della
iniquità dei padri - e il nostro.
Sia dunque che alla vista di tanta bellezza la cupidigia dei nemici
si placasse, sia piuttosto, come pare più vero, che la
cupidigia rimanesse maravigliata nel considerare la preda superiore
alla aspettazione, cotesto istante di quiete cessò, e
all'improvviso con indicibile allegrezza stranamente atteggiando la
persona, chi vibrò l'asta, chi bandì la spada, e
insieme tutti esclamarono:
«Signora Fiorenza, apparecchia li tuoi broccati, che noi
veniamo per comperarli a misura di picche!»
Il vicerè di Napoli Filiberto principe di Orange armato di
splendida armatura si mise attonito pur egli; il suo volto esprimeva
quello interno contento che ogni cuore, per poco intenda gentilezza,
sente alla vista dei miracoli della natura o dell'arte, - dopo alcun
tempo piegando la persona verso Baccio Valori, commessario in campo
del papa, e altri fuorusciti fiorentini, addita loro la città
e favella:
«S'io fossi nato là dentro... la difenderei...»
«Come noi la difendiamo», interruppe officiosamente il
Valori, «imperciocchè noi siamo qui venuti per
liberarla dalla insopportabile tirannide che la tiene
oppressa.»
«Non sembra però la libertà che le portate
troppo le piaccia, perchè si apparecchia a ributtarla a colpi
di bombarda; nè in verità credo le armi nostre vengano
per questo. Io ho voluto dire che la difenderei da chiunque movesse
armato contro di lei... anche da mio padre.»
«Ogni uomo se la intende colla sua coscienza, io con la mia; e
questa, o principe, se ne sta tranquilla nella fiducia di operare il
bene della sua patria.»
«La carità di Erode, il quale mandava i pargoli in
paradiso prima che peccassero!»
«Principe!»
«Commessario! - Io, vedete, per volontà e per obbligo
sono soldato fedele di Sua Maestà Imperiale, e non pertanto
uso liberamente la lingua. Abbiatelo in buona o in mala parte, vi
dico che con quel vostro ingegno riuscirete ad ingannare tutti, -
tranne la coscienza; - pensate al fine; - io non vidi mai traditori
capitare a buon porto. L'esempio del contestabile di Borbone vi stia
sugli occhi.»
E la coscienza, che pur testè vantava pura il Valori, tale
gli dava acerbissimo morso in quel punto ch'ei ne rimase per molte
settimane dolente, e con sentenza che non concede appello gli
ordinava: Taci, ribaldo! - E Baccio taceva pensoso del futuro.
Poc'oltre a man destra del principe, immobile come pietra, sta
Giovanni Bandino; il volto tiene e gli sguardi tesi verso Firenze.
Dalla fronte pallida gli piovono grosse gocce di sudore; - paiono
lagrime piante sopra di lui da occhi invisibili: trema forte e non
proferisce parola. In campo lo spregiavano e temevano; - ma egli
fuggendo ogni umano consorzio non dava luogo alle offese: - quando
negli scontri di guerra vedeva bestialmente inferocire i soldati e
fatti ciechi per ira, egli, scoperto di ogni arme difensiva, si
cacciava là dove più spessi cadevano i colpi e gli
uomini. La fortuna gli negava la morte; - sovente ebbe dalle palle
degli archibusi forato il beretto o la veste, e nondimanco si rimase
illeso. All'assalto di Spelle seguitò impassibile fin sotto
il muro gli assalitori; fischiavano le palle intorno al suo capo,
rovinarono corpi di uccisi o sconciamente mutilati, ed egli pareva
nulla vedesse od ascoltasse; quando un colpo di sagro percotendo a
mezzo il petto Giovanni da Urbino, tra quanti erano prodi nello
esercito, valorosissimo, lo balestrò sfracellato ai suoi
piedi, egli allora proruppe in altissime risa e balzò al
posto dove rimase ucciso l'infelice guerriero; a tutti sembrò
il demonio della strage: non perdonava a cui implorasse quartiere, o
a chi resistesse; dal capo alle piante spesso appariva sordidato di
sangue nemico senza che pure una scalfittura ne versasse del suo.
Gli Spagnuoli, secondo l'indole loro superstiziosi, sospettavano
fosse ciurmato, ma poi, sapendolo uomo del papa si ricredevano, in
seguito nel sospetto si confermavano. Dovunque mostra la faccia
cessano i colloquii, la gente si apre in due file per lasciarlo
passare, assalita da misterioso ribrezzo. - Immemore dei
circostanti, lunga pezza il Bandino dimorò nello stato di
fissazione di che scriveva poc'anzi; all'improvviso, stendendo ambe
le braccia, con suono angoscioso di voce prorompe:
«O patria mia!»
La quale esclamazione avendo udita monsignore di Orange, la man gli
pose sopra la spalla sinistra lo interrogando così:
«E perchè dunque tra i nemici di lei?...»
Si riscuote il Bandino, - guata bieco l'Orange e brontolando fugge
via a precipizio.
Scendeva intanto dal monte schiamazzante l'esercito; rotte le
ordinanze procede baldanzoso, come chi va al corteo; invano lo
richiamano alle insegne i capitani: invano si affaticano a
riordinarlo sergenti e caporali; con più rispetto camminano i
mercanti per le strade del patrimonio di san Pietro, tanto poteva in
lui il sentimento del proprio coraggio e della nostra viltà;
e sì, che a Spelle duro intoppo incontrava, ebbe Cortona non
per forza di guerra, ma per tradimento; pure la memoria dei soldati
poco si profonda, e i fatti d'Arezzo gli avevano inorgogliti. - Va,
va, soldato; la valle che vedi, comunque angusta, sopravanza al tuo
sepolcro.
Il principe non sapeva scendere dal sommo del monte. Baccio Valori,
riappicatasi la maschera del cortegiano per un momento cadutagli dal
volto, rideva e motteggiava con certe sue arguzie da rallegrare la
brigata.
«Or mi dite, commessario», domanda l'Orange,
«cotesta fabbrica immensa sarebbe per avventura Santa Maria
del Fiore?»
«Voi l'avete detto, monsignore; ammirate di grazia la cupola
del Brunellesco; e' non vi pare proprio voltata dalle mani degli
angioli?»
«Fu dunque colà che i Pazzi uccisero Giuliano dei
Medici e ferirono Lorenzo?»
«Certo, in quel tempio. Guardate adesso cotesta torre merlata:
la fabbricò Arnolfo di Lapo, e soprasta al Palazzo della
Signoria.»
«Parmi avere sentito raccontare fosse in cotesta torre
sostenuto Cosimo dei Medici in dubbio di perdere il capo, e lo
perdeva senza l'aiuto del buffone Farganaccio; non è vero,
messer commessario?»
«Vero. Voi, monsignore principe, mi sembrate molto bene
informato delle nostre storie...»
«Come no? Io ho voluto partitamente conoscere la stirpe di
coloro che difendo e il molto affetto che gli lega ai concittadini
loro. - Ditemi, e cotest'altra torre di forma leggiadra, tanto
diversa dalle altre, come si chiama ella?»
«La torre di Badia; - la edificò il marchese Ugo
insieme con altre ventitre per tutta Toscana, spaventato dalla
visione ch'egli ebbe dell'inferno.»
«Il marchese Ugo accompagnò in Italia Ottone
imperatore, il quale, supplicato dai Fiorentini, loro concedeva
libero reggimento: ora Carlo imperatore, istando i Fiorentini,
abolisce la repubblica e fonda assoluto principato. Quando foste
più savii e meno tristi, ora od allora, messere
commissario?» - E non aspettando la risposta, aggiungeva:
«Quell'altra torre come appellate voi?»
«La torre del Bargello...»
«Se la memoria non m'inganna, nella corte del Bargello fu
già mozzata la testa ad uno dei Medici. Messere commessario,
sapete voi singolarissimo amore essere quello che tra loro si
portano Medici e Fiorentini? i primi anelano stringere i secondi in
un amplesso di catene di ferro; i secondi poi, quando possono, i
Medici o bandiscono o decollano.»
Baccio Valori stringendosi nelle spalle pensava: o Padre Santo, tu
mi sembri proprio il cavallo che implorò l'aiuto dell'uomo
per vincere il cervo.
Il principe, mutando all'improvviso sembiante, più contegnoso
riprendeva:
«Basta, questo è affare tra voi; per me obbedisco agli
ordini di Sua Maestà l'imperatore; - il soldato non deve
ricercare tant'oltre; egli grida: Viva la gloria! e si fa ammazzare
per quattro soldi al giorno, quando glieli danno... Fiorenza vedremo
a vostro bell'agio dentro; ora conviene apparecchiare gli argomenti
per prenderla. A noi le carte, a noi i colonnelli.»
E tosto gli apportarono le piante della città e le carte dei
luoghi circostanti minutamente e diligentemente disegnate. Le une e
le altre gli consegnò papa Clemente, il quale molto tempo
innanzi aveva commesso al Tribolo e a Benvenuto della Golpaja un
modello di Firenze, ed avutolo, sì l'ebbe caro che
finchè visse volle tenerlo nella sua stanza da letto. Il
principe, considerate le carte e riscontrando coll'occhio il paese
sottoposto, domandò:
«Commessario, è nuova, o antica la fortezza su quel
poggio costà...?»
«Ella è il convento e il campanile di San Miniato;
credo vi abbia condotto nuove opere attorno a Michelangiolo
Buonarroti.»
«Se tali sono i campanili, pensiamo un po' che cosa saranno le
fortezze! E poi questo Buonarroti mi occorre dappertutto; vivono
forse più uomini in Italia col nome di Michelangiolo
Buonarroti?»
«No, principe; poichè Dio si riposò dal creare,
a nessun uomo più che a costui concesse il creatore suo
spirito; egli fu che dipinse la volta della cappella di papa Sisto,
egli scolpì il sepolcro di papa Iulio; egli fonde, egli
architetta, egli fortifica, egli filosofa, egli poeteggia, arringa,
combatte, egli insomma fa tutto...»
«Dunque non può dirsi iniqua una causa quando la
sostiene un tanto uomo. Gravi danni io temo da cotesta fortezza,
commessario. - Converrà bombardarla con tutte le artiglierie
al fianco... da questo poggio... che si chiama... si
chiama...», e guardava sopra la carta.
«Giramonte.»
«Giramonte appunto; e quell'altra torre ch'io vedo là
da lontano sorgere sopra le mura a quale ufficio immaginate voi la
destinino?»
«Le mura di Fiorenza ab antiquo andavano tutte inghirlandate
di torri simili a quella. Nel 1526, quando vivevano incerti sopra le
mosse dell'esercito di Borbone, Federigo da Bozzolo e Pietro Navarra
vennero per commessione del papa a munire Fiorenza e le abbatterono:
come quella una sfuggisse la universale rovina non saprei
dirvi.»
«Oh perchè non si fermarono essi agli stipendi della
Repubblica! Due architetti come loro mi avrebbero risparmiate venti
bombardi, nè avrei mestiero delle artiglierie di Siena o dei
marraiuoli di Lucca...»
«Quel Buonarroti mi mette in sospetto più dei
Côrsi del Baglioni», osservò Valerio Orsino
colonello del papa.
«Ma quale odio lo muove contro Sua Santità?» -
interrogava l'Orange.
«Anzi io credo che l'ami...»
«E che maniera d'uomini siete voi altri Italiani? Il
Buonarroti ama il papa e si apparecchia a combatterlo?...
«Monsignore, la è piana, se pensate che il Buonarroti
più del papa ama la libertà.»
«Sta bene. Or dunque», riprese il principe tenendo un
dito sopra la carta e ad ora ad ora sollevando gli occhi, «in
questo momento la nostra gente non basta a stringere la città
da ogni lato; - circondiamo intanto la sinistra parte, occupiamo
tutti questi colli che le fanno semicerchio da oriente a occidente,
da porta San Nicolò a porta San Friano. Signor Giovambattista
Savello, voi accamperete con la vostra gente costà a
Rusciano; voi, signor conte Piermaria, al Gallo; Alessandro Vitelli
fatevi forte sul Giramonte; Sciarra Colonna, occuperete il Poggio di
Santa Margherita a Montici; Castaldo, Cagnaccio, monsignore
Ascalino, alloggiate i vostri colonelli la presso coteste case...
che leggo appartenere a messere Francesco Guicciardini. Duca di
Malfi, vi condurrete a questo punto chiamata casa Taddei. Pirro
Colonna, prendete luogo a casa Barducci; Orsini, a casa Luna. Presso
San Giorgio andrà lo strenuissimo marchese del Guasto. I
lanzi si accampino sul poggio dei Baroncelli e si distradano fino al
monastero del Portico. Gli Spagnuoli si attendino parte sul medesimo
colle accanto ai lanzi, parte San Gaggio, parte a San Donato in
Scopeto; una banda di quattro mila occupi tutto il piano sotto
Marignolle e tutto il Monte Uliveto verso occidente. Voi, messere
commessario, dove intendete di porre il quartiere?»
«Io mi starò col contatore Berlinghieri sul poggio
nelle case del Vacchia; e voi?»
«Io là sul piano, dov'è maggiore il pericolo, su
la piazza del Mercato.»
«Veramente non parmi...»
«Prudente! vorreste dirmi, commessario? il destino dà a
cómpito la lana della nostra vita alle parche; e il tuo fato
ti giunge, pauroso o audace. - Acerbo bene tu lo avesti, o mio
infelice nipote, caduto spento sul fiore della speranza e della
vita!»
Dame e cavalieri, le quali ed i quali consumate, che Dio vi perdoni,
i vostri begli occhi su queste carte fastidiose che parlano di
patria, di sangue, di storie già vecchie e fuori di andazzo,
avreste per avventura compreso qualche cosa della maniera in che a
prima giunta l'Orange dispose l'assedio? - A dirvi il vero,
finchè lo lessi su i libri non vi compresi nulla neppur io;
poi trovai la maniera, ed è questa. - Il pellegrino che
visita la mia bella Firenze, se lo punge vaghezza di conoscere
addentro le cose ch'io narro povero novelliere, sappia trovarsi, non
ricordato dalle Guide, dagli Osservatori e libri altri cotali, nel
palagio della Signoria un quadro a fresco rappresentante l'assedio
di Firenze; - dov'egli lo cerchi, gli occorrerà nelle stanze
che chiamano quartiere di Leone X posto a mezzogiorno della sala del
Savonarola, e quivi pure ammirerà, se ne ha voglia, un quadro
importantissimo al subietto del quale discorso, voglio dire Clemente
VII e Carlo V convenuti di amichevole parlamento; esaminato il
quadro, si rechi il passeggero su al poggio San Miniato e ascenda il
campanile, il quale pur tuttavia conserva le traccie delle palle
balestrate contro di lui nell'assedio. Badi però di andarvi
su la mattina, che a vespro non consentirebbe il guardiano ad
aprirgli la torre, imperciocchè a quell'ora vi sieno
rientrati i colombi di monsignore arcivescovo, ai quali, non che il
suono delle bombarde, giungerebbe insopportabile l'aspetto comunque
pacifico del pellegrino; e allora, rotto il sonno, prorompendo dalle
aperture, andrebbero dispersi per la campagna e forse, ahi! tolga
Dio tanto danno, ghermiti da mani profane sazierebbe le voglie di
palato plebeo. - Così è: cotesto campanile glorioso,
il quale difeso da Michelangiolo e da Lupo bombardiere sostenne per
tre giorni il fulminare di quattro grossi cannoni dell'esercito
imperiale, quel campanile che resse agli urti, sicchè
tuttavia si mantiene in testimonio di un tempo che desideriamo
molto, speriamo poco vedere rinnovato, adesso è fatto stanza
di colombi, che aspettano costà dentro la degnazione di
essere acconciamente arrostiti pel pranzo di monsignore arcivescovo,
che Dio tenga nella sua santa guardia.
Giunto sul campanile, in un colpo d'occhio comprenderà quello
che io mi affaticherei invano dargli ad intendere con molte pagine,
e vedrà come se il cielo sorride a Firenze, Firenze ancora
sorride al suo cielo, e il riso loro vicendevolmente ricambino a
guisa d'innamorati; - gli parrà rinnovata l'antica storia dei
figliuoli di Dio presi di amore per le figliuole degli uomini,
nè Dio per questa volta sdegnato nel connubio - mandare a
castigarlo il diluvio, sibbene benedirlo dall'alto con un torrente
di luce.
Disposti gli alloggiamenti, le difese provviste, le sentinelle
collocate, Filiberto d'Orange, diligentissimo capitano e come quello
sul quale riposava la somma della guerra, non fidandosi altrui,
volle di per sè stesso esaminare ogni cosa. Montato sopra
generoso cavallo, lo accompagnando le sue lancie spezzate,
visitò i diversi posti, suggerì opportuni
provvedimenti, raccomandò ai colonnelli stessero in procinto;
e quando gli parve adempito il suo debito, essendo già
discesa la notte, si avviò ai suoi alloggiamenti giù
al piano in certe case dei Guicciardini tra la piazza del Mercato e
le forche.
Sia che memorie del passato o disegni del futuro lo tenessero
inteso, allenta le briglie al cavallo e lascia che di buon tratto di
strada lo precedano le lance spezzate; così s'inoltra nella
notte, non badando al rumore confuso del campo nè ai fuochi
accesi sopra tutti quei poggi: all'improvviso il cavallo si arresta,
ed intende una voce di uomo che si lamenta.
«Ormai il dado è tratto; - tra morire infame, o morire
invendicato, mi piacque la vendetta», con parole interrotte
mormorava la voce; «ma per aver vendetta mi bisogna dar fuoco
alla patria, - ed io l'amo questa patria; - nè l'amico di
Filippo Strozzi dovrebbe travagliarsi in pro dei Medici.... non
pertanto il fato ci avviluppa insieme; noi non siamo padroni del
fato.»
Qui il cavallo del principe mutando passo urta una pietra, la quale
smossa rotola ai piedi dello sconosciuto, che tosto rizzatosi
domanda in suono superbo:
«Chi sei?»
«Non so se amici», rispose il principe, «ma non
certo nemici; voi mi parete il Bandino, ed io sono Orange; il mio
cavallo ha sbagliato sentiero, m'ingegnerò ritrovarlo: -
buona notte, messere.»
«Ditemi, principe,» soggiunse il Bandino arrestandogli
per le redini il cavallo, «in conto di che mi avete
voi?»
«Ma... nel conto che mi avreste me, s'io fossi voi.»
«Principe, in mercede parlatemi aperto, in qual concetto mi
tenete?»
«Fiorentino movete ai danni di Fiorenza... di uomo siffatto
può essere mai dubbiosa la fama?»
«Ah! certo il nome ch'ei merita è un solo per tutto il
mondo», favella in suono sconsolato il Bandino lasciando le
redini del cavallo...
«Eppure!...»
«Eppure voi non siete un codardo; questo molto bene conosco,
che mi furono dette novelle della virtù vostra nella guerra
di Milano, dove militaste col conte Pietro Nofreri; - io non vi
mescolo con messere commessario e consorti, i quali patria, affetti
e Dio tengono nella borsa; una cagione profonda, a cui non potete
resistere, certo vi spinge: - io vi compiango e vi lascio. - quando
gli amici di Giobbe si fanno a visitarlo e seduti in terra a canto a
lui piangono insieme, mi paiono consolatori divini; allorchè
poi aperti i labbri lo ammoniscono o confortano, mi riescono
importuni; - molte sventure per parole inasprisconsi; e tale
giudicando la vostra, io mi taccio. Tra la vostra anima e Dio non
deve intromettersi nessuno. Vorrei stimarvi come mi stimerei
propenso ad amarvi. Ma a fine di conto i fati tirano... e voi mi
sembra che lo dicevate quando prima io v'incontrai, - l'uomo non
è padrone del fato.
«Così non può essere.... scendete.... bisogna
che voi mi stimiate.... A chiunque tentasse indagare il mio segreto
pianterei un ferro nel cuore.... a voi, che rifiutate conoscerlo,
forza è ch'io il dica..... scendete.... e sedetemi
accanto.»
Un non so che d'impero e di preghiera si conteneva in queste parole
del Bandino, chè il principe si sentì a un punto come
sforzato e commosso; aggiungi la naturale curiosità, che,
malgrado le proteste in contrario, punge ogni uomo di penetrare il
destino altrui; - il tempo e l'ora, tutto lo indusse a soddisfare il
Bandino; - scavalcò pertanto e, legato il cavallo ad un
albero, si acconciò per ascoltare.
«Conoscete l'Italia?» comincia impetuosamente il
Bandino, «ella è terra di delizie e di vulcani; -
conoscete il cuore dei suoi figli? due sole passioni se ne dividono
il regno, demoni, credo, ambedue: amore e odio... - forse voi
penserete altramente dello amore, perchè il volto ha
leggiadro e favella con parole soavi, ma in verità egli
è demonio, ed io l'ho provato e provo. - L'amore talvolta
diventa odio, l'odio non muta mai; dei due odii terribilissimo il
primo, entrambi fuoco d'inferno; ma il primo, fatto più
intenso dalla gelosia, dalla vanità offesa, dalla ricordanza
dei piaceri goduti, dei piaceri perduti... olio e bitume sopra
fiamma di per sè stessa tremenda. - Dio mi creò per
amare: io mi ricordo di un fanciullo sensitivo, vago di solitudine,
abbandonare il trambusto della città, e lontano nei campi
voltarsi indietro a contemplarla, come l'Alighieri descrive il
naufrago che, uscito fuori dal pelago alla riva, si volge all'acqua
perigliosa e la guata; egli errando pei boschi udía la voce
arcana che pare mandi natura al suo Creatore, intendeva commosso le
armonie degli uccelli ed invidiava la voce loro per cantare
anch'egli un inno di gloria, e le ali per accostarsi al firmamento,
perocchè gli avessero detto il Padre del Creato abitare nei
cieli. Quanto tesoro di amore vivea nell'anima di quel fanciullo!
Appena la campana della sera indicava l'ora dei morti, prosternato
davanti alla immagine di Gesù Cristo, non senza lacrime lo
supplicava per le anime dei suoi defunti... per tutti quelli che
purgandosi aspettano di sollevarsi alle gioie divine; egli aveva una
parola di conforto per qualunque sconsolato, un voto per ogni
afflitto, un soccorso per ogni bisognoso, e quando incontrava
sventure che non potevano consolarsi, bisogni che non potevano
sovvenirsi... piangeva. Ah! quel fanciullo fui io. - E adesso la mia
mente tentenna dolorosa nel pensiero che Dio non è, od
è tiranno; e sento solo la vita allorchè gli uomini,
diventati bestie feroci e più che bestie, si lacerano, le
bombarde fulminano la morte, la terra va ingombra di uccisi, e i
demoni della discordia e dell'omicidio tripudiano pei campi di
battaglia a piene mani lanciando contro il cielo sangue e membri
umani, in dileggio o in rampogna del Dio che sembra aver creato gli
uomini per divorarsi tra loro.
«Noi altri Italiani c'innamoriamo in chiesa; colà la
mezza luce che nelle ampie navate si diffonde traverso i vetri
coloriti, le melodie degli organi, il profumo degl'incensi, le voci
angeliche di fanciulli invisibili esaltano i sensi e ti dispongono
ad amare, in cotesto punto, se i tuoi occhi, lassi di vagheggiare
una Madonna creata da Raffaello, abbassandosi incontrano il tipo di
cotesta Madonna..., spaventato ritorni in fretta a sollevare gli
occhi alla immagine, dubbioso che discesa dal quadro siasi fatta
viva.... La immagine però non si mosse, ma ormai i tuoi occhi
non si alzeranno più alla immagine per adorare Dio. Lui
adorerai nella vergine che piange e che ride; la vergine che movendo
lo sguardo accelera o arresta le pulsazioni del tuo cuore.
Finalmente Rafaello non infuse la vita nei suoi dipinti! - Allora il
cielo si confonde alla terra: - il creatore adori nella creatura; -
all'impeto naturale della passione tu aggiungi l'impeto della
passione religiosa; - la febbre acuta t'invade le fibre e le ossa;
le arterie delle tempie ti pulsano quasi volessero rompersi,
vertigini di fuoco ti si avvolgono dinanzi gli occhi.... odi
frequente un tintinnio negli orecchi che ti tormenta, e tuttavolta
non vorresti cessato... il petto si gonfia in ispessi sospiri... uno
sguardo ti ha mutato tutto: - nulla è più tuo; - ogni
cosa umile ti pare superba; se il piede della donna che ami ti
calpestasse..., sarebbe il sommo del tuo paradiso: - questo è
italiano amore... ed io l'ho provato. Ma la donna che inspira un
sì grande affetto lo partecipa ella? O Cristo, che tanto
imprecasti contro i farisei, come quelli che ti parvero sepolcri
imbiancati, e che altro è la donna mai se non un sepolcro
imbiancato? Perchè creare così splendida la coppa che
contiene veleno senza pari mortale? Dio, che ponesti nel cuore
dell'uomo il ribrezzo alla vista del rettile e la paura all'incontro
della fiera, ond'è che non lo avvertisti dello approsimarsi
della donna con queste od altre cosiffatte passioni? Forse accoglie
la femmina ingegno meno perfido del rettile, o brama meno truce
della fiera? Nessuno ente mai ingannò quanto la donna ha
ingannato, non tradì quanto la donna ha tradito.
Michelangiolo, dipingendo la prima tentazione di Satana, la quale ci
fruttò la perdita del paradiso e della vita, immaginò
il tentatore mezzo demonio, mezza femmina. Satana, tuttochè
Satana, non seppe trovare immagine meglio adattata alle insidie...
Ahi femmina! Quantunque alla vostra stirpe imprecando io turbi le
ossa della defunta mia madre.... e l'anima mi rimorda come di
parricidio commesso.... maledette sieno quante posseggono sopra la
terra sembianze di angiolo e cuore di demonio...»
E queste parole profferisce con rabbia sì intensa, e le
parole accompagna con tanto convulso atteggiare di muscoli e
stridere di denti che il principe si ritrasse di alcuno spazio
indietro come spaventato; dopo breve silenzio egli disse:
«Bandino, i tempi di sostenere a tutta oltranza l'onore delle
dame non corrono più, e nondimeno, come cavaliere cristiano e
figliuolo amoroso, io prendo a provare in campo chiuso la mia
genitrice per la più casta ed onorata matrona del mondo...
«Rammento il giorno e il luogo in che ella primamente mi
comparve dinanzi», continua il Bandino senza rispondere alle
parole del principe, fisso com'era nel suo pensiero; «per la
festa di san Zanobi in santa Maria del Fiore, là presso alla
parete ov'è sospeso il simulacro del divino poeta, i nostri
occhi s'incontrarono insieme; parve che i miei sguardi la
infiammassero, perchè ella si fece accesa nel volto, come le
vampe di fuoco le ardessero davanti, ed abbassò il velo: poco
importa; ormai la sua immagine mi stava incisa nel cuore; dovunque
guardassi io la vedeva; ed in vero ella si partì dalla
chiesa, io non rimossi mai gli sguardi dal luogo che ella tenne
occupato; gli uffici divini cessarono, tacquero gli organi, spensero
i ceri, ed io pur sempre mi rimaneva immobile credendo tuttavia di
vederla. Agevole cosa mi riuscì conoscere chi ella si fosse,
a quale casata appartenesse: nobile stirpe e superba, di ogni bene
di fortuna largamente provvista; ma anche i miei nacquero di gentile
lignaggio, se non che gli averi erano scarsi; la mercanzia siccome
aveva favorito la famiglia della donzella, aveva nabissato la mia.
Secondo il costume dei giovani cominciai a passare sovente sotto
alle sue finestre; presi dimestichezza con gli artefici vicini per
avere onesto motivo di trattenermi nella contrada; nella notte o sul
mattino, accompagnandomi sul leuto, le cantai sotto il balcone
dolcissimi versi d'amore; praticai in somma quello che costumano
coloro cui scalda il petto l'ardente fuoco della passione e non
sanno trovare modo altro diverso da manifestarla alla amata donna.
Con quanta speranza io mi moveva da casa, e come avvilito vi
rientrava! Verun cenno apparve alle finestre mai; mai vidi sporgere
un capo il quale indicasse intendere all'amoroso lamento; io
conduceva tristissimi giorni disperato della vita. Certa volta che
dopo lunga e sempre vana dimora mi era fermato a novellare con certo
archibusiere della contrada, io mi tornava a capo basso, dolente;
giunto che fui allo estremo della via sul punto di scantonare, una
ispirazione interna mi disse: volgi la testa, - ed io di subito mi
voltai: una figura si ritrasse dalla loggia alta della casa, veloce
più che mano non si allontana dal ferro rovente; - amore
aguzza lo sguardo, ed io la riconobbi... era ben dessa, e ne piansi
di gioja. - Deh! in cortesia, monsignore, vogliatemi perdonare s'io
vi trattengo con la storia di siffatte quisquilie... Se sapeste
però come taglienti me le abbia incise la memoria nel
cervello... se lo sapeste! non vi dirò come trovassimo modo a
favellarci; non vi dirò nemmeno come per una serie di eventi
ora tristi ora lieti e sempre pieni di passione venisse lo istante
nel quale la fanciulla, vinto il pudore verginale, mi confessava: Io
ti amo... Io vi giuro, monsignore... in che vi giurerò io?
Non conosco più nulla di sacro nella terra o nel cielo. E
pure gli angioli avrebbero potuto senza velarsi gli occhi con le ale
contemplare cotesti colloquii, imperciocchè le parole e gli
atti vi fossero casti quanto quelli ch'essi alternano in paradiso.
Io ti amo! ella mi disse: ora, quando anche vi avessi fede, la vita
futura non m'ispira speranze nè terrore; il gaudio dei santi
e i tormenti dei reprobi io gli ho provati. - Comunque vi ponessimo
diligentissima cura, non potemmo tanto cauti procedere nei nostri
amori che alfine uomo non se ne accorgesse; già non si cela
amore!
- All'improvviso ogni via di vederla mi venne tronca nè in
chiesa più nè in casa di amiche o di parenti; il suo
palazzo chiuso, impenetrabilmente chiuso. Certa notte ch'io mi vi
aggirava d'intorno come forsennato, sento una man forte percuotermi
sopra la spalla e minacciarmi una voce: - Fa di allontanarti da
queste contrade, se tu non vuoi lasciarci la vita. - Trema egli
Appennino ai venti di primavera? Tale mi rimasi io alle superbe
parole, e continuai a visitare di e notte quei luoghi più
frequente di prima. Non corse gran tempo da questa a un'altra notte
nella quale, passando vicino alla dimora dell'amata donna, di
repente un colpo mi ferisce sul fianco; e fu sì fiero che,
sebbene io me ne andassi riparato di giaco, il pugnale lo
trapassò fuor fuori rompendovisi dentro: poco mancò
non percotessi con la faccia la terra; non mi smarriva di animo per
questo e, tratto di sotto la cappa la spada, mi posi in difesa;
erano tre, e due fuggirono, il terzo rimase; essendo buio fitto, ci
saremmo per certo uccisi ambidue, quando i vicini svegliati al
rumore si affacciarono ai balconi coi lumi; io vidi allora il mio
nemico armato di spada e pugnale: a mia posta strinsi lo stiletto,
ed opponendo al suo stile la spada, alla sua spada lo stile,
cominciammo un gagliardo combattimento; i vicini urlando
raccomandavansi non volessimo insanguinare la contrada; vedute
riuscire le raccomandazioni invano, chiamavano la famiglia del
bargello; noi non gli ascoltavamo e tuttavia attendevamo a
schermire. Egli era franco cavaliere il mio nemico e spedito
così che ben ci voleva arte e prontezza per accorrere alle
difese; chi fosse ignorava: - il volto tenea coperto con la maschera
di velluto.
Durava da un quarto d'ora il duello, nè la fortuna pendeva da
una parte piuttosto che dall'altra, quando ecco accorgermi ch'ei
tenta imprigionarmi la spada e strisciando col pugnale lungo
là lama ferirmi; uso l'inganno e fingo lasciarmi vincere,
sicchè egli, precipitando a mano destra l'offesa, allenta a
mano sinistra la difesa; allora con un punto rovescio ponendo la sua
spada a contrasto tra la lama del mio pugnale e la traversa, le do a
leva di forza e gliela faccio balzare di mano: nel medesimo tempo
indietreggio di un passo, riguadagno la mira e poi sottentro veloce
tenendo a bada con la spada il suo pugnale ed incalzandolo
mortalmente col mio: povero di consiglio, presago oramai del suo
fine, mentr'egli cerca salute nei passi retrogradi incespica e cade.
La maschera gli sfugge dal volto, le sue sembianze rivela; allora un
altissimo grido mi percuote, sollevo gli occhi e vedo la donna mia
scarmigliata affacciarsi alla finestra e, tese le braccia supplicare
in mercede: Deh! per Dio non lo uccidete, ch'egli è mio
fratello di sangue. - Già dal suo palazzo prorompevano
intanto armati e il padre per aiutarlo: intempestivo soccorso
perchè la sua vita stava nelle mie mani. Riposi pacate la
spada e il pugnale, e la mano gli porgendo a sollevarlo. -
Messère, gli dissi, potrei darvi là morte, ma penso
dovere esservi molto maggiore castigo la vita; perchè tanto
odiate chi vi ama? - Ciò detto partii. - Bene, nei giorni
successivi e nelle notti non disusai aggirarmi per quelle contrade e
di tenere fisso lo sguardo al palazzo; d'ora in poi mi fu chiuso
come il sepolcro: i vicini interrogati rispondevano non avere
più veduto la fanciulla nè donna altra di casa;
aggiungevano alcuni: Forse la menarono in villa. Ed ecco ch'io
percorro le campagne, prendo voce, indago, per iscoprire mi
travesto, e sempre invano; così che alfine ne perdo affatto
ogni traccia.
Spesso, di animo e di corpo abbattuto, truci immaginazioni mi
spaventavano: - l'avessero uccisa! - e la morte di lei in cento modi
diversi e tutti terribili agitava la inferma mia mente; - appena io
mi era ristorato alquanto, tornava col mattino la speranza... Voi
ben sapete come sia la speranza palpitante e vitale nel giovane
innamorato. - Alfine io sopravvissi alle sue lusinghe e, fatto
cadavere prima di chiudere gli occhi al sonno eterno, mi distesi
muto sul letto aspettando e invocando la morte. Le lagrime del
povero padre mio che amava tanto e la poca vita tenace a rimanersi
mi concitavano a sdegno, sicchè un giorno empiamente gli
dissi: Lasciatemi in pace, padre mio: il male maggiore mi venne da
voi quando mi deste la vita; ora concedete che al vostro misfatto io
ripari procurandomi la morte! - Mio padre cessò il pianto, e
seduto a lato del letto mi abbracciò con ambe le mani le
ginocchia dicendo: - Moriamo insieme; - ed io: - Moriamo, se
così vi talenta. - E certo morivamo di inedia, quando sul
declinare del giorno udimmo strepito alla porta della camera, e
subito dopo entrare un giovane di oneste sembianze, il quale
piegatosi al mio orecchio susurrò: - Per quanto vi è
cara la vita di colei che amate, sorgete e venite meco! - Lo fissai
con occhi esterrefatti e immaginando la sua apparizione errore della
fantasia: - Partite, risposi volgendo il fianco sopra l'altro lato,
chè io non posso andare standomi in colloquio colla morte. -
Ma egli si dimostrò cosa reale e parole mi disse per le quali
sentendomi all'improvviso pieno di vita, mi gettai giù dal
letto e gli tenni dietro. Mio padre vinto dalla stanchezza
dormiva... nè io pensai a svegliarlo e per suo conforto
avvertirlo; non mi venne neppure in pensiero quale e quanta sarebbe
stata la disperazione del vecchio destandosi e non vedendomi
più, inconsapevole di quello fosse accaduto di me... tanto
è demonio l'amore!
- Arrivato all'aria aperta, mancarono al desiderio le forze; e sarei
caduto, se lo straniero non mi avesse sorretto e accomodato in
groppa al suo cavallo. Con misteriosa diligenza giunti sul canto di
Via dei Pescioni, consegna il cavallo a un famiglio quivi appostato
e sorreggendomi mi conduce verso il palazzo della mia donna. Ben mi
cadde in pensiero il tradimento, ma non lo temei, tanto, peggio di
vivere non poteva accadermi: fu aperto un usciuolo, mi trassero
silenziosamente per diverse sale e poi mi deposero dentro una
cameretta: vidi un piccolo altare, sentii odore d'incenso, l'aere
calda, indizii manifesti che il Viatico si era soffermato là
dentro, e presso l'altare sopra un letto mi occorse giacente la
donna mia, calate le palpebre, le labbra bianche e la pelle del
colore di cera, come persona prossima al transito; - sentii uno
stringimento di cuore e caddi privo di conoscenza, lieto pensando di
toccare l'estremo momento della mia vita. - Quando rinvenni, mi
percosse in prima uno schiamazzo, un pianto e preghiere e minaccie
in molto terribile guisa: apersi gli occhi e vidi il padre della
donna mia avvampante di sdegno, con labbra enfiate rampognare certe
donne che gli stavano attorno con atti supplichevoli e lo fermavano
per le braccia con parole dolcissime raumiliandolo. Il giovane a cui
aveva salva la vita, quando il padre sembrava piegare agli scongiuri
delle donne, se gli accostava all'orecchio e gli dicea parole che a
guisa di vento suscitavano la fiamma dell'ira in quel vecchio
feroce. La donna mia piangeva, ma le mancava la forza di articolare
parola, ed a me pure mancava: mi provai più volte, e sempre
invano: al fine fiocamente favellai: Pel sangue di nostro Signore
Gesù Cristo, lasciateci morire in pace!
- E quasi fosse stato sforzo superiore alla mia poca lena, svenni di
nuovo. Tornato lo spirito agli uffici consueti della vita, mi vidi
al capezzale il padre della donna, il quale con volto benigno,
Attendete a ristorarvi, mi disse, e preparatevi ad ascoltarmi;
quello che il cielo vuole forza è che uomo anche voglia! - Lo
rividi verso sera, ed accostatosi quanto più presso poteva al
mio volto, - Figliuol mio, cominciava, poichè umano argomento
non vince l'amore che la mia figliuola ti porta, e poichè
vedo a prova manifesta come anche tu ardentissimamente l'ami, e il
contristarvi le nozze sarebbe certa cagione della morte di entrambi,
a Dio non piaccia che in questa mia vecchia età prossimo a
rendere conto della mia vita all'Eterno, contro al mio sangue mi
renda micidiale. La tua stirpe è gentile, i tuoi costumi
onesti: una sola cosa mi offende in te, e non è tua colpa,
voglio dire il difetto dei beni di fortuna, ciò mi trattenne
fin qui dal consentire che tu tolga in moglie la mia figliuola
Maria: tu saprai un giorno quanto piaccia al cuore del padre
allogare i figliuoli in famiglie più potenti della sua e
quanto all'opposto rincresca scemare; però siete giovani
entrambi, che tu non mi sembri toccare il diciottesimo anno, e la
fanciulla appena ne conta quindici: la fortuna, come donna, ama i
giovani; viviamo in tempi nei quali riesce di leggieri, a cui vuole
davvero, metter insieme danari; sopra tutte le parti del mondo vedo
prosperare i nostri mercadanti in Ispagna, fuori di misura doviziosa
per l'oro che a lei mandano le Indie non ha guari scoperte. Io ti
prometto la figlia: fidanzatevi, ve lo concedo: poi su questa croce
giurami che te ne andrai a procacciare tua ventura in Ispagna per
tornare presto a condurre donna e statuire famiglia con lo splendore
conveniente alla stirpe donde esci e a quella a cui la tua moglie
appartiene.
- Promisi e con pieno cuore; - qual cosa non avrei io promesso?
Restituito alla vita, rigoglioso di giovanezza, felice per potere
consumare i miei giorni al fianco della donna amata e dirle: - Io ti
amo, e sentirla rispondere: Ed io pure ti amo; - parole mille volte
ripetute e mille volte ascoltate con dolcezza ineffabile... miracolo
nuovo di amore! - Ebbro del presente, dimenticai la promessa, che
troppo mi occupava l'anima la mia passione per conservare memoria di
quello che fu, paura per quello che sarebbe stato. - Più
volte mi parve esitasse il padre di turbare così lieto vivere
esigendo l'adempimento della promessa: pure una notte, quando me lo
aspettava meno, mi trasse in disparte; e, Figliuol mio, -
così favellando piangeva lacrime forse vere e forse finte,
perchè chi aggiunge l'uomo nella simulazione? - Figliuol mio,
quanto più ti trattieni, e più allontani il tempo
delle tue nozze: va, la stagione ti corre propizia, ed io ho ferma
speranza in Dio di rivederti fra due anni tornato ricco a casa. - Vi
tacerò gli augurii, i pianti, le disperazioni per
trattenermi, e poi i voti, le promesse, i giuri quando fu
determinata la partenza; tutte cose meste, non dolorose nè di
triste presagio, come quelle che da lontano illuminava la speranza:
solo l'aspetto del fratello era in quel tumulto di passioni quasi
serpe tra i fiori, quasi Satana nel Paradiso terrestre: mi stese la
mano, ed io la sentii umida di freddo sudore, n'ebbi ribrezzo come
se avessi tocco la pelle di un rettile: - ma la gioventù
è obliosa, la sperienza viene col tempo e ci fa notare questi
eventi col sangue più puro del nostro cuore. La fortuna, per
flagellarmi meglio, spirò un fiato favorevole nelle vele;
partii, giunsi e dimorai a Cadice e a Siviglia, dove impresi
traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io cresceva; i
pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui;
apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m'invidiava,
mi applaudiva ed adulava.
Le lettere prima mi vennero frequenti da casa, poi più rade,
ma affettuose pur sempre, - in seguito più rare ancora, -
finalmente cessarono; ciò accadde presso al terminare del
secondo anno, epoca in cui aveva statuito il ritorno; la mancanza di
nuove mi tenne di mala voglia, non mi sconfortò nè
fece temere infortunio, imperciocchè sapessi come Giovanni
d'Albret re di Navarra, cacciato ingiustamente dal regno per opera
di Ferdinando d'Aragona, avesse co' soccorsi di Francia ricuperato
l'antico dominio, e quivi si agitassero terribilissimi
combattimenti, a cagione dei quali il comunicare per terra di uno
stato all'altro veniva rotto, e dalla parte di mare i legni di
Francia e degli alleati loro, tra i quali fedelissimi si mantenevano
i Fiorentini, non si attentavano farsi vedere nei porti di Spagna.
Incerto del ritorno, lascio fondaco aperto in Siviglia, ed
imbarcatomi sopra un brigantino giungo a Genova; travagliato dal
mare che sembrava volesse impedirmi il ritorno, continuo il viaggio
per terra; nessuna lettera mi precede; intendo arrivare inaspettato
e sconosciuto. Oh come forte mi tremò il cuore quando prima
scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto
l'ale non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur
giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per
bussare alla porta, altri bussa per me, si apre, chi mi apriva non
guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa è
vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso
davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo
all'anima mia.... - Sono io morto, perchè mi diciate il
requiem? - esclamo maravigliato; e il padre piange e più che
mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi.
Anima benedetta, egli diceva con stupenda prestezza, anima
benedetta, va in pace, io spenderò in suffragarti l'ultima
mia masserizia... va in pace.
- Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi
del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano
che mai più avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo
rampognai. Egli sorse allora tra stupido e spaventato, e: Tu vivi? -
mi domanda con parole interrotte... Mi tocca... mi bacia... e quando
il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade
semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei con discorso
convenevole raccontarvi. Egli rivenne tosto, e io ansiosamente gli
domando: Ch'è questo, padre? e la donna mia? - La donna tua?
mi risponde, - quanti ne corrono del mese? - Il dieci di febbrajo. -
Il dieci, veramente il dieci? - Sì, il dieci. - Vieni a
vedere la tua donna, - e con impeto giovanile mi trasse fuori di
casa. Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; quivi
incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in
copia palafreni; entriamo in chiesa, la più parte sepolta in
profondissima oscurità; andiamo oltre, e pervenuti al punto
della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante,
coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita
da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad
un uomo dal piè degli altari una donna, e questa donna
è la mia!... Empii di un grido orribile le volte del
santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la
spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi
penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul
pavimento.
Non piacque all'inferno ch'io mi morissi: udite stupenda nequizia
umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile
pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da
funi... non mi rinveniva, cercava con la mente nè giungeva a
indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perchè
così legato. All'improvviso mi spaventa uno schiamazzo
confuso di minaccie, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa;
e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: - Chiudete
le porte, san Pietro! - san Paolo, di grazia, a che tenete quello
spadone ai fianchi? - Or dov'è andato l'arcangiolo Michele? -
I demoni danno l'assalto al paradiso.... e' l'hanno preso, - l'hanno
preso, - scomunicati! - eretici! - così bussate il Padre
Eterno? poveraccio! - Mi accorsi che mi avevano condotto
all'ospedale dei pazzi. Nè stette guari che, aperti gli usci
della stanza, vidi entrare diverse genti, che riconobbi dagli abiti
pel medico, lo spedalingo e i servigiali. Il medico, lindo,
aggraziato, superbo del suo bel mantello pavonazzo, si accosta al
letto e, vedendomi con gli occhi aperti, mi domanda: - Come va,
frate? - Oh Dio! messere, una gran doglia il fianco destro mi
tormenta, e queste funi mi segano le braccia: deh! per la croce di
Cristo scioglietemi, che soffro tanto che poco più si ha da
soffrire nell'inferno. - Il mastro, tastandomi il polso senza
altrimenti badare alle mie parole, si volge allo spedalingo e gli
dice imperturbato nel volto: - Reverendo, non vi lasciate ingannare
da questa quiete apparente; le arterie gli battono come se fosse un
cavallo, con buon rispetto parlando; è natura di questi morbi
rimettere alquanto della loro malignità per quindi
travagliare più veementi di prima: non gli sciogliete le
mani: perchè non ha egli preso la purgagione? Ingegnatevi
fargliela trangugiare, se non per amore, per forza. Il cerusico
muterà l'apparecchio alla ferita: - badate che non si agiti
quando lo medica; ogni moto qualunque gli apporterebbe certissima
morte.
- Davvero le arterie dovevano battermi con impeto; io sentiva dentro
ribollirmi il sangue, non potendo sostenere coteste parole che mi
sonavano dileggio. - Scioglietemi, gridai, o me ne renderete ragione
davanti gli Otto: chi vi ha detto che io sono pazzo? Dov'è
questo marrano, questo ribaldo? Io fui tradito, percosso, ed ora mi
legate per pazzo... ve la dirò io la storia... uditela...
forse ne sentirete pietà. - Ecco, interuppe lo spedalingo dal
volto di colore del piombo, i sintomi da voi presagiti ritornano; un
accesso di mania lo minaccia... - È indubitato! risponde il
medico aggiustandosi con sufficenza il collare, e si dispone a
partire. - Forse non volendo il medico mi conservava la vita;
imperciocchè se mi avessero sciolto un momento, malgrado la
debolezza estrema, la piaga mortale, io sarei balzato dal letto per
correre non già alla vendetta ma al sepolcro... e per
avventura era il meglio. Se colà dentro io non perdei lo
intelletto, ne ho l'obbligo al pensiero fisso dei miei dolori, il
quale non mi concedeva che non ponessi troppa mente ai miseri
rinchiusi nell'ospedale. Immaginate: da un lato mi stava una madre
maniaca la quale nell'ultima piena dell'Arno aveva perduto casa,
marito e due figli. Ogni notte, quando il sonno cominciava ad
aggravarmi le palpebre, ecco la donna con urli lugubri gridare: - La
piena viene!... la piena viene! - prendi il tuo figliuolo, Giovanni;
io prenderò la bimba, e fuggiamo via... - E dopo poco mutando
voce riprendeva: - Sta cheta, strega, io vo' dormire; se non ismetti
di gracidare ti do della marra sul capo...
- Sii maledetto! borbotta fra i denti e quindi soggiunge con
voce naturale: - Lévati, prendi il figliuolo e quanta
masserizia più puoi; ubriacone, lévati... senti....
senti.... ah! non è più tempo.... misericordia! che
notte!.... guarda alla vampa del fulmine il fiume che precipita...
fuggi... - Io vo' dormire. - Dormi: gran mercè dell'aiuto!
Tancia, Lessandra, che notte! acqua e fuoco; ma la Dio grazia io
tengo l'argine; costà ho lasciato in gola al fiume poche cose
in verità... le masserizie e il marito.... e un figliuolo...
dalle masserizie... in fuori devo ringraziarne la fortuna... mi
basta la figliuola.... questa ho menata con me.... io l'amo tanto! -
e qui, a dirvela in confessione, Tancia, la mia figliuola Nannina
l'ho avuta dal vostro fratello Baccio; ci amavamo prima ch'io
andassi a marito, e non me lo sono potuto scordare; il sere mi dice
ch'è figliuola del peccato... ma oh! io amo la figliuola e il
peccato.... Nina, vieni.... dove sei? Nina.... Nina.... in qual
parte ti sei cacciata adesso? Se la nascondeste, donne, rendetemela
per carità... se l'avete veduta, indicatemela... me ne fossi
dimenticata.... no.... sì.... ah trista me! l'ho scordata.
Baccio, va a salvare tua figliuola; ah! egli non si vede.... egli
tarda.... e il tempo stringe.... Chi siete voi? uomini forse? andate
a salvarmi la mia Nannina; non posso offrirvi nulla, la piena mi ha
portato via ogni bene della terra; se vi piaccio, vi abbandono il
mio corpo; se no, voi avrete per certo a rifabbricarvi la casa; le
acque vi hanno affogato il giumento, io vi porterò pietre e
calcina.... non siete andati? Non volete andare? Iniqui! scherani! e
l'ora fugge, e la maledizione non salva la mia figliuola... Cristo,
che sostenesti san Pietro sul mare, sostieni anche me povera madre!
Affogo.... affogo.... - E qui si rotolava sul pavimento continuando
a cacciare urli disperati, ma indistinti a guisa di singulti. -
Dall'altra parte era rinchiuso un giovanetto diventato pazzo per
amore; - la giovane anima sua, comparsa appena su l'emisfero della
vita, si ottenebrava, ed egli ora forniva il suo corso mortale
ricinto di nebbia, siccome sole nei giorni incresciosi dell'inverno;
la morte aveva dopo di lui baciato le labbra alla sua donna, e il
giorno appresso trovò il verme là dove poche ore
innanzi aveva libato il profumo dell'amore. Nel giorno, il misero
taceva; verso sera cominciava a preludiare una canzone; caduta la
notte, cantava con armonia mesta, arcana, per così dire
pregna degli effluvii della sua vita, perchè invero la
commozione che pativa cantando lo consumava, e di giorno in giorno,
secondo quello che si racconta del cigno, più dolcemente
cantava e più si approssimava a morire; tutte le canzoni
compiva col verso:
Luce degli occhi miei, chi mi ti asconde?
E quando la voce stanca gli rifiutava l'ufficio consueto, piangeva
forte, sempre chiamando Selvaggia, e si raccomandava di ottenergli
dal cielo pronta la morte, perchè egli si sarebbe ucciso; ma
avendo inteso che i violenti contra sè stessi vanno dannati,
non si attentava, sapendo troppo bene lei essere nel cielo; e s'egli
voleva adorarla costà, gli bisognava invocare, non darsi la
morte... Felice lui! Una notte cessò il canto e la vita. Dove
andò la sua anima? Che importa saperlo? Nessuna creatura al
mondo si spense con maggiore desiderio di morte. - Poc'oltre uno
sciagurato usuraio, impazzito pel furto della male raccolta pecunia,
giorno e notte contava il danaro, dieci, cento, mille, in suono
profondo, monotono, da disperare chiunque l'udiva; talvolta
fantasticava di avere al cospetto la vittima e ripeteva le parole
che certo gli furono abituali nell'esercizio dell'infame mestiero: -
Non posso, in verità non ho danaro, l'argento è caro,
ne parlerò ad un amico che non vuole essere nominato; tutto
in monete già non isperate di avere; voi avete una cera da
giovine dabbene, m'ingegnerò di farvi servizio come se fosse
per me: - tale altra raccomandava al servo frugasse la casa, avere
udito rumore; oppure rampognava il fabbro su le serrature deboli e
non le voleva pagare... ma quando gli ritornava al pensiero il
giorno in che vide la cassa scassinata e vuota dell'ultimo soldo...
oh! allora sì, che cacciava gridi presso i quali perdevano il
paragone quelli disperati della madre che chiamava la figlia
dell'adulterio.
- Dirimpetto, un pazzo si credeva mutato in orologio, e rigido
rigido lungo il muro agitava la destra a guisa di pendolo, con la
bocca indicando i minuti, i quarti dell'ora, le mezze, le intere ore
e così durò finchè una notte proruppe in urlo
spaventevole, poi disse: Tremate! il tempo cessa, l'eternità
si avvicina, io batto l'ultima ora; - e la battè, poi tacque:
sentii inondarmi di sudore ghiaccio le membra, mi si rizzarono i
capelli; - alla dimane il matto fu trovato morto bocconi per terra;
gli si era rotta una vena sul cuore, ed aveva spirata l'anima fra un
torrente di sangue. - Non vi dirò delle infinite altre
miserie raccolte entro cotesto luogo di dolore; solo vi voglio
rammentare quell'altro matto fisso nella idea di essere il Padre
eterno; - allorchè lo schiamazzo giungeva a tale ch'egli
stesso se ne sentiva intronato, dalla sua stanza mandava le voci: -
Silenzio! Io sono il Padre eterno, io affliggo e consolo; creature,
parlate al vostro Creatore, io sovverrò alle vostre angustie.
- Subito si faceva silenzio, e indi a breve scoppiavano come tuono
le grida simultanee: Rendimi Nannina! - Scioglimi dal carcere
fastidioso della vita! I miei danari, Padre Eterno, i miei danari
coll'interesse del venti per cento e cambi di cambio! - altri altre
cose. E il Padre eterno: - Che danari? Te gli ho rubati io,
furfante, chè debba restituirteli? E poi come ho io a fare,
se non mi trovo un picciolo in tasca? sta cheto e muori, nell'altro
mondo ti donerò la luna. Se tu vuoi morire da senno, muori:
io feci appunto una sola via alla vita, mille alla morte, onde ogni
uomo se ne andasse a suo bell'agio al camposanto; - perchè
dunque m'introni la testa? non hai pareti per ispezzarci dentro le
tua ossa? non travi per appiccarti? non vetri per segarti una vena?
- E tu costinci sta cheta. Nannina è in paradiso; qui intorno
al mio trono svolazza cherubino bellissimo di luce; nelle tue mani
sarebbe diventato un demonio nata di adulterio, moriva in
postribolo, ed io te l'ho tolta; - il peccato non dà mica
padronanza sopra i figliuoli; - il cielo se la prese, e il cielo non
la renderà.... - E la madre: - O Dio ribaldo, tu hai
condannato l'uomo alla morte perchè non l'avesti dall'amore;
tu odii l'uomo perchè lo creasti solitario, - da te - con le
mani fredde - di diaccio, con la terra rossa, e gli gittasti l'anima
con un soffio nel naso: - se il peccato t'incresce, perchè lo
hai posto nel mondo? - E così continuava; nè gli altri
proferivano meno fiere bestemmie nè in suono più
dimesso. Il giovane pazzo per amore, dopo cotesto turbine di male
parole, con voce soave favellava sensi i quali parevano, come
l'iride, simbolo di alleanza tra il cielo e la terra, cessata la
tempesta; e sovente così concludeva: - Costui schernisce non
consola: dunque questi non è Dio: imperciocchè
così Dio non sarebbe. Amore è Dio, e Dio altro non
può essere che amore.
- Senza dubbio s'io avessi dovuto lungamente rimanermi in codesto
ospedale, diventava pazzo: piacque alla fortuna liberarmene in
breve, e il modo fu questo: sanato ormai della piaga, certa sera
agli ultimi splendori del crepuscolo, seguito dal servigiale col
nerbo in mano, passeggiava per un lungo corridore, alla
estremità del quale una finestra priva di ferrate concedeva
vivido il circolare dell'aria: siccome spesso mi era trattenuto in
savi ragionamenti col servigiale, e allorquando mi sentiva crucciato
dalla memoria degli affanni antichi e dal morso dei presenti me ne
stessi muto, non mai però aveva prorotto in escandescenze;
ond'egli o non mi teneva del tutto matto, o almeno mi riputava matto
di benigna natura; quindi, volendo andare per certe sue bisogne, mi
disse lo aspettassi nel corridore, così avrei più
lungo tempo goduto della buona aria: uscito appena, corsi alla
finestra; quanto distasse dal terreno non bado, mi lascio andare
giù lungo il muro avvertendo di rasentarlo con la persona per
ammortire la caduta; percossi aspramente sul terreno, ma da una
forte scossa nei visceri in fuori non provai altro male; fuggo a
dirotta: la notte era calata procellosa, ed io era salvo.
- Poichè ebbi corsa lunga ora a null'altro pensando che a
fuggire, incominciai a divisare dove procurarmi un asilo, come
sottrarmi alle persecuzioni dei miei feroci nemici; pericoloso mi
parve, ed era, ridurmi alla casa paterna, ma anelando conoscere come
il caso avvenisse, colà appunto mi condussi; -
oscurità e silenzio; - chiamo, busso, torno a chiamare, e
sempre invano; tolto di speranza da questa parte, il cuore mi
augurando sinistramente, ma pur non sapendo qual male temere, mi
venne in pensiero il castaldo che abitava certe casette di nostro
alla estremità della via; - lo trovai con la famiglia
prostrato a terra, perchè le campane avevano suonato l'ora
prima di notte, a recitare il De profundis per le anime dei defunti:
siccome inosservato io penetrava là dentro, udii pregare pace
all'anima mia e a quella di mio padre. Sarebbe egli morto? esclamai
con immenso dolore. Immaginate voi lo spavento prima, poi la
meraviglia e la esultanza di quei buoni, - i soli che mi sieno
occorsi nella vita. Il mio povero padre era morto pur troppo! Alle
persecuzioni e all'odio del malvagio, che pei rimorsi riarde
più feroce, soccombeva. Vieni, dissi al castaldo, menami al
sepolcro di mio padre. - Egli mi accompagna nel camposanto di Santo
Egidio, colà si ferma davanti una fossa priva di lapide e, -
qui, - mi dice piangendo, - riposa messer Pierantonio vostro padre.
- Già per la via il castaldo mi aveva narrato la fama sparsa
della mia morte, l'eredità concessa a lontani collaterali
protetti dai miei nemici, il pericolo sovrastante, la nessuna
speranza di giustizia; e nè anche, la potendo ottenere, la
giustizia delle leggi mi sarebbe riuscita a grado, chè i miei
nemici con le proprie mani avendomi distrutto, con le proprie mie
mani io mi era deliberato distruggerli; dente per dente, pelle per
pelle, come insegna Moisè; presi nella destra il pugnale,
nella manca un pugno della terra che l'ossa ricopriva di mio padre e
giurai vendicarmi... di vendetta italiana... case sovvertite dai
fondamenti, campagne arse, famiglie trucidate dal decrepito al
lattante, - e poi morire. Udiste mai offesa più acerba? -
Aspettate e vedrete come saprò vendicarla. Intanto solo e
ramingo, non vedeva verso di condurre a fine il mio proponimento;
ogni dì più la disperazione mi cangrenava il cuore, e
il tempo fuggiva non maturando il frutto di sangue; - pensai adunare
una mano di masnadieri, ed il feci; ruppi le strade, empii di
terrore Romagna; ma quando proposi di assaltare all'improvviso
Fiorenza, i compagni esitarono ed al fine non vollero: io gli
abbandonai vergognoso di essermi tanto degradato invano: -
condottomi in Lombardia, mi versai in quelle guerre senza gloria per
noi Italiani ed ebbi fama di prode: - ma poichè il desiderio
di vendetta non iscemava per tempo, il mio demonio mi
consigliò nuovo modo: andai a Roma, chiusi bene nel seno
l'odio pe' Medici e mi accomodai agli stipendii di papa Clemente;
sperava un giorno mi avrebbe mandato in patria o magistrato o
capitano di milizie o carnefice, in condizione insomma da potermi
bagnare le mani nel sangue abborrito dei miei nemici: procedei come
il tarlo il quale per durezza non si abbandona, ma più e
più sempre laboriosamente s'inoltra; la fortuna, che presto o
tardi favorisce chiunque voglia davvero, superò la speranza;
avvenne la cacciata dei Medici, la pace tra il papa e l'imperatore,
la guerra contro Fiorenza; eccomi in campo prossimo a cogliere il
frutto a cui sacrificava affetti, avvenire, fama, salvazione forse
dell'anima, tutto; della intera città io divoro cogli occhi
un punto solo, e da lontano gli avvento fiamme.
- Ben mi duole di avere unita la mia alla causa dei Medici,
tralignati troppo da quello che furono; se fosse vissuto Giovanni
dalle Bande Nere, all'odio aggiungeva eziandio l'utile della patria,
e, non che mi rimordesse coscienza, menerei vanto del mio concetto;
- oh in mancanza di quel grande la fortuna ci avesse dato un
ambizioso, come Lorenzo duca di Urbino, o almeno un potente in
negozii, come Lorenzo il vecchio! - ma i Medici, quali ora sono,
conciterebbero a sdegno, se non movessero a riso...»
«E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere
mio, io vi terrei meno tristo, se uccideste i vostri nemici a
tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l'antica
repubblica di Fiorenza.»
«Che significa repubblica? Ella è parola di largo
contorno e dentro di sè comprende libertà da comizio e
tirannide d'inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si
commettono misfatti quali soffersi io non può dirsi libero, e
tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la
libertà passaggiera alla forza perenne, madre vera di
durevole libertà.»
«Non vi comprendo.»
«Vorrei una Italia, vorrei, come Giulio II, il pontefice di
gloriosa memoria, ridotta in un corpo solo questa misera patria,
perocchè mi dolga.... oh! mi dolga assai il suo ludibrio di
secoli.... E dopo papa Giulio, che n'ebbe volere e potere, veruna
persona è più acconcia, se ne avesse il volere, di
tale che voi conoscete, monsignore; - di tale che se avesse sortito
dai cieli spiriti della stregua dell'alto suo grado, avrebbe a
quest'ora condotta a fine tale impresa di cui per avventura non gli
balenava mai nella mente il pensiero.»
«Ed io lo conosco?»
«Assai.»
«E si chiama?»
«Filiberto di Chalons, principe di Orange, vicerè di
Napoli...»
«Messere Bandino, pensate ch'io sono soldato dell'imperatore,
ch'io fui preposto all'esercito per ricondurre i Medici in
Fiorenza...»
«Io penso Carlo V desiderare che Fiorenza sia retta da gente a
lui amica, non collegata perpetuamente coll'emulo di Francia; se
questo spera ottenere co' Medici, con voi l'otterrebbe di
certo.»
«E se Carlo si ostinasse a mantenere il trattato con
Clemente?»
«Sarebbe la prima volta che un principe si ostina a mantenere
la sua fede. E poi l'imperatore per ora altre faccende ha sulle
braccia. In ogni caso, il vostro esercito conosce voi soltanto, e
Fiorenza ha danaro per mantenerlo in guerra.»
«E ai Medici pensaste, messere Bandino?»
«Pensai, e vidi il papa vecchio e impotente - e odiato; il
duca Alessandro e il cardinale Ippolito non meno di lui tenuti in
dispregio: anche i partigiani di casa Medici (e partigiani veri ne
contano pochi) non amano Giulio figlio illegittimo e forse supposto
di Giuliano, comecchè adesso papa Clemente, nè
Alessandro figlio adulterino di lui e di schiava africana moglie di
certo vetturale da Colle Vecchio, nè finalmente Ippolito
figlio illegittimo del Duca di Nemours; Cosimino, se non fosse di
troppo fresca età, aiutato dalla reputazione del padre
Giovanni, avrebbe séguito e grande; gran danno per lui essere
nato troppo tardi! - rimane la duchessina Caterina figlia legittima
del duca di Urbino, giovine, vergine e prossima alla età da
marito. - Principe, un sangue vale l'altro; non vi parebbe questo un
vincolo da farvi amici i partigiani del nome dei Medici? Del
Guicciardino, del Valori ed altri simili a loro non è da
parlarne; odiano la repubblica perchè nulla sperano da lei;
il principato non amano, sibbene sè stessi; quando abbiano
utile in voi, voi seguiranno, e voi date loro a dividere questo
utile facendoli seguaci vostri....»
«Dal vostro disegno alla corona d'Italia gran tratto ci corre;
e quanto potrebbe accomodarsi col duca forse si guasterebbe col
re....»
«Fiorenza intanto è un bel fiore per cominciare la
corona italica; al rimanente penseremo poi; nulla vede chi troppo
prevede; i tempi e gli eventi dànno consiglio, e da cosa
nasce cosa.»
«Udite, Bandino; dacchè avete pensato a tanto, pensaste
voi starsi qui in campo Girolamo Morone?»
«Morone! - Me lo rammentereste voi forse, principe, per la
proposta uguale che fece al marchese Davalo e pel modo turpe col
quale il marchese sè medesimo, Italia e il Morone tradiva? Se
me lo rammentate per questo, ricordatevi a vostra posta il Davalo
essere morto in condizione privata, sospetto a Cesare, odioso agli
Italiani, infame al cospetto del mondo e tenuto in dispregio dal
divino intelletto della marchesana sua moglie Vittoria Colonna.
Traditemi, se volete; a me piace il supplizio, se a voi piace la
infamia.»
«Pace! pace! Dove trascorrete con quel vostro ingegno di
fiamma? io voleva avvertirvi che se un giorno quello scaltrissimo
Morone si affaticò a ordinare col Pescara che gli Spagnuoli
tutti si ammazzassero, oggi, mutato animo, sostiene con ogni sua
possa le parti di Cesare.»
«E ciò a che monta? Fors'io vi consiglio a
partecipargli il segreto?»
«Ei se lo parteciperà molto bene da sè
stesso.»
«E come?»
«O non sapete voi messere Girolamo possedere un anello, o
piuttosto un diavolo dentro l'anello il quale le cose più
occulte rivela al suo padrone?»
«Ah! non mi aspettava a questo. - Voi dunque credete nel
diavolo?»
«E perchè no? - Non credete voi in Dio?»
«Chi ve lo ha detto?»
«Lo avete nel vostro discorso rammentato cento volte...»
«Rammentare non significa credere.»
«Io non conobbi mai uomini senza fede nel Signore che tengano
il paragone con voi altri Italiani.»
«Ciò avviene perchè, abitando il papa in Italia,
abbiamo più sicure degli altri le novelle del paradiso. - In
ogni caso la credenza di Dio non induce la necessità di
porgere facile l'orecchio alle voci del volgo superstizioso.»
«Comechè sia, Bandino, addio...»
«Il diavolo del Morone rompe dunque il trattato?»
«Messere, voi pensate avere gittato un germe nel mio cuore, ed
egli ha già partorito da parecchio tempo il suo frutto; non
pertanto grazie vi sieno della proposta. Aiutatemi: quello che non
fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del
vostro cuore saranno sanate; - vi confidi il futuro. - Voi mio
maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare.»
«Camminate la vostra via. - Non vi trattenete a guardare i
miei fati, io vi sovverrò come e dovunque possa, ma non per
vivere; - se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non
conosce signore degno della sua servitù, tranne uno solo, e
questi è il Bandino.»
NOTA
Anco secondario il predetto Cola ammoniò i rettori e 'l
popolo a lo ben fare per una similitudine la quale fece pignere nel
palazzo di Campidoglio nanti 'l mercato, ne lo parete fuora, sopra
la camera; pinse una similitudine in questa forma. Era pinto un
grandissimo mare, le onde orribili e forte turbate; in mezzo a
questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza timone,
senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, ci era
una femmina vedova, vestita di nero, cinta di cingolo di tristezza,
sfessa la gonnella da petto, scapigliati li capelli, come volesse
piangere; stava inginocchiata, incrociava le mani piegate al petto
per pietade, in forma di pregare che suo pericolo non fosse: lo
soprascritto dicea: Questa è Roma. Attorno questa nave, da la
parte di sotto nell'acqua, stavano quattro navi affondate, le loro
vele cadute, rotti li arbori, perduti li timoni. In ciascuna stava
una femmina affogata e morta. La prima avea nome Babilonia, la
seconda Cartagine, la terza Troia, la quarta Gerusalemme. Lo
soprascritto diceva: Queste cittadi per la ingiustizia pericolaro e
vennero meno. Una lettera esciva fuora fra queste morte femmine e
diceva così:
Sopra ogni signoria fosti in altura,
Ora aspettiamo qua la tua rottura.
Dal lato manco stavano due isole. In una isoletta stava una femmina
che sedea vergognosa, e diceva la lettera: Questa è Italia;
favellava questa e diceva così:
Tollesti la balía ad ogni terra,
E sola me tenesti per sorella.
Nell'altra isola stavano quattro femmine colle mani a le gote e a li
ginocchi, con atto di molta tristezza, e diceano così:
D'ogni virtude fosti accompagnata,
Ora per mare vai abbandonata.
Queste erano quattro virtudi cardinali, cioè Temperanza,
Giustizia, Prudenza e Fortezza. Da la parte ritta stava un'isoletta,
e in questa isoletta stava una femmina inginocchiata: la mano
distendeva al cielo come orasse; vestita era di bianco, nome aveva
Fede Cristiana: lo suo verso dicea così:
O sommo patre, duca e signor mio,
Se Roma pêre, dove starò io?
Ne lo lato ritto della parte di sopra stavano quattro ordini di
diversi animali co' le sue ale, e tenevano corna a la bocca e
soffiavano come fossino venti li quali facessero tempestate al mare,
e davano aiutorio a la nave che pericolasse. A lo primo ordine erano
lioni, lupi e orsi; la lettera diceva: Questi sono li potenti baroni
e rei rettori. A lo secondo ordine erano cani, porci e caprioli; la
lettera diceva: Questi sono li mali consiglieri seguaci de li
nobili. A lo terzo ordine stavano pecoroni, dragoni e volpi; la
lettera diceva: Questi sono li falsi officiali, giudici e notarii. A
lo quarto ordine stavano lepori, gatti, capre e scimmie; la lettera
diceva: Questi sono li popolari latroni, micidiali, adulteratori e
spogliatori. Nella parte di sopra stava lo cielo; in mezzo la
Maiestade Divina come venisse al giudizio; due spade l'escivano da
la bocca di là e di qua; dall'uno lato stava santo Pietro, e
dall'altro santo Pavolo ad orazione. Quando la gente vidde questa
similitudine di tale figura, ogni persona si meravigliava.
Vita di Cola di Rienzo, trib. del pop. rom., l. 1, c. 2.
CAPITOLO NONO
MICHELANGIOLO BUONARROTI
Io vo per vie men calpestate e solo.
Michel. Buonarr., Madr. 50.
Sonavano le due ore di notte, quando Dante da Castiglione, armato
come soleva di corazza, di bracciali e di spada, salutato il buonomo
che vi stava di guardia, entrò nel Palazzo della Signoria:
siccome lo conoscevano svisceratissimo di quel reggimento, lo
lasciarono andare non gli dicendo altre parole se non queste une:
Dio vi mandi la buona notte messere Dante, - quantunque portasse
sotto il mantello cosa che tentava occultare.
Penetrato nelle più secrete stanze, bussò pianamente
ad una porticciuola, e gli fu subito risposto: Avanti!
«Oh! siete voi, Dante. Io vi aspettava... mi avete portato le
vesti?»
«Mai sì, messere: eccovi il tôcco e la cappa
spagnuola, col cappuccio di dietro, ch'è una meraviglia: se
vi avvisaste portarla di giorno, sareste riputato il maggiore
sbricco di Fiorenza.»
«Orsù aiutami a svolgermi il becchetto del cappuccio
dal collo: - bene; - or tiemmi la manica del lucco: - gran
mercè; - porgi la cappa... qua il tocco; - ti pare egli che
possano riconoscermi?»
«Mè anche mammata... direbbe messere Franco
Sacchetti.»
«Andiamo.»
Uscirono: - Il magistrato chiuse con diligenza la porta delle sue
camere e scese guardingo, già egli non tenne per uscire le
scale comuni, bensì ne prese certe segrete per le quali
giunse alla postierla del palazzo che metteva capo in via della
Ninna; svoltarono subito in via dei Leoni procedendo in silenzio, e
giunti che furono sul canto del Borgo dei Greci, il magistrato si
ferma e, piegatosi all'orecchio del Castiglione, gli comanda:
«Separiamoci; andate per esso, conducetelo a me.»
«Dove?»
«Non ve lo aveva io detto? - Al cimitero di Santo
Egidio.»
Dante tornò sopra i suoi passi, rifece la via dei Leoni,
passò vicino Baldracca, e per la piazza dei Castellani venne
lungo Arno, dove camminando fino al Ponte delle Grazie, lo
valicò in fretta e si condusse al poggio San Miniato: quello
che andasse a cercare costà vedremo poi; adesso seguitiamo il
magistrato nel suo cammino notturno...
La notte era rigida e nera: - certi nuvoloni ingombravano il cielo
che parevano montagne, e ad ora ad ora sprizzolavano qualche stilla
di acqua ghiacciata: onde le genti che a quell'ora andavano per via
si affrettavano a casa, e il subito loro apparire e sparire le
faceva parere più che altro fantasime.
Il magistrato però, non che affrettasse, rallentava il
cammino e porgeva attentissimo ascolto alle parole di coloro che
traversavano la strada.
«O vedi mo'», diceva un passeggiero al suo compagno,
«chi m'è venuto fuori a fare il san Giorgio! Messere
Francesco Carduccio: in verità non lo avrei riputato da
tanto.»
«Un cuore da Cesare, per san Giovambattista! un cuore da
Cesare! Chi nulla ha da perdere, non può che
guadagnare...»
«Mi pare che vi potrebbe perdere la testa. >
«E vi parrebbe perdita per lui?»
«Ma! non saprei.»
Cotesti erano mercanti, le più volte fango tutti per di
dentro e per di fuori, senza cuore, senza intelletto e spesso anche
senza l'abbaco, del quale presumono essere la pratica e la scienza.
- E passano via, ed altri subentrano.
«Noi non possiamo reggere», discorre il primo, e bisogna
che ci accordiamo ad ogni modo, se non per amore, per forza.»
«Ed io vi dico che reggeremo, e vinceremo i nuovi Filistei.
Dominedio ci manderà Gedeone. Senza fede l'uomo passa per
occhio come una barcaccia sfondata,» riprende il secondo.
«Appunto egli è per troppa fede ch'io temo così,
compare mio dolce. Suora Domenica, la monaca del Paradiso, ebbe la
notte scorsa una visione nella quale la Madonna Santissima della
Impruneta con la propria sua bocca le profetò i Medici avere
a tornare; questo essere il comandamento del Signore; confortasse i
Fiorentini a prendere siffatto partito con vantaggio adesso,
piuttostochè aspettare poi a soffrire violenza con danno
inestimabile della città.»
«E' sono novelle coteste. Fiorenza non patirà
oltraggio; fra Girolamo ci assicurava della parte di Dio che
perderemmo tutto il dominio, e la libertà della patria
rimarrebbe; ed ha detto altresì che, quando gli argomenti
umani venissero meno, scenderebbero gli angioli del cielo e
difenderebbero la città.»
«Le profezie del nostro frate Savonarola io per me non le
valuto una ghiarabaldana, che ne danno trenta per un pelo di asino;
se fosse stato profeta, avrebbe conosciuto qual morte gli serbavano
in Fiorenza e se ne sarebbe fuggito.»
«O compare, voi mi sapete di eretico! Dunque, perchè
Gesù Cristo si lasciò crocifiggere, non sapeva il modo
e l'ora della morte sua? non lo conobbero Pietro, Paolo ed altri
santi infiniti della nostra divinissima religione?»
«Ma quel vostro frate Girolamo e' non era santo; e' fu invece
appeso ed arso come scomunicato ed eretico per sentenza di santa
madre Chiesa.»
«Per sentenza di Roderigo Lenzuoli o Alessandro papa VI di
memoria infernale; e poi non sapete che il processo fu fatto contro
ogni regola, e come tale il magnifico messere Lorenzo Ridolfi ha
proposto che si levi di camera per meno vergogna della
città?»
«Io per me lo tengo per un fattucchiere.»
«Ed io, sapete per che cosa tengo la vostra suora
Domenica?....»
«Per che cosa?»
«Per la più solenne cialtrona che mai vivesse in
Fiorenza...»
«Voi siete un Piagnone... un Arrabbiato...»
«E voi un Campagnaccio, un Pallesco.»
«Di cotesti due il Pallesco era mercante, lo Arrabbiato
pittore.
Nuovi cittadini traversando la strada favellavano:
«Voi siete ingiusto rispetto a lui, messere; così ne
avessimo copia, come pur troppo patiamo penuria di uomini quale si
è il Carduccio; - egli ama la patria e la
libertà....»
«Con buona vostra licenza, io per me lo tengo per uomo
ambizioso e per cervello torbido.»
«Ambizioso! - sia, pur se lo volete, ma ella è
magnanima ambizione cotesta che lo spinge a tutelare la sua
città con pericolo della vita: quanti pensate annoverarne voi
di siffatti ambiziosi in Fiorenza?»
«Più di quelli che non vi da dà ad intendere il
Carduccio, il quale co' suoi discorsi e de' suoi aderenti si dimena
per essere raffermo nel gonfalonierato.»
«Se ciò avvenisse, sarebbe certissimo segno che Dio
vuol bene a Fiorenza.»
«Senz'altro il Carduccio vi ha dato il comino.»
«Voi v'ingannate, - io non lo conosco, ma lo reputo ingegno
antico.»
«O messere, sapete un poco che cosa si va bucinando in paese
di costui?»
«Dite mo', che vi ascolto.»
«Che vuoi rifare da gonfoloniere il denaro il quale perse da
mercante in Ispagna.»
«Ohimè tristi! A chiunque inverecondamente proferisce
tali contumelie contro di lui vi prego, messere, dire in mio nome
che se ne mente per la gola.»
«Pure sapete il proverbio? Maledetto il gancio che si trova
diritto...»
«Non giudicate, se non volete essere giudicati.»
Di cotesti due il primo era maestro di tintoria, il secondo dottore
di leggi.
«Io per me faccio conto ardamene,» un personaggio
sopraggiunto diceva al suo compagno.
«E dove volete ripararvi?...
«A Venezia, - a Roma, - presso il Turco, pure di
uscirne...»
«E non temete la confisca dei beni...?»
«La roba si rifà, non la vita; e poi in buon tempo
mandai danari sui banchi di Genova e di Venezia.»
«Ed io pure mi sono provveduto così.»
«Chi si era trovato mai a vedere piovere palle di bombarda!
Ieri ne cadde una sul canto della loggia degli Adimari, là
dalla bottega del barbiere, la quale in primis portò via di
netto tutto il calcagno al capitano Mancino da Pesaro, poi, balzata
quanto è lunga la piazza del Duomo, entrò in casa del
pedagogo Giovanni Del Rosso, che sta nelle casette di Visdomini; -
certo non vi andava a imparare di abbaco.»
«E per ultimo chi regge al difetto di vettovaglie? Dio vi
salvi dal morire di fame. I pippioni costano una corona al pajo; i
capponi stremenziti che paiono lanterne otto o dieci scudi; non
istarne mai, non beccacce: questa è vita da inferno!»
«Fatevi io qua, - udite: - io ho tratto l'oroscopo, ho
consultato gli astrologhi, e mi hanno profetato che Fiorenza deve
cadere... badate a non mi tradire....»
«Oh! è tanto tempo che i' me n'era accorto; - non si
vedono più pernici in mercato.»
«Com'entrano qui le pernici?»
«Ci entrano benissimo, perchè significa che il contado
è perduto.»
«Inoltre vedete un poco a che cosa ci giova questa
libertà: se, per pagare meno io gravezze, parmi ne abbiamo
pagate più in un mese di repubblica che in un anno sotto i
Medici; se, per vivere meglio a modo nostro, io ho vissuto sempre a
bell'agio perchè di cui non dico mai nulla, di Dio poco;
voglia di entrare in bigoncia non ne sento, bado al traffico e ai
libri della ragione; sicchè poco m'importa o nulla che o
Marzocco o Palle tengano il palazzo.»
«Vivere a bell'agio sotto la repubblica! Io non conobbi mai
leggi più gaglioffe di quelle che promulgò Fiorenza
nei tempi di reggimento popolare; immaginate, ogni cittadino non
potrebbe usare a pranzo o a cena più che due sorte vivande,
il lesso e l'arrosto; egli è vero che sotto la vivanda lesso
o arrosto lasciavano adoperare di tre specie di carni, nè si
computavano per vivanda i bramangiari, i mortiti, i berlingozzi,
solci, pere guaste con anaci, acqua rossa, zucchero, bircoccoli e il
pane e il vino era ad arbitrio; ma alla fin fine si chiamerà
vivere libero quello che t'impedisce sotto la pena di fiorini dieci
larghi di oro in oro mettere in pratica un qualche ritrovato che
sapesse consigliarti il tuo ingegno...?»
«Mi rimane a tentare una prova per deliberarmi in tutto alla
partenza.»
«In grazia, qual prova?»
«Di consultare un profela.»
«Messere, badate, di non dar di capo nei gerundii. Dove sono
eglino i profeti a Fiorenza?»
«Sonci, ed io ne tengo uno in casa mia.»
«Domine, aiutatemi! o come si chiama egli?»
«Si chiama Virgiglio Marone.»
«S'io non mi sbaglio, parmi avere udito che fosse un poeta
costui or corrono anni meglio di mila e cento.»
«Quel desso - ed è profeta. Come Isaia, Geremia e gli
altri del popolo ebreo, ei profetò la venuta di Gesù
Cristo là dove nella egloga a Pollione, invaso dallo spirito
divino, cantava: Magnus ab itegro saeculorum nascitur ordo. - Jam
redi tet virgo, redeunt saturnia regna; - Jam nova progenies cœli
demittitur alto. - Ora la virtù profetica, rimase ne' suoi
libri, e consultati secondo i riti, di rado avviene che non
rispondono prognosticando il futuro.»
«Davvero! Voi mi mettete un grand'uzzolo addosso di
provare...»
«Venite: entriamo senza avvisare nessuno della famiglia in
casa mia nello studiolo terreno e interroghiamo l'oracolo.»
«Mi raccomando a voi...; dopo faremo un poco di cena.»
«Come volete; - innanzi di lasciare certo mio buon trebbiano
arrubinato, e sarà bene tòrcene una satolla.»
«Amen! amen! I' sono con voi.»
E, aperto un usciolo, entrarono nel piano terreno; colà il
padrone di casa battuto il focile, trasse dallo stipo una candela di
cera gialla la quale consegnò accesa con molta
solennità al compagno. Dipoi, messo sopra un leggio il volume
delle opere di Virgilio ricoperto di velluto paonazzo, e
raccomandato il silenzio e il raccoglimento, mormorando certe sue
preci, stese attorno attorno al leggio un nastro di seta nera.
Ciò fatto, chiama il compagno e lo invita a entrare nello
spazio determinato dalla riga; - il compagno entra e comincia a
tremare.
«Eh! dico messere Luigi, non vi sarebbe per avventura pericolo
di capitare male?»
«Silenzio! Od io non vi mallevo delle vostre ossa.»
E, senza più oltre badare a lui, si cinge intorno agli occhi
una benda, - si prostra, - si rialza e si volge ai quattro lati
della terra; allora prende a recitare con empio e, forse direi
meglio, stolto miscuglio di sacro e di profano, orazioni alla
Trinità, alla Madonna, agli spiriti che vanno pel mondo
quando la notte è nera, e il cielo minaccia burrasca; e
sovente ricorrevano nei suoi scongiuri l'abracadabra, il
tetragammaton, il pentagrammaton, e parole altre cotali da cacciare
il ribrezzo della febbre quartana addosso ai meglio animosi.
«O messere Luigi, diceva l'altro in suono piangoloso, non vi
venisse mica la fantasia di far comparire il demonio...»
«Silenzio! Qui non entrano per nulla gli spiriti maligni, -
non vedrete nulla, o vedrete soltanto spiriti mediossumi, ombre di
gente che fu; - tenete fermo il cero, - raccoglietevi,
perocchè il mistero sta per operarsi.»
E ciò discorso, continua infiammandosi di mano in mano nei
detti e nei gesti, sicchè in breve spumava dalla bocca
enfiata e si scontorceva nella persona a modo di maniaco;
all'improvviso caccia un terribile grido:
«Eccolo! eccolo!»
«Chi ecco?» risponde spaventato il suo compagno; - e
preso da forte tremito lascia cadersi il cereo di mano, il quale
percotendo a terra si spenge.
L'altro impetuosamente apre il volume e col dito convulso scorre
diverse parti delle sue pagine, finchè quasi condotto da
ispirazione lo ferma sopra un punto; tutto anelante con la manca si
tira giù dagli occhi la benda ordinando al tempo medesimo:
«Accostate il torchio, ch'io legga l'oracolo.»
La stanza era buia.
«Gherardo! o messere Gherardo! Il lume! avess'io perduta la
vista! Gherardo, parlate... io non ardisco muovermi per amore
dell'oracolo.»
E Gherardo, per quanto glielo permette il battere dei denti,
risponde:
«M'è caduto il torchietto di mano... abbiate
pazienza...»
Messere Luigi non volle abbandonare il libro, ed ora con umili
istanze, ora con parole concitate, gl'impone riaccenda il lume.
Quando non senza molte difficoltà la candela fu accesa
messere Luigi drizzò bramoso gli occhi al volume e lesse ad
alta voce: Eeu fuge crudeles terras fuge! litus avarum! - rimase
attonito per lunga pezza; l'altro che non intendeva di latino del
suo tremore tremava e non ardiva aprire la bocca; all'improvviso
messere Luigi quasi uscisse dallo spavento del fantasima afferra per
ambe le braccia messere Gherardo e gli dice:
«Rompiamo gl'indugi: - qui non v'ha tempo da perdere,
fuggiamo...
«Oh! Dio! senza cena?»
«Se non preferite il cenare al morire.»
Con terribile impeto di repente si schiude la finestra; i vetri
percossi si spezzano fragorosamente, e per tutta la stanza se ne
spargono i frantumi, al tempo stesso una voce severa si fa sentire
che dice:
«Codardi! voi rinnegate la patria, - la patria rinnega voi;
sgombrate subito; - il nuovo giorno vi troverebbe sospesi per la
gola.»
I due compagni stramazzarono sconciamente per terra; poi si
riebbero, e l'uno all'altro narrò di strane apparizioni, di
odore di zolfo e simili altre novelle; aggiungendo la paura nuova
all'antica, fatto rifascio di quanto lor cadde sotto mano,
insalutata la famiglia, in quella stessa notte fuggirono e
ripararono a Lucca. La storia rammenta i nomi loro; furono Luigi
Guicciardini e Gherardo Bartolini, di professione mercanti. La
rampogna mosse dal magistrato, il quale salito sur un muricciuolo
sottoposto alla finestra vide tutta la scena ed in gran parte la
udiva.
Scese e, ingombro di tristi pensieri, s'incamminò al luogo
del ritrovo, al cimitero di Santo Egidio, noto eziandio col nome di
cimitero delle ossa: di questo luogo di morte adesso non si trova
vestigio; giaceva sul lato di ponente dello spedale di Santa Maria
Nuova; empiva chiunque si facesse a visitarlo di riverenza e di
terrore. Sopra la porta era scritto, Dies nostri quasi umbra, e in
minore cartello la sentenza del divino Alighieri:
/* Le nostre cose tutte hanno lor morte Siccome voi, ma celasi in
alcuna Che dura molto, e le vite son corte. */
In fondo dirimpetto alla porta il Frate e l'Albertinelli
accumulavano, secondo lo stile della nostra religione, a larga mano
immagini di spavento, con le dipinture delle severità del
giudizio finale e gli strazii crudeli dell'inferno; intorno alle
mura e ai colonnati con fiero ordine vedevi accatastate ossa e
teschi, e talvolta fare di sè orrenda mostra scheletri
interi; per ogni dove trofei di distruzione e motti dolenti,
iscrizioni sepolcrali, parole di universale o di particolare dolore.
In cotesti tempi, nei quali la superstizione forte agitava le menti
del popolo, non è da dirsi se durante la notte aborissero
volgere i passi da cotesta parte; e il magistrato la sceglieva
appunto per essere sicuro di non rimanere interrotto nel misterioso
colloquio.
A passi lenti il nostro personaggio percorse due o tre volte il
ricinto; a mano a mano i suoi passi diventarono più celeri: i
pensieri gli sorgevano e roteavano turbinosi in mezzo del capo:
umana favella non avrebbe potuto significare i suoi affetti; in un
baleno scorreva tempi remoti e recenti, immaginava i futuri; si
sdegnava, s'inteneriva, esaltato dalla contemplazione di qualche
alto disegno in regioni meno triste della terra che calpestiamo, si
sublimava, o all'improvviso, morso dal dubbio, gli cadevano
giù le forze e la speranza, e piangeva; finalmente gli
proruppero dall'intimo seno queste parole sconnesse:
«Io cammino su le ossa di duecento e più mila uomini! -
Qual fiamma uscì da costoro prima che si facessero tanto
mucchio di cenere? - Nulla; - e sì, che tutti sortirono un
cuore per sentire, una mente per pensare, un braccio per percuotere;
- nulla! e sì, che l'anima loro ondeggiava continua, come
quella degli altri viventi, tra l'odio e l'amore. - La notte
m'impedisce leggerne gli epitafi; se il sole con la pienezza dei
suoi raggi gl'illuminasse, tornerebbe lo stesso, perocchè il
tempo abbia la sua notte profonda, e l'oblio sia la sua tenebra.
Eppure tante anime non possono avere vissuto invano! Chi sa quanti
Alighieri dal divino intelletto, quanti Micheli Lando, quanti Pieri
Capponi, quanti Giacomini Tebalducci dormono qui sotto i miei piedi!
La lampada arse sotto lo staio, non iscintillò gloriosa sul
candelabro. - Consumati forse dal proprio fuoco si spensero. - Ed
ora che le sorti della patria apparecchiano eventi a manifestare la
virtù che l'uomo ebbe in parte dai cieli... ora giacciono
polvere; le generazioni mancano ai tempi, più spesso i tempi
mancarono alle generazioni. - Voi siete affatto morti; la speranza o
il terrore immagina prolungamento di vita oltre i sepolcri... pure
se impreco pietoso alle vostre ossa pace, o scellerato le maledico,
voi vi restate ineccitabili sotto le vostre lapide di marmo: - s'io
gettassi sopra i vostri cadaveri il corpo di un amico o di un
nemico, nè vi movereste per abbracciare il primo, nè
vi scostereste dal secondo... O creatore! la mia bocca non conosce
la bestemmia, e nondimeno io qui ente mortale tra i morti oso levare
la faccia e dirti che non sempre hai tu fatto del bene; - e se come
il pensiero potessi lanciarti contro le braccia, domanderei ragione
del tuo male. - Da quando io prima apersi gli occhi consapevoli li
tenni fermi al cielo per vagheggiare la stella della speranza e
sentii nel mio cuore l'ardimento delle cose magnanime;...
però talvolta mi si nasconde la stella, e allora sconfortato
a mezzo cammino mi abbandono. Ah! Creatore, - dipartirsi dai cieli,
stendere la mano onnipotente a raccogliere dalla terra un pugno di
cenere, animarla onde soffrisse la stretta delle tue dita e
l'angoscia della caduta per balestrarla un tratto di anni lontana a
tornare cenere sulla medesima terra... certamente non fu segno di
amore. - Centinaia di migliaja d'uomini che dormite sotto, dov'io
potessi evocarvi e costringervi a rispondere a questa mia domanda:
ogni uno di voi annoveri il tempo della sua vita dai giorni che si
sentì felice e mi dica quanto ha vissuto; - quanti, che
giungeste agli ottanta anni, direste: - noi non vivemmo mai! - Ben
con immenso sforzo potranno i mortali scuotere la catena che lega il
mondo al piede della sventura come una palla di supplizio, ma
romperla non potranno. Ecco questa mia patria innocente non ha
difesa; - chiama dal cielo soccorso, e il cielo le sorride sopra un
sorriso di scempio e non l'ajuta. - Le repubbliche italiane ad una
ad una saettate dalla tirannide rinnuovano la storia dolorosa della
famiglia di Niobe. Fiorenza sola rimane ultima, e sopra il suo cuore
si accumula il pianto di tutte; ella eredò un tristo retaggio
di gloria e d'infortunio... Cadrà!... oh cadrà! - e
noi non avremo pianto, e alle nostre ossa oltraggeranno ingrati
nipoti; - già noi vituperano vivi! - Possa almeno essere
grande la sua caduta, come conviene all'astro che contese solo alla
tenebra di errore e di tirannide la quale si addensa sopra
l'universa Italia; - si spenga come la fiaccola all'impeto della
bufera... - Dio, che ci neghi più efficace conforto, sovvieni
almeno l'anima dolorosa in questi ultimi aneliti; - ci manda
dall'alto una virtù che valga a far sì che un giorno
la nostra bella morte sia argomento d'invidia a quelli stessi che
vivono.»
Dante da Castiglione era giunto ai bastioni di San Miniato con
mirabile arte condotti per industria del divino Michelangiolo.
Quantunque il Varchi ci narri nel decimo libro delle sue Storie
essere stati biasimati da alcuni perchè fatti con troppi
fianchi, le cannoniere troppo spesse, per le quali venivano a
indebolirsi, e troppo ancora sottili da non potere reggere l'urto
delle grosse artiglierie, - nondimeno furono tenuti non solo per
cotesti tempi stupendi, ma in epoca più recente meritarono
che Vauban, celebrato ingegnere francese, ne levasse la pianta e ne
prendesse le misure. Questi bastioni cominciavano fuori della porta
San Francesco, e salendo su pel monte circuivano l'orto, il convento
e la chiesa di San Miniato; - così descritto un larghissimo
ovato si ricongiungevano alla porta San Francesco. Nell'orto di San
Miniato era alzato un fortissimo cavaliere che guardava il Gallo e
Giramontino. Ancora poco sotto del convento di San Francesco fu
fatto un altro bastione, il quale con le sue cortine scendeva
giù da oriente fino al borgo di Porta San Nicolò e
terminava con alcune bombardiere poste sopra Arno: altri bastioni e
puntoni e cavalieri costruirono che non importa descrivere, armati
di grossi panconi di quercia, ripieni dentro di terra e di stipa, di
fuori fasciati con mattoni crudi composti di terra pesta mescolata
con capecchio trito.
Non tutte siffatte fortificazioni erano condotte a termine nel tempo
di cui favelliamo, perocchè mancassero i fossi, le vie
coperte e simili altri accessorii; e poichè il nemico stava a
fronte, e di giorno in giorno si temeva l'assalto, così non
ismettevano mai il lavorio di giorno o di notte. Dante salendo pel
poggio si fermò un momento a contemplare un numero infinito
di fiaccole scorrere di su, di giù, da tutti i lati, e al
chiarore di cotesti fuochi ammirò il solenne spettacolo di un
popolo irrequieto per la propria difesa, pago, per mercede, del
contento che l'opera stessa gli somministrava, senza secondi
pensieri, senza idea comunque lontanissima di accordo, nè
anche per ombra dubbioso di potere perdere la prova, fidente in Dio,
fidente nel suo braccio, affatto sublime; popolo vero insomma, non
già sozza, cupida, ignorante, iattante plebe e codarda; onde
sospirando ebbe a dire: - Te felice, o popolo, se non ti fossi mai
lasciato soverchiare dai tuoi eguali! Le mani che trattano la zappa
meglio delle altre saprebbero reggere lo stato. -
Michelangiolo Buonarroti, non vecchio ancora, che di poco
oltrepassava il cinquantacinquesimo anno, di membra vigorose e
spigliate, con quel suo impeto terribile si vedeva trascorrere
veloce da un punto all'altro senza posare un momento; pareva lo
spirito agitatore di tutto il popolo quivi raccolto; lo avreste
detto per quel suo roteare fantastico il genio custode della
città.
Dante, comunque robustissimo uomo fosse, indarno si affaticava a
raggiungerlo; ora se lo vedeva comparire sopra la testa, ora sotto i
piedi, or lontano su i lati, sicchè quasi stava per
disperarsi. Da qualsivoglia parte Michelangiolo si volgesse lasciava
utili insegnamenti o esempi buoni o parole che poi diventavano
sentenze tra quei popolani innamorati della sua virtù. Giunto
presso a certo parapetto non anche condotto a termine, parendogli
che troppo tardassero a compirlo: «O neghittosi!»
favellò, «non sapete voi che da questo lato domani
potrebbe entrare la palla mortale per la nostra amorosissima
patria?» E gli operai: «l'uomo fa quello che può,
maestro, noi non abbiamo mica cento braccia.» - «Cento
braccia», riprende Michelangiolo, «non bastano là
dove basta un sol fermo volere?» E gli operai di nuovo:
«Non ci garrite, Michelangiolo; noi stiamo dietro a cotesti
altri che pure hanno cominciato il cómpito quattro ore prima
di noi.» -
«Guai a quello», replica tosto il Buonarroti, «che
cerca difesa al proprio fallo nel male operato altrui: chi va dietro
ad altri non gli passa mai avanti.» - «Con voi maestro
non si vince nè s'impatta: tra due ore ve lo daremo
finito.» - «Oh! questo si chiama parlare; a rivederci
fra due ore.» - Di lì balza a un fosso, dove gli
scavatori essendo addentrati un braccio più della persona nel
terreno attendevano a penetrare più oltre; la voce di
Michelangiolo passando gli ammonisce: «Figliuoli, la terra su
i poggi è più solla che al piano; badate che smottando
non vi seppellisca: ponete due assi lungo le pareti e puntellate con
una trave per traverso a contrasto, allora siete sicuri come in casa
vostra.» Altrove volgendosi, ecco incontra un gruppo di uomini
i quali si sforzano a portare su in cima al poggio una grossissima
lastra di pietra; vi sottopongono tutte le mani; poi riunendo i
conati tentano di pure una volta rotolarla; i muscoli dei bracci
risaltavano nella maggiore loro tensione, protuberanti le vene delle
tempie, gli occhi quasi scoppiati fuori dell'orbita. Michelangiolo
si compiacque alquanto nel considerare cotesti arditi contorni; -
vagheggiò quella parte dell'orditura del corpo umano, poi,
soddisfatta la voglia di artista, lo prese amore dei male accorti:
«Indietro!» grida, entrando improvviso in mezzo di loro,
«porgetemi dei travicelli; qui, spingeteli qui dentro; ora vi
adattate sotto una pietra; notate, quanto più il punto di
appoggio si accosta al punto di contrasto, maggiore forza acquista
la leva: - ora da questa parte, uniti insieme, pieghiamo la leva
verso terra... su... su... su... ecco voltato il lastrone...
continuate in questa maniera, e fra mezz'ora lo avrete posto in
cima.» Di lì si stacca, e arriva ai fossi che si
scavano sopra altra parte del monte: i manovali barellano la terra
e, gettandola lungo i baluardi, s'ingegnano a renderli sempre
più stabili; un vecchio di bell'apparenza e di sembianza
degna di meno umile ufficio, rimasto solo, si sforza di recarsi in
capo la barella, e senza aiuto far solo e vecchio quello che gli
altri in due e giovani fanno; però la facoltà non
rispondeva al proponimento, sicchè nel volto gli si legge
l'ostinazione che manca, e lo sconforto che comincia. Michelangiolo
gli è sopra, lo considera alquanto e poi:
«Padre», gli dice, «e' parmi che voi non siate
fatto per così basse opere.» - «Bassa
opera!» risponde il vecchio; «quando torni in
utilità della Repubblica, io non so come la si possa chiamare
bassa.» - «Ma via, tra zappare, barellare la
terra», soggiunge il Buonarroti, «e dettare leggi ci
corre a mio parere una certa tal quale differenza.» E il
vecchio: «Quando tutti i Romani zappavano, vinsero
tutti.» Michelangiolo soprastette alquanto pensoso, quindi
riprese: «Però le forze vi mancano... e per troppi anni
siete male atto a coteste fatiche.» - «Ah! poco pietoso
cittadino, perchè mi fai sentire con le tue parole l'amarezza
di non potere giovare meglio alla mia patria? Era pure più
degno di te, invece di consumare il tempo in vane novelle, stendere
le braccia e porgermi aiuto a trasportare la terra.» -
«In fè di Dio tu hai ragione.» E qui
Michelangiolo, presa la barella dalle stanghe di dietro,
perchè, salendo il monte, minore peso sentisse il vecchio,
gli dava aiuto a portare.
Costretto Michelangiolo a procedere a lenti passi, concedeva agio al
Castiglione di raggiungerlo, come infatti anelante, bagnato di
sudore il raggiunse, e tostochè gli venne accanto, con voce
ansiosa lo chiamò:
«Messere Michelangiolo!»
«Che ci è egli, mio bel garzone?»
E Dante, vie più accostandosegli, sommessamente gli dice:
«Il gonfaloniere manda per voi.»
«Ora non posso; bisogna prima che porti questa barella; subito
dopo sarò con esso voi.»
Quando la terra fu scaricata, Michelangiolo con amorevole piglio si
volse al vecchio così interrogandolo:
«Padre, vorreste voi dirmi il vostro nome in cortesia?»
«Nacqui nel contado di Fiorenza, ho lavorato i suoi campi, ho
combattuto le sue battaglie, ho pianto alle sue tribolazioni; il
nome nulla aggiunge o toglie alla mia vita: mi chiamo uomo.» E
levatasi la barella sopra le spalle, se ne ritornava là donde
si era dipartito.
«Costui», esclama Michelangiolo accennandolo col dito al
Castiglione, «dev'essere uomo fatto grande dalla sventura o
dalla pazzia.»
Era cotesto vecchio il padre di Annalena; se Michelangiolo
indovinasse giusto, a suo luogo e tempo saprete.
«Or via ditemi, messere Dante, a che mi chiama il
Carduccio?»
«Per cosa al certo di gravissimo momento, - Dacchè con
molto arcano vi aspetta nel cimitero di Santo Egidio.»
«Sta bene! obbedisco; seguitemi un istante.»
Ciò detto, riprende quel terribile uomo i suoi presti passi;
rifacendosi dalle falde del monte s'indirizza alla cima visitando le
opere, lasciando ordini e tuttavia ammonendo, rampognando e lodando:
venuto al sommo del poggio, si volta improvviso ad una forma che
così al barlume Dante su le prime non ravvisò se fosse
o no animata, e con affettuose parole le dice:
«Deh! in guiderdone al tuo fattore, o Vittoria, finchè
io ritorni non partirti da questi baluardi.»
«Che cosa è ella, Michelangiolo?» domanda Dante.
«Vedi!» e presa una torcia di mano a un marraiuolo che
passava, svela allo sguardo del Castiglione stupefatto una statua
colossale rappresentante la Gloria militare o la Vittoria, scolpita
in un masso di pietra serena; ella era in atto che, volgendo il capo
dall'altra parte, non curava mirare la città di Firenze, che
appunto le veniva a mano sinistra; aveva l'ale, in capo l'elmo, ed
armi e simboli altri diversi sparsi sul monte che le serviva di
base.
«Che te ne pare?»
«Mi pare divina.»
«La è poca cosa... Io l'ho condotta così alla
grossa senza modello e di notte.»
«Di notte?»
«Certo di notte... perocchè dormendo non mi riposo; il
sonno, vedi, mi addolora la testa e mi fa cattivo stomaco; io mi
sono fatto una celata di cartoni, ci adatto in cima una torcia, e in
questo modo lavoro alla Vittoria.»
Dante si sentiva oppresso da tanta grandezza accompagnata da
così alta modestia; se in quel punto Michelangiolo gli avesse
imposto: - Curvati e adorami, - egli lo avrebbe adorato;
imperciocchè le anime generose, quantunque svisceratissime
della libertà, tocca profondamente la religione del genio...
Dopo un breve silenzio quasi supplichevole gli domanda:
«Divino intelletto, ditemi, perchè la vostra Vittoria
il capo torce dalla vista di Fiorenza?»
E Michelangelo dopo un lungo sospiro:
«Perchè? o Castiglione, che so che accogli cuore
sdegnoso dentro al tuo seno, mi domandi il perchè? Mi
risparmia l'amarezza di palesartelo... tu dovresti averlo già
indovinato.»
«Pur troppo! Ogni antico valore nei fiorentini petti è
affatto spento.»
«Lo hai detto.»
«E allora voi scolpiste in dileggio questa Vittoria?»
«Io non ho schernito mai... spesso rampogno; - io le scolpiva
l'ale di pietra, perchè il suo volo fosse lento; - i
Fiorentini, se vogliono, possono ancora raggiungerla. Se molto temo
che fugga, più molto spero rinvenirla al suo posto; nè
mai l'amore si scompagnò dal timore. Adesso andiamo.»
E qui con la mano destra si fregava la manica sinistra, e con la
mano manca la manica destra, poi con ambedue forte scoteva i lembi
del saio per cacciarne la polvere; ciò fatto, ripete:
«Andiamo.»
«Buona notte, messere Carducci, eccomi ai vostri
comandi».
«Ben venuto, Michelangiolo. - Dante, andate a vigilare su la
porta e, per cosa che accada, non lasciate penetrare anima viva qua
dentro.»
Il Castiglione silenzioso pone la sua persona colossale traverso la
porta del cimitero; una sbarra di pietra non ne avrebbe meglio
impedita la entrata.
Il Carduccio con mano tremante impalma il Buonarroti e poi comincia
in suono che profonda commozione rendeva fioco:
«Michelangiolo, se, comunque alto il sacrifizio che or vi
propongo pur fosse a cuore umano possibile, già non vi
chiederei io fin dove la patria possa fidare su voi,
avvegnachè a chiara prova conosca il vostro nome suonare
quanto di grande si comprende e di magnanimo nel mondo. Però
il caso presente è tale ch'io mi veggo forzato a dirvi prima:
Michelangiolo, potete voi nulla rifiutare alla patria?»
«Nulla.»
«Michelangiolo, avete bene compreso la domanda? Avete misurato
intera l'ampiezza della vostra risposta?»
«Carduccio mio, quando architetto o scolpisco, io misuro:
quando mi affatico in pro di Fiorenza, io sento; - il cuore che
delibera è già freddo, e dai carboni spenti avrai
fumo, non fiamma. Insomma, siccome voi non mi domandereste cosa che
voi stesso non foste apparecchiato a fare, così ancora io mi
chiamo pronto a farla.»
«Michelangiolo, io non la farei.»
«Voi non la fareste!»
«Io con queste mie mani chiunque me la proponesse ucciderei...
il mio sangue a goccia a goccia e tra i più acerbi tormenti
versato, la vita dei miei figli, le mie case alle fiamme... tutto
questo darei... ma non mi basterebbe l'anima, oh! non mi basterebbe
pel sacrificio che domando da voi.»
«Allora, Carduccio mio, voi avete dimenticato essere
Michelangiolo uomo: in me i terrori e i dolori, in me i consigli
incerti, la costanza poca, le passioni del cuore, la
imbecillità della mente, come in qualunque altro mio fratello
di morte: perchè mi domandereste cose superiori alla umana
natura? Chi vi dava dritto a suppormi angelica creazione? Se voi
poteste vedermi a questa ora le sette rughe impresse sopra la mia
fronte, comprendereste di leggieri starmi ancor io in podestà
del tempo ed essere caduco e mortale.»
«Eppure quanto io domando, o da voi solo o da nessun'altra
creatura nel mondo si può...»
«A Dio non piaccia ch'io mi senta men grande di quello che
altri s'immagina, o il bene della mia patria abbisogna. - Magnifico
gonfaloniere, parlate.»
«Da una parte v'è tale una gloria che gli angioli
stessi potrebbero desiderare nei cieli, - evvi una corona splendida
più che se fosse di stelle; - un'altezza quale gli uomini
possono invidiare, non vincere od aggiungere giammai - una rinomanza
presso cui i più famosi dei tempi trascorsi o recenti
impallidiscono superati dalla nuova luce; - nessuna favella
basterebbe a cantarne le lodi, qualunque nome conosciuto fin qui
sarebbe poco alla sua virtù... nè liberatore nè
salvatore nè ottimo massimo troveremmo sufficenti; - se gli
uomini non lo chiamassero Dio, certo come Iddio lo adorerebbero e
terrebbero in pregio. - E dall'altra parte una infamia perenne, un
nome irrevocabilmente accompagnato a quello di Giuda, una scusa
eterna ai codardi che rinnegano la virtù, una rovina senza
fine e senza riparo. L'aquila delle Alpi rade con ala potente il
margine del precipizio e le rupi scoscese; ella può giunta
sulla vetta del monte più alto posarsi alquanto a librare
nuovo volo e confondersi eccelsa pei cieli... Qualche mortale
rassomiglia all'aquila.»
«Messere Carducci, apritemi il vostro pensiero.
«Ecco, io vi parlerò come al cospetto di Dio, da cuore
a cuore, senza celarvi nessuno dei più riposti arcani.
Michelangiolo, la patria si versa in presentissimo pericolo, ed io
dispero di salvarla.»
«Oh dolore!»
«Una speranza rimane, e consiste nei soccorsi dei principati
d'Italia. Il popol nostro di per sè solo opererebbe prodigi,
ma il popolo crede ai suoi profeti, e molti tra questi io ne conosco
falsi. Voi ben sapete i Medici essere stati banditi non in benefizio
del popolo, sibbene in pro degli ottimati, i quali intendevano
governare invece di loro; la parte del Cappone pertanto, non che
guadagnare con la cacciata dei Medici, ha perduto e adesso desidera
restituiti gli antichi signori per ricuperare almeno in parte quanto
si vide portar via dalle mani cupide e fiacche. Ella non perdona la
mia promozione all'ufficio supremo; già medita gli accordi e
non conosce, incauta! che vuole presentarsi di suo moto spontaneo al
carnefice con la corda al collo. Qualsivoglia atto del governo
calunnia, ogni via impedisce, inosservata gli sega le vene e gli
toglie le reliquie estreme del suo vigore; il popolo, amico sempre
del bene, ma deluso dalle apparenze, nella fiducia di commettere
opera pia lapiderà i suoi veri difensori, e, prima che abbia
tempo di ravvisarsi, avvinto nelle mani, col frenello alla bocca,
non gli sarà concesso il dire e l'operare; - sogliono poi i
tiranni lasciare liberi gli occhi per piangere. Manca la pecunia
perchè nascosta nelle viscere della terra, e il governo mal
può adoperare gli argomenti usati dai principi per farla
ricomparire. - Mi turba il sonno lo scaltrito Baglioni, non mi
assicura il Colonna, vedo gli altri capitani discordi tra loro. A
noi abbisognano per vincere esterni sussidii, sieno pur pochi, sieno
misteriosi, anzi giova che sieno; tanto varrà perchè
la parte del Cappone, dubbiosa e tremante, sospetti noi non
sostenere soli la prova; - se malgrado le mostre diverse ella
potesse mai credere che molti potenti aiutano copertamente Fiorenza,
questo le scemerebbe l'ardire. Allora vorrà farsi merito di
quello che teme non potere ovviare; il danaro che ormai non possiamo
più avere per leggi, conseguiremo per via di doni,
d'imprestiti, per sovvenzioni spontanee; - conviene ravvivare il
credito dello stato presente. Due soli governi in Italia, se
l'antica prudenza da loro non si scompagna, hanno l'obbligo
d'aiutarci, il duca di Ferrara e i Viniziani; il rimanente paese
divorò la fortuna di Cesare: - il papa acciecato da ira
strinse lega col suo implacabile nemico; - egli pensa tenere la sua
nella destra di Carlo in segno di amicizia; questi invece glie la
stringe imprigionata e gli sorride in volto. Il regno cadde in
potestà dell'imperatore, il ducato di Milano sta per caderci,
il Doria strascina Genova come un'ancella dietro il carro della sua
fortuna; tralascio gli altri; e fermo le mie speranze sopra Alfonso
di Ferrara e Andrea Gritti di Venezia.»
«Datemi incarico di ambasciatore, e corro in poste fin
là: ambedue mille volte mi si dissero amici; che cosa
significhi amicizia dei grandi veramente non so, lo proveremo
adesso.»
«Michelangiolo, amicizia è moneta che non corre tra gli
stati; - il principe amico, quando non trova vantaggio in aiutarti,
ti piange e ti lascia morire.»
«In ogni modo proviamo.»
«Se voi vi presenterete nelle loro città con pubblico
ufficio, non che otteniate i soccorsi, vi cacceranno senza
ascoltarvi.»
«O come può accadere questo?»
«Alfonso odia Cesare, ma più che odiarlo il teme;
già di nemico diventato servo, a grave prezzo corrompe i suoi
consiglieri; egli s'ingegna a fargli obliare le vecchie offese, e
molto più si affatica ad ottenere nuovo favore,
imperciocchè egli abbia insieme con Clemente papa compromesso
in mano a Cesare le controversie su Modena, Reggio e la
giurisdizione di Ferrara. Tra Cesare poi e i Viniziani non si
è per anche asciugato l'inchiostro del trattato di Bologna
pel quale formarono lega offensiva e difensiva...»
«Dunque ogni speranza è perduta?»
«Oh! no. I Viniziani inoltre ci conservano rancore
perchè, quando calò negli stati loro il duca Arrigo di
Brunswick, non li soccorremmo; noi accusano di tradimento, come
quelli che mandammo primi oratori a Cesare per accordare...»
«E più s'intristisce la bisogna.»
«Ma voi sappiate che questi non furono falli o rimessi da
loro, perchè anche dopo più volte promisero non
avrebbero fatto pace senza inchiudervi i Fiorentini, e il doge
Gritti, richiesto dall'oratore Gualterotto, rispose: la repubblica
viniziana non avere mai commesso cose brutte nè avrebbe
cominciato adesso a commetterne; - ciò non pertanto si
accordano con Cesare, e noi non rammentano. Il duca Alfonso ci prese
tremila cinquecento ducati, non mandò don Ercole, come si era
obbligato per la capitolazione; invece presta al papa le artiglierie
e duemila guastatori contro Fiorenza. Di qui argomentate non
già la fede poca, sibbene la servitù molta alla quale
si trovano ridotti i principi italiani.»
«Carduccio mio, come per me si possa rimediare a tanta piena
di sciagure io non saprei...»
«I Viniziani e il duca devono mandarci soccorsi, e voi andare
a chiedergli.»
«Ma se mi avete poc'anzi assicurato che mi cacceranno via
senza ascoltarmi!»
«E vi ho detto il vero, quando vi presentaste in aspetto di
ambasciatore; bisogna pertanto penetrare nelle loro città
inosservati, come la goccia del cielo si confonde col mare; in modo
che il papa e Cesare, uomini entrambi, se mai ne nacquero al mondo,
scaltrissimi, non sospettino nulla; bisogna eziandio che le paure
del duca e dei Viniziani non si destino, - ed è questa
difficilissima impresa; si vuole ancora, ottenendo il soccorso,
arcano impenetrabile in celare da cui muova, e quindi spedire a
costoro persona nella quale essi confidino; si vuole finalmente il
segreto medesimo non gli ottenendo, perchè se la città
sapesse che noi abbiamo riputato insufficienti le nostre
provvisioni, nè ci venne fatto aumentarle, scaderebbe
dell'animo, ed ogni cosa anderebbe perduta; onde io per un mio
giudizio non voglio sperdere questa tavola estrema di salute.»
«Io mi offerisco andare, ma il modo da praticarsi per la
partenza e il ritorno non vedo agevole...»
«Conviene che Michelangiolo ad un ratto di animoso diventi
codardo ed abbandoni la patria nel suo maggiore bisogno; - conviene
che si lasci sopraffare dalla paura e fugga dalla patria nel suo
estremo pericolo; - così in sembianza turpe finga ricoverarsi
in Ferrara: avrà danaro per guadagnare i consigli del
principe; - pessima condizione degli uomini presenti, dai quali
è forza comprare il delitto e la virtù, e i quali
indifferenti l'una o l'altro ti vendono! Innamorato della bellezza
del fine, non volere attendere agli espedienti; bisogna prendere gli
uomini pei manichi che ti presentano: i Romani avrieno lapidato
Morone, la gente di oggi reputerebbe folle Catone. Così
appianate le vie, entra dal signore e digli: Alfonso, tu pensi
tenere sul capo una corona di duca, e noi invece di corona vi
contempliamo un artiglio dell'aquila imperiale; - improvvido! non
sai che luogo ella aspetta e tempo a stringerti sì che tu ne
muoia di affanno. Tu ci rammenti l'antico Damocle seduto a mensa con
la spada sospesa sopra la testa. - Poi va a trovare il doge Gritti e
il senato viniziano e seco loro adopra queste altre parole:
Cittadini, quando una repubblica esulta ai danni di una sorella,
segno è certo che Dio l'ha colpita di cecità; - voi
avete smarrito l'antico senno; rammentatevi i tempi passati;
Fiorenza aveva guerra con Filippo Visconti duca di Melano, - la
fortuna procedeva avversa ai Fiorentini. I padri vostri richiesti di
aiuto negavano. Messere Lorenzo di Antonio Ridolfi oratore per la
nostra città, vedute riuscire le preghiere invano presso il
vostro senato, proruppe così: - Viniziani, nell'anno scorso i
Genovesi da noi abbandonati Filippo crearono principe; noi nelle
presenti strettezze da voi non soccorsi lo faremo re, e voi, quando
sarete rimasti soli, noi vinti, e che nessuno, ancora che il voglia,
potrà recarvi aiuto, lo farete imperatore. - I vostri padri
ci sovvennero, Filippo non vinse, stettero le libertà
italiane. - Consiglia il duca e il doge a licenziare parte delle
loro milizie, e ciò potranno con tanto minore sospetto
eseguire, in quanto che fermarono pace; mediante i nostri banchi di
Venezia ci somministrino copia di danaro, lo renderemo alla pace;
noi con quella pecunia condurremo agli stipendi nostri le milizie
licenziate, e nelle nostre mura difenderemo la causa
d'Italia.»
Qui tacque, ma la parola Italia scorrendo lungo le mura di quel
recinto silenzioso parve, come framezzo un sospiro, ripetuta da
labbra invisibili; - forse le nude ossa quivi dentro raccolte
trovarono una reliquia di spirito per susurrare il nome della patria
che vivendo avevano amata cotanto.
Michelangiolo tiene fitta la faccia al suolo, e in questo modo
atteggiato risponde basso:
«Grave cosa mi chiedete voi...»
«E tale che non mi dà il cuore di farvene ressa.»
«Prendere un nome fin qui intemerato e strascinarlo nel
fango!...»
«V'hanno materie che il fango non contamina, ma
forbisce.»
«Tu chiudevi una mente altera, o Michelangiolo; novello
Titano, intendevi imporre monte a monte, e salito su l'ultima vetta
maravigliare con la tua gloria le genti; nè per te solo tu
ambivi questo, sibbene per la tua patria diletta, perchè non
ti saresti stancato mai di gridare: contemplate, o popoli, il figlio
di Fiorenza; ed ora precipitare da così superba altezza,
morire infame, desiderare l'oblio e non potere ottenerlo, chè
il vituperio porrebbe un segno eterno alla tua tomba, presentire le
contumelie e gli oltraggi che sopra vi lancerebbero anche i
più tristi!... oh! è grave una lapide di
maledizioni... e troppo pesa, Carduccio!...»
Il Carduccio, traendo un sospiro lungo, volge le spalle e lentamente
muta due o tre passi per andare.
Michelangiolo allo improvviso scuote la testa e, risolutamente
alzando la faccia, esclama:
«Su.... su, le ispirazioni vengono dal cielo... dalla terra
emana il cattivo consiglio...» E non si vedendo più
davanti il gonfaloniere:
«Messere Francesco, dove andate voi?»
«Voi mi avete fatto comprendere che domandava troppo... Io me
ne vado al mio posto e a morire...»
«Rimanete, per Dio! egli era il lamento di una ambizione che
muore; ecco ella è già morta; io ho levato al cielo il
pensiero e lo sguardo e non invano, chè dal cielo mi è
scesa la virtù che sublima; io mi sono innalzato faccia a
faccia coll'Eterno; la vita e il tempo passarono; mi sento
immortale. La religione di Cristo ebbe i suoi martiri, perchè
non gli avrebbe la patria? È religione la patria. Il padre
delle misericordie forse non vorrà che il mio sepolcro sia
grave di tanto vituperio; - svelerà, prima che i secoli
cessino, l'arcano, e raccogliendo il raggio più puro del
quale rese lieta la prima stella creata, lo circonderà di
luce, - lo convertirà in monumento durevole del più
immenso, del più doloroso sacrificio che umano intelletto
abbia mai potuto immaginare; - o se nei cieli è destinato che
la mia apparente vergogna viva quanto il moto lontana, io lo
pregherò in mercede della infinita amarezza sofferta che la
mia anima ponga alle porte del paradiso; quivi aspetterò le
anime di quelli che maggiormente mi avranno maledetto, le
bacerò in fronte, le chiamerò sorelle e, scortandole
al trono di Dio, io gli dirò: Signore, fa che i tuoi angioli
cantino osanna a questa anima dabbene perchè mi ha odiato con
ogni sua potenza. - Ora però, o Creatore, sovvieni alla tua
creatura, tu fa in modo che come mi esaltasti lo intelletto a
scegliere, così il cuore mi basti a condurre a fine l'alto
proponimento; in te ripongo ardentissima fede; - senza la fede in
Dio non si sacrifica l'uomo; - e se tanto possono le mie
supplicazioni, o Signore, ti plachi il mio sacrificio, e salva la
Patria.»
Dietro i nuvoli nerissimi che il firmamento ingombravano era sorta
l'amica dei cuori dolenti e dei sepolcri, la luna; - quasi vogliosa
di contemplare anch'essa lo spettacolo di virtù che in
quell'ora si operava sopra la terra, penetrò co' suoi raggi
traverso due lembi di nuvoli e ne vestì la faccia di
Michelangiolo. - Quel volto terribile di grandezza e di genio
apparve sublime; - sembrò che Dio gli mandasse una
benedizione di luce. Così, il Battista battezzando
Gesù con le acque del Giordano, si apersero i cieli, lo
spirito dell'Eterno discese, ed una voce fu udita nell'alto che
disse: - Ecco il mio diletto Figliuolo, nel quale io prendo il mio
compiacimento. -
Dante da Castiglione udendo forte profferire patria ed Italia, si
commosse a coteste parole, non altrimenti che un destriero di
battaglia al suono della tromba; non potè starsi fermo al
posto assegnato, si accostò pianamente e, raccolto l'ultimo
discorso del Buonarroti, percosso dall'improvvisa apparenza del
volto di lui, piegò involontario un ginocchio sul suolo, e
recatosi in mano il lembo delle sue vesti, lo baciò con
quella devozione con la quale sogliono i fedeli baciare le reliquie
dei santi.
Francesco Carducci, preso da irresistibile impeto, gettò ambe
le braccia intorno ai fianchi di Michelangelo e forte stringendolo
esclamò:
«Tu se' l'onore della specie umana!»
NOTE
(a) Fu insigne la malafede dei Veneziani in danno dei Fiorentini, e
documento grande nelle presenti condizioni d'Italia: astio o
viltà che gli movesse, pensarono i Veneziani far parte da
sè stessi, e gli altri e loro finalmente precipitarono. La
corrispondenza dell'oratore Cappello in più luoghi chiarisce
com'egli si sbracciasse a tutto uomo a tenere fermi i Fiorentini
nella lega co' Veneziani, mentre questi della costanza degli alleati
valevansi per ottenere patti migliori da Carlo V: e siccome il
Cappello assai diritto uomo era, lasciavanlo senza istruzioni per
potere poi disapprovarne l'operato secondo capitava. Arti inique e
antiche nè tali che vogliano smettere gli uomini di stato;
almeno per ora. Più tardi i Veneziani scusaronsi incolpando
Firenze di avere la prima mandato ambasciatori a Cesare, ma e' fu
pretesto, conciossiachè l'ambasceria non aveva concluso
nulla, e i Veneziani lo seppero, e ciò nonostante quasi ogni
giorno gli andavano confortando con la promessa di soccorsi grossi e
spediti; volersi mettere a repentaglio di ogni fortuna per sostenere
in Firenze la libertà della Italia: insomma i Veneziani
tradirono quanto Francia o Ferrara. Queste cose sappiano
gl'Italiani, le sappiano, le deplorino ed imparino a camminare
diritto nei nuovi casi che loro allestisce la provvidenza: non
adoperandoci giudizio, il meno che può andarne è di
trovarci per un altro mezzo secolo in balia degli stranieri e dei
preti.
(b) Altra piaga d'Italia (e, ahimè! se ne annoverano
più di cinque) allora come ora questi piccoli principi; ed in
oggi peggio, perchè stranieri; gli stati o i popoli in mano a
loro, poderi e armenti da sfruttare. Grave sempre la tirannide, ma
meno incomportabile la paesana: in questa il principe sta attaccato
al paese come alla terra che lo ha a nutrire e a tumulare;
nell'altra il principe mette tutto in tasca, vive in piedi e col
bastone in mano come una volta gli Ebrei il dì di Pasqua. La
Italia dalla forza nemica, dal senno poco, dalla voglie scomposte,
stette divisa col consiglio medesimo col quale si sminuzza il cuore
davanti l'uccello di rapina onde se ne pasca; qual sia l'uccello di
rapina nostro non importa dire, e per di più ha due becchi.
CAPITOLO DECIMO
FRA' BENEDETTO DA FOJANO
Indarno allor dagl'inspirati pergami
Uscìo suon d'evangelica parola
Che: Beati, gridò, beati i miti!
Cadean siccome sola
Voce in deserto.
Buondelmonte, tragedia.
Già le stelle di momento in momento diventavano più
rade nel cielo; le palpebre dell'alba erano aperte, quando
Lucantonio padre dell'Annalena, ristorate di breve riposo le membra,
si destava per affrettarsi alle opere della difesa. - Postosi a
giacere col pensiero fisso agli assalti imminenti, venne a turbarlo
un sogno di palle briccolate contro la sua casa, di mura abbattute,
di pietre le quali rovinando offendevano il corpo gentile della cara
figliuola: - si sveglia esterrefatto e, balzato a sedere sul letto,
volge bramoso gli occhi ed intende gli orecchi; - dappertutto
silenzio.
La innocente vergine dorme supina sopra un lettuccio a canto quello
del padre, - le mani tiene abbandonate lungo i bei fianchi, le gambe
tese, il capo alquanto chino su la spalla destra in dolce atto di
quiete: - la lampada solitaria che arde nella cameretta davanti la
immagine della Madonna diffonde una luce pallida sopra il suo volto
già fatto bianco dal riposo: - ella poi non alita. - Il
silenzio, il pallore, la posatura simile a quella con la quale si
compongono le membra delle vergini trapassate quando si menano al
sepolcro, - lanciarono nell'anima tuttavia paurosa del vecchio tale
un dubbio tremendo per cui egli alzò le mani disperatamente
al cielo e si fece livido in volto; - ma in questa la donzella
sciolse un sospiro, e il padre confortato lasciò cadersi con
la faccia sopra i guanciali e pianse le più soavi lacrime che
mai sgorgassero da occhi umani.
Si veste cauto, si accosta silenzioso al casto letto e lieve lieve
curvatosi bacia in fronte la figlia, poi giunge le mani, guarda la
Madonna con uno sguardo lungo, e con quel guardo meglio di
qualsivoglia favella esprime la preghiera: Madre del Signore, deh!
non richiamare per ora questo angiolo al cielo; - poi quinci si
tolse, ed in andando mormorò sommesso le seguenti parole:
«Ai ripari... ai ripari! nessuno può renderle i
genitori.... almeno non le venga tolta la patria.»
E il volto della vergine addormentata era bello davvero, se non che
sopra quella fronte tu vedevi un segno, - quasi orma di pellegrino
sopra neve poco anzi caduta, - il segno di un dolore che aveva
precorso lo intelletto: perocchè non blandiva i suoi pianti
la carezza materna, nè ai suoi vagiti sorrise labbro di
genitrice china sopra la culla, - primo paradiso e il più
benigno (per quanto possiamo giudicarne quaggiù) che la umana
creatura conosca; - su quel volto posava una mestizia misteriosa ed
arcana, nè dove tu avessi ignorato il segreto del suo cuore,
avresti potuto indovinare se quel suo consumarsi fosse del fiore
reciso nel più vivido rigoglio della vita, o se piuttosto
tocco dall'alito ardente una divina rugiada lo richiamasse ad
esalare un sospiro di profumo e morire, - s'egli fosse il saluto
primo o l'addio ultimo della sventura. - Ad ogni modo l'affanno la
spruzzò colle sue acque lustrali.
All'improvviso schiuse i labbri e pur dormendo sorrise. -
Perchè sorride la vergine? Sogna aver l'ale alle spalle ed
abbracciare su i fianchi un angiolo ed esserne abbracciata. Sogna un
cielo chiaro e sereno dove si avvolgono perpetuamente in moto
armonioso miriadi di globi lucenti, e parle che il compagno le dica:
Vieni, voliamo a raggiungere cotesta stella colà che sopra
tutte le altre scintilla: - e volano, volano... l'aria percossa
sibila loro dietro le spalle, e la stella è raggiunta, poi da
lontano contemplano un augellino che si affretta cantando, e il
compagno riprende: - Vieni, voliamo ad interrogare quell'augelletto
- e in meno che non balena gli stanno sopra; - egli invano raddoppia
il batter dell'ale, - ei l'hanno preso: Dove vai, uccello,
chè tanto ti affretti cantando? - Mi affretto a cibare i miei
pennuti, e canto lieto al mio Creatore che mi fece rinvenire l'esca
con la quale nudrirli. - Va, va, augelletto; così ti sieno
preste l'ale al volo e Dio ti preservi dal falco. - Poi il compagno
riprese: - L'ora della preghiera è venuta; - e così
dicendo comincia dolcemente un inno al Signore; - ella si volse a
contemplarlo in viso... - santi del paradiso! Vede le belle
sembianze di Vico, le quali, quanto egli più s'infervoriva
nella preghiera, tanto più diventavano luminose, - roventi
quasi, - alfine i suoi occhi come feriti non possono sostenere la
vista, - ella si desta... e freme... raggio di sole penetrando
traverso lo spiraglio della finestra si posava sopra le sue
palpebre.
Lascia le tepide piume, si avvolge entro un guarnelletto bianco, e
tra mesta e lieta si avvia nel giardino, sua cura amorosa, qui
giunta, si pone a scegliere i fiori che meglio vaghi le pareano e
leggiadri, e con un ginocchio piegato a terra, come la Matilde
dell'Alighieri, tesse una ghirlanda cantando una soave canzone in
lingua di Spagna, la quale volta nella nostra toscana favella
suonerebbe così:
«Ben venga la rosa, la superba regina dei fiori; ella deve
comporre la mia ghirlanda, perchè si assomiglia alla guancia
del mio gentil damigello.
«Ben venga il ranuncolo dalla foglia di porpora, venga e
componga la mia ghirlanda, perchè i suoi colori vivaci si
assomigliano ai labbri del mio gentil damigello.
«Ben venga il giglio candido dallo stelo slanciato: la sua
bianchezza è il simbolo della purità del mio gentil
damigello, il suo stelo si assomiglia alla sua bella persona.
«Ben venga tutta la varia famiglia de' fiori; io ne ho
intrecciata una ghirlanda e vo' posarla sopra il suo capo: se fosse
di alloro, io non ve la porrei; l'alloro troppo spesso crebbe con
lagrime fatte piangere all'uomo dall'uomo che se ne incorona; troppo
spesso chi porta la ghirlanda di alloro se la vorria mutare in benda
sugli occhi per non vedere le miserie che seminò sopra la
terra.
«Tu porta lietamente la mia ghirlanda, gentil damigello: -
ella crebbe tra' sospiri della voluttà, la irrorarono lagrime
di gioja - ella fu côlta dalla mano d'Amore.»
Ma invece di ghirlanda ella compose un mazzetto e se ne tornò
dal giardino, siccome v'era andata, tra lieta e pensosa; quando pose
il piè nella stanza, guardò la immagine, - poi il
mazzetto, e diventò più trista: mentre rilevava lo
sguardo, a caso le cadde sopra uno specchio e sorrise, perchè
si vide bella, e si acconciò le chiome; - subito dopo
arrossì quasi punta dal rimorso, corse al vaso che stava
davanti la immagine, ne gittò via i fiori appassiti, e nel
gittarli pensò: tale è la vita della femmina, fiorisce
un giorno! - rinnova l'acqua e colloca il vaso al suo posto; - la
lampada prossima ad estinguersi è riempita di olio, il
domestico altare assettato.
Le diverse bisogne compiute, Annalena si prostra e prega:
«Vergine santissima, il primo pensiero della mia anima
risvegliandomi era tuo... ora... non più... ma tu vorrai
perdonarmi... non ti ho supplicato che tu m'ispirassi per conoscere
se mal facevo ad amare un ente mortale, come amo te?... e l'angiolo
custode da parte tua non mi ha dissuaso, anzi egli mi parve mi
confortasse ad amarlo. Madre di Dio, ti raccomando il mio povero
padre; - la mia genitrice già da gran tempo al tuo fianco non
abbisogna delle mie preghiere; - e poichè così piace
al cielo, non meno ti raccomando il mio diletto...» Qui fissa
contemplando la immagine, le parve che dal vetro dentro il quale
stava custodita mandasse un baleno: volse la faccia, e...
Vico Machiavelli, splendido in vista quanto l'arcangiolo Michele,
cinto di forbita armatura, le comparve alle spalle; le lucide armi
riflettendo nel vetro lo avevano fatto coruscare del baleno che
offese la vergine.
Annalena balza in piedi e presta più della gazzella si
ricovra all'altra estremità della stanza.
Vico con occhi dimessi cominciò:
«Annalena, vi domando perdono; credeva ritrovare qui vostro
padre e intendeva menarlo meco alla rassegna della milizia. Dio vi
mandi il buon giorno...»
E volgeva la persona in atto di andarsene. La vergine sempre nel suo
ricovero con ambe le mani si fregava gli occhi, timorosa non fosse
una illusione.
Vico pervenuto sul limitare, stupefatto della strana accoglienza, si
ferma ed esclama:
«Lena!»
«La vergine trasalisce, e non le riesce snodare la lingua.
«Lena!» ripete Vico e impetuoso si dirige con presti
passi verso di lei così favellando:
«Tanto vi sono ad un tratto diventato increscioso che voi mi
rifiutate quello che onestamente non sapreste negare a qualsivoglia
cristiano vi occorresse per via, - un saluto di pace? In che vi
offesi? I giorni vostri io non turbava mai. - Perchè
sorrideste ai miei ritorni, alle partenze sospiraste? Perchè,
secondo ch'io mi presentava o lieto o tristo, impallidiste o
arrossiste? - Erano lusinghe queste? Ed io ti reputava pura,
innocente, come l'alba del primo giorno che spuntò su la
terra! Ahi, tristo me! tu mi hai ingannato:... a voi tutte, femmine,
Eva donò l'arte di presentare all'uomo la morte sotto la
specie di un frutto.»
La giovinetta rimaneva come sbigottita da cotesto linguaggio; la
cagione dello sdegno non comprendeva; grosse lacrime le scorrevano
lungo le guance; sentiva un immenso duolo opprimerle il cuore pronto
a scoppiare: alla fine proruppe e, precipitandosi a terra, abbraccia
in atto d'ineffabile angoscia le ginocchia di Vico. Questi a sua
posta si smarrisce, le parole gli mancano, sta incerto su quanto
dicesse o facesse.
«Oh! non mostrarmiti sdegnato,», favella la vergine:
«In che ti offesi? Se non lo sapendo ti recai ingiuria,
perdona; io sono semplice, e avvezza agli usi di villa... io non
sorgerò da terra finchè tu non mi abbi
perdonato...»
Ebbro di amore Vico le stende le braccia e,
«Sorgi», esclama, «sorgi; in questo modo
atteggiata appena dovresti presentarti al cospetto della
Divinità.»
«E tu, Vico, sei la mia Divinità...»
«Or dunque mi ami?...» E la solleva esultante.»
«Se amore significa sentire la vita soltanto quando io ti
veggo ed essere dolente quando mi stai lontano e pregare il cielo
che ti conservi; se amore significa fiamma ardente che mi scorre dal
capo alle piante allorchè mi comparisci davanti, se udirti in
ogni suono.., se in ogni oggetto vederti, se... se... questo
significa amore, sopra tutte le cose io t'amo.»
«Mi ami?»
«Oh! tanto!... oh! tanto!...» E palma percoteva a palma.
«Or dunque vieni, prostrati qui davanti la immagine della
Vergine; ecco mi prostro anch'io; giurami che tu sarai mia
donna.»
«Lo giuro.»
«E che fuggirai gli sponsali di qualsivoglia altro
uomo.»
«Lo giuro.»
«E che, morendo io, ti renderai monaca e finchè ti duri
la vita continuerai a ripararti nel chiostro.»
«Questo non giuro io.»
«Perchè nol giuri?»
«Perchè la morte mi scioglierà subito dai penosi
legami; e per la striscia luminosa che lascerà nel firmamento
la tua anima al cielo volando ti seguirà la mia, fedele
ancella nella morte, siccome ti fui nella vita.»
«Dio onnipotente, gran mercè!» esclama Vico,
premendo con ambe le sue le mani della donzella: «qual merito
avevo io mai onde tu mi compartissi tanta contentezza?»
«Ludovico Machiavelli alla rassegna!» Si udì
gridare una voce forte e unito alla voce un percuotere raddoppiato
all'uscio di strada.
«Ah! Il capitano Ferruccio», dice Ludovico e, balzato in
piedi, lasciando le mani della donzella, precipita fuori della
stanza.
Annalena correndogli dietro lo richiama:
«Vico! Vico! anche un istante... una parola.»
«Il capitano Ferruccio», rispose Vico e continua ad
allontanarsi.
Annalena si fece al balcone e vide il suo diletto il quale,
vergognoso in vista, seguiva un uomo d'arme per aspetto e per
dovizia di armi notabile. Però non udendo Vico, siccome aveva
temuto, muoversi dal capitano alcuna rampogna, riprese animo e,
voltosi di repente, vide la fanciulla al balcone, e studioso di
giustificare la subita partita, le mandò una voce sola, e fu
questa:
«Libertà!»
La vergine, fatta delle mani croce, e dimessa la testa in atto di
rassegnazione, rispose anch'ella con una parola:
«Sia!»
Ma quando si furono dilungati dalla vista della casa paterna, presso
allo scendere del Ponte Vecchio, il capitano Ferruccio
all'improvviso fermandosi gli favellò così:
«Patria! Libertà! Molti, o giovanetto, hanno su i
labbri la patria e la libertà, pochi nel cuore. L'amore di
entrambe queste sacratissime cose consiste nella continua renunzia
dello amore di sè; ogni passione vuolsi sacrificare alla
patria ed alla libertà, perocchè elle sieno gelose e
non consentano procedere in compagnia. Se vuoi venire oltre, sappi
essere il mestiere delle armi duro, incerta la tua stanza; fin d'ora
apparécchiati a bagnare del tuo sangue le varie contrade di
Toscana, forse d'Italia... a lasciare le tue ossa su qualche campo
ignorato; - se ciò avviene, acquisterai fama di magnanimo e
d'infelice; se la fortuna ti corre benigna, sarai magnanimo e
avventuroso, - e così ti auguro dal cielo; - se l'amore di
donna preponi al tuo paese, se le tue orecchie più e meglio
odono il susurro delle parolette brevi che il frastuono delle
trombe, se più ti preme piacere a femmina che alla fama, pon'
giù la impresa, torna indietro, io me ne andrò solo
alla rassegna e alla orazione. La patria può fare molto bene
a meno di te.»
«Capitano, io non credeva avere misfatto poi tanto... lieve
fallo è il mio.»
«Lieve fallo! Qualunque sia il fallo per mancata disciplina,
per me è mortale. Quando Torquato percosse nel capo il
proprio figliuolo per avere vinto contro lo espresso divieto, i
Romani conquistarono il mondo. Lieve fallo! L'ora della rassegna
è trascorsa, e il vostro posto comparve vuoto, per voi la
milizia ebbe pessimo esempio, sentì grave oltraggio il vostro
capitano. Lieve fallo! Al capitano toccò andarsene in traccia
del suo soldato. Sono questi gl'insegnamenti che riceveste dai
famosi capitani dei quali vi procurava il consorzio? Queste le
promesse da voi fatte al vostro padre sopra il suo letto di morte?
Ah! se lo sapesse vostro padre!»
«Capitano Ferruccio, o cessate, o io torno a mezzo il ponte e
mi precipito in Arno.»
«Avanti, giovanetto, vien' meco in Santa Croce.»
I Fiorentini, banditi i Medici dallo stato, attendendo a difendersi,
vinsero la provvisione di creare la milizia fiorentina. In quattro
giorni, chiamati a prendere le armi i giovani dai diciotto fino ai
trentasei anni, descrissero circa a tremila capi, i quali, non che
andassero a tôrre le armi, di per sè stessi le
portarono, e non mica comunali, sibbene, di molto valsente e di
sottile lavoro; furono dapprima mille settecento archibusieri, mille
picche ed il rimanente alabarde, spiedi, partigianoni e spade a due
mani, la più parte difesi da corsaletti. Nella spartizione
delle bande si attennero ai soliti sedici gonfaloni, non mutarono
insegne; solo osarono portare certa divisa traverso alla vita di
color verde, simbolo della speranza che nutrivano vivissima di
liberare la patria; ebbero per sargenti maggiori Giovanni da Torino,
Pasquino Corso e Giovambattista da Messina, soldato di molta
riputazione, come quello, che aveva atteso alla milizia nelle Bande
Nere prima e dopo che il Signor Giovanni morisse; questi erano
fissi, come pure era fisso il signore Stefano Colonna di Palestrina,
barone romano, uomo del re di Francia, che accettò l'ufficio
di comandante generale della mantovana milizia. Gli altri ufficiali
avevano lo scambio e reggevano a tempo; e tanto eglino apparvero
costumati e dabbene che dal grado di capitano si ridussero con animo
volonteroso a fare gli uffici di semplice soldato. - Considerando in
seguito di quanto vantaggio codesta milizia fosse stata cagione
sì per tenere la città ottimamente custodita dai
nemici, sì per frenare la licenza dei soldati stranieri agli
stipendi della Repubblica, venne in pensiero ai reggitori di
accrescerla; per la qual cosa ordinarono si dividesse in due classi,
la prima, di uomini da diciotto a quaranta anni, la seconda da
quaranta a cinquanta; sicchè per siffatti provvedimenti ella
crebbe di meglio due mila altri capi. Andando poi per la massima
parte composta di persone non solo della libertà della patria
svisceratissime, ma eziandio delle più ingegnose fra quante
fiorissero in quel tempo a Firenze, non è da dire se presto
apprendessero i modi di armeggiare; e Benedetto Varchi ricorda come
i soldati vecchi, vedendola ora aggomitolarsi in chiocciola, ora
distendersi in drappelli, ora eseguire altro movimento militare, ne
facessero le meraviglie.
Il gonfaloniere Carduccio, intentissimo ad accendere le voglie dei
cittadini alla gloria militare, quantunque pei buoni effetti della
milizia rimanesse contento, e sebbene in diverse occasioni l'avesse
fatta rassegnare e arringare dai più valenti uomini di
Firenze, dei quali piace ricondurre alla memoria i nomi di Luigi
Alamanni, di Baccio Cavalcanti e di Pietro Vettori, nondimeno
pensò avrebbe giovato assai per conseguire il suo scopo una
nuova generale rassegna e la solennità del giuramento,
accompagnata da una predica del fiero frate Benedetto da Foiano.
Così destramente si maneggiava l'accorto Carduccio che i capi
della milizia gli mossero istanza di quello ch'egli sentiva maggiore
desiderio concedere che non avevano essi di domandare. Però
attelata la milizia sotto i suoi gonfaloni su la piazza di Santa
Maria Novella, splendida di armi e d'insegne, difilò
gonfalone per gonfalone cominciando dal quartiere di Santo Spirito
verso la piazza del Duomo, tenendo la via che viene dal canto dei
Carnesecchi e di Santa Maria Maggiore.
Davanti la porta di San Giovanni avevano accomodato il bellissimo
altare d'argento il quale solevano esporre nelle solennità
del comune; intorno a quello erano disposti sacerdoti sostenenti
ceri o turiboli; i libri degli evangeli vi stavano aperti sopra. -
Di rincontro all'altare accanto alla porta mezzana di Santa Maria
del Fiore sedeva la Signoria, il signore Stefano Colonna ed altri
maggiorenti nel magnifico tribunale ornato di panni bianchi e
vermigli con baldacchino sopra, come si costuma fare nelle feste e
nelle processioni. La via sparsa di lauro e di erbe odorifere.
A mano a mano che i varii drapelli dei gonfaloni si accostano
all'altare, piegano il ginocchio, declinano verso terra le armi e la
insegna. Il capitano pone a nome di tutti la destra sopra
l'Evangelio e proferisce la formula del giuramento, che i soldati
ripetono, e quindi voltatisi alla Signoria con gesti convenevoli le
rendono la debita reverenza. I trombetti e i pifferi del comune
sonando restituiscono i saluti.
I gonfalonieri, svoltando dal campanile e procedendo per le vie del
Proconsolo, del Palagio e del Diluvio, si conducono al tempio di
Santa Croce. La Signoria, il signore Stefano con grande
accompagnamento di capitani, di cittadini, mazzieri e trombe gli
seguono; - il popolo, cupido di spettacoli, gli ricinge attorno
densissimo.
Qui fu cantata la messa solenne dello Spirito Santo, dopo la quale
il virtuoso frate Benedetto da Foiano salì in pergamo tenendo
nelle mani uno stendardo nel quale era da banda dipinto Cristo
vittorioso con soldati distesi per terra chi morti e chi feriti, e
dall'altra la croce rossa in campo bianco, insegna del comune di
Firenze.
Le tende tese avvolgevano le vaste navate in tenebre misteriose; -
le turbe raccolte mandarono un fremito come di onde commosse, poi
tacquero silenziose così che si udiva l'anelito del frate e
il fruscio dello stendardo nelle sue mani.
All'improvviso il frate con voce formidabile cominciò:
«Cum hoc et in hoc vinces. - Il Padre nostro, che è nei
cieli, creava gli uomini liberi e lieti. Lo spirito delle tenebre
soffiò nell'anima dei tristi un alito infernale, e questi
incatenarono le mani dietro alle spalle ai fratelli, strinsero nella
destra maledetta una verga e si chiamarono principi. Allora la
creatura, non potendo più sollevare le braccia al cielo per
benedire Dio, la faccia contristata abbassò verso la terra e
pianse. L'uomo malvagio non tenne da principio nascosa la reproba
sua origine e apertamente significava sè essere figliuolo di
Satana; poi, alla tristizia aggiungendo la ipocrisia, celò
sotto una benda o corona la impronta di Caino incisa sopra la sua
fronte, si unse col santo crisma le chiome quasi profumo e disse: io
vengo da Dio. - Questa è bestemmia manifesta,
imperciocchè il Signore favellando a Samuele gli dicesse: -
Pon' mente, tale sarà la religione del re: - egli
piglierà i vostri figliuoli, - egli piglierà le vostre
figliuole, - piglierà eziandio i vostri campi, le vostre
vigne, i vostri uliveti, - ed in quel giorno voi griderete per
cagione del vostro re. - Così ha parlato il Signore, ed
aggiunse ancora al popolo ebreo: Ma io non vi esaudirò,
perchè voi lo avrete eletto. - Gli schiavi volontarii
increscono al mondo, a Dio ed allo stesso demonio. Noi non
eleggeremo il principe, noi lo combatteremo, noi lo inseguiremo,
finchè non torni all'inferno, donde l'antico nemico del
genere umano lo ha dipartito. - Fiorenza, madre amorosissima,
nudrì i Medici come suole i suoi figliuoli più cari,
cresciuti che furono, morsero le mammelle dalle quali ebbero vita;
stesa la mano parricida sopra il casto seno di lei, esclamarono: Tu
ci alimentasti del tuo latte, ora abbiamo sete del tuo sangue -, e
si apprestarono a divorarla. Qual segno parlò dall'alto in
favore di cotesta scellerata famiglia? Qual consenso di popolo la
creava tiranna? Qual diritto ella vanta? Con quali argomenti ella
intende dominare su Fiorenza? Vedetela, armi barbare ella spinge ai
nostri danni, sua ragione è l'offesa, suoi oratori le
bombarde, feste gl'incendii, benefizii le rapine, doni le stragi. E
non pertanto vive tale tra loro che non aborre affermarsi vicario di
Cristo sopra la terra; non gli credete: se tu, Clemente, co' tuoi
misfatti non avessi allontanato lo spirito di Dio dalla Chiesa, ora
lo scisma non guasterebbe le sue membra, tu non saresti stato
avvilito, non avrebbe Roma sofferto il miserevole sacco. Quando lo
spirito di Dio circondava il Vaticano, mandò gli angioli con
ispade infocate a difenderlo e respinse Attila atterrito dalle sue
mura. Roma conserva tuttavia l'altare, ma il Dio lo
abbandonò; il sacerdote innalza al cielo l'antica preghiera,
ma il cielo non risponde più, perchè la voce del
sacerdote è fatta impura, le mani ha intrise di sangue. Il
sommo sacerdote vi chiamò davanti al giudizio di Dio: -
sperate! - imperciocchè Dio lo abbia riprovato. Gesù
Cristo nostro divino redentore e re nella sua divina sapienza
conobbe che un giorno sarebbero insorti falsi profeti, i quali
profetando nel suo santissimo nome avrebbero tratto la generazione
degli uomini nello squallore e nella servitù: ond'egli vi
lasciava un segno e diceva: L'Albero buono non può fare
frutto cattivo, nè l'albero malvagio frutti buoni; voi dunque
li riconoscerete dai loro frutti. - E quando i verecondi avessero
ardito invocarlo, ei prometteva sarebbesi protestato contro di loro,
gli avrebbe reietti lontano da sè come serpenti, progenie di
vipere, sepolcri scialbati, operatori d'iniquità. Egli vi
chiamò al giudizio di Dio, - sperate! imperciocchè Dio
chiederà ai suoi sacerdoti ragione del sangue dei profeti che
mandò verso di loro, del sangue di Abele fino al sangue di
Zaccaria e di frate Ieronimo Savonarola, il quale uccisero a
vituperio col patibolo infame. Papa Clemente, trema, perchè
Cristo è tuo giudice, non complice, ed egli ti
reciderà, la tua parte metterà con quella
degl'ipocriti, laddove è pianto e stridore dei denti. Ma che
dico sperate! Già voi vedete della sua protezione certissimi
segni; credete voi forse senza divino soccorso avere potuto
assuefare gli occhi alle lunghe vigilie, le membra a prendere su la
dura terra breve e interrotto riposo, la fame tollerare e la sete,
soffrire l'ardore del sole e l'asprezza del freddo non più
dai molli vostri corpi provata? Forse senza ajuto celeste avvezzi
agli agi della vita, nudriti nelle pacifiche discipline, vi era
concesso con animo immoto ascoltare le barbariche voci, sostenere
gli aspetti spaventosi, opporre i ferri ai ferri, percuotere, essere
percossi, terribili se vincitori, più terribili vinti?
Prodigi sono questi; altri ne aspettate maggiori dal cielo, voi
stessi opererete miracoli, forse tra noi già vive e si agita
un nuovo Gedeone, e già nel suo cuore egli intende la voce
del Dio degli eserciti; sorga! oh! sorga tosto e disperda questa
empia progenie. - Voi siete soli, vi abbandonano tutti: meglio
così in questo modo intera sarà la gloria nostra;
così, oh! non fosse intera la infamia dei rimanenti Italiani:
noi soli difendiamo l'onore, la vita e la libertà della
Italia: e quando pure dovessimo soccombere, sarà splendido il
nostro sepolcro, perchè ultimi cedemmo, perchè soli
osammo resistere a moltitudine di gente contro le quali non valsero
le armi collegato di potentissimi principi. Fu gloria al popolo
ateniese abbandonare la patria terra per tutelare la libertà;
quanto fia maggiore la tua, o popolo fiorentino, che giudicasti la
maestà dei luoghi pubblici, la religione dei tempii, i
sepolcri, le case dover esser da te costantemente difese, e la tua
salute dovere andare congiunta con la salute della patria! In hoc
signo vinces, gridò la voce dall'alto a Costantino
imperatore, e gli fu mostrata la croce sfolgorante nei cieli: in hoc
signo vinces, esclamo anch'io benedicendo questo sacro stendardo e
alle tue mani affidandolo, strenuissimo Colonna, capitano della
valorosa milizia fiorentina: seguitate voi giovani, codesta
bandiera, tenete sempre in lei fissi gli sguardi,
imperciocchè egli la condurrà sempre nella via
dell'onore e della vittoria. Adesso io non vi conforterò ad
esser prodi; già voi lo foste, e così l'uomo si piace
nel sentirsi virtuoso che voi percorrerete intero il bene cominciato
cammino: non vi raccomanderò i padri, le madri, le donne e i
figli vostri; concesse ai loro labbri tale una voce natura presso
cui la mia diventa debole e fioca. Di due cose con tutte le viscere
dell'anima mia vi supplico, e sono: di mantenere severa la
disciplina, origine vera di ogni alta gesta militare; Prospero
Colonna, capitano dei nostri tempi famosissimo, di cui la gloria in
te, inclito Stefano, riconosciamo, soleva dire: desiderare piuttosto
imperito ed ubbidiente soldato che molto perito ed ubbidiente poco;
e sopra tutto vi scongiuro di unione, pace e concordia. A concordia
la patria afflitta e il vostro re Gesù Cristo v'invitano; a
concordia gl'imminenti pericoli vi consigliano. Ogni città,
comunque piccola, con la concordia vedemmo superare terribilissimi
mali, con la discordia vedemmo le meglio fiorenti città
condotte ad estrema miseria. Non gustate voi le dolcezze dell'amore?
Voi non punge l'amaritudine dell'odio? Spengasi nei vostri petti lo
sdegno; si accenda la fiamma di salutifero amore. Perdonate le
ingiurie, dimenticate le offese, volgansi contro i nemici le
magnanime vostre ire. Quali altre parole aggiungerò io? Se
per cimentare la concordia vostra si domandasse sangue, ecco di gran
cuore io darei quello che mi scorre entro le vene: se a stringervi
in vincolo fraterno non bastano le preghiere dei vostri più
cari, nè la speranza di vincere nè il timore di
perdere, nè le supplicazioni della patria, nè il
comandamento di Cristo, io sdegno ormai di favellare più
oltre, e non mi resta più altro che piangere. Io non voglio
più abbandonare questo pergamo: qui sopra mi
scioglierò in lacrime, qui starò fintanto al Signore
piaccia di chiudere per sempre questi occhi miei tristi. -
Carità, carità, Fiorentini! Se tutti Cristo col
preziosissimo sangue redense, se tutti nasceste figli di una
medesima madre, perchè ricuserete abbracciarvi
fratelli!»
Tale orò fra' Benedetto da Foiano, e al terminare delle sue
parole, lasciatosi cadere genuflesso, col capo appoggiato all'orlo
del pulpito, dirottamente piangeva. Intanto si udivano risuonare per
le vôlte della vasta chiesa singhiozzi e pianti, e un
domandarsi perdono ed un concederlo; e poi vedevi uomini da molto
tempo nemici abbracciarsi, baciarsi in bocca, ogni rancore deposto,
salutarsi fratelli.
Tra così universale consenso di amore, sopra due cuori soli
le parole del Foiano passarono senza lasciar traccia, quasi nave che
scorra per acqua. Uguale l'odio in entrambi, uguale il nome.
Benedetto Buondelmonti si chiamava l'uno, Zanobi Buondelmonti
l'altro: il primo violento, superbo, odiatore di Zanobi per la
ingiuria che gli aveva fatta; il secondo nudrito delle buone
discipline, di gentile natura, modesto, giustamente sdegnato contro
il parente per oltraggio ricevuto. Causa della inimicizia fu questa:
che, trovandosi nel 1526 a disputare in arcivescovado tra loro
intorno al diritto di presentazione a certo benefizio vacante,
messere Benedetto preso da cieca ira percosse messere Zanobi nel
volto. Da quel giorno in poi Zanobi si era studiato di tôrne
memorabile vendetta, nulla badando alla ragione del sangue, che gli
pareva messere Benedetto avesse sciolta con la bassissima offesa; ma
i parenti e gli amici indagavano il luogo della posta,
s'interponevano, pregavano, insomma facevano in modo che il duello
non accadesse. In seguito sopraggiunsero le persecuzioni dei Medici
e ad ambedue i Buondelmonti toccò esulare. Se messere Zanobi
avesse voluto commettere la cura della vendetta a ferro assassino, a
quest'ora messere Benedetto un lungo sonno dormiva con i suoi padri;
ma, oltrechè da così vile spediente tratteneva messere
Zanobi la magnanima sua indole, non si sarebbe sentito placato, se
altra mano fuori della sua avesse spento codesta vita.
Eppure ambedue avevano intesa la predica del Foiano, - però
come non fosse stata per loro. Messere Benedetto, col dorso
appoggiato a una colonna, le braccia sotto le ascelle, le gambe
sporte in avanti, la manca sopramessa alla destra, il capo chino,
talora mandava uno sguardo obbliquo contro Zanobi, il quale da
lontano curvo con la persona, puntellato il gomito alla spalliera di
una panca, tiene il mento nel palmo della mano e con l'indice si
rovescia il labbro inferiore ed a sua posta gli ricambia lo sguardo
diritto e feroce: cotesti sguardi s'intersecavano lucidi
d'implacabile odio, quasi scontro di spade nemiche in campo chiuso.
Ad un tratto messere Zanobi drizza la persona; una mano lo ha
lievemente percosso su l'omero, ed una voce gli ha detto:
«Perdona!»
La voce e l'atto movevano da Dante da Castiglione,
Messere Zanobi lo guardò in volto, - sorrise e non rispose
parola. Ma ecco che al Castiglione si aggiungono molti nobili
giovani ed onorati cittadini, i quali con suono e sembianza,
suplichevoli ripetono:
«Perdona! perdona!»
Messere Zanobi si turba e avvoltosi nel mantello tenta partirsi di
chiesa. - Dall'altra parte, Alamanno dei Pazzi e Lionardo Bartolini,
afferrato nelle braccia Benedetto Buondelmonti, gli usano violenza e
lo traggono seco loro dicendo:
«Voi gli faceste offesa, e il cavaliere cristiano non si
avvilisce umiliandosi a domandare mercede...»
«Io domandare mercede!» replica messere Benedetto - e
sbuffa come toro indomato; ma tuttavolta andava, chè la
coscienza in quel punto vinceva la superbia.
Zanobi svincolandosi dalle braccia degli amici s'ingegna guadagnare
le porte, quando il gonfaloniere Carduccio accompagnato dai signori
gl'impedisce il cammino e con quel suo piglio autorevole lo
interroga:
«Apprendeste voi questo negli Orti Oricellarii, messere
Zanobi? Il vostro maestro Nicolò Machiavelli non vi narrava
mai la magnanimità di Aristide?»
«Nè a me sarebbe grave imitare Aristide se il mio
avversario si fosse Temistocle.»
«E di Temistocle non vi narrava, quando percosso da Euribiade
lacedemonio rispose: Batti, ma ascolta?»
«Magnifico Carduccio, non dubitate, per me non sarà
messa in compromesso mai la pace dell'amatissima patria;
finchè ci stanno a fronte i nemici, io sospendo ogni querela
privata; remosso ogni pericolo, vi prego a non consentire ch'io
rimanga il più svergognato gentiluomo che viva in tutta la
cristianità.»
Frate Benedetto da Foiano avendo rilevato la testa, abbassò
gli sguardi e conobbe la cagione per cui tanti spettabili cittadini
si affaticavano intorno a quei due Buondelmonti. Scese dal pergamo
precipitoso così che parve uno di quei santi padri
trascorrenti per l'empireo cantati dalla divina bocca
dell'Alighieri, cacciatosi tra la folla e rompendola giunge davanti
a messere Benedetto, il quale tuttavia riluttante faceva mostra
volersi liberare dalle mani del Pazzi e del Bartolino, e,
«Che sempre», incominciò garrendo messere
Benedetto, «la tua progenie debba essere cagione di pianto
alla nostra città, ella è pure una tremenda e
incomportabile cosa, o Buondelmonti! Dobbiamo anch'oggi rinnovare
l'antico voto, che meglio sarebbe stato che Dio annegasse la
progenie vostra nell'Ema la prima volta che lasciando Val di Greve
veniste a Fiorenza? Invece di riparare li passati danni, ne vorrete
voi dunque apportare dei nuovi? Umiliati, superbo... tu sei un pugno
di cenere...»
E messere Benedetto crollato da quel dire di fuoco rispondeva
dimesso:
«Pur ch'ei perdoni.»
Il Foiano già sta dinanzi a messere Zanobi e,
«Figliuolo mio!» gli favella dolcemente, «in nome
del tuo Redentore che perdonò ai suoi uccisori, - che
pregò per loro, - che versò il suo sangue
preziosissimo per la umana stirpe la quale co' suoi misfatti aveva
colma la misura dell'ira di Dio... perdona! perdona!»
«Messere frate», dice il Buondelmonte sdegnoso,
«io non sono Cristo.»
«Allora, messere Carduccio, rammentategli voi quel vostro
glorioso maggiore san Giovanni Gualberto, narrategli come avesse
morto un fratello, come venisse armato a Fiorenza per vendicare
l'omicidio, come trovasse l'uccisore inerme e solo a mezza strada,
il quale avendogli domandato mercè per Dio, egli, di un
tratto deposta l'ira, a San Miniato il conducesse e quivi a Dio
redentore lo donasse...»
«Padre Benedetto, cessate, io non sono un santo.»
«Almeno sii uomo, ricórdati del buon Marzucco che
baciò la mano all'uccisore del suo figlio; - la Chiesa non lo
ha ancora canonizzato per santo.»
«Ahimè! vi prego, sgombratemi il passo... in
verità non posso.»
«Oh! che sì che il potrai, figliuol mio; e se i
consigli e gli esempi non ti commuovono, lásciati piegare dal
pianto: ecco, vedi, io mi ti prostro davanti e ti supplico col capo
nella polvere, se tu perdoni, io bene mi sarò genuflesso,
perocchè la creatura perdonando assomiglia a Dio; se ti
ostini nel rifiuto, tu mi lasci il rimorso d'essermi inchinato al
demonio.»
«Ma che vi ho fatto io onde mi vogliate il più
svergognato cavaliero che abbia mai cinto spada? Oh! questo è
dolore. Voi mi desiderate morto, ebbene seppellitemi, perchè
io non consentirei a vivere senza onore; aprite la lapide,
precipitatemi giù nell'avello, purchè la voce del
perdono sia l'ultima che profferisca la mia bocca mortale.»
E Zanobi Buondelmonti, come uomo rifinito dalla fatica, si
lasciò cadere seduto sopra il pavimento della chiesa,
coperto, siccome correva il costume, dalle lapide dei sepolcri delle
inclite famiglie fiorentine.
Come volle fortuna, egli si assise sopra la lapide appartenente ad
una delle tante famiglie dei Buondelmonti; ciò era manifesto
per l'arme quivi effigiata con pietre di varii colori, la quale
faceva croce rossa sul Calvario in campo azzurro e bianco.
Così umiliato Zanobi con ineffabile angoscia percoteva con
ambe le mani il marmo esclamando:
«Apriti, o terra, e cuoprimi!»
I circostanti contemplando quel profondo dolore stettero muti ed in
cuor loro lo compassionavano forte. Al Foiano erano venuti meno gli
argomenti, e si rimaneva genuflesso in atto di preghiera senza
potere profferire una parola.
Si apre di repente la folla: comparisce una vergine; ella non sembra
cosa terrena; la fronte tiene rivolta al cielo, quasi ascoltasse una
voce dall'alto; le pieghe lunghe della veste coprivano i piedi, onde
pareva che il suo incesso non procedesse dal mutare di passi,
bensì dal radere, volando la terra. La ghirlanda di argento
intrecciata alle sue chiome nell'agitare della persona scintillava
come se fosse di raggi; la sembianza pura, la dolcezza degli atti,
l'apparizione improvvisa colpirono gli astanti di maraviglia. Quando
la terra d'Italia produsse vergini siffatte, il Ghirlandaio e
Rafaello dipinsero gli angioli, quali forse più belli non
creò mai Dio nel suo paradiso: - poichè in quanto a
questa ella fosse figlia di donna, non creatura celeste.
Si accosta silenziosa a messere Zanobi, si curva alquanto e, lo
toccando di lieve percossa sopra la spalla, gli mormora nelle
orecchie:
«Tu giaci su l'ossa de' tuoi padri!» - e gli accenna la
domestica arme: - «uomo che devi morire, perchè
serberai odio mortale? Lascia un esempio di virtù e
perdona.»
Messere Zanobi, vinto da tale una forza a cui non sapeva resistere,
si leva tenendo il suo sguardo fisso in quello della vergine; ella
presolo per la mano a sè lo trae, avvicinandolo a messere
Benedetto. Questi se ne sta dimesso a capo chino; all'improvviso
levandolo, si vede faccia a faccia messere Zanobi; - si guardarono,
- impallidirono, - si fecero rossi fino ai capelli; poi messere
Benedetto curvandosi tutto tremante, parlò:
«Zanobi, l'atroce... offesa...»
«Dimentichiamola, Benedetto... Abbracciatemi... e come vuole
ragione di sangue ritorniamo fratelli...»
E si abbracciarono con incredibile affetto, tale essendo la natura
di queste anime, vigorose nell'odio come nell'amore. - Non vi fu
circostante per quanto di animo saldo che non sentisse a cotesto
spettacolo commuoversi l'anima e inumidirsi gli occhi. Perchè
anche i tristi se odiano la virtù, non possono poi fare a
meno di venerarla quando nella sua gloria sfolgoreggi loro davanti.
Poichè si quetarono alcun poco coteste esultanze, tutti
bramosi intesero a ritrovare la vergine operatrice della mirabile
concordia... Guardarono invano... ella era sparita. Allora
cominciarono i Piagnoni ad affermare essere stato un miracolo,
averla il Signore mandata sopra la terra; gli altri, non prestando
fede al miracolo, non sapevano spiegare quella insolita apparizione;
tutti poi si sentivano tocchi di riverenza per cotesto angiolo di
pace.
Ma se i cuori di tutti furono tocchi di riverenza, il cuore di un
solo palpitò di amore, - il cuore di Vico, il quale nella
vergine comparsa aveva riconosciuto la sua diletta Annalena.
CAPITOLO UNDECIMO
IL PROFETA PIERUCCIO
Mentre che in forma fui d'ossa e di polpe
Che la madre mi diè, l'opere mie
Non furon leonine, ma di volpe.
Gli accorgimenti e le coperte vie
Io seppi tutte...
Dante.
Molto tempo innanzi che le cose narrate accadessero, Malatesta
Baglioni certa notte, dopo avere dato volta ora sopra un fianco ora
su l'altro, non trovando riposo, balzò da letto gridando:
«Maladetta la notte! - Finchè la luce dura, io sono
più forte della mia coscienza e mi riesce a tenermela sotto;
quando ella cessa, la coscienza diventa più forte di me e
torna a galleggiarmi sul cuore. O notte, io ti detesto, sia che come
adesso t'ingombrino tenebre impenetrabili quasi strati di lava, sia
che il perfido chiarore della tua luna mi spaventi convertendomi in
fantasmi i palazzi e le torri. - Quanto silenzio!» - E si
accostando alla finestra, l'apriva. - «Fiorenza, dormi? Tu sei
più felice di me... io non trovo riposo. Se il giorno che ci
lasciò fosse l'ultimo! Se queste tenebre durassero eterne!
L'eroe non vorrebbe commettere le sue opere magnanime senza sole, -
forse nè anche i suoi delitti il masnadiero. Dormissero tutti
la pace eterna!»
«All'erta sto! - urla una scolta; - All'erta sto! risponde
un'altra; - All'erta sto!» s'intende ripetere da cento voci a
mano a mano digradanti nella lontananza, finchè per troppo
spazio vengano affatto a mancare. Tale è l'ufficio delle
sentinelle ad ogni quarto d'ora che passa.
«Ecco», riprende il Baglioni, - «così gli
anni si chiamano passando; - così dopo la vita succede la
fama, - dopo la fama nulla; noi siamo l'eco dell'eco, - ombre di
sogno. E allora perchè travagliarci tanto? Non ti compra mica
la infamia una eternità di piacere, - anzi nè manco
una scintilla di luce, - e nè un alito di fumo, ed ogni cosa
finisce... Appunto perchè ogni cosa finisce, bisogna
ingegnarci a godere molto nella vita... - ma veramente finisce ella
la vita? - Oh! sì, finisce; godiamo e come? Con l'amore
forse? Io non ci credo: e poi sta nella potenza altrui darlo o
negarlo: il timore puoi incuterlo quando meglio ti sembra. Godimento
vero consiste nel far paura. Sopra tutti avventuroso l'Eterno,
perocchè i pensieri di sdegno gli scoppino fuori dalla fronte
come fulmini. Bene mi talenta Fiorenza, ma la vagheggia il papa; la
croce di questo prete percuote più forte della mia daga:
ond'io, Fiorenza, comunque bella tu sia e tu mi piaccia assai, ti
abbandono alle voglie del sacerdote con un sospiro; a patto
però che sia nostra Perugia. - Senti... il gallo canta! -
Vorrebbe forse egli dirmi essere io traditore? Il gallo cantò
a san Pietro quando egli rinnegava Cristo; - io non rinnego nessuno,
anzi gratifico il vicario di Cristo, e mi si deve professare amico
san Pietro. - Se mai mi dannassi l'anima, san Pietro,
ramméntati che il faccio proprio per la tua Chiesa,
sicchè quando Dio non vede tu mi aprirai le porte del
paradiso alla sfuggita. - Giuda! Chi è che ha rammentato
Giuda? Ah! mi sono io stesso susurrato questo nome all'orecchie.
Come entra Giuda con me? Giuda gitta via il prezzo, ed io lo prendo;
Giuda s'impicca, ed io nè m'impicco nè mi
lascerò impiccare... - Non mi lascerò. Bada,
Malatesta, vecchia fama nel mondo dice orbi i Fiorentini;
però guai a te, se di alcun poco schiudano gli occhi... e
quel Carduccio, comechè gli mandi strambi, e' ci vede meglio
che se gli avesse diritti; - ramméntati di Baldaccio
dell'Anguillara:... non obliare Pagolo Vitelli ch'ebbe la testa
mozza prima di accorgersene. Le repubbliche vegliano sospettose
più degli altri reggimenti; tu hai potuto considerare a tuo
bell'agio in Venezia le colonne tra le quali tagliarono il capo al
Carmagnola. - Per Dio! E dove lascio mio padre Giampagolo?.. Papa
Lione.., già non vi spirò lo Spirito Santo quando me
lo trucidaste in Sant'Angiolo. Quanti traditi e quanti traditori!
Oh! »
Malatesta si copre con ambe le mani la faccia, e così rimane
assorto da angosciose considerazioni; gemeva, ansava come
travagliato da tormento insopportabile; poi scosse la testa ed
agitò le mani aggiungendo:
«Male m'incoglie, se mi muovo; peggio, se riposo;.... ho il
sangue avvelenato; - mi è parso.... no... no... ho veduto....
messere Gentile e messere Galeotto Baglioni i quali... mi scotevano
innanzi agli occhi la camicia insanguinata... Non vi uccisi
già io... voi non potete portare il vostro sangue in
testimonio contro di me.... vi spense Orazio il fratel mio... Andate
a tormentarlo a vostro bell'agio nell'inferno. Voi, messer
Giampagolo, lasciatemi in pace... dormite nel vostro sepolcro di
marmo... perchè mi mostrate il vostro capo mosso? Che ci ho
che fare io? Se i Medici mi tolsero il padre, i Medici mi renderanno
Perugia; e voi, padre mio, non valevate Perugia quando eravate
vivo;... pensate, se la valete adesso che siete morto! - Se
intendete avvisarmi... riposate tranquillo... io non mi farò
ammazzare così, come un montone; in ogni estremo caso, ecco
il pugnale.... Ma Cencio perchè tarda tanto a tornare? Se
Cencio mi tradisse, se a quest'ora stesse davanti al gonfaloniere
dicendogli: Magnifico messere Carduccio, Malatesta vi tradisce... se
già si movesse il bargello.... se il carnefice.... ah! - Chi
è là? - Nessuno. - Come dura lunga la notte! - Questo
Cencio oramai ne sa troppe....»
S'intende lo scalpito lontano di cavallo... si accosta... si
è appressato... scende il cavaliere, entra nel palazzo
Serristori, salisce frettoloso le scale.
«Questi è Cencio; riconosco i suoi passi. Egli ne sa
troppe.... ne sa troppe; Cencio potrebbe tradirmi, - è colmo
sino alla bocca..., bisogna torcelo dinanzi... mezzo palmo di lama,
o tre grani di tossico lo spingeranno tant'oltre da non temerne il
ritorno. Cencio... - O Cencio, sii il benvenuto, figliuolo mio, ti
aspettava....»
«Davvero? rispose Cencio gittandosi sopra una sedia, dove
stirò le braccia e tese le gambe con plebea dimestichezza; -
quindi a poco a poco continuava: «Ho sonno, - fame e sete....
- Malatesta, datemi da bere.»
Il sangue baronale del Baglioni si rimescolava da cima a fondo; - un
moto delle labbra svelò il cruccio dell'anima, ma potente
com'era a simulare ridusse quel moto in sorriso, empì una
tazza di vino e, la porgendo a costui, favellava:
«Bevi, Cencio, e confortati.... la tua vita mi preme quanto la
mia....»
«Ahimè tristo! sarò io a tempo domani per
testare delle cose mie?»
«Ch'è questo, Cencio?»
«Nei tanti anni che facciamo via insieme verso l'inferno mi
sono accorto, o Malatesta, che quando vagheggiate oltre il consueto
qualche famigliare, voi lo avete già in cuor vostro
condannato alla morte. Orsù, se mi deste il veleno, ditemelo,
ond'io mandi in tempo pel notaro e pel confessore.»
«Lascia il motteggio, Cencio: papa Clemente accettava il
trattato?»
«Più gli aveste domandato, più vi avrebbe
promesso; e meno vi manterrà: la vita di Sforza e Baccio
Baglioni, con tutti gli aderenti loro; indulto ai capitani e soldati
che hanno militato con voi; remissione di pene amplissima al
capitano della Cornia e al conte da Scopeto; a voi le terre
domandate, il vescovado per lo nipote, la figlia del duca da
Camerino a Ridolfo vostro.... in somma tutto.»
«E la indulgenza, Cencio, l'assoluzione?....»
«Ahi l'assoluzione.... già anche questa.... e questa,
non dubitate, vi manterrà... non costa nulla... Ma, signore
Baglione, chi pretendereste voi d'ingannare adesso? Il papa, me, o
Dio?»
«Nessuno: anche le indulgenze sono buone a qualche cosa quando
non costano nulla; a senno mio ben si avvisava colui che accendeva
un cero al diavolo e un altro a Cristo; - giova serbarci amici
dappertutto. E intorno alla sicurtà che cosa ti diss'egli
papa Clemente?»
«Fece sembiante di scandalezzarsi che altri movesse dubbio
intorno alla sua fede... tentò arrossire.... ma, per quanto
ritenesse il fiato, non venne a capo di richiamare il rossore sul
volto, - sentiero oramai da tempo immemorabile disusato per lui:
alla fine m'impose, che da sua parte vi offerissi per sodo rimanervi
in Fiorenza co' soldati finchè non adempisse alle
promesse.»
«In questo modo mi metto in capo il più bel cappello di
traditore che mai sia stato.»
«O che vorreste v'innalzassero un statua? Voi siete curioso
voi; - a me basta che non m'impicchino... e l'ho per bazza.. - Sua
Santità si raccomanda alla Vostra Magnificenza a voce, e
meglio in questo scritto che sì compiaccia di tradire presto
e bene, onde la città non soffra e non rovini il contado....
non vi par egli caritatevole il buon pontefice? Udiste mai
carità più pelosa di questa?»
«Cencio, dimmi, ti sembra ch'io possa stare sicuro del
papa?»
«Ringraziate messere vostro padre, che vi lasciò terre
e castelli, perchè voi, per lo ingegno che avete, non vi
trovereste a possedere tanto terreno da stendervi sopra il vostro
mantello bagnato.»
«Ch'è questo, Cencio?»
«Egli è, che il papa vi ha promesso certamente, e per
la facoltà datavi di tenere le milizie in Fiorenza
finchè non vi abbia soddisfatto è probabile che le
cose promesse egli vi abbia a mantenere; - ma andando voi ad abitare
su quello della Chiesa, è del pari probabile che un giorno vi
tolga la roba e la vita per giunta....»
«Ma io cercherò di non somministrargliene causa
veruna.»
«Chi il suo can vuole ammazzare, un pretesto sa trovare, mi
diceva mia madre, che Dio abbia in pace.»
«Or dunque, Cencio, che mi consiglieresti?»
«Oh! la Magnificenza Vostra vuole abbassarsi a tôrre
consiglio da un pendaglio da forca quale sono io? E poi prima del
fatto avrei forse potuto suggerire anch'io un poco d'avviso; ora a
cosa finita non mi rimane altro che lodare; e' sarebbe come se un
poeta venisse a domandarvi il vostro parere sopra un sonetto
stampato.»
«Nondimanco parla.»
«Prima di tutto avrei bene atteso ad esaminare la mia
condizione, e se mi fosse tornato a mostrarmi buono o tristo; dove
le parti avessi veduto uguali o di poco inferiori pel buono, mi
sarei posto alla ventura per questo; conciossiachè la fama mi
piaccia, e ogni uomo senta in sè il gentile orgoglio di
essere salutato magnanimo.»
«Come? tu, Cencio?...»
«Io Cencio, se fossi stato Malatesta, avrei statuito
così. E quando non avessi fatto civanzo a scegliere la parte
buona, avrei tolto la trista; e allora, o il papa poteva darmi
sicurezza intera, e intera l'avrei pretesa; o non poteva intera, ed
io avrei ricusato la mezza, perchè questa inspira diffidenza
e non ti salva. Vedete come ho proceduto con voi; - vi chiesi mai
pegno? Vi posi la mia vita in mano come la grù il capo in
bocca al lupo.... ed ho lasciato a Dio prendere cura del
resto.»
«Ma perchè non mi hai discorso di tutte queste cose
avanti?»
«Prima, perchè non me le avete domandate; - poi,
perchè, o buona o mala, voi siete la testa che pensa, ed io
il braccio ch'eseguisce; - finalmente perchè mi vengono in
capo per lo appunto adesso....»
«Qui bisogna rimediare.»
«Certo, bisogna.»
«Nel caso mio che faresti, Cencio?»
«Nel caso vostro me ne andrei a dormire; - avrei un poco di
discrezione e non pretenderei da un uomo che casca dal sonno
consigli da praticare quando la gente è sveglia. In
conseguenza di ciò piaccia alla Signoria Vostra ch'io mi
addormenti: - buona notte.»
E senz'altre parole, avviluppatosi nel mantello, si stese sopra un
lettuccio, dove dopo alcuni momenti, vinto dal sonno,
incominciò a russare.
Malatesta, travagliato dalle infermità e dalle cure, invano
cercava riposare un istante; i suoi pensieri non potevano dormire in
lui; cessata una paura, ne sorgeva un'altra; questa idra dell'anima
lo lacerava con le sue cento bocche.... Ora se tale lo sconvolge la
semente, che sarà mai quando in mercede dei suoi tradimenti
avrà mietuto la infamia e il rimorso?
Dopo un affannoso avvolgersi per la stanza, si fermò davanti
al lettuccio dove dormiva il suo tristo compagno.
«Cencio», susurrava con parole interotte, «la tua
testa è troppo pesa di segreti e d'iniquità....
bisogna ch'ella ti cada dalle spalle;.... portala poi dove ti
sembra, pur che non sia sopra le spalle, a me poco importa. -
Cencio, tu ami tanto dormire!... io ti farò dormire a
bell'agio... non più viaggi... non più ronde... non ti
risveglieranno nè manco le bombarde.... cosicchè me ne
andrai obbligato. Tu sei un demonio e da tempo in qua mi sei
diventato ribelle, e per aggiunta mi schernisci.... bisogna che tu
muoi...»
E il dormiente tra il sonno mormora:
«Nel buon vino ho fede, - E credo che sia salvo chi ci
crede...»
«Tanto meglio; così non andrai dannato. Però....
costui non ha chi lo agguagli tra' miei... pronto, sagace, di mano e
di favella spedito... se lo potessi tuffare in Lete!»
«Santi del paradiso!» urta disperatamente Cencio,
balzando a sedere sul letto e con ambedue le mani tentandosi il
collo, «io mi sognava di essere strangolato! E voi, signor
Malatesta, che fate costì con quel pugnale in mano?»
«Io?» riprese il Baglione giocolando con la punta dello
stile, «intendevo pungerti, perchè tu cessassi lo
sconcio russare che mi turba il sonno.»
«Non era dunque troppo lontano dalla morte, signor Malatesta?
Però non avreste avuto buon partito. Gli astrologhi mi hanno
predetto che noi moriremo lo stesso giorno.»
«Cencio, parli davvero? Perchè non avvisarmelo
subito?»
«Perchè l'albero che mi deve appiccare non è
anche cresciuto, e il pugnale che mi deve uccidere non è
ancora fabbricato. Io torno a dormire: voi procurate di fare lo
stesso, ed avvertite bene che senza il consentimento di Dio voi non
potrete svellermi nè anche un capello di capo.... e buona
notte di nuovo.»
Malatesta confuso finse sdegnarsi della diffidenza di Cencio, - lo
chiamò ebbro; molte altre parole aggiunse, e tutte invano; -
Cencio dormiva come se nulla fosse avvenuto.
«Costui ha il diavolo in corpo, seppure egli stesso non
è il diavolo addirittura», disse il Baglione ed a sua
posta si gittò sul letto.
Il sole, assai alto, penetrava coi lucidissimi raggi traverso le
imposte della stanza del Malatesta, quando uno dei suoi fanti
percosse alla porta con molto riguardo. Malatesta, il quale non ben
dormiva, ma se ne stava mezzo assorto in cotesto assopimento
più assai tormentoso della veglia, perchè le cause di
terrore ti si mescolano confuse senza séguito nel pensiero,
di subito domandò che fosse.
«Magnifico messere, un mazziere della Signoria.»
«Della Signoria! Cencio! o Cencio! odi tu? un mazziere della
Signoria....»
«Che ora fa, Malatesta?»
«Un mazziere della Signoria.»
«Buona nuova.»
«Ed io la temo avversa.»
«Avete torto, s'ella fosse avversa, non ve la farebbero
notificare per mezzo di mazziere. A gente come siamo noi prima
mozzano il capo, fanno poi il processo; - animo, su, Malatesta,
questa è una buona nuova.»
«Dio voglia che sia così. - Avanti il mazziere.»
Entra il mazziere con grave cerimonia, vestito di scarlatto, con la
insegna del cuoune sul mantello, e salutato il Malatesta, gli espose
con solennità il suo messaggio.
«Strenuissimo e magnifico messere Malatesta, essendo finita la
condotta di don Ercole principe di Ferrara, piacque ai signori
Dieci, ragunata la Pratica, mandarvi alle fave per subentrargli
nell'ufficio di capitano generale della Reppublica. Essendo stato
vinto a favore vostro il partito, il magnifico gonfaloniere mi manda
a darvene avviso e a pregarvi di stare pronto a riceverne la
investitura questa stessa mattina con le consuete solennità
nella Chiesa di Santa Maria del Fiore.»
«Stamane! - appunto stamane! - ebbene, andate e riferite
ch'io, con le ginocchia della mente chine, ne rendo loro quelle
grazie che so e posso maggiori...»
Cencio a questo punto del discorso prese una zimarra di velluto di
Malatesta e la spiegò sopra la tavola. -
Malatesta notò quell'atto con la coda dell'occhio e riprese:
«Che, come il cuore, ho da gran tempo il corpo parato in
servizio di questa eccelsa Repubblica; che rimettendo in salute di
lei le sostanze e la vita, non mi parrà a gran pezza essermi
sdebitato dell'obbligo il quale a lei per gl'infiniti beneficii
ricevuti mi lega. Ora vi piaccia, mio gentile messaggiero, accettare
per amore mio questi pochi ducati...»
«Gran mercè, signore,» risponde il mazziere e con
atto di riverenza si allontana.
«Prendete! e' sono cinquanta ducati d'oro del sole; se
più non ve ne dono, attribuitelo a quel tristo di papa
Clemente, il quale mi tiene sequestrati i miei beni a
Perugia.»
«Sarieno anche troppi; - ma vi ringrazio, signore.»
«Come! rifiutereste voi cinquanta ducati d'oro nuovi del
sole?...»
«Messere, la legge lo vieta.»
«Qui non v'è legge che vegga. Quante cose la legge
vieta, e tutto giorno si fanno!...»
«La legge vede pur troppo, perchè ogni buon cittadino
la serba impressa qui nel suo seno, o signore. I padri miei, quando
emanarono siffatto provvedimento, lo riputarono buono; e
poichè tale parve a loro buono deve parere anche a me. - Un
giorno anch'io sarò chiamato a formare la legge; e se voglio
accogliere speranza che i miei figliuoli la osservino, forza
è innanzi tutto ch'io obbedisca a quella dei miei padri.
Nelle repubbliche ad ogni cittadino preme mantenere intatta la
legge, perchè creata da lui a beneficio universale; nei
principati ogni suddito s'ingegna rompere la legge, perchè
emanata da un solo a danno di tutti. Magnifico signore, voi
dimenticaste militare agli stipendii della Reppublica di
Fiorenza.»
E proferite queste parole non senza una qualche iattanza si
dipartiva. A noi non giunge nuovo il mazziere, avvegnachè
egli fosse Bindo di Marco, il giovane cavallaro che
accompagnò gli oratori fiorentini a Bologna. Il gonfaloniere
lo aveva promosso a cotesto ufficio per la sviscerata fede che aveva
alla Repubblica, ed egli lo esercitava con la solita devozione.
Malatesta si rimane col braccio teso, il volto tra stupido e
beffardo.
«Oh! vedi ve' dove mi si caccia un Licurgo... Hai tu sentito
come sdottorano questi maruffini? Cencio, dimmi, - ma che la
virtù forse ci sarebbe nel mondo?»
«E perchè no? Ci sono io, ci siete voi, ci è
questo giovane che rifiuta cinquanta ducati d'oro, ci è chi
paga per vendere, ci è chi vende senza essere pagato, ci
siamo tutti; ogni diritto ha il suo rovescio...»
«Cencio, e se un bel giorno io mi destassi virtuoso?»
«Voi non potete destarvi virtuoso, perchè la
virtù non è un vestito per modo che si possa dire: -
Cencio, aiutami a levarmi questo giubbone di ribaldo da dosso e
ponmi la zimarra di uomo onesto; - no, non si può dire: le
virtù non nascono mica come le natte sul naso, elle sono un
fiore con molta cura nudrito, su terra acconcia educato; con amore
continuo difeso; - all'età nostra può caderci in mente
la paura dell'inferno o quella molta più prossima del
capestro, e rimanerci da misfare; - tuttavolta ciò non si
chiama virtù. Ma lasciate di grazia coteste ubbie, vedete mo'
come il demonio vi spiana la strada; e' sarebbe ingratitudine
inaudita a disertarne la bandiera; e senza il diabolico aiuto a
questa ora chi sa quante volte sareste capitato male se io non era,
forse il mazziere metteva gli occhi sopra la lettera del
papa...»
«Dov'è la lettera?»
«Qui sopra la tavola; io l'ho ricoperta con la zimarra di
velluto.»
«Tu meriti ch'io ti faccia imbalsamare: - porgimela; d'ora in
poi non mi uscirà di dosso.»
E se la ripose insieme colla borsa nella tasca laterale delle larghe
brache alla spagnuola. Quindi, tremante o di gioia o di qualsivoglia
altra passione che adesso non importa ricercare, ordinò a
Cencio lo vestisse con gli abiti meglio sontuosi che serbasse entro
i suoi forzieri.
«Cencio, questa cappa mi pesa.»
«Pesano più quelle che Dante pone addosso agl'ipocriti
nell'inferno.»
«Marrano! - taci una volta, - tu godi a spaventarmi.»
«Io lo faccio perchè l'inferno non vi appaia affatto
nuovo quando ci entrerete. D'altronde deve il buon cristiano
apparecchiarsi alla morte.»
«Allentami il collare... mi stringe troppo.»
«Strinse più il capestro il collo di Giuda.»
«Cencio, per Dio! rammenta che la tua vita pende da un
filo.»
«Malatesta, non dimenticate essere destino che ambidue noi
abbiamo a morire il medesimo giorno.»
Quando Cencio fu per porgergli la berretta, notò come intorno
intorno vi avesse fatto ricamare in oro la parola libertas.
«Libertas!» esclama; «questa parola intorno al
vostro capo si addice come la parola di onore in bocca al ladro,
come la parola onestà su i labbri del dottore di legge, come
la parola giustizia in bocca al giudice.»
«Tu mi riesci fuori di modo insoffribile.»
«Se troppo vi paiono gravi i paragoni, - vi dirò come
il cappello da prete in capo a un senatore romano, come il cappuccio
di san Francesco all'Apollo del Vaticano...»
Così continuò l'oscena tresca di motteggi insolenti da
un lato, e di pazienza codarda dall'altro, finchè il signor
Stefano Colonna, forse per dissimulare il mal talento concepito nel
vedersi altri anteposto, con onorevole comitiva di capitani,
colonnelli ed altri principali nella milizia, si recò a casa
Serristori per prendervi Malatesta e accompagnarlo alla cattedrale.
Lettore mio benigno o maligno, secondo che ti parrà meglio,
per questa volta io ti farò grazia risparmiandoti la
descrizione del come avvenisse la investitura del supremo comando,
quali cerimonie vi si adoperassero, quali giuramenti vi si
proferissero. La tela è lunga, - ormai mi sono cacciato in
alto pelago, nè il punto donde mossi nè quello a cui
tendo ormai discerno, e il freno dell'arte mi abbandona; - mi
conduca a salvamento il voto del cuore, se il concetto dell'ingegno
non basta. Io pertanto non esporrò siffatta cerimonia,
poichè se mai, o lettore, ti avvenisse visitare Firenze,
andando al palazzo Gaddi ti occorrerà dipinta in un bel
quadro del Rosselli, o del Pomarancio; solo ti dirò che il
gonfaloniere nel consegnare a Malatesta le insegne della sua nuova
dignità, oltre all'avergli più volte rammentato la
morte acerba di suo padre Giampagolo, concluse:
«Piglia dunque, illustrissimo signore, piglia prodissimo
campione ed invittissimo general nostro, con fausto auspicio di te e
di noi da me gonfaloniere e da questa inclita Signoria in nome di
tutto il magnifico popolo fiorentino, questo stendardo quadrato
ricamato di gigli, questo elmetto di argento smaltato medesimamente
di gigli, arme del comune di Fiorenza, e questo scettro di abete
così rozzo e impulito com'egli è, in segno, secondo il
costume nostra antico, della superiorità e maggioranza tua
sopra tutte le genti, munizioni e fortezze nostre, ricordandoti che
in queste insegne quali tu vedi, è riposta, insieme con la
salute e rovina nostra, la fama e la infamia tua sempiterna.»
Malatesta abbracciò quasi commosso le insegne, e tra le
pieghe dello stendardo nascose la faccia, sulla quale mandò
il pudore il suo ultimo addio. Certamente avrebbe arrossito anche
Satana.
Poi piegò le ginocchia per proferire il giuramento solenne
dinanzi all'argenteo altare, dove molti capitani avevano giurato
prima di lui, come Raimondo da Cortona, Bernardone delle Serre, il
conte di Pitigliano ed altri non pochi, nessuno però con
animo deliberato, come il Baglione, di tradire la Repubblica. Ora
volle fortuna che, mentre ei si chinava a giurare, gli uscissero
dalla tasca, dove le aveva riposte, la borsa e la lettera di papa
Clemente. Dove siffatta lettera fosse stata spedita in forma di
breve, toccava Malatesta l'ultimo istante di vita: - fu sua ventura
somma che non vi avessero apposto il suggello del pescatore, o segno
altro qualunque il quale dichiarasse la sua origine. Dante da
Castiglione, che gli stava vicino, raccolse la lettera e la borsa, e
tentato Malatesta nel braccio, gli parlò sommesso:
«Capitano generale, vi è caduto roba di tasca.»
«Qual roba?»
«Una carta e una borsa.»
«Una carta! Ah! la lettera!» - E tinto del pallore della
morte, - «Spero, proseguiva, o messere, che vorrete rispettare
il segreto di un foglio capitatovi per questa via nelle mani.»
Cencio, quel suo fedele così corrivo a pungerlo di parole,
eragli poi legato per la vita con le opere; senza Cencio, Malatesta
non avrebbe impreso tanti avviluppati disegni, o senza fallo vi si
smarriva dentro. Cencio poteva chiamarsi l'angiolo custode del
delitto; ed ora vedendo lo imbarazzo dei suo signore, lo soccorse
piegandosi all'orecchie del Castiglione per susurrargli con arcano:
«Egli è concio fino all'osso di male francioso, e pur
non si rimane dal mantenere commercio con femmine di ogni
maniera.»
«Quando anche», risponde il Castiglione al Malatesta
toccando con la mano destra la lettera, «ve la mandasse papa
Clemente, conosco troppo gli uffici di gentiluomo per prevalermi nel
caso... Prendete, capitano generale...»
Malatesta stendendovi sopra prontissime le mani, aprendo le labbra
ad un sorriso, mentre gli stavano i denti stretti pel freddo della
paura, sibilò in certo modo le parole che seguono:
«E' sarebbe, messere, bene strana novella che io mi
presentassi a giurare fedeltà co' patti del tradimento sopra
la persona....»
«Dio solo», soggiunse Dante, «penetra nei
cuori...»
«Talvolta anche l'uomo», proruppe il gonfaloniere
Carducci, - e le parole accompagnò con tale uno sguardo
tagliente che Malatesta si sentì come fulminato: - forse gli
mancava l'animo dove per ricoprire la insolita confusione non si
fosse affrettato a toccare gli Evangeli e proferire il giuramento.
Furono gli Evangeli la tavola che lo salvò dal naufragio; -
ma Dio non paga il sabato.
Chi va in Terra - Nova, trova per quanto corre la fama, scogli i
quali, comechè di leggieri battuti, fanno sollevare le acque
a spaventevole grossezza, con rumore di tuoni e spessa morte di cui
si avvisa percuoterli. Il popolo si assomiglia a questi scogli
quando vede o sente cosa, che lo commuova forte a passione.
Contemplato quel giuramento, che gli pareva sicurissimo pegno di
libertà, dette in un grido... era di allegrezza o di rabbia?
Già mezzo lo aveva prorotto il popolo, e Malatesta non ne
ravvisava lo scopo; - piegò il capo atterrito, il grido fu
pieno, ed il suo cuore esultò. Ormai il cuore di Malatesta ha
messo il tallo sul delitto; i suoi fati lo tirano. E non pertanto
Malatesta fu un giorno valoroso capitano e versò copia di
sangue in Romagna in pro dei Veneziani. Nè però tanto
ne aveva versato che una stilla non gliene fosse rimasta nelle
viscere; piegando il capo, vide il popolo pronto su le armi a
mettere la vita per la libertà, vide la divisa verde, insegna
di una speranza ch'egli si era legato per patto a rendere inane, e
il corruscare delle armi, sentì il plauso delle genti, si
trasportò su' campi aperti, su le vicende della battaglia,
s'infocò nell'orgoglio della vittoria, il cuore vinse la
mente, e preso da entusiasmo agita la berretta ed esclama:
«Ai ripari, ai ripari, andiamo a sfidare i nemici!»
Ma quella stilla di buon sangue italiano in siffatto effluvio si
consuma, e se il volto gli diventa vermiglio, ciò fu come il
crepuscolo del pudore che muore. Quando la sua anima fu mutata,
sollevò gli sguardi ed incontrò la faccia di Cencio;
questa rideva di un riso che a Malatesta parve il De profundis della
sua virtù defunta; - veramente il paragone sa del grottesco,
nè io lo avrei adoperato, dove non mi avessero chiarito che
al Baglione parve per l'appunto così.
La milizia, ricevuto il comando dai capi, cangia ordine; e
stendendosi in lunghe file, s'incammina pel corso degli Adimari
verso la piazza della Signoria, ognuno dietro i suoi gonfaloni in
ammirabile apparecchio di guerra.
Ora avvenne che il capitano Francesco Ferruccio, il quale conduceva
la sua compagnia, montasse in quel giorno il suo bel cavallo turco
Zizim; uscito dalle angustie della Via Calzaioli presso al tetto dei
Pisani, per soldatesca baldanza prendeva vaghezza a farlo
corvettare, onde tutte mostrasse le stupende sue forme il nobile
animale. Lì presso una femmina col suo bambino al collo tanto
si era ingegnata con gli urti e con le preghiere che pure alla fine
giunse a cacciarsi sopra gli altri avanti; si scorgendo adesso
vicino il cavallo del Ferruccio, turbata da subita paura si volge
alla fuga; di sè sola curando ella dimentica il figlio;
sicchè aperte le braccia lascia caderselo dal seno. Appunto
in cotesto istante Zizim abbassata la groppa e posatosi su i
piè di dietro spiccava una corvetta, il fanciullo gli rotola
sotto; quando Zizim poserà le zampe davanti sopra la terra,
troncherà la vita di cotesta creatura.... infelice! ella,
baciata appena la soglia dell'esistenza, si sentirà respinto
nel deserto della morte. - Gli astanti torcono altrove lo sguardo,
per non vedere il momento sanguinoso; - sola la madre alza un grido,
- quale non udì mai Firenze dopo quello cacciato dall'altra
donna che bastò a sottrarre dalla bocca del lione il suo
figliuolo Orlanduccio. - I volti dei borghesi ritornano nella prima
loro attitudine - le zampe del cavallo si sono abbassate, - ma pure
hanno calpestato le selce; - il capitano Ferruccio di pallido
ch'egli era, riprese i suoi colori; le sue labbra sorridono adesso.
- Una vergine confusa tra il popolo non fuggì, - non
urlò, - non volse altrove gli sguardi; - appena contemplato
il caso, si mosse, splendida e presta come stella cadente dal cielo
e pose il corpo delicato tra le zampe del cavallo e il fanciullo. -
Il buon destriere, meglio che per il cenno delle redini tese,
di per sè stesso conobbe doversi rimanere a mezzo il suo
moto; tanto si sforzò che parve per buona pezza un modello
effigiato a rappresentare la immagine di statua equestre,
finchè la vergine non ebbe spazio a togliergli di sotto il
pargolo, quindi si slanciò brioso, - scalpitò spedito
tre o quattro volte il terreno, quasi intendesse manifestare il suo
giubilo.... E perchè no? hanno le bestie anch'esse passioni e
sovente meno triste degli uomini; - noi quando vogliamo oltraggiare
un uomo, lo chiamiamo bestia; - se le bestie possedessero la
favella, per ingiuriarsi, quante volte si direbbero uomo!.... e con
più ragione di noi.
La donzella solleva in trionfo il pargolo salvato, e lo affidando
alle braccia della madre, la quale stupida non sapeva ridere
nè piangere, così le parla:
«Donna! io vorrei rampognarvi, se il dolore che avete sentito
non superasse qualunque rimprovero. Custodite meglio il vostro
figliuolo; un giorno dovrete renderne conto alla patria e a
Dio.»
Il Ferruccio riconobbe la fanciulla; era quella dessa che nella
chiesa di Santa Croce potè con un cenno indurre alla pace le
anime superbe di Benedetto e Zanobi Buondelmonti; onde maravigliando
si volge a Vico Machiavelli, il quale gli cavalcava al fianco, per
domandargli chi ella si fosse. A Vico tremavano nelle mani le
redini; - egli teneva fitti gli occhi ardentissimi verso la parte
dov'era avvenuto il caso, - non dava ascolto al Ferruccio. Questi
seguendone la direzione conobbe posarsi sopra la fanciulla, la quale
a sua posta lanciò al giovane uno sguardo e sfavillò
in un riso bello come il baleno della notte stellata. Allora il
Ferruccio, scosso forte pel braccio Vico, gli dice:
«A voi mi raccomando, dacchè mi accorgo che avete
conoscenze in paradiso.»
E Vico sempre più trema, declina la faccia, e gli manca la
balía per favellare. Il Ferruccio si piega sopra la sella, ed
abbracciandolo amorevolmente soggiunge:
«Beato te! chè tanto più ci è cara la
patria, quanto maggior copia di affetti ci conserva.»
Continua l'ordinanza il suo cammino, - trapassa il Ponte alle
Grazie, - sbocca nella piazza Serristori. Già abbiamo narrato
come Malatesta sul principio dello assedio le case di questi
cittadini abitasse: - dirimpetto al palazzo sopra una base di pietra
serena sorgeva una croce colossale che in quei tempi stava per la
città come simbolo di fede palpitante e viva, non come segno
di linguaggio ormai non più inteso da nessuno. Intorno questa
croce sopra la base giace con la faccia stesa a terra un uomo
vestito di sacco, cinto di corda traverso i fianchi, nudo le
braccia, le gambe, i piedi scalzi; le chiome folte e sordide gli si
ripiegano sopra la fronte; le mani tiene giunte in atto di orare:
estenuato più che a corpo tuttora vivo si sarebbe creduto
possibile; se mai vedeste il san Giovanni dal Donatello condotto in
bronzo, avrete idea più completa di questa creatura e a me
risparmierete la fatica di meglio efficacemente descriverla. Costui
aveva nome Pieruccio.
Chi è Pieruccio? Nessuno sa dire se venisse a Firenze piovuto
dal cielo, o se ve lo avesse balestrato la terra, come il vulcano
una pietra; quanti anni contasse ignoravano: la sciagura aveva
prevenuto l'età nella rovina, e il tempo non trovò
ruga da aggiungere o contorno da guastare; le intemperie perdevano
forza sopra di lui, le infermità non l'offendevano; - forse
le tribolazioni alle quali va sottoposta la rimanente specie umana
volevano rispettare intanto quel santuario di dolore. Quando il
Savonarola predicò, egli accovacciato in guisa di cane sotto
il pergamo mandava ad ora ad ora così lugubri singulti che la
gente, sul primo atterrita, immaginò scaturissero dalle
viscere della terra, dove le ossa degli antichi defunti tocche dalla
parola potente si commovessero. La sua voce annunziava l'alba e il
tramonto della libertà di Firenze. Accostandosi il tramonto,
empiva la città del suo strido sinistro e spariva; - in qual
parte si nascondesse era mistero per tutti; la tirannide spesso lo
cercò per farne vittima, e gittò via tempo e danaro:
forse, come il serpe cessa di vivere nei giorni invernali, a lui
abbisognava per respirare un giorno scaldato dal sole della
libertà. I fanciulli quando lo udivano profetare per la via,
gli gridavano dietro: Pazzo! pazzo! - e ai gridi aggiungevano
sassate e offese d'ogni maniera. Il povero Pieruccio si volgeva e in
suono pietoso domandava: Perchè mi offendete? - Ma i
fanciulli, tratti da naturale vaghezza a mal fare, chè in
ciò mi trovo d'accordo con santo Agostino, non gli
attendevano, anzi vieppiù lo infestavano, sicchè
talvolta, la pazienza mutata in furore, ne afferrava alcuno, la mano
alzava a percuoterlo, ma, vinto all'improvviso da tenerezza, lo
rimandava baciandolo e benedicendolo. In Gerusalemme per avventura
lo avriano adorato, - poi forse crocifisso come profeta; - a Firenze
alcuni lo salutavano santo, più molti lo tenevano matto; chi
avesse ragione non saprei, e chi torto nemmeno; forse dipendeva dal
punto del quale lo consideravano; - certamente amava la patria.
Quando gran parte della milizia ebbe passata la croce, ecco ad un
tratto egli balza in piedi come tolto fuori di sè, porge la
destra mostrando un teschio umano al popolo ed esclama:
«Meglio per voi se le vostre teste fossero come questa
inaridite; - almeno qui dentro stanziano le formiche e talvolta anco
le vipere, nelle vostre poi non trova luogo nè anche un
pensiero. La maledizione di Dio vi ha percosso; - avete gli occhi e
non vedete, avete gli orecchi e non ascoltate. Guai a te, o
Fiorenza! Chi vuole intendere intenda. Ei vi fu nell'età
passate un barone di contado ricco dei beni della fortuna, potente
di vassalli, di famiglia avventuroso, a cui, come troppo spesso
accade, i suoi vicini volevano male di morte. Ora avvenne che certa
notte, sendo altrove la sua masnada, e si trovando solo nella
rôcca, udisse bussare la porta; si fece al balcone e vide un
pellegrino che gli domandò ospizio per Dio. Abbassa il ponte,
accoglie il pellegrino e lo convita a cena. Sazii di cibo e di
bevanda, - Or via, dice il barone al pellegrino, i miei occhi sono
gravi di sonno; ecco, prendi la mia spada e la mia lancia e guardami
la rôcca mentre ch'io dormo. - Il barone si addormentò,
e quando riaperse gli occhi si sentì il corpo ricinto di funi
e udì la voce del pellegrino, il quale recatosi al balcone
domandava a gente di fuori del castello: - Chi andate cercando? - Il
barone, - rispose il suo nemico, perchè abbiamo sete del
sangue di lui. - Quanto mi date, soggiunse il pellegrino se io ve lo
consegno con le mani e co' piedi legati? - Furono convenuti i patti,
il barone tradito... Ben egli rammentò al pellegrino,
l'ospitalità profanata, il benefizio largito, lo
supplicò per l'amore dei suoi morti per Cristo, pei santi, -
n'ebbe scherni, percosse; e fu tradito....»
Frattanto Malatesta e la sua comitiva si accostano tanto alla croce
che di leggieri possono intendere le parole del profeta. Il
Pieruccio nel vederselo comparire davanti non muta aspetto, non
varia discorso, anzi indirizzandosi baldanzoso al Baglione,
«Ecco», esclama, «ti riconosco all'impronta di
Caino; nè cotta di arme nè carne od ossa nascondono
allo sguardo di Cristo il pensiero del tuo cuore. Altri ha tradito
il Figliuolo di Dio, tu ne tradisci la figlia... però che la
libertà nacque del primo palpito di compassione che il
Creatore sentì per la sua creatura... Pentiti! - Se Giuda
è tormentato settanta volte, tu lo sarai settanta volte
sette...
«Toglietemi dinanzi quel pazzo!» - grida Malatesta con
labbri tremanti... «cacciatelo via... - trucidatelo...»
«Addosso! - Al matto! - Ammazzatelo! - Ammazziamolo! -
È un profeta. - Se la intende col diavolo. - Tacete,
impostore, avrebbe dato la posta al diavolo a piè della
croce? - È un santo, vi dico. - Un ladro, -
ammazziamolo.» - Così le turbe; e il Pieruccio, con
tale una voce che superò il mugghio delle turbe proruppe:
«Tu sarai tormentato settanta volte sette!»
«Sta a vedere come faccio tacere io quel tristo corvo»,
parla Cencio ad un suo compagno, - ed agitando in mano una grossa
pietra con tanta aggiustatezza la vibra che ne coglie su la tempia
l'infelice Pieruccio; - questi alzò le mani verso la ferita,
a mezzo l'atto gli ricascano abbandonate, piega la testa e batte di
forza sul tronco della croce bagnandolo di sangue... sangue meno
prezioso di quello che vi sparse sopra il Figlio dell'uomo, ma non
meno innocente: - poi rovinò e scomparve dietro la base di
pietra.
«Abbominazione!» gridarono alcuni cittadini inorriditi,
«nella terra dove si versa violentemente il sangue dei
martiri, la tirannide vive o la libertà si muore....»
«Cada dal braccio la mano che percuote colui che Dio ha
percosso!» gridarono altri. - Tutti poi si sentirono tocchi da
pietà: l'ira riarse nei petti dei fiorentini contemplando il
misero così malconcio da braccio straniero; le mani
involontarie correvano alle daghe sotto le vesti, - cominciava quel
suono cupo precursore delle popolari procelle. Se un qualche animoso
avesse rotto l'argine con una parola o con un cenno, cotesto era
l'ultimo giorno di Malatesta, e Dio sa quali altri destini si
apprestavano a Firenze; la fortuna non volle, ed invece
partecipò ardimento al Baglione di spronare il cavallo e
cacciarsi avanti; lo seguitarono i compagni con impeto uguale; le
ordinanze antecedenti incalzate ripresero il cammino; i popolani
vedendosi arrivare quella tempesta addosso sbandaronsi; l'amore
della propria conservazione spense la pietà per altrui; fu
sturbato il pensiero, tacque il volere; così per un punto il
popolo soventi volte riesce la più magnanima o la più
turpe delle cose create.
Un cavaliere solo uscì d'ordinanza, e questi fu Vico; - egli
non prestava fede alle profezie del Pieruccio, e non pertanto spesso
gli ricorrevano alla mente le sue sentenze; quei suoi detti non gli
sembravano matti, comechè le sue opere fossero ben folli; non
sapeva dire se lo amasse o no, ma nel fondo del cuore sentiva
affetto per lui: ond'ei lo avrebbe coperto del suo mantello per non
vederlo assiderato dal freddo, avrebbe il proprio pane spartito con
esso, gli avrebbe fatto del proprio corpo riparo; - ed ora vederselo
così scomparire sanguinoso davanti... incerto se fosse
rimasto morto sul colpo... era per lui troppo grave dolore; si
affrettò alla croce, scese.... Il Pieruccio giaceva immerso
dentro un lago di sangue, - un moto convulso dei labbri soltanto lo
accennava vivo; - l'anima a guardarlo ruggiva dentro a Vico di
rabbiosa pietà; - declina un ginocchio a terra, si curva e,
presolo di forza sotto le ascelle, lo pone seduto con le spalle
appoggiate alla base della croce; - qui mentre povero di consiglio
non sa in qual maniera aiutarlo, alza la faccia e mira a se davanti
quell'angiolo di consolazione, la sua amante Annalena; - bianca nel
volto, gli occhi dimessi e con la guancia china nel cavo della
destra, sembrava il genio della malinconia pensoso su le miserie
della umanità.
«Povero Pieruccio!» sospirò Annalena, e subito
dopo: «Vico, andate per un po' di acqua, e sovveniamo questo
sventurato.»
Vico ricambia con la vergine uno sguardo, e recatosi sul greto del
prossimo Arno, empie di acqua la barbuta e ritorna con passi veloci.
Annalena, lacerata parte delle sue vesti, aveva allestito le bende;
- genuflessa anch'ella rimosse prima con man leggiera le ciocche dei
capelli aggrupati di sangue, levatosi un pugnaletto di seno le
recise; quindi lavò la ferita, speculò attentissima
non vi fosse rimasta dentro o terra od altro corpo estraneo;
compresse forte le margini della piaga e stringendo fasciò
con amorevole cura la testa al misero Pieruccio. Ripresa poi con
ambe le mani copia di acqua, glie ne rinfresca la faccia. Pieruccio
scioglie un gemito e mormora:
«Perchè mi richiamate alla vita? Perchè riaprite
gli occhi miei tristi? Io sono stanco di piangere su le superbe
miserie, su i delitti e su i dolori della stirpe alla quale
appartengo - alla quale avrei voluto non appartenere; - stirpe che
aborro ed amo, - che desidero e dispero contemplare felice... Oh! mi
lasciate morire in pace.»
«Su via Pieruccio, confórtati..... vedi a che ti mena
lo sciogliere, come fai, il freno alla lingua! - sii cauto una
volta. - Se la città può salvarsi, sarà salvata
dagli uomini prudenti che la governano; se deve perdersi, allora
perchè spaventi i cittadini sopra una fortuna che conosci
irreparabile? Manda fuori del tuo petto una preghiera od una
maledizione e nasconditi nella eternità....»
«Giovinetto, rampognerai tu il corvo perchè va vestito
di piume nere, o riprenderai la nottola perchè grida con urlo
dolente? Dio ci ha creati; forse posso frenare le parole che mi
prorompono dalla bocca? Qui», e il Pieruccio si tocca la
testa, «sovente io provo un tumulto, uno strepito di mille
trombe, un'angoscia come se il cranio mi si screpolasse... Allora mi
pare di scorgere il cuore dell'uomo traverso la carne e l'ossa, come
se fosse dietro ad un cristallo; - immagino penetrare col guardo la
terra, quasi acqua limpida di lago, e scoprire gli arcani della
natura: i pensieri mi cadono irresistibili giù dal cervello,
e la lingua li trasporta al sommo dei labbri... Così, quando
la tempesta mugghia sul monte, si staccano i sassi dall'antico
dirupo, e le acque dei fiumi li rotolano fin su le spiagge del
mare.»
«Pieruccio mio, se non ti riesce tacere, almeno ti cela: le
tue parole tolgono l'animo a chi ti ascolta. Se ami la patria
davvero....»
«E chi dunque amerei, se non amassi la patria? O patria mia!
io non conosco madre, non padre, non ebbi fratelli, sposa o
figliuoli... io sono solo.... e non pertanto mi fu dato un cuore che
avrebbe bastato a tutti questi affetti... un tesoro di amore.... ma
io non lo potei partecipare con alcuno.... nessuno volle il mio
amore... non seppero che cosa farsene.... lo hanno schifato come la
veste dell'uomo morto di contagio... e allora quelle linfe purissime
sono divenute stagnanti... si contaminarono e presero a sgorgarmi
nelle vene avvelenandomi il sangue, in verità.... in
verità il mio sangue è attossicato.... Non ci credi?
Togli un insetto, pommelo sopra la pelle e vedrai come rimanga
ucciso dall'effluvio mortale.»
In questo punto passavano due cittadini i quali mostravano per loro
bisogne incamminarsi verso la parte meridionale di Firenze. Vico, a
cui premeva correre al Monte, perchè se i nemici avessero
risposto con le artiglierie, ed egli non vi si fosse trovato
presente, dubitava non gliene venisse taccia di viltà, li
chiamò con modi cortesi e li pregò a volere essere
benigni a quel misero loro concittadino accompagnandolo all'ospedale
di Santa Maria Nuova; lo raccomandassero allo spedalingo in nome del
capitano Ferruccio, onde ne avesse cura come suo uomo; gli avrebbe
rimunerati Dio della carità che usavano verso cotesto
infelice fratello.
I cittadini sottentrando al Pieruccio lo menavano quasi sollevato da
terra; al tempo stesso rivolti a Vico dicevano:
«Messere, non ci è mestieri preghiera; può egli
il cristiano a piè della croce ricusare carità verso
il prossimo?»
Annalena levò le braccia in atto d'invocare esclamando:
«Conceda il padre degli uomini la benedizione di Giacobbe a
voi, ai vostri figli, ai nipoti, fino alle più remote
generazioni.»
Il Pieruccio in andando teneva fitta la faccia alla croce e
favellava:
«O Cristo! molti furono i dolori che travagliarono l'anima
tua, ma tu avevi intelletto divino, e tuo padre ti aspettava nei
cieli... Se un Simone cireneo mi avesse sovvenuto a portare la
croce, se un'amorevole Veronica mi avesse asterso la fronte del suo
sudario, io avrei implorato questo supplizio per misericordia... a
me i chiodi, la lancia nel costato... a me il fiele e l'aceto,
purchè a piè del patibolo io vegga piangere l'amico...
venir meno la madre... - un atomo di amore, - un pensiero di amore e
poi una eternità di tormenti... O voi giovanetti gentili,
nobili fiori di questa terra esecrata... e voi morrete su l'alba
della vita... nella età delle promesse e delle speranze...
voi siete dei traditi... amatevi... affrettatevi ad amare... bevete
di un tratto la tazza della vostra gioia... perchè la morte
sta per irrigidirvi la mano con la quale l'accostate alle
labbra.»
E più altre parole egli aggiunse dai due amanti non intese o
non curate; pieni entrambi di desio, ebbri del piacere di vedersi e
di udirsi, godendo il presente, più molto sperando nel
futuro, potevano darsi pensiero delle parole del povero insensato?
Appena il volo della rondine nel cielo vincerebbe il corso dei due
amanti sopra la terra; giungono in vetta al poggio di San Miniato
prima che mettessero fuoco alle artiglierie. Il campo nemico
appariva deserto: tranne le scolte, non si mostravano fuori delle
tende soldati o capitani; ogni cosa taciturna dintorno. Malatesta,
levato in alto il bastone del comando, intimò si procedesse
alla sfida degl'imperiali, volendo osservare l'antico costume
pratico nella milizia. Di subito quanti accoglieva suonatori la
città agli stipendii della Signoria o volontarii cominciarono
a muovere incredibile frastuono di trombe, tamburi ed istrumenti
altri siffatti; poichè furono rinnuovati tre volte quei
fragori marziali, sempre il Baglione ordinando, appiccarono il fuoco
a tutte quante le artiglierie così grosse come minute, le
quali erano numero inestimabile. All'insolito rovinìo
rimbombarono le acque e i colli vicini, la terra si scosse,
tremarono le fabbriche; sopra tutte le bombarde tuonò
spaventevole la enorme colubrina gittata da Vincenzo Biringucci da
Siena, la quale pesava meglio di diciotto migliaia di libbre;
l'avevano posta in cima al cavaliere innalzato tra San Giorgio e San
Pietro Gattolino, e la chiamavano così per vaghezza
l'archibugio di Malatesta. Un fumo densissimo ingombrava cielo e
terra; e quando prima cominciò a diradarsi, si vide in mezzo
scaturire dai fiocchi di nebbia la terribile persona di Lupo che in
cima al campanile di San Miniato caricava, scaricava, maneggiava in
somma quei pesanti istrumenti di guerra come se fossero altrettante
sue braccia di bronzo; per poco che lo spirito di chi lo vedeva si
fosse nudrito nella lettura delle antiche leggende, lo avrebbe
creduto Briareo, ossivero un demonio posto dalla gran forza delle
incantagioni a custodia di un castello fatato.
Oltre la vana ostentazione descritta, Malatesta mandò fuori
delle porte, al principe d'Orango un trombetto col pegno della
battaglia, e il principe, presentatolo magnificamente, gl'impose
riferisse: - essere suo costume combattere quando gli tornava
comodo, non quando piaceva al nemico; stessero pronti in
città, perchè quanto prima le avrebbe dato l'assalto.
- Così ebbe fine cotesta bravata. I Fiorentini calcolarono
meglio di mille libbre di polvere persa senza costrutto. Si
partirono dal monte alla spicciolata; la milizia, rotti gli ordini,
si partiva anch'essa in confuso; pochi uomini rimasero colla
Signoria e col Malatesta.
Allora il gonfaloniere mostrò desiderio di ricondursi al
palazzo. Malatesta ossequioso volle a ogni costo accompagnarvelo, e
così ripresero il già percorso sentiero.
Ornai si avvicinano alla croce; Malatesta lasciandovi sopra uno
sguardo obliquo, ne vede sgombra la base, cosicchè gli parve
respirare più libero ma gli riesce la speranza invano: ecco
di repente sorgere dalla pietra la figura di Pieruccio col capo
avvolto di bende sanguinose e minacciarlo col pugno e rampognarlo
feroce:
«Sarai tormentato sentanta volte sette!»
Il Baglione, preso da cieca ira, si stracciò a morsi le
maniche delle vesti... di nuovo stette per movergli addosso... di
nuovo Cencio si apparecchiava a ferirlo per modo da non tornarci la
terza volta. I cittadini svelsero a forza dalla base il Pieruccio e
lo celarono in mezzo di loro. Egli era andato buon tratto di via con
gli uomini ai quali lo aveva commesso Vico Machiavelli; giunto alla
piazzetta dei Castellani sfuggiva loro di mano e tornava al posto
periglioso per maledire di nuovo il Malatesta.
La Signoria e il Baglione procederono in silenzio. Giunti presso al
palazzo, Malatesta facendosi più dappresso al Carduccio, gli
favellò:
«Spero, magnifico messere, che vi darete ogni cura di porre al
martore il ribaldo che in me per ben due volte oggi offendeva la
maestà della Repubblica, e quindi, come conviene, gli
mozzerete la testa.»
«Strenuissimo capitano, gli Otto e la Quarantia hanno
potestà di far sangue, non io; provvedetevi davanti a cotesti
magistrati... - Ma tornerà poi in onor vostro, messere,
contendere col pazzo? - Pensateci!...»
«Se lo tenete per matto, allora chiudetelo.»
«Prima dei pazzi vorrebonsi sostenere uomini bene altramenti
pericolosi alla città, Malatesta...»
«E quali, messere?»
«I traditori.»
Qui il Carduccio, chinata la persona in atto di reverenza, pose il
piede sul primo gradino del palazzo della Signoria e si
allontanò.
Malatesta rimase per alcuni momenti stupefatto; poi si volta pensoso
camminando in silenzio; ad un tratto egli chiama:
«Cencio!»
«Malatesta!»
«Bisogna raddoppiare le guardie al mio quartiere...»
«Bene: - sarebbe meglio però andare ad abitare presso
alla porta di San Pier Gattolino. Costà avete prossimi i
Côrsi e i Perugi vostri; l'uscita al campo ad ogni evento
prontissima.»
«Purchè si possa fare senza destare sospetti!»
CAPITOLO DUODECIMO
MARIA DEI RICCI
Amore alma è del mondo, amore è mente.
Che volge in ciel per corso obliquo il sole.
Tasso, Rime.
O giovanetti, sul lago del cuore
Vada trescando per poco l'amore.
L'abbandono, Melodie liriche.
Noi ci amavamo un giorno!... Quando prima mi comparisti davanti
tutta lieta di gioventù e di bellezza, io pensai di averti
già amato. Allora credei avesse compreso Platone un mistero
divino quando affermò le anime destinate ad amarsi ricevere,
prima di nascere, in cielo la impronta della creatura diletta. In
qual parte ti vidi? - Su la primavera della vita, in un mattino di
primavera, il raggio del sole, poichè ebbe benedetto la
famiglia delle piante e dei fiori, si posò sopra le mie
palpebre socchiuse; l'anima, repugnante dalla vita reale, or
sì ora no, si affaccia alle pupille, come la vergine dubbiosa
tra la voglia di conservare immacolata la sua tunica bianca e la
voluttà promessa dall'amore.... in quel punto io ti vidi, o
mi parve vederti a guisa di farfalla batter l'ale per quel torrente
di luce: - ti vidi e ti sentii tra le melodie dell'uccello
innamorato della rosa, tra gl'incensi arsi alla maestà
dell'Eterno, nella voce arcana dei boschi, fra il rumore della
cascata, fra le lacrime della riconoscenza, nella gentile alterezza
di un'azione magnanima. - La tua immagine dava moto al creato; -
confusa con tutti gli enti ella ne svelava al pensiero le secrete
bellezze come il raggio della luce rinnuova l'iride dei colori nelle
infinite stille di rugiada tremolanti su le foglie al principio del
giorno. Bastò uno sguardo! - Al primo tocco le anime nostre,
puro elettricismo di amore, si ricambiarono la stanza mortale; tu
vivesti la mia anima... io vissi la tua.»
«Il figlio della terra leva gli occhi ad ammirare la grande
opera della creazione quando il firmamento mena a scintillare per
gli azzurri sereni tutti i suoi pianeti, e d'ora in ora corrusca di
un baleno, - quasi sorriso di fuoco per esprimere l'allegrezza che
sente nel contemplarsi tanto maestoso nello specchio delle acque. -
Io però non levai gli occhi, li declinai, perchè - Dio
mi perdoni - il tuo volto mi parve più bello del cielo.
«Tu lo rammenti? - posavi il tuo capo qui sul mio seno;
l'arteria della tua tempia rispondeva al palpito del mio cuore....
stretti così che il suo calore t'infiammava le guance, le
quali si facevano vermiglie con gli effluvii della mia vita. - Io
poi, come chi si diletta guardare pei lavacri più puri che
sgorgassero mai dall'urna della ninfa le arene d'oro giù nel
fondo, con i miei occhi intenti nei divinissimi tuoi contemplava
traverso il nero delle tue pupille effigiata la breve mia immagine e
credeva vedertela impressa in mezzo dell'anima. Noi non dicemmo
parola, - nè un sospiro, - nè un alito. Talora lieve
lieve io sfiorava co' labbri la tua fronte, come per deporvi la
corona dell'amore. I nostri spiriti armonizzavano splendidi quando
la gemma e come lei pellegrini. Noi non giurammo di amarci, credemmo
la eternità verrebbe meno nel misurare la durata del nostro
amore; - stimammo il nostro affetto più immortale di Dio!....
«Il tempo che, comunque antico, sapeva dovergli bastare la
vita per vederne la morte, sorrise, - il tempo che cancella le
generazioni, i sepolcri e le memorie, - perchè lascerebbe
intatto un sentimento del cuore? Non ha egli forse consumato i
caratteri incisi sul granito orientale?
«Chi mi dirà la traccia dell'aquila traverso il cielo?
Chi distingue là via del serpente sopra la terra? Chi
potrà conoscere che l'amore abbia agitato le anime nostre? -
Ahimè! le ceneri fanno testimonianza dello incendio. - Le
corde dell'arpa si ruppero; una trama mortale la ricuopre adesso...
mortale all'insetto soltanto, nondimeno mortale; - eppure un giorno
il menestrello ne trasse suoni dolcissimi, di cui è fama gli
susurrasse le note l'angiolo dell'armonia in un estasi di amore.
«Oh! perchè mai vuotammo intera la tazza della
voluttà? Chiunque vuole che nel suo petto duri la fiamma
libi, non beva. - Non vi fu amaro nel fondo, no, ma stille insipide
e rare dopo il sorso lungo. - Come il filosofo che sentì
sfuggirsi nelle tepide acque il sangue e la vita, il nostro affetto
morì svenato nella copia del piacere.
«Ti chiamerò infedele? T'imprecherò sul capo
Nemesi vendicatrice dei giuramenti traditi? No: - tu potresti
mandarmi pari rimproveri, imprecarmi sul capo simili furie. -
Vorrò favellarti una parola di conforto? - Tu ti sarai... tu
ti sei consolata. - O tenteremo piuttosto ravvivare queste ceneri e
studiare se vi fosse rimasta qualche scintilla sotto? No; - dopo le
ceneri null'altro avanza che invocare i venti a disperderle. Il
pensiero è impotente a resuscitare il cuore; - vedi, - siamo
anime confinate dentro statue di marmo. Prometeo e Pigmalione
poterono col fuoco celeste infondere la vita alla cosa inanimata, ma
il nostro cuore visse anche troppo; adesso egli è morto...
morto per sempre!
«Havvi una cosa nel creato che non si consuma nel fuoco e si
chiama amianto, - ma non sente e non piange; - avvolge i cadaveri,
onde la cenere umana non si confonda con la cenere dei carboni...
perchè tu sai che non si distinguono le ceneri. Tutto
così! Donna, comunque le tue mani sieno brevi, tu puoi tenere
nella tua destra Cesare, nella sinistra Napoleone, - sono poca cosa
i defunti! La terra pareva non dovesse bastare il sepolcro di
cotesti potenti, e adesso ti avanzerebbe il cavo della mano.. -
inutile insegnamento, la terra andrà sempre ingombra di
tiranni e di oppressi... - e l'anima? Oh! l'anima, domandane alla
nuvola che passa, ella conosce meglio di me il regno dei venti.
«Dovevano dunque i nostri cuori soltanto rinnovare il miracolo
del roveto ardente comparso a Moisè? - Vieni, sacrifichiamo
all'oblio...
«O scempio, frena l'ebbrezza del pensiero! Perchè
tenterai nasconderti la tua maledizione? S'inganna ella forse la
coscienza? il tuo spirito vide la ghirlanda della speranza
calpestata su l'alba della vita. Tu sei a contemplarti doloroso,
come nel deserto di Tebe la colonna rimasta sopra la base tra le
mille cadute, quasi cippo della morta città. Coscienza
feroce, almeno tu mi lasciassi la lusinga di reputarmi grande!
Accompagni almeno la superba nel suo inferno il nuovo Lucifero! -
Ahi sventura... sventura! perchè sopravissi ai funerali del
mio amore?»
In fè di Dio! chi scrisse queste pagine certo fu un giovine
innamorato che cominciò per credere a tutto e finì per
non credere più a nulla, come ogni giorno succede; - esclamai
io leggendo le riferite diavolerie, scritte di carattere minuto
nelle fodere interne di un Petronio, sul quale stamane mi aveva
preso vaghezza di riscontrare la storia della matrona di Efeso. Ella
è cotesta una famosa storia in verità che in sostanza
racconta di certa vedova la quale disse addio ai parenti e agli
amici per terminare la vita nella sepoltura dove aveva riposto il
corpo del marito, e indi a poche ore lo impiccò per salvare
l'amante, come meglio potrete vedere, mie benigne lettrici, in
Petronio scrittore latino e cortigiano di Nerone d'imperiale
memoria. Voi dame e cavalieri, e sopratutto voi, dame, percorrendo i
primi versi di questo capitolo avrete per avventura immaginato
ascoltare la espressione dei sentimenti del poeta, la relazione
intima di un qualche affetto sciagurato... e forse alcuna di voi
avrà pianto su me: consolatevi, - quei versi non mi
appartengono, forse non corrispondono a nulla di vero, a niente di
accaduto; per me, penso che gli abbia scritti uno scolare di
retorica per esercitarsi a comporre metafore, similitudini, l'altra
famiglia di figure oratorie descritte dal padre De Colonia, diverso
assai dell'acqua fabbricata dal Farina, di cui voi tanto e a ragione
vi compiacete, mie nobili dame. Se poi mi domandaste perchè
io gli abbia messi, vorrei potervi rispondere, come messere Lodovico
Ariosto: «Mettendoli Turpino anch'io gli ho messi»; - ma
poichè così rispondere non mi è dato, vi
dirò sinceramente quasi per confessione, che non lo so
neppure io: - forse perchè il presente capitolo
favellerà di amore... guardate un po' voi se questo ch'io
esposi potrebbe essere una buona ragione.
Parlo di amore. -
Ella era bella, ma infelice, - fuori di misura infelice.
E pure quando, giovinetta, tutta riso, menò i lieti balli o
convenne alle giojose adunanze, i circostanti trattenevano fino il
respiro per paura di turbare la serenità dell'aere che
circondava quel caro angiolo di amore.
E qualcheduno ancora gemè considerando la fragile creatura
folleggiare spensierata sul margine della vita, come fanciullo
sull'orlo dell'abisso...Dio la preservi dalla vertigine!
Allorchè, bianca più della rosa che le coronava la
fronte, si accostò agli altari, la gente diceva: Va, va, egli
è soave affanno quello della vergine che si reca a marito! -
Allorchè tremò, - abbrividì, stette per cadere
in deliquio, la gente riprese: - Bene per piacere si manca!
Finalmente quando un sospiro le fuggì dai labbri, - una
lagrima dal ciglio, - Ah! troppo era colma, esclamarono, la coppa
della gioja, e n'è traboccata una goccia. -
E non pertanto cotesta stilla spense irreparabilmente l'ultimo
guizzo alla fiaccola della speranza. La incantatrice della vita
mutò la veste diafana nel manto funerario e si giacque nel
suo cuore come dentro un sepolcro di pietra; - quivi ella se la
sentiva inecittabile, - pesa; e l'era forza tenerla così
spenta del continuo davanti con quel dolore che l'Ariosto racconta
di Fiordiligi, la bella sconsolata, vigilante sul corpo del suo
sposo, Brandimarte ucciso in battaglia.
Ahi quante volte al cielo levando la faccia lagrimosa aveva
supplicato: Signore, rimuovi da me il calice della vita, - è
troppo amaro pei miei labbri mortali! - quante con la fronte
toccando il freddo marmo degli avelli per temperare l'ardore della
fronte, si volgendo alla cenere quivi dentro rinchiusa,
esclamò dal profondo delle viscere: T'invidio perchè
riposi!
Dove nella sua fanciullezza non l'avessero atterrita con le storie
di luoghi pieni di pianto, di fuoco e di furore, il talamo nuziale
avrebbe ella già convertito in bara; - avrebbe reciso i suoi
giorni in offerta al Dio del dolore siccome fa la vergine della
lunga chioma, quando abbandona il mondo per la solitudine del
chiostro.
Nessuno la rammenterebbe adesso; - sarebbe scomparsa fugace quanto
la promessa della felicità, - quanto il voto dell'amore; -
avrebbe vissuto la vita dell'anemone svelto sull'alba, la vita del
grano d'incenso caduto sul fuoco, - profumo breve e poi oblio.
Ora chiunque la contempla geme per lei, perocchè ella sia
bella e trista a vedersi come la rovina degli antichi tempii
dell'Attica, rovina di marmo pario, di colonne corintie, di
capitelli dalle foglie di acanto, di frammenti di statue di Fidia -
maraviglia dell'arte, - pianto del cuore; e la mestizia le si
diffonde tenace sul volto nel modo stesso che l'edera s'insinua
ingombrando quei ruderi di tempii e di numi.
Si volse alla creatura e le domandò una stilla di refrigerio
alla pena che durava; la creatura o folleggiava lieta e non volle
contristarsi per lei, o piangere per sè e non volle cederle
nè anche una lagrima; - allora si volse al cielo, e quinci le
venne una rugiada sull'anima, perchè la religione le aveva
detto abitare nei cieli una divinità che fu anch'essa
creatura umana ed infelice.
Ella se ne sta raccolta dentro la cappella domestica, - un luogo
tristo quanto i suoi pensieri; - con le sue mani ella stessa l'aveva
addobbata a lutto. Il vivido sguardo del sole attraversando le tende
di colore oscuro quivi diventava lugubre. Oltre i due terzi della
stanza sorgeva una balaustra di marmo, e subito dopo due svelte
colonnette, su i capitelli delle quali posavano ambo i lati di un
arco; - dall'arco pendono le tende raccolte a mezzo e sospese ai
fusti delle colonne.
Arde nel santuario una lampada davanti la immagine della madre di
Cristo.
Rafaello fu che dipinse cotesta immagine. Gl'Italiani sanno come
quel portentoso nell'arte dipingesse; gli altri vengano e vedano, -
dacchè per parole non si descrive l'opera di Rafaello.
Davanti quel volto celeste il cuore ti si commuove di un senso che
par desio e finisce in preghiera; - quel volto si confonde con
quanto di arcano e di sacro ti sta riposto nell'anima, ai primi
pianti consolati, - ai primi dolori di tua fanciullezza repressi, -
ai primi labbri sorrisi, alla memoria del sospiro che primo l'amore
suscitò nel tuo seno, - alla prima lacrima versata sopra le
umane sciagure; cosa in somma affatto divina e italiana.
Ella legge un libro coperto di velluto nero rabescato con fermagli
d'argento di molto sottile lavoro; un bel libro, ma di dolente
argomento; - l'ufficio dei morti.
E perchè prega la donna? Ella pur sente chiamarsi dalla
diletta genitrice col dolce nome di figlia; lei salutano col nome di
sposa; le sue viscere tremano quando una voce le dice: Mamma! mamma!
addormentami sopra le tue ginocchia. - Perchè dunque ella
prega?
Prega per l'anima di un defunto a lei più caro della
genitrice, dello sposo, della stessa sua figlia... ma questo
è un segreto fra il suo cuore e Dio.
Sfuggito le fu appena l'amen dalle smorte labbra, chiuse il libro e
lo tenne stretto tra l'indice e il pollice di ambedue le mani; - poi
si pose a meditare.
E tanto si profondò in cotesta meditazione che non pareva
più cosa viva; gli occhi lucidi, - intenti - aridi come di
vetro incassati dentro testa di cera: - all'improvviso le
balenarono, le si empirono di lagrime, e prorompendo in pianto
irrefrenato fra i singulti esclamò: «Oh! questo
è troppo gran tormento, Signore!»
Ed invero gravissimo era il tormento che travagliava in quel punto
la povera Maria dei Ricci, moglie di Nicolò Benintendi.
Si affaccia alla porta della cappella la testa di giovane di cui le
sembianze dimostrano un impeto indomabile ed una pietà
profonda; i capelli lunghissimi spartiti sopra la fronte gli
scendono sopra le spalle, le guance ha rase e pallide, il labbro
superiore coperto di peli radi, la bocca mezzo aperta e tremante di
moto convulso, le sopracciglia tese e gli occhi aridi, ma che pure
si palesano usi alle lagrime; - muove un passo, - due, e tutta svela
la persona alta, spigliata, di vaghissime forme; veste abito corto
di velluto verde senza ornamenti, tranne la croce di san Pietro, di
cui lo creò cavaliere papa Lione X; non porta collare; gli
cinge i fianchi una larga striscia di corame attraversata sui remi
da lunga daga; le calze di panno bianco, le scarpe di pari stoffa
con la rosa di seta verde sul grosso del piede; nella destra tiene
il berretto di velluto colore di fuoco, ornato con bianca piuma; -
nella sinistra l'elsa della spada alta da terra fino all'ascella,
mirabile pei molti fili di acciaio brunito attorti con maestria a
guardia della mano. - Soprastà alquanto senza punto rimuovere
lo sguardo della donna; - geme sommesso, - a mano a mano con passi
leggieri si avvicina a lei; - muove la bocca per favellare, e non
può - dopo alcun tempo si riprova, e neppure adesso gli
riesce; - alfine, con tale una voce che parve sfuggire a forza dalle
fauci strette, mormorò:
«E sempre in pianto, Maria?»
La donna solleva lentamente la faccia e risponde soave:
«È mio destino, Ludovico, - ed anche ahi! pur troppo
della maggior parte dei viventi.»
«Ma perchè questo pianto? Appena vi mostrate, ogni
cuore esulta; - a voi sta creare il paradiso dovunque presentate la
vostra faccia bella; - vi amano tutti ed onorano; - più di
una lacrima di orgoglio sparse la vostra genitrice nel contemplarvi
regina della festa... perchè le fate adesso scontare quella
lacrima con tanto pianto di angoscia? Perchè questo arcano e
disperato dolore?»
«M'insegnò la sventura essere gli uomini curiosi e
crudeli. Ora punti dal desiderio mi travagliano per sapere cosa che
conosciuta poi o non curerebbero o forse ancora irriderebbero. Oh!
ben provvide il cielo allo schermo dei miseri quando pose il cuore
in parte dove dall'occhio di Dio in fuori alcun altro non penetra:
se la carne che ci fascia fosse trasparente, - se il cuore fosse un
libro che ogni uomo potesse sfogliare a suo senno, nessuno vorrebbe
sopportare la sua miseria. - Crudeli! prima di porre le mani su le
piaghe dell'anima, imparate a sanarle. Lasciatemi piangere sola; -
io nulla chiedo da voi, - non vi turbo, - nascondo la mesta mia
faccia per non contristarvi. Il mio dolore mi è sacro e non
lo esporrò alla curiosità o agli scherni
vostri.»
E qui, vedendo quanto coteste parole pungessero amare il giovane
Ludovico, soggiunse:
«Io non lo dico per voi, Ludovico, - no; pur troppo io so che
voi, come siete cortese, vorreste consolarmi anche a prezzo della
vostra vita, e se io mai mi piegassi ad aprire l'animo mio ad
alcuno, o voi sareste quel desso, o nessuno altro sarebbe: ma,
credetelo, i miei affanni non possono confortarsi, - o se pure si
possono, sta il sollievo delle mani di Dio - e della morte. Ond'io
supplico il cielo a preservarvi da un dolore che - come il mio - la
pietà finta dei molti detesta, e la vera dei pochi rifiuta,
imperciocchè gli riesca inutile affatto.»
«E me ne ha preservato, o Maria? E che è dunque questo
affetto il quale dentro di me ribolle quasi lava di vulcano?
Perchè là dove gli uomini tutti sperano dolcezza, per
me fu posto il delitto? Perchè l'amore, agli altri luce di
vita, per me solo fuoco divoratore? Giova altrui manifestarlo: il
mio deve ardermi celato nel cuore come lampada dentro il sepolcro; -
se io mai ardissi domandare aita al tormento che mi opprime, voi
stessa, Maria, sì pietosa e sì buona, voi stessa mi
dareste per sollievo una rampogna, - o forse, chi sa? una
maledizione.»
«Tacete», interrompe la donna gli ponendo una mano sui
labbri; «paionvi discorsi questi da tenersi ai piedi degli
altari; davanti la immagine della Madonna Santissima?»
«E perchè no? e di cui dunque la colpa, se non di Dio?
O egli non doveva creare la passione, o non creare il delitto...
egli ha errato; - sopporti la pena del suo misfatto...»
«Voi bestemmiate!»
«Bestemmio io! - Or via unitevi anche voi, incauta, ad
esecrare il cervo perchè non ebbe forza da resistere al
lione; mi circondarono le onde, Dio supplicai e gli uomini, contesi
più che all'uomo non fu concesso lottare; finalmente fui
sopraffatto, la passione mi ravviluppò nelle sue braccia
feroce più dei serpenti di Laocoonte; - io giacqui vinto,
prostrato così di ogni vigore che ardisco invocare e non
darmi la morte.»
«Venitemi compagno alla preghiera. Dio affanna e consola; Dio
tutto può...»
«Voi che lo stancate da mattina a sera..., ditemi, vi ascolta
meglio di me che non lo prego mai?»
«Ah! egli vi ascolterà... Dio tutto
può...»
«Forse nel male. - Ma io non temo nè spero nulla da
lui. Quando l'aspide non aveva peranche insinuato il suo sottile
veleno per le fibre della mia vita, allora dovea sovvenirmi; -
adesso non è più tempo; il mio dolore compone la mia
esistenza: - io non vorrei cedere un minuto di questo affanno
mortale per un secolo delle sue insipide gioje celesti. Dove potesse
svellermi l'Eterno questo spasimo di amore dall'anima, io lo
rinnegherei, - e percuotendo alle porte dell'abisso, supplicherei a
Satana: Dammi il tuo inferno e conservami il mio amore.»
«Voi mi fate pietà! - I vostri occhi un giorno
incontreranno la vergine che vi placherà la tempesta
dell'anima... ma perchè procedete per via con gli occhi fitti
alla terra?»
«Meco stesso considero, sarebbe stato pur meglio che il
Creatore per diletto de' suoi ozii immortali non avesse ricavata
dalla terra la creatura che sente...»
«Ascoltatemi, Ludovico. - Molte donzelle sospirano per voi di
segreto desio; - uno dei vostri sguardi esse ricercano con maggior
ansietà della gemma d'Oriente. - Levate gli occhi verso la
faccia di quelle, - ed amate di amore felice; - anch'esse questo
sole italiano coloriva; anch'esse il fiato più dolce che
spira dal nostro Apennino educava...»
«E chi vi ha detto che io non le guardi? - Le guardo,
sì, per vedere se incontro in esse il tuo sorriso, i tuoi
occhi, la fronte, i capelli, cosa in somma che valga a richiamarti
al mio pensiero, - e quale più mi dicono femmina vaga e di
forme divine, mi sembra povero raggio della tua bellezza riflesso
sopra di lei; - io ti contemplo in tutto il creato, o Maria.
«Ed alla patria pensate voi mai?»
«Io per la patria darò la vita, e basta; - ma invero
poi dov'è per me questa patria? Dovunque porti le ossa degli
avi e i parenti e la sposa e i figli, quivi hai la patria. Ora io
non ho nessuno che tremi o ch'esulti per me; - i miei parenti
dormono dentro gli avelli di famiglia; - mano mercenaria mi asciuga
il sudore della fronte quando torno dalla battaglia; un servo fascia
le mie ferite; - se acquisto un prigione, non posso ordinargli: Va
alla mia dama e dille che il suo cavaliere t'invia e che dipendi dal
buon piacere di lei. - Io non ho un cuore che corrisponda col mio. -
Ah! le mie mani non versarono il sangue di Abele, e non pertanto
erro ramingo sopra la terra come Caino, e forse più infelice
di lui, perocchè a lui fosse compagna una donna, la quale non
abborrì deporre un bacio sopra la fronte dove Dio aveva
scagliato il fulmine, - e gli facesse sentire che nel mondo vive
cosa potente a mitigare anche l'ira di Dio, l'amore della
donna.»
«Sperate dunque nel tempo, Ludovico, e abbiate fede che amore,
nato di ozio o di lascivia umana, come cantava messere Francesco,
rifugge dai campi aperti, dal suono delle trombe, dalla gloria; e
poi la virtù sta nel sacrifizio, - la umana grandezza nel
soffrire; - ed io, - vedete, - soffro!»
«Soffrite voi? Ah! voi non amaste mai; gli affetti guizzano
sopra l'anima vostra a guisa di pietra lanciata su di un lago preso
dal gelo; - della impassibilità vostra vi componete un
cerchio magico e quinci predicate virtù. Non commossa mai
nè turbata, procedendo tranquilla nel cammino della vita, ora
raccogliete il dovere, ora la religione, ora il costume, e di tutto
vi fate difesa. - Voi mi parete il ricco epulone dell'Evangelo che
deride la miseria del povero steso sopra le scale del suo
palazzo...»
In questo punto si pose fisso a guardare la donna, la quale
diventava a vicenda pallida o accesa fino alle palpebre, mentre due
grosse lacrime le tremolavano nel cavo degli occhi pronte a
sgorgare; - ond'egli con maggior forza soggiunse:
«Voi non amaste mai...»
«Non amo io!» prorompe Maria, quasi uno scongiuro la
costringesse a favellare: «non amo io! Chi sostiene che non ho
amato mai? E questa mestizia ineccitabile, il pianto lungo, le notti
vigili, gli altari del continuo supplicati invano, e il dolore o il
furore non sono certissimi segni di amor disperato? Amo, sì,
perchè mi sforzate a dirvelo, e di tale amore io amo presso
il quale il vostro mi sembra fuoco di lampada davanti il fuoco dei
fulmine.»
«O chi amate voi?» grida Ludovico trovandosi senza pure
pensarlo nuda nelle mani la daga.
Maria ridendo amaramente risponde:
«Riponete la daga; - già non si muore due volte; quello
ch'io amo raccolse da molti anni nel suo grembo la terra.»
«Un morto mi contende il tuo cuore!... Ah! egli è un
tristo quel morto; dov'io fossi stato nella vita lieto del tuo
amore, Maria, appena aperte l'ale alle dimore celesti, avrei
supplicato l'Eterno che nel tuo seno infondesse pace, - anche con
l'oblio di me, - anche con l'amore di altro meno sventurato
mortale... Qual maledetta cupidigia ella è mai questa di
stendere fuori del sepolcro la mano fredda a stringere un cuore che
più non puoi far palpitare di esultanza? Amami, Maria...
amami... i morti sono cenere, ombra, e non domandano amore; - una
memoria basta loro o una lacrima, e tu ne versasti anche troppe. -
Torni il sorriso al tuo pallido volto; le rose della giovanezza non
si sfiorarono ancora per te, rugiadose elle aspettano che la tua
mano le colga. Te chiamano le sponde dell'Arno quasi ninfa smarrita,
- te desidera il nostro emisfero, come Pleiade perduta; acconciati i
capelli, di profumi conspargili e di gemme... vieni a scolorare le
donne per la tua assenza baldanzose, - torna a mostrare al mondo
come Rafaello non vincesse la natura nel ritrarre il volto della
femmina, ma neppure arrivasse a fedelmente effigiarla... vieni...
oh... vieni; - l'anima mia gran parte del suo affetto consumò
nell'angoscia, pur tanto ancora ne serba da poterti inebbriare di
amore...»
«Ludovico, io non mi chinerò a raccogliere la
religione, il dovere, il costume per gettarveli a modo di triboli a
traverso il vostro cammino, - ma vi dirò soltanto amore
essere corda solitaria su l'arpa dell'anima; - rotta o allentata che
sia, indarno speri tornarla a quella dolcezza di suono che faceva
parertela divina; - la voce dell'amore ha un eco solo nel cuore
della donna; - arde l'amore una volta sola di propria sostanza; - se
in séguito lo vedi riaccendersi, egli non ricava più
oltre il suo fuoco da origine celeste, lo alimentano vanità,
superbia, vaghezza di terreni diletti. Un'altra donna voi meritate,
Ludovico; e dacchè darmi a voi come volessi non potrei, -
darmi come posso non voglio.»
«Purchè l'anima tua viva per la mia, io non
penetrerò negli arcani del tuo cuore... forse perchè
ignorano i popoli le sorgenti del Nilo, benedicono meno alle sue
acque fecondatrici?»
«Ludovico, io vi offro più pacata passione e per
avventura assai più degna di noi... siatemi amico... deh! mi
sii fratello...»
«No. - La donna o sente amore, o nulla. Mi s'inaridisca la
lingua prima ch'ella profferisca il consenso di sottopormi al
supplizio del vivente stretto al cadavere. Ben posso soffrire
finchè l'anima mi regge, ma io non vorrò stipulare il
mio tormento mai. No, sia dell'uomo il quale ti chiama sposa quella
parte di te che avrà la tomba, purchè miei sieno i
pensieri e i desiderii tuoi, i tuoi sospiri miei... il mio spirito
abbisogna del tuo... amami... oh! amami, Maria...»
«Quando il serpente, tentava Eva, cessò di parlare,
egli depose la sua favella sopra la lingua dell'uomo; - io ricuso
diventarti angiolo e demonio, - e ti ripeto che, sentendo non potere
esserti il primo, il secondo non voglio.»
Tacquero entrambi, un lungo silenzio successe. - All'improvviso la
donna come oppressa prorompe in un sospiro.
«Maria, sospiri? Sentiresti per avventura pietà del mio
fato dolente?»
«Di me sospiro, che reputandomi in fondo della miseria, mi
accorgo adesso Dio nel tesoro della sua ira serbarmi ad altri e
più crudeli tormenti. - Di voi anche gemo, perocchè io
veda consumarvi ingloriosamente una vita la quale certo vi fu data
per nobili destini; - gemo, - e a ragione gemo, che mi consolava
nella idea mi avesse la provvidenza compartito in voi un fratello
del cuore, ed ora sento dovere renunziare a questa estrema
speranza...»
Ludovico pallido volge gli occhi alla terra e ve li tiene fitti
orribilmente quasi volesse penetrare nelle viscere; - con voci
interrotte di tratto in tratto egli esclama:
Un morto mi fa guerra!... - Io ti darei mezza mia vita se potessi
stringermi teco a duello. Un morto!... Un morto!... Oh
dolore!...»
La destra di Ludovico si rimane nella destra di Maria, senza
comprimerla, - senza essere compressa... mute entrambe quanto le
mani di marmo che occorrono scolpite sopra i sepolcri. Una inerzia
pesante tiene a Ludovico irrigidite le fibre; - gli dura nel
cervello la vibrazione delle estreme parole tormentosa come un
cerchio di punte acutissime; - gli vanno in volta dinanzi agli occhi
gli oggetti circostanti confusi e indistintamente ravvolti entro
globi di luce; - gli batte le orecchie un fastidioso tintinnio; - a
nulla pensa, imperciocchè cotesta passione così
intensamente sentita, - così apertamente dimostrata, gli sia
ricaduta su l'anima come la frana di un monte.
Cotesti sono momenti d'inenarrabile angoscia, - minuti che divorano
dieci anni di vita, - minuti i quali cambiano una esistenza per modo
che quando l'anima sciolta dalla sua preoccupazione intende
continuare pel solco mortale l'esercizio delle proprie
facoltà, si trova come smarrita dentro un deserto senza
traccia e senza confini. Il sommo bene sopra tutti gli animali
concesse alla creatura che ama in privilegio speciale - la pazzia.
«Madonna!» - Ed era la quarta volta che la fante
così chiamava la sua signora senza ottenere risposta.
«A che mi vuoi, Ginevra?»
«Un molto reverendo frate di san Francesco venuto testè
da Roma vi domanda in mercede favellarvi segretamente alcune
parole.»
Ludovico, sia che al detto della fantesca porgesse mente, sia che in
quel punto un poco di vigore gli ritornasse, si alza, - con gli
sguardi immobili, le braccia pendenti, - la spada dimenticando e il
berretto, si avvicina alla porta.
In quel medesimo istante un soffio di vento trasportava pieno nella
stanza il suono delle trombe della milizia fiorentina convocanti
alla rassegna.
Maria correndo dietro a Ludovico lo raggiunge, lo afferra pel
braccio e seco lo traendo alla finestra esclama:
«Sentite! sentite! - Questa è voce che certamente
conosce la via del vostro cuore; - ella è voce della patria
dolorosa che invoca il soccorso dei suoi figliuoli. Ludovico, quando
pure acquistata a prezzo di pianto e di sangue, sembra bella la
gloria; - divina poi quando vada congiunta alla pietà. Non
crollate il capo, non ridete, non mi dite la gloria follia sublime,
- un sogno; - chè allora tutto sarebbe sogno tra noi: - e
quando anco fosse così, vi hanno nondimeno sogni splendidi di
luce immortale, e sogni neri dei terrori dell'inferno escono alcuni
dalle porte di avorio, altri dalle porte di ebano, come finsero gli
antichi. A me donna è conteso rendermi illustre per gesti di
guerra, ma se a far chiaro il mio nome la fede, la costanza e
l'amore valessero, ben di altre imprese mi sentirei capace che non
l'antica Artemisia, la quale si bevve la cenere del suo consorte. Io
amo la gloria, - e mi era caro in vita e continua ad essermelo in
morte l'amico dei miei pensieri, perchè anelava la gloria e
fama ebbe di prode».
Ludovico la fissò lungamente con occhi dilatati; si accorse
di non avere spada, se la cinse e senza profferire parola si
allontanò da Maria.
E Maria, lo contemplando dietro allontanarsi così
sconfortato, trasse un gemito e disse: «Egli è verace
amatore!»
Due frati attendevano ridotti nell'angolo più oscuro della
sala che adesso traversa non li badando Ludovico; - tengono il
cappuccio abbassato sopra le ciglia, la barba folta scende loro in
mezzo del petto; forse in cuore saranno - ma certo nel volto non
sembravano buoni servi di Dio.
Uno dei due frati, all'apparire che fece Ludovico, alzò con
impeto la testa, quasi per impulso di ordigno segreto; - gli occhi
di lui balenarono lungo l'orlo del cappuccio abbassato, come la
vipera dardeggia la lingua da una parte all'altra della sua bocca.
«Reverendo! inoltratevi, chè madonna vi aspetta»,
esclama la fantesca sollevata la tenda.
Il frate, che pareva professo, accennato con la mano all'altro, che
modi avea e sembianza di converso, vigilasse la porta, passa nella
cappella.
Maria, in piedi davanti una gran sedia a bracciuoli ricoperta di
cuoio cordovano rabescato, leva un istante lo sguardo sul frate,
torna a declinarlo verso il pavimento e si compone in atto di
ascoltarlo.
Perchè trema il frate? bellissimo è il volto della
donna, ma egli non lo ha ancora guardato; nè così
subita si accende nei petti umani la passione, nè dalle
vigilie attrito e dai digiuni tanto propende ad amare il cenobita; -
di terrore non trema, perchè, se il luogo è santo,
egli non deve conoscere rimorsi, - e poi non fa parte di religione
egli stesso? Non pertanto le gambe gli vacillano sotto, e non ha
membro che stia fermo.
«Madonna!» comincia il frate esitando; e poichè
non continuava - Maria dopo lungo silenzio riprende:
«Padre, vi ascolto.»
«Madonna... compiranno... quattro mesi domani che, standomi io
a Roma, dove facevo uffizio di penitenziere nello spedale di Santo
Onofrio fondato dalla gloriosa memoria di Papa Lione pei poveri
pellegrini del suo paese, certa sera essendomi posto a giacere,
nè l'animo mio come presago di qualche sventura potendo
rinvenire quiete, all'improvviso intesi battere alla porta ed una
voce chiamarmi: padre, affrettatevi: - un cristiano è vicino
a trapassare, - venite pei sacramenti. - Mi getto giù dal
pagliericcio e seguitando la guida giungo in certe camerette dove
solevano chiudersi gli alienati di mente. Quivi da lungo tempo
custodivano un infelice giovane travagliato dalla più fiera
mania che mai avessero veduto in cotesto luogo di dolore. -
Quantunque dal disagio consunto, così ferocemente egli
smaniava, tante volte aveva tentato darsi la morte, che lo tenevano
legato a mezza vita, ai piedi ed alle mani. - Nei suoi urli
salvatici spesso riveniva la querela di un amore tradito, - di una
donna perduta, - di un padre morto, e poi rampogne e minacce contro
i suoi nemici, contro tutta la specie umana, non senza offendere il
cielo di terribili bestemmie... in questo modo continuava,
finchè con gli occhi scoppianti fuori della fronte, la bocca
spumosa di sangue cadeva rifinito di debolezza. - Dapprima quel suo
misero stato mosse compassione, poi curiosità; poi
ascoltarono le genti quei suoi stridi furibondi con la indifferenza
medesima del canto delle rondini annidate sul tetto dell'ospedale; -
perchè se gli uomini ai propri mali si fanno impassibili,
agli altrui diventano di pietra. - Io lo trovai con le mani sciolte,
con gli occhi velati e nondimeno lieti di un raggio d'intelligenza
che tramonta; - seguendo il costume del fuoco, lo spirito prima di
abbandonare la sua spoglia mortale raccolse le forze a risplendere
anche una volta di luce divina. - Appena ei mi ebbe scorto,
chiamatomi a sè con languida voce mi disse: - Padre ascoltate
la mia confessione; - io ben mi accorgo avermi un lungo delirio
travagliato, - delirio pieno d'immagini terribili, in parte vere, in
parte false, - nè saprei dirvi se queste più o meno
delle prime terribili; - quello che so troppo bene si è, che
hanno consunto il mio corpo e la mia mente costretto a bestemmiare
l'Eterno, e di ciò, padre, con tutte le mie viscere mi pento,
ed ho fede la mia contrizione e le vostre sante preghiere mi
varranno il perdono dal Dio delle misericordie. - Però io ho
molto sofferto in questa vita... e certo il dolore non ebbe paragone
con le colpe. Io amai, padre, una donna di amore santissimo, - il
più profondo, il più puro che mai si accendesse in
cuore umano. Lo Spirito Santo ha maledetto l'uomo che confida
nell'uomo, - doveva dire nella donna;... ma presso a morte io
respingo questi pensieri di odio, come tentazioni del demonio, e
mentre supplico e spero Dio mi perdoni, sento che me ne renderei
indegno, dov'io le proprie offese non perdonassi. Vagai in contrade
remote, - vidi barbare genti, soffersi geli, ardori, di ogni maniera
disagi per adunare tesoro e apparecchiare alla mia fidanzata vita
copiosa dei beni della fortuna: per darmi colpo più acerbo mi
si mostrava il cielo cortese, e quando, dopo un'agonia di anni,
delirante di desiderio e di amore, mi ridussi alle case paterne...
trovai... oh inferno!... padre, mi assolvete dall'ira...
imperciocchè acerba mi percotesse la ferita... trovai la mia
fidanzata donna d'altrui. Quello che dopo avvenne io non rammento, -
aveva un padre, e non so com'egli mi abbandonasse; - possedeva copia
di averi, ed ora non possiedo più nulla: dalla mia acconcia
cameretta, desto dal sonno tormentoso, mi trovo in questa sozza
caverna con i polsi e i fianchi impiagati, e non mi riesce
rammentarmi il come e il quando. - Ah! da quel giorno la mia anima,
a mo' di aquila in gabbia ha percosso rabbiosamente la sua carcere
mortale per librarsi a regioni meno triste, meno contaminate di
tradimenti e di perfidie. - Ora, padre, prendete... ecco uno scritto
che nei giorni del nostro amore io ricambiai con lei, e lo vergammo
io del mio sangue, ella del suo: - egli contiene una promessa di
mantenersi fedele, e dentro vi pose una ciocca dei suoi capelli...
ohi i bei capelli, padre, che la mia donna aveva quando l'alito di
primavera si dilettava a diffonderli ondeggianti per l'aere! - e vi
scongiuro, per quanto possono i preghi di un moribondo, che glieli
facciate tenere, o, se fortuna vi mena a Fiorenza, glieli consegnate
voi stesso: - e nel punto medesimo le direte che il mio spirito
deliro sempre l'ebbe presente, e che tornato appena ai consueti
uffici pensò subito a lei e per lei: ditele ch'io le perdono,
- che presso a morte le invoco giorni beati, - al tutto diversi da
quelli ch'ella mi fece durare, - che domando al cielo non voglia
sgomentarla di rimorsi in questa vita, - e scongiuro l'oblio
per lei... ed anche per me, onde un giorno davanti al trono
dell'Eterno io non abbia a prorompere in voci di accusa contro lei;
se pianto di offese cancella dai registri di Dio la ingiuria
dell'offensore, ditele che per me la sua pagina sarà trovata
bianca al giudizio finale come l'ala del cigno... ditele... ch'io
muoio benedicendola... e chiamando... Ma... - Gli chiuse le labbra
la morte... io le palpebre. Egli non proferiva intero il nome della
donna; però dalla lettera che mi dava e che io vi consegno,
madonna, compresi avere inteso favellare di voi. Sopra la povera
lapide del suo sepolcro segnai queste poche parole: - Qui dormono le
ossa travagliate di Giovanni Bandino! - -»
Un grido terribilissimo ingombra, propagandosi, le sale del palazzo,
come di persona la quale trafitta nel cuore trasfonda tutta la vita
in una voce: - un grido che indusse il passaggero il quale lo
sentì per via a recitare requiem per l'anima di chi lo aveva
proferito.
Ed in fatti il frate compagno, rimanendone percosso, affacciò
la testa alla soglia favellando con parole spedite:
«Per Dio! Se l'avete ammazzata, rompete gl'indugi e ci
mettiamo in salvo.»
«Aspetta - e taci», - riprese il frate; e poi si volse a
Maria giacente sopra la terra, rigida, - fredda, bianca in sembianza
di statua rovesciata dalla sua base, - tratto un pugnale, glielo
appuntò sul cuore.
Gli occhi del frate rilucevano di fuoco infernale, il suo volto
svelava tremenda esultanza, - famelica bramosia, non altrimenti che
fosse uno di quei corpi scomunicati, dalla superstizione greca detti
vampiri, i quali nella notte, derelitti gli avelli, irrompono per
virtù diabolica nelle stanze più segrete a pascersi
col sangue delle persone ch'ebbero care in questa vita.
Ancora un palpito, e la vita di Maria sarà compiuta.
Intanto la donna non bene ancora risensata mormorò a fior di
labbra: «O Giovanni!... o Giovanni!... celeste anima e
cara...»
Il frate arresta a mezzo colpo la mano; - grosse stille di sudore
gli scendono del continuo giù dalla fronte, - ritenta
ferirla, e non gli riesce; - la guarda...
Bisognava non essere nato in Italia, avere il cuore chiuso ad ogni
senso gentile per disperdere un modello di così divina
bellezza: - cadono al frate le braccia, gli sfugge dalle mani il
pugnale, e si rimane prostrato come uomo assorto nella
contemplazione di quelle sublimi sembianze.
La donna riapre gli occhi, balza in piedi a guisa di furiosa urlando
con voci interrotte:
«Traditi! - orribilmente traditi! Padre..., leggete...»
E brancolando trova il libro dell'uffizio dei morti, e aperta la
fodera interna, ne trasse fuori una lettera, la quale porgendo al
frate continuava: «Hanno le mie lacrime quasi cancellato lo
scritto, pur vi leggerete il nefando tradimento... leggete.»
E il frate leggeva: «Al magnifico messere Alamanno di
Ormannozzo Spini a Fiorenza. Messere Alamanno onorandissimo. Con
inestimabile dolore di quanti il conobbero, lasciando grandissimo
desiderio di sè è morto in questa città di
Siviglia, agli sei del corrente mese di maggio, anno 1526 della
salutifera incarnazione del N. S. Gesù Cristo, Giovanni di
Pierantonio Bandino di accidente di gocciola per quanto ne
assicurano i fisici. Con molta accompagnatura di fraterie e di lumi
venne associato al sepolcro nella chiesa di questi reverendi padri
di san Domenico, dove gli furono cantate esequie dicevoli alla sua
condizione. Fatto il bilancio di quello si trovava a possedere al
tempo della sua morte, avemo trovato il valsente tra crediti,
danaio, mercanzie in essere e masserizie, di duemila circa fiorini
di oro in oro, i quali vi rimetteremo con lettera di cambio sopra la
nostra ragione, affinchè li consegniate a messer Pierantonio
padre del morto o a chiunque altro sarà dichiarato di
diritto. Pregando Dio che vi tenga nella sua santissima guardia, ci
raccomandiamo a voi. - Siviglia, li 10 maggio 1526. - Vostri - Lapo
e Bindo di Pierfilippo Cambi.»
Il frate alla lettura di cotesto foglio rimane come impietrito; -
sospese del tutto in lui le funzioni vitali, pareva che neppure
respirasse.
Maria invece quasi furente si era distesa sul pavimento e forte
percotendo con ambe le mani la terra gridava:
«Padre, perchè mi hai tradito? - Giuda tradì
Cristo, ma se fosse stato suo figliuolo, non lo avrebbe tradito...
Uomini, imparate pietà dalle fiere del bosco... qual belva
mai generò figliuoli per lacerarli così? E tu, padre,
non che lacerarmi, mi hai condannata ad una morte la quale tutti i
giorni si rinnovella. - Chi ti dava diritto di rendermi tanto
infelice? Io non ti aveva chiesto la vita; bene ti chiesi la morte,
- ma poichè il mio morire ti nuoceva, tu fingesti atterrirti
come di cosa contro natura. Ella era cosa dunque secondo natura
immergermi in questo abisso di dolore? Io però non
maledirò la tua cenere, ai tuoi rimorsi non aggiungerò
le mie furie; ma vedi, se sopra la terra che ti cuopre il cumulo dei
miei affanni io deponessi... oh! quanto ti sembrerebbe più
grave! E tu, Vergine Beatissima, ch'io sempre riveriva ed amava,
ov'eri allora che sì crudelmente tradivano la tua devota? Se
in questo modo chi ti venera proteggi, che farai a cui ti odia? Qual
frutto trarranno i mortali, se invece d'invocare il demonio
innalzano al cielo le loro preghiere?... - Oh! santa Madre di Dio,
abbiate misericordia, - consolate una povera afflitta; io non so
quello ch'io mi dica... parmi girare su l'orlo di un precipizio.
Padre, pietà! Padre, accostatevi, dacchè il cielo vi
manda, udite anche la mia confessione... voi lo vedete, non ho
mancato di fede... io... io sono stata tradita.»
Genuflessa la donna abbraccia le ginocchia del frate, e tra i ruvidi
lembi della tonaca nasconde la faccia delicata.
«Lo vidi nella cattedrale, mi apparve in mezzo ad una bianca
nuvola d'incenso, bello siccome un angiolo, e sospirai, - fu il
sospiro primo di amore; uscendo di chiesa lo rividi chinato per dare
la elemosina ad un mendico e consolarlo con una parola, la quale
meglio della elemosina scende soave di refrigerio sul cuore del
misero; - io mi fermai: - egli raddrizzò la vaga persona, - i
miei occhi s'incontrarono nei suoi, gli s'infiammarono le guance,
vermiglie diventarono le mie; - e da quel punto fummo legati per
sempre. Dapprima i parenti si mostrarono avversi, non per
viltà di sangue, ch'egli pur nacque di gentile lignaggio,
sibbene per pochezza di averi, - e anche a lui increbbe non potermi
offerire magnifico stato: ci fidanzammo con solenni giuramenti, e
partì in cerca di ventura. Invano presaga del futuro io gli
diceva: Rimanti, quello che possiedi basta ai miei desiderii; forse
mi sembrerai più bello o più ti amerò io
vestito di abiti soppannati di vaio con cinti e catenelle di oro? -
Non mi badarono, e partì: - Voi avventuroso, padre mio, che
le passioni umane sentite come onda di mare che percuota le pareti
dei vostri monasteri; - ignaro dei nostri errori, non vi dirò
come, partendo il mio Giovanni, mi paresse trovarmi abbandonata in
una via senza principio e senza fine; - camminava sola,
imperciocchè nel creato lui soltanto io vedessi. -
Tacerò la serie infinita delle angosce che non hanno nome,
sebbene abbiano punta; - il bel cielo di Fiorenza mi pesava
sull'anima. Ah! l'occhio lieto ed il sole si ricambiano il raggio a
guisa di due amici che si amino, ma l'occhio doloroso lo aborre; -
l'amarezza segna con una tacca sul cuore i giorni consumati
nell'ansietà. In prima qualche lettera rara venne a
confortarmi; - quindi cessano affatto! Verso cotesti tempi
incominciò a prendere domestichezza con la mia casa
Nicolò Benintendi: - mille profferte di amore uscirono dalla
bocca di lui, ed io non le udiva, essendo il mio spirito con
Giovanni. Ben si mossero da Nicolò e da' miei caldissime
istanze, quotidianamente rinnovate, ond'io fossi contenta di averlo
per mio sposo: alle quali parole, come se non fossero discorse per
me, sorrideva; qualunque argomento riuscì invano, ogni
tentativo venne meno. - Un giorno.... giorno d'infamia.. nel quale
un padre non aborrì rompere il cuore della figlia... egli..,
mio padre, con sembianza mesta, non senza prima allargarsi in
discorsi intorno alla necessità di rassegnarci ai divini
voleri... mi mostrò cotesta lettera. Crudelmente pietosa, la
povera madre mia, ingannata pur ella, mi salvava la vita;... dopo
molti mesi potei sollevare il fianco infermo...; nella contesa tra
l'angoscia e la natura, la natura prevalse... e sopravvissi. Adesso
ricomincia l'assedio; mi dissero il padre mio, per mala fortuna
incontrata nel traffico, sul punto di fallire, con molte lacrime mi
presentarono la chiarezza della famiglia avvilita e un nobil vecchio
condotto a gran vergogna in Mercato Nuovo a ricevere lo strazio
dagli statuti decretato ai falliti; non risparmiarono già
affacciarmi alla mente gli schiamazzi della plebe, la gravità
dell'infamia, il padre moribondo per l'atto obbrobrioso, - e per
altra parte avrebbe tanta iattura riparato il Benintendi, quando io
avessi consentito a tôrlo in isposo; non che altro, la voce
del sangue volere da me questo sacrifizio; ben volontieri mio padre
avrebbe data la vita, per conservarla non si sarebbe veduto
supplicare i figliuoli; ma se poteva sostenere la morte, non potere
la infamia: - e non rifuggirono dal chiamare in soccorso la
religione, chè il confessore assicuravano sarei certamente
andata perduta, se potendo, non avessi in tanto estremo soccorso i
genitori - avere i giuramenti al Bandino sciolti la morte. La
esitanza della sconsolata tennero per consenso, mi condussero alla
chiesa... Qui mi parve le statue dei santi aprissero le labbra di
pietra per rampognarmi la mia infedeltà, - le ossa dei morti
si commovessero sotto il pavimento, - la cupola tenebrosa del duomo
mi si rovinasse sul capo. - Mi percosse uno strido... Santa Vergine!
avrei giurato fosse quello del mio diletto Bandino... poi nè
intesi... nè vidi più nulla; - risensando all'aria
aperta, una schiera di uomini e di donne, secondo il costume del
paese, mi facevano il serraglio, impedendomi l'andare, se io prima
non dava loro i soliti doni. La mia anima impaurita immaginò
fossero spettri che mi si aggirassero attorno e mi chiedessero la
vita; ond'io tolta fuori di me gridai più volte: -
Prendetela, oh! prendetela... è mia amica la morte. - Il mio
marito mi amò di breve affetto: forse quando mi
ricercò sposa con tanto ardore non lo mosse alta passione,
piuttosto impeto di giovanile desiderio: - forse anche gl'increbbe
la moglie sempre lacrimosa e che non lo amava e non può
amarlo. - O padre mio, io ho durato e tuttavia duro una molto
tremenda battaglia qui dentro; - sento che dovrei dimenticarmi il
caro defunto, ma non oso domandare al cielo la grazia che mi
ucciderebbe di certo, - quella di obliarlo. Troppo prepotente impera
la sua immagine nel cuor mio, - egli solo accelera o sospende il
sussulto dei polsi... egli posa meco nel talamo nuziale, e la sua
testa si pone terribile tra il mio marito e me; se mi prostro
davanti al Crocifisso e lo prego di pace all'anima stanca, ecco che
il Cristo si veste delle sembianze di lui... del mio Giovanni e
parla... e dice: - Vedi quanto soffro per te! - Padre... vedete...
tanto mi s'insinua nel sangue la contemplazione dell'infelice
amante... che... ora... in questo punto mi sembra... padre... voi
abbiate il suo sguardo... la sua fronte... la...»
«Donna, e se il cielo ti rendesse Giovanni lo seguiresti,
abbandonata la tua casa maritale?...»
«Oh! non lo dite; il sepolcro non lasciò mai la sua
preda.»
«Ma, se te lo rendesse?...»
«Pietà, padre! misericordia! Sovente il mio povero
intelletto vacilla su l'orlo della follia, - non vogliate
precipitarvelo a forza... io... io divento folle, se aggiungete
parola.»
E il frate, gettate a terra la cocolla e la finta barba, comparve,
qual era un cavaliere notabile per egregie forme del corpo.
«Donna, la tua fede ha vinto; la morte...; ecco il cielo ti
rende Giovanni Bandino.»
Maria, spiccando un balzo, fugge nell'angolo più remoto della
cappella, e quivi rannicchiata si coprendo la faccia esclama:
«Gran Madre di Dio, salvatemi da questa illusione del
demonio.»
«Stolta!» proruppe il Bandino accostandosi a lei, e
toltele a forza le mani dagli occhi, se le poneva sul petto
aggiungendo:
«Ti paio spirito io? ti sembra egli morto il cuore che palpita
così? Dalla feroce ira che m'invade le membra, dall'odio
intenso che gli occhi mi riempie di sangue, dal tremendo anelito non
mi conosci vivo?...»
«Vivo!... sì... oh tu sei vivo davvero.»
E cieca della mente, mal sapendo quello si dicesse o facesse gli si
abbandona nelle braccia, baciandolo smaniosa per le mani, pel seno e
pel volto.
«Mi ami, Maria?»
«Più di me... più di Dio!»
Ah.... Ora dunque vieni... non ci fermiamo un momento in queste
pareti abominate; - sopra il limitare delle porte della nostra
città noi ci scuoteremo la polvere dei sandali, dall'anima
ogni affetto che non sia lo scambievole nostro amore: -
dimentichiamo per non esecrare, - fuggiamo per non
uccidere...»
«Ma! dimmi, Giovanni, dove mi meni? E donde vieni?»
«Che importa a te sapere donde vengo o dove io vado? non sono
io tutto per te? - Questo però sappi che, se vivo mi
sospettassero in queste mura, la mia testa penderebbe domani dalle
finestre del palazzo dei Signori.»
«Oh! non dirlo.» E con ambo le mani la donna avvinghiava
il collo del cavaliere, quasi per salvarlo dal taglio della scure.
«Vieni dunque...»
«Verrò...»
«Esiti forse?»
«Verrò...»
«E non ti muovi! Ti penti già avermi detto che mi
ami?» grida battendo del piede la terra il Bandino.
«Oh! non isdegnarti, Giovanni... eccomi...
però...» Maria la fronte si tocca e il seno: «Mi
sembra essermi dimenticata qualche cosa, di cui non posso
risovvenirmi adesso, e che pure mi stava fitta qui nel capo e nel
cuore, - qualche cosa che mi era ben cara e che tu mi hai fatto
porre in oblio...»
«Maria!» si udiva chiamare dalle stanze interne una voce
fioca per età, «la tua figliuola si è desta,
vieni a racchetarla che piange.»
«Ahi! me n'era dimenticata... La figlia...»
«Figlia... di chi?»
«La mia figliuola.»
«Del Benintendi è figlia!» con urlo spaventevole
replica il Bandino, - e fa con la destra cenno, come se, afferrata
la creatura pei piedi, intendesse spezzarle il capo alla parete.
La madre per istinto comprese quel truce cenno e si scagliò
traverso la porta, dove accesa nel volto i muscoli della gola gonfi,
guardando torta:
«Addietro!» gridò! «addietro! o ti straccio
co' denti... addietro, o ti sbrano»; poi all'improvviso
vacillando si prostra, tende le braccia al cavaliere e gli si
raccomanda: «Giovanni mio, io l'ho generata; - nove mesi la
tenni nel mio seno; con molte angosce l'ho partorita... io l'amo...
io l'amo quanto te; - la prima parola che proferì fu Maria, -
la seconda Giovanni;... ella ti ama... ella ti aspetta come un amico
lontano... non farle male, via... non me la uccidere... potrei io
mai più baciarti le mani, se tu le bagnassi nel sangue della
mia figliuola?»
«Viva, - ma lasciala: io non potrei vederla senza che il
sangue mi ribollisse nelle vene; - lasciala e seguimi.»
«Ma che! il calice del dolore è senza fondo per
me?» esclama angosciosamente Maria levando al cielo le
braccia; «come abbandonare una figliuola che piange?»
«Madre, - figlia, marito - ed amante... conservare tutto non
puoi; - un cuore devi pur calpestare, un vincolo sciogliere...
rompere un affetto... tra questi scegli: - io qui mi sto silenzioso
ad aspettare la scelta.»
La donna, traboccando giù sopra la sedia, con voce cupa
proferisce queste parole:
«Il mio cuore si rompe...»
La fantesca, la quale dai pianti e dai gridi aveva in parte
argomentato il mistero, prorompe di repente nella cappella dicendo:
«Madonna! - messere Nicolò con molta accompagnatura di
cavalieri viene su per le scale del palazzo.»
Maria dal nuovo pericolo commossa sorge, e guardando il Bandino, lo
chiama con voce amorosa:
«Giovanni!»
Il Bandino con le mani sotto le ascelle rimane immobile senza darle
risposta.
«Giovanni, per l'amore di Dio... nasconditi... parti...»
«Anzi starò: - egli mi deve la vita,»
«E i cavalieri che lo accompagnano?»
«Faranno testimonianza ch'io mi comporterò lealmente,
quando, strappatogli il cuore, glielo batterò sulle
guancie.»
«E poi chi ti salva della Quarantia e dal carnefice?»
«Questo!»
E le mostrò il pugnale.
«Oh Vergine! - E la mia fama, Giovanni!»
Intanto si ascolta lo strepito dei passi dei cavalieri e il rumore
confuso delle voci gioiose. Il compagno del Bandino entra pur egli
nella cappella e trema come uomo che si accosti alla sua ultima ora.
«Messeri, io vi accerto che voi non riuscirete: mi duole
dirvelo, ma gitterete tempo e parole...» - così si
udiva favellare Nicolò Benintendi, marito di Maria, dalla
prossima sala.
«Con pace vostra, messere Nicolò, non vi abbiamo fede;
- noi la sappiamo sopra ogni altra gentildonna della città
nostra cortese, - nè vorrà negare alla sua amica la
grazia di tenerle il pargolo al sacro fonte...»
E molte voci rispondevano: «No, certo; troppo grande villania
sarebbe questa.»
Il Bandino, levati gli occhi al cielo in atto di minaccia, sospira
profondo e favella:
«Ah! questa è la prima volta che deliberai nel mio
pensiero la morte di un uomo e non lo uccisi; - cosa differita non
va perduta.»
Così parlando insieme col compagno si ritrasse oltre i
balaustri, ed abbassate le tende si nascose.
Entrano clamorosi nella cappella Nicolò Benintendi e i suoi
compagni; loro apparisce davanti la povera Maria distesa sopra la
terra, suffuso il volto del pallore della morte, per le tempie e pel
corpo intrisa di sangue che le spicciava da un'ampia ferita fattasi
cadendo nella testa: onde vinti da pietà e da terrore
proruppero in altissimo grido.
Nicolò piegando le ginocchia a terra le toccò le
tempie e i polsi, e li trovando freddi, senza palpito, rivolto ai
cavalieri, non troppo sgomento, parlò:
«Signori, voi veniste per menare la mia donna al corteo di un
battesimo, - ora io vi prego ad aiutarmi per associarla alla
sepoltura.»
CAPITOLO DECIMOTERZO
L'ASSALTO NOTTURNO
Atti orrendi da dir colà giù dove
Placido scorre il bel vostro Arno io vidi.
Forse d'altro uom giammai non visti altrove.
Annib. Bentivoglio. Sat.
Annibale Bentivoglio era soldato del papa e militava per lui contro
Firenze. Io non so com'egli abbia potuto mettere in rima
scelleraggini nefande dalle quali a pure pensare l'anima rifugge; e
meco stesso dubitai se dovessi o no riferirle, parendomi che troppo
grave offesa recassero alla natura umana ed alla dignità del
libro: nondimeno mi sono deliberato raccontarne qualcheduna,
affinchè i presenti vedano quanto si prolunghi la giornata di
dolore che questa misera nostra patria travaglia e ne sentano
pietà. Gli stupri, le violenze, le rapine, i santuarii
rovesciati, le case arse; i campi, cura e diletto di pacifiche
generazioni, devastati; le stragi medesime, come orrori consueti
alla guerra, o non vorrebbonsi descrivere, o brevemente riferire per
non mancare all'ufficio, ma gli strazi osceni erano tali da
disgradarne quelli inventati dalla cupa immaginazione di Dante in
pena dei commettitori di scandali nel suo terribile Inferno. Come i
miseri contadini appiccassero agli alberi e quivi alle angoscie di
una tormentosa agonia gli abbandonassero, nei precedenti capitoli fu
scritto: però qui non restava la ferocia; spesso ti
occorrevano corpi di appiccati aperti nel ventre e nel dorso da
sconce ferite, e da quelle aperture rovesciarsi le viscere
sanguinose; a quelli che trovavano portare vettovaglie a Firenze,
sia che amore di guadagno o, come più spesso avveniva, di
congiunti li conducesse, mozzata loro una gamba od ambedue, e le
mani, gli lasciavano in mezzo della via; talvolta spiccata la testa
dal busto, gliela legavano co' capelli della destra a guisa di
lanterna, e il cadavere, così mutilato appoggiavano in piedi
al tronco di un albero. Il Bentivoglio narra anche più osceno
ed immane martirio, il quale, per non affaticare in tante miserie la
mente, mi sia concesso riportare con le sue stesse parole:
Da otto (e che Spagnuoli eran mi avvidi
Dal parlare e dal volto) un villanello
Legato fu non senza amari gridi;
Che, partito dal suo povero ostello,
A vender biada e fieno iva a Fiorenza,
Di ch'era carco un piccolo asinello.
Quivi il misero fecer restar senza
Membro viril, che gli tagliàr di botto
Sordi a mille miei preghi in mia presenza.
Nè sazi fur di quel martir quegli otto
Ladri, del sangue italico sì ingordi,
Che l'arser ancor tutto col pillotto.
Queste cose si commettevano in nome dell'imperatore apostolico e del
vicario di Cristo padre dei fedeli! Così, tra per la paura di
siffatti supplizii, tra per la perdita che ogni giorno s'ingrandiva
del contado, la penuria cominciava a farsi sentire in Firenze.
Penuria sofferta senza mormorare dal popolo soltanto; perchè
ai soldati provvedeva il comune, e i ricchi, come suole, trovavano
pei loro denari, nonchè il bisognevole le delicature della
vita. L'erario pubblico era stremo; i mezzi ordinarii e
straordinarii non bastavano a riempirlo. Allora, non restando altro
disegno per adunare pecunia, furono per partito della Signoria
deputati Lionardo Bartolini e Simone Gondi, due del numero dei
collegi, a cavare dalla sagrestia di Santa Reparata la mitra
pontificale ricca di molte gioie, donata da papa Lione nel 1515 al
collegio dei canonici. Però l'effetto non corrispose al
desiderio, avvegnacchè non se ne potesse ritrarre più
di scudi ottomila, e il simile avvenne della croce d'argento ch'era
in San Giovanni. Il Giovio e l'Ammirato si sbracciano a maladire
questo atto come scelleratissimo ed empio: il Giovio fu vescovo di
Nocera, l'Ammirato canonico, entrambi preti; se tali non erano,
avrebbero certamente saputo che dove i cittadini mettono la vita,
possono anche mettere le splendidezze non chieste e nè anche
desiderate dal Dio che vietò di fare orazione nelle sinagoghe
in mezzo alla moltitudine degli uomini. Non fu cotesto savio
intendimento di governo, dacchè, come dissi, l'effetto non
corrispose, e il modo increbbe. E sì che avrebbero potuto
imitare l'esempio recente di Maria Padilla, la quale, per sovvenire
ai bisogni della lega santa per le libertà spagnuole,
s'impadronì, nel 1522, dei tesori della cattedrale di Toledo;
questa savia donna, volendo togliere l'apparenza di empietà a
simile azione, con molta accompagnatura di uomini vestiti a lutto,
lacrime ostentando e dolore, si recò alla chiesa, dove,
implorato prima perdono, spogliò i santi dei magnifici loro
ornamenti. Cominciavano ancora i partiti a diventare più
vivi, e il governo non ardiva tentare adesso quello che tempo
addietro avrebbe dovuto o potuto eseguire. La fazione dei Medici,
scorgendo che dalla prigione in fuori non correva altro pericolo,
rialzava la testa moderata e lusingatrice; la gioventù
nobile, cagione principalissima di quel mutamento, non le parendo si
facesse nel nuovo stato quel conto di lei che le sembrava meritare,
il governo riprendeva e attraversava. Francesco Carduccio
sbagliò cammino e pagò caro l'errore; se per
acquistare i beni della libertà avesse voluto adoperare la
forza della tirannide, forse nè egli nè la patria
perivano; preferì all'azione le pratiche; si confidò
troppo nell'ingegno, che aveva prontissimo, nella facilità di
persuadere e nella purità delle sue intenzioni: in somma, in
tempo di passione, ebbe fede ai ragionamenti; i partiti gli si
infuriarono tra le mani, derisero imperversati i suoi consigli, e
quando volle costringerli col rigore, trovò il suo partito
debole e l'istrumento capace adesso a generare la guerra civile, non
già a percuotere qualche colpo vigoroso per cui lo stato
continuasse a procedere spedito nelle sue vie. - San Giovanni ci ha
dato il simbolo dello spirito rigeneratore nei rivolgimenti degli
stati: ponetevelo bene nella mente; egli porta nella destra sette
stelle di luce, e dalla bocca gli esce una spada acuta a due tagli.
Il Carduccio, soprafatto, ebbe a scendere dal grado supremo; i suoi
medesimi amici lo videro cadere indifferenti, qualcheduno anche con
compiacenza, essendo proprio a questa nostra umana natura che non
tutte le gioie dell'amico ci rallegrino nè tutte le sue
sventure ci turbino. E qui pure io riprendo il Carduccio, avvegnadio
l'uomo, finchè si mantiene privato, faccia cosa piena di
dignità a confidare nella fede soltanto e nell'amore altrui,
- diventato poi rappresentante del destino del popolo, deve
provvedere quanto gli fu largito per amore gli sia continuato per
dovere. - Gli sostituirono Rafaello Girolami, tenerissimo della
libertà; degli spedienti che conducono a conseguirla in tempi
procellosi imperito o aborrente; barcheggiatore per pochezza di
animo, che dai codardi e dagl'inetti viene chiamata prudenza:
ragione principale della incapacità sua a cotesto ufficio fu
l'essere reputato da tutti capace; i partigiani dei Medici
approvarono in lui l'antico famigliare di papa Clemente; i nobili
come nobilissimo gli dettero favore; i moderati sperarono,
aiutandolo, avrebbe procurato convenevoli accordi; anco i
superlativi lo accolsero bene, perchè solo tornò dei
quattro ambasciatori spediti a Cesare quando egli era a Genova, e
nella relazione che fece si mostrò animoso nell'avvilire lo
esercito imperiale, - finalmente perchè lo splendore del suo
lignaggio induceva il popolo, quasi suo malgrado, ad avergli
rispetto. Vinsero al tempo stesso per amore del Carduccio una legge
per la quale il gonfaloniere cessato doveva intervenire alle
pratiche ed avere voce; cosa che, somministrandogli comodo di vedere
il male, non partecipava del pari potenza ad emendarlo.
Nè in campo si viveva meglio che in città; quivi peste
era e fame e penuria di tutte; le paghe nulle; i soldati ridotti a
campare di rapina.
Nella tenda di Filiberto principe di Orange giocavano chi a dadi,
chi a scacchi, giuochi, se la tradizione ci racconta il vero,
trovati da Palamede all'assedio di Troia; i più a carte come
le inventò il Grignoart, per trastullo all'imbecilità
di Carlo VI re di Francia, o modificate a tarocchi, scoperta non
invidiabile degl'ingegni fiorentini, i quali vollero significare nei
re, nel diavolo, nel papa e nelle rimanenti figure scherno o ira
contro le fazioni prevalse nel governo della Repubblica: carte e
figure le quali adesso non rappresentano più nulla, tranne un
consumo di tempo che, attesa l'erpete morale della presente
società, non può riputarsi male impiegato per la
ragione che diversamente si correrebbe rischio d'impiegarlo anche
peggio.
Oh! no; una parola mi è sfuggita dai labbri che l'intelletto
riprova. Invano cercheresti nel mondo cosa che più del giuoco
tornasse funesta agli uomini. Egli conduce seco per mano la
ignoranza, la miseria, la disperazione, - più tardi il
delitto. Vi rammentate il dipinto del Pussino il quale rappresenta
il Tempo che suona la danza alle Ore? Così il giuoco canta in
disparte un canto satanico, per cui quelle quattro furie
imperversano baccanti, calpestando il cuore dell'uomo. Il giuoco
compone un gioiello prezioso della corona dei principi e della tiara
del papa.
Giocavano: e quivi, come nei tempi andati e successivi, avresti
potuto contemplare il riso ostentato di chi perdeva la sua ultima
moneta, - riso che muove a compassione e spavento; - la tristezza
finta di chi vince, - tristezza ch'eccita rabbia; - poi le mani
trepidanti di tutti; del perditore per passione di sapersi
spogliato, del vincitore per cupidigia di rapire l'ultimo soldo; - e
gli occhi riarsi di cupa fiamma nel disperato, scintillanti di
vivido splendore nel favorito dalla fortuna, e gli ammicchi, e le
parole brevi susurrate dentro gli orecchi, e il furtivo stringersi
delle mani. - L'osservatore sarebbesi soffermato a considerare sopra
ogni altro il gruppo dei personaggi seduti intorno alla tavola del
principe. Ella era molto miserabile cosa vedere le facoltà
del corpo ed intellettuali di questo nobile guerriero assorte
intieramente in certo giuoco da fanciulli, un giuoco di dadi che
consisteva nell'indovinare il tratto, se pari o dispari; eppure
simile passione infuriava nell'anima di lui coll'impeto
dell'uragano: - stirpe germana, di cui gli antichi maggiori secondo
quello che Tacito riferisce, comunque della libertà
zelantissimi, non aborrivano giocarsi armi, consorte, caval di
battaglia e la stessa libertà; la memoria paterna
religiosamente egli amava, e non pertanto dove gli fosse comparsa al
tavoliere, avrebbe giocato anche l'anima del padre.
La fortuna camminava contraria al principe, ed egli, come caduto in
furore e matto, gittava pugni di monete d'oro sopra la tavola, le
quali appena percotevano il tappeto sparivano. I vincitori, seguendo
l'usato costume, davano a beccare alla putta, che in favella di
giuocatori significava sottrarre con bel garbo il danaro che la
vittoria accumulava davanti a loro, e ripostolo in tasca, davano a
intendere che poco o nulla avessero guadagnato, sicchè
avveniva che perdessero tutti, e, a crederli, si sarebbe pensato il
demonio, nascosto sotto il tappeto, si dilettasse operare cotesta
sparizione.
«Andiamo via!» esclamò il principe con voce
cavernosa uscitagli dalla gola e non modulata dai labbri;
«questi sono gli ultimi scudi ch'io abbia sulla
persona.»
Don Ferrante Gonzaga gli rispondeva:
«Principe, così vi veggo costantemente sfortunato al
giuoco che, se il proverbio italiano non falla, vorrei consigliare
ogni gentiluomo a non vi lasciare corteggiare la sua dama.»
«Pel corpo dei re Magi di Colonia! io perdo al giuoco e non
vinco in amore: qui non occorrono altre donne che villane, le quali
saliscono alla mia tenda passando per tutti i gradi della milizia,
dal fante fino al colonnello.... Inoltre, don Ferrante, come non ho
voglia d'imitare nell'arme il degno nostro avversario signore
Malatesta Baglioni, così intendo non imitarlo in amore,
perchè.... Sta a me, porgetemi i dadi. - Pari! tentiamo se
una volta indovino.... tre e tre sei.... ho indovinato!»
«Dispari!» replicò Baracone della Nava prendendo
i dadi e li traendo a sua posta; «sei e cinque, - pace.»
«Al diavolo questi dadi! - Datemene altri... Pari!» e
scaraventa il principe con ira i nuovi dadi sopra la tavola, i
quali, poichè alquanto ebbero ruzzolato, si fermarono e
mostrarono un cinque e un quattro. Allora torse lo sguardo al cielo,
come se avesse voluto in cotesto sguardo comprendere tutte le
bestemmie che la umana razza proferse da Adamo in poi contro il suo
Creatore.
Baracone della Nava indovinò la vicenda dei dadi e vinse gli
ultimi scudi del principe. Tolto fuori di sè, come per forza
del soverchio vino, Filiberto, con voce che parve piuttosto muggito
che suono umano, gridò:
«Franz!»
E il valetto, per lunga dimestichezza educato a conoscere che cosa
quella voce significasse, non era anche morta su i labbri che
silenzioso in atto di ossequio accorse al fianco del principe.
«Franz! va nella mia stanza da letto e recami lo stipo di
acciaio che vedrai sulla tavola.»
Un uomo calvo e barbuto, vestito alla foggia dei Fiorentini, fu
visto a siffatto comando trasalire, farsi bianco nel volto, - e
questo uomo si chiamava Baccio Valori, commessario pel papa nel
campo. - Accostandosi su i piè leggiero all'orecchio del
principe, gli susurrò le seguenti parole:
«Quale intendimento sarebb'egli il vostro, principe?»
«Giocarmeli, commessario.»
«Lo pensereste voi? - Io vi consegnai ieri sera quei
quattromila ducati, a stento raccolti per le paghe arretrate
dell'esercito...»
«Ebbene, non vado io pure creditore di arretrati! Primo mihi;
voi, che siete dottore, ditemi: non significano elleno queste parole
latine prima tocca a me? bisogna dunque che paghi me, - e poi
verranno gli altri.»
«Oh! se fosse qui il sommo pontefice?»
«Lo avrei caro, specialmente se si presentasse vestito dei
suoi abiti ponteficali, imperciocchè allora potrei giocarmi
anche le sue gioie, e quasi senza rimorso, dacchè il diamante
comperato da quel fero vecchio di Giulio II, che il Cellino
accomodò al bottone del piviale di Clemente fu già del
mio cugino Carlo il Temerario, duca di Borgogna; - un ribaldo di
Svizzero glielo tolse nella giornata di Grandson, dove rimase morto
della morte dei valorosi. - Messer commessario, comechè il
mondo vi reputi, e veramente siate uomo savio, udite un consiglio di
cui farete vostro senno: - non vi avvisate mai toccare cane che rode
nè giuocatore che perde.... A me, Franz! - Vuoi tu
affrettarti, Franz? che Dio ti confonda!»
Baccio Valori trasse un grandissimo sospiro e susurrò
sommesso: O papa Clemente, tu hai pensato un diavolo cacciasse
l'altro, ma per questa volta temo forte non ti abbiano a cascare
addosso tutti due.
Fu portato lo stipo, e caso fosse od industria di giocatore, la mano
del principe tante volte vi attinse danaro che alla perfino si
trovò vuoto; egli però come colui che nella febbre del
giuoco aveva perduto il lume degli occhi, non si accorse della
perdita enorme, se non quando, cacciandovi dentro la mano, le dita
strisciarono sul fondo e non poterono raccogliere che alcune rare
monete; allora con grido convulso esclamò:
«Per Dio, me gli avete finiti tutti!»
E lanciò su i circostanti uno sguardo tagliente quanto il
filo della mannaia: poi dopo dette in altissimo scoppio di riso, che
pareva gli si dovessero rompere le vene del cuore, e con voce
più impetuosa soggiunse:
«Ebbene, dov'è andato il brigantino vada la barca.
Capitano Corrado, giuoco lo stipo. - Io lo valuto dieci ducati d'oro
del sole. - Come, non costa egli dieci ducati? Io intendo e voglio
che costi dieci ducati. - Vorresti, morte di Dio! tribolarmi per un
ducato, quando me ne hai vinto le migliaia?»
«Ma che ho io a farmi del vostro stipo, Filiberto?»
rispose un giovine pallido, di capelli rossi, di sguardo falso,
appellato Corrado Essio.
«Che cosa hai a fartene? Se fosse grande dieci braccia,
potresti riporvi i tuoi peccati: - essendo breve, ci metterai il tuo
cervello.»
«E' mi pare che possa avanzarne da metterci anche il
vostro.»
«In fè di Dio hai ragione!»
«Ora via, facciamo come vi piace; - ecco i dieci
ducati.»
Gittarono i dadi: il tratto tornò contrario all'Orange, il
quale si morse le labbra fino a cavarne sangue, e nel tempo stesso
alcune gocce di sangue furono vedute scendere di sotto la veste a
bruttargli le calze, imperciocchè egli si fosse con la mano
sinistra abbrancata forte la carne del petto e, sopra sè
stesso sfogando la immensa sua rabbia, tacito tacito l'avesse in
molto sconcia maniera lacerata.
«Io ho giocato lo stipo», riprese il capitano Essio, per
cortesia e per farvi buon gioco; però non intendo privarvene,
Filiberto, - anzi vi prego di tenerlo per amore mio.»
«Ahi! figlio di malvagia femmina! - lo stipo mi lasci? - Ho io
forse bisogno de' tuoi stipi? Non so chi mi tenga dal rompertelo
sopra la testa.»
E lo faceva, ma Giovanni Bandino lo tenne.
Giovanni Bandino se ne stette tutta la sera seduto a canto del
principe; dal capo chino sul petto, dagli occhi chiusi si sarebbe
creduto che dormisse, senonchè un braccio teso sopra la
tavola e il pugno strettamente serrato dava a supporre l'occupasse
qualche profonda meditazione. - Allo schiamazzo delle prime
imprecazioni del principe alzò la testa e si pose a
osservare, - segue con diligente sguardo le vicende del giuoco, e
quanto più le vede tornare contrarie all'Orange, tanto
più esulta: simile affetto dell'anima le sue labbra
dimostrano con sorrisi brevi, sfuggiti dagli angoli estremi, - come
faville suscitate dalla pietra percossa; la sua gioia lo tradiva
giusto in quel punto in cui, gittate le braccia intorno alla persona
dell'Orange, gl'impedì dare dello stipo in testa a Corrado
Essio.
Questi, côlto il destro, fuggiva l'ira bestiale; e gli altri
circostanti, prevalendosi della lotta tra il principe e il Bandino,
il primo per isvincolarsi dalle braccia del secondo, il secondo per
trattenerlo, si allontanarono. Quando il principe risensò, si
rinvennero soli, allora Filiberto, profondamente avvilito, si
lasciò cadere sopra una sedia, e la faccia nascondendo in
ambe le mani, singhiozzò forte senza pianto e poi
cominciò dolente:
«Cristo! ieri la mia fama era anche bella... gloriosa, - era
splendida, - adesso poi chi vorrebbe la mia fama? - Fosse un
mantello, lo rifiuterebbe il miserello ignudo in una notte di
dicembre! - Sono diventato infame! - Domani verranno i soldati a
domandarmi le paghe, ed io qual cosa risponderò loro? - Le ho
giocate. - Noi abbandonammo le case lontane, parmi udirli dire, il
sangue nostro vendemmo per mandare il soldo alla vecchia madre, onde
avesse pane. - Ebbene, io ho giocato il sangue vostro... il pane
della vostra madre... Tacete... o v'impongo silenzio facendovi
stringere col capestro la gola.... Villani! ringraziate il cielo
dell'onore che vi concedo di potere versare l'ignobile vostro sangue
in vantaggio di Sua Maestà l'imperatore.... Ah! invano mi
adopro a soffocare la coscienza cacciandole in gola il mio mantello
di barone... la coscienza mi morde... m'infastidisce la vita.»
«La vostra tela non è anche ordita, o principe...
fatevi animo....»
«Voi siete rimasto qui per godere della mia umiliazione... voi
esultate della mia caduta... Italiano d'inferno, sgombra dalla mia
presenza... va presto... va... altrimenti mi faccio micidiale del
tuo sangue...»
«Io non ricusai i vostri conforti, ora abbiatevi i miei, e
sappiate, principe, che io conosco una via per la quale non solo non
perderete, ma accrescerete la reputazione da voi acquistata
meritamente e mantenuta fin qui.»
«Davvero, Bandino? Oh! io ti saluterò angiolo mio
custode, - non tanto per me, vedi, quanto per la nobile madre mia;
ella morirebbe di dolore, se sospettasse un simile fatto..., ella
scenderebbe nel sepolcro contristata. - Copritemi il volto del
lenzuolo funerario, ond'io non veda il disdoro della mia famiglia,
ella direbbe. - Or dunque parla, Bandino, ridammi la vita e
più che la vita...»
«Bisogna dar l'assalto a Fiorenza.»
«E quando?»
«Tra due ore.»
«Tra due ore, Bandino?»
«Nulla manca. I Sanesi provvidero quattrocento scale per
salire, i ferri e gli uomini per trucidarsi sono pronti.»
«E a che mena l'assalto?»
«O voi espugnate la città, e allora avrete danaro
più che non basta a soddisfare le paghe...»
«E se, come temo, non l'occupo?»
«Vi moriranno tutti o parte i creditori; e in ogni caso
saranno tanto importuni di meno.»
«Giovanni Bandino, voi mi oltraggiate.»
«Dio me ne guardi! - le azioni meglio magnifiche che il mondo
ammira trassero spesso principio da più ignobili cause: -
ormai ho passato il mezzo della vita, nè già mi sono
giocato gli anni, come voi i fiorini di papa Clemente; - conobbi i
grandi dell'età nostra; - piuttosto che eroi davvero, mi
parvero giocolieri di fama - e così penso che fosse la
maggior parte degli antichi...»
«Ma la notte è troppo scura, e Dio manda giù
acqua a bigonce... in qual modo si distingueranno le insegne? Come
si ripareranno dal fango? I capitani biasimeranno questo mio ordine
come pessimo accorgimento di guerra...»
«I capitani prima di tutto obbediranno, - e qui sta il meglio;
- poi risponderemo loro essere capitani di vecchio stile: quanto
più disagiato il tempo, tanto più verosimile si trovi
sprovveduto il nemico; il certame a luogo e a giorno fissi occorrere
nella tavola rotonda soltanto, e dal re Arturo in poi aver
progredito l'arte militare: ancora, se, giusta il costume di
Fiorenza, hanno le milizie nemiche festeggiato il presente giorno,
come vigilia di San Martino, a quest'ora dormono sepolti nel vino:
la pioggia stessa e la oscurità vi danno favore; a cagione
della prima, la polvere bagnata non concederà si sparino le
artiglierie; a cagione di questa, quando pure le potessero sparare,
non saprebbero in che punto colpire... Sapienza militare;
accorgimento astuto, amore di gloria - e sopratutto necessità
di rifare i denari consigliano ad assalire Fiorenza tra due ore.
«Siete pure i cervelli sottili voi altri Fiorentini! - Fra due
ore l'assalto: - è detto!»
Nell'intervallo dei vari impeti della bufera, tra un rovescio e
l'altro della pioggia turbinosa, per le vie di Firenze si ode una
voce orribile e dolente, come quella che a pari ora della notte
suole gittare nelle ombre l'infelice travagliato dal male della
licantropia.
E la voce gridava:
«La città dove il savio dorme e il pazzo veglia
è derelitta da Dio. - Sciagurati! Avete chiusi gli occhi
sotto cortine di seta, - domani vi sveglierete sotto una corda di
canapa. - Alle mura! - alle mura! - i nemici prorompono.»
Dal paragone che fanno spontanee le fibre dell'uomo a grande agio
disteso nel letto tra il suo stato presente e quello del misero
raggrizzito dal freddo, - battuto dalla tempesta, nasce un godimento
il quale si potrebbe molto acconciamente da qualche misantropo
attribuire alla malignità insita nella nostra natura.
Però chiunque udiva la voce si avviluppava più stretto
nelle coltri, esclamando con compiacenza:
«Io sto meglio del Pieruccio!»
All'improvviso rimbomba un colpo d'artiglieria. Il nostro cittadino
balza a sedere sul letto e tende l'orecchio, timoroso di non essersi
ingannato. - Un altro colpo, - Ch'è questo? - Qual nuovo caso
ci minaccia adesso? - Comincia la campana dei Signori, rispondono le
campane di santa Reparata, - tutti i campanili della città
suonano a stormo; le artiglierie spesseggiano i tiri. -
Misericordia! questa è l'ultima notte della mia vita! - E il
cittadino poc'anzi lieto delle tepide piume si gitta giù
scalzo sul pavimento, apre le imposte e nudo si espone al gelato
mordere dell'aria; ode un frastuono confuso di gente che corre e che
grida, ma non gli riesce distinguere cosa che valga a toglierlo
dall'ansietà. Si veste in fretta, cinge la spada e, nulla
badando alla pioggia, al freddo, ai pericoli, precipita sulla
pubblica via. - Vi furono padri di famiglia i quali, inteso il primo
colpo di artiglieria, si tolsero pianamente dal lato alla moglie,
sperando e pregando ch'ella pure dormisse; ma la consorte si sveglia
e desta i figli, e con essi loro si pone traverso la porta,
contendendo al marito l'uscita; i figli gli stringono le ginocchia,
la moglie lo abbraccia su i fianchi; pianti e singulti che spezzano
il cuore: «Oh! non uscire, perderai la vita.» -
«Figliuoli miei» parla blando il buon cittadino,
«mia dolce consorte, s'io pur rimango, il nemico
espugnerà la terra, e me ucciderà con voi, -
meritamente, - invendicato, perchè mancai alla patria: se mi
lasciate correre alle difese, ributteremo i barbari... o in ogni
caso non morirò senza vendetta... nè i vostri occhi
saranno funestati dalla mia strage... Sgombratemi il passo, - tacete
- e datemi l'arme.» - Tacquero - lo armarono, e quando fu
partito ripresero il pianto con l'impeto del fiume che rotto
l'argine straripa. Altrove la madre destò il figlio e lo
spinse fuori delle domestiche mura: non mancarono donne le quali,
mentite o non mentite le vesti, vollero a ogni costo uscire a
combattere con gli amanti o mariti loro. E Benedetto Varchi racconta
come, occorrendo anch'egli a fare il debito suo, incontrasse presso
Santa Maria delle Grazie un popolano il quale traeva a gran furia
seco un figliolino, ed avendogli domandato perchè così
il menasse, n'ebbe in risposta: Voglio ch'egli o scampi o muoi meco
per la libertà della patria, atto e parole degne piuttosto di
paragonarsi alle antiche romane che anteporsi alle miserabili nostre
moderne. Le ombre della notte furono vinte da quantità
inestimabile di torce e lanternoni: accesero i cittadini chi due,
chi quattro lumi, sicchè vi si vedeva come se fosse stato di
bel giorno. Tutte le vie che menano alle porte et là d'Arno e
i quattro ponti si empirono di genti volte a difendere quel lungo
tratto di mura che da porta San Nicolò si prolunga fino a
Porta San Friano. La milizia fiorentina comparve subito, in punto di
ogni arme, quasi per incanto. Non che mostrassero sbigottimento, era
in tutti un ardore, una esultanza non altrimenti che se andassero
convitati al festino. Il signor Stefano Colonna, l'Arsoli, il Bichi,
con altri capitani di conto e soldati vecchi, non capivano in
sè dalla meraviglia; allora cominciarono a tenere non pure
possibile, ma certo quello che spacciato credevano dianzi, voglio
dire la salute della terra; tanta prontezza, così grande
perizia avrebbe stupito in uomini per lunga disciplina esercitati
nelle fatiche militari. Tanto può nei petti umani il vero
amore della libertà! E quinci imparino a non disperare i
presenti, imperciocchè se a Dio era concesso dire: Sia luce,
e luce fu: alla libertà parimente fa data potenza per
ordinare, allo schiavo: Diventa eroe; - ed in quel fango
prenderà ad agitarsi un'anima sorella a quella del Ferruccio,
o di qual altro capitano glorioso delle passate età o delle
presenti. La pioggia e il freddo non si curavano. L'artiglieria fu
posta al coperto e sfolgoreggiò di fronte e dai fianchi con
incredibile celerità il nemico. Con urli che andarono al
cielo, l'archibuso di Malatesta dal bastione di San Giorgio
spararono due volte. Non avrebbero gl'imperiali trovato così
gagliardo intoppo, se fossero stati attesi. Dall'altra parte i
nemici si mostrarono degni della loro fama; appoggiate le scale ai
bastioni, vi salivano silenziosi e guardinghi, sperando cogliere le
guardie alla sprovvista, allorchè videro una molto strana
figura, angelo o demonio che si fosse, volare sopra una di quelle, e
giunto in cima ai bastioni urlare con gran voce:
«All'arme! all'arme! - il nemico appoggia le scale alle
mura... Pieruccio le ha salite per darvene l'avviso.»
Un orlo di fuoco manifestò il contorno delle bastite di
Firenze, le palle degli archibusi fioccarono spesse quanto la
pioggia; gl'imperiali, disperati potersi più oltre
nascondere, fatto buon viso alla fortuna, continuarono a salire,
animosamente gridando: Sacco! palle! città presa!»
«Eretici senza fede! muggiva Lupo, udendo quel grido di sopra
al suo campanile, città presa! Almeno aspettate a dirlo
quando porrete il piede su la piazza dei Signori; mentre si
allestisce la festa, io vi mando la treggea.» - E qui, toccati
i sagri con la corda accesa, lanciarono un nuvolo di schegge
mortalissime contro il fianco degli assalitori.
Comechè il danno che usciva da coteste scariche fosse
notabile, pure a Lupo non pareva di fare frutto conforme ai suoi
desiderii: in quei tempi, non conoscendosi il modo di caricare i
cannoni a metraglia secondo i nostri moderni argomenti, vi ponevano
dentro certi sacchetti pieni di vetri rotti, di pietra, di ferro e
simili altre sostanze; onde avveniva che cotesti volumi poco tratto
passassero e, di leggeri sciogliendosi, quasi morta spandessero la
contenuta materia.
«Per San Giovanni Battista! stanotte abbiamo a crepare
insieme», brontola Lupo percotendo forte della mano sui sagri,
e prende doppia carica di polvere, poi mette la palla di pietra,
dopo la palla il sacchetto delle schegge: certo, egli corre
presentissimo pericolo che i sagri dirompendosi in pezzi non
lacerino lui e due uomini attenti ad aiutarlo; ma veruno di loro vi
bada, e caricano e scaricano, le artiglierie con tanto mirabile
prestezza che Lupo alla fine, palpandole con la mano quasi in atto
carezzevole, ebbe a dire:
«Hanno predicato assai; adesso bisogna rinfrescarle. - E
fattasi portare una bigoncia di acqua, procurava freddarle; poi si
rimise all'opera più affaccendato di prima.
Gli Orangiani, quantunque per continue perdite si vedessero scemi,
non rimettevano punto dell'ostinatezza di volere espugnare la
città: pareva loro, ed era troppo grande vergogna, che,
vincitori in mille scontri di milizie vecchie, dovessero ora voltare
le spalle dinnanzi ad una mano di uomini pur testè intenti ai
fondachi e alle arti della seta e della lana; ormai non isperavano
più di vincere, ma prima di ritirarsi desideravano o
vendicare la morte di qualche compagno, o di alcuno bel fatto
onorarsi. Per questa volta la fortuna era disposta a camminare del
tutto loro contraria. Un alfiere d'incredibile ardire e di singolare
prestanza si vantò tra i suoi voler porre in cotesta notte la
bandiera su le mura di Firenze o morire; per esser più
spedito, non tolse altra armatura che la barbuta e la rotella,
già, perigliando su l'aereo cammino, perviene al margine
estremo del bastione, lo tocca, e spiccato un salto, lo preme: alza
il braccio per piantare la bandiera, apparecchia nei capaci visceri
il grido annunziatore del vanto adempito agli amici, quando ecco
giungere tempestando a quella volta Dante da Castiglione; egli,
secondo l'usanza sua antica, con ambe le mani stringe la spada, e
allorchè il barbaro meno se lo aspetta, acconsentendo della
persona, con tale smisurata forza gli abbriva un manrovescio che gli
spicca la testa dal busto e taglia parte della bandiera; la testa e
la bandiera cascarono rotolando in città, il busto mutilato,
con le mani prosciolte, sgorgando delle vene recise un torrente di
sangue, rovinò lungo le mal salite scale; in quel punto
alcuni archibusieri fanno fuoco, e la luce che n'esce rischiara
l'orrendo spettacolo. L'una parte e l'altra prorompono in gridi di
spavento; - un istante si posano, - quindi ritornano ad affrontarsi
molto più feroci di prima.
Un altro bel colpo fece il capitano Ferruccio; questi scorrendo di
su e di giù con in mano un'accètta per tenere sgombro
quel tratto di muro che egli guardava, vide sporgere il capo di un
cavaliere, poi le spalle, poi ambedue le braccia, e stenderle e
forte abbrancare la muraglia: «Frate, troppo pronte avesti le
mani», disse il Ferruccio, e giù calando
l'accètta, gliele recide fino alla giuntura; traendo costui
doloroso guaio, il corpo abbandonato precipita sopra il capo degli
amici sorvegnenti. - Ancora uno dei nostri si strinse in lotta su
l'orlo del muro con certo soldato spagnuolo: il Fiorentino
s'ingegnò traboccare l'avversario fuori delle mura; per lo
contrario lo Spagnuolo tenta spingere il marzocchesco giù
nella città; adopra ognuno l'estremo di sua possa; non
pretermisero sforzo che l'uno all'altro potesse rendere superiore;
si urtarono con la fronte, si offesero co' morsi; il Fiorentino
colto il destro, pone al nemico la gamba traverso, e questi,
squilibrato, rovescia: però cadendo, sì forte si
appiglia alla vita del nostro che entrambi in un fascio scompaiono
dai muri. Il caso ordinò che lo Spagnuolo, percotendo con le
spalle sul terreno, rimanesse morto; il Fiorentino, dallo
sbalordimento in fuori, non rilevò altro male, sicchè
mentre tuttora i compagni si addoloravano sopra la sorte di lui, lo
videro ricomparire in mezzo a loro, molto raccomandandosi che,
scambiatolo per nemico, non lo uccidessero. Troppo sarebbe lungo e
per me e per chi legge sazievole raccontare partitamente le strane
venture di guerra che in quella notte successero. Stefano Colonna
con buono intendimento si pose in disparte con quattro fra le
migliori compagnie della milizia, e dovunque il bisogno vedeva
maggiore di aiuto, mandava una o due compagnie, le quali giungendo
fresche, ributtavano ferocemente il nemico. Filiberto, sconfortato
da tante morti ordinò si ritirassero le schiere, guardando
prima di portar seco i cadaveri dei compagni, affinchè i
nemici, contemplata la mattina la strage, non avessero motivo di
andare baldanzosi; e così, come ordinava fu fatto, tornandosi
tristi là donde poc'anzi con tanta audacia d'orgoglio si
erano dipartiti e maledicendo di cuor loro il misterioso signore, il
quale, pochi anni avanti, gli aveva spinti ad incontrare morti e
ferite contro un papa, a favore di cui mandavali adesso ad esporre
la vita. Grange, camminando verso la tenda, si volse dintorno a
sè, e scorgendosi prossimo il Bandino, gli disse in suono
turbato:
«Or che cosa abbiamo guadagnato noi dal vostro consiglio,
messer Bandino?»
«Parmi moltissimo.»
«E come?»
«Prima di tutto ci ha guadagnato il paradiso (ma questo,
credo, meno di ogni altro), perchè se alcuna anima buona
viveva tra noi, sciolta stanotte dai legami terreni, se ne
andò diritta diritta alle dimore celesti.»
«Tregua ai motteggi... noi camminiamo sul sangue.»
«Con buona licenza vostra, messere lo principe, lasciatemi
proseguire; in secondo luogo, più del paradiso per le
allegate cagioni guadagnava l'inferno; - sopra tutti avete
guadagnato voi, principe.»
«Io? tu mi deridi?»
«Dico da senno io; non sapete voi che il capitano Corrado
Essio, venuto a morte, vi ha istituito erede d'ogni sua
facoltà?»
«Corrado è morto? Ahi! mio buono, mio leale amico, io
ne terrò il cuore afflitto fino...»
«A domani.»
«Dimmi, Italiano, in nome del tuo Dio, già non lo
avresti tu ucciso nella notte... alle spalle... Italiano?»
«Gli assassini ci vengono di Spagna, messere lo principe.
Corrado Essio lasciò le braccia recise sopra i bastoni di
Fiorenza, - l'anima a cui di ragione, - li denari a voi.... onde
potete dormire tranquillo la rimanente notte.»
«Oh! Chi sa domani con quanto biasimo riprenderanno la mia
fama...?»
«Domani i soldati pagati vi leveranno a cielo.»
«Ma i morti..., Bandino..., i morti?...
«Se fanno rumore, chiamatemi, - io saprò costringerli
al silenzio. Su via state di buon animo; - voi mi parete fanciullo.
Ch'è che dice il Vangelo? Due passeri non si vendono eglino
un quattrino? Pur nondimeno l'uno di essi non può cadere in
terra senza il volere di Dio. Però concludo che i morti
avevano a morire.»
«Sta bene: - anche sventura a qualche cosa è buona. Dio
vi tenga in guardia, Bandino.»
Il Bandino, rimasto solo, stese la mano in atto di minaccia dalla
parte ove giace Firenze ed esclamò:
«Quanto mi tarda la vendetta! - Pur quando dovessi rimanermi
solo ad oste contro di te, Fiorenza, o per forza o per tradimento
vedrai il tuo giorno finale.»
CAPITOLO DECIMOQUARTO
IL MORTICINO DEGLI ANTINORI
Ma già distendon l'ombre orrido velo
Che di rossi vapor si sparge e tigne;
La terra, invece del notturno gelo,
Bagnan rugiade tepide e sanguigne.
...................................
...................................
...................................
...................................
Per sì profondo orror verso le tende
Degl'inimici il fier soldan cammina.
Torquato Tasso.
Mostrandosi co' gesti e nel sembiante acceso di furiosissimo sdegno,
si affretta Malatesta Baglioni a salire le scale del palazzo della
Signoria; impedito però dal grave morbo che gli teneva
attrapite le membra, egli offriva spettacolo di sè a un tempo
stesso burlevole e pietoso d'ira e d'impotenza: appena era giunto
con isforzo faticoso al sommo della prima scala, lo sovvenendo di
appoggio Cencio Guercio; - senza di lui sarebbe per certo caduto a
mezzo.
Dante da Castiglione seguitato dal Morticino degli Antinori
traversano ratti il cortile del palazzo: il primo ha in mano una
bandiera imperiale mozza della picca e insanguinata; l'altro porta
anch'egli un involto sordido di sangue. Dante, poderoso di membra,
si caccia su per la scala montando a quattro a quattro i gradini; il
Morticino, di persona breve, uguaglia con la speditezza dei moti il
suo gigantesco compagno, sicchè, o preoccupati non vedendo, o
spregiatori non badando Malatesta, passano oltre pronti e fugaci,
quasi apparizione di forza e di agilità. L'ossequio mancato
non fu ciò che increbbe al Malatesta; gli morse il cuore la
invidia quando notò i muscoli stupendi e le forme statuarie
del corpo del Castiglione. Proruppe in cotale un suono di gola
simile a quello che la volpe fa quando schiattisce, ed una
crispazione nervosa gli abbrividì il corpo intero.
Cencio, che ai giorni nostri potrebbe chiamarsi il suo Mefistofele,
uso, per la pratica grande che ne avea, a conoscere dai moti
più lievi l'intimo pensiero di lui, con motteggio beffardo e
voce lenta gli disse:
«Perchè desolarvi? ai casi nostri omai non abbisognano
più le facoltà del soldato...»
«Ah! finchè fui della persona gagliardo», rispose
Malatesta, «non seppi volgere l'anima a tristizia.»
E diceva bene: così poi questo apparisce vero, che, quante
volte alle donne piglia il talento di farsi scellerate, assai
più le proviamo malvage degli uomini facinorosi; colpa la
debolezza. Nerone era vile.
Giunto nella stanza dei Signori, Malatesta quasi garrendo
incominciò:
«Vicende gravi succedono in Fiorenza, ed io ne aspetto invano
ragguaglio! - Si dà fuoco a tutte le artiglierie, e da me non
parte ordine alcuno! - Si provoca il nemico, s'ingaggia battaglia, e
non si avverte Malatesta Baglioni! - Magnifici Signori, sono il
vostro capitano generale, o che sono io? Molti obblighi mi stringono
a voi: qualcheduno però anche voi a me; altrimenti parrebbe
molto più onorevole cosa alla reputazione mia e molto
più conveniente alla fama di saviezza che di voi suona nel
mondo mi ritiraste la dignità la quale poc'anzi con tanta
benevoglienza voleste conferirmi; certo voi voleste, o messeri,
esaltarmi, non vituperarmi per le terre d'Italia...»
«Messere Malatesta», riprese il Castiglione,» e'
par che voi ignoriate come gli assaliti fummo noi; e voi intendete
che se prima di ributtare l'assalto avessimo dovuto impetrare la
licenza vostra o d'altrui, a quest'ora i nemici terrebbero questo
nostro palazzo.»
«Voi non dite il vero, messer Castiglione: i nemici erano
provocati; le nostre artiglierie spararono prime contro il campo
imperiale.»
«Signor Baglione, qual conto facciate voi della parola d'un
gentiluomo a Perugia io non so; ma voi è ben che sappiate, i
gentiluomini a Fiorenza non aver mestieri di sacramento per essere
creduti. - Guardate mo' vi par ella questa una bandiera imperiale?
Cadde dalle mani di uno degli assalitori venuto sopra i bastioni in
città.»
«Chi ve l'ha data, messere?»
«Ma... la tolsi io medesimo di mano al bandieraio...»
«E con la insegna gli tolse ancora un'altra cosa,...
guardate!.... la testa....»
E sviluppato dall'involto un capo reciso, il Morticino degli
Antinori lo lascia cadere in mezzo della sala.
«Morte di Dio» strilla il Baglioni ritirando precipitoso
i piedi a sè per timore non gli s'imbrattassero di sangue:
«togliete via quella testa... toglietela via. - Cencio,
chiudile gli occhi! - fa che non mi guardi; - non la ravvisi,
Cencio? Ella è la testa di Giorgio da Gioiella, il nostro
antico compagno di arme nelle guerre di Lombardia... Ahi sciagurato
Giorgio! - Magnifici Signori», riprese quindi non senza
dignità, «destino del soldato è morire in
battaglia; mi dolgo dell'antico commilitone, non del suo fine:
ciò poi di cui massimamente mi dolgo si è questo, che
non avrei mai creduto si traessero a vituperio le reliquie del
soldato in tale città che sopra ogni altra d'Italia si vanta
gentile; no, io non mi sarei aspettato a vedere rotolare sul
pavimento della sala dei Signori e alla presenza vostra il capo
reciso di un soldato caduto da valoroso.»
Dante si volse con acerbo piglio al Morticino e sì lo
garrisce:
«Antinori, vi aveva pur detto lasciaste quel capo onde
cristianamente lo seppellissero: Dio si ha per male che l'uomo abusi
della vittoria.»
«Per me non so bene se più mi giunga gradita la vista
del nemico spento, o la faccia della donna mia; e non leggermente ho
creduto che l'animo di questi eccelsi Signori avrebbe preso
maraviglioso diletto a contemplare la testa di chi primo osò
violare le mura di Fiorenza.»
Francesco Carducci, il quale per la morte di Alessio Baldovinetti
era stato eletto de' Dieci di libertà e pace, ed oltre a
questo teneva l'ufficio di commissario sopra la guerra, non si
dipartiva più di palazzo disperando e nondimeno affaticandosi
alla salute della patria: però, trovandosi presente a cotesto
caso, aveva da prudente ed acuto osservatore atteso fino a quel
punto senza proferire parola ai detti e ai gesti nei diversi
personaggi; allora con grave contegno, chiamato un mazziere,
ordinò:
«Fa di portare cotesto capo tronco al cappellano, e impongli
da parte dei Dieci lo seppellisca in sacrato; poi manda, o torna a
nettare il pavimento.»
L'Antinori ravvisò in coteste parole una rampogna al suo
operato, e ne sentì acerbo rammarico; amico o avverso al
Castiglione, quantunque volte veniva a paragone con lui ne
disgradava la fama: gli si accosta per tanto e con motteggio maligno
gli susurra all'orecchio:
«Dante mio, voi mi sapete di frate un giorno più
dell'altro: - io v'indetto fin d'ora per mio confessore quando
vestirete la cocolla.»
«Morticino, accogli in seno un poco di carità patria:
vesti l'anima tua di virtù vera, e non abbisognerai di
confessore; - perchè molto più che confessore valente
giova non aver peccati a confessare.»
L'Antinori alzò cruccioso le spalle e si trasse in disparte.
Dante, volgendo la favella al gonfaloniere, a' Priori, ai Dieci, per
cagione del sonno interrotto e dalla strana scena avvenuta sotto i
loro occhi non bene ancora memori di sè, e sopra gli altri
intendendo col guardo nel Carduccio, il quale vegliava per tutti,
soggiunse:
«La milizia fiorentina in mio nome vi prega, magnifici
Signori, affinchè voi siate contenti di lasciarle aprire le
porte per visitare a sua posta il campo imperiale.»
«Signori», interruppe il Malatesta, «in
verità questi giovani non sanno quello che si facciano;
soldati da ieri, presumono oggi affrontarsi con milizie vecchie, use
agli scontri più fieri di guerra..., nè solo
affrontarsi con esse elleno ardiscono, sibbene assalirle nel campo
per arte munitissimo, difeso da numerose artiglierie. Lodo l'animo
pronto; soldato antico, mi piace la militare baldanza... pure, nella
mia qualità di capitano generale, e voi, messeri, come
difenditori di questa amatissima patria, dobbiamo frenare un moto il
quale comechè generoso potrebbe partorire perniciosissimi
effetti.»
«Signor Baglione, ogni uomo a cui non tremi il cuore di
dentro, chiunque, come i miei compagni e me, ha disposto, innanzi
che volgere le spalle, morire, fu soldato dal primo giorno che
nacque.»
«Io non lo dico per voi, messer Castiglione; - ma gli altri
non vi assomiglieranno.»
«Piacesse a Dio ch'io mi assomigliassi a loro! - sappiate,
signore, essere eglino molto migliori di me.»
«Sia; però pensate allo svantaggio: il nemico si
difenderà dietro ai bastioni.»
«Nè occasione più vantaggiosa di questa ci
può apprestare la fortuna, ora che il nemico si è
ritirato stanco, lacero, avvilito, e non si aspetta l'offesa.»
«Presumereste voi forse sforzare il campo?»
«Non presumo, - spero.»
«E se vi respingono?»
«Saremo pari.»
«Lasciateli stare, - a nemico che fugge ponte d'oro.»
«Ditemi questo allorquando ripasseranno gli Appennini, e vi
darò ragione; ora non fuggono, - rifanno le forze,»
Il Carduccio intanto si era ristretto a consulta co' reggitori e
loro esponeva con piana favella certi suoi disegni, i quali per
certo incontravano favore, imperciocchè tutti assentivano con
la voce e col cenno. All'improvviso, egli indirizzandosi al
Castiglione, risponde:
«Il magnifico gonfaloniere, i Signori e i Dieci ringraziano la
milizia della sua buona intenzione; approvano il disegno e
desiderano che Dio l'accompagni, siccome l'accompagnano essi con
ogni lor voto.»
«Signori», strilla il Malatesta, «voi intendete di
cose militari nulla; - io non approvo la sortita; - non la posso
approvare.»
«Ci duole non poter conseguire l'assenso vostro; - voi non
correte in siffatta deliberazione alcun rischio, tale essendo la
volontà nostra.»
«Volontà! L'ufficio e la coscienza di buon generale
m'impongono oppormi con tutte le mie forze a tale rovinoso partito;
anch'io amo questa terra...»
«Amateci meno ed obbedite di più», interruppe,
Andreuolo Nicolini, une dei Dieci.
«Opporvi ai comandamenti della Signoria? messer Malatesta,
sareste per avventura ebbro?» soggiunse il gonfaloniere
Girolami.»
«Oh! no, Signori», crollando il capo riprese a dire il
Carduccio; - «messere Baglione non sa quello sappiamo noi, - e
lo muove studio di bene: - credetelo.... io lo conosco: solo mi
concediate favellargli due parole in segreto, lo renderò
partitamente capace di tutto.» «Accomodatevi a vostro
agio, messer Carduccio», risposero il gonfaloniere e alcuni
dei Signori. Allora messere Francesco, tolto un doppiere, si volse
al Malatesta parlando: «Signor capitano, favorite
seguirmi.» Malatesta ondeggiava se dovesse andare o rimanere;
da una parte la prudenza lo tratteneva, dall'altra l'animo superbo
non gli consentiva mostrare viltà: tenne una via di mezzo, -
fece cenno a Cencio lo seguitasse ed andò. Cencio, non
volesse, o non capisse, o per sè temesse, non mutò
passo e stette fermo al suo posto. Il Carduccio traversò
alcune stanze, e giunto in un corridore si fermò davanti a
certa finestra che riesce sul cortile che fu. poi della dogana, e
posto il doppiere tra la faccia del Malatesta e la sua, così
lo interrogò: «Ditemi, messer Baglioni, udiste voi mai
rammentare il capitano Baldaccio dell'Anguillara?»
«Cencio! - Cencio! - dove sei?» «Tacete; - qui non
vi si vuole far alcun male. Non temete: - se il vostro giorno fosse
arrivato, di piccolo soccorso vi sarebbe quel vostro
servitore.» «E chi vi ha detto che abbia paura io?
Chiamava Cencio per appoggiarmi al suo braccio: - mi sento
stanco...» «Appoggiatevi sul mio. Dunque, rispondetemi,
udiste mai favellare di Baldaccio Conte dell'Anguillara?»
«Io? - Mai.» «Baldaccio fu capitano ai suoi tempi
prestantissimo; venuto in sospetto di macchinare cose contrarie alla
Repubblica nostra, era chiamato in palazzo... in questo corridore
trafitto... e giù da questa finestra precipitato.»
Malatesta rabbrividì; pure mantenne fermo viso e, sforzandosi
di far bocca da ridere, soggiunse: «Voi siete un terribile
persuasore, messer Carduccio; dubitereste voi forse della mia
fede?» «Se ne dubitassi, vi avrei narrata la storia di
Baldaccio? Non dubito, ma vigilo...: ed una volta per sempre
sappiate che in Fiorenza comandano il gonfaloniere e gli altri
magistrati eletti dal consiglio. Ora torniamo nella sala della
consulta.» E quivi pervenuti, il Carduccio, riponendo il
doppiere sopra la tavola, disse con ammirabile pacatezza: «Le
ragioni addotte al magnifico messere capitano generale lo hanno
persuaso; ogni difficoltà pertanto è rimossa. Messer
Dante, vi sarebbe per avventura occorso in questa notte il capitano
Ferruccio?» «Messere, dove si presenta pericolo a
correre o gloria a conquistare, quivi sempre troverete il buon
Francesco; egli combatteva tra i primi; adesso si trattiene ai
bastioni di San Piero Gattolino aspettando la risposta della
Signoria.»
«Messer segretario», impose il Carduccio a Donato
Giannotti, «andate per la vostra commessione.»
Il Giannotti senza porre tempo tra mezzo, tutto lieto fra sè,
come quello che amicissimo era del Ferruccio, salutati gli astanti,
partiva.
Salite ch'ebbero le mule loro Malatesta e Cencio, questi si volse
più fiate a guardare il palazzo della Signoria, e le mani si
ponendo su pel volto verso le tempie, si tentennava la testa.
«Che cosa è quello che tu hai Cencio?»
«E' mi tasto il capo; mi pare impossibile che mi sia rimasto
attaccato al collo.»
«Tu dici vero! - la gru è uscita di bocca al lupo;
provvederemo in séguito a non lasciarci prendere alla
tagliuola: oramai questo palazzo ci accoglierà sotto ben
altro aspetto. Per Dio, è tempo che questi trecconi scontino
le minaccie adoperate contro di me...»
«Signor Malatesta, è tempo di far senno davvero;
perchè, vedete, la testa la si perde una volta sola.»
«Capitano Francesco!» chiamava a voce alta Donato
Giannotti tale che così al barlume gli era parso il
Ferruccio, nè s'ingannò; ond'egli pronto rispose:
«Chi mi vuole?»
«Dalla parte dei signori Dieci di pace e libertà, ho
qui ordini importantissimi a parteciparvi.»
«Parlate: - vi ascolto.»
«E' sono scritti nella lettera di commessione; - se mi
accompagnate qui oltre soltanto il canto, troveremo una immagine di
Madonna e al chiarore della lampada che le arde dinanzi leggeremo le
istruzioni.»
«Sì, bene; - andiamo.»
Giunti al luogo designato, il Giannotto si fece sotto la tettoia, e
tolta la lampada dalla lanterna dette comodo al Ferruccio di
leggere; questi, rotto il suggello, conobbe la commessione essere
del seguente tenore:
«Francesco, tu prenderai teco tra scoppiettieri e fanti di
ordinanza quattrocento, terrai ancora cento cavalleggeri e te ne
andrai in Empoli; avrai nome e possanza di commessario generale, e
troverai qui dentro lettera pel potestà, Albertaccio
Guasconi, con la quale gli si comanda lasciarti fare e non
impacciarsi ne' casi della guerra; tu attenderai a tenere sgombre le
strade, a munire la terra e mantenerla nella devozione della
Repubblica; userai eziandio massima diligenza a provvedere la
città nostra di vettovaglie e munizioni da guerra; ci terrai
ragguagliati degli accidenti che accadono in giornata, ed eseguirai
la commessione che affidiamo alla tua prudenza, con quei termini che
sul fatto ti pareranno migliori. Ex palatio florentino Decemviri
libertatis et baliæ Reipub. Flor.»
«Messer Donato», prosegue il Ferruccio, «direte ai
signori Dieci che non mancheremo alla fede la quale hanno riposta in
noi, e tra poco, speriamo, udranno novelle di cui Fiorenza si
torrà contenta.»
«Commessario», riprese il Giannotti, «voi salutano
i popoli Gedeone; in voi hanno riposto ogni fidanza di salvezza: il
paese è desolato, le nostre terre consuma il fuoco, i
forestieri divorano nel cospetto nostro le nostre facoltà, -
ma che cosa ha promesso il Signore? V'è un giorno contro ogni
superbo; chi piange sarà consolato, l'oppressore oppresso; -
farò splendere la luce a quelli che abitavano nell'ombra
della morte.»
«La bandiera di Dio», si udì una voce solenne
senza potere distinguere da cui muovesse, «era innalzata sopra
un monte altissimo da mano forte invano; pochi la guardarono e tosto
si chinarono alla terra dell'angoscia e della caligine. - Tu sei
stata recisa, come frutto immaturo, dall'albero della vita; - o
stella mattutina, o figlia dell'aurora, o giglio d'Italia,
dov'è l'antica tua gloria? - L'inferno stesso sente
pietà di te; tu posi sopra un guanciale di vermi; i lombrici
hanno posto il nido dentro alle tue chiome, ma tu starai in
testimonio di grandezza tra i posteri: il sepolcro dilaterà
indarno la sua bocca; - egli non potrà contenerti intera; il
magnanimo non si consuma, ma scomparisce, quasi fiamma spenta per
forza.»
«Egli è Pieruccio che passa», bisbigliò
Vico, compagno inseparabile del Ferruccio.
Un soffio di vento gagliardo spense in questo punto la lampada;
rimasero tutti sepolti nella oscurità.
«Il magnanimo non si consuma», ripeteva il Pieruccio da
lontano, «ma scomparisce come fiamma spenta per forza.»
Il commessario, quantunque prode uomo fosse di guerra e di animo
saldo, rimase non pertanto percosso dalle parole e del caso; stette
alcun poco pensoso, poi all'improvviso proruppe:
«Sia; purchè la fiamma si spenga quando sorga l'alba di
un giorno più felice alla umanità. - Or dunque, Vico,
va in mio nome ai quartieri e scegli i fanti: adesso giova
rammentarti gl'insegnamenti del padre tuo; sia la tua scelta, o,
com'egli dice, il deletto, di volontarii spediti e gagliardi; io
apparecchierò i cavalleggeri e i capitani; tra mezza ora ti
attendo alla Porta San Friano...»
«Mezza ora!»
«Ci prevarremo del tumulto della sortita...»
«Appunto», notò il Giannotti, «io penso i
Dieci l'ordinassero per questo: troppo essi intendono l'arte di
guerra per credere di espugnare il campo senza uno sforzo di tutte
le milizie.»
«Mezza ora!» riprese Vico in suono di voce dolorosa; e
il Ferruccio, che ben si accorse donde quei mesti accenti movessero,
concitato ad ira, esclamò:
«Possa il padre cacciare dalle sue case come concepito di
adulterio, possa la donna amata rifiutare come infame colui che nei
bisogni della sua patria ad altra cosa pensò che non fosse la
patria.... Andate, Ludovico Machiavelli, in meno di mezza ora vi
aspetto alla Porta di San Friano.»
Stordito per coteste parole, che gli parvero una maledizione, Vico
un sospiro dette alla sua Annalena, - un solo sospiro; poi si chiuse
ben dentro al cuore il suo affetto ed attese ai doveri severi del
cittadino di libera città minacciata dalla tirannide.
Si aprirono le porte tutte delle mura di Oltrarno, tranne quella di
San Friano. La maggior parte della milizia fiorentina esce ordinata
e guardinga: alcuni soldati di condotta, ma pochi, la seguirono per
farle spalle; le artiglierie cessarono di fulminare fuoco; il cielo
non versa più acqua, non pertanto sta sopra la terra nero e
pauroso, come se Dio non vi avesse ancora sospesi la gloria del
sole, o lo splendere delle stelle. A mano a mano che escono fuori
della porta, i soldati si dilatano, dai fianchi distendendosi in
lunga fila: dietro ordinava il signore Stefano alcuni squadroni
staccati, gli uni dagli altri per buon tratto divisi,
affinchè accorressero pronti a sovvenire dove il caso lo
dimandava; ordinamento per l'offesa conforme a quello che
adoperò nella difesa. Giunti che furono i nostri su quella
parte di terreno che comincia a salire intorno a Firenze, Dante da
Castiglione, il quale camminava nelle prime schiere, sente
all'improvviso stringersi il braccio.
«Vóltati», gli favella il Pieruccio, «vedi
quella fiamma sopra la cupola di Santa Maria del Fiore?»
«La vedo.»
«Da quella fiamma nasce l'incendio che arderà la
patria; il tradimento l'accese; noi miseri! il tradimento ci
è come un tarlo nell'ossa...»
«E i traditori?»
«Io veglio, - gli saprai più tardi.»
«Ma tu, Pieruccio», interrogò Ludovico Martelli,
che armato di tutte armi procede al fianco del Castiglione,
«perchè ti avvolgi senza riparo in questi scontri
perigliosi? Perchè nel giorno non ti mostri per le vie di
Fiorenza?»
«Se io mi mostrassi di giorno nella patria che amo pur tanto,
i miei fratelli mi ucciderebbero, e il mio sangue sparso,
senzachè io giungessi a impedirlo, potrebbe chiedere vendetta
all'Eterno: mi aggiro pel campo in traccia della morte, - io la
cerco come la dama dei miei pensieri, - ed ella, superba più
della bella dama, disdegna i voti del Pieruccio: anche l'avello mi
rifiuta, - povero Pieruccio! - Ma quando avrò toccato il
porto del sepolcro... Dio mi getterà su le spalle un manto di
stelle... mi scalderà il cuore ghiacciato col suo alito... mi
ridarà il senno, ed io potrò argomentare co' sapienti
del cielo; - ben venga dunque la morte! - il tradimento partorisce
il suo frutto; il nemico vi aspetta.»
E Pieruccio diceva il vero. Firenze conteneva in sè una
perfida stirpe di parricidi i quali avvisavano nel giorno i nemici
con fumate, la notte con fiamme; ed era il fuoco veduto un segnale
per cui gli Orangiani apparecchiati alle estreme difese stavano di
piè fermo ad aspettare l'assalto.
I nostri, insufficienti per numero, considerando tanto sforzo di
guerra per la parte avversaria, malgrado l'ardore dei più
giovani, pensavano a ritirarsi: Stefano Colonna prudentissimo
capitano avrebbe immediatamente ordinato dar volta, se dalla
singolarità del caso non fosse stato costretto a camminare in
ogni modo all'assalto; qualunque fosse l'esito, del rimanersi era
maggior danno il ritirarsi; in breve si farà manifesto il
consiglio di lui. Cominciarono gli spari dalla lontana; se non che
ai nostri rincrescendo quel modo di guerra, messa mano alla daga si
stringono in più sanguinosa mischia: grande l'impeto dei
nostri, la costanza dei nemici pari; avvantaggiati questi dal
terreno e inanimati dai capitani, facevano buona prova; quelli poi,
urlate o rotte le prime schiere, ne rinvenivano dietro altre
migliori; era un muro di ferro. Intanto sorgeva terribile dintorno
il palpitare, il gemere, l'imprecare e lo scontro delle armi
micidiali: la morte mieteva come sopra un campo di biada. Quanti, o
quali furono i morti? Chi è che lo sa? Il tempo
consumò ogni memoria di secoli remotissimi, e sole ci
avanzano, in testimonio di coloro che vissero, le ossa insepolte.
Avevano quei defunti figli, madri, od amanti? - lacrimati
scomparvero dalla terra? - l'anima loro fu tempio della
Divinità? Tutto questo che importa? Occhi umani non possono
piangere tutte le sventure umane: la fonte delle lacrime è
ella forse inesausta come gli abissi del mare? Il numero dei morti
vince quello della sabbia del deserto; chi tenne conto delle foglie
cadute degli alberi dal primo inverno della creazione sino a noi? Il
numero dei tormentati giunge a centinaia, e tra questi dura la
rinomanza dei tormentatori: la lode si levò fievole, quasi
sospiro di vergine, per celebrare gli amici degli uomini, e l'alito
del tempo la divorò, - lo strido dei flagellati ruppe il
cerchio dei secoli, e la fama del flagellatore fu mantenuta: fra
dieci uomini celebri, nove lo sono per maladizione meritata; fra
dieci uomini famosi, nove vorrebbersi sospendere alla forca.
Mentre in quella parte si sosteneva un combattimento senza fiducia
di vincere, ecco si aprono le imposte della Porta San Friano, e
n'esce il Ferruccio con le sue compagnie; procedono serrate,
disposte a difendersi, schive di offesa, properanti al termine del
loro cammino: procedevano buon tratto di via senza intoppo;
già si tenevano sicure; qualche soldato cominciava a cantare
la canzone di guerra per alleviare il fastidio del sentiero. Ad un
tratto con grida che andarono al cielo prorompe alle spalle grossa
schiera di fanti; l'oscurità non ne concedeva bene la vista,
ma al rumore che movevano l'avresti giudicata di dieci e più
mila: nel tempo stesso i precursori tornano frettolosi ad avvertire
essere barricata la strada, e dietro ai sassi molta mano di uomini
far mostra d'impedire il cammino. Certo qualcheduno ne diè
lingua al nemico, ma il come era arcano; in così breve spazio
di tempo quanto ne corse tra il consiglio della impresa e la
esecuzione, pareva cosa soprannaturale il cenno dato agli Orangiani;
l'inferno congiurava contro Firenze; - congiuri a sua posta: sta per
Firenze Ferruccio, e se lo vedremo costretto dai fati tramontare,
sarà il suo tramonto splendido di gloria e, morendo,
annunziatore di giorno più felice: egli pertanto non devia
col pensiero a immaginare come ciò fosse avvenuto; in lui non
può capire idea di resa, - e d'altronde sarebbe folle il
combattere.
«Vico, figliuol mio, chiamami i capitani... vola.»
I quattro capitani delle compagnie gli stanno attorno.
«Prodi uomini, bisogna andare in Empoli, e vi andremo; -
adesso celeri e silenziosi sbandatevi; cuopra ogni uomo la corda
accesa dell'archibuso; dalla mano destra e dalla sinistra si
distende la campagna; - vi sieno asilo le fosse e i solchi; io co'
cavalli mi precipito sul greto del fiume; date ordine che, quando
non odano più rumore, o lo ascoltino lontano, i soldati
sollevino le corde accese; - la voce del raccoglimento, - Patria e
Libertà, Affrettatevi; - vive nel cielo un Dio pe' forti: - a
me i cavalli....»
E come disse fu fatto: i cento cavalleggeri si cacciarono giù
alla dirotta per la costa del fiume, i fanti carponi sbandaronsi; e
così bene o la fortuna secondò il disegno o la
prudenza degli uomini che quando il nemico si accostò come a
certa preda, stupì nell'incontrare gente armata disposta a
combattere: avrebbero essi certamente ingaggiato qualche sanguinosa
scaramuccia e si sarieno finiti fra loro, se, l'uno all'altro
intimando la resa, non si fossero accorti appartenere alla medesima
bandiera; i Fiorentini erano scomparsi; bene si addiedero di quello
a che avevano avuto ricorso, ma la notte tuttavia alta, la imperizia
dei luoghi e il non potere procedere uniti li dissuase mettersi alla
ventura.
Le acque del fiume ingrossato per la pioggia coprivano quanto era
ampio il letto; disagevole quindi il sentiero e pieno di pericolo:
vinse ogni impedimento la fermezza del commessario Ferruccio. Alla
fine quando a lui parve bene di ritornare su la via maestra,
ordinò si provassero a salire gli argini: non è da
dire se incontrassero difficoltà a cagione della terra smossa
e del pendio sdrucciolevole; l'unghia dei cavalli vi si affondava,
nè più valevano a ritrarre le zampe dall'orma
impressa. Qui gli animali non furono di aiuto agli uomini;
toccò agli uomini sovvenire agli animali; tanto fecero, tanto
s'ingegnarono che, brutti di fango, mézzi di acqua,
pervennero sopra il desiderato sentiero senza perdere un cavallo. Il
Ferruccio tese lo sguardo dintorno e non iscoperse alcun fuoco;
forte gli tardava di ridursi in Empoli, pure non ardiva levare la
voce, e il tempo incalzava: «Vico», chiamò egli
quantunque non lo vedesse, - e Vico gli stava al fianco, -
«figliuolo mio, adesso ti conviene adoperare non so se
maggiore lo scaltrimento o l'audacia: scendi da cavallo,
inóltrati pei campi senza rispetto, chè ormai il
calzare è guasto, e vedi di ragunare gli sbandati; dilungati
un quarto di miglio; poi, avventuroso o no nella ricerca, ritorna
sopra i tuoi passi: io ti aspetto.»
Vico, robusto di corpo, nella età in cui la fatica appena si
sente, corre e specula: andò un buon tratto senza udire e
vedere cosa alcuna: all'improvviso discerne un fuoco, poi due, poi
dieci, sparsi ed incerti, siccome nelle notti di estate compariscono
le lucciole giù per le valli: erano ben dessi i compagni:
parte già stavano adunati; altra parte, e maggiore, pervenne
a raccogliere egli medesimo; sicchè quando reputò
opportuno raggiungere il commessario cinque soli mancarono, quattro
dei quali riguadagnarono per somma ventura la città, uno
cadde prigioniero. Così senz'altro accidente fu concesso al
Ferruccio di giungere ad Empoli. Di lui e de' suoi casi altrove: -
adesso è mestieri tornarcene a Firenze.
Stefano Colonna teneva fermo, quantunque la sua condizione
diventasse ad ogni momento più trista: scopo della
scaramuccia era stato favorire la sortita del commessario; doveva
volgere l'attenzione del nemico altrove, mentr'egli badava ad
allontanarsi; lo avevano avvisato che, quando si fosse messo in
salvo il Ferruccio, gliene avrebbero porto il segno mediante un
fuoco artificiale lanciato nell'aria: non vedendo il cenno,
dubitò che il Ferruccio impedito non avesse per anche
abbandonato Firenze, e disposto ormai di fargli spalla, andava d'ora
in ora indugiando nella speranza che il segnale apparisse.
Finchè l'ombra durò, il principe Orange stette su le
difese; anch'egli sapeva cotesta essere vana mostra e confidò
vincere con l'inganno l'ingannatore; aspettava ansiosamente novella
della uccisione o prigionia delle milizie spedite al soccorso di
Empoli.
Questa notte, comechè piena di audaci fatti di guerra,
andò famosa per l'ardimento maraviglioso di un fante di
Giovanni da Torino, chiamato l'Armato dal Borgo: costui prevalendosi
del buio fitto, si mescolò tra gl'imperiali e, accortamente
inoltrandosi, venne alle trincee de' nemici a piè la casa
della Luna, dove stava inalberato il gonfalone imperiale; quivi
giunto, gittò una corda con in cima un uncino di cui si era
munito; dopo tre o quattro prove gli riuscì agganciarlo;
allora lo trasse giù di forza, e quello cedendo rovinò
dalle mura: i soldati del colonnello del Cagnaccio, udito il rumore,
irrompendo fuori lo seguitarono colle archibusate; - ma egli animoso
e leggiero, con la consueta accortezza, senza lasciare la bandiera,
incolume si riparò tra' suoi. Se i Fiorentini ne movessero
vanto è agevole a immaginarsi. Il signore Stefano volle
incontanente gli fosse presentato; commendollo e gli promise mercede
pari all'ardire... mercede che in vero ottenne, non però
uguale alla generosità sua: dieci scudi di oro. - Ma le
azioni magnanime sogliono essere ricompensa a sè stesse: se
così non fosse, considerando quanto sieno rilenti gli uomini
a guiderdonarle e più spesso pronti a punirle a guisa di
misfatti, io non so per quale ragione i virtuosi si disporrebbero a
bene operare. In questi nostri infelicissimi tempi suole la
virtù chiamarsi follia: - qualcheduno, - il poeta, - aggiunge
sublime: - questo è tempo di servaggio e di cuori inariditi;
- quando i genitori, meglio che di sostanze, desidereranno lasciare
ai figli retaggio di virtù quantunque infelice, - allora
volgetevi all'oriente, - ed esultate, - però che si avvicini
l'aurora di un giorno che forma il sospiro di tre secoli interi: -
quell'aurora spargerà sopra la terra dei nostri padri una
rugiada potente; e la rugiada non cadrà sull'erbe, ma
penetrando si poserà sopra le ossa dei padri: - allora le
ossa si leveranno fragorose come mare che freme, saluteranno il
giorno e si addormenteranno dicendo: Adesso ci è dolce il
riposo, perchè quantunque morti, ci pesava insopportabile la
terra avvilita nella schiavitù del bestiale straniero: gloria
al Signore!
Il gonfalone imperiale fu messo il giorno dopo dentro la sala
dell'Oriolo nel palazzo della Signoria. Armato, poco dopo tentando
altra simile avventura, toccò un'archibusata dentro una
spalla, e di lì in capo a due giorni si morì. - Gloria
ai valorosi!
Spunta il giorno, - ma fosco; la notte a ritroso abbandonava la
terra; - la faccia del cielo va ingombra di nuvole: perchè
così non ti mantieni, o cielo d'Italia, finchè dura
questa lunga passione? Perchè splendi, o sole, e
perchè splendete voi o stelle? Una volta, o sole, i tuoi
raggi incontrando sul Campidoglio i domatori dei popoli, appariva
più bello, riflesso tra le armi trionfali; - ora dove regnava
la forza si trascina la caducità pel vestibolo della morte
lasciata agonizzare in pace dalla compassione dei vincitori: e voi,
stelle, che vi compiaceste vagheggiare il vostro raggio nelle lagune
di Venezia, la Roma del mare, adesso che i palazzi di marmo hanno,
cadendo, contaminato le lagune, le acque si stagnano, le ninfe
abbandonarono coteste rive, o dormono anch'esse in quel sepolcro
marino; - perchè dunque splendete? Quando l'uomo chiude i
lumi al sonno, spegne la lampada; - i vermi non abbisognano di luce
per consumare la loro opera di distruzione. Qual labbro vi canta?
Qual cuore vi benedice? Se qualcheduno fa delle vostre lodi sonare
il deserto, egli viene da terra lontana, la sua voce par quella
dell'alcione - l'uccello delle remote contrade: - il cuore dello
straniero palpita di magnanimo sdegno, l'aquila impennò colle
sue ale l'alta immaginazione di lui, - pure voi, stelle del cielo
d'Italia, non intendete cotesto inno nè vi talenta: - voi
siete use ad armonizzare il casto vostro raggio con più
melodiosa favella, con la favella che vince in dolcezza il mormorio
delle acque, quando la luna le gonfia, e l'aure sono chete, e voi
guizzate col guardo sul dorso delle onde lieve lieve commosse. -
Rimanti tristo, o cielo, - versa sempre torrenti di pioggia; noi
crederemo che tu pianga su questa terra di desolazione: - tuona, o
cielo, con la voce di tutte le tue procelle; noi penseremo tu
manifesti l'ira di Dio nel contemplare noi sue creature cotanto
avvilite. Io odio i felici. I figli di questa misera contrada, te
vedendo, o cielo, cotanto magnifico, vanno dicendo: Egli è
bello, ma inesorabile; - bello come l'Apollo del Vaticano, - forma
portentosa di nume, - effigiato nel marmo.
Spunta il giorno: ma quantunque fosco, concede agli Orangiani la
vista della bandiera imperiale inalberata su l'asta sotto la
bandiera del comune di Firenze, e ciò li concita a
rabbiosissimo sdegno; la luce ancora manifesta al nemico il piccolo
numero dei nostri, e ciò gli partecipa ardimento. Filiberto
spedisce ai colonnelli lontani messaggi con gli ordini accomodati
alla occorenza; crollansi le compagnie e cambiano forma: era adesso
suo disegno indirizzare alle punte estreme dell'ale della nostra
milizia una mano di cavalleggeri e di fanti meglio spediti per
circuirla, e così divisa dalle mura tagliarle la ritirata e
poi a bell'agio piombar addosso col grosso dell'esercito e
sterminarla senza rimessione; se gli veniva fatto di superare l'ale,
non uno dei giovani fiorentini sarebbe tornato a Firenze. Il signore
Stefano, se avesse condotto numero pari di gente, o lo avesse avuto
di poco inferiore, certamente avrebbe disteso le file all'avvenante
che le allargava il nemico, dopo attelati gli eserciti, non si
sarebbe rimasto dallo ingaggiare battaglia sopra tutta la fronte; ma
essendo pochi, conobbe non avanzargli a perdere più tempo e
dover mettere ogni studio a ritirarsi; attese pertanto a rendere
vano lo sforzo del nemico, prevenendo il suo moto; ordina ai
capitani delle due punte girino velocissimi sul fianco destro i
soldati che a lui posto nel centro stavano a mano sinistra, sul
manco, quelli che gli stavano a destra; e descritta sul terreno una
linea sferica, si uniscano in colonna ritirandosi per alla Porta di
San Piero Gattolino; egli aveva molto bene considerato come
così procedendo i cavalli nemici potevano cogliere di fianco
la colonna, romperla quasi serpe sul dorso e impedirle ogni via di
salute; e a questo sperò provvedere con la celerità
dei passi, per cui, lasciato aperto certo spazio di terreno davanti
i nostri, le artiglierie delle mura senza timore di offenderli
potessero fulminare gl'imperiali e trattenerli da molestare la
ritirata. Io non so quello sieno per dire i presenti uomini di
guerra sopra tali ordinamenti di milizia; quello che so troppo bene
si è che anche con quei modi la umanità si lacerava e
faceva delle sue ossa biancheggiare la campagna; miserabile nostro
destino, di cui non ispero, almeno per qualche migliaio di secoli,
la fine.
Non andarono falliti i concetti del Colonna: le artiglierie fecero
buonissima prova; gli Orangiani, essendo stati alquanto sospesi,
perderono il destro a inseguirli; posto uno spazio tra loro e i
nostri, costoro diventarono segno della tempesta di fuoco e di ferro
che prorompeva fuori delle mura; - quasi a morte certa correva
chiunque si fosse avventurato su quel terreno. O per prudenza del
capitano, o per beneficio della fortuna, vedevano gli Orangiani
sfuggirsi di mano una preda ormai tenuta sicura.
Ora avvenne come tra i primi cavalleggeri spediti dal principe a
circuire l'ala sinistra del nemico si trovasse Giovanni da
Sassatello, soldato italiano quanto valoroso in arme, altrettanto
perduto di fama; costui militò agli stipendi del duca
Valentino e a lui piacque, la qual cosa ci dispensa di aggiungere
altre parole intorno ai suoi costumi. La Repubblica fiorentina,
quando prima ruppe il grave freno dei Medici, attendendo, come
provvida, ad armarsi, lo condusse al suo soldo con ottanta cavalli;
stipulata la condotta, chiese ed ottenne dai signori Dieci mille e
quattrocento cinquanta fiorini d'oro, i quali appena gli furono
contati, rubatigli con suo eterno vituperio, si fuggì al
papa. Sebbene ei si fosse dei pericoli spregiatore e se ne vantasse,
pure non si arrischiava affrontare la bufera di palle briccolate dal
nemico; il suo cavallo, generoso animale, puntate le zampe,
indietreggiava con le groppe, torceva altrove la testa ed annitriva
furioso. Lionardo Frescobaldi, giovane d'inestimabile bellezza di
corpo e di animo ferocissimo, caro sopra modo al Morticino degli
Antinori più per questa seconda che per la prima
qualità, veduto per caso il Sassatello, lo chiamò con
gran voce:
«O ladro, fàtti oltre! - O ladro, non hai le gambe,
come le mani pronte? Fàtti oltre! Le palle di Fiorenza ti
talentano meno dei suoi fiorini!»
Arse Giovanni di bestiale ira, udendo quell'oltraggio recatogli da
un giovanetto alla presenza di tanti uomini di guerra; parve a lui
quello che suole parere agl'improbi, voglio dire che non già
la colpa, bensì il rimproccio della colpa lo avrebbe fatto
diventare ludibrio del campo, dove non ne avesse ricavato qualche
insigne vendetta; imperciocchè sogliano simili malvagi
compiacersi nel fingere la tristizia loro o sconosciuta od obliato;
e se altri non gli accusa, eglino si assolvono: la coscienza gli
raggiunge di rado; in ogni caso tardi.
Invano il cavallo ricalcitra, l'ostinato cavaliere gli lacera i
fianchi; al fine la bestia, volendo forse emulare l'uomo si lancia a
precipizio. Viene da magnanimità, da pazzia o da che altro
viene l'impeto del soldato per cui irrompe in guerra contro a morte
quasi sicura? Chi lo sa? Chi potente a distinguere i moti del cuore?
Spesso incontrammo insigniti della stella dei prodi sul campo di
battaglia tali a cui appena avremmo concesso in casa o in piazza lo
intelletto del cane e, quello che arreca maggiore maraviglia, il
coraggio del coniglio.
Se il Frescobaldi avesse in quel punto continuato a ritirarsi, si
sarebbe chiarito valente solo a parole: la sua natura non gliel
consentiva; in luogo circondato da mortali pericoli stette a dare o
a ricevere la morte.
Una palla vola tra la testa del cavallo e il capo del Sassatello,
un'altra gli porta via il cimiero, un'altra interrandosi presso a
lui lo cuopre di fango: - ma i suoi giorni sono contati; egli
procede sicuro come sotto le vôlte di Santa Maria del Fiore.
Lionardo afferra con ambe le mani la picca, che in quei tempi le
fanterie usavano lunghissima, ed aspetta a piè fermo il
momento di spingerla nel collo del cavallo; dove ciò gli
venga fatto, il destriere stramazzerà in un viluppo col suo
signore, e mentre questi grave di armatura tenterà
sollevarsi, egli, stretta la spada, lo spaccerà da questo
mondo. - E se il destriero non era più sagace del suo
signore, senza fallo gli riusciva; ma l'animale saltando destramente
da parte, schiva la punta la quale sfiorò in passando la
gamba al Sassatello. Lionardo subito si volge impetuoso per timore
di essere preso alle spalle; la troppa previdenza e la troppa
prestezza gli nocquero; forte tenendo pur sempre nelle mani la lunga
picca, imbatte nelle groppe del cavallo, che un'altra volta
girandosi offerisce campo al Sassatello di ghermire il suo nemico
pel collo, e così fece, e trattolo a sè, lo
levò da terra. Lionardo si sentiva strangolare; tentò
rompersi il collarino e non potè aiutarsi; allora si
risovvenne avere la daga, la trasse fuori, e sollevato il braccio
incise profondamente il cavallo nella spalla; inferocito l'animale
dallo spasimo, imperversa per la campagna traendo in sua
balìa cotesti due inferociti. Lionardo agita le gambe per
l'aria e stretto alla gola non profferisce parola alcuna di resa; al
Sassatello sbattuto dalla corsa non è concesso assestare un
colpo; fuga d'inferno era quella.
Dai giovani suoi compagni, che molto lo amavano, si levò una
voce: «Ahi! Frescobaldi... Frescobaldi è morto!»
Nè però alcuno si moveva di schiera; solo il Morticino
degli Antinori, per ordinario pallido, adesso poi cosperso di
più spaventevole pallore, accorre come forsennato, e
giungendo le mani gridava da lontano:
«Capitano Giovanni, deh! per Dio, lasciatelo, - egli è
un fanciullo: non gli far male, in nome del tuo Cristo; - bada....
rammentati che tu pure hai un figlio di età uguale alla
sua... Lasciatelo, Giovanni, io vi verrò prigione invece di
lui...»
«Vedi il gagliardo! io lo tengo come un'oca... Forse dalle
oche imparò a gridare; - da cui il combattere? - Per
avventura, Antinori, da te?»
«Sì, via, - ma rendilo.»
«Io non lo tengo, per soldato, - e ne voglio per riscatto
mille fiorini d'oro.»
E disparve galoppando.
Rientrarono le nostre milizie sanguinose, non vincitrici nè
vinte, ma, se si riguarda allo scopo ottenuto di mandare gente in
soccorso di Empoli e al gonfalone imperiale rapito, superiori
piuttostochè superate; non pertanto andavano meste, come
quelle che si vedevano sceme di molti fratelli.
L'Antinori cammina a capo basso e non profferisce parola. Dante da
Castiglione gli si era posto allato; pur, conoscendolo di natura
superba, e dubbioso non si recasse in mala parte i suoi conforti,
desiderava e non sapeva in qual modo aiutarlo. Giunti sotto la porta
di San Piero Gattolino, l'Antinori quasi seco stesso favellando
disse con un sospiro:
«Or dove trovare i mille fiorini? Il nemico occupa i miei
poderi.... manderei alla zecca anche il cuore di mio padre!»
Non si potè più trattenere il Castiglione, e gli
gettando le braccia intorno al collo:
«Morticino!» disse in suono affettuoso, «non hai
tu un amico nel Castiglione?»
L'Antinori corrispose all'amplesso: il suo primo pensiero fu buono,
poi gli venne in mente l'antica emulazione che nutriva per Dante,
tremò nella idea di abbisognare dei sussidj di lui; si morse
le labbra e, svincolatosi sdegnoso, si allontanò mormorando.
Dante si rimase a guardarlo dietro tentennando il capo, e dopo
alquanto tempo esclamò: «Tra la virtù egli
dondola e il misfatto; - possa almeno il suo orgoglio preservarlo
dalla viltà.»
«A me cotesto anello!» gridava tra orribili imprecazioni
il Morticino degli Antinori a certa sua fantesca; «io voglio
l'anello e la collana...»
«O signore! per la collana, prendetela... ma l'anello
lasciatemelo.... con lui mi sposò or corrono quarant'anni il
povero Lapo.»
«L'anello!»
«E morendo mi disse: Ghita, conservati buona vedova e tienti
l'anello per amor mio; - ed io mi sono mantenuta buona vedova e non
ho mai dato via l'anello...»
«L'anello, o ti taglio la mano...»
«Alla vostra madre di latte! Gesù, nè anche gli
orsi lo farebbero...»
«Sciagurata! Vuoi che ti ammazzi con le mie mani? Io ho
bisogno d'oro, di danaro... dimmi, conserveresti per avventura
qualche fiorino nella tua cassa?»
«O santo Zanobi Benedetto! il demonio si è impossessato
di messer Giovanfrancesco... Non mi ammazzate... io non ho un
picciolo, su l'anima mia...»
«Dov'è mia madre?»
«Badate, Giovanfrancesco, - pensate ai comandamenti della
legge di Dio; io vi sono madre di latte... ma madonna v'è di
sangue, non le mancate di rispetto...»
Il Morticino non l'ascoltava e prorompendo nella stanza della madre
trovò seduta sopra un seggiolone la vecchia madonna assopita
di un sonno leggiero. Non avendo reverenza nessuna alla grave
età di lei; con gran voce comincia:
«Quanto vi trovate a possedere, madonna, d'oro e di gemme, su,
datemi presto senza escludere nulla, - nè anche i pendenti
che portate agli orecchi...» Ed aggiungeva alle parole l'atto
violento.
La vecchia donna, altera del nobil sangue che le scorreva nelle
vene, piena della reverenza dovuta alla materna autorità, si
levò subito con tale una forza di cui si sarebbe riputata
incapace, allontanò da sè la sedia, mosse un passo in
avanti e sollevò il braccio destro in sembianza d'imprecare;
una striscia di fuoco le attraversò le guancie; gli occhi le
si dilatarono minacciosi e terribili: era una figura da
Michelangiolo.
«Tu tronchi la mia agonia, non la mia vita; per pochi momenti
vuoi tu renderti parricida? - Va... io...»
«Per Dio, arrestatevi, madre... - Io! - Qual demonio vi caccia
questo pensiero nella mente? - Conoscete voi Lionardo Frescobaldi...
quel nobile giovanotto che sovente usa qui in casa? Si, voi il
conoscete... or egli cadde testè prigioniero, e gli hanno
posto il riscatto addosso di mille fiorini d'oro: ora nel pensiero
di torli in prestanza da altri la mia anima geme per immensa
amarezza. - Oh! casa Antinora decaduta, quanto t'era lieve un giorno
trovare nei tuoi forzieri mille fiorini d'oro!...
La vecchia madonna declinò il braccio e sciolse un sospiro;
poi strinse in amplesso amorosissimo il Morticino esclamando:
«Sangue superbo - e figliuol mio! tu sei la mia
consolazione... Aspetta...»
Vacillando si accostò a certo mobile volgarmente chiamato
inginocchiatoio, che i nostri padri solevano tenere a canto del
letto quando i nostri padri credevano ascoltasse qualcheduno nei
cieli la loro orazione, - e, la manca appoggiata sull'angolo, si
piega a stento e solleva il piano dello scalino; - quivi prendendo
uno scrignetto, lo porta a gran pena verso il figlio, - glielo
ripone nelle mani aggiungendo:
«Prendi, Giovanfrancesco; io gli aveva serbati per qualche
estremo bisogno della vita... sento che la vita mi manca, e tra poco
non avrò più bisogno di nulla: - quando pure la vita
mi restasse a percorrere intera, questo mi sembra caso di spendere
l'ultimo soldo; - l'onore della stirpe!... Spero che basteranno; -
or volgono forse cinquanta anni che non gli ho annoverati, - quanti
essi sieno ignoro... ma spero che basteranno. Va... lasciami in
pace... - e non farmi più così paurosamente aprire le
palpebre... le tengo chiuse per insegnare loro a morire.»
Il Morticino degli Antinori nella sala di casa sua attendeva a
contare; aveva noverato fino a cinquecento, quando palpitante di
ansietà gittò uno sguardo cupido nello scrignetto per
vedere se bastassero... gli parve di sì... riprese a contare
- seicento; riguarda e si conferma nella speranza; - settecento; -
ottocento; - se pochi ne mancano, saprà ben egli dove
trovarli; - novecento... e quell'orgoglioso Castiglione... avrebbe
voluto avvilirlo... e, oh dolore! egli avrebbe dovuto piegare
l'anima all'avvilimento... lo avrebbe fatto, - e si sarebbe poi
ucciso... - adesso... oh ineffabile esultanza!... novecento
novantanove... mille!
Un fante sollevando l'arazzo teso a guisa di portiera davanti alla
porta principale della sala gridò:
«Messere Dante da Castiglione.»
«Ben venga il Castiglione - ben venga.»
Dante inviluppato dentro largo mantello bruno s'inoltra taciturno e,
posato sopra una tavola certo sacchetto di danaro, si riduce a
favellare coll'Antinori nel vano di una finestra:
«Morticino, io non so perchè voi mi portate rancore;
avete torto: - io vi amo, e voi pure dovreste amarmi. Voi avete un
nobil cuore, - e non è vile il mio; - l'uomo soffre tanto
nell'odiare!... più che non tormenta egli è
tormentato. - Tali angosce seminano su la nostra vita le
infermità, le sciagure che davvero, per essere infelici, non
fa mestieri aggiungervi dolori con le nostre mani. Porgetemi, via,
la destra; siamo fratelli... e come fratello, ecco io vi offro parte
del riscatto del Frescobaldi; ma che dico, vi offro? Non è
concittadino mio come vostro, non compagno di arme, non amico?
Dovevo dunque contribuire anch'io e contribuisco... ho recato meco
cinquecento fiorini.»
«Messer Dante, tanto mi fu la fortuna benigna che me non volle
condurre come Provenzano Salvani alla estremità di stendere
il tappeto in piazza per raccogliere danari. Io non dovrò
tremare per ogni vena onde trarre di prigione l'amico. La casa
Antinora non ha mestieri raschiare il campo d'oro dell'antica sua
arme per riscattare Lionardo Frescobaldi. Non sarà detto che
alcuno della mia famiglia abbia arrossito dinanzi all'avaro
mercadante.»
«Però», interruppe sorridendo il Castiglione,
«i vostri maggiori e voi siete scritti sulla matricola
dell'arte dei vaiai.»
«Così porta la costumanza barbara; non per tanto, mano
di Antinori da secoli non tocca libri di ragione commerciale.»
«Industria fa ricchezza, superbia fa ozio e povertà: ed
un mercante in piedi, messer Giovanfrancesco, vale assai più
di un gentiluomo genuflesso. La casa Castigliona attese sempre alle
pratiche della mercatanzia nè si crede tralígnata per
questo.»
«Voi, sì... ma voi...»
«Noi fummo, o Antinori, dei primi ad abitare la cerchia antica
di Fiorenza; rammentatevi che noi nasciamo dai Catellini, cui
Cacciaguida, l'avolo dell'Alighieri, trovava già nel calare
illustri cittadini: - la mia casa credo valga la vostra; ma via,
diamo fine a siffatto ragionamento. Io meco stesso mi vergogno
andarmi trattenendo in simili quisquilie. Che direbbe di noi un buon
popolano udendo le nostre parole?»
«Direbbe lui essere uomo di piccola nazione, - noi gente di
alto affare e baroni...»
«Piaccia a Dio che i difensori della libertà di questa
nostra repubblica non vi assomiglino! - Noi, Morticino, c'intendiamo
assai meglio sul campo.»
«Erano tutti vostri i fiorini che presumevate donarmi,
Dante?» «Se gli aveste accettati, vi avrei detto la
metà appartenere a Ludo - vico Martelli...»
«Ah! Ludovico, - il Guido Cavalcanti dei nostri tempi; - che
fa egli del continuo tra le arche dei defunti?»
«Ricordatevi quello che fu risposto a Betto
Brunelleschi.» L'Antinori sentì l'amara allusione e,
immaginando vendicarsene, condusse Dante innanzi alla tavola
dov'egli aveva annoverato poc'anzi i mille fiorini d'oro, e quasi
trionfante glieli accennando con la mano tesa gli disse:
«Voi lo ringrazierete in nome mio, - ed a voi pure gran
mercè, - e al tempo medesimo gli riferirete che in qualche
suo bisogno mi sarà grato sovvenirlo; lo stesso sia detto per
voi...»
«Ed io mi dichiaro obbligato alla buona volontà vostra;
dico buona volontà, perchè la mano che miete e non
semina, presto si trova a stringere vento. - Addio,
Morticino», riprese Dante gittandosi su la spalla il lembo del
mantello e riprendendo i suoi fiorini; «però
persuadetevi che nel presentarvi questa moneta, ebbi volontà
diversa della vostra quando la ricusaste.»
«Dio vi abbia nella sua santa guardia, messer Dante», -
e in atto di ossequio lo accompagnava fino alla porta. - Dante
all'improvviso tornando indietro:
«Morticino», favella, «togliete compagnia andando
al campo; badate, prima di pagare il vostro danaro: vi sta di contro
un traditore, nè l'antica infamia si getta giù
dall'anima come una cappa logora...»
«I miei trent'anni, vedete, non me gli sono mica giocati alla
bassetta nel mondo; so distinguere anch'io le vecce dalle lanterne;
non per tanto mi vi si professo tenuto dell'avvertimento.»
E quando l'Antinori ritornò solo nella stanza, spiccò
un gran salto, proruppe in risa, si fregò forte ambe le mani;
esultava di pazza gioia.
«Oh! la conosco pur troppo la tua volontà, campanile di
carne... tu intendevi avvilirmi... calcarmi sotto a' piedi... e lo
avresti fatto, se l'ingegno stesse in paragone della mola. Tu mi
avevi apprestata una vivanda amara, - io te la ritorno confettata di
aloe... mangiala intera. Oh! se costui non fosse, la gioventù
fiorentina mi terrebbe capo e principale costui mi si para davanti e
toglie agli altri la vista di me, e me l'altrui... A tanti colpi di
generosità, sotto i quali costui pensa prostrarmi, bisogna
pure che un giorno o l'altro io corrisponda con un buon colpo di
pugnale! - O madre mia, tu oggi mi hai generato un'altra volta! -
Ora tu puoi morire a bell'agio. - Tu mi donavi vita, superbia e
tutti i tuoi danari... a che più oltre ti trattieni nel
mondo? Lacrime non posso dartene, perchè tu mi davi il cuore,
- splendidi funerali nemmeno, perchè mi davi i tuoi ultimi
danari.»
Aveva tolto seco un mulo ed un fante, portava in cima alla picca il
pennoncello bianco e camminava, lieto cantando, verso il campo
imperiale. Giovanfrancesco Antinori superbiva nel pensiero di
ricondurre Lionardo a Firenze, vedeva le genti affollate sul
cammino, udiva le sue lodi; era insomma contento. E fra le gioie
dell'orgoglio s'insinuava ancora alcun poco di affetto pel giovine
Frescobaldi. Non occorre mai notte tanto nera che in parte non
mostri qualche raggio di stella, così ogni anima
comechè trista, rammenta ad ora ad ora la sua origine divina.
L'anima un giorno si sveglia su questa terra legata al corpo, come
il condannato alla gogna; la pigra bile o il sangue ardente del suo
compagno la rende malinconica o irosa, le apre la via della gloria o
le porte del bagno; - povero intelletto relegato dentro un cervello
umano! La vita è una battaglia continua tra le passioni che
ci vengon dalla terra e l'anelito dello spirito verso i suoi sublimi
destini. - Io vi domando perdono, signori, se qualche volta mi perdo
in disgressioni: il racconto, lo vedo bene, allora non avanza, e
sopratutto ciò non succede senza offesa delle sane regole
della critica. Ritorno al soggetto.
Giovanfrancesco Antinori, giunto ai piedi della bastite nemiche,
vide ad un tratto abbattere meglio di venti archibugi ed accostare
le corde fumanti ai foconi; onde, sollevato il pennoncello
gridò:
«Messaggero! - Rispetto al messaggero! Chiamatemi il capitano
Giovanni da Sassatello, e ditegli che venga col prigione
perchè il riscatto è pronto.»
Il giorno toccava i gradini ultimi del crepuscolo; il cielo si era
mantenuto pioviginoso e tinto in grigio: a qualche distanza appena
vi si vedeva.
Mostrandosi da' bastioni fino a mezzo petto, Giovanni da Sassatello
domandò:
«Chi è che mi vuole?»
«Capitano Giovanni, ho qui meco i mille fiorini, - rendetemi
il prigioniero.»
Qui apparvero due altre figure dietro al Sassatello; una di quelle
era Eustacchio unico suo figlio, l'altra il Frescobaldi; questi
pareva stanco o ferito, perchè stava abbandonato fra le
braccia del figlio del capitano Giovanni, il quale con infinito
amore lo soreggeva.
«Di gran cuore, messere Antinori; se non che l'illustrissimo
principe ha fatto chiudere di buona ora le porte del bastione e
volle la chiave presso di sè, onde non trovo modo per uscire
fuora...»
«Poco importa: fate scendere il prigione giù per una
scala e poi vi manderò su per una corda il danaro.»
«Prima il danaro.»
«Prima il prigione.»
«Dio vi mandi la buona notte. - Andiamcene,
Eustacchio...»>
«Capitano, ascoltate... non partite... componiamo; mezzi prima
mezzi dopo restituito il prigione.»
«Questi mi paiono compromessi da trecconi: - di più
nobil sangue e di più gentile intelletto io vi stimava,
messere Antinori.»
«Or via, calate la corda, e vi manderò il
danaro...»
«La corda a un punto io calerò e la scala.»
Così fu fatto: - ebbe il Sassatello i fiorini; Eustachio
sollevando Lionardo, lo pone su la scala, ve lo adatta, lo lascia. -
Ah! tracolla giù di un colpo ai piedi del bastione.
«Per la santissima Annunziata», urla il fante
dell'Antinori, «messer Lionardo è morto!»
«Morto! come morto?» ripete forsennato l'Antinori.
«Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?» forte ridendo
diceva il Sassatello; «il patto era renderlo, ed ecco, io l'ho
reso; adesso vi darò anche la giunta. - Eustacchio, fa di non
mancare quel gaglioffo fiorentino.»
Balenò un archibuso; - l'Antinori si sentì tocco dalla
palla, ma senza dolore: - volle parlare, e non potendo, si morse le
mani: - una striscia di fuoco gli solcò la guancia, - cotesto
fuoco era una lacrima: - la ribevve; - non una stilla deve
sgorgargli della immensa sua rabbia. - Propone avventarsi alla
scala, salire sui bastioni, inebbriarsi nel sangue del traditore:
ma, bersaglio a cento archibusi, sarebbe certamente rimasto ucciso;
- mentre vuol muovere un passo la terra gli manca sotto, e
strammazza.
Il fante, posti su le groppe del mulo il cadavere del giovane
Frescobaldi e il Morticino ferito, riprese mesto la via di Firenze.
Egli era uno spettacolo pieno di compassione vedere sul declinare
del giorno due nobili e valenti cavalieri pendere l'uno ucciso,
l'altro mal vivo a traverso le groppe di un somiero, e dietro loro
il fante che sconsolato recitava le preghiere dei defunti.
CAPITOLO DECIMOQUINTO
ANDREA DEL SARTO
Oh! mercadanti, avaro, crudo sangue,
Quale han patria, qual legge e quale Dio,
Tranne il guadagno?...
Edodaro Fabbri, Sofonisba.
Se a Roma io fossi uscito dagli Scipioni, già non mi sarei
gittato dalle finestre per questo. Adesso corre l'andazzo di tenere
in nonnulla i padri e gli avi: a me sembra spregiare troppo i
maggiori ostentazione uguale a quella di pregiarli troppo. Chi
più si sbraccia a maledire una cosa, più si avvicina a
desiderarla: sentenza antica, e perciò appunto vera. Il conte
Vittorio Alfieri, prossimo a conchiudere la vita scriveva lettera a
certo altro Alfieri di Sostegno, nella quale seco lui rallegrandosi
per la nascita del suo primogenito, terminava con queste parole: e
«E tanto più me ne congratulo in quanto che ho potuto a
chiara prova comprendere come, per quanti sforzi che la plebe
faccia, non riesce mai a conseguire l'altezza dei sentimenti,
retaggio esclusivo di noi generati da nobile sangue.» Voi
potrete trovare questa lettera stampata nel giornale L'amico
d'Italia (Iddio ci liberi da amici siffatti!). E non pertanto questo
conte Alfieri è quel desso che in altri tempi flagellò
acerbamente i patrizii col verso famoso: Or superbi, ara vili,
infami sempre. - L'Alighieri sentiva della nobiltà da
profondo intelletto quando cantò:
O poca nostra nobiltà di sangue,
Se glorïar di te la gente fai
Qua giù, dove l'affetto nostro langue,
Mirabil cosa non mi sarà mai:
Che là dove appetito non si torce,
Dico nel cielo, i' me ne gloriai.
Ben se' tu manto che tosto raccorce;
Sicchè se non si appon di die in die,
Lo tempo va dintorno con le force.
La lunga serie di personaggi incliti nella medesima famiglia induce
maggiore obbligo nel postero di continuare la splendida via
tracciata da quelli. La condizione apposta da Dante è
necessaria, onde la gentile prosapia si abbia a tenere in pregio
appresso la gente. In nessuna epoca come nella nostra vedemmo il
poco conto si debba fare delle ingiurie buttate dalla plebe in
faccia alla nobiltà. Finchè durò duro l'impero
di Napoleone, seguì per via dei matrimonii un cambio continuo
tra nobiltà e danaro, ed anzi egli ne fece argomento della
sua politica governativa. Quante fraudi di mercante non ricoperse un
mantello di duca! Ai giorni presenti voi conosceste l'aristocrazia
dei mercanti: ditemi di che cosa vi seppe cotesta aristocrazia?
più che innamorato alle sembianze della donna diletta, il
mercante si strugge dietro alla frazione di una moneta. Delle cose
cattive la pessima, l'uomo cambiale; arido quanto una cifra, nulla
abborre, purchè possa moltiplicarsi; calcolatore di fame, di
peste e di sangue, egli senza scelta comprende i tre flagelli del
profeta Natan. L'anima del mercante, meglio che quella dello stoico,
non ha manichi; - tu non sai da qual parte afferrarla. I nobili di
sangue, fatui, se vuoi, e ridicoli e nulli, pur ti verrà
fatto esaltarli con gli esempi paterni. Or via, immaginatevi un po'
un gentiluomo e un mercante, entrambi accomodati nel proprio
gabinetto; - entrambi se ne stanno seduti davanti al fuoco, entrambi
posero sopra il camino la immagine del defunto genitore. Un infelice
stretto dal bisogno ecco picchia alle porte che il Parini
chiamò ardue e domanda soccorso. Il gentiluomo (mi pare
udirlo) di subito dirà: - Dio l'aiuti (modo civile che
significa - caschi morto di fame)! Ma il vecchio servo, nato in
casa, che ha tenuto sulle ginocchia il padrone e si reputa affisso
irremovibile del palazzo a un dispresso come gli arpioni della porta
maestra, alzerà gli occhi al ritratto dalla parrucca
impolverata, vestito di stoffa a rose, con lettera alla mano diretta
alla nobilissima dama la contessa sua moglie ed esclamerà: Il
conte Alamanno buona anima non rimandava mai i poveri con Dio senza
l'accompagnatura di un bello scudo nuovo di zecca. E il gentiluomo
guardando il ritratto, gli parrà come vederlo assentire a
quella lode postuma, e cinque volte sopra dieci porrà mano
alla borsa e darà lo scudo. Forse lo moverà superbia,
imitazione o che altro; sarà come volete ma darà lo
scudo. Il mercante invece non darà nulla: il servo preso
ieri, pauroso di esser cacciato domani, oggi non dirà nulla;
se alzerà gli occhi al ritratto, contemplerà un volto
acerbo come un conto di ritorno, piacevole quanto la cambiale
protestata. Nella casa del mercante si assomigliano tutti; le
generazioni paiono canne aggiuntate; meno la legatura che forma il
passaggio dall'una all'altra, sono tutte eguali. L'avo fu uomo che
di quattro diventò sei, il padre di sei si moltiplicò
in dodici, e via discorrendo. Qualunque azione del mercante va
sottoposta a calcolo. La troppa virtù nuoce, perchè
gli uomini se ne prevarrebbero a danno del rispettabile mercante; la
poca virtù nuoce eziandio, come quella che mena in luogo dove
si lavora pel pubblico; però lascerà scritto il padre
mercante al figlio mercante nei suoi ricordi mercantili; abbi
virtù quanto basta per non andare a bastonare i pesci. Ogni
cosa il mercante stima a prezzo: certuno di loro udendo favellare
intorno alle maravigliose conseguenze del sistema di gravitazione
scoperta dal Newton, interrogava quanto rendesse per cento! - Dei
governi i mercanti reputeranno ottimo quello non già che
maggiore somma di libertà concede, sibbene quello che minore
somma di danaro domanda; delle religioni suprema quella che gl'idoli
ha d'oro, e i sacerdoti celebrano la Messa gratis; tra quanti
miracoli operò Gesù Cristo, uno solo gli rapisce in
estasi: - la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dunque, delle due
aristocrazie parmi meno funesta e laida e contennenda quella del
sangue: molto più che questa puoi spegnere quanto ti piaccia;
per provvedere all'altra del danaro, ti torneranno corti i consigli.
Con maravigliosa volubilità di parole tutte le riferite cose
mi favellava il marchese di Piuma, mia conoscenza antica, in
proposito della lettura ch'io gli feci ieri del seguente capitolo, e
concludendo interrogava:
«Che ve ne pare? Non è egli vero?»
Ed io, che fin lì mi era dilettato a tracciare col dito dei
numeri sopra la tavola, alzai il capo e risposi:
«Ma... non saprei... io per me non sono nobile nè
mercante... ne consulterò quanto prima il presidente della
camera di commercio di questa città.»
E lo farò: - intanto ricopiando oggi mi è piaciuto
metter qui le parole del marchese, come per via d'introduzione al
capitolo.
Era giunta la notte alla quarta vigilia, quando Cencio Guercio con
molto riguardo introdusse nelle stanze più riposte di
Malatesta Baglioni quattro frati molto diligentemente nascosti in
cappucci e mantelli loro. - Quegli che camminava innanzi degli
altri, appena entrato, deponendo la cocolla, si mostrò qual
era, Giovanni Bandino; il secondo, quantunque più esitante,
ne seguitò l'esempio; il terzo rimase incappucciato, e
l'ultimo, nudando il capo soltanto, dall'acconciatura delle chiome
si fece conoscere per prete. - Malatesta gli accolse con un lieve
declinare del ciglio; pel rimanente rimase immobile nel volto, come
se fosse stato di marmo. Il Bandino ruppe il silenzio dicendo:
«Magnifico, di commessione di Sua Santità io vi
presento messer Lorenzo Soderini, padre Vittorio, frate osservante
di san Francesco, e messer Filippo Mannegli cannonico di Santa Maria
del Fiore: penetrati tutti del tirranico governo che di presente
travaglia la comune patria, si profferiscono secondo la
facultà loro, per aiutarvi nella santissima impresa di
liberarnela; essi vi diranno il come intendono agevolarvi la strada:
se voi scorgete espediente altro migliore, voi come più savio
consigliate, ch'essi vennero qui per porsi intieramente ai vostri
servizii.»
Malatesta, sbirciatili così di traverso, chiamò
Cencio, gli parlò sommesso nell'orecchio, e all'improvviso
quindi voltatosi al Soderini, gli domandò:
«Avete voi commessioni speciale da papa Clemente?»
«Sì, certo: eccovi lettera di credenza, strenuissimo
messere Malatesta.»
Il Baglioni prende la carta, la guarda e, senza restituirla,
soggiunge:
«Sta bene: - e voi altri?»
Il frate e il cannonico risposero:
«Noi non abbiamo ordine in iscritto, ma ricevemmo la
commessione a voce, come può farvene fede messer Giovanni
Bandini.»
«Sta bene. - Or ditemi voi, cannonico Mannegli, ed in qual
modo disegnate avvantaggiare le cose del papa a Fiorenza?»
«Fin qui non ho mancato di tenere ragguagliato di quanto alla
giornata accadeva in città il magnifico signor commessario
Baccio Valori, mettendo con non minore pericolo che arguzia le
lettere nella balestriera lungo terra presso Porta San Gallo: nei
casi subiti lo avviso il dì con una sargia, o lenzuolo, o
fumata dal comignolo della cupola di Santa Maria del Fiore; la notte
co' fuochi, come or non ha molto lo avvisai nella occasione della
sortita del signore Stefano Colonna e del capitano Ferruccio.»
«Non mi parlate di quanto avete fatto, sibbene di quanto
potrete in séguito fare, spacciatevi; il tempo incalza, ed
è periglioso il ritrovo.»
«I sacerdoti detestano il reggimento popolano; la Chiesa
vedono offesa, e ne gemono; le sue sostanze comtemplano dilapidate,
e ad ogni patto poranno argine a queste empie rapine.»
«Sta bene: voi non potete amare i repubblicani eglino hanno
troppo letto l'Evangelo. Ma in che cosa consistono gli aiuti co'
quali vi proponete sovvenirci?»
«Noi dai confessionali bisbiglieremo una voce sommessa nei
petti che sapranno ripeterla in piazza col fragore del tuono; noi
susciteremo gli odii, semineremo la discordia tra fratello e
fratello, porremo la spada tra padre e figliuolo; se la vita di un
uomo impedisce il proponimento vostro, noi potremo darvi qual
più vi piace, o Giuditta, o Ehud, - che recava i messaggi di
Dio sopra la punta del coltello.»
«Voi mi parlate come se al mondo non fosse comparso Martino
Lutero. - Dov'è la vostra vantata potenza, poichè egli
dimostrava avere da gran tempo Gesù Cristo fatto divorzio
dalla Chiesa?»
«Voi v'ingannate; noi siamo tuttavia più che voi non
credete potenti; il nostro regno durerà ancora per molti
secoli: l'uomo sta molto tempo nell'errore per via dello inganno, un
tempo più lungo vi rimane per presunzione di non si volere
essere ingannato. Il cielo parlerà in favor nostro. Gli
stolti repubblicani, come narra Omero di Ulisse, chiusero i venti
negli orti, e a noi con questi concessero la facoltà di
suscitare la tempesta: vi parlo io oscuro? Uditemi, vi aprirò
la mia mente. La Signoria, timorosa che le immagini della Madonna
dell'Impruneta e di Santa Maria Primieriana in mano dei nemici
capitassero, ordinava si conducessero la prima in Santa Maria del
Fiore, l'altra in Santa Maria in Campo; - ora volete voi che elle
piangano? che ridano? volete che sudino sangue? volete che parlino,
che scompariscano, si facciano bianche, diventino nere? Noi tutto
questo possiamo ed altro ancora. Le chiavi di san Pietro non ci
furono per anche tolte di mano: noi possiamo a nostra posta serrare
e disserrare il paradiso...»
«Ohimè! ohimè! sorridendo interrompe il
Malatesta, i popoli quasi non credono più in Dio... Cristo
per poco non perse il partito...»
«Non è vero, riprese il canonico; Cristo fa eletto
debitamente re di Fiorenza. E poi rammentatevi, Malatesta, che se
noi minaccia rovina, non per anche cademmo; e la mano dei re,
comunque agonizzante, può segnare la sentenza di morte de'
suoi nemici.»
«E null'altro vi avanza?»
«E parvi poco?»
«Al contrario parmi moltissimo; e voi, padre Vittorio, che
cosa ci offerite di buono?»
«Chiedete. - Quanto potrete aspettarvi da un odio che non ha
pari, da una rabbiosissima ira, noi vi daremo. Voi lo sentiste...
l'eretico Carduccio incitare la Pratica a spogliarci dei beni di cui
la carità dei fedeli ci fece dono una volta, e di cui un
antico possesso ci assicurava il dominio; - e al danno aggiungendo
lo scherno, egli diceva: «noi non avere amore di patria, e ad
altro non attendere noi che all'ambizione ed alla utilità
nostre; esser pur giunto tempo che come noi ridemmo delle stoltezze
loro, così i cittadini ridessero delle nostre astuzie, ed ai
comodi propri riguardassero. - Vendiamo i beni dei frati», mi
suonano ancora in mente queste empie parole; «benchè
chiunque non vorrà negare il vero, confesserà che non
i beni dei frati, ma i nostri si vendono, donati loro dagli antichi
nostri, per tutto quello che loro avanzasse, non già nelle
pompe e nei piaceri, ma in cose pie spendere si dovesse.» E tu
potesti, senza che la terra ti si fendesse sotto i piedi...»
Malatesta, come infastidito, troncò quella parola ardente di
sdegno, dicendo:
«Padre, voi predicate ai porri; e sì che dovreste
sapere a che passo menarono le prediche sole di frate Girolamo
Savonarola.»
«Io so che i frati di san Francesco lo menarono al
supplizio.»
«Or via, stringiamo il discorso: che cosa farete?»
«Tutto: noi sopporteremo ancora le stimmate del nostro
serafico fondatore...»
«Bel principio ad operare sarebbe, in fè di Dio,
impiagarci le mani e i piedi!... Frate, va a farti medicare il
cervello.»
«Malatesta, noi oseremo più di quello che voi non
immaginate; introdurremo nel nostro convento i soldati del pontefice
vestiti da frate, - noi appiccheremo il fuoco alla città, -
noi faremo suonare nella notte tutte le campane, - noi inchioderemo
le artiglierie, - mescoleremo veleno nelle farine e nell'acqua...
»
«E voi messer Soderini?» lo fissando di repente nel
volto interroga il Baglioni.
«Io!» risponde questi, il quale per le cose udite si era
rimasto stupito: - «ma... dopo il veleno, la strage e
gl'incendii, null'altro mi avanza a fare, se non che seppellire i
morti.»
Malatesta e il Bandino non si poterono tanto reprimere che entrambi
in un medesimo punto non iscoppiassero in altissime risa.
Poichè alquanto si furon rimessi, il Baglioni proseguì
con queste parole:
«Cionnostante parlate.»
«Io sono dei grandi: gran parte avemmo nel governo dei Medici,
lo desiderammo intero e mutammo reggimento; il popolo ingrato ci ha
tenuto a vile e, non che piegarsi docili davanti a noi, si
levò in superbia e ci ha tolto anche quella parte che
possedevamo un giorno. I nobili sentirono come propria la ingiuria
con la quale mi offese Francesco Ferruccio, quando io me ne stava
commessario a Prato. Cotestui, pur dianzi a tutti ed a sè
stesso oscuro, uso a servire in bottega, per carità
riscattato dalla prigionia degli Spagnuoli dal mio consorte Tomaso
Cambi; costui, dico, ardiva al cospetto dei soldati sostenermi in
volto ch'io non intendeva la milizia e che badassi alla mercatanzia.
I nobili han fermo di vendicare l'ingiuria e non sopportare altro
strazio: conosco gli umori; mi sono note le voglie; io mi
porrò a capo dei grandi... nissuno meglio di me lo potrebbe:
io nasco di casa Soderina... voi lo sapete.»,
«Io so due cose della vostra famiglia, messer Lorenzo»,
favellò il Malatesta; «che Piero giunto a capo del
reggimento non lo seppe tenere e adesso vive misera vita a Vicenza;
e l'altra cosa da me conosciuta si è questa, che l'arme
vostra troppo apparisce ornata per abbisognare di altro
fregio.»
Sentì il Soderini acerbissima la plebea contumelia e, forte
commosso, stava per darle convenevole risposta, allorchè si
udì dalle stanze contigue la voce di Cencio Guercio che
gridava:
«I magnifici signori Dieci di libertà e pace...»
«I Dieci!» esclama Malatesta, «noi siamo tutti
morti.»
«Misericordia! i Dieci!» ripresero a coro gli altri,
tranne il Bandino, che disse:
«Non mi avranno vivo.»
E mentre queste diverse espressioni si manifestavano in un punto, il
Baglione affrettandosi a fuggire rovescia la lampada, che cadendo si
estingue.
Succede un buio pieno di paura, un silenzio rotto soltanto dallo
stridore di denti dei ribaldi traditori, i quali ad ogni istante
temevano rischiarate quelle ombre e vedere il primo raggio di luce
riflesso sopra la spada del carnefice.
Quel buio alfine sparì, e la luce non rivelò il taglio
della spada, sibbene il riso del Malatesta e del suo compagno,
Cencio, i quali soprastetero alquanto a contemplare la burlevole
scena.
Il frate si era rannicchiato sotto il letto del Baglione, il
canonico sopra, dove si teneva avvolto il capo nelle lenzuola non
altrimenti di quello che si facciano i fanciulli allorchè
temono per la notte il fantasma o la versiera; il Soderini poi non
si trovava in qual parte si nascondesse: il terrore gli aveva
rattrappito le membra; fatto gomitolo di sè, si cacciò
tra i piedi della tavola e vi si ricoperse col tappeto. Solo il
Bandino con la daga nuda alla mano apparve atteggiato come uomo che
vuole e sa morire combattendo.
E Malatesta beffardo incominciò:
«Fuori, canonico, che puoi vergare la sentenza di morte di
tutti i tuoi nemici; - fuori, frate, che inchiodi le artiglierie e
incendii la città; Lorenzo Soderini, se intendete essere la
bandiera intorno alla quale si denno raccogliere i malcontenti,
mostratevi almeno sopra la terra. - Uscite dalla mia presenza,
codardi! - Io ho voluto conoscere la vostra mente e le vostre forze:
- se non ordino che v'impicchino per la gola quanti siete, questo
è perchè non valete la spesa del capestro.
Poichè le finestre del palazzo ebbero il pregio di tenere
sospeso l'arcivescovo Salviati, io non vo' bruttarle col corpo di
te, frate Rigogolo. Sciagurati! Le formiche che vivono tra le
cavità della querce avranno potenza di abbatterne i rami? Voi
avete delle rane la voce importuna e la stanza di fango; rimaneteci,
- a voi non è lecito uscirne. Tu, canonico, torna alle
immondezze della tua vita; tu, frate, a distribuire la broda ai
poveri affollati alla porta del tuo convento; - di te mi prende
compassione e ribrezzo, Soderini, un forestiero t'insegna
carità per la patria; Fiorenza sempre onorò la tua
casa, e tu macchini insidie a tradirla. Uscite, sgombrate la casa
mia, e sappiate che Malatesta Baglioni è quanta fede si
ritrova nel mondo.»
Il Soderini non sapeva districarsi, e fu mestieri aiutarlo, e
insieme agli altri poveri congiurati, a capo basso, la rabbia nel
cuore, uscì da cotesto luogo maledetto.
Quando furono giunti in parte dove non poterono essere sentiti,
frate Vittorio fremendo favellò:
«Ah! volpe perugina, se non giungo a renderti pan per
focaccia, rinnego anche Cristo.»
«Bisogna», riprese il canonico, «corrompergli lo
scalco e fargli mescere un bicchiero di buona acquetta di Perugia; -
non può aversene a male, - ella è roba del suo
paese.»
«Voi siete una perla per immaginare, ma e' converrebbe
metteste fuori il danaro.»
«Santa Maria! io non potrei trovare un quattrino neanche se me
lo pagaste un ducato; - mettetelo fuori voi.»
«Se le monete di cuoio andassero, mi taglierei gli
usatti.»
«Perchè non levate la corona d'oro alla Madonna che
avete sull'altare maggiore?
«Voi mi tenete per Calandrino, via! Questo fu fatto or corrono
bene dieci anni, e con quella corona di ottone non sembra meno
miracolosa alla gente.»
«O le lampade!»
«Tutte di rame.»
«Allora udite, - scriviamo un'accusa e tamburiamolo per
traditore.»
«Oh il valentuomo! voi vi meritate una ghirlanda...»
«D'oro - per cambiarmela d'ottone.»
E si separarono; ma il canonico attese subito a mettersi in salvo e
abbandonò la città; il frate ebbe lo stesso pensiero,
se non che differiva porlo in esecuzione il giorno veniente, e, per
le vicende che accaddero gli sfuggì l'occasione: nessuno di
loro curò tamburare il Malatesta.
Al Soderini, gonfio d'ira e di superbia, non venne in mente
cansarsi; si ridusse a casa, dove la povera sua madre non chiuse
occhio tutta la notte per aspettarlo, e quando lo vide così
turbato,
«Lorenzo», gli disse, «badate a non darmi qualche
dolore in questi ultimi giorni di vita. Rammentatevi sempre che i
Soderini attesero anche con loro pericolo al bene della
patria.»
«Madre mia, Fiorenza attende il suo liberatore, e
l'avrà.» Poi andò a giacere e sognò di
salire sopra un gran palco in piazza, dove i popoli erano accorsi a
vederlo. La mattina veniente allorchè si risvegliò
risovvenendosi del sogno, seco stesso diceva: «Prima o
seconda, questa mia testa è nata per alti destini.»
Infatti il sogno non lo deluse; la fortuna gli apparecchiava un
destino alto.
Il Malatesta, poichè si furono allontanati costoro, facendo
bocca da ridere, così favella al Bandino:
«Di tutto questo che parvene, messere Giovanni?»
«Parmi che dovrei darvi di questa daga sul capo.»
«In fè di Dio! voi avreste torto;» e sì
dicendo il Baglione si allontana; «io piuttosto, e a ragione,
dovrei dolermi di voi; chi diamine mi conducete davanti per
cospirare? un frate e un canonico. Oltre il cattivo augurio che
portano seco gente siffatta, sapete voi chi essi siano e quello che
valgano? Uomini di perdutissima vita, privi di ogni bene di fortuna,
così che la corda che gli appiccasse rappresenterebbe loro
l'unica proprietà da essi mai posseduta nel mondo. Se avessi
vite quante maggio ha foglie, io non ne porrei una all'avventura con
loro. E quell'orgoglioso Soderini! Davvero l'epitafio scritto da
messer Macchiavello per Piero Soderini ancora vivente si addice a
tutti i membri della sua stolta famiglia. Al limbo i bambini, e non
con noi per impresa di tanto momento. Voi almeno siete un uomo, voi,
e nelle vostre braccia mi affido come in porto di sicurezza: -
vedete in qual modo mi ha concio l'infermità non pertanto io
fui un giorno, come voi, di persona prestante, e così come
sono piaccionmi gli arditi.»
«Costoro molto avevano promesso, e il papa vi contava non
poco.»
«Antico errore nei fuorusciti, sperare troppo nei vanti di chi
meglio ne lusinga la passione.»
«Però ormai erano partecipi della congiura e se non
potevano giovare, disprezzati potranno ben nuocere.»
«Guai a loro! Essi portano addosso la sentenza di morte.
Domani, quando abbuia, nei tamburi di Santa Maria del Fiore io
farò gittare dai miei fidati copia di spiagioni segrete a
carico loro; prima che la vipera morda, le torrò i
denti.»
«Chi vi assicura non vi prevengano nell'accusa?»
«La viltà loro. E poi essi hanno prova della mia fede,
io invece posseggo la prova del tradimento loro. Or dunque
accostatevi, concludiamo.»
«Sì, via, concludiamo, che al papa paiono mille anni di
ritornare in palazzo.»
«Adagio ai me' passi; pure io m'ingegnerò a soddisfare
le sue voglie. Uditemi; conviene guadagnare alle nostre parti uno di
questi due cittadini, Francesco Carduccio, o Zanobi
Bartolini.»
«Francesco Carduccio!»
«Ma Francesco Carduccio, comechè prudentissimo, si
è scoperto troppo vivo per la parte degli Arrabbiati; la
reputazione di cui gode gli viene da siffatta avventatezza; se
domani si mostrasse un tantetto moderato, si demolirebbe con le
proprie mani; quindi non favelliamo più oltre di lui.»
«Aggiungete ancora ch'ei non si lascerebbe comprare.»
«Tutto si compra, figliuolo mio; passioni, piaceri, vite, in
somma tutto, inclusive la remissione dei peccati e l'entrata nel
paradiso; i tesori delle indulgenze superano di assai i tesori di
questa terra...»
«Non obliate, soggiunse ridendo il Bandino, che voi discorrete
con l'ambasciatore della Santa Sede Apostolica.»
«Anzi io diceva così perchè troppo bene me lo
rammentava. Rimane messer Zanobi; astuto, arguto, nei casi umani
ricercatore sottilissimo e, come voi altri Fiorentini vi dite,
bagnato e cimato: in lui pertanto vuolsi riporre ogni fidanza; i
nobili gli fanno capo come a principale rappresentante, pendono dai
suoi consigli, quanto egli vuole vogliono: ama la patria, ma
più sè stesso ama; di animo gagliardo, ambisce il
governo; assicurandolo che gran parte otterrebbe del nuovo stato,
fingendo eleggerlo arbitro del futuro reggimento di Fiorenza,
giurando mantenere salva la libertà della patria...»
«Questo è ciò che vuole mantenere papa
Clemente.»
«Vi ho io forse detto che mantenga? Ho detto giuri. Il sommo
pontefice può sciogliere dal giuramento con maggiore
agevolezza che non iscioglie il fiocco del suo piviale.»
«Ma quel vero cignale del Bartolini che sempre tiene chiusi
gli occhi e pensa sempre, lascerà cogliersi al laccio?»
«Molto pensa, più molto dorme; e poi non si dà
uomo per quanto scaltro si sia, che non s'induca a credere quello
che desidera; altrimenti per virtù di esperienza, ch'è
vecchia e la sa lunga, gli uomini commetterebbero più errori
in questo mondo?»
«E qual provvedimento consigliereste voi per placare questo
cerbero?»
«Una bolla col suggello del pescatore, una promessa in buona e
valida forma giurata dal commessario pontificio messer Baccio
Valori, sarebbe l'ingoffo...» «Ebbene, dov'è
andato il brigantino vada la barca. Capitano Corrado, giuoco lo
stipo.
Cap. XIII, pag. 319.
«I Dieci!» si ode gridare nella stanza precedente; e poi
entrando affannoso Cencio Guercio,
«I Dieci, per Dio!» replica, «questa volta sono
davvero, - mettevi in salvo.»
«Or non corre stagione per tue giammengole, Cencio: serbale a
tempo più acconcio.»
«In verità... io non so sopra qual cosa giurare...
quanto è vero che l'inferno ci aspetta... i Dieci domandano
di voi.»
«Lasciami in pace: va...»
«Il caso urge per modo ch'io mi farò lecito penetrare
nella sua camera da letto...»
«Un momento, messer Carduccio,» - urlava Malatesta
adesso allibito e tremante, udendo le riferite parole; - «un
momento solo... la decenza desidera che non venghiate qua oltre...
io sono da voi.»
E, come meglio poteva aiutandosi della persona, accorse
nell'antecedente stanza, dove il Carduccio in compagnia di altri
quattro del magistrato dei dieci era entrato. Messer Francesco,
gittando uno sguardo così alla sfuggita sul Malatesta e lo
veggendo tutto disfatto, incominciò:
«Dio vi mandi il buon giorno, magnifico messere capitano
generale; - ond'è che siete in volto più bianco che
lenzuolo di morto? Vi sentireste male per avventura?»
«Le mie infermità mi concedono piccola salute, messer
Francesco onorandissimo; pure ho fede nella Beata Vergine mia
speciale avvocata, che tanta pure me ne rimanga da vedere questa
patria tornata nello antico suo stato.»
«Avvertite, messere Malatesta, che due furono nei tempi
trascorsi i reggimenti di Fiorenza, repubblica e principato;
spiegatevi meglio, onde il cielo non prenda errore nei vostri voti;
io gl'intendo benissimo e so che volgono alla repubblica. -
Però temo non abbiate riguardo... così infermo passare
la notte vestito! davvero...»
«Questo abito io presi nei campi; allorchè il nemico
sta di fronte prudenza insegna si trovi apparecchiato il capitano;
un momento perduto può dare al nemico o a voi vinta la
impresa. Ma narrare a voi cose siffatte egli è come portare i
frasconi in Vallombrosa; or dite su, qual causa vi mena sul far del
giorno alle stanze del vostro capitano generale?»
«Ci hanno gli scorridori nostri portato sicura novella essere
già comparsa in Mugello, d'intorno a Barberino, la testa del
nuovo esercito, sommerà bel circa a ottomila: quattromila
Tedeschi, duemila cinquecento Spagnuoli, ottocento Italiani, e lo
restante cavalli; si tirano dietro venticinque pezzi di artiglieria
grossa di cui parte ne concedeva loro Alfonso duca di Ferrara:
portano ancora polvere e palle in gran copia. Papa Clemente,
affinchè giunga questo dono alla sua patria più
tostàno, ha fatto comandare per fino le mule dei
cardinali...»
«Ci si versano addosso tutte le forze della Chiesa e
dell'impero?»
«Poco importa, strenuissimo capitano generale: quello
però che molto importa si è questo, che intendendo
forse il nemico di circondare la città da ogni lato,
occuperà i colli di Fiesole, il piano di San Donato in
Polverosa e luoghi altri consimili: ora quantunque le porte della
Croce, Pinti, Faenza, San Gallo, della Giustizia e Prato siano a
sufficienza munite di bastioni, e le mura abbiano argini e fosse
diligentemente condotte, parve nondimeno al consiglio dei Dieci e ai
tre commessarii su la difesa di Fiorenza doversi esaminare, se gli
edifizii e borghi intorno alle mura potessero recare comodità
ai nemici, danno a noi; e quando veramente il fatto fosse, come
sembra, dannoso, siamo in tutto deliberati atterrare i borghi con
ogni chiesa e casamento vi si trovasse dentro compreso.»
«Parlate voi daddovero? Rovinare quasi un terzo di
città! Egli è questo negozio grave davvero e da
consultarsi con maturità di giudizio: sono con voi.»
Senza metter tempo fra mezzo, tolta seco convenevole accompagnatura,
di cui ormai non faceva più a meno il Malatesta, salito
secondo il suo costume sopra un muletto, si condusse fuori di Porta
alla Croce: prima di uscire però lasciava parte de' suoi
Perugini in custodia della porta, sospettoso non fosse quello un
trovato del Carduccio per escluderlo dalla città senza
muovere rumore tra i soldati: e mentre ne bisbigliava sommesso
l'ordine a Cencio Guercio, aggiunse con un proverbio:
«Cencio, tieni un occhio al pesce e l'altro al gatto.»
E Cencio pure con un proverbio:
«Badate a voi; che quando il vostro diavolo nacque, il mio
andava ritto alla panca.»
Per ogni dove si vedeva moto, si udiva rumore; moto e rumore
naturali alla maestosa onda del popolo che si agita; moltitudine di
gente, munita di pali, di zappe e strumenti altri cotali, stava
attendendo il comando di atterrare bellissimi edifizii, guastare
ameni giardini, gioiosa così che sembrava non si trattasse
della sua sostanza. Il cuore del Malatesta si commosse, ma invano,
come quello del prigioniero avvinto di catene: mandò ancora
un sospiro alla virtù nel modo che il leone caduto nella
fossa guarda il cielo e rugge; la sua anima palpita sotto gli
artigli del demonio; ormai questi v'incise la sentenza: - sei mio. -
I Dieci, i commessarii, fra i quali come capo onoravano messere
Zanobi Bartolini, il Malatesta ed altri tra i maggiorenti della
città cavalcarono lungo spazio di tempo, specularono i
luoghi, valutarono le fabbriche, e consumata gran parte della
mattina in coteste ricerche, si restrinsero poi a consulta per
determinarsi a qualche provvedimento.
«Aprite il pensiero vostro, signor Malatesta», levando
il capo e aprendo affatto gli occhi, che del continuo teneva chiusi
o semichiusi, incominciò l'adiposo Bartolini.
«In fè di Dio! la rovina di tanti edifizii parmi una
cosa matta.»
«Se pazza o savia, diranno i posteri; ma certo l'ammireranno
in eterno: ora vogliamo sapere se utile...», interrompe il
Carduccio.
«Un tesoro inestimabile andrebbe perduto...»
«Malatesta, cavalcando con noi per la città, avreste
pur dovuto leggere su pei canti scritto con gesso o con carbone il
fermo proponimento di questo popolo. - poveri e liberi.»
«Prima di favellare io vorrei conoscere questo proponimento in
maniera alquanto più sicura che i segni di gesso o di carbone
non sono...»
«Con buona licenza delle signorie vostre», prese a dire
un giovine fiorentino di oneste sembianze recandosi in mezzo ai
magistrati e al generale con in mano un palo di ferro,
«ciò non vi trattenga dal consigliare: io sono di casa
Baccelli: posseggo nel Borgo di San Gallo casamenti ed orti: se il
consiglio di guastare prevale, io me ne rimarrò peggiorato
meglio che di ventimila fiorini d'oro; e nondimanco se tale
sarà la deliberazione vostra, tengo il palo pronto per dare i
primi colpi.»
E poi si tacque il dabben giovane, modesto nel volto, non avendo
messo nel profferire siffatta sentenza maggiore sforzo che se
incontrando alcuno per via gli avesse detto: buon dì! fratel
mio. - Il secolo nostro impari!
«Che ve ne pare, Malatesta?» interrogò il
Carduccio.
«Indovinava papa Clemente quando non rifiniva di empire il
mondo di quel suo volgare concetto: - avrebbero i Fiorentini renduto
la città per paura di guastare gli orticini loro?»
Il Malatesta, prevenendo col desiderio il tempo futuro, pensò
che gli sarebbe diminuito il premio del tradimento dove non
consegnasse la città al papa così intera come egli gli
aveva promesso; inoltre Clemente estimando ormai lo stato di Firenze
come propria sostanza, gli aveva raccomandato badasse a far
sì che lo guastassero meno che per lui si potesse. Il pregio,
che in buon cittadino sarebbesi dipartito da carità, in lui
nasceva da avarizia. A Dio non piacque mettere la sciagura tra le
labbra e la tazza perocchè Malatesta raccogliendosi
soggiunse:
«Lasciamo i vivi in disparte; ma l'ossa di tanti morti turbate
nelle antiche sepolture andranno disperse pei campi?»
«Meglio disperse pei campi di un popolo libero che chiuse
negli avelli sopra la terra funestata dalla tirannide»,
rispose Carduccio.
E Malatesta di nuovo:
«E i santi e Dio, cacciati dalle sacratissime loro dimore,
esuleranno a guisa di fuorusciti, lontani dal paese che tanto fin
qui predilessero?»
«Dio abita nei cieli; un cuore libero e infiammato nell'amore
santo di patria è il miglior tempio cui egli si compiaccia
abitare. Malatesta, voi sostenete tutte le parti, tranne la vostra:
- voi vi mostrate mercante, e questa cura ci spetta; - voi vi
mostrate tenero della nostra religione, e questa cura a noi soltanto
appartiene; - siate una volta capitano di esercito, - e se come
cristiano le mie parole vi turbano, sappiate che, quando i sacerdoti
vollero, Cristo difese i tempii, - quando i sacerdoti vollero,
Cristo vietò le immagini. - Iddio, che ha creato il mondo e
le cose che in esso sono, essendo signore del cielo e della terra,
non abita in tempii fatti di opera di mani.»
«Orsù dunque», esclamò il Baglione
guardandosi prima dintorno per assicurarsi se al bisogno i suoi
fidati gli stavano appresso, «or dunque, via, vi
parlerò da capitano di eserciti, poichè il mio
consiglio coperto non voleste comprendere. Devo io manifestare un
consiglio che compiaccia alle voglie di una fazione, o piuttosto
aprire l'animo mio intero, siccome me ne fanno debito il giuramento
prestato e l'ufficio di buon capitano? Qui, ben lo vedo, si vorrebbe
che col mio parere confermassi il partito peggiore ormai determinato
da pochi uomini torbidi; a noi, alla patria ed a sè stessi
stoltamente avversi; comunque la libera favella non sia ormai senza
pericolo quaggiù, io sostengo iniquo il disegno di abbattere
tanti edifizii e disperdere tante facultà cittadine. Noi
molti di leggieri possiamo circondare di un argine il fabbricato, e
quinci difenderlo con prosperità di evento: tempo e travaglio
maggiore richiede la rovina dei borghi che non l'argine di cui vi
favellava poc'anzi: le mure di Fiorenza poco più valgono di
un argine, voi le vedrete sfasciarsi alla batteria di quattro mezzi
cannoni la riparazione dell'argine riesce meglio agevole dei muri,
che per essere di pietra male sapremmo dove trovarla tagliata ed
acconcia a turare la breccia. Se in Fiorenza non si contiene numero
di soldati bastante a far sortite, soncene però quanti
bastano a difendere qualunque più larga cinta di mura.
Ciò a chiara prova si conosce; qui non fa mestieri consulta;
ogni uomo che del tutto cieco della mente non sia di per sè
lo comprende: - ma qui si vuole precipitare il popolo, costringerlo
a risoluzioni disperate per rompergli poi ogni via agli accordi, i
quali, la libertà assicurandogli e il vivere largo, gli
togliessero dalle spalle questa incomportabile gravezza della
guerra...»
Mentre così con veemenza arringava, un uomo inviluppato nel
mantello, coperto di un feltro che gl'Italiani avevano cominciato ad
usare in viaggio o quando pioveva, mostrando insomma dall'apparenza
di essere scavalcato pur dianzi, a furia di urti e colpi di gomito,
nulla badando alle male parole che gli dicevano attorno, era giunto
a porsi nella prima fila di faccia al Malatesta, e quivi stava ad
ascoltarlo con atti d'ira, d'impazienza e di rabbia non altramente
da quello che si facciano i cavalli quando si segnano col fuoco.
Le parole del Malatesta non partorivano troppo buon frutto per lui;
il popolo conosceva l'erba pel suo seme e mormorava a guisa di vento
per le forre dei monti. Allora il Baglione, cacciando fuori maggior
voce, aggiungeva:
«Buoni popolani di Fiorenza, fratelli miei, credete a me che
vi sono amico davvero; accettate il mio consiglio e ponetelo in
opera! - vedrete poi chi v'inganna: conoscerete all'occasione chi
intende rimettere la vita nella difesa della patria vostra... Se non
avesse disertato dalla città Michelangiolo Buonarroti, per
certo si unirebbe al mio avviso; - ma ora chi sa dove mai si avvolge
quel traditore...?»
«Io traditore!» urlò lo sconosciuto, gittando il
cappello e rivelandosi appunto qual era nella sua rabbia sublime
Michelangelo Buonarroti, «io traditore! Per dimostrarti, popol
mio, che non sono traditore, ecco io ti do un consiglio contrario a
quello di Malatesta Baglione, ed oltre il consiglio, io te ne do il
comandamento, imperciocchè io tengo tuttavia l'ufficio di
procuratore generale sopra i ripari di questa patria comune. - Mal
si potrebbe difendere cinta più larga: - quanto meglio si
trovano prossimi i combattenti, e più si aiutano o con mano o
con voce: le antiche mura sono tali da non sofferire batteria; e
prova ve ne faccia la fatica inestimabile durata dal Bozzolo e dal
Navarra quando rovinarono le torri che a guisa di ghirlanda
incoronavano Fiorenza; ancora ponete mente che il Mugnone riempie
d'acqua i fossi intorno alle mura, e questo benefizio non avremmo
intorno l'argine; ancora, le mura non istanno sole e nude, sibbene
molto validamente munite; oltre i puntoni delle porte, le guardano
il bastione presso alle mulina, il baluardo di Santa Caterina,
l'altro non meno forte alla Mattonaia, il cavaliere tra le porte
della Giustizia e della Croce. Giù i borghi, dai quali i
nemici possono offendere la città; aprite libero il campo al
fulminare delle artiglierie; non ci calga delle ville; i nostri
nemici ci torranno, non che le ville, la vita: si taglino le piante,
perchè, se qui tra noi rimane la libertà rifioriranno,
- se invece prevale la tirranide, che Dio non voglia, uomini e cose
moriranno inaridite. - V'incresce forse dei magnifici palazzi, dei
vaghi edifizii? Ecco, queste sono mani che sapranno rialzarli
più belli»; e baldanzoso levava in alto le braccia:
«poveri ma liberi... - Ma io meco stesso mi sdegno di
consumare un tempo in parole che più acconciamente dovrebbesi
impiegare in opere; roviniamo i borghi, poi vi mostrerò a
bell'agio la necessità di siffatto provvedimento.»
I popoli si commossero, brulicarono e si avventarono a guastare case
e giardini, amorosa cura degli avi e di loro stessi. Se in cotesto
istante fossero sopraggiunti i nemici, nel vedere il furore che gli
agitava, non avrebbero saputo che cosa pensare; gli olivi, le viti
cadevano; sbarbavano cedri, melaranci e rosai; i tempii e i palagi
rovinavano; i padroni delle case e degli orti, non che si
mostrassero mesti nel sembiante e mettessero guai, inanimavano gli
altri, e sopra gli altri non rimettevano dallo affaccendarsi; per
quelle rovine si avvolgevano tutti polverosi, sudanti, divampanti
nel volto. Dante da Castiglione, Ludovico Martelli, il Busini,
Lionardo Bartolini e frotte di giovani per virtù propria e
per chiarezza di stirpe cospicui. Donne e donzelle si mescevano tra
la folla ed emulavano, operando, i più gagliardi, seguendo la
natura loro sempre estrema così nel male come nel bene; e
sì che quei luoghi erano cari alla più parte di esse
per soavi ricordanze di amore: lì presso a quel rosaio venne
prima il diletto garzone, là in quel viale per la prima volta
gli favellarono, in quell'altro la prima parola di affetto fu
mormorata, - udì quel pergolato i fidati colloqui e discreto
testimonio ricoperse gli amanti dei copiosi suoi pampini; e la musa
sogguardando tra le rosee sue dita, ben altri atti scoperse, e brevi
sdegni e liete paci, che pure potè senza arrossire, comunque
vergine cantare sopra la celeste sua lira. Per questi prati fioriti
vennero spesso giovani amanti e donne innamorate; e mentre l'arancio
profumava l'aria del divino suo alito, la melodia degli uccelli
riempiva l'emisfero come di un inno di gloria, e il cielo era
azzurro, il sole maestoso nella potenza dei suoi raggi, ripensarono
all'arcano desío dei loro cuori, e in quella universale
ebbrezza della natura rimasero esaltati, lo abbellirono di tutto
quel riso del creato; che fosse oggetto terreno e mortale
dimenticarono, lo incoronarono di rose eterne, per celebrarlo
adoperarono un linguaggio che, da Platone e dai poeti fiorentini in
fuori nissuno altro labbro nel mondo seppe favellare poi. Amore;
carità di parenti, fede di religione, - qualunque affetto
taceva; - ogni potenza dell'anima legata: il pensiero della patria
tiene avaramente in sè raccolto ogni altro pensiero; la gioia
sospende i suoi tripudii, l'angoscia i suoi lai: rideranno o
piangeranno poi; - adesso tutti alla patria, a nulla più
attendono che la patria non sia. Ludovico Martelli, siccome quegli
ch'era di gentile natura e delle storie antiche non meno che nei
cortesi modi cavaliereschi intendentissimo, si veggendo attorno una
corona di vaghe gentildonne le quali non aborrivano le mani delicate
adoperare in cotesta impresa, esclamò:
«Voi, donne, siete le stelle della terra; se mi donassero la
scelta tra il sorriso della donna mia e la corona dei Cesari, io per
me direi: mi sorrida la donna. - Già ricorda la storia un
vostro fatto antico che salvò la patria; e la storia
manderà ai posteri anche questo, che certamente
salverà Fiorenza...»
«Deh! narrateci il fatto, cortese giovanotto, nè per
ascoltarvi smetteremo il debito nostro», dissero a un punto le
gentildonne adunate presso di lui.
«La storia è breve. Nel 1282, quando messer Giovanni da
Procida ebbe ribellata la Sicilia al re Carlo, questi, avendo
raccolto grosso naviglio a Napoli, mosse incontro Messina, dove
postosi ad assedio, mandò ai Messinesi comando si riponessero
sotto alla sua obbedienza. I Messinesi, sprovveduti di difese,
vedendo tanto sforzo di esercito, col mezzo del legato della Chiesa
gli domandarono per patto: perdonasse alle ingiurie; di quanto
pagavano gli antichi loro per anno al re Guglielmo si contentasse;
signoria latina, non provenzale, concedesse. - Alla quale domanda il
re superbamente rispose: I nostri soggetti che contro a noi hanno
infierito a morte domandano patti? Ebbene, io li perdonerò,
ma voglio ottocento statichi, dei quali farò a mia
volontà, e tengano da me quella signoria che a me
piacerà siccome loro signore. - E notate, donne, i nostri
padri guelfi lo chiamano il buon re Carlo.»
«Il Signore gli dia nell'altra vita mercede condegna ai meriti
suoi!» soggiunsero le donne; - «ma i Messinesi qual
davano risposta alle tracotanti parole?»
«Ecco, ce l'ha conservata Giacotto Malespini, storico guelfo,
che Dio lo perdoni», continuò Ludovico: «Anzi
volerne morire dentro alla nostra città colle nostre famiglie
combattendo, che andare morendo in tormenti e in prigioni e in
istrani paesi.»
«Oh i gloriosi cittadini! Onore ai valentuomini!» con le
voci e palma battendo a palma plaudivano le donne.
«Udite!... però la terra in parte non aveva mura, e il
re da quel lato dette un furiosissimo assalto: i Messinesi si
difesero, come si difende l'uomo il quale combatte per gli affetti
più cari che la natura c'infuse nell'anima: dopo
sanguinosissima battaglia ributtarono il nemico aspramente. Il re
Carlo si ritirò a notte, fermo nel consiglio di espugnare
alla dimane la terra o morire nella mischia. Cotesta fu una molto
terribile notte pei Messinesi, e come disperati si sconfortavano: se
non che le donne loro gli sostentarono, gli abbattuti spiriti
ravvivarono, e rovinando case e tempii al chiarore delle fiaccole,
con isforzi miracolosi nel breve spazio della notte munirono di muro
quella parte di città che n'era senza. Allora un poeta del
popolo fece certa canzone la quale tuttavia si rammenta. Carlo alla
mattina conobbe impossibile lo assalto: mutato modo di guerra,
pensò averla per fame; vi stette attorno circa due mesi
invano, poi gli fu forza lasciare con sua vergogna la
impresa.»
«E la canzone come diceva ella?» richiesero le donne.
«Della canzone i tempi serbarono una strofa sola.»
«Ditela su, noi la vogliamo sapere.»
«Ella dice così:
«Deh! com'è gran dolore
Le donne di Messina
Vederle scapigliate
Portar pietre e calcina!»
«Oh! continuate, andate innanzi...»
«L'altro s'ignora...»
«Ce lo ponete di vostro, per poco che siate poeta.»
«Ma io non sono poeta.»
«Continuate... continuate... per quanto amore portate alla
vostra donna.»
E Ludovico sospirando riprese a cantare: -
«Deh! quanto è gran dolore
Ruinar di nostre mani
L'arche dei padri nostri
Li tempii dei cristiani!»
Le donne per istinto di armonia ripetevano in coro:
«Deh! quanto è gran dolore»
E Ludovico di nuovo:
«Deh! quanto è gran dolore
Pensar che a tal destino
Mena la madre patria
Un papa e un cittadino.
Ma di tener Fiorenza
Non avrai, papa, il vanto,
O tu l'avrai morente
Per darle l'olio santo.»
E così continuarono finchè n'ebbero vaghezza.
Il Baglione, quando prima vide la moltitudine precipitare alla
rovina dei borghi e lasciarlo spregiato, lo vinse l'ira per modo
che, dato degli sproni nei fianchi al suo muletto e quindi tirate
forte le briglie, lo tormentava in istrana maniera, sicchè
quel misero animale scalpitava, si agitava e grondava sudore.
Volendo poi tornarsene alla sua stanza, nel volgersi che fece, gli
occorse Zanobi Bartolini, il quale, piegato il capo sul seno, non si
era mosso; onde in passandogli da canto esclamò:
«Chi sa dove mai trarranno la patria cotesti
Arrabbiati!»
«Ahi, povera Fiorenza! l'ora anche per te è venuta di
essere ridotta in un mucchio di rovine.»
«Onta a voi che ne siete la colpa: - in fè di Dio, ora
che corre stagione di mostrarvi più che uomo, voi mi
diventate men che fanciullo. Dove lasciaste voi l'antico vigore,
quando, commissario a Pistoia, col carnefice da un lato e la
giustizia dall'altro, accomodaste quella scomposta
città?»
«Colpa è del papa, che non volle udire parola di
libertà; e tra i due estremi del vederla o rovinata o serva
noi lasciamo andare in rovina la patria.»
«E chi vi ha detto il papa non volere udire parola di
libertà?»
«A me?... lo hanno riferito gli oratori nostri. Forse voi
pensereste al contrario?»
«Lo penso... e forse... posso ancora saperlo...»
«Davvero? E a voi chi lo assicurato?»
«Uditemi bene, messere Zanobi...»
E così andando alternarono un colloquio nel quale i futuri
destini di Firenze furono irrevocabilmente fissati.
«Michelangelo, che nuove?» tutto anelante domanda il
Carduccio traendo in disparte il Buonarroti.
«Cristo morendo ci lasciò in eredità i chiodi e
le spine: io nulla ho ottenuto... nulla... e, oh dolore! la salute
della patria pendeva dalla riuscita dell'opera mia. - Io rientro
nella mia patria, come lo spettro torna alla sua tomba su lo
apparire dell'aurora...»
E poichè il Carduccio, le mani incrociate sul petto, il capo
a terra chino, pareva come sopraffatto dall'angoscia, Michelangiolo
lo scosse con impeto e gli domandò:
«Dunque è ben morta ogni speranza, o Francesco?»
«Il Carduccio crollò la testa quasi per iscuoterne i
molesti pensieri, poi vestì la faccia di un sorriso languido
e rispose:
«La speranza rinasce dalle sue ceneri, perchè questo
popolo è grande.» - E così favellando gli
accenna la moltitudine brulicante nella distruzione. - «Ma in
breve narrami i casi tuoi.»
«Io me ne andai a Ferrara...»
«Parla sommesso; - qualcheduno, parmi, ci si avvolge d'intorno
per origliare le nostre parole.»
«Egli è Andrea del Sarto; forse desidera darmi il ben
tornato: - dilunghiamoci qua oltre e fingiamo non ravvisarlo; Dio
non lo ha creato tristo, ma fievole di animo così ch'io
volentieri gli terrei lo ingegno dell'arte. - Ora dunque me ne andai
a Ferrara, riducendomi, quanto più secretamente potei, ad
abitare all'osteria: il duca però, il quale per suoi nuovi
sospetti si fa mandare ogni sera la lista degli osti, avendo saputo
subito la mia venuta, mi mandò a levare di su l'osteria e mi
usò ogni maniera di amorevolezze; di buon principio era
questo; intanto presi a spandere fiorini fra i suoi cortigiani; -
oh! la gran devozione che portano al nostro Battista cotesta gente
tutta quanta! In ogni sguardo io vedeva un uncino, in ogni mano il
ronciglio, sicchè presto mi ridussi al verde; bisognò
concludere presto, altrimenti mi divoravano carne e ossa. Aveva con
ogni modo studiato rendermi benevolo Alfonso; e perchè ei
nulla potesse rifiutare a me, io nulla seppi ricusare a lui, fino a
promettergli dipinto di mia mano un quadro rappresentante Leda col
cigno: - adesso mi pento averlo promesso; ma, non essendo nato
principe, fede di gentiluomo mi stringeva mantenere la parola.
Alfine un giorno gli scopersi pienamente l'animo mio con tutte
quelle ragioni che voi sapeste dimostrarmi; al quale ragionamento
egli rispose: Prima che tu parlassi, ti aveva letto nel cuore: - e
poi si alzò, aperse uno stipo, ne trasse fuori una lettera e
soggiunse: Leggi. - Egli era un comandamento dell'imperatore di non
soccorrere apertamente nè celatamente i Fiorentini, per
quanto amore portava alle cose sue; in questo modo operando, si
obbligava solennemente a perorare in suo favore nelle controversie
con la Chiesa: in caso diverso avrebbe dichiarato Ferrara devoluta
alla Sedia Apostolica. - Quando ebbi letto, alzai la faccia ad
Alfonso, che, ripiegata la lettera e messala di nuovo nello stipo,
tornò alla mia volta proferendo queste poche parole: mors
tua, vita mea. Non perciò pretermisi industria a persuaderlo:
gli rappresentai essere agevole sovvenirci con tanta segretezza che
neppure il diavolo potesse darsene per inteso. - Il demonio forse,
rispose il duca, non mica i preti: per ora io dormo: ma quando mi
sveglierò, partirà dai miei sguardi una favilla che
incendierà il Vaticano. - Così disse: poi, come
pentito di essersi lasciato troppo scoprire, si rinchiuse nelle sue
ambagi, e da quel sasso non iscaturì più vena di
acqua; riuscirebbe prima all'uomo di tagliare il porfido con le
unghie che rimuovere quel cupo principe dal proponimento già
preso.»
«E come incendierà egli il Vaticano? Questi sottili
artifizii rovineranno sempre i principi italiani; la forza aperta
è più generosa ed anche più efficace.»
«Per quanto mi occorse intendere da uomini prudenti, le
dottrine degli eretici di Alemagna trovano favorevole accoglienza
alla corte di Ferrara; le principesse, dicono, avere appreso i nuovi
dogmi da un eresiarca tedesco venuto espressamente a
convertirle.»
«Alfonso di Ferrara poteva vincere la Chiesa con le sue
artiglierie: non lo avendo voluto, nelle argomentazioni egli
perderà di certo... Inoltre cotesto tuo è concetto che
non mi attaglia; imperciocchè, se le principesse sentono
dell'eretico, il duca poi faccia professione di beghino. E a
Vinezia?»
«Vinezia invecchia: - ama il riposo, rinunzia alla
magnanimità, alla gratitudine, alle virtù senza le
quali le repubbliche muoiono; ella pesa tutte le vicende dei
pericoli alla bilancia dove i suoi mercanti riscontrano il peso
delle monete d'oro: in lei è spento ogni alito di grandezza,
altro non le rimane che diventare decrepita e morire. Il Gritti, col
dorso voltato dagli anni verso la terra, vede la fossa e dubita; i
suoi pensieri tendono ad abbellire la bara dove un giorno
sarà composta la patria: io lo pregava di avere a cuore la
libertà italiana, ed egli mi pregava a volergli fare un
disegno pel ponte di Rialto. Nissuna parola da voi suggerita
dimenticai; non tacqui un esempio: e poichè guardando sopra
la tavola mi occorse un libro manoscritto che di fuori diceva:
Historie de Nicolò Machiavelli, - cercai al libro quinto,
dove racconta che i Viniziani stavano sul punto di abbandonarsi se i
Fiorentini con presentissimo pericolo mandando loro il conte Sforza
non gli sovvenivano; e gli notai col dito le parole dello storico
con le quali dimostra quale e quanto effetto partorisse l'orazione
di Neri Capponi al senato viniziano: - promettevano che mai per
alcun tempo non che dai cuori loro, ma da quelli dei discendenti non
si cancellerebbe così insigne beneficio, e che quella patria
aveva ad essere comune a Fiorentini ed a loro. - Messere Andrea mi
toccò su la spalla e mi favellò le seguenti parole. La
ragione degli Stati procede diversa assai da quella degli individui;
- i posteri biasimeranno in me doge della Repubblica viniziana
ciò che tu loderesti in me Andrea Gritti. - Ed io, che a
stento mi poteva frenare, gli risposi: Messere Andrea, io di queste
sottigliezze non intendo, ma più di piacere ai posteri
m'importerebbe piacere a Dio; e inoltre se un tal fatto reca
vergogna a un uomo, non so vedere come e perchè non
tornerebbe pure in onta ad un popolo, il quale si compone di una
moltitudine di uomini. No: nè voi nè altri sapranno
convincermi mai, che o popoli o privati non debbano pagare la colpa
di riconoscenza, di lealtà, di grandezza tradite; e male
argomenta colui che la durata della patria circoscrive al brevissimo
spazio della sua vita. - E me ne andai fremendo. Vinezia! Vinezia!
le genti ti contemplano colorita dal sole, rigogliosa di vita, ma il
verme inosservato ti penetrò nelle viscere. Quando decrepita
e moribonda chiamerai le tue sorelle d'Italia a consolarti nella
sventura, vedrai intorno di te i principi, ai quali ti affidasti,
irridere alla tua agonia ed imprecarti la morte, come eredi
impazienti di raccogliere il tuo retaggio. E nondimeno, nè
Alfonso di Ferrara, nè Andrea di Vinezia furono quelli che
più mi fecero vergognare di appartenere alla stirpe umana;
l'ira e il ribrezzo di essere nato uomo mi venne dai nostri
concittadini, Carduccio, dai mercanti di Fiorenza dimoranti a
Vinezia.»
«E come ti avvenne questo?»
«Io mi trovai a Vinezia allorchè giunse, mandato da
Lorenzo Carnesecchi nostro commissario a Castrocaro, Pietro
Borghini, il quale, accolti quanti mercadanti fiorentini tengono
ragione in cotesta città riferì a costoro le imprese
maravigliose di quel valentuomo di Lorenzo; narrò come
sovente fosse venuto alle mani con Leonello di Carpi presidente
ecclesiastico nella Romagna, e sempre con suo vantaggio, - e di
Marradi, ribellato prima e tosto da lui ridotto nell'antica
devozione, - dell'assedio di Castiglione sciolto, - dell'assalto di
cinquemila e più fanti ributtato da Castrocaro, - della
taglia posta da papa Clemente sopra il suo capo e della taglia da
lui posta sul capo del papa, tutte queste cose disse, ed altre ne
aggiunse non meno stupende e degne di memoria; ed infine egli
aggiunse essere il Commessario deliberato di fare un servizio
rilevantissimo in pro della patria, quando loro bastasse il cuore di
fornirlo di denaro; e, per assicurarli avrebbe loro obbligato i suoi
beni e quelli di Giorgio Ugolini tenerissimo della libertà.
Capi dei mercadanti adunati erano Matteo Strozzi, Luigi Gherardi,
Ludovico Nobili, Filippo del Bene, Giovanni Borgherini e Tomaso
Giunta; ricchi tutti e, comechè avari, usi a sprecare in
vizii e in giuochi le migliaia di ducati: e non pertanto, il sangue
mi toglie il vedere nel rammentarlo, nessuno ebbe cuore di sovvenire
di un solo fiorino il Commessario Carnesecchi. Matteo Strozzi
allegò che la sicurezza offerta sui beni di Lorenzo e
dell'Ugolini in tanta distanza era come nulla, potendo cotesti beni
andare gravati di debiti sconosciuti, e così favellando parve
sospettoso notaro, non fu cittadino: il Borgherini si scusò
perchè aveva fondaco a Roma e temeva la vendetta del papa:
più turpe degli altri, se in tanta turpitudine possono darsi
screzii, Tomaso Giunta, il quale disse non essergli patria Fiorenza,
ma Vinezia; imperciocchè a Vinezia avesse accumulato i
danari, ed i denari comporre il vero sangue e la vera anima
dell'uomo; poco importargli che la libertà della Repubblica
fiorentina stesse in piedi, purchè la sua libreria non
cadesse. Io rimasi esitante se dovessi rispondergli a parole o nel
modo con che mi favellò, nella mia fanciullazza, il
Torrigiano quando di un pugno mi sfasciò il naso; pur mi
rattenni e parlai: Stampatore Giunta, quando il papa e l'imperatore
ti avranno strozzato la patria, pensi tu che non potranno farti
smettere la stampa delle opere avverse all'impero ed a Roma, e con
la quale tu ti sei arrichito? - Ed egli a me: Allora stamperò
quelle che argomenteranno a loro vantaggio. - Ma, ripresi io, -
ciò non basterà loro; si sforzeranno affinchè
gli uomini non imparino a leggere. - Lo svergognato concluse: Di qui
a quel tempo gran tratto ci corre: prima che i fanciulli diventino
uomini io sarò morto; e morto io, morto il mondo; buona notte
a chi resta.
- Gli voltai le spalle, chè uomini cosifatti paionmi, e
certamente sono scorpioni sbagliati: tornato a casa mi spogliai di
tutte le veste e le gettai sul fuoco, abborrendo di più oltre
portarle, siccome appestate da quei fiati velenosi. Apersi il mio
Dante, e sopra i margini del trentesimoquarto nell'Inferno vi segnai
la brutta sembianza di quei mercadanti come traditori tormentati
nella Giudecca: il Giunta posi in una delle bocche di Lucifero,
perocchè io non consenta punto col poeta quando mette Giuda,
Cassio e Bruto a maciullare tra i denti di lui; Giuda lasciai, in
luògo di Cassio vi posi il Giunta, la terza bocca rimane
tuttavia vuota, e aspetto a riempirla col Malatesta. Ho sentito
parecchie volte ricordare in famiglia, come uno dei nostri vecchi
esercitasse il commercio di panni franceschi; or ora, come torno in
casa, cercherò la sua immagine, e la velerò di un
panno nero, come ho veduto in Vinezia che praticarono col ritratto
del doge Marino Faliero. - di due cose, o Signore, principalmente io
ti ringrazio; la prima per essere nato italiano, la seconda per non
avere sortito ingegno da mercadante.
«Michelangiolo, ciò che tu parli il Carduccio
magistrato non riferirà al Carduccio mercadante; parla
sommesso, però che ai soli mercanti sia dato adesso sovvenire
in tanto estremo la patria. Non tutti, come quei di Vinezia, si
mostrarono iniqui al luogo dov'ebbero la vita; quei di Fiandra,
d'Inghilterra e di Lione, mandarono grosse somme di pecunia. Le
consorterie di per sè non hanno vizii, sibbene tu li trovi
negli uomini, e questi sono più infelici che stolti,
più stolti che scellerati. Il danaro tutto
può...»
«Il danaro nulla può: raccogliete quanto vi pare
fiorini e ditemi un poco s'essi vi scolpiranno un altro Davidde
davanti il palazzo della Signoria.»
«No, ma pagheranno l'artefice che lo scolpirà.
Perchè tu non hai condotto la sepoltura di Giulio II col
disegno che prima intendevi? forse non perchè gli avari
nipoti di Della Rovere eredarono le ricchezze del papa, non
già il suo cuore di spendere nelle magnificenze?»
«Quando i Fiorentini diventarono mercadanti, posero la prima
pietra della servitù.»
«I Fiorentini dovevano adunare danari e non deporre le armi:
li danari soli e la virtù sola poco tratto camminano;
l'ingegno solo è l'anima senza corpo, li danari soli mi
paiono il corpo senz'anima. Se ti viene fatto di trovarti vicino
alla chiesa di San Brancazio, Michelangiolo mio, entra nel chiostro,
e vedrai sopra la sepoltura degli arcangeli effigiato il simbolo
della mia dottrina: troverai una cassa con due ale tese sotto in
alto di volare. Virtù e pecunia, e convertirai il mondo in
paradiso.»
«Quant'è vero ch'io sono figliuolo di Ludovico
Buonarroti cancellerò cotesta immagine: e' mi sembra uno
sfregio fatto dalla morte su la faccia dei viventi; perdio! la
cancellerò, dovessi sopportare la pena di violato sepolcro;
no, voi non giungerete a farmi intendere cotali novelle,
Carduccio...»
«Ed io supplico Dio che tu non le intenda mai; forse
altrimenti non saresti divino... - Adesso separiamoci: - tu viemmi
con diligenza a trovare in palazzo; - colà mi esporrai
più distesamente la tua commissione: per avventura ciò
che a te parve repulsa, in sostanza può dirsi che non si
abbia ad intender cosa tale; gli uomini spesso, e i capi degli Stati
quasi sempre, e' son tali libri che bisogna intendere alla rovescia.
Addio.»
«Messer Carduccio, uditemi; la mia parola risponde al palpito
del mio cuore; - perchè esiterei davanti a voi? Voi mi parete
meno assai sconfortato di quando v'incontrai nel cimitero di
Sant'Egidio. Le condizioni della patria mutarono, o le
vostre?»
Il Carduccio sorridendo mostrò di non si accorgere del fiele
contenuto in cotesta domanda; e pacato rispose:
«Quelle della patria: - il popolo oggi mi ha levato in
isperanza; - poco prima due uomini mi tolsero dalla
disperazione.»
«E come si chiamano eglino questi due uomini? Io vo'
conoscerli.»
«Uno ben lo conosci, perchè sei tu; l'altro si chiama
Francesco Ferruccio. Cristo non ci lasciò soltanto
eredità di spine e di chiodi; egli ha staccato dalla croce la
lancia della sua passione, la pose in mano al Ferruccio, e nel
dargliela disse: Tu vincerai. - Conosci il Ferruccio? In lui,
giurerei, si agita puro il sangue romano senza miscuglio di
barbaro.»
«Ferruccio!» ripete pensando Michelangiolo, tenendo
fisso lo sguardo sul terreno: e il braccio destro distende col pugno
chiuso ad eccezione del pollice, il quale muove a quell'atto che gli
scultori fanno allorchè plasticano le figure in creta; e poi
all'improvviso prorompe: - Ferruccio! Sì lo rammento; egli
deve esser grande, - egli è grande davvero; lo riconosco al
pensiero di audacia e di dolore che distingue le anime divine
rinchiuse dentro un corpo di terra, - il pensiero che ho scolpito
sopra la fronte del mio Moisè; - la forza che ci solleva
sopra la natura umana e non ci vale per conseguire la celeste; - la
intelligenza che percuote sempre alle porte dell'infinito; non
importa... cotesto pensiero fascia, come cerchio di ferro rovente,
il cranio che lo contiene..., ma luce sparge e salute agli uomini in
mezzo ai quali egli nacque... ravviso il segno...»
In questa, la terra, come scossa da terremoto, tremò; si
volsero il Buonarroti e il Carduccio dalla parte donde pareva loro
il rumore movesse; il campanile della badia di San Salvi era
scomparso; un nuvolo denso di polvere occupava gran tratto di paese,
e dietro quel nuvolo prorompevano strida, schiamazzi e
manifestazioni di gioia frenetica. All'improvviso il rumore cessa,
nissuna traccia rimane del fatto, tranne una striscia di polvere che
ingombra l'emisfero, e il vento si porta; e' sembra che il
campanile, cadendo, abbia sprofondato la terra, traendo seco
nell'abisso i demolitori. Smisero dal favellare i nostri personaggi,
ed affrettando i passi piegarono a quella volta.
Nuovo spettacolo occorre adesso davanti agli occhi di loro; - cosa
incredibile io narro, ma vera. I cittadini, giunti che furono con la
rovina in luogo, dove si scoperse loro il refettorio nel quale di
mano di Andrea del Sarto era dipinto un cenacolo di Gesù
Cristo, stettero vinti da inusitato stupore nel contemplare quelle
celesti sembianze, dove aveva trasfuso l'artefice tanta parte di
Dio, - cotesti atti così pieni di vita presente; - essi
pensarono vedere ad ora ad ora muovere la mano al Cristo per
benedirli; - e pure aspettando la benedizione, qual si prostese,
quale altro piegò la persona, - si composero tutti in varii
atteggiamenti di umiltà e di venerazione.
«Miracolo dell'arte!» esclamò appena arrivato il
Buonarroti.
«Gentilezza di animo bennato!» riprese il Carduccio.
E le turbe, tostochè videro Michelangiolo, ad una voce
parlarono:
«Maestro, noi non possiamo andare più avanti.»
«Voi ferireste nel cuore la gloria di Andrea del Sarto. Dove
si trova Andrea? - Venga, noi lo coroneremo re dell'arte; - sopra un
carro di trionfo o sopra le rovine sarà sempre bella la
ghirlanda, poichè gliene cingeranno le tempie libere
mani...»
«Andrea del Sarto!» chiamò il popolo con tale una
voce da rompere il sonno ai sepolti nel chiostro della badìa,
- «Andrea del Sarto!»
E Andrea non compariva. Allora si levò una figura livida,
oltremodo cresputa nel volto, parte a cagione degli anni, e parte
per la continua abitudine al riso, e,
«Popolo», disse, - «Andrea del Sarto si è
ritirato a casa per timore che la Lucrezia del Fede sua moglie non
si accorga della sua venuta quaggiù. Ella lo ha minacciato,
che tornando i Medici, gli farà la spia per aver dipinto in
Condotta, nella facciata della mercatanzia, i capitani Cecco e
Jacopantonio Orsini e Giovanni da Sessa, e siccome egli
gl'impiccò in immagine pei piedi, ella s'ingegnerà
perchè lui impicchino davvero per la gola: il cuore
dell'uomo, il quale ritrasse questo volto che adorate, trema dinanzi
alla più rea e sozza femmina che mai nascesse in
Fiorenza.» ì; un senso di freddo scorse per le ossa
della moltitudine; rimase spento ogni entusiasmo; continuò
l'opera, ma la continuò taciturna e pensosa.
«Quando», favellò Michelangiolo al Carduccio,
«Andrea s'invaghì di cotesta mala femmina, il suo cuore
diventò di pietra pei suoi vecchi parenti: essi morirono soli
e nella miseria, - ma prima di morire imprecarono la maledizione sul
capo dello snaturato figliuolo. La maledizione paterna ecco si
adempie: - così è; lo Spirito Santo lo ha
profetizzato: - la donna valorosa è corona di gloria al suo
marito: quella poi che reca vituperio gli è come un tarlo
nelle ossa; - tocche dalle mani contaminate della moglie impudica
s'inaridiscono le foglie della corona di Andrea; egli se le vede
cadere morte prima di lui: - tutto terra, sarà reso alla
terra. I posteri visitando la sua contrada natale diranno:
Insegnatemi il luogo dove dipinse Andrea del Sarto, - nessuno
dirà: Menatemi all'arca dove riposano le ceneri di Andrea del
Sarto.»
CAPITOLO DECIMOSESTO
LA VENDETTA
Non ha virtù che di corrucci e sangue:
Derisor dei mortali e dei celesti,
Nè di patria gli cal nè di fortuna
Nè di sè molto: forte nacque e pugna.
Ajace
Era compiuto un giorno, e il secondo declinava verso vespero,
dacchè il Morticino degli Antinori cibo non gustava nè
bevanda: la lingua arida gli sta attaccata al palato, gli cerchia la
gola insopportabile bruciore; talvolta un freddo sottile dai reni
gli scorre su per le vertebre della spina o gli stringe il cervello,
tal'altra lo invade dal capo alle piante una ondata di sangue, quasi
lavacro di metallo fuso; spesso gli sfugge di sotto la terra gli si
piegano le ginocchia, ed accenna cadere, - non pertanto rimane
disperatamente fisso al suo posto, immerso entro un abisso di dolore
e di furore.
Accomodato il corpo del giovane Frescobaldi sopra una bara, con la
sua destra gli stringe la destra e lo viene, di tanto in tanto,
guardando.
Ahi com'era da quello di prima diverso! Le belle chiome, sua
giovanile alterezza, ora di sangue sordidate e di fango, ne rendono
orribile l'aspetto, gli occhi ha pesti; pei labbri, donde
così feroce prorompeva il grido di guerra, su per le narici
che aspiravano tanto largo sorso di vita, - l'insetto sorvola, - si
posa, - trascorre, quasi sopra propria posessione; la morte lo
abbracciò, e la putredine segna il vestigio di
quell'amplesso; - la morte gli soffiò sopra e spense una vita
di uomo e ne suscitò un'altra schifosa a vedersi, - la vita
dei vermi brulicanti nei cadaveri corrotti. - Alla croce di Dio,
cotesto spettacolo pareva incomportabile per anima viva.
Ma che forse mancano servi, amici o parenti al Morticino, i quali
valgano a strapparlo da tanto orrore? - Un vecchio fante gli si era
accostato sommesso e con molta pietà gli aveva susurrato
all'orecchio le parole di - provvidenza, - rassegnazione, -
preghiera, - ed altre consimili, le quali non rinverdirono la foglia
caduta; - ed egli non vi aveva posto ascolto, se non che,
travagliato dallo importuno ronzío, si scosse, si
avvisò di quello che era; la parola - pazienza - gli
suonò piena di amarezza nell'anima: allora tanta ira lo vinse
che stretta la daga la menò con rabbiosissimo impeto contro
il suo consolatore: ben pel vecchio che fu a tempo a curvarsi per
modo che il taglio della daga gli recise le vesti, e così a
flor di pelle gli graffiò l'epidermide del ventre -
altrimenti, rovesciate le viscere sul pavimento, quivi l'infelice
moriva. Dopo lui nessun altro ardì mettersi alla ventura.
All'improvviso si spalancano le porte, uno splendore di ceri, un
salmeggiare di frati empie la sala: si abbassa una croce e,
trapassata la soglia, torna a sollevarsi nella sua superba
umiltà. I frati della cura venivano pel morto.
Così tremenda urlò il Morticino una bestemmia, che lo
splendore dei lumi sparì, siccome era apparso, veloce: i
frati sbigottiti, lasciatisi andare i ceri di mano, si cacciarono a
precipizio giù per le scale; - il segno della salute
vacillò e cadde, - quasi la bestemmia lo avesse côlto a
guisa di un colpo di balestra.
Quell'urlo intronò tutto il palazzo nei penetrali più
intimi e valse a scuotere la madre del Morticino dal suo consueto
letargo. Aprì le palpebre gravi e domandò:
«Ch'è questo?»
«La compagnia dei frati di san Domenico venne pel
morto....» le rispondevano.
«Avvisatela che si trattenga un'ora e porterà via anche
me,» Ciò detto, riabbassò le palpebre e
s'immerse di nuovo nel letargo della decrepitezza.
La fama dell'angoscia mortale del Morticino correva di bocca in
bocca, e molti ne sentivano pietà; più molti,
sapendolo fastidievole e tristo, pensavano gli avesse Dio mandata
quella tribolazione per umiliarlo. Quando giunse all'orecchio di
Dante da Castiglione, questi, siccome era magnanimo, deposto
subitamente ogni rancore, deliberò di farsi a confortarlo:
invano voleva rammentarsi la ingiuria patita; lo avrebbe odiato
felice, ma lo amava misero; e parendogli ancora di potergli dire
cosa che lo avrebbe richiamato da morte a vita, statuì seco
stesso di non indugiare più oltre, perocchè in
compagnia del Martelli, del Busini, del Bichi, dell'Arsoli e di
altri illustri soldati e cittadini s'incamminò alla volta del
palazzo degli Antinori.
Il Morticino non si accorse della loro venuta. Dante gli si
accostò e, ponendogli una mano sopra la spalla, gli disse una
sola parola. Di repente nel Morticino la virtù dello sguardo
si rifece viva, lascia la mano del morto, trasalisce, guarda fisso
Dante nel volto e con immensa passione esclama:
«Bada di non ingannarmi.»
«La mia bocca ignora la menzogna, ed
apparécchiati.»
Allora il Morticino gli si abbandona nelle braccia, e alcune lacrime
rare gli solcarono il volto bianco, quasi goccie di rugiada
sgorganti dal cavo degli occhi di una statua, dove in troppa copia
le depose l'aurora. Nè per questa volta si pentì
dell'amplesso; - lungo si produsse e smanioso; - mosso dalla
ferocia, non già dall'amore, il Morticino avrebbe abbracciato
un ferro rovente.
Egli è da sapersi, che il Castiglione, amico del Carduccio,
conobbe da lui apparecchiarsi in quella notte una incamiciata contro
il campo nemico, ed egli aveva promesso di conservare il segreto ad
eccezione di una sola persona, e questa persona fu il Morticino
degli Antinori.
Il muto affanno del Morticino si converte in ebbra loquacità:
cibo prende e bevanda; corre di su e di giù, chiama, urla e
tempesta, allestisce le armi, tenta il taglio della spada e della
daga, ora prorompe in risa sfrenate, ora in minaccie o in bestemmie.
I servi non sapevano se meritasse maggiore compassione, adesso in
quel folle affaccendarsi, o dianzi nella sua cupa immobilità.
Poi disse volersi riposare, impose ai servi lo chiamassero all'ora
dell'Ave Maria, badassero di non obliarlo, o mal per loro: si pose
in fatti a giacere sperando quiete; invano però, chè
lo starsi gl'increbbe meglio del camminare: si volge sopra questo o
quel lato, e forte geme e respinge con grande sforzo di respiro
l'aria che pareva soffocarlo; pur chiuse gli occhi, e le vicende
orribili della veglia gli rotearono pel capo più orribili
ancora, scomposte o fantastiche; dopo un lungo flagellarsi su
quell'aculeo di letto, all'improvviso sogna essere la incamiciata
finita, ritirarsi le compagnie, giungere troppo tardo... fallita del
tutto l'impresa: - si sveglia di soprassalto cacciando un grido e si
precipita giù dalle piume.
Il sole non era per anche scomparso dal nostro emisfero; ma,
spogliato di raggi, tinto di un funesto vermiglio, si accostava
all'occaso; la terra, verso la quale pareva declinare, lo avviluppa
nei suoi vapori di sangue. Questo astro benigno di amore e di vita
oh come stringe l'anima dei mortali, allorchè si mostra
cruccioso! In quella sera sembrava l'occhio di Satana che venga a
vigilare se le angosce, le infermità e la morte adempiano il
fiero mandato che loro affidò il consiglio misterioso, che a
noi sembra crudele, di Dio.
Il Morticino, a cui increbbe di non lo vedere ancora scomparso, leva
minaccioso il pugno al cielo esclamando:
«Un giorno ti soffermasti nel firmamento per contemplare una
strage; poichè la strage ti talenta, affrettati a dileguarti:
adesso a noi fa di mestieri la tenebra.»
Cala la notte: di orrore si empie e di silenzio la città;
Firenze sembra tramutata nel campo dei morti. - Squilla un tocco
della campana: - quel tocco solitario si diffonde per la terra
deserta, e pare una percossa data sul mondo dalla eternità
per conoscere dal suono se sia in procinto di dissolversi
sfracellato tornando nel suo caos primiero.
Il fremito del bronzo taceva appena per l'aria che fu sentita una
voce lugubre che gridava:
«Adunatevi, uccelli del cielo: - la spada vi apparecchia il
convito; basterà la carne a voi e agli implumi che lasciaste
nel nido. - Lupi dell'Appennino, scendete, portate la vostra gran
fame, - prima che l'aurora si levi, il vostro ventre sarà
sazio di carne, - dico di carne umana. Uccelli, lacerate; - lupi,
sbranate i corpi morti, senza misericordia, perchè il Signore
ha scritto che nessuno dei difensori della patria morderà la
polvere a cagione del ferro nemico.»
Era la voce del povero Pieruccio, - il profeta del popolo.
Stefano Colonna, conferito prima col Malatesta il disegno, armato di
zagaglia presso il bastione di San Francesco, innanzi di sboccare
dalla porta di San Nicolò, si volse alla gente che gli traeva
dietro e le disse queste poche parole che la storia ci ha
conservate: «Valorosi soldati, io vi meno a una certa e
sicurissima vittoria; fate quello che voi vedete fare a me.»
Erano cinquecento fanti: cento archibusieri e gli altri quattrocento
in corsaletto armati di partigianoni e di alabarde; ai quali si
aggiunse una banda della milizia del gonfalone dell'Unicorno
capitanata da Alamanno de' Pazzi; sopra il corsaletto portavano
tutti un camicia bianca per distinguersi dai nemici, - motivo per
cui questa impresa notturna si chiamava incamiciata.
Quanto più possono chetamente s'inoltrano; divisando Stefano
Colonna incominciare l'assalto dall'alloggiamento del colonnello di
Sciarra Colonna, contro il quale nudriva nimistà mortale, si
apprestano a salire su pel poggio per a Santa Margherita a Montici.
Alcuni più arrisicati e conoscenti del sentiero trascorrono;
ecco sono giunti presso al tabernacolo delle cinque vie, dove i
nemici tengono due sentinelle perdute.
«Chi viva?» gridano entrambe.
«Viva la morte!»
Si ode una procella di colpi; un suono di usberghi percossi sul
terreno; - le parole: Gesù, abbiate misericordia dell'anima
mia! - vengono tagliate a mezzo, così ordinando ragione di
guerra; quindi un gemito roco, - e poi più nulla.
S'inoltrano per la valle che giace tra Rusciano e Giramonte, - la
passano, - già toccano alla coda dell'esercito. - Apra
l'inferno le sue porte! Ecco improvvisamente danno dentro
all'alloggiamento di Sciarra; - molti, i più
avventurosi, dal sonno si trovano balestrati nell'eternità;
altri si svegliano per vedere soltanto la spada che penetra loro
nelle viscere: sorge un cieco viluppo, un trambusto di gente che
fugge o che muore e un gridare: - Accorruomo! - accorruomo! - arme!
- aiuto! - e minaccie e preghiere, suoni compassionevoli o ferici.
Smeraldo da Parma, luogotenente di Sciarra, corre forsennato per
radunare le milizie, rincorarle e far testa; così al buio si
scontra nel signore Stefano e lo garrisce come neghittoso; questi,
accecato dalla brama di sangue, lo scambia con lo Sciarra suo
consorto e gli menando un colpo di zagaglia nel petto, -
«Sciarra», gli grida, - or ti parrà ch'io sia
venuto troppo tosto!» - Segue una mischia atroce, - i nemici,
mentre tentano difendersi, l'un l'altro, confondendosi, percuotono;
dove adunarsi non sanno; non risplende lume, per ogni parte li
circonda la morte. - Oh Dio! qual desolazione è mai questa! -
potessimo almeno morire da soldati combattendo! - sia tradimento? -
tradimento! - tradimento! - E lo scompiglio e la strage crescono
terribili più, quanto meno veduti. - Dove l'affronto mena
più tremendo il rumore: la voce del Pieruccio, superando i
gridi e le percosse, invoca i lupi e gli avoltoi ad accorrere per
satollarsi di carne battezzata.
Dentro una trabacca distesi sopra il medesimo letto dormono due; -
giovane l'uno, giace nudo avvolto dentro la coltre con un braccio
sotto il capo, l'altro penzolone fuori della sponda; il secondo di
maggiore età, armato di tutto punto, eccetto dell'elmo; a
giudicarne dal volto paiono padre e figliuolo. Giovanni da
Sassatello turbava in quel punto un mal sogno; gli pareva che una
moltitudine di armati circondasse il letto e ve lo tenesse su fermo;
egli si sforzava svincolarsi, e non gli riusciva, dava scossoni,
raddoppiava i conati, e sempre invano; grondava sudore, agitava le
labbra con sordo mormorio.
Il sogno era verità, almeno in parte; una mano dei nostri
penetra nella trabacca e va difilata alla sua volta per ispaciarlo
di vita.
Egli continua nel sogno spaventevole; - uno degli armati con man
potente gli strappa l'usbergo e gli pone una mano sul cuore; per
tutte le membra gli scorre ribrezzo; batte i denti e non può
proferire parola. Intanto l'armato si trae la daga dal fianco; poi,
come se lo impacciasse la visiera, con la manca la solleva. La
coscienza del volto del cavaliere gli presenta la sembianza di
Lionardo Frescobaldi da lui ucciso, a tradimento, il quale,
comechè morto, veniva a prendere la sua vendetta.
I nostri già gli stanno vicini: - la sua morte precipita
giù dalla punta di un pugnale..
«Morte di Dio, fermatevi!» - urla prorompendo nella
trabacca il Morticino degli Antinori, che cercando in ogni lato il
Sassatello, si era a caso colà abbattuto in quel punto, e al
chiarore della lampada posta sopra la tavola lo aveva ravvisato, -
«fermatevi! Se lo uccidete dormendo, voi mi togliete
più che mezza la vendetta. Svegliati su, Sassatello,
svegliati per contemplare la strage del tuo figliuolo. - e
morire.»
Si svegliò lo sciagurato, - stupidì, - stette per
isvenire, - poi ad un tratto gli rende potente la persona una
sopraumana gagliardia; - è sbalzato su in piedi, - ha stretto
una mazza d'arme, - abbassa colpi a destra e a sinistra, si versa
intorno al letto come serpente col suo corpo flessibile. Affannosa,
- anelante, - pure ricupera la voce e, «Eustachio,»
grida, «svegliati, difenditi, figlio mio... noi siamo
morti.»
Il giovinetto sonnacchioso:
«Padre, che hai? - ma sentendo il fragore delle armi, spalanca
gli occhi, vede il pericolo e, ghermita dal capo del letto una
spada, si pone con un ginocchio piegato a difendere francamente la
sua vita.
«Santi del paradiso, venite in soccorso di noi!» esclama
il padre pur tattavia menando le mani.
«I santi si chiudono le orecchie alle preghiere dei
traditori», gli gridano dintorno.
E il padre desolato continuava:
«Sciarra, Smeraldo, - aiuto!... aiuto!»
«I tuoi gridi non gli faranno venire, - noi gli abbiamo
ammazzati.»
Amor di padre lo costringe a volgere la faccia, e contempla il
Morticino, il quale, copertosi con la rotella la testa, drizzata la
punta della spada, spia il momento di cacciarla nel costato al
figliuolo; - egli distende la manca e, forte abbrancando l'Antinori
pel collo,
«Cane, indietro!» grida, - «non me lo ferire, -
egli è innocente.»
Mentre così intende in altra parte, i nemici che gli stavano
di fronte trovano la via a impiagarlo sul capo e su la guancia; egli
però non se ne accorge o non se ne cura, badando pur sempre a
tener fermo l'Antinori. Questi, inasprito dal dolore e, più
che dal dolore dalla rabbia di non aver potuto condurre a fine il
suo disegno, indietreggia di alcun passo e forte appoggiato il
taglio della spada sulla mano di Sassatello, ne recide ferocemente i
muscoli e le vene. - Il Sassatello ritira spasimando la mano, e
l'Antinori si avventando presto come una pantera, contro il giovane
Eustachio, che non se lo aspettava, lo colpisce presso alla forcella
del petto; il sangue scorre, - listando il tenero corpo e il bianco
lenzuolo di cui si avvolgeva. Egli era pietosissimo e non per tanto
bello spettacolo vedere quel giovane di ben composte forme, co'
capelli ventilati dietro le spalle per la rapidità dei moti,
il volto pieno della morte imminente e d'indomabile coraggio,
lottare contro l'ultimo fato a guisa dell'antico gladiatore che
tenta guadagnarsi il plauso romano con lo spirare maestoso
dell'anima. Giovanni da Sassatello, tempestando con la mazza d'arme
punte e fendenti, ha respinto gli assalitori: adesso torna a vedere
il figlio e l'osserva impiagato.
«Ahi! Eustachio mio, tu grondi sangue...» E dimentico
del proprio pericolo sta per voltare il fianco ai nemici, i quali
prevalendosi dell'atto gli si stringono addosso di nuovo. Eustachio
conobbe esser quella l'ultima ora del padre, se non si parava, e:
«Padre, badatevi.... badate a voi.... a voi solo, o che io mi
lascio ammazzare...»
«O Antinori, pel tuo Dio, non me lo uccidere!»
«Io non conosco Dio.»
«O Antinori, per quanto amore porti alla tua donna, non me lo
uccidere!»
«Io non amo... nacqui per odiare.»
«O Antinori... Antinori, pensa lui essere il mio unico
figlio!...»
«Tanto meglio... così sarà più presto
distrutta la razza delle vipere...»
«Sciarra..., Smeraldo..., aiuto!...»
«Già te lo dissi... noi gli abbiamo ammazzati.»
«Satana benedetto, io ti fo voto dell'anima, se mi salvi il
figliuolo!»
Tutte queste parole focose, arrangolate, erano profferite tra
l'intervallo dei colpi e mentre, difendendo sè stesso, il
Sassatello volgeva le spalle alla zuffa tra il Morticino e il
figliuolo. Dopo un breve silenzio, - silenzio di voci, però
che i ferri aspramente battuti tra loro mandassero spaventevole
fracasso, - il padre in suono di pianto domandò:
«Eustacchio, come ti difendi?»
«Bene...»
Ed in quel punto il giovane toccava una seconda ferita. - Il
Sassatello sentiva mancarsi la lena; la piaga della mano lo
tormentava; i suoi occhi cominciavamo a perdere lume; volendosi
tergere il sudore che giù li grondava dalla fronte, tenta di
farlo con la manca, e il volto e la barba gli s'imbrattano di
sangue; quell'orribile lavacro parve che in lui facesse riardere il
furore; - si scaglia contro i nemici, i quali si scostano atterriti.
Prevalendosi di cotesto istante di posa, si volge nuovamente al
figliuolo... e lo mira tutto sanguinoso...
«Dio», esclama, «come me lo hai concio!» e
ormai improvvido di sè si dispone ad accorrere dall'altra
sponda del letto; - di repente due mani vestite del guanto di ferro
gl'imprigionano la destra e gì'impediscono il passo.
Molti colpi aveva menato Eustacchio, ma invano, perocchè
l'Antinori come tutti i suoi compagni, fossero chiusi dal capo alle
piante dentro arme di tempra stupenda: - di cento colpi avversarii
ne aveva riparato la maggior parte, non pertanto tre lo avevano
tocco, e, come quello che nessun riparo difendeva, n'era rimasto
sconciamente ferito: altra speranza non gli avanzava che percuotere
l'Antinori con tanta veemenza sull'elmo da cacciarlo trammortito per
terra; allora gli si sarebbe lanciato sopra e, insinuandogli la
punta nella commessura tra il corsatello e l'elmo, confidava
svenarlo. In questo disegno afferra la spada con ambe le mani e,
levandosi ritto sul letto, acconsente quel colpo con tutta la
persona. - Agevole fu al Morticino, destrissimo, di tirarsi da parte
e mandare a vuoto la percossa; sicchè il giovane, non
trovando contrasto, venne tratto fuori di bilico a traboccare dal
letto spezzandosi sopra la terra le labbra e i denti. L'Antinori gli
balza sopra, la mano gli pone entro i capelli, intorno al pugno gli
attorce, e traendole di forza lo strascina. Il padre, visto quel
caso miserabile, non già immeritato, così impetuoso
scosse le braccia che mandò quei due che lo tenevano stretto
lontani da sè a rotolare per terra, - ed accorreva al
soccorso... Ma i due caduti urtando nella tavola su la quale ardeva
la lampada, la rovesciano; - mancò la luce... ma il raggio
moribondo si prolunga riflesso sopra la spada del Morticino che si
abbassa sul corpo del giovane Eustacchio. Quando le amate sembianze
gli scomparvero dallo sguardo al Sassatello, mancate sotto le gambe,
venne meno il coraggio, gli si ottenebrò l'intelletto, -
rimase immobile - pauroso di offendere le membra del figliuolo, non
ardiva movere passo: i nemici lo atterrarono, - gli avvinsero di
corde le braccia; - egli non mandò sospiro, - non gemito di
angoscia; immerso dentro un abisso di dolore, stette muto.
In altra parte accadeva altra strana vicenda. Parmi d'avervi
già raccontato come un poeta, Annibale Bentivoglio bolognese,
militasse contra a Firenze nel campo pel papa; costui, siccome
soventi volte accade ai soldati, abborrendo le sciagure di quella
misera contrada e chi n'era cagione, non per tanto si adoperava in
vantaggio degli oppressori; raccolto la sera nella sua tenda,
malediceva alle infamie con quella medesima destra che aveva aiutato
a commetterle la mattina; destato nello scompiglio, travolto nella
fuga del suo colonnello, tolte appena le vesti e la spada, si
riparava nelle parti più munite del campo, lasciando le carte
sparse sopra la tavola. Ludovico Martelli, precorrendo la compagnia
della milizia fiorentina di cui era capitano, entra nella tenda, e,
viste le carte, lo prende vaghezza di leggere quello che
contenessero. Il poeta aveva tracciato le due prime terzine della
satira nella quale descrive il travaglio della città
assediata; - le terzine dicono così:
/* Sovra i bei colli che vagheggian l'Arno E la nostra città,
che or duolsi et have Pallido il viso e lagrimoso indarno, Sono un
di quei che con fatica grave Al marzïal lavoro armati tiene
Quel che di Pietro ha l'una e l'altra chiave. */
Arse di nobile sdegno il Martelli e, recatasi nella mano la penna,
subito scrisse sotto continuando:
/* Ma non sarien l'empie sue voglie piene, Se d'italico sangue
alcuna stilla, Snaturato, tu avessi entro le vene. */
Poi gettata la penna, esclamò:
«In verità a chi ebbe intelletto da conoscere il
malefizio, e il cuore non gli basta per sfuggirlo, la giustizia di
Dio apparecchia doppia pena nell'altra vita.»
E poichè, tra tanti orrori nei quali va trattenendosi la
mente, un esempio di virtù giunge gradito come aurea fresca
che ristori il sangue, - giova qui ricordare - che il
Bentivoglio, tornato nella tenda, avendo letto quel foglio,
sentì divamparsi il volto di vergogna; gli venne in fastidio
la turpe vita e, pretestata certa sua infermità, si ritrasse
dal campo; perocchè la musa infonde nell'uomo con la mente
arguta un senso gentile, che rifugge dalle opere inique come da
sconcezze che bruttano l'armonia del creato.
Qual mai cagione impedisce al principe Filiberto d'Orange di
prendere un riposo che la natura concede al più misero
dell'esercito imperiale? Il rumore dell'assalto non giunse per anche
in quella parte remota del campo che egli abita. Sarebbe per
avventura previdenza d'infaticabile capitano? Mai no, ch'ei se ne
sta neghittosamente seduto, con le guance appoggiate sopra entrambi
i pugni chiusi e gli occhi fissi, - senza sguardo però, - su
certe carte deposte dinanzi a lui sopra la tavola. Forse considera
le mappe di Firenze e indaga il luogo più destro agli
assalti, o immagina qualche nuovo accorgimento di guerra per
rintuzzare l'audacia, che si hanno tolta gli assediati nelle
frequenti loro sortite? No; - causa della veglia del capitano di
Cesare è questa lettera che mediante un suo fidato gli fece
consegnare la madre:
«Sire principe, nostro dilettissimo figliuolo. - Quella che
noi viviamo lontano da voi non può dirsi vita, e morte
nemmeno, avvegnachè, quantunque di questa ultima io patisca
incessanti dolori, non però mi apporta l'oblio e la quiete.
Tra i terrori dell'inferno e i terrori di madre vinsero gli ultimi;
noi osammo scoperchiare le sepolture, profferire con la nostra bocca
gli scongiuri vietati e interrogare l'avvenire. - Nè
perciò disperiamo della salute dell'anima nostra per ottenere
il perdono ci sarà mediatrice presso a Dio la Vergine
santissima: ella come madre conosce a quali estremi sia condotta la
donna per amore del suo sangue - Filiberto, le mascelle dei defunti
si sono riunite, e sapete voi qual vaticinio usciva dalla loro bocca
senza labbra? - Voi perirete nella guerra di Fiorenza. - Deh!
figliuol mio, lasciate cotesta impresa; voi siete l'istrumento col
quale un parricida intende straziare le viscere della propria madre:
voi non guadagnerete gloria terrena e porrete in pericolo la salute
dell'anima. Dentro un poeta italiano, e parmi fiorentino, ben mi
ricordo aver letto un giorno come certo cristiano si acquistasse
l'inferno a cagione dei consigli di un papa. - Rimovetevi dunque da
cotesta impresa; pensate tramontare con voi il sole di casa Chalons,
nessun figlio potere sostenere la gloria della nobile nostra
famiglia, e sopra tutto pensate che la vostra eredità
caderebbe addosso a me povera inferma, già grave di anni,
come un peso sotto del quale rimarrei infranta.»
Filiberto sentiva suo malgrado tale sgomento che gli pareva una voce
del Destino: - i polsi di mano in mano gli battevano più
languidi, - stava come sotto la potenza del fascino; -
tant'è, - aveva paura: - se la sua lingua avesse proferita
cotesta parola, ei se la sarebbe tagliata co' denti; - se in cotesto
punto occhi umani avessero potuto leggergli nel cuore... od egli
avrebbe spento quegli occhi, o trafitto il suo cuore. - Oh! non
morrò, - le foglie non cadono già in primavera, ed io
son bello, forte e potente; - ora non posso morire: - bisogna che la
Morte aspetti; - aspetterà... almeno finchè non mi
nasca un figlio legittimo, altrimenti la gloria mia sparirebbe dal
mondo a guisa di quelle statue di plastica apprestate per celebrare
qualche festa, - decoro di un giorno, - poscia neglette nella
bottega dell'artefice; - la mia insegna, che resi con tanto sangue
famosa, si sperderebbe inquartata entro chi sa quale altra arme. I
morti mentiscono, - io mi sento pieno di vita. Ma!... Filippo il
Bello..., grande..., figlio d'imperatore, padre d'imperatore...,
glorioso..., avventurato, cadde sul fiore degli anni; - la Morte lo
spense nel modo stesso che il chierico avaro soffia sul torchio
appena acceso dicendo tra sè: vo' risparmiare la cera. - I
corvi non si rimasero dal bezzicare gli occhi e schiaffeggiare con
le ale le guance dell'avo di Filippo, - del bisavo di Carlo
imperatore, Carlo il Temerario, là presso Nancy, comunque
potentissimo tra i principi cristiani; - la Morte quando entra in
camera del papa, non si curva mica al bacio de' piedi, ma gli va
dritto e scuote il vicario di Dio della vita con la stessa
agevolezza con la quale si scoterebbe una stilla di rugiada da un
fiore... Ah!...
E sollevò la faccia.
Era visione? Era realtà? Nell'alzare gli occhi il suo sguardo
s'incontra in uno sguardo acuto, come di vipera; un terribile
simulacro di uomo gli stava davanti; - la pelle gli s'informa
dall'ossa, - i capelli scomposti gli danno sembianza del capo di
Medusa; tiene levata la destra scarna stringendo un pugnale; -
però non s'inoltra, sembra essere trattenuto da forza
misteriosa.
«Chi sei?» interroga il principe balzando in piedi e
stringendo una pesante mazza d'arme, «e da parte di cui tu
vieni?»
«Vengo da parte mia. - Temerario!» col manico di un
coltello percotendosi la fronte esclama il personaggio apparito;
«io ben sapeva non essere la tua ora anco giunta: - quello che
Dio incide sopra la pietra cancellerà l'uomo
coll'alito?...»
«Chi sei? parla...»
«Io mi sono uno che vengo per dirti: Filiberto, i fati hanno
contato i tuoi giorni... guàrdati dall'aquila dei nostri
Appenini; ella ha il rostro gagliardo e gli artigli
taglienti...»
«Torna all'inferno, donde uscisti, demonio!» E qui il
principe con quanto aveva di forza nel braccio scagliò la
mazza d'arme contro il fantasma.
Il fantasma disparve tra le ombre. Filiberto con qualche esitanza si
recò in quella parte dove lo aveva veduto cadere, fidando
trovare un uomo morto, ma non gli occorse persona; la sua mazza
è lucida come se non avesse diviso altro che l'aria.
Corse nella parte anteriore della tenda; - le guardie dormivano, -
una sola vigilante, interrogata, rispose non aver veduto od udito
anima viva. L'Orange, quasi bisognoso di più libero respiro,
uscì all'aria aperta. Il fantasma era Pieruccio; costui
avanzandosi carponi tagliò la tenda in parte inosservata e vi
penetrò col disegno, che gli uscì a vuoto, di uccidere
il principe; quando questi gli lanciò contro la mazza d'arme
avendo già disposto andarsene, prevenne il colpo
distendendosi sul terreno per uscire siccome era entrato. Incolume
riparò tra i suoi.
Posto ch'ebbe il piede fuor della tenda, il principe vide passare
con presti passi un sacerdote accompagnato da un fante che gli
rischiarava il sentiero col lampione; mosso da vaghezza di sapere a
che si affrettasse, domandò:
«Dove andate, ser cappellano?»
«Ad amministrare l'olio santo al magnifico Girolamo da Morone
che sta per morire...»
«Come?... che dite?... Il Morone!... Voi fate errore; -
poc'anzi noi favellavamo insieme...»
«Figliuol mio, la morte non manda corrieri: il Morone si
muore...»
Chi fosse Girolamo Morone ora non cade in acconcio di qui
raccontare. Di lui scrivono tutti gli storici del tempo; meglio
degli altri Francesco Guicciardini.
Filiberto adesso, ponendovi mente, ode rumore di guerra; - intende
col guardo nelle ombre e poco si addentra; - all'improvviso un
baleno illumina la città, il piano, quanto i colli
circondano; e in quella subita luce vede, o pargli vedere, una
zuffa, una fuga, un viluppo terribile di uomini e di cose.
Dico di cose, perchè discerne scorrere di qua e di là
pel lampo certi grossi volumi bianchi che dando di cozzo alle tende,
vi s'impigliano dentro e le fanno cadere: - poi la pèsta
cresce; - diventano gli urli e lo strepito delle armi percosse
più distinti; - di repente le mura di Firenze parvero
circondate da una cintura vermiglia, e poco dopo rimbombò una
scarica di cannoni grossi pel cavo dei colli. Allora si
accòrse di quello che fosse; ma i capitani e i consiglieri
non apparivano; - intanto il pericolo si accosta. Stava per dar
fiato al suo corno, quando affannosi, mezzo armati, accorsero tutti
in gruppo i principali dell'esercito in cerca di comandi. Filiberto
nella urgenza del caso rinfranca l'animo smarrito; in presenza della
morte il timore di morire lo abbandona; manda Pirro Colonna e il
conte di San Secondo là dove più feroce conobbe
essersi appiccata la mischia; spedisce messaggi ai colonnelli
più lontani affinchè si armino, si stringano insieme e
non si muovano se non ricevono avviso. - In questo ecco Baccio
Valori come smemorato affrettarsi alla volta del principe, il quale,
riconosciutolo appena al chiarore di un lampione, gli disse;
«Frate, tardi venisti... I Fiorentini non ci vonno lasciar
dormire stannotte...»
«Oimè! - È il finimondo... il Morone mi
spirò tra le braccia...»
«Il diavolo chiude le reti. - Vi ha egli lasciato
nulla?»
E senza attendere risposta si volta a don Ferrante Gonzaga e gli
comanda di calare verso il piano alla riscossa del colonnello di
Sciarra; quindi riprese, come interrogando coloro che gli stavano
attorno:
«Valenti uomini, guardate un po' costaggiù: - vedete
quei corpi bianchi, - che cosa vi pajono?»
E tutti allora guardavano, - e non sapevano.
Allorchè meno se lo aspettano, ecco presso del principe
prorompere un muggito; egli volta la testa e si contempla vicino un
bove trafelato dalla corsa.
«Intendo» disse il principe, «messer Bacio;
poichè il Morone è morto, il bove viene a profferirsi
di compiere il numero dei miei consiglieri.»
Filiberto volse l'avventura in burla alle spalle del commessario del
papa, siccome sovente costumava: non pertanto prima di riderne ne
aveva avuto paura.
Ora è da sapersi che i nostri nel rompere impetuosamente gli
usci delle case per uccidere coloro che dentro vi fossero,
atterrarono la porta della stalla di un beccaio, donde uscite le
bestie presero imbizzarrite a imperversare nel campo, spargendo per
ogni dove lo scompiglio e la paura; nè vorrebbe attribuirsi
ad amore del maraviglioso l'affermare che la metà del danno
in quella notte venne da questi animali furiosi, i quali
sbarattavano le intere compagnie, pestavano uomini, rovesciavano
tende, mandavano sottosopra quanto loro si parava dinanzi.
Il disegno fermato col Malatesta fu, che il signor Orsino, rimasto a
vigilare sul bastione di San Francesco, quando avesse veduto essere
necessarii i rinforzi, sparasse le artiglierie ed uscisse con le sue
genti dalla Porta di San Nicolò, siccome nel medesimo punto
sarieno usciti Ottaviano Signorelli da Porta a San Pier Gattolini, e
Giovanni da Turino da quella di san Giorgio. La bisogna avvenne nel
modo che avevano divisato, e dando dentro francamente, cominciarono
a tagliare; i nemici spauriti, non bene armati, appena opponevano
resistenza; cotesta piuttosto che guerra giusta, era strage
promiscua. Il principe d'Orange, circuito di uomini poveri di
consiglio in quell'estremo, si stava presso alla porta della casa
albergata dal Morone, incerto sopra i provvedimenti da opporsi
all'ignoto pericolo; un paggio gli tiene fermo il caval di
battaglia; - un altro gli porta l'elmo decoroso di piume: - di
momento in momento si succedono messaggieri spediti da tutte le
parti del campo, le ultime novelle più triste; - si
raccoglie, cerca un rimedio che valga, e nulla trova; - alfine
contro sè stesso sdegnoso lascia andare un terribile colpo in
un pilastro della porta, schizzano - fischiando le scheggie, -
scintillano vampe di fuoco, - gli rende l'ira la mente, - ordina
ritirarsi i colonnelli su le cime dei colli, lasciare le tende,
accendere fuochi, nessuno trattenersi a salvare uomini spicciolati o
intere compagnie; chi rimane disgiunto incolpi sè o la
fortuna, - ma nessuno torni indietro: - così si
restringerà l'esercito, si serrerà più denso,
potrà meno scomporsi negli urti, meglio respingere gli
assalti; poi monta in sella al cavallo e lo spinge verso il
monastero del Paradiso, dove la mischia gli parea più forte.
Michelangiolo e Lupo, anime pari con diverso intelletto, sopra il
campanile di San Miniato argomentavano tra loro come potessero
recare molestia ai nemici. Lupo intendeva scaricare le artiglierie,
nascesse che cosa sapeva nascerne; se non che Michelangiolo lo
impediva dicendo:
«Non le toccare, Lupo, veh! le palle potrebbero uccidere nella
confusione qualcheduno de' nostri,»
«Lasciate fare: - se la palla uccide un nemico ed uno dei
soldati perugini agli stipendi nostri, la città ci guadagna
il doppio; - i soldati forestieri uscirono i primi...»
«Che monta ciò? Io giurerei che i nostri giovani della
milizia, comechè ultimi a uscire, sono stati i primi ad
assaltare.»
«Sentite, Michelangiolo: io tirerei; - guardate colà
presso al comignolo, - vedete quei lumi fermi? - cotesto è
segno certo che colà non combattono; ora levando una zeppa
alziamo i cannoni, e le palle non offenderanno il mucchio che mena
le mani più al basso dentro quel buio...»
«Dio ti abbia in aiuto! - fa parlare da' tuoi cannoni una
parola di ferro a quella mandra di scomunicati.»
Il campanile di San Miniato sfolgorava a gloria; ora s'incorona di
un cerchio di fuoco, ora scomparisce per le ombre; lo avresti
creduto un gigante che venisse a prender parte nella contesa in
favore di Firenze; ad ogni scarica lanciava la morte dentro quelle
spesse colonne di uomini, i quali, trattenuti dal contegno dei capi,
dalla disciplina severa ed anche dall'amore della reputazione
acquistata nelle guerre trascorse, stavano a riparare con le membra
loro cotesta bufera di ferro e di fuoco non senza mormorare
però ed accennare che per poco non si sbarattavano dandosi
alla fuga.
«Per Dio! per Dio! - Maledetto il buio! - Qui non possiamo
nè anche vedere come si muoia...»
«Che importa il come, purchè si muoia da
valorosi?...» grida sopraggiungendo Filiberto; «tenete
fermo, se non volete essere sgozzati come una mandra di
agnelli.»
«Viva il principe di Orange! Viva!»
Alcuni soldati che portavano torcie fecero calca intorno al
capitano: uno tra gli altri gli si era posto davanti alla testa del
cavallo; - all'improvviso, ecco una palla coglie il soldato nel
capo, glielo porta via netto dal busto... e palla e testa percuotono
dentro un masso del monte; la palla schiacciata rimbalzò
fischiando, - la testa si sbrizzò, ed alcune scheggie degli
ossi tagliarono il collo o il volto dei circostanti; il masso rimase
chiazzato di una ruota di sangue, come se vi avessero buttato dentro
una spugna intrisa di cinabro. Ne sentirono i più animosi
ribrezzo.
Filiberto, mentre alzata la mano vuole imporre silenzio per
favellare e inanimare i soldati, sente mancargli sotto il cavallo e
con grande impeto stramazza sottosopra a terra in un fascio con lui.
Un'altra palla dei cannoni di Lupo aveva infrante ambedue le gambe
deretane del male arrivato animale. I soldati levarono altissimo
grido:
«Il principe è morto!...»
«Paltonieri! assalitori di conventi! chi vi ha detto che io
sia morto?» grida a sua posta il principe rilevandosi tutto
fangoso; - «la palla che deve uccidermi non è anche
fusa; non vedeste mai cavalli morire in battaglia?»
Nondimeno conobbe impossibile mantenersi in quel luogo.
«Campanile sconsagrato!» disse minacciando il campanile
di San Miniato, «me la pagherai.»
E poi ordinò si ritraessero e dietro il colle lontano dal
tiro delle artiglierie riparassero.
Io non istarò ad affaticarmi più oltre la mente nel
raccontare i molti casi avvenuti in codesta notte memorabile;
sì perchè mi converrà mettere parole di altri
scontri ferocissimi di guerra, sì perchè le tenebre ne
celarono la maggior parte. Le storie dei tempi rammentano che,
mentre i morti nemici sommarono a parecchie centinaia e i feriti a
numero quasi infinito, dei nostri non ne rimase spento veruno od
anche ferito: il quale ricordo non corre senza un cotal poco di
esagerazione, imperciocchè Benedetto Varchi, che in quella
notte colla banda della sua milizia guardava il monte, assicuri di
avere veduto trasportare certo soldato con una archibusata in una
coscia. Si disse che i Fiorentini avrebbero potuto rompere il campo
e sciogliere l'assedio, se eglino avessero fatto prova non
già di maggiore audacia, che la mostrarono smisurata, ma se
il capitano generale, ormai venduta l'anima al papa, non si fosse
ingegnato di mandare a vuoto la bellissima impresa.
Stefano Colonna, poichè dopo la feroce resistenza, vide
così di leggieri lasciargli il terreno il nemico, conobbe
com'egli volesse rendersi forte su le cime dei colli ed invitarlo in
parte dove, per essere ripido il suolo, avrebbe potuto vendicare la
ingiuria patita; - ebbro di quel primo successo avventuroso, non
rifiutava spingere l'affronto ai termini estremi, ma per ciò
fare abbisognava di maggior copia di milizie; aveva già
mandato nunzii alla città, e il popolo, appena conobbe le
novelle liete, menava gazzarra, correva per le strade cantando o si
affollava alle chiese per render grazie a Cristo e alla Madonna.
Malatesta però era deliberato di non ispedire i rinforzi, e
per questa volta ai disegni di tradimento si aggiunse la invidia
contro al signore Stefano. Raccolti a sè d'intorno i
principali dell'esercito, espose loro il pericolo d'indebolire il
presidio, già scemato per le bande di recente sparse pel
dominio e per le milizie uscite col Colonna; poteva mandare, e certo
mandò, il principe d'Orange avvisi al conte di Lodrone, che
stanziava co' suoi lanzi in San Donato in Polverosa; e dove questi
si fossero mossi all'assalto, correva rischio la città di
essere presa: insomma tante ragioni dedusse, al vero così
destramente mescolò il falso, tali aggiunse preteste di amore
sviscerato alla libertà di Firenze che i colonelli, in parte
persuasi, in parte svolti dall'autorità sua, convennero non
fosse da avventurarsi la somma della guerra. Il Colonna, mentre
aspettava impaziente i soccorsi domandati e con amaritudine immensa
vedeva freddarsi la caldezza delle sue milizie, sente il corno che
gl'intimava ritrarsi; - egli pensò sul principio essersi
ingannato; poi quando più distinto lo percosse il suono,
immaginò partirsi dai nemici; finalmente allorchè non
gli rimase nessuna via da illudere sè stesso, fa per
disperarsi, - stette un tempo esitante se, disprezzato il comando,
dovesse gittarsi in balìa della fortuna: ma questo capitano
di sua natura prudente ed avvezzo a dipendere, quantunque preposto a
corpi di eserciti, dai comandi di un generale supremo, non
osò; l'animo gli mancava all'uopo, - la indisciplina gli
parve vergogna uguale alla viltà: - spirito senza genio, che
ignorava gli eventi giustificare le imprese e i fatti che il mondo
ammira magnanimi e veramente sono, il più delle volte essere
stati condotti o contro o fuori della legge. - Ordinava pertanto la
ritirata.
I Fiorentini, postisi in mezzo i prigionieri, s'incamminano verso
Firenze. Il giorno gli sorprese a mezza strada, sicchè ai
primi albori poterono distinguere i volti di quelli che menavano
legati. Il caso volle che il Morticino guardandosi attorno scorgesse
prossimo a sè Giovanni da Sassatello, il quale alla meglio
fasciato procedeva col volto chino immerso dentro inenarrabile
dolore. L'Antinori non conosceva quel senso di gentilezza che mai
non si scompagna dai forti davvero, e che consiste, quando il nemico
è caduto, ad ammollire il cuore e a dirgli: Basta. - Vendetta
fino alla fossa, ed anco oltre la fossa, era la religione sua se del
tossico preparato al nemico una sola stilla si fosse smarrita, a lui
pareva non avere nulla ottenuto. Con pronti passi gli venne dietro,
e violentemente percossolo sopra la spalla:
«Capitano Giovanni da Sassatello», gridò tra
beffardo e feroce, «Dio vi mandi molti giorni simili a
questo.»
Il Sassatello levò la faccia come smemorato, ma all'apparire
improvviso di cotesto uomo sinistro, l'anima dolorosa
rammentò distinti i casi della orribile notte; - il raggio
estremo della lampada riflesso su la spada calata contro il collo
del figlio torna a balenare su la tenebra del suo pensiero, - l'ira,
la pietà, la paura riarsero dentro di lui, e senza profferir
motto, furibondo tentò rompere i legami per darsi la morte.
«Badatelo», ordinava il Castiglione, «l'empio
ladrone deve lasciare la testa sul patibolo.»
«Oh! no», risponde l'Antinori, «Dante, lasciamolo
andare.»
«Siete voi, Antinori, che dite questo?»
«Sì, sono: Dio perdonò su la croce, non
può perdonare anche l'uomo?»
«Antinori!»
«Dante, vicino a inebriarmi di vendetta ho conosciuto quanto
costi esser crudele; - in fondo al vaso dell'ira trovai la
compassione; - anche Pandora in fondo all'urna dei mali vide la
speranza...»
«Antinori!»
«Forse anch'io non ebbi nascimento sopra la terra che fu
patria a Giovanni Gualberto, il santo misericordioso? Lasciamolo
andare, ve ne scongiuro...»
«Per me, nel caso vostro, vorrei che fosse giudicato nelle
forme e poi decollato come si merita, per esempio di
giustizia.»
«E sempre giustizia! e sempre giustizia. Ma che cosa diverremo
noi, se Cristo invece di giustizia non ci usasse
misericordia?»
Dante si strinse nelle spalle e conchiuse:
«Intendo anch'io che se la bilancia deve pendere, meglio
è che penda dal lato del perdono...; però io non avrei
perdonato... e non avrei creduto che voi, perdonaste...»
«Le lacrime del pentimento di questo infelice mitigheranno il
fuoco dentro il quale si purga l'anima di Lionardo; e mentre
così favella scioglie le funi che legavano il Sassatello, e
quindi aggiunge: «Va, - pentiti, fratello mio, e Cristo ti
conceda molti giorni uguali a questo.»
Avete mai veduto una rondine presa a cui si ridoni la
libertà? Incerta o salvatica, non si attenta dapprima volare,
- ella ch'è così desiosa di percorrere di su e di
giù le vaste curve nel firmamento! Poi, tacendo ogni dubbio
di schiavitù, sferza l'ale e si allontana veloce più
che saetta. Tal fu il Sassatello; si fermò alquanto
incredulo, - levò le braccia, - stese un piede, se lo sente
libero, - all'improvviso accelerando i passi si caccia giù a
fuggire alla dirotta, dolorosamente chiamando:
«Eustachio! - Eustachio!»
L'Antinori prorompe in altissimo riso; - così sinistro questo
gli sconvolge il volto che Dante non potè sopportarlo e
abbassò gli occhi. Il Morticino, continuando nelle
dimostrazioni di gioja frenetica, chiama a sè dintorno il
Bichi, l'Arsoli, il Busino ed altri uomini valenti nella milizia.
«Udite... uditemi», s'interrompeva sghignazzando,
«oh! l'ingegnoso trovato... il buon consiglio che mi dava
l'angiolo custode... quando fu rovesciata la tavola, spenta la
lampada, il Sassatello prigione..., non so nemmeno io quante mai
volte forassi da una parte all'altra quel marrano ch'ei chiamava suo
figlio; - mi lavai nel suo sangue le mani, - me lo posi su i labbri
e lo bevvi... Chi vanta il vino, gli è un grullo! più
grullo chi vanta l'amore! Che intende pregustare nel mondo i diletti
ineffabili del paradiso, arda prima di odio e si disseti poi nel
sangue dell'odiato! - Pur non mi sembrava sentirmi contento...
è non lo era... nè lo poteva essere... Mi cadde in
mente un pensiero... una burla.., ridevole, per Dio!... e la fortuna
l'ha favorita.... Accomodai il cadavere d'Eustachio sul letto
dond'era caduto e gli tagliai la testa... poi i piedi., poi sul
collo vi adattai i piedi e al termine delle gambe la testa;... che
vi par egli? Non è arguto il trovato? Ridete. - Ridete.
Pensate mo' se il Sassatello spalancherà gli occhi più
della porta di San Francesco che ci sta davanti, quando vedrà
il figliuolo acconcio in questa guisa...»
I valorosi soldati gli voltarono le spalle lasciandolo solo; egli
distese la destra al Castiglione, favellando:
«Porgetemi la vostra, congratulatevi meco; io sono
contento...»
«Antinori, le mie mani come le vostre appaiono intrise di
sangue; - nondimeno io mi sento degno di toccare anche adesso
l'ostia consacrata; - andate, uomo feroce... voi mi fate
orrore.»
Il Sassatello, un'ora dopo, fu trovato seduto davanti la tavola, -
tenendo con le mani a guisa di tanaglia grancito il cranio del
figliuolo; - vollero allontanarlo da cotesto spettacolo; - egli era
morto... aveva sul teschio reciso del figlio versato non lacrime, ma
con un effluvio di sangue prorottogli dal petto - la vita.
CAPITOLO DECIMOSETTIMO
LE BALDRACCHE
Direte non lasciar la patria noi,
Perchè madri con noi Terranno e figli?
Ma il terren, le onde, gli alberi, le rupi
Care dagli anni primi, e in cui la scorsa
Pur si rivive età, ma quelle piante
Che a un dio, ad un eroe, a un dolce oggetto
Dei nostri affetti consecrar ci piacque,
Dite, verran? Dei nostri padri l'ossa.
Che a questa terra in sen dormon tranquille,
Sorgeran per seguirci?
Arminio, tragedia.
Donato Giannotti, scrivendo la vita di Francesco Mariotto Ferruccio,
così concludeva: «uomo memorabile e degno di essere
celebrato da tutti quelli che hanno in odio la tirannide e sono
amici della patria loro, come fu egli, che, oltre a tante fatiche e
disagi sopportati, messe finalmente per quella la propria
vita.»
Celebriamo dunque Francesco Ferruccio; egli nacque di antica
famiglia, tra quelle del secondo popolo, la quale tenne la
dignità del gonfalonierato quattro volte: la prima nel 1299;
priori n'ebbe venti tra il 1299 e il 1512, e fu la virtù
ereditaria tra i suoi. Tuccio, fra gli antenati incliti di lui
più illustre di tutti, oltre i supremi uffici della
Repubblica gloriosamente esercitati, oltre l'avere dato mano alla
terza cinta delle mura di Firenze ed avere combattuto in quasi tutte
le battaglie dei suoi tempi, sortì dai cieli la fortuna di
respingere Arrigo VII tedesco, dai muri di Firenze, e l'onore
insigne di trovarsi compreso nella nota, che il respinto imperatore
pubblicò a Poggibonsi, dei cittadini che più degli
altri si travagliarono a cacciarlo via, dichiarandoli tutti ribelli
e felloni. Antonio suo bisavo, sotto il governo del magnifico
Lorenzo dei Medici, con suo onore si travagliò nella guerra
di Pietrasanta e Sarzana. Simone, suo maggiore fratello, fu
soprammodo accetto al Giacomino Tebalducci, il quale, finchè
stette commessario alla impresa di Pisa, lo chiese sempre ai Dieci
per servirsene nei casi di guerra. Francesco, da giovane, molto si
dilettò di cacce; per la qual cosa gran parte dell'anno si
tratteneva in certa sua possessione nel Casentino; chiamata la
Tomba, dove nutricava un solo astore, di più non potendo in
grazia della sostanza non troppa e della molta famiglia; poi venne a
Firenze e poco fu vago di lettere, della mercanzia meno,
dacchè, messo al banco di Rafaello Girolami, dopo esserci
rimasto torbido e svogliato intorno a trenta mesi, toccato il
quindicesimo anno, come ristucco di repente partì e non volle
saperne altro. Costumava assai la compagnia dei bravi, donde
mostrandosi più pronto di mani che di parole, sostenne con
suo onore parecchie contese, fra le quali sporgono fuori quelle col
capitano Cuio per conto di laido scherzo, e col Boccali a cagione
della Sellaina, di cui chi avrà vaghezza di sapere più
oltre, potrà cercarne nella vita che ne scrisse Filippo
Sassetti; meglio alla lode del personaggio ed alla futura fama di
lui varrà ricordare come, ridottosi a vivere in campagna,
tali prove vi fece così di prudenza come di ardimento che i
popoli di Romagna, per natura riottosi, a lui per arbitro delle liti
soventi volte ricorrevano, ed egli in destro modo le acconciava,
venendo in questa guisa a procacciarsi la reverenza e l'amore di
tutto il paese. Però fino a trentotto anni non ebbe uffizii
pubblici: chè tali non si vogliono chiamare le potesterie di
Campi, di Radda e del Chianti, comecchè in questo ultimo
magistrato palesasse la natura sua impazientissima a patire torto e
la prontezza di vendicarlo; avvegnadio certi venturieri ai soldi dei
Sanesi avendo fatto incursione su le terre della Repubblica e
rubatovi grossa preda, egli, messi insieme alquanti archibusieri,
assaltò francamente i saccardi e, menatone aspro governo, li
costrinse a restituire le robe rubate. Nè di ciò deve
l'uomo prendere maraviglia, vedendosi per le storie come nei tempi
ordinarii e tranquilli primeggino ai governi i potenti, nei
difficili i virtuosi, per essere poi rovesciati o spenti cessato il
pericolo: vicenda che ogni dì si predica finita, e che ogni
dì si rinuova. Fortuna fu non sua, bensì della gloria
di questa patria nostra, che Giovambattista Soderini, personaggio
gravissimo, avendogli posto gli occhi addosso, e piaciutegli le
maniere del giovane, se lo facesse domestico, cercando sviluppare in
lui quella virtù, che conobbe come un tesoro nascosto
posarglisi nel cuore; intendimento e prova che superarono di gran
lunga la speranza. Quando pertanto il Soderini e Marco del Nero
andarono commessarii delle genti fiorentine al conquisto di Napoli
con monsignor di Lautrec, lo condussero seco, e, fedele compagno
nella prospera come nella contraria fortuna, nella rotta
dell'esercito francese cadde co' commessarii prigione; dalla quale
prigionia, secondo quello che avvertimmo, venne riscattato da messer
Tomaso Cambi Importuni, ma a quanto sembra, co' propri danari.
Mentre che il Soderini visse, il Ferruccio, consapevole dovere a lui
quanto sapeva ed era, gli usò grandissima riverenza: e morto,
gli ebbe sempre vivissimo amore, sicchè ogni volta gli
accadeva rammentarlo gli sgorgavano le lacrime dagli occhi: onde il
Varchi lasciò scritto che ei fu verso il Soderino quello che
si legge nei romanzi essere stato Terigi verso Orlando.
Fu adoperato ancora dalla Signoria quando il Cristianissimo convenne
co' Fiorentini di mantenere Renzo da Ceri a Barletta, purchè
contribuissero alla spesa; e mandato a Pesaro con seimila ducati in
panni e in danari per le paghe pei Francesi, udita ch'ebbe la nuova
della pace di Cambrai, deludendo la importunità dei
ricevitori del signor Renzo, se ne tornò con la roba e con i
danari e Firenze.
Tomaso Soderini, deputato commessario di Valdichiana, avendo bisogno
di uno che lo servisse in molte azioni di guerra, come a pagare
soldati, rassegnarli, ed altre cotali, fu consigliato e menare seco
il Ferruccio; ed egli (sono parole del Giannotto), comechè
non gli paresse la cosa secondo il suo grado, essendo anch'egli
nobile fiorentino, nondimeno, per far servizio alla patria, non
ricusò l'andata.
Zanobi Bartolini, succeduto nel commessario della Valdichiana al
Soderini, si servì dell'opera sua nel modo che aveva fatto
Tomaso; lo mandò a Perugia per la condotta del Malatesta, e
parve non fidarsi di altri che a lui, quando abbisognava di uomo che
alla prontezza e all'ardire aggiungesse la prudenza. Il Bartolino,
nel governo della Valdichiana, per somma sventura della
città, fu scambiato con Antonfrancesco Albizzi, e quello che
per lui si operasse, o qual parte il Ferruccio vi prendesse, vedemmo
sul principio del nostro libro. Poi si ridusse in patria; dove alcun
tempo stette senza essere adoperato. Udendo i Dieci il mal governo
di Lorenzo Soderini commessario a Prato, pensarono dargli un
compagno e crearono il Ferruccio; il quale recatosi all'ufficio e,
malgrado la obbligazione che aveva con la casa Soderina, non
trovando cosa in Lorenzo che non fosse degna di rampogna, lo
ammoniva con parole cortesi; e quando conobbe i suoi consigli
disprezzati da cotesto ingegno vano del pari che superbo, acremente
lo riprendeva. I Dieci licenziarono ambedue e poco appresso, della
virtù di Ferruccio persuasi, lo elessero commessario in
Empoli.
Or che fa egli in Empoli il nostro Ferruccio? Appena giunto,
saldò le paghe ai soldati, li rassegnò, li
ammonì che come d'ora innanzi nessuna bella azione sarebbe
andata senza premio, così nessuna trista passerebbe senza
pena; si tenessero pertanto avvertiti: un soldato nella rassegna
uscito di fila, richiese il commessario gli fosse cortese di spedire
alla sua famiglia a Firenze due ducati, e gli dette l'indicazione
dei luoghi e delle persone; della quale indicazione presa nota
Ferruccio rimandò il soldato al suo posto, dicendo:
«Va, tienti i ducati; manderò a tuo padre un fiorino
del mio.» Esaminò le mura, rinforzò le vecchie
torri, ne fabbricò nuove, scavò fossi, prolungò
le cortine per inchiudere nel recinto alcuni molini che rimanevano
fuori: considerando poi disagevole la difesa di circonferenza
sì vasta, distrasse le cortine, abbattè i molini e i
borghi circostanti, copia di vettovaglie raccolse, munizioni di
guerra di ogni maniera adunò; solertissimo a soddisfare alle
paghe dei soldati, non sofferse rimanessero di un giorno solo in
ritardo; e certa volta che da Firenze non gli vennero danari,
pagò dei suoi, e restando pur tuttavia debitore, si tolse dal
collo una collana di oro e, rottala in pezzi, ne presentò i
capitani; invano rifiutarono questi, ch'egli insistendo
favellò: «Poichè io più di voi amo la mia
terra e più ne sono amato, ragion vuole che per lei spenda in
cortesia»; e poco dopo vedendo che pur sempre ricusavano,
«Prendete», aggiunse, «prendete; egli è ben
giusto che a me si debba premio più scarso di danaro,
perchè ricevo maggiore guiderdone di gloria; noi combattiamo
insieme le medesime battaglie; i pericoli stessi, i patimenti
duriamo, e forse il mio nome solo vivrà, rimarrà il
vostro sepolto con voi.» Nè stette molto che la
Signoria gli fece notificare, non che potesse spedire fuori danari,
appena e a grande stento provvedeva ai bisogni della città,
però cercasse il modo di aiutarsi da sè: ed egli, di
capitano diventato mercante, ordinò una nuova annona di
vettovaglie, cioè vino, grano, olio e biade di ogni ragione,
e da quelle trasse tanto che soddisfece alle paghe senza più
molestare la città. Ma occupato in siffatti fastidii, non
mancava poi al debito di valentuomo di guerra, che non passava
giorno senza che egli scorazzando nel paese, o qualche imboscata non
tendesse, o qualche scaramuccia non ingaggiasse, sovente con suo
notabile vantaggio, con danno mai. Ora avvenne secondo quello che ci
lasciò scritto Benedetto Varchi, che alcuni giovani
fiorentini; ai quali più che il viver libero piacque la
servitù, si avvolgessero pel dominio e sotto nome di
commessarii del papa andassero commettendo male, e tra questi
annovera Agnellino Capponi, giovane di poco cervello e cattivo;
Giuliano Salviati, che il cervello avea nella lingua, ed uno dei
Buondelmonti chiamato lo Smariuolo. A costoro venne fatto di
ribellare gli uomini di Castel Fiorentino, e mostravano volersi
allargare, se il Ferruccio non vi avesse posto in buon tempo
rimedio; egli pertanto mosso segretamente da Empoli ed arrivato
presso al castello, dichiarò ai soldati ch'ei gli menava a
vincere, non a predare; badassero a non toccare le robe e le persone
dei cittadini, pena la testa: dette l'assalto e vinse e ridusse di
nuovo i castellani alla devozione del comune di Firenze. Qui fu che,
informato come due soldati avessero trasgredito gli ordini, ponendo
a sacco la casa di un cittadino, senza lasciarsi piegare dalle
sollecitazioni e dalle preghiere, comandò si appiccassero; ed
a coloro che gli facevano istanza per la vita dei colpevoli,
«Messeri», egli disse, «molti nelle storie della
mia patria lodano questo o quel fatto virtuosamente operato,
dacchè la Dio grazia di belle azioni non fu mai penuria nella
mia Fiorenza; ma io sopra tutti commendo e levo a cielo quello che
si racconta quando i Fiorentini guardarono a Pisa negli anni di
Cristo 1117, il quale è questo: i Pisani avevano apprestata
una grande armata di navi per andare al conquisto di Majolica, ma
essendo in quel medesimo tempo stata dai Lucchesi intimata loro la
guerra, non ardivano andare e stavano per ritirarsi dalla impresa;
pure vivendo essi di pessima voglia che tanto apparato avesse a
riuscire invano, mandarono ambasciatori ai Fiorentini, onde piacesse
loro custodire la città finchè non fossero ritornati
da cotesta guerra. I Fiorentini accettarono e spedirono uomini di
arme con ordine di porsi a campo due miglia fuori della
città; e perchè la fede di quel buon tempo antico
apparisse più chiara, sotto pena di sangue proibirono che
nessuno si attentasse entrare in città; uno solo non
ubbidì, entrò dentro e preso fu condannato alle
forche. I cittadini pisani supplicarono il perdono e non
l'ottennero; - allora vietarono sopra il terreno loro si facesse
morire; ma i Fiorentini secretamente e in nome del comune
comperarono un campo, e quivi per mantenere il decreto lo
giustiziarono; però tacete, levatemi dal mio cospetto e
lasciate che la giustizia cammini la sua via.»
Procedendo nella sua splendida carriera, venne in animo al Ferruccio
tentare cose maggiori, e però scrisse ai signori Dieci gli
mandassero alcuni cavalli; i quali, ormai conosciuta la virtù
dell'uomo, gli spedirono Iacopo Bichi e Amico Arsoli, che volentieri
vi andarono: con questi scorrendo Val di Pesa una volta sorprese e
condusse prigionieri cento cavallieri spagnuoli, un'altra volta
sessanta. Così fidato nel valore de' suoi, deliberò
riconquistare ai Fiorentini San Miniato al Tedesco. Gli Spagnuoli,
quando prima giunsero su quel di Firenze, presero cotesto castello
e, messovi dentro forte presidio, quinci tenevano infestato il
cammino da Pisa a Firenze. Il commessario, provveduto buon numero di
guastatori e artiglierie e zappe e scale e picconi e ordigni altri
di guerra, andò ad assaltarlo; le difese degli Spagnuoli,
tuttochè ferocissime non valsero; gli aiuti dei terrazzani
medesimi più poco giovarono; egli primo, il Ferruccio, salito
sopra la breccia, sostenne l'impeto del nemico e diede
abilità ai suoi di penetrare a forza e tagliare e pezzi
quanti si paravano loro dinanzi. - Presa la terra, rimaneva la
rôcca, dove si erano ricoverati non pochi nemici e quivi
facevano le viste di rinnovare la battaglia. Il Ferruccio,
insofferente di riposo, con la rotella al braccio, la spada in
mano, gridò a' suoi: «Finchè la bandiera
imperiale sventoli sulla roccia, noi non abbiamo anche vinto;
all'assalto! all'assalto!» E si precipita il primo. Erano
stanchi i suoi, erano sanguinosi, ma potevano senza infamia eterna
del nome loro lasciare solo nel pericolo il prode capitano? Il Bichi
e l'Arsoli, ammirando trasecolati come così virtuoso uomo di
guerra si mostrasse di côlta, accesi di nobile emulazione, non
consentirono parere da meno del valorosissimo commessario: -
appoggiarono pertanto le scale e con incredibile ardore si
avventuravano a quella aerea battaglia: molti caddero andando a
sfracellarsi le ossa sul terreno; i muri della rôcca in
più parti grondarono sangue: nondimanco l'ebbe a patti. Il
capitano spagnuolo preposto alla difesa di San Miniato sotto buona
scorta mandò prigione a Firenze. In tutti questi affronti la
fortuna aveva riparato il Ferruccio come di scudo invisibile; - non
un colpo, non una graffiatura l'offese; parve l'uomo di Dio. L'onore
delle donne, le sostanze dei cittadini rimasero intatti; modo di
guerra nuovo a' quei tempi, nei quali piacque ai soldati la vittoria
solo perchè fruttava la preda. Se i Fiorentini alla fama di
tante imprese avventurosamente condotte a fine si rallegrassero, non
è a dire; il Ferruccio lodavano, il suo nome volava per le
bocche di tutti, ai più illustri capitani
dell'antichità lo paragonavano, i partigiani del Frate lui
essere il promesso, lui Gedeone dicevano. La vita della Repubblica
di Firenze, la libertà dell'universa Italia era posta nel
palpito del cuore del Ferruccio.
Certa sera due uomini vennero a cercarlo in Empoli; il primo gli
recò una carta dei Dieci, ch'ei lesse attentamente e poi
nascose in seno; col secondo, il quale aveva sembianza di
esploratore, si ridusse in disparte a favellare sommesso, e dopo
lungo colloquio ordinò al Bichi, all'Arsoli, a Niccolò
di Morea detto Musacchino, e a Vico stessero pronti a mettersi in
cammino due ore prima del giorno; andassero a riposarsi per
mostrarsi alla dimane gagliardi; egli provvide a far mettere su le
carra copia di grani, vini, e buona quantità di salnitro;
vigilò al carico, esaminò se fossero le stanghe e le
ruote salde, ebbe riguardo a tutto; finalmente, eseguita la consueta
sua ronda, piegò il suo mantello e, postoselo sotto il capo a
guisa di guanciale, si stese a giacere sul nudo terreno.
All'erta, soldati, il capitano è pronto! - Si abbassa il
ponte levatoio, le compagnie passano e i carriaggi; - silenziosi
cominciarono il divisato cammino. Il Ferruccio cavalca al fianco di
Vico, e poichè ebbero proceduto buon tratto di via insieme,
«Vico», gli disse consegnandogli un volume di carte, -
«presenterete queste lettere alla Signoria e accompagnerete la
vettovaglia a Fiorenza.»
[Footnote 1:]
«Commissario», rispose Vico, - «ma perchè
non mandaste qualche capo di bestie? In Fiorenza devono patire
difetto di carne...»
«Sta di buon animo, Dio provvederà.»
«E a che quei tanti sacchi di nitro?»
«Figliuol mio, i nostri sono stremi di polveri, ed a me sembra
religione mandarli, onde si rimangono dal sacrilegio...»
«Sacrilegio?»
«Sì, ma di cui il giudice eterno un giorno
chiederà conto al pontefice, non a noi. I nostri lo vanno
cercando per gli avelli dei padri...»
Così è; in questo memorabile assedio le ossa dei
defunti alimentarono la guerra, ed al Ferruccio pareva sacrilegio.
Che avrebbe egli detto, se si fosse trovato nei tempi presenti a
vedere sconvolgere la terra e trarne l'ossa per imbianchire lo
zucchero? Gran parte di un filosofo adesso trangugiamo a colezione!
Veramente, tra l'essere adoperate le nostre reliquie in offesa a
nemici della patria o giovare alle delicature dei sardanapali, chi
non torrebbe di trovare sepoltura dentro un cannone? - Ma
dacchè ciò non sarà conteso, professiamoci
contenti di chiarire lo zucchero; troppo mi sentiva umiliato nel
pensiero che io, uomo, immagine di Dio (per quanto la Genesi mi
assicura), albergo d'intelligenza immortale, morto una volta, non
fossi più buono a nulla. A ciò provvedano chimici e
filosofi; - intendano diligentemente a far sì che, se l'uomo
non giunge a superare il bove marino, di cui i Camsciadali adattano
ogni spoglia ai proprii bisogni, possa un giorno stare a pari col
bove terrestre. Giova almeno sperarlo; i progressi quotidiani delle
scienze ce ne porgono quasi la sicurezza: - in questa fiducia
riprendo la storia.
Intanto i primi raggi del sole si affacciano su l'estremo orizzonte;
scorre per la campagna un fremito di allegrezza; esulta il creato.
Il Ferruccio ordinò alle milizie sostassero, ed egli primo,
piegato il ginocchio a terra all'apparire dell'opera più
stupenda della creazione, si chinò ad adorare il Creatore. Il
Bichi, l'Arsoli ed altri capitani, usi alle licenze del campo, - usi
in quei tempi di scisma a vedere ogni fede avvilita, pensavano
trasognare; pure indotti dall'esempio si curvarono anch'essi
tentando revocare su i labbri una preghiera antica; - non
ricordarono le parole, ma il cuore pregò, e quando si
rilevarono sentirono un conforto, come se quella voce dell'anima gli
avesse fatti degni di partecipare alla benedizione della natura. Il
Ferruccio, che se ne accorse, sorridendo dolcemente favellò:
«Compagni miei, in qual mai cosa lo spirito dell'uomo libero
differirebbe dallo schiavo, se la nostra parola non salisse
all'Eterno più accetta che quella dei nostri nemici?»
E proseguivano il cammino. - Il Ferruccio con la faccia abbassata
sul seno pareva che meditasse, invece porgeva attentissimo
l'orecchio per udire se da qualche parte movesse rumore; - qualche
volta tendeva lo sguardo e, contemplando tanta pace di cielo,
così soave bellezza di suolo, dove i borghi e i castelli
avrebbero dovuto riposarsi tranquilli come pargoli sul seno materno,
imprecava nel suo secreto alle cupidigie umane, le quali ogni
paradiso avrebbero virtù di mutare in inferno; tale altra
sostava a considerare le serie dei monti digradanti, i più
prossimi lieti di verde, i mezzani brulli ed oscuri, gli ultimi
bianchi di neve e confinanti col cielo, - immagine eloquentissima
della nostra vita con le promesse della giovanezza, le delusioni
della virilità e la impotenza degli estremi anni... ma dove
la vita caduca si rimane ecco incomincia uno spazio senza fine,
azzurro, misteriosamente magnifico - eterno. - Esulta! - diceva
all'anima sua: - prima di batter l'ale la farfalla è un
verme; forse a te fu imposta la spoglia umana prima di scintillare
stella pel firmamento; diventa tale sopra la terra che il cielo
t'invidii. - Così tornando alle cure della vita, ordina a
Vico continui il viaggio con le salmerie, agli altri rimangano. Or
sì, or no, secondochè il vento spira, si fa sentire il
suono dei tamburi, - si odono più distinti, - già le
prime insegne di un colonnello imperiale cominciano ad apparire.
«Viva Marzocco!» e con questo grido di guerra i
Ferrucciani rovinano addosso ai nemici. Il signor Pirro di
Stipicciano, soccorso il castello di Peccioli e slargato l'assedio
di cui lo teneva stretto Cecco Tosinghi commessario in Pisa, se ne
tornava trionfante con grossa torma di bestiame fatta predando
all'intorno il contado; trovato quell'intoppo, come colui che,
veramente essendo valoroso nulla contava nel mondo altrui, con
maniera brava esclamò: «Orsù, cacciamo col calco
dell'asta cotesti villani.» Tre volte menò all'assalto
i suoi, e tre furono aspramente ributtati; - all'ultimo i
Ferrucciani combattendo con impeto irresistibile sbarattarono le
ordinanze, le calpestarono e cominciarono così disperse a
manometterle senza pietà; lo stesso Pirro Colonna, mentre
più si affaticava spinto a rifascio insieme al cavallo
giù in una fossa piena di fango, dovè la vita alla
fede ch'ebbero i nostri nella morte di lui, imperciocchè lo
reputando affogato, ve lo lasciassero, onde egli, rilevatosi a
stento, fuggendo a piede pei campi, potè salvarsi: la grande
uccisione dei nemici, la poca perdita dei nostri, come fu a loro
causa di pianto, così recò ai Fiorentini infinita
allegrezza; caddero in podestà del Ferruccio i capitani
Staffa perugino e Spirito di Viterbo, oltre molti uomini di conto;
ritolse i bestiami e ogni altra preda. Allora si affrettò di
raggiungere Vico, di cui ormai non gli compariva più la
vista; ben giunse all'uopo: - siccome spesso avviene nelle guerre,
una mano di fuggitivi del colonnello del signor Pirro per poco non
gli rapivano il frutto della giornata; esaminando lo scarso numero
delle scorte alle salmerie, si rinfrancarono e da lontano gridarono
a Vico: «Rendetevi tosto, o vi tagliamo a pezzi; il vostro
capitano è stato rotto, sicchè riesce inutile
qualsivoglia resistenza.» Vico, fatti accostare i carri e
compostone quasi una barriera, allorchè giunsero vicino
rispose a buoni colpi di picca; combatteva gagliardo, - non gli
sembrava possibile avesse potuto rimanere vinto il Ferruccio, e
nondimeno questo dubbio gli s'insinuava ghiacciato nel cuore e
gl'intorpidiva le braccia. Il vento disperde con meno furia la
polvere su le vie di quello che il Ferruccio si facesse di quel
residuo di vinti; e la man porgendo a Vico gli disse:
«Dio ha provveduto: - tu menerai a Fiorenza copia di bovi - ed
altro ancora.»
Poi tacque continuando a cavalcare di fianco a Vico. Vico a sua
posta volentieri si compiaceva del silenzio, dacchè non si
trovasse distratto da volgere tutti i suoi pensieri ad Annalena: - E
che dirà al primo vedermi? - domandava a sè stesso.
Quali saranno le sue parole? di rampogna? - di amore? - e chi sa
quanto soffriva? - quanto piangeva? - quali notti vigili? - Ma
l'angiolo custode l'avrà consolata; - sì, certo, egli
le avrà susurrato negli orecchi: Cessa di tribolarti, - il
tuo Vico vive e ti ama...
Mentre così seco stesso favella di amore, Ferruccio, come se
la sua anima avesse tenuto arcano colloquio coll'anima di Vico, nel
modo col quale si riprende un ragionamento interrotto parlò:
«Di piccolo aiuto potrà esserle il padre vecchio; - in
città piena di confusione e di pericolo chi torrà cura
di lei? - Sovente la fame stringe Fiorenza, e forse adesso le manca
pane per sostentare la vita. Dacchè in città o in
contado conviene sopportare disagi, meglio è che ella gli
soffra al tuo fianco... fa dunque di condurre teco la tua Lena
quando tornerai.»
A Vico parve la mente preoccupata lo ingannasse; - il Ferruccio non
gli aveva mai fatto motto della sua donna, - il nome di Lena giammai
era stato profferito dai labbri di lui; volge il volto per ragionare
del suo amore col Ferruccio, - ma questi galoppando si era per buon
tratto di via allontanato.
«....Onde io, previe le debite cautele, concludo doversi
appiccare qualche pratica d'accordo.» - Così terminava
la sua orazione nella consulta segreta messer Zanobi Bartolini.
Ma Bernardo da Castiglione, siccome aveva in costume di rispondere
ogniqualvolta udiva favellare di pace, tutto stizzoso proruppe:
«No: - prima Fiorenza dentro il mio capello.»
«Se, come i Piagnoni, credete debbano scendere gli angioli a
tôrre la difesa di Fiorenza», - replica il Bartolino, -
«allora non ho altro da aggiungere, e potete intendervela con
l'anima di fra' Girolamo; se invece poi vogliamo governare secondo
gli argomenti della prudenza umana, in che poniamo la fiducia
nostra? Francia ci abbandona, e peggio ancora, perchè con le
sue ambagi persuase noi improvvidissimi a far capitale sopra un
aiuto che non ci ha mai dato e non ci voleva mai dare. Il
Cristianissimo con la sua fede di gentiluomo tradisce a un punto la
lealtà di cavaliere e la fede di onesto cittadino; - ingegno
vario e mutabile; - ingolfato nelle lussurie - a cui forse
darà fama la facile natura e lo sprecare la pecunia pubblica
tra artefici e poeti, siccome vedemmo per le medesime cagioni
acquistarla Augusto presso gli antichi. Dio guardi nella sua
misericordia la patria nostra dall'amicizia di Francia....»
Qui tacque, - e, fatto silenzio, il rumore delle artigliere nemiche
sparate del continuo contro i bastioni della città
aggiungevano spavento alle sinistre parole. L'oratore trasse partito
del caso, e quando gli parve tempo, butta là un'altra
proposizione non meno acconcia a invilire la fermezza dei padri di
quello che si fossero le palle a sfasciare le mura della sua patria.
«La fame ogni di più ci stringe nelle sue orribili
braccia; - vorremo aspettare che ci sforzi a divorare l'un
altro?»
E il rimbombo dei cannoni veniva quasi a commentare quei detti
terribili.
«I migliori capitani caddero spenti, - gli altri vivono
scorati, - del contado parte occupano i nemici, parte ci si ribella,
- Castel Fiorentino si è sottratto dalla devozione della
Repubblica....» Sospende di nuovo il discorso e dopo pausa non
breve continua: «Le campagne messe a ruba da Pino Colonna...,
Volterra ribellata.... Accordiamo....»
«No, prima Fiorenza dentro il mio cappello», ripete
Bernardo da Castiglione più caparbio che mai.
All'improvviso uno schiamazzo di plebe, un suono confuso di
contumelie e di scede turba la consulta: nessuno dei padri si muove
di seggio, così volendo la gravità dell'ufficio; -
trascorso alcuno spazio di tempo, ecco percuotono alle porte della
sala, sommesso sul principio e raro, - poi a colpi impetuosamente
replicati, sicchè fu mestieri aprire.
Una quantità di femmine genuflesse, atteggiate in sembianze
diverse di preghiera, ingombrano le stanze antecedenti; tra mezzo a
loro s'inoltra il Pieruccio, il quale, menandone una per la mano,
arditamente entra nella sala della consulta.
Attoniti pel nuovo spettacolo i padri non battono palpebra.
Pieruccio imperturbato, quando giunse davanti al banco intorno al
quale si stavano seduti, con voce ferma favellò:
«Cittadini, con pubblico bando ordinaste le femmine di rea
vita fossero cacciate dalla città. Cittadini, iniquamente
ordinaste; forse non bagna la pioggia, e non irrigidisce il freddo
le membra delle donne di trista vita? Se le punge il ferro, non
iscorre dalle loro vene il sangue? Se peccarono contro Dio, quale
hanno peccato contro la città? Dio le bandisce dalla patria
celeste, voi dalla patria terrena; ma voi non potrete riaprire loro
le porte, se col cuore contrito si presenteranno di nuovo, mentre
Dio nel suo più fiero sdegno non chiude le porte della
speranza mai. Queste donne, comunque abbiettissime elle sieno, hanno
affetti, - amano il luogo che le raccolse infanti, - amano i luoghi
dove peccarono, amano la chiesa dove credono avere un santo
mercè del quale un giorno possano acquistare il perdono del
Signore, - amano il cimitero che le ossa racchiude del padre e della
madre loro; quando si curvarono, prima di abbandonarla, ad
abbracciare la terra diletta, udirono uscire dalle fosse dove hanno
sepolti i parenti una parola che non giungeva loro alle orecchie, ma
che pure le pungeva nel cuore; quando tenevano la testa alta nel
sentiero della perdizione, - una parola di amore che le mutò
ad una vita nuova. Quando Gesù Cristo si accorse della
femmina che gli toccava la veste per ottenere il miracolo, Donna, le
disse, la tua fede ti ha salvato, - ed operò il miracolo.
Queste femmine abbracciarono la terra natale con ineffabile angoscia
e sentono non potersene dipartire; - perchè non le
salverà l'amore? Vedetele come stanno dolenti, timorose
perfino di sciogliere una preghiera... ciò avviene
perchè l'amore le ha rigenerate nel battesimo di virtù
e di pudore. Non le cacciate via; - esse non vi saranno di carico,
le membra sozze dal peccato purgheranno nelle opere, alle quali il
somiero non basta; - esse non assotiglieranno il vostro pane, -
andranno a procacciarsi l'alimento cogliendo erbe pei bastioni
traverso lo sfolgorare delle artiglierie nemiche; - quello che
ordinerete che facciano, faranno, - ma lasciatele morire nella terra
dei loro padri. Perdonate alle misere pei meriti di colei che
generò il nostro Salvatore, - pensate che una donna, - quando
gli uomini statuivano la morte di Cristo, gli unse i piedi di olio
odorifero e glieli terse con le chiome; - una donna, quando Cristo
cadeva sotto il peso della croce, e Giuda lo tradiva, e Pietro lo
rinnegava, e lo fuggivano i discepoli, asciugò il volto
divino col suo sudario; - quando Cristo abbassò gli occhi dal
patibolo sopra la terra, i suoi sguardi incontrarono una donna ai
piedi della croce, poi li volse al cielo inebbriato di amore e
spirò. - Non isbandite queste povere femmine; - così
come paiono obbrobriose, rammentatevi che pure appartengono alla
specie donde uscirono le vostre madri: La preghiera esaudita vola al
trono dell'Eterno e tramutata in angiolo lo dispone ad amare il
cortese che l'esaudiva; - preghiera respinta toglie la penna
all'angiolo dell'accusa e segna una colpa che peserà nella
bilancia di Cristo nel giorno del giudizio finale a danno dello
scortese che la respinse dal cuore.»
I labbri del Pieruccio si chiusero, e per la sala si sparse un
compianto sommesso, un fioco singhiozzare, quasi non ardissero le
misere schiudere il varco alla piena dell'affanno che le
travagliava. Il gonfaloniere, uomo di tenera indole, col dorso delle
mani si asciuga una lacrima pronta a sgorgargli su le guance e
mormora:
«Questo Pieruccio è un sant'uomo!»
Il Carduccio levò le mani al cielo ed esclamò:
«Io non so più che cosa possa chiamarsi grandezza, se
le parole di costui muovono da follia!»
Ma il Bartolino, mente impassibile, guardando con la coda degli
occhi lo strano spettacolo, mosse la bocca a certo suo ghigno di
disprezzo e con lenta favella:
«L'entusiasmo offende i corpi politici, come la infiammazione
i corpi umani; e poichè la scorgo scesa in tanto basso luogo,
- temo forte della cangrena.»
Ma coteste parole di dubbio e di scherno non ebbero efficacia su
l'animo dei padri: alla proposta segreta del gonfaloniere
assentivano volenterosi; i più lontani anche prima di udirla,
indovinando dai gesti, la confermavano. Il Bartolini anch'egli
sorridendo l'approva. Allora il gonfaloniere si alzò e,
levata la destra, con suono solenne proferisce il decreto:
«Femmine, la vostra preghiera è stata esaudita; andate
in pace e pentitevi.»
Il popolo, conosciuta la causa che menava Pieruccio in palazzo in
mezzo a coteste femmine, cambiato animo, apparecchia i gridi per
plaudirlo e le braccia per levarlo in trionfo; ma il profeta si
trafuga per una postierla che riusciva in Via della Ninna; il
popolo, deluso in questa sua aspettativa, accolse festoso le donne,
le quali si recarono alla cappella di Orsanmichele a ringraziare
Dio. Il cielo, che prima si mostrava procelloso, finite le orazioni
diventò limpido e sereno, quasi si rallegrasse di aver fatto
pace con quelle traviate creature.
Il tempo meglio opportuno a far vacillare un'anima nelle sue
risoluzioni e quello appunto in cui si trova spossata dallo sforzo
commesso a sostenerle. Ciò molto bene sapeva il Bartolino,
conoscitore solenne della umana natura; però, trascorsa
quella prima caldezza, rinnovò sue arti, tante ragioni espose
e con tanta evidenza, così sagaci argomenti dedusse, che in
poca ora ebbe vinto i meno ostinati, gittato il dubbio nel cuore dei
più fermi; onde, scorgendo adesso pei volti sbaldanziti, pei
labbri muti, la riportata vittoria, muta stile ed attende a
confermarla con impetuosa eloquenza. Un mazziere solleva la tenda -
e,
«Magnifici signori», egli dice, «un corriere
arrivato d'Empoli domanda a grande istanza di favellarvi...»
«Aspetti», interruppe il Bartolino, a cui doleva quel
nuovo impedimento, - «aspetti tanto che i padri abbiano
deliberato...»
«Anzi», insiste il mazziere, - «il corriere vi
prega che non consumiate più tempo a deliberare,
imperciocchè egli abbia parole a dirvi per le quali
cancellereste il partito...»
«Ascoltiamolo», ordinò il gonfaloniere Girolami.
Ed ecco Vico avanzarsi anelante, la persona di fango sordidata e di
sangue, consegnare le lettere del Ferruccio e non potere profferire
altre parole che queste:
«Leggete..., messeri..., trattanto io mi
riposerò...»
Il Girolami ruppe il suggello e, trascorrendo le carte, con voci
interrotte favella:
«La ribellione di Castel Fiorentino repressa: - il contado
sgombro: - San Miniato ripreso: - Empoli munito: - copia di
vettovaglia raccolta: - gli armati accresciuti; - qualunque impresa
non minore all'animo che gli viene fatto grandissimo dalla certezza
di salvare la patria.»
«Signore!» qui esclama messere Rafaello cadendo
prostrato ed ambe le mani levando al cielo, «gran
mercè; - tu senti pietà dei mali nostri e ci mandi
Sansone a percuotere i nuovi Filistei.»
«Aggiungete», disse Vico che aveva ripreso lena,
«che qua morendo abbiamo disfatto il colonnello del conte
Pirro Colonna, ritolta la preda, condotto in città carni,
farine, di ogni maniera vettovaglie e munizioni da guerra; - di
prigionieri è ingombro il cortile.»
Bernardo da Castiglione, oltremodo acceso, ammonisce il Bartolino
dicendo:
«Poc'anzi udimmo dal Pieruccio una stupenda sentenza; la donna
ebbe fede nel miracolo, ed il miracolo le fa concesso.»
«Benedetta la vostra bocca, messer Bernardo»,
replicò il Carduccio: «noi siamo come san Pietro; la
poca fede lo faceva annegare, la speranza gli indurò sotto le
acque quasi selci della Gonfolina.»
E qui si affollano intorno a Vico, la gravità consueta
dimenticano, chi una cosa gli domanda, chi l'altra; alle quali, come
meglio poteva, dava Vico risposta: - quindi lacrime e gridi di
esultanza e lodi e conferma di volere piuttosto morire che
arrendersi a patti; - in somma un giubilo da non potersi descrivere.
Il Bartolino si accorse quello esser tempo da raccogliere le vele
per timore che il vento non se le portasse; e poi anch'egli volle
veder meglio, dacchè, se il suo consiglio era per tornare
esiziale alla patria, a ciò s'induceva non mica per animo
pravo, sibbene per fallacia di calcolo e per presunzione di
affidarsi soverchiamente ai proprii concetti: certo mal comportava
quel governo troppo popolare, ma, ìnnanzi di vedere
Alessandro o Ippolito dei Medici a capo di Firenze, avrebbe tolto di
porvi un altro Michele Lando, o qualunque altro anco ciompo dei
tristi; se parteggiava per gli accordi, ciò faceva
perchè, rimanendo tuttavia in piedi Firenze, Clemente gli
avrebbe dettati con la penna, non con la spada; - e perchè
accettando spontanei i Medici, avrebbero governato civilmente e da
principi: all'opposto poi, se i Medici avessero dovuto affatto la
signoria alle armi straniere, sarebbero riusciti certi tiranni:
questo fu errore di messere Zanobi Bartolini.
La pratica adunata per la resa terminò coll'occuparsi a
disegnare modi e provvedimenti di resistenza; - il Carduccio
licenziava Vico con ordine di riposarsi e tornare all'ufficio dei
Dieci di libertà e pace alle due ore di notte.
Vico, sceso dal palazzo dei Signori, raggiunse il fante che gli
teneva il cavallo su la piazza dalla parte della dogana, e stava per
mettere il piede nella staffa, quando lì presso vennero a
passare due cittadini vestiti a lutto, uno dei quali diceva in suono
di angoscia:
«Non me ne darò mai pace....»
E l'altro consolando:
«Confortatevi, - noi siamo quasi tronchi di legni gettati
nell'Arno; - passa il tronco con le acque che lo menano; - la vita e
il tempo si sciolgono nella eternità....»
«Sì, - ma il frutto, prima di essere maturo, non
dovrebbe cadere.»
«Certo eglino erano il fiore della cavalleria... pur che
volete? Ora non possiamo far altro che lodare le virtù loro
ed imitarle....»
«Affrettiamo il passo, perchè temo forte che non
giungeremo a tempo per udire la predica del Foiano.»
Vico, spinto da curiosità, tolse il piede dalla staffa, e
ordinato al famiglio si recasse a casa, governasse i cavalli, e gli
alimenti che si era portato allestisse, si mise dietro ai due
cittadini, - li raggiunse a mezza piazza, e cortesemente salutatili,
domandò in grazia il nome dei cavalieri che per quello ne
aveva udito pareva fossero rimasti uccisi; - della sua ignoranza lo
tenesse appo loro scusato l'essere giunto poc'anzi da Empoli, dove
in pro della Repubblica si affaticava.
«O figliuolo mio», rispose quegli che sembrava in vista
più dolente, «hai da sapere come nella notte che il
signore Stefano fece la famosa incamiciata contra agli imperiali, il
bombardiere Giovanni Antonio, - lo conosci di persona?»
«Sibbene il conosco e l'amo, il nostro Lupo...»
«Quel desso, con l'altro suo compagno Nannone, e Michelangiolo
Buonarroti, quel cervel balzano che ora diserta la patria, ora torna
a cimentarsi ai più rischievoli incontri, in cima al
campanile di San Miniato conciarono in modo con le artiglierie il
campo, che il principe giurò volerlo abbattere ad ogni costo;
a questo fine pertanto egli piantò quattro grossi cannoni sul
bastione di Giramonte e per tre giorni continui attese a
sfolgorarlo, scaricando otto volte per ora. La muraglia è
forte; pure, come tu medesimo potrai vedere, le palle cominciano ad
ammaccarla, i cornicioni rimasero scantonati, - una palla
s'incastrò nel bel mezzo quasi testimonianza dei doni che
manda il papa alla sua patria. I tre ch'io ti ho detto se ne stavano
in cima tra quella gragnuola di palle, come se fossero rondini di
passo. Lupo, per maggior dispregio, composta una specie di mitra di
carta, la pose sotto alla bandiera della Repubblica; Nannone uomo
grosso, non potè frenarsi dal fare al nemico un atto di
vilipendio che per onestà si tace; tu pensa se l'ira
degl'imperiali crescesse! Ultimamente, essendo questa contesa venuta
in gara, i nemici così spessi adoppiarono i tiri, che due dei
loro cannoni si ruppero, - altri ne sostituivano, e la furia
inviperiva; allora, perchè ci era tanto baldanzosamente
venuto a prendere Fiorenza non pigliasse nè anco una delle
sue torri, Michelangiolo lo fasciò di balle di lana, le quali
appese a certe corde raccomandate in cima al cornicione sportavano
un braccio circa fuori della muraglia ed ammortivano il colpo;
durò, come ti dissi, tre giorni la batteria, con
inesprimibile contentezza dei soldati e dei cittadini, che si
conducevano a vederla in folla, quasi fosse la fiera; i moteggi, le
giullerie erano infinite; messere Salvestro Aldobrandini, quantunque
grave personaggio egli sia, compose un sonetto per uccellare il
papa, che comincia: - Povero campanile sventurato, - il quale non
senza il riso delle brigate scorreva per la bocca di tutti. La
impotente rabbia del principe contro il campanile ci confortava,
quasi presagio del fine della impresa. A Dio piacque mutare la
nostra gioia in pianto, ed ecco il modo in che accadde la bisogna.
Erano il signor Mario Orsino e il signor Giorgio Santa Croce ieri
dopo desinare nell'orto di San Miniato e quivi col Baglione
trattenevasi in varii ragionamenti e si godevano la festa: appena il
Baglione si era partito, i nemici di Giramonte avendo veduto mucchio
di gente, aggiustano una colubrina e la sparano, la palla, come
volle fortuna, percosse uno dei pilastri di mattoni presso il quale
i cavalieri si trattenevano; i frantumi con tanto impeto schizzarono
all'intorno che il signor Giorgio colpito nel capo rimase sul tiro
il signor Mario ferito in due lati poco più visse, ed oltre
molti altri malamente pesti ci cascarono spenti cinque soldati e tre
giovani di Fiorenza, fra i quali Averano Petrini, che sfracellato si
è morto stamattina. I corpi del Santa Croce e dell'Orsino
sono stati esposti tutto il giorno in Santa Maria del Fiore, e noi
andiamo a baciare loro anche una volta le mani prima che abbiano
sepoltura; se tu vuoi esserci compagno a questo ufficio, farai a un
punto opera pia e mostrerai riconoscenza a quei due valorosi, -
dacchè morirono per la nostra patria; - essi lasciano
inestimabile desiderio di sè.»
Entrarono nella cattedrale: - lugubre sempre, adesso appariva
più trista per le rasce nere di cui andavano tappezzatele
pareti; di tratto in tratto ricorrevano scritte a grossi caratteri
sentenze di morte; intorno alle colonne stavano appesi trofei di
guerra; - dappertutto squallore; - in mezzo al coro, diverso in
parte da quello che oggigiorno vediamo, s'innalzava uno imbasamento
sul quale conducevano due scale laterali; ai quattro canti, vestiti
di sopravveste sanguigna, vegliavano quattro capitani dei colonnelli
dei defunti, che ad ora ad ora si mutavano; sopra lo imbasamento era
la bara coperta di sciamito rosso, e quivi armati delle più
splendide loro armature giacevano i corpi del signor Mario e del
sigior Giorgio; intorno alla bara alternarono in drappelloni le tre
armi del comune di Firenze, giglio, croce e leone con le armi dei
cavalieri. I cadaveri avevano intrecciati tra loro le braccia, come
si costuma in socievole compagnia nella vita, volendo quasi
dimostrare, colui che in cotesto atto li compose, che nè
anche in morte si erano potuti abbandonare. Gli amici e i compagni
d'armi cingevano di triplice corona il feretro, tutti vestiti di
cotte sanguigne, colore di lutto adoperato dai maggiorenti a quei
tempi, mentre i fanti, scudieri e l'altra famiglia costumava panni
bruni e neri. Quanti erano quivi assembrati tenevano acceso un
torchietto di cera.
Frate Benedetto predicava i morti, e, siccome bene avvisava uno dei
cittadini, appena giunsero in tempo per ascoltarne le ultime parole:
la voce maestosa del Foiano empiva le vaste navate e lo costringeva
a ripetere i suoi detti coi loro echi:
«Forse», egli sclamava, «li piangeremo morti
perchè quelle mani invitte diventarono inerti? Forse
perchè quei cuori cessarono di battere? Vivono le anime
immortali e, vestite di armi che per colpi non si falsano,
combatteranno per noi; - armati di spade di fuoco si porranno
terribili cherubini a custodia di questo nostro paradiso terrestre;
nè già crediate, fratelli, che la mia mente immagini
vaneggiando cose vane; no: - le sante leggende assicurano non
avrebbero mai i crocesignati conseguito il conquisto della
Palestina, se per miracolo un esercito composto delle anime di tutti
i cavalier cristiani morti nella Giudea, vestito di bianca armatura,
con bianchi stendali, non fosse venuto ad aitare i vivi nelle
battaglie. - Non gli piangiamo defunti, perchè in
verità io vi affermo che vivono; - non può dirsi morto
chi lascia tanta parte di sè nel cuore e nella memoria
nostra, essi mutarono la patria terrena con la patria celeste, -
esultiamo, eglino volano in seno di Dio e la nostra città gli
raccomandano; - esultiamo! la libertà della Repubblica non
patisce pericolo or che la proteggono in cielo due cosifatti
avvocati.»
Il sole declinando ecco ora versa da uno degli occhi, praticati
intorno al tamburo della cupola, una colonna di luce la quale
cadendo giù diagonalmente investe i cadaveri dei due
cavalieri; - i raggi ripercossi pei ricami d'oro della soprasberga e
su per l'armatura brunita circondarono i defunti d'inusitato
splendore, - parvero avvolti dal capo alle piante del nimbo luminoso
col quale i pittori greci solevano rappresentare i loro santi: - gli
atomi splendidi brulicavano di su e di giù per la striscia
scintillante, quasi fossero sostanze intellettuali vaghe di
aggirarsi per quella via segnata tra il cielo e la terra. Il frate
entusiasta lasciò cadersi in ginocchio, ed atteggiato
all'estasi dei beati,
«Prosternatevi, prosternatevi», gridò, «o
voi a cui è conceduto assistere al trasporto di due anime
dalla terra al paradiso; ecco la scala apparsa a Giacob nei piani di
Betuel si rinnova, gli angioli mossero a raccogliere gli spiriti
fratelli, e in cima della scala tende loro le mani l'Eterno per
abbracciarli. O lingua mia trista, a che ti affatichi più
oltre a predicare coloro per onoranza dei quali il cielo manifesta
le sue glorie? o miei labbri mortali, assai più che a lodare
quei bene avventurosi, vi acquisterete merito presso Dio baciandone
le destre venerate...»
E si precipita dal pergamo, salisce su lo imbasamento del feretro; e
quivi come delirante con pianto irrefrenato si pone a baciare le
mani dei cavalieri defunti. Ogni uomo si sentì a forza
costretto di seguitarne l'esempio; sarebbero accorsi in folla se i
capitani di guardia non avessero posto ordine e modo a cotesta
subita voglia; consentivano pertanto un certo numero di persone
salisse, le quali, renduto quell'estremo ufficio ai valorosi,
scendevano dalla parte opposta. Vico salì con gli altri; e
quando fu per recarsi la mano dell'Orsino alla bocca senti
giù tra la folla un grido a stento represso; guardò
fisso e riconobbe Annalena; il pensiero di avere incontrato colei
che amava tanto adesso che stava per baciare quella mano rigida, -
morta, - gli lasciò un senso di freddo sul petto, come se un
rettile gli avesse sopra strisciato: - finse baciarla ma non la
toccò, e sentì irresistibile il bisogno di recarsi al
fianco della sua Annalena per obliare il sinistro presagio.
Le si fece vicino e non profferse parola; uscirono entrambi di
chiesa, e muti, con occhi dimessi, camminarono buon tratto di via.
Vico aveva un peso sul cuore che non poteva muovere; uno sgomento
interno lo sforzava al pianto, e nondimeno le lacrime gli rimanevano
rapprese nel cavo degli occhi; giunto che fu a mezzo del Ponte
Vecchio, le gambe gli negarono l'ufficio, e si accostò
sfinito ad una colonna sclamando:
«Muoio!»
«O Vergine, non mi rapite l'amor mio, - ho pianto tanto, - e
tanto ve lo raccomandai che prometteste rendermelo sano... no... voi
non me lo avete ricondotto dinanzi agli occhi per vederlo
morire.»
«Oh! io mi sento pieno di vita; - temeva tu avessi, o Lena,
cessato di amarmi; - insalutata io ti lasciava e sola,.. Tu dunque
mi ami?..»
«Se tu non fossi stato capace di preferire all'amore della
donna l'amore della patria, Annalena non ti avrebbe mai amato... e
da me ti allontanavi costretto...»
«Generosa donzella!» riprese Vico e le strinse la mano
con passione; poi continuarono il cammino leggieri e contenti,
alternando voci, sguardi e sorrisi, e così intenti nello
scambievole amore che stavano per passare, senza pure badarlo, da
canto al vecchio padre di Lena, il quale si era mosso loro incontro,
se questi non gli avesse richiamati dicendo:
«Figli miei, ricordatevi che i miei anni mi rendono tardo, -
io non posso mica tenere dietro ai vostri passi...»
«O padre mio, siete voi? Io non me n'ero accorta...»
«Ah!» soggiunse il vecchio sospirando, «la femmina
abbandonerà il padre e la madre per seguitare il suo
amante... tu già mi dimentichi, figlia mia... allora ditemi
requie, chè la mia giornata è finita.»
«Padre mio, non mi parlate così; - vedete, noi ci
affrettavamo alla volta di voi, - senza di voi non saremo
lieti.» E la fanciulla carezzevole gli si abbandonava sopra di
un braccio. Vico lo sosteneva dall'altro, e così andando
tante care cose egli gli disse che la fronte del vecchio ridivenne
serena, una goccia di sangue giovanile gl'imporporò le
guance, mutò più celeri i passi, ed ora volgendosi a
Vico, ora all'Annalena, li guardava, rideva, motteggiava festoso;
ponendo il piede su la soglia di casa, si fregò le mani,
contemplò il cielo e in questo modo espresse la interna sua
contentezza:
«Il cielo invita, tanto apparisce limpido e azzurro; - non
pertanto oggi non desidero morire... sento che adesso mi fa bene il
vivere.»
CAPITOLO DECIMOTTAVO
AMORE
Ti xe bella, li xe zovene,
Ti xe fresca come un fior.
Vien per tutti le so lagrime;
Ridi adesso e fa' l'amor.
Barcaruola veneziana.
Belle luci di amore, siete sublimi quando l'aere si distende sereno,
e l'orizzonte è azzurro. Vi saluterò io, fiori
immortali della eterna primavera dei cieli? O piuttosto ninfe divine
che venite a rinnovare i vostri cori per le volte eteree del
firmamento? - Perchè, se ai nostri occhi è dato
contemplare i vostri moti, non possiamo ancora deliziarci nei vostri
suoni? Ah! forse le nostre fibri destinate a morire mal potrebbero
sostenere le vibrazioni della lira celeste. Voi non usciste di mano
a Dio per guardare la terra; che cosa è ella mai questa
piccola massa di fango sanguinosa verso di voi tanto magnifiche,
tanto raggianti di proprio splendore? No, voi non guardate la terra,
altrimenti le vostre palpebre sarebbero adesso intenebrite nel
pianto, - e quel vostro limpido tremolio diventato vermiglio come il
pianeta di Marte. Poichè da voi emana luce, non lacrime, voi
non guardate la terra, nè vi cale guardarla; ella si avvolge
dentro un manto di nuvole: - ella sovente ai vostri castissimi raggi
maledice. Caino invocò perenni le ombre e l'abisso sopra il
suo capo fulminato. - Voi non morrete, figlie primogenite del
pensiero di Dio: nel giorno della distruzione egli vi
radunerà con amore e se ne comporrà un diadema per la
sua fronte immortale - e quando il suo spirito, come nei secoli
precedenti alla creazione si trasporterà sopra le acque, se
lo prenderà fastidio della sua immensa esistenza, si
guarderà nello specchio dell'oceano mostruoso e dirà:
Io mi son fatto un magnifico diadema! - Dove egli spegnesse anche
voi n'esulterebbe lo spirito degli abissi, come esultò il
giorno nel quale vide pullulare sopra la terra la pianta avvelenata
della tirannide.
Modeste come vergini, leggiadre come angioli, la mia anima vi
séguita, o stelle, nei vostri notturni pellegrinaggi con
sacro raccoglimento: voi avete potenza di sollevarla dalle miserie e
dalle infamie della vita; da voi in lei scende virtù che la
consola: - voi blandite i suoi mille dolori; - confortata da voi,
ella si affretta a compire il suo pellegrinaggio, quasi un esule
alla patria diletta.
Ah! se veramente composto di spirito e di corpo potrà il mio
spirito sciolto avvolgersi volando tra voi, - immergersi nei tesori
della luce e dell'armonia, allora fingete la morte con le sembianze
dell'Ebe di Canova, coronatela di rose, le ponete nella manca un
nappo gemmato, nella destra un vaso pieno di un liquore composto di
speranza e di obblio, - ambrosia divina che addormenta la vita.
Ma se, invano pietose sogguardando il mio sepolcro, quanto ora di me
rimase coperto della terra, se il mio occhio non potrà
vagheggiarvi, il mio labbro benedirvi, allora io mi contristo su la
vita che manca come di un amico che mi abbandona, di un fiore che mi
si appassisce tra le mani, - dell'amore che mi si disperse in un
sospiro per l'aria.
Egli dormiva, e la vergine gli vegliava a canto, e considerando
quella fronte pacata, la prese vaghezza di deporvi un bacio. Il
bacio ebbe virtù di svegliare Vico, che glielo rese tremante
su i labbri. Gli angioli poterono vedere cotesto atto senza velarsi
con l'ale la faccia, imperciocchè eglino si amino di pari
amore nel cielo. - La musa rivelò al poeta la natura
angelica: due anime le quali di amore continuo si sieno amate sopra
la terra lassù nel paradiso formano un angiolo.
Ed intrecciando le braccia i due giovani si recarono nel giardino,
dove la vergine gentile si deliziava nel contemplare le stelle, e
sovente veniva così richiedendo il fidato suo amico:
«Come hanno nome cotesti astri tanto splendidi
all'occhio?»
«Perchè fu donna che amò di forte amore, vide
Berenice della sua chioma ornato il firmamento e resa per quelle
stelle immortale...»
«E quell'altra così tremolante, così gioiosa,
come si chiama ella?»
«I nostri padri essendo pagani, immaginarono una dea della
bellezza ed a lei consecrarono la stella gioconda che tu vedi. Se
come leggiadra di forme, l'avessero finta casta nel cuore nessuno
dio avrebbe vinto in questa terra il culto di Venere. - Amore
è anima del mondo - amore è mente che governa il
creato...»
«Oh! amo le stelle anch'io, - e chi le creava, - e te.»
«Lena, deh! non oppormi Dio per rivale. Io non lo voglio:
può ella la creatura contendere col suo Creatore?. - Egli
flagella i fianchi della montagna con i suoi fulmini; egli col
soffio delle narici sconvolge l'oceano... come potrò io
dunque venire in paragone con lui, - io atomo di polvere nella mano
di un gigante?.
«Sta pur sicuro, Vico: perchè se quando mi volgo al
cielo o lo contemplo nella sua pompa di luce a te prepongo il
Creatore, allorchè poi rimiro la terra e vi scuopro il
delitto e la sventura, te... Dio mi perdoni)... te sopra Dio
riverisco. La tua vita è piccolo rio, e non pertanto le sue
acque scorsero sempre conforto agli uomini tuoi fratelli...»
«Veramente io il dolore non avrei creato nè la morte,
vedi, Annalena: quanto sta la colomba a batter l'ala, tanto duriamo
noi nella vita, e nondimeno così può contristarcela
l'affanno da farla parere eterna.»
«Oh! io conosco un asilo alla sventura, Vico, - il capo
riposando sopra il tuo seno... ma la morte... io l'odio.»
«Sì; orribile è la sua immagine; - la sua
presenza non vince l'aspettazione; - Le mani mi pongo sugli occhi
per non vederla schifosa su la faccia del giovine e del vecchio; -
però l'occhio del pensiero non si chiude, e quando mi figuro
il verme là dove un giorno deposi il bacio dell'amore, e la
putredine là dove libai un alito che mi rinfrescò
l'anima... io non so accordare l'idea del sommo bene col creatore
della morte.»
«E non pertanto io conosco uno stato peggiore assai della
morte.
«Oh! anch'io lo conosco, - e me lo insegnò la
paura.»
«Quale?»
«La vita senza te.»
«Voglia la Vergine santissima salvarmi da questo misero
stato!»
«Cristo mi tenga lontana tanta tribolazione!»
«Non la desidero a te, - ma vorrei non sopportarla io. - Gemi?
- Perchè gemi, Annalena? Forse ti offesi?»
«Oh! no; - mi piace gemere: tutto è mutato in me; -
rideva prima, ma dacchè ti conobbi, sospiro e sento quanta
maggiore dolcezza comprendano i gemiti che i sorrisi: - non gli
muove timore, - non desiderio o dolore, - pure io sento un fremito
interno che mi sforza a piangere, - ad amare gli uomini, gli
animali, le cose inanimate, perchè tu mi ami...; di' mi ami,
Ludovico?»
«E non te lo dissi le mille volte? e non lo vedi? e nol
sai?»
«Lo so, - ma poichè una esultanza ineffabile mi scende
al cuore nel sentire dalle tue labbra che mi ami, - così godo
ascoltare perpetuamente ripetuta questa vibrazione armoniosa; i' fo
come il fanciullo che mai non si stanca dal gridare un nome per
intenderlo ripetuto dall'eco della caverna.
«Ma il mio cuore non è mica una spelonca vuota, - il
grido che ti rimanda non è l'eco della tua voce, - egli
possiede voce propria e potente come la tua,»
«Sì, - nè io voglio cederti in amore - nè
desidero che tu me.... i nostri cuori sono...»
«Due creazioni gemelle di un medesimo pensiero...»
«Un suono mandato da due corde compagne. - Scambievolmente ci
tengono luogo di tutto, - di padre, - di madre, - dei parenti
più cari; - all'uopo ancora potrebbero tenerci luogo di
paradiso - e di patria.»
«Di paradiso forse... di patria no...», disse una voce
forte e profonda che spaventò i due amanti; e al tempo stesso
videro sorgere dalla terra uno spettro in atto minaccioso. Annalena
si stringe ai fianchi di Ludovico e glieli abbraccia trepidamente
esclamando:
«Un'ombra! - un'ombra!»
«Non sono ombra, carne ed ossa bensì, come siete voi, -
se non che voi sentite la vita amando, ed io per le percosse che
tutto giorno ricevo dai miei fratelli....»
«O Pieruccio, siete voi? O che fate accovacciato qui dentro al
giardino?»
«Pieruccio è nome di una miserabile cosa, di una
infelice cosa; non vi par egli, fanciulli? Dov'è il padre del
Pieruccio? - il figlio non conosce il padre, il padre il figlio... e
la madre? La madre, appena nato lo depose sopra un letto di pietra,
- non si voltò a guardarlo, non gli porse la mammella; s'ella
non lo spense, non la mosse amore per lui, ma paura di pena per
sè, imperciocchè lo aborrisse, come una testimonianza
vivente della sua vergogna. Il padre del Pieruccio abita nei cieli,
- nè la sua voce fioca giunge tanto alto, - e Dio non si
curva per ascoltarla. I gradini di Santa Croce furono i guanciali
che lo raccolsero infante, il cielo di gennaio gli fece una
copertura di neve, i cani ululando per la notte salutarono la sua
nascita. Ahi, povero Pieruccio! La natura mi benedisse sul capo col
pugno chiuso, onde la mia mente rimase ottenebrata, quasi un giorno
d'inverno breve e nebbioso. - E la sua vita? Oh la curiosa vita che
mena Pieruccio! - udite e ridete: - perchè egli non ha
cervello, gli uomini assicurano non appartenere alla specie umana, e
percotendolo lo cacciano fuori delle loro adunanze; - i cani per via
gli si avventano e il mordono, nè lo vogliono tra loro;
perchè non ha quattro gambe... O Dio, concedimi mente serena
e mutami anco in verme, se vuoi; - io meno la vita di Cristo
flagellato alla colonna; - cotesta e' fu una dolente giornata anco
per lui - seimila seicento sessantasei battiture! Io non pertanto
vinco Cristo in percosse... Adoratemi, io sono il re del
dolore...»
E così continuava fino all'alba, se Ludovico non lo
interrompeva domandando:
«Ma come qui a quest'ora, Pieruccio?»
E Pieruccio, stringendosi con ambe le mani la testa, quasi per
adunare i pensieri vaganti, rispose:
«Se la mente senza mia colpa mi si è guasta, il mio
cuore arde di carità per la patria: - io non ho padre che mi
abbia baciato, ma amo l'Arno che dissetò la mia gola
inaridita; - io non ho madre la quale mi abbia allattato, ma
sopratutto mi è caro il campanile di Giotto, che mi
riparò con la sua ombra nei giorni di estate. Fiorenza, tu
sei la madre mia: - potessi salvarti col mio sangue, non mi parrebbe
essere uscito in questo mondo invano! Un tuo figlio snaturato si
muove ai tuoi danni, e le genti lo venerano vicario di Dio su questa
terra: - io ti disseterei col mio sangue, e la gente mi chiama
pazzo!... non importa; - potessi almeno salvarti!»
E qui taciutosi alquanto, si volge improvviso ai due amanti
favellando con incredibile velocità:
«Non ve lo dissi un'altra volta? - amatevi, affrettatevi ad
amare; - che significhi essere amato non so, ma il mio cuore mi
rivelò essere l'amore di donna dolcezza di paradiso; -
vuotate di un sorso la coppa, - inebbriatevi - e morite,
perchè in verità i giorni ci sovrastano nei quali le
donne diranno: Beate le sterili, beate le mammelle che non hanno
allattato; - e le genti imprecheranno ai monti: - Cadeteci addosso;
- e ai colli: Copriteci. - Il tradimento c'inviluppa nelle sue
spire, come il serpente dell'Apocalisse.»
«Tradimento! in nome di Dio, di quali traditori favellate,
Pieruccio?»
«Dei traditori ch'io conosco, e qui verranno quando la campana
dei Priori avrà battuto mezza notte: io gli ho ascoltati,
essi favellano del papa, del Malatesta e dei maggiori cittadini di
Fiorenza; convenuti ormai nel tradimento, e' pare che non si
accordino sul prezzo e sul modo. Giudei che contendono per la veste
di Cristo prima di metterlo a morte; veggo i sembianti, - intendo le
parole, - e non so come punirli: se mostro la mia faccia al popolo,
m'inseguirà co' sassi: se mi presento alla Signoria, ella,
come pietosa, mi farà chiudere nell'ospedale, ed io chiuso mi
sento a morire, la poca luce del mio intelletto si spegne quando
manco di aria e di libertà; - solo non valgo, ch'essi sono
troppi e certamente troppo bene armati; - avrei potuto tamburarli, -
ed invero, quando la notte si fece nera, studiati i passi, ogni lume
schivando, io mi condussi spesse volte in Santa Fiore con la cedola
dell'accusa, - ma giunto alla colonna, mi venne meno il cuore.... Io
non so accusare di nascosto; - mi parrebbe di restare confuso con
quei tristi che uniscono all'accusa la mezza moneta per guadagnare
il quarto della multa. - Io mi pasco d'erba, e non mi sembra amara;
ma il pane comperato con quel prezzo mi saprebbe di sangue. -
Così vedo annegare la madre mia e non posso soccorrerla; se
alcuno mi avvisassi di chiamare in aiuto, mi darebbe di una mano sul
volto dicendo: - Pazzo, tu sogni. - Oh! venite e vedete se fu dolore
uguale al dolor mio.... La patria annega, - già sparisce, -
è sparita, sola una mano tende fuori delle acque, - il
vortice la travolge, - e tutto è finito.»
«Per amore di Dio, favellate, Pieruccio! Non mi celate nulla:
- amo la patria anch'io, - e per salvarla darei la vita.»
«Tu un giorno mi medicasti la testa; ora mi sani il cuore: -
io voglio abbracciarti; - non mi sprezzare, - non percotere, veh! il
povero Pieruccio, - bada a non mi avvilire, e la mia mente si
farà serena e t'insegnerà il modo di svegliare la
patria su l'orlo dell'abisso. Or dunque sappi avere Malatesta
Baglioni imbandito una mensa e chiamato a convito i maggiorenti
della terra; sai tu di che sono composte le vivande che pose loro
davanti? Delle membra della nostra patria. - Affrettati, va;
colà troverai un amico del tuo defunto genitore, Dante da
Castiglione: - quivi incontrerai ancora Ludovico Martelli: - di'
loro che qui vengano teco, e qui verranno; se possono condurre
compagnia, sarà meglio, altrimenti vengano soli, ma non
dimentichino l'arme: - va, - vola.»
«Ma se venissero», soggiunse Ludovico esitando, «e
non trovassero i congiurati..., non penserebbero che io mi fossi
fatto beffe di loro?» Pieruccio la dubbiezza del giovane
considerando e vedendo quanto poca fiducia le sue parole
inspirassero, sentì assalirsi da insopportabile fastidio per
la vita; onde volgendo i passi vicino ad un albero, mormorò:
«Io valgo meno di un cane morto»; e sollevati gli
sguardi aggiunse: «Albero, albero, prestami un ramo, io ti
darò un frutto... che tu non portasti fin ora... un tristo
frutto in verità... un'anima disperata dentro un corpo
disfatto....»
«Consolatevi... io vado...»
«Va dunque, - ma prima ascolta queste mie brevi parole. Sai tu
bene che voglia dir pazzo e che dir savio? Se pazzo è quegli
che sul pericolo, addormentandosi, confida a mano ignota la spada
che può ferirlo, le chiavi della città allo
straniero..., già non sono io il pazzo. - Tu ti pensavi savio
dubitando delle mie parole e ricusando l'andare; eppure fa il tuo
conto: andando, forse getterai i passi e avviserai la gente di un
pericolo vano: e per altra parte forse tu scoprirai un tradimento,
la patria pericolante sosterrai, a mille cittadini la roba salverai
e la vita. Or, se tu fossi savio, ti par egli che tra queste due
vicende si possa tentennare, tra la permanenza e l'andata? Prima di
credere pazzo il tuo fratello, pensaci due volte, e sappi che
sovente i consigli di coloro che il mondo reputa savi appaiono
miserabili all'alienato di mente: - adesso vola.»
E Ludovico senz'altre parole aggiungere si poneva tra le gambe la
via. Intanto il cielo aveva mutato aspetto, - l'aria si era fatta
uliginosa, e d'ora in ora l'agitava un vento soffocante come l'alito
del deserto; via trasvolando pel cammino abbandonato, Ludovico udiva
sibili spaventevoli, gemiti arcani d'ignoti addolorati.
All'improvviso quel vento con subita vicenda percuote le orecchie a
Ludovico di suoni e di canti; e quella vicenda, oltre all'essere
súbita, riusciva ancora incresciosa, imperciocchè quel
vento non sembrasse destinato a trasportare profumi e melodie,
sibbene guaio di gente diserta. In fondo del sentiero ecco si mostra
un palazzo di cui i contorni confondendosi col buio della notte,
sembrava infinito; - dalle aperte finestre scaturiva un chiarore
vermiglio, - come di sangue, - uguale a quello della mano posta
dinnanzi alla fiammella del cero; - traverso a quel chiarore
passavano e ripassavano rapidissimi corpi neri, di forma fantastica,
sicchè la mente superstiziosa lo avrebbe creduto una dimora
infernale, un pandemonio, un luogo di ritrovo dove le incantatrici
si fossero adunate a celebrare il sabbato nefando.
Ludovico entra nel palazzo, e mescolatosi con la turba dei servi,
gli riesce penetrare inatteso nella sala del convito.
L'animale che in prato pascola o in bosco non ti percuote mai di
ribrezzo, come la mandra degli uomini seduta intorno alla mensa,
dove, spento il naturale desiderio di cibo e di bevanda, attende a
divorare per istupidirsi, a bevere per inebbriarsi. La più
parte dei commensali di Malatesta erano ridotti in questo miserabile
stato, - con gli occhi rilucenti e smarriti; dipinti in volto di un
colore che sembra composto d'ira, di feccia di vino e di sangue; - i
muscoli tumidi e avviluppati per entro un vapore denso uscito dai
cibi, dall'alitare, dal trasudare dei corpi e dalla polvere, -
l'aureola del baccanale; - e secondo quello che bene osserva uno
scrittore, alla fisionomia degli inebbriati col perdere della
ragione venendo meno la somiglianza umana, ti sarebbe parso vedere
un convito di fiere. Chi moveva al vicino una domanda e, senza
attendere risposta, tre o quattro ne replicava; chi senza essere
interrogato rispondeva; - alcuno, immaginando favellare alla brigata
che lo ascoltasse, narrava i suoi viaggi, gli amori e le avventure a
cui niuno poneva mente; - l'altro, mugghiando con un bicchiere nel
pugno, Messeri, gridava, messeri! - e subito dopo barcollando
cadeva, e il vino rovesciandosegli per la faccia e pel seno,
singhiozzando aggiungeva: Ahi sono morto! mi hanno assassinato! - e
tutti dintorno esclamavano tra scomposti sghignazzamenti: Lo hanno
assassinato!
Fu veduto uno dei Corsini, reso per troppo bere come di pietra, di
repente prorompere, percuotere col pugno un vaso di cristallo,
mandarlo in minutissime scheggie, ferirsi in più parti la
mano, e con quanta lena gli poteva la gola si pose a gridare:
«Viva Fiorenza! - viva la Repubblica, o morte!» Poi la
destra accostandosi alla fronte, parve che in cotesto sforzo avesse
sudato sangue.
Nel tumulto mosso da quel grido uno degli Orlandini, scoprendo
l'animo suo con tanto studio fino a quel punto celato, rispondeva:
«Non importa alternare la scelta tra repubblica e morte;
avremo ambedue: almeno co' Medici non ci mancava pane.»
«E i traffici andavamo meglio. - Nè i balzelli erano
tanti. - E poichè abbiamo creato un re, potremmo ancora
accomodarci di un duca...»
«Chi re?»
«Cristo abbiamo eletto re.»
«Con venti fave contro. A patto che i Medici vadano subito in
paradiso, io darò la fava bianca per farle principi.»
Il Corsini, - quel desso del pugno percosso sul cristallo, -
levandosi in piedi col volto insanguinato, - le membra gigantesche
componendo in atto di lanciare una pietra nell'alto:
«Io non vo' principi; ho dato contro Cristo la fava nera nel
29, e non vo' principi. Sapete voi Cristo che è? - Cristo
è un proverbio.»
Comunque da tempi remotissimi tra gli acuti cervelli fiorentini non
mancassero speculatori arditi di contemplare il mondo vedovo di Dio,
siccome ci racconta il Boccaccio, descrivendoci Guido Cavalcanti
poeta sorpreso da Betto Brunelleschi tra gli avelli di Santa Croce a
meditare che Dio non fusse, pur tante profonde radici aveva poste
nel comune degli uomini la fede che valse cotesto grido a vincere la
potenza dei liquori, sospendere il trambusto e far sì che il
vicino, si appigliando pauroso al braccio del vicino, susurrasse
devotamente: Domine, aiutaci!
Indi a poco però le menti insanirono in ischiamazzi a mille
doppi maggiori, e tra quel vortice di gridi e di risa più
spesse ricorrevano le voci: «Domine, aiutaci! - Fave nere, -
fave bianche, - Cristo, - proverbio. - Vino, vino, coppiero.»
In questo punto Ludovico si affacciò sul limitare della
porta; e dato uno sguardo di compassione a cotesto spettacolo,
fissò gli occhi in Malatesta Baglioni seduto a capo della
tavola: impassibile, - bianco, rassomigliava alla statua del
commendatore Loiola convitato da Don Giovanni al suo ultimo festino;
- la sua fronte pallida ed ampia rivelava un gran pensiero, - e
poteva concepirlo grande di gloria, - ma invece lo scelse grande
d'infamia; - pure era grande; - le pupille moveva del continuo
inquiete da questo lato e da quello, parte per sospetto, parte come
cupido di prevedere ogni cosa: malgrado la barba la quale foltissima
gli scendeva dal mento, due rughe profonde agli angoli dei labbri lo
denotavano uomo inclinato al dileggio e allo scherno del proprio
simile, ed invero ora esultava contemplando cotesta scena di
vituperevole avvilimento, la quale, giustificandolo quasi dinanzi
alla propria coscienza, nella risoluzione di venderli a guisa di
mandra lo confermava; - la voce interna dell'anima, mercè la
prova espressa che libertà non potesse durare tra quei
corrotti, placava; nè il concetto disprezzo potendo o volendo
nascondere, intendeva a manifestamente straziarli, facendo imbandire
vivande apparecchiate con carni di asino.
Ma tra tanti commensali non senza rammarico notava ai lati estremi
della tavola due giovani seduti l'uno dirimpetto all'altro con le
tazze mezzo vuote davanti, tristi e pensosi; il volto tenevano
dimesso, accesi dalla vergogna, non dal vino, e quando uno di loro
alzava gli occhi, quelli dell'altro, come se sentissero la chiamata,
gli rispondevano con uno sguardo, poi insieme uniti li posavano su
gli occhi del Malatesta, che sempre incontravano vigilanti sopra di
loro.
In questo mentre, lo stravizzo, spossato dei suoi furori, tornava ad
acquetarsi; una scolta fu intesa accennare l'ora imminente col
grido: All'erta sto! - a cui, digradanti lontano, pel buio altre
voci rispondono: All'erta sto!
Pareva un'ora caduta dalla mano del tempo, come pietra staccata, di
vetta al monte, di roccia trabalzando in roccia, rotolasse nella
voragine della eternità..
E cessati i gridi, la campana dei Signori suonò mezza notte.
«È l'ora dell'amante che avvolto nel mantello striscia
lungo i muri a visitare la bella che lo aspetta palpitante alla
finestra.»
«È l'ora delle ombre degli uccisi a ghiado che
scoperchiano gli avelli per tormentare i loro assassini.»,
«È l'ora dei tradimenti!» esclamò uno dei
giovani seduti ai lati estremi della mensa, ch'era Dante da
Castiglione, e ricambiato uno sguardo con Ludovico Martelli,
entrambi di conserva lo avventarono contro Malatesta, come saette
scoccate.
E Malatesta, mal potendo sostenere quelle tremende guardature, per
celare il suo sgomento, afferrò un'ampia tazza che gli stava
davanti e, propinando alla libertà di Firenze, finse di bere
e si celò la faccia.
Vico, côlto il destro, percuote la spalla di Dante e gli
mormora all'orecchio:
«Levatevi tosto, che il tradimento si avvicina!»
Dante fece un segno a Ludovico Martelli, e in meno che non si dice
amen furono fuori della sala.
Quando Malatesta si levò la tazza del volto, erano spariti; -
si fregò gli occhi, quasi temesse d'illusione, ma non
più li rivide, e la sua anima amaramente incupiva, non
sapendo spiegare cotesta miracolosa disparizione.
«Dove sono eglino questi figli di malvage madri? Fo voto a
Dio...», entrando nel giardino e la mano ponendo sull'elsa
della spada, gridava Dante da Castiglione.
«Silenzio!» forte afferrandolo pel braccio gl'impone con
voce sinistra Pieruccio; «la volpe non giunse al covo; -
silenzio! chè lo schiamazzo disperde i colombi. Savio,
apprendi prudenza dal folle e taci. Ora imitatemi tutti», egli
proseguiva mettendosi a camminare carponi, «giù a
terra, con le mani camminate o co' piedi; - passate su le foglie e
non le piegate; strisciate su i fiori - e badate a non li
muovere..., le vostre narici non sentano l'alito della vostra
bocca..., cauti procedete come la vipera e veloci.»
I cavalieri, disdegnando cotesta umile positura, esitavano.
«Ah! ah!» ridendo prorompe Pieruccio, «imitare col
corpo una sola volta le bestie aborrite, - e per bene, - voi che
così sovente le imitate coll'animo per male. Tanto spaventa
di alcun poco imbrattare le mani voi che tanto strascinate nel fango
il vostro spirito immortale?»
«Che cosa abbiamo noi fatto!» esclamarono i cavalieri
battendosi la fronte, e si disponevano a partire.
Pieruccio col suo corpo giacente attraversando loro il cammino,
«No, voi non partirete», diceva, «se prima non
calpestate queste misere membra. Ah! messeri, per amore di Cristo e
dei suoi santi, non ve ne andate: - se vi ho offeso, ve ne domando
perdono; - oh! per carità perdonatemi; - io talvolta non so
bene quello che mi dica, - ma abbiatemi fede, perchè so molto
bene quello ch'io mi faccia; voi lo vedete, tutti i giorni per me si
rinnuova l'aceto e il fiele; - l'anima mia rigurgita di amarezza, e
mio malgrado ne sgorga una parola acerba... una parola...; o Dio
mio, che cosa ella è mai una parola? Io senza lagnarmi
sopporto strazii e percosse. Quando mostro la mia squallida faccia,
e i fanciulli mi prendono a sassi gridando: «Da' al pazzo, -
da' addosso al Pieruccio!» molto agevolmente io potrei a
qualcheduno di loro staccare il capo dal collo, e nondimeno mi
placo, perchè forse in quel fanciullo pose natura il germe
delle imprese onorate e la gloria della patria. La patria! lei
vuolsi ad ogni cosa preporre, anche alla salute dell'anima, come
lasciò nei suoi ricordi Neri Capponi, - un gran cittadino in
verità...»
Il Martelli volgeva le spalle per cercare altro cammino, il
Castiglione esitava, e Pieruccio afferrando il lembo della veste del
primo,
«Non ve ne andate», aggiungeva, «per quanto amore
portate a vostra madre che non vi lasciò su i gradini di
Santa Croce in una notte di gennaio. Messer Dante, ditegli che non
se ne vada. Messer Ludovico, io vi conosco caritatevole e benigno; -
ora ponete pur ch'io sia pazzo, - pensate pure essere questa mia
voglia follia, - ma la follia è infermità, e se per
mitigare un dolore pochi passi vi bastano, - che cosa potete far di
meno per un vostro fratello? - Ricuserete rendermi contento? -
Finalmente anch'io fui battezzato in San Giovanni, - anch'io ho una
vita che spendo in pro della patria, anch'io...»
«Basta, basta», interrompe Ludovico Martelli intenerito,
«va' innanzi, povero Pieruccio, io ti tengo dietro.»
«Ah! Dio vi benedica...»
Pur troppo Pieruccio aveva scoperto il vero: tre uomini stavano in
agguato, e sovente con empie imprecazioni dimostravano la impazienza
loro, come quelli che avevano lungamente aspettato invano.
Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava
ingrandendosi a mano a mano che si accostava.
Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli
messe contro la voce dicendo:
«Come ti chiami?»
«Mi chiamo Odio; - e tu?»
«Vendetta.»
«Vieni dunque, - sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli
spettri assisteranno ai nostri sponsali.»
«Quale è il dono delle nozze che mi dai?»
«Io ti darò un pugnale.»
«Il tuo pugnale è corto.»
«Basta per giungere al cuore dei nostri nemici.»
Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare
il colloquio, quando, non si potendo più frenare, il
Castiglione proruppe:
«Ahi! traditori, siete tutti morti.» E, balzato di un
salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.
Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli
spaventevoli.
CAPITOLO DECIMONONO
LA SFIDA
Mi dorria, se di morte altra perisse
Che di ferro - e del mio. -
Ricciarda, tragedia.
I congiurati, dalla sùbita apparizione soprafatti, dai forti
gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale
venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa.
Il Martelli coll'ardore del veltro si pose alla ventura dietro le
tracce di uno fra loro; - passarono il borgo di Santo Iacopo; con
uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto
alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell'Orto; -
non profferirono parola, imperciocchè la rapidità del
corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di
piè velocissimo, sicchè l'uno poneva l'orma dove
l'altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sentì rimanersi
svelti i capelli tra le dita dell'inseguente e dall'alito infiammato
di lui avvamparsi le guance; - continuano la fuga e la cacciata per
Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al
Ponte alla Carraia. - Qui lo inseguito avendo il buon tratto
precorso il suo persecutore, si fermò e, quasi vergognando
essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate
che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto
di difesa.
Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo
vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il
rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose
per buon rispetto a seguitarlo. Egli però travolto da
quell'impeto non se n'era accorto, e comecchè al paragone
dell'inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di
assai coloro che gli si erano fatti compagni.
Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo
e poi riprendere il corso; ma considerando come l'inseguente si
avvicinasse egli pure con la spada nuda, nè dalle sembianze
apparisse uomo da spacciarsi così ad un tratto, temè
perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde è che,
di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.
Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo più vicino,
immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso
per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo,
sicchè in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della
notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro
rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla
visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del
cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta
dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per
terrore dei tristi.
Così trasvolando pervennero in via di Parione; - colà
sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui
adesso non rimangono vestigi.
Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva
illuminata da luce solitaria, - quale si addice alla veglia di un
filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il
fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo.
Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle
notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo. Il fuggitivo
scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all'anelito sofferto
per la fatica si aggiunse un palpito più veemente del primo,
giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide nè
udì più nulla: - il fuggitivo era scomparso. Allora
Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa
rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, - un
lampo sinistro d'intelligenza gli strisciò sull'anima,
sentì riardergli un'ira feroce le viscere. Intanto
sopraggiungono i soldati, e Ludovico, narrando come gli fosse
sfuggito un traditore tramezzo cotesto laberinto di vie, li sperde
dietro le tracce di quello e torna prestamente sopra i suoi passi.
«A questa ora tu qui?»
«Salvami; - i miei nemici m'inseguono; - nascondimi,
Maria», proferì a stento Giovanni Bandini saltando
dietro la porticciuola segreta che gli aveva aperta Maria Benintendi
tutta tremante; e richiusala con molto diligenza salirono la scala,
la quale conduceva all'oratorio privato descritto nel corso della
nostra storia. Tosto che vi furono giunti, il Bandino, volgendo
intorno a sè gli occhi esterrefatti, domandò:
«Dove mi salvo?»
«Nelle mie braccia.»
«Le tue braccia!» rispose Giovanni impazientito.
«Ma sai tu chi m'insegue? Le tue braccia cadrebbero tagliate
come arbusti sotto il pennato del potatore; - nascondimi nei luoghi
più riposti della casa, se non vuoi che il vento mattutino
agiti domani il mio corpo sospeso per la gola alle finestre del
bargello.»
E trattanto s'intende rumore di chi va e di chi viene, uno
schiamazzo confuso di voci sempre crescenti; onde Maria, bianca di
paura, senza potere articolare parola, lo tolse per mano e lo
condusse dietro l'altare. Il Bandino, lasciandosi condurre,
mormorava:
«Grave delitto deve essere tradire la patria, dacchè mi
sconvolge l'anima tanta insolita paura!...» Il rumore a mano a
mano si allontana; s'illanguidiscono le voci; già non si ode
più nulla. - Allora Maria, di cui la vita fino a quel punto
era rimasta sospesa o piuttosto trasfusa nella facoltà
dell'udito, tornò alla volta del Bandini e disse:
«Esci, - è passato il pericolo; - però tu non
hai capello senza una stilla di angoscia; - le tue labbra sono
inaridite, - le fauci secche; - vieni, - bevi, - rinfrescati il
sangue. - Ora riposati, - calma l'anelito tremendo: - il cuore ti
palpita, come se stesse per iscoppiare; - posa il tuo capo qui su
questo origliere; - dormi, se puoi, - io veglierò per
te....»
E Giovanni Bandini, rifinito dalla fatica e dalle veementi
sensazioni, si abbandonò sopra un lettuccio, come voglioso di
dormire.
Maria, sedutagli al fianco con le mani incrociate su le ginocchia,
lo contemplava. Oh! quel volto compariva veramente terribile. Il
sopracciglio sempre teso, le labbra fisse in un sorriso amaro, e
quella fronte pareva un cielo tempestoso dove si avvolgono le nuvole
pregne dell'ira di Dio. La fiamma tremolante della lampada ora
illumina, ora lascia nel buio quella testa dolorosa, sicchè i
muscoli sembravano agitarsi convulsi nelle contorsioni dell'uomo
martoriato dalla tortura; - e poi suo malgrado un'ansia cavernosa
gli prorompeva dalle viscere, come se il cuore non bastasse a
contenere la piena dell'affanno.
Maria lo contemplava e mormorava tra sè:
«I suoi nemici! - E chi sono eglino i suoi nemici? Se i miei
parenti..., già da gran tempo i loro teschi gli han fatto
cammino alle piante. - Se i tuoi cittadini ti odiano, tu avrai
offeso la patria. E come l'hai tu offesa? - Due volte mi
favellò di patibolo - e di carnefice, - e perchè? - il
patibolo è fatto pei traditori.»
«Che stai susurrando costà? - Taci», la
interrompe Giovanni con voce di sdegno.
«O mio signore! - io favellava di te... pensava a cotesti tuoi
nemici....»
«Com'entri tu co' miei nemici? - Taci e lasciami
riposare.»
«Ma qui dentro per certo vi ha da essere errore: da tanto
tempo straniero alla tua terra, - sconosciuto da tutti, venuto sotto
spoglie mentite - per avventura - ti sospetterebbero -
traditore?»
«Traditore! - Chi mi ha detto traditore? Ei se ne
mente.»
«Plácati, - nessuno t'incolpa, nè tu sei
traditore. Un figlio non può calpestare la madre, - la mano
che lo benedisse recidere - il petto che lo allattava lacerare. Io
lessi un giorno di un re pagano il quale non decretò pena al
parricidio, lo riputando impossibile, - e così credo ancor
io. No, - tu non sei traditore. Però io fin qui non ti
domandava donde venisti e dove vai. Perchè giungi sempre di
notte e temi la luce del giorno? Perchè mi comparisci davanti
talvolta vestito da francescano, tal altra da domenicano, ora
vestito da cavaliere, ora da contadino? - Dimmi...»
«Sono io venuto forse a novellare teco stanotte? Che t'importa
chi io sia, donde venga o dove vada? Io ti amo, - che cosa desideri
di più? - Questo potrebbe bastarti. - Dove io ti apparissi
davanti capitano di eserciti, ricco di ogni bene della fortuna, tu
la mia gloria ameresti e la mia fortuna, non me Giovanni Bandini: se
invece ti portassi una testa posta a prezzo... non era donna Dalila
che tradì il forte di Giuda? - Ecco io ti porto davanti
Giovanni Bandini solo; - amalo o aborrilo, se meglio ti piace, ma
per cosa che sia in lui, non fuori di lui.»
«Se la gloria non è la testa, è l'aureola che la
circonda; - se la infamia non è la testa, è la scure
che la percuote: - io ti amai perchè ti seppi magnanimo; -
dove adesso ti conoscessi colpevole, il mio cuore non cesserebbe di
amarti, - ma vedi, si spezzerebbe contristato all'insopportabile
affanno.»
«Donna!» esclamò fieramente turbato il Bandino,
«e chi sei tu che ardisci dalla polvere, ove ti ponesti a
giacere, sollevarti a giudicare il tuo giudice? - Amami e taci; - e
rendi grazie al tuo Dio, ch'io Bandini, mi degni abbassare uno
sguardo sopra di te, pugno di cenere contaminata...
Un colpo percosso alla porticella dell'oratorio impose fine alle
sconce parole; e il Bandino, comecchè di animo vigorosissimo
si fosse, non potendo vincere lo strano terrore che gli si era
cacciato addosso, si lasciò cadere giù dal lettuccio
componendo la persona in atto di fuga.
«Ah! il mio giudice fugge», prorompe irridendo Maria; e
in quel punto un ghiaccio di rettile le strisciò sul seno.
«Giovanni, io non ho tremato di paura, - qualche volta di
compassione, - e per te. Va', - va', - nasconditi, ma pensa che dove
occhio umano non giunge molto bene vi penetra l'occhio di
Dio!»
Intanto nuovi colpi e di mano in mano più forti tempestavano
alla porticella; sicchè la Maria, timorosa non destassero il
vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:
«Ch'è questo, messeri?»
«Aprite in nome della Signoria.»
«Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione
appartiene a Niccolò Benintendi, che stanotte è dei
Buonuomini al palazzo; - però avete tolto sbaglio, è
lasciatemi in pace.»
«Se sola vi trovate o accompagnata, poco c'importa. Noi non
iscambiamo dimora; - aprite di queto od atterriamo la porta.»
Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l'uscio.
Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve
spazio anima e corpo gli aveva così stravolto la sua fiera
fortuna ch'egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a
riconoscersi per quello che fu; - gli occhi a mezzo chiusi e
invetriati, come quelli dell'etico; - i muscoli del volto
rigidamente immobili, - la bocca aperta, - i labbri cadenti, e d'ora
in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate;
spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra
pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.
E di vero Maria ne rimase spaventata: - col capo inclinato verso la
spalla, pallida, - quasi vinta dal fascino, si pose a salire la
scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo.
Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, - l'uno di
faccia all'altra, - nè si guardavano nè movevano
labbro....
Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilità, con
voce che gli usciva dai precordii incominciò a favellare.
Così da un idolo di pietra gli antichi sacerdoti merce loro
arti traevano oracoli vocali:
«Donna, io ti amai, e la memoria del passato affetto tanto
può in me ch'io voglio salvarti dal vituperio. A Dio non
piaccia che per Ludovico Martelli si debba vedere sozza di fango
quella fronte dov'egli avrebbe deposto con un un bacio - la vita. -
Donna! tu hai scherzato coll'anima mia; - per diletto delle tue ore
di fastidio tu prendesti il mio cuore e me lo hai infranto...
infranto per sempre... io ti perdono. Se il pentimento ti giovasse,
- io mi aprirei il seno, e tale ti offrirei spettacolo di
disperazione che ti farebbe piangere come san Pietro; e quando, come
a san Pietro, le lacrime ti avessero scavato il solco sopra le
guance, tu non crederesti di aver pianto abbastanza. Ma io qui non
venni per me..., qualunque sentiero che non conduca al sepolcro non
è più mio; - io vengo per la mia... per la tua patria,
Maria. Oh! se quando, nudrita che hai del tuo latte la cara
figliuoletta, ti assopisci al capezzale di lei e rimembri nei sogni
il gentile sorriso - e la carezza - e il bacio, all'improvviso desta
tu la vedessi lacerarti il seno e inebbriarsi del tuo sangue... tu
inorridiresti, non è vero, Maria? Ebbene, questa figlia
snaturata sei tu; la tua casa è fatta asilo dei traditori, -
il viver casto velo al parricidio. - la religione pretesto
all'empietà... Io non dico più nulla. - Svelami
traditore che hai riparato qua dentro....»
«Traditore?» esclama Maria dimostrando col gesto
altissimo sdegno, «dov'è il traditore?»
«Non te l'ho detto? - Qui.»
«Io non conosco traditori....»
«Donna, - che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di
fuori parete scialbata, bene sta: - ella è questa la vostra
parte, femmine! - ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso
e il pudore, ciò, per Dio, mi spaventa. Qual è il
verme velenoso che così subito guastò il bell'albero
della tua vita? A me non basta il cuore per contemplare l'abisso
della tua anima; - donna, mi fai paura. - Or dove ti nascondi
codardo dal fiato velenoso? Esci fuori... indarno speri fuggirmi...
io ti seguirò fin dentro l'inferno....»
Nessuno risponde. - Dopo lungo silenzio Ludovico continua:
«O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte
t'insidiano nell'ombra; quando la notte è più buia
essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone
sulla pubblica via!»
E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:
«Esci, codardo, - esci.»
Così favellando si aggirava per la stanza, quando
all'improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce
sembianza appoggiato su l'elsa della spada in atto di quiete
minacciosa: egli allora, gli si avventando addosso,
interrogò:
«Tu sei un traditore!...»
«Io sono Giovanni Bandini, - e sgombrami il passo.»
«Tu di qui non uscirai, se non che morto.»
«Figlio di madre infelice tu sei, se più oltre ti
ostini a impedirmi il cammino; - ritirati, - tu ne hai tempo ancora;
- io non voglio vederti; - sappi che di rado ho replicati i miei
colpi; - vattene... e vivi.»
«Anzi io rimango, - e muori; - domani il carnefice ti
scriverà l'epitafio su la cima della forca.»
«Tu l'hai voluto... il tuo sangue ricada sopra la tua
testa.»
Ed incrociano le spade.
Scarmigliata, palpitante, cieca di dolore, la troppa angosciosa
Maria precipita genuflessa fra mezzo quei due furibondi, e li
tenendo, quanto ella ha lunghe le braccia, discosti,
«Se d'ora in poi», ella grida, «volete fare
insanabili le ferite, tingete i vostri ferri nel mio sangue, - egli
è sangue esecrato, sangue di abbominazione e di orrore. - Te,
Giovanni, adorai quanto Dio, - e forse, ahi misera! sopra Dio; - la
vita io ti dava e la fama, e tu adesso calpesti il mio cuore come un
rettile velenoso: - te, Ludovico, amai di castissimo amore, - per
amico ti venerai e per fratello, - ed ecco quanto l'avvilimento
comprende di più atroce raccogli e infocato d'ira me lo
scagli sopra la fronte. Ah! voi siete due furie rabbiosamente
convenute a disperarmi. - Ohimè misera! Ogni piede che passa
mi calpesta, - ogni bocca mi dice villania.... In che cosa ha mai
misfatto la infelice Maria? Maledetta l'ora, maledetto sia il giorno
in che nacqui; - possa cadere dai secoli, - dimenticare il sole di
averlo illuminato; - io soccombo, ma, dall'abisso dove giaccio,
innalzo una voce di accusa contro il mio Creatore e gli dico: Tu non
sei giusto! - Fermatevi, v'impongo... io sono innocente; - nessuna
colpa è in me, tranne avere amato troppo ambidue voi,
quantunque di amore diverso. La fortuna volle travagliarmi con tutti
i dolori, e dopo avermi fatto piangere per morto costui, ora lo ha
tolto dal sepolcro per convertirlo in flagello alla mia anima
desolata; - fatemi pagare senza misura amaro questo affetto per voi,
- schiudete i balconi, via, - chiamate la gente a contemplare la mia
vergogna, e poichè a cagione di voi trassi giorni pieni di
lutto, non mi lasciate tranquilla nè anche l'ultima ora della
mia vita. La figlia mia fatta adulta, quando cercherà
dell'avello di sua madre, le risponderanno: Non lo sappiamo; - e
quando ella stessa diventata madre udrà favellare di me,
declinerà lo sguardo, - si farà in volto vermiglia - e
maledirà una madre la quale non seppe altro retaggio
lasciarle tranne quello del rossore: - io mi aspetto questo da voi;
- continuate, iniqui.»
E togliendo forze dal tremendo suo stato, si rilevò maestosa,
con ambe le mani si asciugò le lacrime, si compose i capelli
rabbuffati e stette con occhi aridi fitti nel pavimento a modo di
Niobe.
«Che importa a me la tua figlia? - Nata dallo spergiuro, io la
condanno dopo una vita di delitto ad una morte d'infamia. - E tu a
che pensi, giovane? - Se pensi al tuo fine immaturo, alla
fatalità che ti spinge sotto il mio ferro, - ritirati: - il
leone non inferocisce contro il cerbiatto: levamiti davanti, io
sento pietà di tua madre....»
«Mia madre! Ella mi aspetta nell'avello, e a me tarda
raggiungerla. Io penso che, infelice o colpevole, a me non si addica
aggravarmi su questa donna; penso che se tu sei gentiluomo,
abborrirai contristare la tua donna; - se invece uomo misleale e
villano, a me cavaliere corre l'obbligo d'impedirti; - penso che non
so bene distinguere, se lei più misera, o te scellerato; -
finalmente io penso la giusta punizione della tua colpa doverti
giugnere a giorno chiaro, in campo aperto, alla presenza degli
uomini, onde apprendano giustizia le genti e conoscano che al
traditore sovrasta immutabile una morte di ferro o di laccio. - Esci
dunque e vieni meco; - il mio odio ti salverà meglio della
tenerezza di una madre, - però che alla mia vita null'altro
fine rimanga, tranne quello di spegnere la tua.»
Il Bandino senza contrarre un muscolo del volto, cacciò
curiosamente il suo dentro lo sguardo del Martelli, e dopo lungo
alternare tra il sì e il no, con, profondo esame ponderate le
diverse vicende alle quali stava per esporsi, concluse dicendo:
«Andiamo.»
E nulla curando la donna, che stupida per la violenza delle
sensazioni si giace abbandonata sopra il lettuccio, si precipita
giù per la scala.
Ludovico Martelli, scorgendosi solo, si accosta alla Maria, le
rimuove i capelli dalla fronte, uno istante si ferma a contemplarla;
- una lacrima, suo malgrado, gli scende sopra la guancia, e forte
gemendo egli esclama:
«Povera Maria!»
Poi si pentì della sua compassione, - la condannò; -
si sarebbe, se lo avesse potuto, morso il cuore; - tempestando
raggiunge il Bandino.
Per diversi sentieri avvolgendosi, i luoghi frequentati schivando,
arrivano al ponte delle Grazie, - lo passano, - e mentre
avacciandosi si accostano al palazzo Serristori, dimora di Malatesta
Baglioni, intendono lo strepito di persona che gli segue con passi
accelerati; - non vi badano e sempre più rinforzano il
camminare; ma lo inseguente lo rinforza anch'esso a sua posta: onde
Ludovico per miglior partito si ferma e si volge a vedere chi fosse.
«Tu mi tradisci!» mormorò fra i denti il Bandino
stringendo il braccio a Ludovico, - e questi:
«Mi chiamo forse Bandini?»
E poi scorgendo la persona che teneva lor dietro essere un donzello
della Signoria, maravigliando incontrarlo in cotesto luogo a
quell'ora, deliberò farglisi accosto. Per buona ventura lo
riconobbe, come quello che, vivendo suo padre Giovanfrancesco e la
madre sua Maria Forinieri, era stato molto famigliare di casa; per
lo che prese a domesticamente interrogarlo:
«Che c'è egli, Landuccio?»
«O messer Vico! siete voi?»
«Si, sono, e vado al Monte per pregare il signore Stefano ad
essere contento che questo mio cugino, venuto ieri di Romagna, si
arruoli alla milizia cittadina.»
«Dio vi benedica, messere Vico, - voi siete un di quei pochi
in cui rivive la semenza santa del beato frate Ieronimo; - ma
ohimè! la più parte dei nostri, come predicava quella
bocca di paradiso, è fradicia di lussuria e d'avarizia. - In
questa notte si è veduto quanta abbominazione contenga in
sè la Gomorra dell'Arno, come diceva il frate.»
«Di' su, che cosa mai avvenne, Landuccio?
«O che mi fate da Albanese, messere? - E non sapete che per
poco il magnifico gonfaloniere non fece suonare a stormo? E non
sapete voi essersi scoperta una congiura per la quale domani notte
la terra doveva esser messa a fuoco e a sangue? Assicurano il
principe Orange entrato in città; aggiungono la parte del
Cappone aver fatto alleanza co' Palleschi e tutti d'accordo
intendersela con lui....»
«Io fremo....»
«Ed io pur fremo, perchè, Vico, vedete, io non ebbi mai
nè capo nè tempo a leggere su i libri che studiate voi
altri messeri, ma di per me stesso ho trovato, la più brutta
ribalderia di quante mai possa l'uomo commettere sta nel tradire la
patria; perchè, ho pensato tra me, più o meno tutti ti
fanno male nel mondo, o con intenzione, o involontariamente, ma la
patria non ti fa altro che bene; non è egli vero? La patria
ti dà in prima la vita e l'aria che respiri e la luce che
vedi e l'amore del padre e della madre; - quando sei uomo, l'amore
della tua donna e l'amore dei figli; quando il tuo dorso si curva,
l'amore dei nepoti; - nè morto ti abbandona, e nel suo seno
ti apparecchia requie.... Dunque la patria non ti fa mai male, e
nessun cristiano presuma salvarsi rendendo male per bene....»
«Di che vi sanno queste parole, Bandini?»
«Di castrone.»
E Landuccio continuava:
«Se un cittadino ha fatto torto, come ci entra la
città? Tu lo sfidi al duello, ed egli si prende la tua anima,
o tu la sua. Se il tuo avversario troppo potente non accettasse la
sfida, - ogni strada ha il suo canto; - spesso la notte buia buia si
cala sopra Fiorenza, - e mezzo palmo di ferro al suo corpo, una
brava messa alla sua anima, - la partita è saldata. Buona
notte, messer Vico, o piuttosto buon giorno, chè a mano a
mano deve spuntar l'alba, - io vado per la mia commessione.»
«Senti, Landuccio, e qual commessione è la tua?»
«Ella è cosa da nulla; e' mi fa mestieri portare questi
due polizzotti dei signori Dieci ai capitani delle porte di San
Miniato e San Nicolò, - che in sostanza comandano non si
lasci uscire fino a nuovo ordine anima viva dalla città sotto
pena di dieci tratti di corda ed anche maggiore secondo il
caso.»
«Dacchè la bisogna stringe, Duccio, dà qua il
polizzotto pel capitano di San Miniato, - tu corri a portar l'altro;
- tanto per me la è tutta strada.»
«Tenete... su voi si può contare.... Addio, messer
Vico.»
«A rivederci, Landuccio;» e, preso il foglio, parla
sommesso al Bandino: «Or via affrettati, se vuoi salvarti la
vita....»
Alla porta a San Miniato Ludovico, tratto in disparte il capitano,
ch'era dei suoi amici, gli dette la parola, e di leggieri ottenne
che, levata la saracinesca, lasciasse passare il Bandini, il quale
gli fece intendere essere un suo fante che si recava segretamente a
certe sue possessioni per cavare danaro colà sotterrato, per
impiegarlo in benefizio della città. Ludovico
accompagnò dieci passi forse il Bandino fuori della porta; -
quivi fermatosi parlò:
«Noi non possiamo fare altro cammino insieme. Rasentate le
mura a sinistra, - studiate il passo e sarete salvo. - Domani
manderò la sfida e chiederò il campo a messere lo
principe... badate di non ricusarla....»
«Tale e così insopportabile obbligo ho teco per avere
salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene,
se non che togliendoti la tua. Il mio odio diventò, pel tuo
benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio.»
NOTE
(a) "Leggesi scritto da Elinando che nel contado d'Universa fu un
povero uomo il quale era buono, e che temeva iddio, et era
carbonaio, e di quell'arte si vivea. E avendo accesa la fossa de
carboni una volta e stando la notte in una sua capannetta a guardia
dell'accesa fossa, sentì in su l'ora della mezza notte grandi
strida. Uscì fuori per vedere che fosse: e vide, venire verso
la fossa correndo e stridendo una femmina scapigliata e gnuda: e
dietro le venia uno cavaliere in su uno cavallo nero correndo, con
uno coltello ignudo in mano: e della bocca e degli occhi e del naso
del cavaliere e del cavallo uscia flamma di fuoco ardente. Giugnendo
la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre,
e nella fossa non ardiva gittarsi; ma correndo intorno alla fossa,
fu sopraggiunta dal cavaliere che dietro le correa: la quale traendo
guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente ferì per
lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E cadendo in
terra con molto spargimento di sangue, la riprese per l'insanguinati
capelli e gittolla nella fossa de' carboni ardenti, dove lasciandola
stare per alcuno spazio di tempo, tutto focosa e arsa la ritolse: e
ponendolasi davanti in sul collo del cavallo, correndo se
n'andò per la via donde era venuto." - Vedi Passavanti,
Specchio della vera penitenza, cap. II.
(b) In un manoscritto intitolato: Ambasceria di messer Baldassare
Carducci alla corte di Francia, ho trovato tre lettere di
Pierfilippo Pandolfini, dalle quali si recava apertamente qual fosse
il consiglio di Nicolò e della sua parte, che per la morte di
lui non cessò di avere seguito nella Repubblica: - poi
trattandosi di giudicarlo - "et anche certi Priori si condussero in
modo che non si potè ottenere che la cosa s'investigasse,
benchè ognuno abbia tocco con mano havere Nicolò
tenuta questa pratica con gl'imperiali, et PP. non per sapere i loro
progressi, ma per indurre una parte di quell'esercito alla volta di
Toscana per ridurre lo Stato in mano di pochi et suoi, de' quali lui
intendeva essere principe è capo..." e più sotto: "Ho
parlato con messer Antonio del Vecchio, oratore sanese, quale
partì due giorni sono, e diceva havere lui saputo le pratiche
che Nicolò teneva con il papa e con gl'imperiali, et
scusandolo di bontà, dice che non voleva distruggere lo
Stato, ma dalla partecipazione di quello escluderne tanta
moltitudine.» - Lettera di Pierfilippo Pandolfini a messer
Carducci Baldassare, del 26 aprile 1529.
CAPITOLO VENTESIMO
IL GUANTO
Il cavaliere era armato fuori che la mano
e la testa, e viene avanti al re con la sua
spada cinta. Egli saluta il re, anzi gli dice:
- Me a te mi manda il più valente uomo
che oggi viva, - e monsignore ti sfida.»
Tavola tonda, c. 54.
«Un araldo da Fiorenza domanda favellare al magnifico capitano
generale:» così parlò un maggiordomo entrando
con grande ossequio nella tenda dove il principe Orange stava
ridotto a parlamento co' più notabili del campo.
Filiberto senza punto scomporsi rispose:
«Si presenti.»
Indi a breve, standosi i circostanti attentissimi, comparve un
personaggio col quale abbiamo conoscenza antica, Bindo di Marco,
detto il Gorzerino, in sembianza di araldo; vestiva la cotta
dell'arme col giglio rosso sul petto, portava in mano un pennoncello
bianco sul quale era dipinto Marzocco, o vogliamo dire lione
incoronato; entrò con gentile baldanza, salutando con
bellissimo garbo a destra e a sinistra i baroni adunati sotto la
tenda del principe, non già per paura di oltraggio che gli
venisse fatto, siccome talvolta avveniva ai messaggeri che felloni e
misleali cavalieri giunsero perfino a seppellire vivi, ma
perchè egli fu quanto animoso, altrettanto cortese; e in
questo modo fattosi appresso al principe, gli consegnò una
carta piegata stretta da due nastri verdi in croce con tre suggelli:
- in mezzo il suggello della Signoria col nome di Cristo re della
Repubblica Fiorentina; da un lato quello del Castiglione, tre cani
bianchi in campo rosso; - dall'altro quelli del Martelli, grifo
rampante in campo rosso. Il principe, tolto il piego, accennato col
capo quasi per impetrare licenza, e poi non l'aspettando, secondo il
costume dei grandi signori, ruppe i suggelli e lesse:
«Al magnifico e strenuissimo signore Filiberto di Chalons,
principe di Orange, dell'esercito di S. M. Carlo V imperatore dei
Romani capitano generale, ecc. - Avvegnachè per debito di
onore e per altre cause più latamente spiegate nel nostro
cartello di sfida ci corra l'obbligo di provocare a duello Giovanni
di Pierantonio Bandini, gentiluomo fiorentino che di presente milita
nel vostro esercito sotto le mura di Fiorenza, facciamo istanzia
alla Magnificenzia Vostra onde ci conceda campo franco, libero e
sicuro a tutto transito, dove possiamo ognuno di noi con nostra
comitiva, cavalli, armi ed arnesi, venire, stare e con le armi
definire a piena oltranza la nostra querela per lo tempo che
parerà alla Magnificenzia Vostra dal dì che
sarà accettato dalla parte provocata, e partire liberamente;
che della grazia, ecc. - Anno Domini 1529, oggi 1 del mese di marzo.
- Ludovico di Giovanfrancesco Martelli, - Dante di Guido Catellini,
Dietisalvi, Filettieri da Castiglione, gentiluomi fiorentini.»
Terminata la lettura, il principe soggiunse:
«Io per me sono troppo amico del giuoco, onde impedirlo altrui
con giustizia; perchè finalmente, vedete, cavalieri, il
duello è proprio giuoco dove invece di ducati mettiamo per
posta la vita. Araldo, voi potete esibire il cartello.»
L'araldo inchinatosi umilmente domandava:
«Mi concederà la Magnificenzia Vostra ch'io faccia
chiamare il provocato pel campo a suono di tromba secondo le forme
prescritte dal codice della cavalleria?»
«Non importa; chiamatelo a voce sommessa, imperciocchè
io pensi non debba essere molto lontano, ed egli risponderà
certo alla vostra citazione.»
Allora l'araldo si recò sul limitare della tenda e ad alta
voce chiamò:
«Giovanni di messere Pierantonio Bandini...»
Appena proferite queste parole, rompendo con grande impeto il
cerchio delle persone affollate intorno l'araldo, a guisa di belva
inferocita si mostrò il Bandino e fremente per ogni membro
rispose:
«Chi mi vuole?»
L'araldo, guardatolo prima un cotal poco nel volto, si cavò
dal seno un'altra carta suggellata, e spiegatala con grande
solennità, lesse in suono fermo:
«Giovanni di Pierantonio Bandini, et in sua assenza a ogni et
qualunque altro gentiluomo fiorentino nobile che costì si
facesse o si fussi fatto bravo in parole in presenza
dell'illustrissimo principe d'Orange, o d'altri suoi soldati, con
haver detto, come c'è tornato all'orecchie, questa nostra
Ordinanza fiorentina esser una prospettiva et non da combattere, e
quella disprezzata vilmente; et si della nostra cara libertà
altre parole inhoneste, che speriamo farvele ridire con arme in
mano. Del che per dimostrare a ogni et qualunque persona quanto la
justizia di Dio sopra tutto stimiamo, et esso et la nostra cara
libertà et l'honor nostro, vi si fa intendere a tutti voi
altri giovani fiorentini et nobili come di sopra, che ciò
avessimo detto o pensassero di dirlo, tante volte quante hanno detto
e diranno, tante si mentono per la gola; et sono prima veri nemici
de Dio, per haverlo noi eletto per nostro re et principe; et di poi
traditori, per venir contro alla loro cara patria che gli ha
nutriti; et si nostri nemici. Del che per dimostrarvi, non solo con
le parole ma cogli effetti vogliamo ciò provarvi; vi si fa
intendere che Ludovico di Giovanfrancesco Martelli et Dante di Guido
da Castiglione, et si Dante et io che siamo due gentiluomini
vogliamo con tre di voi Fiorentini et nobili come di sopra, in tutto
ciò provarvi con l'arme in mano, et combattere noi dua con
tre di voi a corpo a corpo in campo franco et sicuro, con questo,
che la elettione dell'arme et del campo sia nostra; con patti
nientedimeno, se fra un'hora di oriuolo corrente, a pura mente da
stimarsi costì da detti Signori et valenti uomini di detto
campo, non ci acquisterete con l'arme in mano, o non ci caverete di
campo fra detto tempo, all'hora s'intenda la giustizia di Dio essere
dimostrata, et che tre di voi non habbino potuto superare noi dua,
et che voi tre siate nostro prigione, con farvi intendere colle
nostre acute armi vedere del sangue vostro la terra tinta speriamo.
Vi si dice imperò l'arme da difendersi sarauno queste, il
più duoi guanti di maglia per ciascuno, una roella o vero
targa, o vero brocchiere o mezza cappa a nostra elettione,
intendendosi sempre che a dette armi et cose da difendersi
sopradette possiamo lasciarle et pigliarle et aggiungervi in esse
quel tanto che a noi parrà. Et l'arme da offendere le
vogliamo tacere, per essere tre contro a duoi. Con di più
farvi intendere ch'il campo vogliamo sia 90 braccia per lunghezza;
et si per larghezza: con poter far una fossa o più che si
vegghino, et non cieca, che in modo che ogni picciol ronzino
combattendo a cavallo la possa saltare. Et sia una leccia o
più a uso di giostratore, o vero tela chiamata, d'altezza,
che qualunque di noi dua combattenti potrà, volendo, da per
sè salire da terra, et più piantarvi legni o simili
cose, che si vedranno senza fraude. E perchè non possiate
havere scusa nessuna di non combattere con non vi voler fidare in
dette nostre mura, sia vostra la elettion del campo, con farci haver
salvocondotto per 40 compagni, dua giorni innanzi al dì
deputato del nostro combattere, il qual s'intenda essere dopo la
ricevuta lettera 12 giorni; intendendosi sempre facciate fare detto
campo a larghezza et lunghezza di sopra datavi, et che noi possiamo
fare le dette fosse a leccie o tele come di sopra è detto.
Con patti ancora, che detto campo sia in lato, che i nostri
honorandi padri e cari fratelli, volendo, possino vedere dall'alte
nostre mura quanto sia, primma la giustizia di Dio, di poi la
virtù delle nostre arme; et per contrario vostre poltronerie
et braverie fatte in parole, non riuscibili con l'effetti. Et
perchè non possiate trovare scusa alcuna di non combattere,
con voler dire le soprannominate cose da farsi in detto campo et
l'hora dataci d'acquistarci, non intendessi o non volessi intendere:
vi si replica che noi dua con duoi di voi, non volendo combattere il
primo partito, et volendo combattere detta querela, liberamente vi
doniamo la elettione dell'armi et si del campo a uso di leale et
valente soldato a tutto transito, purchè il nostro combattere
sia fra 12 giorni dopo la presente lettera, et che il campo sia in
lato che i nostri padri e fratelli possino dall'alte mura vedere che
essendo voi venuti contro la nostra et vostra patria, siate nemici
prima di Dio, per haverlo eletto per nostro re, et di poi nostri, et
che non siate sufficienti a disprezzare la nostra cara
libertà et Ordinanza fiorentina, nè per alcunn modo
acquistarci con l'armi in mano co' dati vantaggi. Intendendosi per
ultimo, che se fra due giorni dopo la ricevuta lettera non harem da
voi risposta risoluta, non intendiamo essere obbligati a nessuno de'
duoi partiti dativi a sosentarvi con l'arme in mano alcuna querela
in alcun modo.»
E qui l'araldo lancia in atto di minaccia un guanto ai piedi del
Bandini, il quale rilevandolo da terra con la punta della spada,
sorridendo soggiunse:
«Araldo, in cortesia tu significherai a cotesto tuo Martelli
che, se fosse previdente quanto audace, avrebbe dovuto mandarmi
anche il compagno; imperciocchè io intenda usarli per buon
tempo ambidue, ed egli così mi avrebbe risparmiato la spesa
di comperarli nuovi.»
Don Diego Sermiento, battendo sopra la spalla a monsignore Ascalino,
gli mormorò nell'orecchio:
«Per santo Yago di Compostella, questa è risposta
sottile, fiorentina davvero!»
Intanto il Bandino continua:
«Costituito nella presenza vostra, onorandissimo principe e
con buona licenza di voi, io Giovanni Bandini, gentiluomo
fiorentino, dichiaro a te Ludovico Martelli che di quanto hai detto
o fatto dire, scritto o fatto scrivere direttamente, indirettamente,
espressamente o tacitamente sotto qualsivoglia forma di parole
generale o speciale, per qualunque modo o via e sotto qualsivoglia
pretesto o colore, tu hai mentito per la gola come ribaldo e
marrano; - accetto la sfida a condizione che due siamo ad
affrontarci per banda, e le nostre spade si aggiungano in campo
chiuso, finchè di alcuno fra noi morte ne segua senza
intermissione di battaglia, dovendo continuare anche di notte a lume
di torce. E le armi, comecchè per le leggi del duello ne
spetti al provocato la scelta, intendo che sieno uno stocco, una
manopola scempia di ferro da coprire la mano fino al corpo soltanto,
- in camicia e col capo scoperto...»
«Insolito acconciamento di guerra ci sembra cotesto»,
osservò don Diego Sermiento, «e più che a
cavalieri convenevole a scherani.»
«A scherani!» rispose con impeto Bettino Aldobrandi;
«io vo' che sappiate, messere lo Spagnuolo, avere questo modo
di recente adoperato il conte Guido Rangone con Ugo Pepoli, entrambi
fiore della italiana cavalleria.»
«Rispetto poi», soggiunse il Bandino,
«all'accompagnatura d'un cavaliere che voglia farmi da secondo
nel paragone delle armi, io mi raccomanderò alla
benignità vostra, cortesissimo principe, onde mi compiacciate
scermelo tra la bella corona di cavalieri che vi stanno qui
intorno.»
«Di gran cuore, Bandino. - Conte Londrone, piacerebbevi
siffatte incontro? Vorreste alle tante vostre aggiungere anche
questa bella gloria?»
Si ascolta uno strepito di armatura di ferro, si vede muovere un
passo ad una specie di colosso tedesco; - avea la faccia bianca come
cera, i capelli in parte canuti, in parte di un biondo acceso; la
pelle gli si informava dalle ossa, - senza rughe, - tranne due sole
agli angoli dei labbri ampi e scolorati; - su quella fronte liscia
pareva non vi si potesse reggere un pensiero e appena nato vi
sdrucciolasse via; - i suoi muscoli avevano partecipato del ferro di
cui ei li portava continuamente vestiti; - il cuore gli stava nel
seno come dentro un'arca di marmo; - se alcuno affetto vi sorgeva
per caso, tosto vi si posava sepolto a guisa di uomo morto dentro la
bara: - e nonpertanto, a dire il vero, il conte Lodrone era valente
e leal cavaliere.
«Principe», con volto impassibile rispose costui,
«i miei cento avi fino a Venefrido il Sassone dormono onorati
nei loro sepolcri di pietra: forse la ruggine dei secoli avrà
corroso i loro scudi di guerra, ma nè in vita nè in
morte mai la fama obbrobriosa ne offuscava lo splendidissimo
brunito. Io reputo infamia partecipare alla querela di un traditore;
per gran premio o per gran pena, io non vorrei combattere con
lui...»
«Conte Lodrone», interrompe il principe diventando
vermiglio, «quali parole sono elleno le vostre? In questo
modo, a sentir voi, quanti si trovano qui in campo Fiorentini
dovrebbero reputarsi traditori? Voi v'ingannate, conte; essi
combattono per i Medici, i quali sono, principi nati, per la grazia
di Dio, di Fiorenza. E voi stesso, conte, non combattete per
ritornarli nell'antico dominio?»
«Io combatto per Sua Maestà Carlo V mio signore»,
soggiunse il conte sollevando la mano verso la fronte in atto di
ossequio; «pel papa e per la sua famiglia, non che dare la
vita, rifiuterei abbassarmi a raccattarli cascati in terra. Nissuno
fin qui ebbe i Medici in conto di principi. Quando mai ottennero il
diploma imperiale d'investitura? Invece ebbe la città
privilegio di franchigia per concessione di Otto imperatore. Se
però Sua Maestà l'imperatore Carlo, per fellonia o per
misfatto altro qualunque, intende oggi revocare l'antico privilegio,
ben lo può fare; non già i Medici, stati sempre
semplici cittadini e vassalli dell'impero...»
«Basta, conte», interrompeva l'Orange cotesto importuno,
«basta; - scerremo qualche altro più voglioso.»
«Se basta a voi, non basta a me; e mi conviene spiegare intera
la mia ragione, onde non si creda che per codardia mi trattenga
dall'abbracciare una impresa onorata.»
«Di ciò non fa mestieri, conte: - tutti questi
cavalieri conoscono le alte vostre prodezze...»
«No, - e' mi è forza parlare...»
«Ed io vi comando tacere...»
«Mi duole, principe, non vi potere obbedire per debito di
cavalleria: - rispetto all'utile, non è permesso a privato
barone imprender battaglia contro alla patria o a principi suoi,
pretestando il vantaggio della patria o del principe,
imperocchè, messo in balia pella sua discrezione il giudizio
di siffatto vantaggio, non si potrebbe mai riprendere di fellonia.
Ed in vero Goetz di Berlichingen dalla Mano di Ferro si
acquistò fama di misleale, comecchè contro lo
imperatore Massimiliano si armasse in pro dei diritti dell'impero; -
quindi è che deva reputarsi traditore chiunque porta le armi
contro la sua patria o contro il suo principe...»
«Conte!... per Dio!...»
«Lasciatemi finire, principe; più poche parole mi
avanzano; - ora un simile fatto costituendo il delitto di lesa
maestà, il quale, sì pei placiti dell'impero, come per
le leggi dei Longobardi, le ordinanze del 1306 di Filippo il Bello,
re di Francia e di ogni altro reame della cristianità, forma
materia di querela combattevole in primo capo, così i
Fiorentini...»
«Di grazia, conte, cessate.»
«Così i Fiorentini militanti nel nostro campo ben sono,
a senso mio, provocati a tenzone, ed a me sembra infamia per
qualunque cavaliere onorato prender parte a simile impresa.»
E l'onesto Tedesco aveva ragione.
Pronunziata dal valente cavaliere la sua sentenza, rimase immobile
quasi macchina armonica che abbia conclusa la suonata.
Il principe di Orange, turbato in vista, si volse a Pierluigi
Farnese e,
«A voi», gli disse, «Pierluigi, che non andate pel
sottile, piacerà di abbracciare la bella impresa.»
«Troppo mi è superiore il conte di Lodrone
nell'intendimento di quanto a perfetto cavaliere si convenga, ond'io
presuma avere nella presente controversia giudizio diverso dal
suo.»
«Per la morte di Dio! se alcuno mi avesse sostenuto che i miei
baroni non vorrebbero accettare questa impresa, lo avrei smentito
per la gola; - mi sono ingannato; - il fiore della cavalleria
è spento qui nel mio campo. Ora mi rivolgo a voi, cavalieri
spagnuoli, onore e lume della moderna milizia, affinchè
occupiate la lizza che altri vi lascia libera. Diego di Sermiento,
vorreste voi esser compagno di questo gentiluomo fiorentino?»
Don Diego, scotendo il capo superbamente come il cavallo andaluso al
suono della tromba, proferisce queste orgogliose parole:
«Nel 1525 Carlo contestabile di Borbone, con grande
accompagnatura di uomini d'arme, si recò nella buona
città di Toledo, dove allora stanziava la corte, a visitare
la Sacra Maestà dell'imperatore e re Carlo V, nostro signore
e padrone. Ora avvenne che, trovandosi, per la frequenza
straordinaria di principi e ambasciatori, ingombrati tutti i luoghi
appartenenti alla corona, Sua Maestà si degnasse pregare
l'onorato idalgo il marchese di Villena a ricettare il contestabile
nel suo palazzo. Al quale invito il Villena rispose: Volentieri,
purchè fin d'ora la Sacra Maestà Vostra mi conceda
privilegio di rompere una legge. - Qual legge? domandò Sua
Maestà, turbato la sua preghiera si ponesse a patto. - La
legge, disse il marchese, - che ereditammo dai Romani, di non
deturpare di rovine la città. E Sua Maestà, non
intendendo la ragione di cotesta istanza e d'altronde conoscendo il
cavaliero uomo savio e discreto, se ne stava tutto maravigliato;
alla fine riprese: Sieti concesso, purchè ti piaccia
manifestarcene la causa. - Perchè, con molto terribile voce
grida il cavaliere, - perchè appena ne sia uscito il Borbone,
io lo darò alle fiamme come palazzo contaminato d'infamia,
indegno di essere abitato più oltre da uomini d'onore.»
Udita la pungente risposta, il principe si rimase con ambe le mani
appoggiate su le teste di grifo le quali terminavano i bracciuoli
della sua sedia, - col corpo sporto in avanti - a bocca aperta, -
intento nella faccia del marchese di Villafranca, come persona che
cerca e non trova nella sua mente un'idea che valga per contrapporsi
a quel duro racconto.
E il Bandino di baldanzoso adesso si stava spossato sotto un peso
d'insopportabile infamia; era diventato colore di cenere; gli occhi
teneva fitti alla terra ansioso di vedere se si fendesse per
nascondervisi dentro; - pareva l'adultera del Vangelo piena di
vergogna e di paura di esser colta dalla prima pietra che incominci
la sua lapidazione. Nè sacerdote mai nè tiranno
seppero; con la feroce loro immaginazione inventare tormenti, non
che uguali, secondi a quelli che adesso soffre il Bandini; e ben gli
stanno, - imperciocchè gli occhi degli uomini non si
alzerebbero più al cielo, dove non fosse abitato da un Dio
che rugge terribile intorno all'anima dei traditori, della patria.
Militava in campo certo giovanotto di egregie forme del corpo,
chiamato Bellino Aldobrandi, di cui riferimmo poc'anzi una audace
risposta; comunque appena gli spuntasse la barba, egli era di membra
validissimo ed esercitato a tutto ciò che conviene a compito
cavaliere. Cecchino del Piffero, fratello di Benvenuto Cellini,
così chiamato per essere il suo genitore pifferaio della
Signoria, caporale d'inestimabile valore nelle Bande Nere, che poi
fu ammazzato in Banchi dalla famiglia del Bargello mentre con troppo
furore e poca prudenza voleva combattere con tutti, avendo posto un
grande amore addosso all'Aldobrandi, gli aveva insegnato a non
conoscere paura ed a trattare maravigliosamente ogni maniera d'arme.
Il volto di lui presentava la perfezione dei contorni delle statue
greche; i suoi sguardi aquilini rivelavano un'anima capace di
profonde passioni e di alti concepimenti, - orgoglio e speranza
della patria, dov'egli avesse conosciuta una patria; - ma egli non
la conosceva: - condotto da fanciullo a Roma, colà lo educava
uno zio paterno accomodato in corte di papa Clemente; però
tutti i suoi palpiti erano pei Medici; nè per anche aveva
potuto il tempo ammaestrarlo nella scuola della esperienza; -
spensierato e animoso correva alle battaglie come ad un convito; -
di aria ebbro e di luce, godeva trasvolare pei campi aperti, mandare
baleni dalla brunita armatura; il giovane seno gli esultava di
orgoglio quando scorrendo sopra il suo corsiero turco si udiva
susurrare d'intorno: Per nostra donna del Pilastro, egli è
bello come san Giorgio! - Nella mischia si avventava impetuoso,
gridava, menava terribili colpi, non mosso da voglia di sangue, non
da odio della umana natura, ma piuttosto da giovanile ferocia, non
altrimenti che se gli uomini fossero belve destinate a caccia reale.
Però sovente riducendosi verso sera al campo dopo di aver
vagato lontano per la intera giornata, appena asceso il rovescio dei
monti che riguardano Firenze, si lasciava andare giù da
cavallo, e traendoselo dietro per le briglie attorte al braccio,
contemplava lo spettacolo che si offeriva al suo sguardo: - sopra un
cielo di fuoco si dileguavano i contorni delle superbe fabbriche di
Firenze; - la luce che manca si trattiene a brillare un momento su
la cima degli edifizii, come la vita si restringe al cuore innanzi
di cessare, - poi si estingue; - allora la squilla diffonde per
l'aria un suono lugubre, quasi Geremia che lamenti la caduta
città, ed empie il cuore di compassione e di spavento. In
quel punto un fremito interno agitava Bettino, e, col pensiero
percorrendo l'andata sua vita, rammentava aver sentito una simile
cura certo giorno che sul crocicchio di due strade contemplò
una giovane romana genuflessa davanti la immagine della Madre di
Dio, ed accostandosi a lei la udì supplicare di pace per
l'anima della defunta sua genitrice; - e certo altro nel quale un
fanciullo lo richiese di un po' di elemosina per un vecchio soldato
privo del ben della luce seduto sopra la pubblica via; - il misero
logorò la vita non per l'Italia, ma per i suoi tiranni, -
colpa più dei tempi che sua; - ed i tiranni, quando egli
diventò cieco, toltegli le armi, lo abbandonarono mendico a
tapinare su la pubblica via. - Una voce segreta lo ammoniva: patria
non poter essere un uomo, sibbene un paese, una terra, una
comunità di uomini, nè dovere in qualunque caso un
cittadino muovere le armi contro la patria che lo ha cacciato fuori
dal suo seno. - Imperciocchè o egli ne fu bandito a ragione,
ed allora ha da sopportare con animo pacato il suo danno e meritarsi
di venire un giorno perdonato; - o l'offesero a torto, e allora
soffra, sia grande e sappia, perduta la patria, la cosa a
desiderarsi maggiore essere la coscienza pura; meglio vale sventura
con innocenza che fortuna con delitto. Avrà il cielo per
l'uomo a torto infelice conforti divini; dappertutto vedrà,
come se fosse centro del firmamento, curvarglisi intorno l'emisfero,
scintillare le stelle, - dappertutto la madre terra
appresterà alle sue ossa travagliate pace. Quindi pensava, un
cittadino rientrato a forza in patria, non potervi più vivere
se non che da tiranno, - il suo cammino procedere sul capo dei suoi
fratelli. I Medici, ora sì umili, vedeva inferocire
all'improvviso a modo di serpe esposto al sole, - gli odiava in quei
momenti, - non sapeva risolversi a raggiungere il campo; gli occhi
bramosi lanciava intorno di sè aspettando un santo eremita
che venisse a consigliarlo; - intanto si trovava prossimo al campo,
- l'esempio dei molti fuorusciti mescolati nell'esercito imperiale
tra i quali si distinguevano Caroccio Strozzi, Bettino Cavalcanti,
Sandro Catanzi, Giammoro da Dicomano, il Rosa da Vicchio, il Morna e
il Pignatta amicissimi suoi, - e la costumanza antica tornava a
vincerlo, - una forza fatale lo avviluppava di nuovo nella sua
vertigine; la patria migliore del mondo tornava a sembrargli la
groppa di un destriero che corre.
Bettino, alla miseria di Giovanni compassionando, non pensò
se l'avesse meritata, non istette a pensare s'ella fosse un
principio, comecchè terribile, della pena serbata dalla
giustizia divina ai traditori; - vide un uomo oppresso di obbrobrio
e senti bisogno di porgergli la mano soccorrevole.
E non pertanto esitando, come colui che modestissimo era, si
accostò su i piè leggiero al Bandino e gli
susurrò nell'orecchio:
«Accetterestemi voi per compagno alla impresa?»
Avete mai letto nella Genesi la storia pietosa di Agar, quando nel
deserto di Bersabea, vinta dalla sete, gitta il figliuolo suo sotto
un arbuscello, recandosi un tratto di arco lontana per non vederlo
morire? - All'improvviso le apparisce l'angelo consolatore e le
addita la fontana. - Tale apparve il Bandino all'offerta generosa
dell'Aldobrandi; - lo guardò in faccia, - rimase alquanto
sospeso, - poi gli gettò impetuoso le mani al collo e tanto
forte lo strinse che per lungo tempo rimasero nella pelle delicata
di Bettino le impronte violette delle dita; - e la sua fronte
appoggiando alla fronte di lui versò una lacrima, - la
più piena di sfinimento e di angoscia che mai sia stata
pianta da occhi mortali
«Oh s'io ti accetto!» esclamò, «se ti
accetto! anche un minuto che tu avessi tardato, io mi sarei trafitto
come il mio più fiero nemico; - ormai la mia vita è
diventata un deserto, e tu sei il solo che ti esibisci accompagnarmi
in questa solitudine d'infamia; - tu ti sei attaccato al mio
destino: - ora non hai più tempo di vedere quanto egli sia
orribilmente truce; io non ti posso lasciare, io ti tengo come il
demonio la sua preda, - io ti avviluppo nelle mie mani come con le
sue spire il serpente.»
E Bettino, sorridendo di un suo angelico sorriso, rispose:
«Perchè tenti turbarmi? Non sai che chi non ha rimorso
non conosce terrori?» E voltosi quindi al principe di Orange
continuava: «Io con la grazia vostra, magnifico signore,
soggiunse, sovverrò nella prova dell'arme questo cavaliere;
piacciavi pertanto spedire la licenza del campo.»
Filiberto, fatto cenno a un segretario, dettava:
Philibertus De Cialon, Orangiae Princeps, Caesareae Maiestatis
Capitaneus generalis in Italia, ac in Regno Neapolis Vicerex, et
Locumtenens generalis, etc.
«Havendone fatto intendere li Magnifici Joanni Bandini et
Bettino Aldobrandi, nobili fiorentini, havere da finire con le arme
in mano alcune querele con li Magnifici Ludovico Martelli et Dante
da Castiglione, pure nobili fiorentini, et ricercatone che li
volessemo dare campo franco, mediante il quale il prefato Ludovico
et Dante possano uscir da Fiorenza, et venire securamente co' loro
compagni, arme et cavalli in questo felicissimo esercito Cesareo a
finire le ditte loro querele; et parendone tal domanda honesta; semo
stati contenti concedere loro detto campo franco. Et per tenore
delle presenti nostre damo et concedemo ditto campo franco ad essi
sopranominato libero et securo a tutto transito; et assecurato, sub
verbo et fide nostra, li sopranominati Lodovico et Dante che possono
uscire da dentro Fiorenza, et ritornare con XX compagni et un
patrino per ciascuno con loro arme et cavalli, et venire in questo
felicissimo esercito Cesareo, in quel loco che per noi sarà
ordinato, et definito le loro querele con li prefati Joan Bandini et
Bettino Aldobrandi; et che poi se ne possono ritornare a loro
beneplacido, senza inpedimento alcuno, con ditte loro armi et
cavalli. Et il giorno deputato al detto abbattimento serà
alli XII del prossimo futuro mese di marzo; et lo campo franco si
intenda dalla levata alla calata del sole del detto dì. Et
perchè, secondo ne hanno fatto intendere detti Joanni et
Bettino, per li loro Cartelli, declarano volere combattere a uno per
uno, et non dua per dui; però declaramo per queste nostre,
che nel detto dì ci seranno dua campi, in li quali ognuno
potrà combattere con il suo inimico divisamente. Et in fede,
ne havemo fatte fare le presente firmate di nostra propria mano, et
sigillate del nostro solito sigillo. Datum in castris felicissimis
Caes. contra Florentiam, die xxi mensis februarij M. D. XXX.»
E poichè l'ebbe il segretario munita del suggello, la
presentò al principe, che la sottoscrisse del suo nome;
ciò fatto, chiamò l'araldo e, graziosamente
consegnandogliela, favellò:
«Molto, messere araldo, mi raccomanderete ai signori cavalieri
i quali vi hanno mandato a noi, e direte loro che ci sarà mai
sempre oltremodo gradita l'occasione in cui potremo compiacere ad
alcuna loro richiesta, salvo sempre l'onore e la lealtà che
dobbiamo a Sua Maestà l'imperatore.»
«In quanto a ciò state sicuro, messer lo principe,
perchè noi non sappiamo tentare l'altrui
lealtà», rispose l'araldo, ed inchinatosi toglieva
commiato.
Filiberto, volgendo in mente la cortesia dei cavalieri antichi, i
quali non soffrivano partissero da loro gli araldi senza presentarli
di doviziosi guiderdoni, nè d'altronde avanzandogli pure un
ducato, se ne stava tutto malinconoso: - declinando gli sguardi
siccome avviene allorchè l'anima è contristata, si
vide sul petto pendere una ricca medaglia, dono di re; - gli parve
troppo; esitò; - e l'avarizia gli disse: tienti la medaglia;
- ma l'orgoglio all'improvviso proruppe: meglio vale rimanere
sprovveduto di medaglia che di fama la fortuna si vanti di farti
povero, non iscortese cavaliere; - sicchè egli, richiamato
con gran voce l'araldo, tutto acceso nel volto gli gettò al
collo la collana e il medaglione, aggiungendo:
«Portateli per amor mio e perdonate se, distratto da altri
pensieri, ho tardato un momento a compire il dovere di
cavaliere.»
Ciò detto, senz'altra risposta aspettare, si
allontanò.
L'araldo quasi stupefatto contemplava quel dono che costava un
tesoro. Per la sala corse un grido che celebrò il principe di
Orange pel più largo tra quanti cavalieri in quel tempo
portassero arme nei reami della cristianità.
CAPITOLO VENTESIMOPRIMO
LA SEPARAZIONE
Ci separi l'odio. - Sia sciolto ogni vincolo tra
noi; io getto via questo amore, come un arco
rotto privo di corda.
Mrithakaii, dramma indiano.
Correva la notte antecedente al giorno tredici di marzo, tempo da
Ludovico Martelli e da Dante da Castiglione fissato per condursi al
campo a definire la querela trasmessa al Bandini. I soldati di
maggior nome che militavano sotto le insegne della Repubblica, i
cittadini più notabili di Firenze si erano portati a casa
Martelli per l'ufficio di amicizia verso Ludovico, non già
per confortarlo ad avere buon animo, dacchè troppo bene
sapevano non fargli mestieri incitamenti.
Ludovico gli aveva accolti nella immensa sala nel suo palazzo, e in
quell'ora si stavano sparsi in gruppi separati, siccome avviene
quando la compagnia si fa oltremodo copiosa, favellando di antiche e
recenti novelle, o secondo la vaghezza loro attenendo a cure
diverse.
Da un lato Amico Arsoli, soldato di buona riputazione non solo nelle
armi, ma bene anche nelle lettere umane, circondato da varii nobili
cittadini, raccontava la famosa disfida di Barletta tra Italiani e
Francesi, e con quella franchezza che non conosce invidia levava a
cielo Fieramosca e lo laudava degnissimo di poema e di storia; e
poi, infervorandosi nel parlare dei grandi condottieri italiani,
favellava delle azioni del Giacomino Tebalducci ed esponeva la rotta
da lui data all'Aviano e la presa di Pisa. - Senza punto badare che
fosse esecrabile il nome dei Medici, diventava acceso nel volto
discorrendo del signor Giovanni dalle Bande Nere, del terrore che
ispirava ai Tedeschi, che lo chiamavano il gran diavolo, della sua
ferita a Borgoforte per causa dei falconetti del duca di Ferrara,
della sua morte a Mantova, dove, Abramo giudeo tagliandogli la
gamba, non volle essere tenuto da nessuno, minacciando chiunque gli
si accostasse, perocchè egli sapeva molto bene tenere
sè stesso: - e il prode uomo, inebbriandosi nella memoria
delle imprese italiane, parlò delle guerre lombarde e di
quelle del regno, dove gli Italiani combatterono con tanto onore,
con tanto sangue e con punto vantaggio di loro, - e quel suo lungo
favellare, non che infastidisse gli ascoltanti, così grande
era la efficacia delle parole, la veemenza dei gesti, che parendo
loro vedere l'urto dei cavalli, udire lo strepito della battaglia,
ne sentivano maraviglioso diletto. - Poch'oltre il Carducci, il
Varchi, il Busini, con altri più assai nelle storie degli
uomini versatissimi, ragionavano dei giudizii di Dio; sostenevano
alcuni averli ignorati gli antichi, altri invece conoscerli; nella
qual disputa ricercato il parere del Varchi, come quegli che era
più che non conveniva modesto, rispose esitando, in quanto a
lui reputarli di origine antica, ed in conferma della sua opinione
citò un passo dell'Antigone di Sofocle, dove certo uomo
accusato di corruzione offre di maneggiare il ferro rovente in prova
della sua innocenza; aggiunse, Eustazio descrivere certe fonti in
Artochimide e in Dafnopoli nelle quali esperimentavano la pudicizia
delle vergini, e Tazio rammentare nei suoi scritti la spelonca del
dio Pane, dove entravano le donne accusate di atto disonesto per
purgarsi dalla nota d'infamia; parlò eziandio della prova
dell'acqua amara ordinata dal levitico, onde la donna incolpata di
adulterio potesse difendersi dall'accusa; e finalmente tante altre
belle cose seppe esporre, con tanti esempi bellissimi confermarle,
che lasciò ognuno convinto. Dipoi mossero disputa, se i
giudizii di Dio dovessero o no reputarsi argomento valevole a
scoprire la verità: e qui non mancarono esempi pro e contra,
prove di manifesta provvidenza e d'ingiustizia evidente; ricordarono
quell'Ansel ladro degli arredi alla Chiesa di Laon, il quale
poichè gli ebbe venduti ad un povero mercadante, lo
accusò di furto e sfidatolo a duello lo uccise: citarono
l'altro fatto del ciambellano del re di Borgogna, accusato di aver
morto un bufalo della foresta del re, e dal popolo, comecchè
innocente, messo a morte; non passarono sotto silenzio il caso del
cavalier Grigio incolpato a torto dalla moglie del gentiluomo
Carrouge e, per confessione di altro cavaliere venuto a morte,
scoperto senza misfatto dopo aver perduto la fama e la vita;
sicchè dopo molti ragionari il Carduccio concluse che,
sebbene Iddio avesse talvolta con segni sensibili dimostrato il suo
intervento per isvelare la verità, prudenza insegnava
lasciarlo stare quando se ne potesse fare a meno.
Dante da Castiglione non diceva parole, ma operava. Tra le tante
armi, di cui appariva ornata la sala, presi due guanti di ferro e
due stocchi insieme col capitano Amicoda Venafro (il quale poco
tempo dopo, con biasimo universale, il signoro Stefano Colonna fece,
comunque solo, disarmato e ferito, presso la chiesa di San Francesco
assalire e con ventisette ferite dategli dalle sue lance spezzate
spegnere a ghiado) si esercitava; e questi, come apertissimo nella
scherma, gli mostrava il colpo di gettarsi all'improvviso per terra,
e la spada nemica lasciatasi passare sul capo, ferire l'avversario
nel ventre; gli confidò ancora l'altro stratagemma da
adoperarsi a caso perduto, che consisteva ad uscire di parata, e
trattosi di repente in disparte, muovere veloce un passo avanti, la
spada avversaria afferrare, e spingere la stoccata nella gola del
nemico; insomma gli accorgimenti tutti della scuola italiana, la
quale, per essersi ai tempi nostri conservata soltanto nel regno di
Napoli, ha nome di napolitana.
Di repente Amico da Venafro, declinando la punta dello stocco sul
pavimento e con la manca asciugandosi il sudore, favellò:
«A proposito, messere Dante, foste voi che arrestaste quello
sciagurato del Soderini?»
«Io no; mi cacciai dietro ad uno di quei tristi, ma ben mi
accorsi dir vero il proverbio, chi corre corre, ma chi fugge vola,
per quanto mi affaticassi non mi riuscì raggiungerlo:
più fortunato o piuttosto più veloce degli altri fu
Vico, il figliuolo di messere Nicolò Machiavelli; egli
arrestò il Soderini.».
«E lo conobbe arrestandolo?»
«Maino; quando vidi tornare vana la mia corsa, me ne andai
difilato in palazzo per avvisare la Signoria e i Dieci; - entrato
nella prima sala, mi occorse Vico, il quale teneva stretto
così pel collo il Soderini che per poco non lo strangolava;
lo confortai a lasciarlo sotto buona guardia in sala e a venir meco
da messere Carduccio. - Vi rammentate voi, messere Francesco, qual
volto faceste e quali parole lanciaste contro quel povero
garzone?»
«Me ne rammento», rispose Carduccio, «nè
poteva fare a meno, ignorando la causa della sua tardanza: il suo
debito era rendersi al ritrovo alla prima ora di notte, ed io
vegliando lo aspettai fin presso al giorno; molto importava spedire
la commissione al nostro Ferruccio; forse, e senza forse, dipende da
questa la salute della patria.»
«E la patria non perirà, se riposa sopra il Ferruccio;
allora io esposi l'accaduto, perocchè il dabben giovane
dall'acerbità delle parole vostre fosse rimasto come basito;
voi lo abbracciaste, gli domandaste perdonanza: poi, saltando nella
sala, toglieste il cappuccio dal volto del prigione e riconoscemmo
lui essere Lorenzo Sederini. Lascio immaginare a voi se restassimo
maravigliati.»
«Oh!» insisteva il Venafro, «come può
essere avvenuto questo? Qual mai causa ha spinto lo sciagurato a
tanto misfatto?»
«Vanità di spirito meschino», riprese il
Cardouccio, «rabbia nel vedersi trascurato dal nuovo
reggimento, presunzione, superbia e tutte le altre infelici passioni
le quali si ammogliano alla nullità che si crede sapiente. Io
penso che non ci abbia mai perdonata l'andata del Ferruccio a Prato
per correggere gli errori della sua commessaria...»
«Amici o nemici, questi Soderini furono sempre funesti alla
nostra patria. Il gonfaloniere Pietro con la sua ostinata lega con
Francia perse lo stato», osservò il Castiglione.
E il Carduccio tosto rispondendo,
«O Dante mio», disse, «il fallo di Pietro è
ben anche il nostro; - ormai vuole il destino che le sventure
passino sopra di noi senza esperienza; - il tempo andato si dilegua
e non ci lascia neppure il tristo retaggio degli esempi luttuosi; -
l'errore di oggi mena all'errore domani: Francia gravi colpe ha da
scontare col mondo e con noi; ella in antico tolse di mano ai
pontefici il vincastro di pastore e dette loro un flagello di ferro;
ella cancellò l'ultimo seme dei Romani e nel sangue
affogò gli estremi aneliti della libertà palpitante su
le rovine del mondo. La lega con Francia ci fece nel 94 perdere
parte, nel 12 tutto lo Stato; rilevati dal nostro buon genio, appena
ci è conceduto adoperare la nostra libera volontà,
ecco ci gettiamo di nuovo nelle braccia del genio malvagio; poniamo
la testa in grembo alla Francia, come Sansone in quello di Dalila, -
e Francia ci tradisce pur sempre e forse con danno per questa volta
irrimediabile; i fati ci menano: pressochè tutti gli animali
sortirono dalla natura lo istinto della propria conservazione; noi
soli, simili alla farfalla, ci ostiniamo ad aggirarci intorno ad una
fiamma che ci consuma...»
«Tema la Francia il giudizio di Dio: - egli non paga il
sabato, e quando visita i popoli nel suo furore, li punisce a misura
di carbone...»
«Finchè Francia conterà un milione di
parrocchie, ed ogni parrocchia contribuirà con un uomo di
arme all'esercito del re, ella non penserà all'ira di
Dio...»
«Dunque cammineranno per la terra impuniti i tradimenti, la
fellonia, la slealtà?»
«Il Soderini andrà sul patibolo a cagione del delitto
medesimo che fa prosperare la Francia; perchè le leggi,
secondo il detto di quell'antico filosofo, sono tele di ragnatelo,
buone a prendere le mosche e sfondate dai bovi: - ben si può
imprigionare, confinare, mozzare la testa al Soderino, non
già confinare o decapitare la Francia; però ella se ne
va fastosa, a testa alta, con un diadema di tradimenti, come la
meretrice clamorosa e sviata folle delle sue turpitudini...»
«Quanto era meglio credere alle parole di messer Luigi
Alamanni e collegarci con l'imperatore!»
«Collegarci con nessuno: chi si appoggia all'altrui spalla,
segno è certo che ha le piante inferme; diffidate della
libertà che vi presentano i re come dono; il veleno quasi
sempre si amministra in nappi dorati; se le vostre mani non sono
gagliarde da sostenere la spada non l'affidate all'altrui braccia;
le catene si fanno di quel ferro che vinse per voi le vostre
battaglie; la libertà è tale albero che vuolsi
piantare con le proprie mani, se intendiamo che frutti davvero; se
le vostre mani invece sono fiacche, prendete rosarii e pregate.
Udite, Dante, queste mie estreme parole: Qualunque popolo vive in
servitù, così vive non per forza altrui, sibbene per
viltà propria, ed è indegno di libertà.»
E che fa egli Ludovico Martelli? Solingo in disparte passeggia per
la vasta sala e per le stanze contigue; a vederlo trapassare dallo
spazio illuminato dalla luce più viva là dove a mano a
mano digradava e finalmente scomparire tra le ombre, si sarebbe
pensato avesse voluto penetrare nei regni della morte; e quando
uscito all'improvviso dalle tenebre tornava a mostrare la sua
pallida faccia, lo avresti detto uno spettro evocato dalla tomba per
lo scongiuro dell'incantatore. La sua anima era ingombra di sinistri
pensieri. Gli occhi volgendo alle pareti, contemplava le immagini
de' suoi maggiori defunti e li vedeva animarsi, e dalle loro labbra
udiva suoni che non ben comprendeva, ma che pur gli parevano inviti
o preghiere di ripararsi nella pace dell'eternità; - aveva il
sepolcro chiuso ogni affetto di lui; colà egli padre e madre
ritroverebbe e parenti; - sotto terra lo aspettava un tesoro, -
tesoro di amore perduto nel mondo. A che dunque più vivere?
Qualunque alito comecchè benigno, poteva adesso agitare la
cenere, non suscitarla ad ardere; - l'incendio era finito, la
sostanza consumata. - Ahimè! La speranza sirena ingannatrice
od angiolo consolatore, la quale precorre gli uomini nel sentiero
della vita e chiude loro su la testa il sepolcro; la speranza che
dopo questo ufficio estremo non gli abbandona ancora, ma postasi a
sedere sopra la lapide, come sopra un altare, vi canta un cantico
nuovo di risurrezione e di premio; - la speranza gli aveva a mezza
via stretta la mano e datogli un bacio di addio, quasi ad amico che,
pronto a pelegrinare in lontane regioni, in cuore dubita di mai
più rivedere. L'arco prima di tendersi si ruppe; - il fiore
appassì sopra la pianta; - lo assaliva invincibile il
fastidio della vita; nella stessa guisa di Giob sovente diceva al
sepolcro: Tu sei il padre mio; - ed alla Morte: Tu sei mia madre, -
e tutto questo perchè non aveva potuto acquistare l'amor di
Maria.
E nondimeno, dove sopra tanta tenebra di pianto si fosse potuto
diffondere un raggio solo di speranza, le lagrime sarieno diventate
liete dei colori dell'iride, come le stille della rugiada in faccia
del sole, - convertito l'inferno nel paradiso, - nè egli
forse la sua condizione avrebbe scambiato col paradiso.
Vedesti mai, quando l'aura vespertina turba la placida superficie di
un lago, riflettervisi dentro così confusamente, in mille
maniere vorticose, fantastiche e non pertanto vaghe, le piante, gli
edifizii di cui vanno popolate le sponde e i colli lontani? - nel
modo stesso nella mente di Ludovico si avvolgevano idee indefinite
di felicità, di affetti di sposo, d'amor di padre, egli
allora avrebbe aborrito la morte - delle generazioni uscite dal suo
fianco composta una splendida catena, l'avrebbe lanciata traverso il
futuro per aggiungere la soglia della eternità.
Soave è il vento che spira dai patrii monti, ma a mille
doppii più caro l'alito della donna amata. - Bene invogliamo
a piangere di amore le voci che muovono a celebrare sul mattino le
glorie del Creatore, ma nessuna voce giunge più desiderata
all'anima del padre di quella del diletto suo figlio. - Bellezze
della terra e del cielo, quanto mi sembrate pallide in paragone
della faccia del figliuol mio! Chi dice ch'io sia morto? Ei
mentisce: ecco il mio figlio col mio senno e con la mia spada. Chi
sostiene che il mio figlio mi abbia raggiunto nella fossa?
- Menzogna! Ecco il mio nipote che parla consigli di sapienza e
combatte le battaglie della sua patria. - E tutto questo perdeva,
perchè non aveva potuto acquistare l'amore di Maria.
Ma quel vaneggiare del pensiero era una perfida lusinga uguale alla
calantura, specie di mania che presso alla linea equinoziale
presenta al montanaro nelle onde turbate le valli e i monti
dell'alpestre sua patria, i camosci, le nevi e i lavacri scorrenti
giù pel dorso delle rupi, sicchè, vinto da feroce
desio, si lancia fuori della prora e trova la morte nel mare. Offeso
Ludovico da siffatta allucinazione morale, si sommerge anch'egli
dentro un abisso di affanno.
Oh! tra coteste gioie e lui non palpita per avventura una vita? -
Certamente due pensieri gli sorsero nell'anima gemelli, come due
fulmini scoppiati nella medesima nuvola, - l'adulterio e l'omicidio;
ma il suo cuore sentì che il bel frutto d'amore non
può esser côlto da mani insanguinate. - A chiunque poi
il talamo altrui insidiando s'insinua nelle case degli uomini, come
serpe tra l'erbe, e, avvelenata la sorgente, confida estinguere la
sua sete in acque dolci - maledizione! - A chiunque crede femmina
degradata serbi eterno l'amore stretto dalla colpa, quando ella non
seppe mantenere l'altro persuaso dalla religione del giuramento, -
che educata alla menzogna si astenga dal mentire, - che instruita
nella frode non voglia far sopportare all'infame maestro la pena de'
suoi turpi insegnamenti - maledizione! - E maledizione e sventura a
chi, giacendo in letto solitario, e forte vi desiderando la donna
altrui, potè immaginarsela in quell'ora baciare baciata... e
non balzò furibondo dalle piume e non empì le tenebre
di tale un urlo che mettesse in chiunque lo udiva spavento. - A
colui che non aborre accostarsi alla femmina come il mendico alla
porta del convento per ottenere in elemosina la scodella piena
quando la volta gli tocca, io non ho nome d'obbrobrio, nel modo
stesso che Dragone non ebbe pena pei parricidi; - almeno i pomi del
lago Asfaltide apparivano splendidi al di fuori; - qui invece cenere
all'esterno e dentro, - abiezione umana di cui Satana medesimo
sentirebbe pietà. - Sfortunato quel padre che non può
chiamare liberamente un fanciullo col nome di figlio senza che
vergogna ne nasca alla madre! - Infelicissima la madre alla quale
riesce di rimorso il suo portato!
Quando più il tradimento s'inebria nella sua voluttà,
la penitenza, comecchè stanca di correre sempre la terra, si
pone in via; - il tradimento, giovane in prima ed esaltato dal vino
della colpa, precede vigoroso, - poi si consuma - e invecchia
presto; - la penitenza per mutare di tempo non cambia sembiante: -
il tradimento dorme, le palpebre della penitenza non s'incontrarono
mai;. - alfine un giorno lo raggiunge, e allora gli pone, come
dentro a nido apparecchiato, un aspide nel cuore, - gli spalanca il
sepolcro e glielo mostra tremendo di spaventi, peggio dell'arca di
Regolo irta di ferri acuminati.
Siffatti pensieri si avvolgevano per la mente commossa di Ludovico
Martelli.
All'improvviso lo percuote una voce:
«Io vi dico e vi giuro esser morto ieri notte pochi minuti
dopo ch'io vi lasciai sul canto di Diamante.»
«E' mi pare impossibile. Se lo aveva veduto la mattina a terza
su la piazza della Signoria!»
«Il bargello e la morte vengono a casa senza avvisi.»
«Dicono sia morto di colica per troppo mangiare.»
«Ben gli sta; - con quel suo ventre affamava Fiorenza; - le
cose del papa avvantaggiava assai meglio che una compagnia di
lanzichenecchi o di bisogni...»
«Per me gli porrei in epitafio: - La migliore azione operata
in vita da Nicolò Benintendi fu quella di morire.»
«Chi morto? - Chi avete detto che morì ieri
notte?» con immenso anelito domandò Ludovico.
«Oh! non l'avete voi inteso? - Messer Nicolò
Benintendi.»
Morto! - Si è mai goduto tanta esultanza per la morte di un
uomo? - Un desiderio ardente pose mai sul teschio della morte fiori
sì lieti della speranza? - Torna a fluttuare per le vene di
Ludovico il sangue vitale; - gli si colorano le guance, - i suoi
passi si accelerano, - i suoi pensieri prorompono, si urtano e non
hanno tempo di definirsi; - l'orlo del calice comparisce appannato
pel contatto dei labbri di un altro uomo, pure egli contiene
abbastanza liquore da invitarlo a bere; - la bocca fu baciata, - non
importa, - ella potrà pur sempre proferire la parola che lo
renderà il più avventuroso o il più misero
degli uomini; - sopra tappeti di Siria ei non avrebbe mai mutato
così soave il passo com'ora sopra la terra di recente smossa
di un sepolcro. - Ah! misero! Non impunemente tu esulti della morte
di un uomo; - come chi va per alpe, superato un giogo, ne incontra
un secondo e un altro ancora, - il Benintendi spento, ecco, tra la
donna del defunto e te sorge la testa del Bandino... oh! ma cotesti
occhi possano chiudersi, quel capo abborrito nascondersi sotto terra
per sempre;. - e poi usare la spada contro lui non è delitto,
ma pietà; - in quel modo fie disperso il fascino che la sua
donna tiene avvinta al maladetto, - lo cancellerà a un punto
dal libro della vita e dall'anima di Maria col ferro. - Fisso in
questo proponimento, come immemore del luogo e del tempo, gridava:
«La spada! - Su, qua la spada!»
I fanti, pensando volesse provare qualche nuovo colpo, pronti gli
porgevano manopola e stocco acconcio alla scherma. Ludovico l'una e
l'altro afferrando si avventa contro Dante da Castiglione; invano
forza egli oppone e destrezza; - lo stocco nelle mani di Ludovico
sembrava folgore; - non valeva riparo, - a destra scende improvviso
e a sinistra: fendenti, punte manrovesci, finte, tutti gli
accorgimenti in somma del giuoco periglioso posti in opera e con
tanto turbinosa velocità che Dante ne rimase sopraffatto, e
in un momento, - in un solo momento che riprendendo lena accorse
meno presto alla difesa, si sentì percosso nel capo, nel
petto e nella gola; onde dando di un passo indietro esclamò:
«Per Dio! mi avete voi tolto in iscambio del Bandino,
davvero?»
«Ah! tu non sei il Bandino, è vero», esclama
Ludovico, e buttato là lo stocco per terra, torna a
passeggiare con le mani conserte sul petto.
Un vecchio famiglio che lo aveva veduto nascere entra nella sala e,
incamminandosi alla sua volta domesticamente, lo chiama:
«Vico!»
Egli passa e non bada, ed il famiglio alza gli occhi al cielo e
sospira. Non si attentando seguitarlo, lo aspetta. Ludovico,
pervenuto alla parte estrema della parete, rifacendo i passi torna
davanti.
«Vico!» ripetè in suono lamentoso.
E Ludovico con benigno volto fissandolo lo richiede:
«A che mi vuoi, Giannozzo?»
«Giù», e il servo discreto si accosta più
da presso al suo orecchio, «giù nelle stanze terrene
una gentildonna vi aspetta.»
«Gentildonna! - E come si chiama ella? E quali sono le forme
di lei?»
«Chi ella sia non so dirvi? - la faccia ha coperta di
taffetà nero...; però mi sembra senza misura
dolente.»
L'uomo innamorato è divino: il suo cuore acquista tal senso
che gli altri non possiedono a gran pezza. - Perchè domanda
egli chi si fosse la donna? - Non glielo aveva detto l'impetuoso
fluttuare del sangue? - Scende, giunge nelle stanze terrene, e
correndo a braccia aperte verso la donna velata, esclama:
«Ah! siete voi, Maria?»
Ma quando stava per gittarle le braccia al collo, soprastette
improvviso e, mutati atti e sembiante, con voce pacata riprese:
«Madonna! la morte ha visitata la vostra casa.... posso io
esservi utile in nulla nella presente vostra strettezza?»
«O Ludovico! i tuoi labbri non contengono la piena del
disprezzo di cui è colmo il tuo cuore, - non importa: -
affanno, più affanno meno, ormai nulla può aggiungere
al peso sotto del quale la mia anima cadde. Vorrò forse dirti
essere io incontaminata quanto la tua diletta genitrice, a cui tu
davi pietosa sepoltura nei chiostri di Santa Croce? - Ti
giurerò che piansi morto il Bandino, il quale mi si offerse
la prima volta davanti quando io ricusava partecipare il tuo amore?
che mi era stato promesso sposo, - che lo amai come sa amare vergine
sconsolata e sola? - No, - tu non lo crederesti, ed io abborro
scendere a discolpe; - la mia alterezza di donna si è
risentita; - tra la mia coscienza e gli uomini ormai desidero solo
giudice Dio; - comprendo la dignità del silenzio; - per altro
io venni, - venni per dirti come, essendo piaciuto a Dio rompere
l'unico vincolo che mi teneva stretta alla terra, ho fermo in tutto
di abbandonarla e rendermi monaca. La mia vita turbarono venti
procellosi, sicchè la mente affaticata sospira riposo e non
lo spera che nella solitudine di un chiostro; - mi seppellisco
viva... è questa l'ultima volta che c'incontriamo sopra la
terra; - io mi considero moribonda. Se presso a ripararmi sotto il
manto della misericordia al nostro Creatore ti domandassi una
grazia... grazia che l'ora della morte mi farebbe la più
lieta della mia vita, - poichè in te sta rendermi meno amaro
un momento da cui tutti rifuggono inorriditi, - s'è vero che
tu mi amasti tanto... Maria... quella povera donna che ti
onorò come suo unico sollievo, - ti scelse per amico, - ti
salutò fratello... quella dessa, Maria, a mani giunte ti
supplica che, come fu infelicissima, tu non consenta a renderla del
pari scellerata.»
E qui si tacque; entrambi stettero muti, con gli occhi chini al
pavimento, imperciocchè non ardissero contemplarsi in faccia.
La donna alfine con parole interrotte rispose:
«Qualcheduno di voi sarà Caino...; il sangue di uno tra
voi attesterà contro di me nel giorno del giudizio...; non
avrò pace mai nè in questa vita nè nell'altra.
O Ludovico, per amore, - per amore di tua madre, non fare che questo
duello succeda.»
«Madonna, ciò non può essere; - la sfida corse e
fu accettata; - la legge dell'onore lo vieta; - avete voi mai,
madonna, sentito favellare di onore?»
E queste parole proferendo, leva gli occhi e le avventa uno sguardo
a guisa di raggio improvviso di luce.
Maria senza punto sgomentarsi sostenne quella domanda e quel guardo
- quindi prestamente rispose:
«Io conosco una legge la quale domanda non ammazzare, - un
tribunale che condanna quando gli uomini assolvono, - ed assolve
quando gli uomini condannano: - conosco un giudice che distingue se
la mano impugna la spada per la patria davvero, o se piuttosto se ne
fa pretesto pel gran desiderio che ha del sangue di una creatura, -
pretesto all'orgoglio che gli divora le viscere, alla vendetta che
gli riarde il cuore...»
«Madonna!...»
«Iniquo desiderio, - abbominevole vendetta e vana: nessuno di
voi mi avrà; - piuttosto di porgere la mia destra alla vostra
insanguinata, io me la vorrei tagliare; - ed io non ti appartengo,
nè su me avesti diritto mai: - capo mortale non poserà
più sul mio letto; - unico compagno d'ora innanzi il
Crocifisso; - domani mi chiuderò nel chiostro, e prima di
venire in potestà di uno di voi mi getterò dal
campanile della chiesa...»
«Madonna, ben posso darvi la vita, non l'onore: - mille volte
ho promesso che avrei volentieri, o Maria, sagrificato la vita per
te... ed ecco venuto adesso il tempo di mostrartelo a prova; e tu lo
ami sempre immensamente, Maria, e invano t'ingegni celarmelo; -
nella tua anima vive la fiamma pel traditore: - non ti muove la
religione, non il terrore che sangue si versi, sibbene paura che il
sangue versato... non sia il mio... pel tuo Bandino tremi... - Va, -
vivi ed esulta; io mi terrò avventuroso, se con la mia morte
potrò farti contenta... esulta... va... ti prometto con
giuramento di lasciarmi uccidere.»
E così, appena favellato ch'egli ebbe, quinci disparve a
guisa di spettro.
Maria tentò raggiungerlo correndo, più volte lo
chiamò con voce di dolore, ma i suoi passi e i suoi lamenti
si perderono inani per le tenebre della notte.
CAPITOLO VENTESIMOSECONDO
IL DUELLO
/# /* Italo sangue L'un campo e l'altro: gioventù
superba Magnanima, feroce e di una madre. */ Francesca da Rimini.
trag. di Eduardo Fabri. #/ «Che ora fa egli?» domanda
per la quarta volta Ludovico balzando a sedere sul letto.
E Giannozzo, il vecchio famiglio, che adagiato su di un immenso
seggiolone lo vegliava, si recò alla finestra e, speculato il
cielo, rispose: «Tra un'ora sarà giorno.»
«Dammi la veste, chè voglio alzarmi.»
«Deh! Vico, rifate le forze col riposo, chè oggi ne
avrete bisogno davvero; dormite: non vi date un pensiero al mondo,
ch'io vi sveglierò in buon tempo.»
«Va tu piuttosto a dormire, Giannozzo... tu sei vecchio e non
devi vegliare.»
«Io dormirò a bell'agio entro la fossa, o figliuol mio!
perchè in questa terra il sonno di rado scende sopra le mie
palpebre; - il pianto non cede la signoria degli occhi... ed io
piango e veglio tutte le notti, o Vico!...»
«E perchè vegli? - E di che temi?»
«Figliuol mio - chiuso nel vostro dolore non vi accorgete del
mio; - spesso tornate a casa pallido come un'anima, parlate tra voi,
non rispondete; spesso vi gettate sul letto e discorrete di uccidere
e di uccidervi, di una donna, di un tradimento e di altre cose che
mi trafiggono il cuore. E quando tanto vi travaglia l'affanno,
può egli dormire Giannozzo vostro che vi ha veduto nascere,
che da voi in fuori non conosce altra gioia su questa
terra?...»
Ludovico, sporgendo il fianco dal letto, gittò le braccia
intorno al collo del servo amoroso, e il capo gli posando sul petto,
singhiozzava forte senza favella e senza lacrime. Il vecchio invece
piangeva e gli baciava i capelli; - pure alla fine Ludovico con un
gran gemito disse:
«Ah! io sono misero assai... Porgimi la veste.»
«Ma perchè non riposate?»
«Giannozzo, se tu potessi immaginare i carboni sopra i quali
distesero san Lorenzo essere un letto di rose in paragone di questo
su cui mi giaccio, non mi consiglieresti a rimanervi di certo... non
è egli vero?... Dammi la veste, imperciocchè prima di
partire mi convenga soddisfare a parecchi santissimi uffici.»
Indossata la veste, si pose davanti allo scrittoio e cominciò
a scrivere: la penna volava, i fogli diventavano neri con
meravigliosa prestezza; con la voce sovvenendo alla memoria, ad ora
ad ora proferiva quello che andava scrivendo; - rammentò i
parenti, - i servi, - sua ultima volontà, perdono, -
misericordia di Dio.
Il vecchio portava senza posa lo sguardo dalla penna alla faccia di
Ludovico, e nel contemplarlo tranquillo, si rimaneva stupito.
«Giannozzo!» chiamò Ludovico, piegato che ebbe e
suggellato il foglio; - e Giannozzo, levatosi da sedere, gli si pose
dinanzi; ma Ludovico, volgendo di subito la mente a nuovi pensieri,
si rimaneva immemore con la mano tesa; - poi, all'improvviso
risensando, «Giannozzo,» continuo, «io ti consegno
il mio testamento olografo scritto in procinto senza
formalità, ma che voglio non pertanto religiosamente
eseguito: - credo d'aver pensato a tutto e a tutti; - dove di alcuno
mi fossi dimenticato, tu supplirai... tu avrai cura che sia la mia
memoria benedetta..., non è vero Giannozzo?»
«O Gesù misericordioso!» il servo fedele
rispondeva singhiozzando, «io vi ho veduto nascere e non devo
vedervi morire... voi non dovete morire..., voi non annoverate
ancora trentatre anni...»
«Io ho vissuto secoli, - centinaia di secoli; - i miei minuti
compresero anni di angoscia, i miei anni neppure un minuto di
refrigerio... Io muoio contento.»
«Su, Vico mio... messer Vico, fatevi animo; - voi vincerete;
l'angiolo custode mi predice che stasera tornerete glorioso a casa
vostra.»
«E chi si rallegrerà della mia vittoria? qual creatura
amante ed amata mi getterà le braccia al collo?»
interrogò Ludovico volgendo gli occhi d'intorno.
E Giannozzo volge anch'egli lo sguardo per vedere se discerne
qualcheduno; nè lo vedendo, susurrò a fior di labbra:
«Eppure io vi amo come figliuolo.»
«Sì... ma....» nè aggiunse parola
Ludovico; non pertanto il cuore del vecchio concepì intera
l'amarezza di coteste parole, e gemendo esclamò:
«Pur troppo la vostra anima abbisogna di più forte
affetto... e più gentile....»
Successe lungo silenzio. Ludovico, crollata prima alquanto la testa,
riprende:
«Senti, Giannozzo; - io non morrò - forse; - per me sta
la buona causa e Dio: non pertanto la vita è fragile cosa, -
fragilissima poi quando la commetti al filo di una spada; - un passo
in fallo... una tarda parata... un battere di palpebra, e il
ghiaccio dello stocco nemico ti penetra nelle viscere; - e il
destino sta chiuso nel pugno dell'Eterno, ed in questa incertezza di
morte parmi ufficio di buon cittadino avere riguardo a tutto....
Però ascoltami.... Non volli scrivere per l'appunto ogni
cosa... sarebbe parsa vanità...; molto mi è forza
commettere alla tua fede. - Alla povera vedova la quale veniva ogni
sabbato di nascosto per la elemosina darai cento fiorini d'oro per
servirsene ad accasare la figliuola con qualche onesto artigiano il
quale valga a farle le spese; ella conserva la superbia della
passata fortuna, - confortala di accomodarsi ai tempi, - rammentale
che il pan bigio acquistato col sudore della fronte nudrisce le
viscere, mentre il pan bianco comprato a prezzo d'infamia si
converte in cenere e non passa la gola. - All'uomo di arme mutilato
il quale sovente si ripara qui in casa come la rondine inferma al
suo nido, darai ad abitare una stanza al secondo piano e lo nudrirai
non altrimenti che se fosse tuo fratello, perchè guai alla
città che consente il soldato il quale per lei perdeva la
mano destra stenda la sinistra. - I servi, finchè rimangono
in casa, terrai come tenni io. - Nessuno cavaliere voglio che prema
più il dorso de' miei cavalli, - nessuno; - manda i miei cani
in campagna, tranne solo uno, Italo, il quale auguro ti faccia
quella buona guardia che ha fatto sempre a me. Finchè tu
viva, verun parente entri nel mio palazzo... a ciò provvidi
nel mio testamento, - e te lo ripeto adesso..., stieno lontani i
parenti, i quali, chiamati dalla speranza della mia eredità,
mi si sono stretti alla vita, quasi una cintura di corvi all'odore
dei corpi morti.... Conserva i mobili... i letti... non mutar nulla;
se alle anime è concesso visitare le dimore ch'ebbero care in
vita, io tornerò a visitare questa mia - e mi
compiacerò ravvisarla nello stato primiero: - se mai io ti
apparissi, Giannozzo, non prenderne spavento; io non verrò ad
atterrirti, bensì a trattenermi teco in fidato colloquio....
- Coraggio, via, non piangere, mio buon padre Giannozzo...
accostati... Gesù mio! come tremi... tieni...
ristòrati... bevi questo liquore... bene! - Ora fa di
ascoltarmi pacato. Quando sarò morto, mi vestirai della mia
buona armatura di Milano e mi porrai nella cassa questa croce di san
Pietro.... Vanità di vanità, dice il predicatore, ma
io l'acquistai col mio sangue in battaglia, - nè su l'orlo
stesso del sepolcro mi riesce considerare la gloria vanità...
- E poi, Giannozzo, questo sopra tutto ti raccomando.... mi
depositerai sul seno dalla parte del cuore questa borsa di seta
cremesina... ah! no, me la rendi, imperciocchè ella non mi
darebbe - nè anche morto - pace.» E ripresa dal servo
la borsa, il quale come stupito la teneva sul palmo della mano, ne
sciolse i legacci e ne trasse fuori due ritratti: - uno di questi
lasciò cadere sopra uno scrittojo; - l'altro si
accostò alla bocca e baciò con immensa passione:
«O madre mia», esclamò fisso contemplando il
ritratto, «tu non avresti voluto concepirmi, se alcuno ti
avesse detto che sarei stato tanto infelice! - Quando fanciulletto
io dormiva, con quanta furia accorrevi a cacciare via l'insetto che
scendeva a infastidirmi la guancia con la sua mite puntura... ed
ora, vedi, le angosce mi hanno lacerato il cuore; - io non ne posso
più.... Apri le braccia, o madre, ed accoglimi sul tuo letto
di pietra.»
Giannozzo alla vista delle sembianze della sua signora che aveva
amato e reverito cotanto, ricuperando la parola, le stendeva le mani
in atto supplichevole e pregava:
«O madonna Maria, vi prenda pietà del vostro figliuolo,
comandategli vivere, ditegli di non ispegnere seco la inclita casata
vostra, ordinategli che vi dia un nipote, - ordinateglielo voi,
madonna mia, perchè la voce del vecchio servo non ha potenza
sopra il suo cuore..., parlategli... parlategli voi, madonna,
altrimenti ei si lascia morire.»
Ludovico chiudeva gli occhi e declinava il capo, - la sua mano poco
a poco calando depose il ritratto, avendo cura di voltarlo dalla
parte opposta.
Giannozzo, a caso guardando sopra lo scrittoio, fissò lo
sguardo sopra l'altro ritratto; egli era di donna maravigliosamente
bella, ma non si ricordava averla mai incontrata; onde, dopo lungo
meditare, quasi lui non volente, parlò:
«Questa donna io non conosco. - E come si chiama ella?»
Ludovico, balzando in piedi, come se lo avessero toccato con carboni
ardenti, gridò imperversato:
«Si chiama angiolo, si chiama demonio; - questa donna è
colei che mi toccò il cuore e me lo fece di pietra - questa
è colei che nella sua mano atroce strinse i palpiti, le
immagini, le soavi illusioni della mia giovanezza, e mi rese le cure
nei tardi anni, la sazietà delle cose create, il fastidio di
me medesimo.... maledetta l'ora in che i nostri occhi
s'incontrarono... e sii maledetta tu stessa; - così potess'io
cacciarti dal mio seno, come ti lancio fuori della mia casa; - qui
si accostando al balcone ne schiudeva furiosamente le imposte, pur
tuttavia esclamando: Va, ogni uomo ti calpesti - ogni sozzura ti
contamini. - E levò la mano in atto di gettarlo, e subito
dopo lasciando cadere abbandonata la mano, con parole interrotte
riprendeva: «Ahi stolto me! misero me! Maria... perdono! - Io
non so più quello ch'io mi dico o ch'io mi faccia; io ti
amo... fuori di misura io ti amo; per te bestemmiai il mio Creatore,
ma per te prima imparai ad onorarlo; - per te soffersi e tuttavia
soffro tormenti di dannato, ma per te mi deliziai di voluttà
divina; - ed io ti accuso a torto, - sono ingiusto con te; - tu ami
il Bandino e lo detesti; colpa del destino, non tua; - tu rodi
questa passione come un destriere il suo freno, e, misera! non ti
giova, chè il morso del destino non si rompe... - Giannozzo,
per quanto amore porti al tuo Dio, insieme a quella di mia madre
farai che questa immagine mi riposi sul petto. Maria si
chiamò la diletta mia genitrice, Maria anch'ella si chiama; -
entrambe amai... ad ambedue eressi un tempio nel mio cuore,
nè ben distinguo chi più di loro mi sia cara, -
tanto l'amore di sviscerato figlio si confuse con quello di amante,
- per loro io vissi, per loro io perisco: - queste due immagini
deposte sul mio cuore compongono la storia della mia vita; - la
prima lo ha fatto palpitare, - la seconda palpitare troppo... - e si
è rotto... Ch'è questo? - ch'è questo,
Giannozzo? - Il suono della tromba? - Per Dio, mi aspettano... su
via... affrettati... presto. Io che ho sfidato non avrei dovuto
comparire secondo alla chiesa di San Michele Berteldi.»
E tosto di armi apparecchiato e di vesti si cacciò giù
a gran furia per le scale; giunto all'estremo gradino, il suo cane
fedele saltò fuori della casuccia e, le zampe deretane
puntando in terra, quelle davanti tenendo levate col collo teso,
faceva prova di rompere la catena per arrivare al suo signore.
«Italo!» esclama il Martelli, «povero Italo! tu mi
ami davvero; dicono la tua anima morirà col tuo corpo; se
così è, me ne duole non tanto per te, quanto per colui
che ti creava: - la tua anima meriterebbe sopravvivere al sepolcro
più che migliaia di anime umane...» Così
discorrendo, con la mano gli liscia la testa; e il cane si distende,
si voltola sul pavimento, poi balza in piedi scrollando la testa, e
come per vezzo mordendo dolcemente la mano a Ludovico; allorquando
poi questi procedendo oltre si allontanava, la bestia amorosa si
pose a guaire come se lo avessero ferito a morte.
Scese nel cortile; quivi lo attendevano i servi vestiti a festa; -
la mestizia dei volti in molto strana maniera contrastava con la
vaghezza degli abbigliamenti: - appena lo videro, lo circondarono e,
piegati i ginocchi in diverse attitudini e pur tutte pietose, gli
domandarono la benedizione.
«Sono io per avventura vescovo o papa, che possa darvi la
benedizione?» gridava egli tentando liberare le mani e i lembi
della veste dal bacio dei suoi servitori; - e mentre profondamente
intenerito mal s'ingegna a sostenere cotesta scena, leva gli occhi,
e gli occorre davanti l'uomo d'arme mutilato, il quale con la mano
che gli era rimasta reggeva pel freno il suo bellissimo cavallo
turco, e alle continue scosse del focoso animale se ne stava
immobile quanto i colossi di Castore e Polluce sulla piazza di Monte
Cavallo a Roma.
«Il mio destriero a me...»
Il soldato glielo guidava; egli vi salì sopra veloce come
baleno, e al tempo stesso stretta la mano all'uomo di arme, gli
disse:
«Gran mercè! - non vi sconfortate; - io ho ben pensato
anche a voi...»
«Andate e vincete», rispose il vecchio, «e se san
Giorgio non dimentica di essere santo, vi darà vittoria; io
vi aspetterò qui senza bere nè mangiare finchè
non siete tornato... e se non tornerete più... ebbene, io mi
lascerò morire di fame...» - e non versò una
lacrima nè mutò sembiante, ma si avviluppò nel
mantello e si stese per terra come uomo deliberato nel suo
proponimento.
Si aprono le porte; - i poveri della contrada, uomini, donne e
fanciulli insieme confusi, urtantisi, affollati, erano accorsi a
salutare il buon cavaliere, il benefattore di tutti: - «Dio lo
benedica! - Dio gli conceda la vittoria!» si udiva mormorare
da ogni parte; e quando se lo aspettava meno, si vide vicina la
vedova, la quale traendo seco una giovanetta sul fiore degli anni,
gliel'additava dicendo: «Vedi, cotesto è il gentiluomo
che ci ha salvato dall'avvilimento e dalla infamia.» -
Sicchè, gentile com'era, Ludovico si tinse di rossore e dette
degli sproni al cavallo per sottrarsi a tanta confusione.
Quando il destriere, percorso buon tratto di via galoppando, si pose
a passo più lento, udì dietro a sè uno
schiamazzo indistinto di voci umane. - ma chiaro e continuo il
latrato del cane, e,
«Odi», disse a Giannozzo, «il grido e forse
l'amore del mio Italo superano quelli degli uomini; e' mi manda da
lontano il suo ultimo addio.
La piazzetta di san Michele Berteldi ingombravano infinite persone.
Dante, abbigliato secondo il convenuto, se ne stava circuito dalla
sua comitiva, motteggiando e aspettando; allorchè gli fu
presso Ludovico, smontarono entrambi, e, strettasi la mano,
così il primo favellava al secondo:
«Dio ci mandi il buon giorno!
«Amen, fratel mio», rispose Ludovico, e fissava Dante
nel viso come meravigliato; e Dante sorridendo favellò:
«Vi paio strano, Ludovico? E' mi son fatto radere il barbone,
onde riuscire meglio spedito, imperciocchè ho pensato essere
cosa men trista lasciare in questo duello la barba che la vita. Or
andiamo via, chè frate Benedetto ci attende.»
Entrarono in chiesa, dove frate Benedetto da Foiano, ministrando
loro il sacramento della Eucaristia, gli riconciliò con Dio;
poi, confortati dell'acqua benedetta sparsa sopra di loro con
acconce orazioni, quinci si tolsero per incamminarsi al convegno.
Comecchè immenso popolo di parenti, di amici, d'uomini di
arme e di cittadini tenesse lor dietro, la compagnia destinata a
seguitarli fuori delle porte si ristringeva al numero determinato
nella licenza del principe. L'ordine era il seguente, secondo che
narra Benedetto Varchi diligentissimo storico: andavano innanzi due
paggi vestiti di rosso e bianco sopra due cavalli bardati di corame
bianco, e poi due altri paggi parimenti abbigliati sopra corsieri
grossi di lancia; dietro ai paggi due araldi, uno del principe di
Orange, l'altro del Malatesta, i quali andavano sonando
continuamente le trombe. Dopo di loro venivano il capitano Giovanni
da Vinci, giovane di forme colossali, padrino di Dante, e Pagolo
Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di
Ludovico, e messere Vitello Vitelli, padrone di ambedue, se per
sorte gli avversarii, mutato consiglio, avessero eletto di
combattere a cavallo. Seguivano Dante e Ludovico sopra destrieri
turchi di maravagliosa bellezza; vestivano su la corazza una casacca
di raso rosso con la manica squartata di teletta; avevano calze di
raso rosso filettate di teletta bianca e soppannate di teletta di
argento, e in capo un berrettino rosso con un cappelletto di seta
pur rosso, ornato di uno spennacchino bianco. Ai piedi di
ciascheduno dei combattenti camminavano sei staffieri vestiti nel
modo stesso degli altri a cavallo, cioè di raso rosso
squartato il lato ritto e la manica ritta di raso bianco, e le calze
soppannate di teletta bianca, e le berrette, ovvero tôcchi, di
colore rosso: dietro loro, ma non per uscire, parecchi tra i
più prestanti capitani della milizia fiorentina, e quindi
carriaggi e muli carichi di tutte quelle cose che loro potessero
abbisognare così al vivere come all'armamento tanto a
piè quanto a cavallo; imperciocchè, abborrendo
servirsi delle offerte dei nemici, portassero seco pane, vino,
biada, paglia, legna, carne di ogni sorta, di ogni ragione
uccellami, pesci di molte qualità, confezioni di tutte le
maniere, padiglioni co' fornimenti e masserizie di qualsivoglia
specie, infino l'acqua; - non mancarono il prete, il medico, il
chirurgo e in fondo due lettighe o piuttosto bare portate a spalla
da otto uomini vigorosi, onde potere in caso sinistro traslocare i
feriti. In questa guisa pervennero in piazza dei Signori, dove si
era adunata inestimabile moltitudine di gente per vederli passare;
la Signoria, anch'ella, comunque dimesso l'abito magistrale, stava
sopra i gradini del palazzo salutandoli e con ardentissimi voti
accompagnandoli: piegarono in Mercato Nuovo, poi volsero a mano
diritta percorrendo la strada di Borgo Santi Apostoli; svoltato il
canto delle Case Buondelmonti, riuscirono in piazza Santa
Trinità, non anche infame per la colonna su la quale Cosimo I
poneva una figura armata di spada, quasi angiolo sterminatore di
qualunque pensiero che non fosse di servitù!
Da questo punto, chè amore aguzza la facoltà visiva, a
Ludovico riuscì distinguere un volto tra i tanti affacciati
ai balconi e sì forte quella vista lo scosse che, a sè
traendo con atto convulso le redini, costrinse il buon cavallo
tormentato nella bocca a dare di uno sbalzo subitaneo indietro, per
cui egli ebbe a rimanere tolto di arcione. Molti lo tennero per
sinistro augurio; egli, comprimendo l'acerbità della
passione, si aggiusta in sella e seguita la via. Quel volto intanto
appariva più prossimo e si mostrava pallido, addolorato
quanto quello della madre di Cristo a piè della croce. Giunto
sotto il balcone, Ludovico levò arditamente la faccia,
vibrò uno sguardo feroce, e al tempo stesso, stesa la mano,
accennò una delle bare portate alla coda del convoglio. Il
volto diventò bianco - ed abbassandosi sparve.
Siccome Dante e gli altri della comitiva a destra e a sinistra
riverivano con le mani le gentildonne e i cittadini fattisi ai
balconi, così nessuno si accorse dell'atto di Ludovico,
tranne Giannozzo, il quale camminava alla staffa del suo signore.
Ludovico nel declinare del capo si avvide, incontrando gli occhi del
vecchio servo, che aveva ormai un testimonio al suo amore.
Quel volto era di Maria, che, mal potendo sopportare il cenno
disperato, svenne cadendo sul pavimento; riavutasi dopo lunga ora,
si prosternò agli altari, ma gli altari non le davano
più pace: - non sapeva per cui pregare; - chi dei due
combattenti vincitore desiderasse, esitava dire a sè stessa;
- cominciava un'orazione ardentissima perchè i santi e la
Madonna impedissero il duello; ad un tratto, presaga che non
varrebbe, la smetteva; allora ne principiava un'altra,
affinchè il Bandino vincesse, e la concludeva supplicando che
il Martelli superasse: - cuore mortale non sostenne mai più
fiera contesa; - però dal fondo dell'affanno sentì
nascere una quiete, - forse foriera della tomba, - ma pure quiete:
dall'incessante paragone tra Ludovico e Giovanni conobbe a prova la
gentilezza del primo, l'animo scellerato del secondo: - quegli,
sapendola amante di altro uomo, la propria vita sagrificava alla
patria ed a lei; questi, dubitandola infedele, conservava la sua per
vendicarsi, lei trucidando e contro la patria proditoriamente
combattendo; - l'uno, avendo grave argomento a rampognarla, non
usò parola che potesse avvilirla, o se alcuna ne adoperava,
quasi suo malgrado gli era traboccata dal cuore colmo fino all'orlo;
l'altro invece a piene mani le aveva gittato sopra il volto la
infamia: - assai più cose penetrò col pensiero, e
all'ultimo le parve la sua anima spogliarsi quasi di una nebbia
incresciosa e distinguere intera la bruttezza morale del Bandini; a
cagione del contrasto singolare della nostra natura, le dolse la
scoperta, - volle riporsi la benda che la tenne accecata; - invano:
- lo spirito, come uccello sfuggito dal carcere, abborriva
riprendere i lacci della passione: - fabbro umano - nè forse
divino, - vale a racconciare il giogo spirituale rotto una volta
ch'ei sia; - natura ed arte non conoscono balsamo che sappia riunire
i margini delle ferite dell'anima: - ella non amava il Martelli e
già sentiva di abborrire il Bandino.
La cavalcata continuando il suo cammino, scorsa la strada di
Parione, si avviò al Ponte alla Carraia; procedevano
silenziosi in balìa di pensieri diversi, quando
all'improvviso il Martelli, fermando il corsiero, si piegò
sull'arcione per contemplare anche una volta la diletta sua patria.
Il sole non coloriva ancora de' suoi raggi l'estremo emisfero, - la
città, rischiarata dalla prima luce del giorno, appariva
quasi ninfa montanina scesa su l'alba dai colli di Fiesole per
bagnarsi le membra nei lavacri dell'Arno, e le infinite ville
biancheggianti di cui andavano popolate le prossime colline avevano
sembianza, di un gregge di capre sparse pei balzi della pastura
della menta e del timo: - all'improvviso spunta la luce, e spuntata
appena, ecco percuote le finestre lontane dei palagi e i merli delle
torri, - balena una immensa quantità di fiammelle, si suscita
quasi un incendio, e l'aspetto della città di umile diventa
superbo. Allora si mostrò Firenze nella pienezza della sua
gloria, quasi regina cinta la testa di corona di gemme scintillanti;
- donna augusta, signora di provincie seduta sopra il dorso del
leone... Onde, preso da tenerezza e da orgoglio, scese da cavallo,
si prostrò a mezzo il ponte e, chinato il volto, baciò
la terra esclamando:
«Salute, o patria, salute!»
Quindi, tornato a cavallo, la salutò con la mano aggiungendo:
«O patria, addio!»
Giunti a porta San Friano, tolsero commiato dai parenti e dagli
amici, imperciocchè la Signoria avesse ordinato; diligente
guardia, onde nessuno uscisse oltre le persone descritte, tranne il
Sordo delle Calvane, che aveva il braccio al collo per una
archibugiata tocca scaramucciando, e Iacopo detto Iacopino Pucci, ai
quali concesse speciale licenza.
Usciti fuori della porta con le salmerie e cariaggi loro, andarono
lungo le mura fin presso Porta San Pietro Gatolino, dove
attraversarono in su la mano diritta e, scesi alla fonte del borgo
della medesima porta, presero la via della casa del Cappone, dov'era
il termine delle trincee dei nemici, e quindi si condussero a
Baroncelli, correndo tutto il campo a vederli, essendosi convenuto
che, infino non fossero giunti davanti al principe, non si dovessero
trarre artiglierie nè grosse nè minute da nissuna
delle parti; e così fu osservato.
Pagolo Spinelli, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi
davanti al principe di Orange, il quale, tostochè vide
entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato
insieme co' suoi baroni per complirla, proferì pacato le
seguenti parole:
«Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico
Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega,
messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro
cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per
entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e
messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari,
col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode
cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con
vostra patente del dì primo marzo 1529. Eglino stanno
allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro
parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di
Dio e col favore dei santi. E poichè hanno i miei principali
concesso agli avversarii la scelta dell'arme, si protestano di
questa capitolazione, la quale, dopo che sarà da me letta,
depositerò nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad
ogni buon fine di ragione.»
Qui trattasi dal seno una carta, lesse:
«Capitolazione. Messer Ludovico Martelli e Dante da
Castiglione protestano, affinchè gli avversarii non portino
in campo armi inusitate, sibbene secondo la costumanza di
gentiluomini...
«Oh Cristo!» interruppe il Bandino, «io torrei
piuttosto una stoccata nel petto che ascoltare qui siffatti
fastidii; - tregua alle forme, e cominciamo il duello.»
Lo Spinello volgendosi bieco parlò severamente queste parole:
«Perdonate; io mi credeva stare tra gentiluomini intendenti
delle regole di cavalleria...»
Il Bandino era sul punto di replicare, sicchè si correva
rischio di vedere suscitata una querela incidentale, dove il
principe non fosse intervenuto dicendo:
«Lasciate, messere Bandino, adempire il suo debito al
cavaliere Spinello.»
E lo Spinello riprese:
«E cavalieri onorati, senza fraude, inganno nè
vantaggio e non impediti; - item protestano che chi tocca le corde
dello steccato, o si dia per vinto, o si tagli il membro col quale
avrà tocco; item protestano, quando eglino non possano
vincere in questo giorno i loro avversarii, che la battaglia
continui la notte a lume di torcie, o il giorno seguente,
finchè sieno morti o vinti. Finalmente protestano in generale
e in particolare che le cose suddette valgano come profittevoli e
necessarie, facendo speciale protestazione congiuntamente e
separatamente in nome di tutti e di ciascheduno di loro.»
Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria
Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell'Aldobrandi,
e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del
capitano Pagolo Spinelli:
«Signor principe, qui stanno i nostri principali messer
Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in
campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di
san Giorgio, a tutta oltranza, finchè morte ne segua, la
querela avuta dagli attori falsa e mendace; - protestano accettare
tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria;
protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola
scempia di ferro, cioè fino al polso, senza difesa in testa.
Più presto fia, e meglio loro aggrada.»
«Cavalieri e baroni», favellò il principe
levandosi in piedi e scoprendosi il capo, «dacchè
onesto modo di composizione io non conosco tra voi oggi, giorno
dedicato a san Gregorio Magno, dodicesimo del mese di marzo,
mantengo e concedo il campo nei modi e termini contenuti nella mia
patente del 21 febbraio ab incarnatione 1539. Assumo giurisdizione
di giudice, e come primo atto della mia autorità delibero si
differisca l'abbattimento per sei ore continue, affinchè i
cavalieri provocatori abbiano tempo a riprendere lena. Adesso,
spogliando la veste di giudice e con migliore animo riassumendo
quella di cavaliere privato, vi prego, o signori, che vogliate
onorarmi di ristorarvi nella mia tenda...»
E proseguiva; ma quell'austero vecchio dello Spinello gli
troncò a mezzo le parole dicendo:
«Noi ci portammo anche l'acqua.»
«Fate come meglio vi talenta», rispose il principe
quanto per lui più cortesemente si poteva, ma non tanto
però che non comparisse in volto alcun poco turbato; e
s'inchinò per accommiatarli.
Già il sole declinando oltre il meriggio segnava l'ombra
delle cose da ponente a levante quando Pagolo Spinello, recatosi in
compagnia di Giovanni da Vinci alla tenda del principe, disse:
«È l'ora.»
Filiberto di Orange trasmise immediatamente l'ordine sgombrassero il
campo fatto apparecchiare alle radici del poggio Baroncelli sur un
prato che giace a mezzo della strada che conduce al convento dei
religiosi chiamato comunemente la Pace; e poi mandò una
guardia di Tedeschi e Spagnuoli, onde ricingesse lo steccato e, che
alcuno vi si accostasse, impedisse.
Era lo steccato un luogo quadro, separato all'intorno da pali di
legno fitti in terra, dai due lati paralleli aperto per lasciare
libero l'ingresso e la uscita; dagli altri lati s'innalzava un palco
ornato di bandiere pel principe, giudice del campo, e dirimpetto a
questo un lieve rialto di terreno pel contestabile. Oltre i cancelli
sorgevano due padiglioni dove i combattenti aspettavano il segnale
per comparire dentro la lizza.
Poichè ebbe ogni persona occupato il luogo che secondo il suo
grado le conveniva, o che per fortuna le toccava in sorte, il
principe mandò l'araldo in mezzo del campo, che a voce alta e
sonora pubblicò il seguente bando, di cui è notabile
la evidenza:
«Per parte dell'eccellentissimo signore Filiberto di Chalons,
principe di Orange, generale dell'esercito per Sua Maestà
Carlo V imperatore e re, si fa divieto a chiunque qui presente che
nè in fatti nè in detti favorisca alcuna delle parti
combattenti, nè in qualunque altro modo, cenno, via, maniera,
forma o colore avverta una parte, o mostri vantaggio o svantaggio
dell'una contro l'altra, sotto pena della forca da essere allora
allora eseguita, ecc.»
Ritiratosi l'araldo, e fattosi un solenne silenzio, si udiva lo
squillo delle trombe; cessato che fu, comparvero fuori dai
padiglioni i padrini seguiti dai loro principali, che a passi lenti
e con sembianza severa s'incamminarono alla volta del principe; -
seguivano dalla parte dei provocati, due araldi portanti un fascio
di armi, imperciocchè spettasse loro il carico di provvedere
stocchi e manopole. Venuti alla presenza del principe, i padrini
posero un libro degli Evangeli sopra certo altare, e fattosi ognuno
alcun poco da parte, lasciarono ai lati dell'altare Ludovico
Martelli e Giovanni Bandini: - sporse il primo bramoso la mano
sinistra e, stringendo la destra al secondo e tenendogliela ferma
sopra il libro, proruppe con terribile impeto:
«Uomo ch'io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi
santi la mia querela contro a te buona e giusta, e tu combattere
proditoriamente contro la patria.»
Il Bandino subito svincolando la mano e afferrando a sua posta con
la manca la destra del Martelli, con voce cupa rispose:
«Uomo ch'io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi
santi essere la tua querela contro di me temeraria, e possa il tuo
sangue ricadere sopra la tua testa.»
Un soldato spagnuolo si accosta quanto può meglio vicino
all'orecchio di un soldato italiano che la perorazione del bando del
principe aveva fortemente commosso, e susurra con voce dimessa
queste parole:
«Signor soldato, non vi par egli il giuramento
imperfetto?»
«Per qual cagione, Moreno?»
«Hanno omesso giurare che non avevano addosso nè pietra
nè erba, incantagione, fattucchieria, la camicia della
necessità, od altro sussidio diabolico, deliberati in tutto
di vincere con l'aiuto di Nostra Donna del Pilastro e di Dio.»
«Don Moreno, voi prendete un granchio per due ragioni, una
meglio dell'altra: primo, perchè la vostra Madonna del
Pilastro qui non conta proprio nulla essendo posta Fiorenza e il suo
contado sotto la protezione della Madonna della Impruneta e di san
Giovanni Battista...”
«Ah! questa vostra ragione, signor soldato, e' pare che abbia
qualche parentela col senso comune.»
«L'altra ragione si è, che il diavolo non usa
più in Italia.»
«Diavolo! Oh! come non usa più?»
«Che cosa volete ch'io vi dica, don Moreno? - E' pare che il
diavolo abbia abbandonata la Italia dacchè ci siete entrati
voi altri fedelissimi sudditi di Sua Maestà l'imperatore
d'Austria; forse perchè vi conosce più demonii di
lui.»
Mentre cosiffatto colloquio avveniva, Pagolo Spinello con quel suo
piglio soldatesco favellava:
«Or sarà bene che proviamo un poco le armi,
dacchè ai tempi nostri abbiamo veduto inganni e malefizi
infiniti: armi avvelenate, guanti che nel chiudere il pugno
cacciavano fuori punte da ferire la mano, e simili altre ribalderie;
sicchè la diligenza è a senso mio una delle poche cose
dove il soverchio non rompe il coperchio.»
«Usate del vostro diritto di padrino», notò il
conte di San Secondo con alterezza, «ed astenetevi da parole
gravi all'onore di questi cavalieri.»
«Io vo' che sappiate, messere lo conte, che quarant'anni nella
milizia non me gli sono mica giocati a primiera; conosco meglio di
voi quanti piedi entrano in uno stivale: - parola non è mal
detta, se non è mal pensata; - e se la giornéa vi fa
male, allentatela come vi aggrada.»
Ed a questi aggiungendo, secondo il suo costume, più altri
proverbi assai, tolse dalle mani dell'araldo una spada e, provatala,
disse:
«Questo è buono stocco, e questa è buona
manopola; - prendete, Vico: quest'altro è pur buono stocco, -
e la manopola senza eccezione; - a voi, Dante. Signori, ho fatto il
mio ufficio.»
«Concedete adesso che noi facciamo il nostro», riprese
don Ferrante, volendo provare a sua posta le spade rimaste; ma lo
Spinello lo arresta parlando:
«Parmi che buttate via l'opera e il tempo; - non avete portato
le armi voi stessi? Or come volete provarle?»
«Lasciate», soggiunse svincolando la mano don Ferrante;
«se portammo le spade, non per questo le abbiamo provate.
Messere Bellino, questa ci pare spada di buona tempra, -
quest'altra... per Dio! la si è spezzata... io
stupisco.»
«Ed io me l'aspettava!» esclama Pagolo;
«conciossiachè come dic'egli il proverbio? In chiesa
co' santi, e in taverna co' ghiottoni. L'arme era falsa, e si
conosce espresso; - chi portò l'arme se ne rese mallevadore;
combatta dunque col troncone il Bandino; - questo caso fu preveduto
dal Codice della cavalleria...»
«Noi non saremo per consentire giammai che il cavaliere scenda
con tanto suo vantaggio nello steccato», riprese il conte di
San Secondo.
«Porti la pena del tradimento», grida Pagolo.
«Di che tradimento parlate? Voi ve ne men...», urla il
conte; se non che don Ferrante gli pone la mano pronto su i labbri e
gli dice:
«Tacete: volete voi fare la querela vostra? Egli è
padrino...»
Intanto correva la fama celere e varia ad ogni moto, siccome si nota
avvenire delle nuvole portate dal vento traverso il cielo. Le teste
dei popoli quivi raccolti agitavansi rumorose a guisa delle onde di
un mare in burrasca: secondo le diverse passioni diversi erano i
detti, tutti però esagerati o mendaci. Lo spagnuolo Moreno,
riappiccando il discorso col soldato italiano.
«Vedete, signor soldato», diceva, «ciò
avvenne perchè non recitarono il giuramento intero: a
qualcheduno di loro io porto opinione che abbiamo trovato addosso la
fattuccheria; il diavolo usa sempre anche in Italia.»
Giovanni da Vinci e Pagolo Spinello con grandissimo impeto
sostengono dovere il Bandino combattere col troncone, altrimenti
ritirarsi dal duello i principali loro: questa la legge; dove
presumessero non osservarla, avrebbero pubblicato la infamia degli
avversarii, la querela vinta e mandato la notificazione a tutti i
principi della cristianità.
«Pace!» non si potendo più frenare, grida il
Bandino, «io non provvidi l'arme, si tolse questa cura il
conte Piermaria qui presente; - mi smentisca, se può. - Ora
tregua alle parole: io mi cimenterò col troncone... siete voi
contenti? - O si finisca una volta!»
«La vittoria non mi darebbe pregio, la perdita infamia.
Ludovico Martelli potrà forse chiamarsi, se così vuole
la fortuna, cavaliere sventurato, ma nessuno lo potrà dire
scortese; - abbia l'avversario nuova spada nonostante qualunque cosa
in contrario: se fu caso, lo ripari; se malizia, mi basta la sua
vergogna.»
«Cercatevi dunque, messere Ludovico, un altro padrino,
dacchè io mi ritiro.»
«Vorreste voi per avventura mancarmi in questo estremo, messer
Pagolo?»
«Non sono io che vi manco, sibbene voi mancate a voi stesso.
Io non voglio si dica un giorno avere male sostenuto le vostre
parti: - ogni uomo deve conservare la sua fama, specialmente noi
vecchi, perchè il tempo ci manca a riparare un fallo, se mai
avessimo la sventura di commetterlo: a voi piace il nome di cortese,
a me quello di austero; a voi la rilassatezza, a me l'osservanza
delle regole. Nè per la mia assenza voi scapiterete in nulla,
chè vi manderò Jacopino dei Pucci. Non pertanto mi
piace in questa ora porgervi un consiglio che la dolorosa esperienza
del vivere tra gli uomini mi ha dimostrato buono e di cui vi
desidero possiate far senno in processo di tempo: non prestate mai
danaro agli amici; non dite mai il vostro segreto a femmine; non
siate mai cortese verso i vostri nemici. Addio.»
Nè preghi nè scongiuri valsero a trattenere quel
vecchio caparbio; mentre si partiva dalla lizza, il generoso Dante
scotendo il capo diceva:
«Il popolo sostiene che la morte sopraggiunge improvvisa: -
non è vero; - giunti che siamo a certa età, ogni anno
ci porta via una virtù: la vecchiezza è il vestibolo
della morte: prima l'uomo serve di camposanto alla sua anima, - poi
la terra di camposanto all'uomo. Io udiva lodare Pagolo come uno dei
più gentili cavalieri d'Italia, e ora...»
Iacopino dei Pucci, mandato dallo Spinelli a sostenere le sue veci
si presenta: il momento del duello si avvicina.
Suonarono le trombe e fu fatto silenzio.
I combattenti e i padrini si divisero in due partite. Dante,
Bertino, Giovanni da Vinci e il conte Piermaria si pongono da un
lato del campo, - Ludovico, Giovanni, don Ferrante e Iacopino
dall'altro.
Allora tesero due corde che in due lizze uguali partirono il campo.
I padrini con molta avvedutezza avvolsero e legarono i cordoni
pendenti dall'elsa degli stocchi intorno al polso dei combattenti;
quindi toltili pel braccio, li guidarono a mezzo il campo, dove
distribuito con vantaggio eguale il vento e il sole, si ritirarono
dicendo:
«Dio vi aiuti!»
Dante tiene fitti gli sguardi sopra il suo avversario, e lo vedendo
così bello di forze e di giovanile baldanza, nè
ricordandosi averlo più mai incontrato altrove e pensando
come ora dovesse con lui cimentarsi all'ultimo sangue, se ne sta a
guisa di trasognato, poi con voce che studiò rendere, quanto
meglio poteva, soave, gli domandò:
«Che ora fa egli, giovanetto?»
E il Bertino, a cui parve essere tolto a dileggio, rispose con
accento di minaccia:
«L'ultimo della tua vita.»
Dante con un suono pur malinconico soggiunse:
«Oh! figliuolo mio, la morte degli uomini sta nel pugno chiuso
di Dio...; non potrebbe anche essere l'ultima della tua?... e allora
che cosa direbbe tua madre?»
«Ciò che dirà la tua.»
«La mia? Oh! la mia direbbe: egli morì per la patria e
non piangerebbe. - Ma tu ti chiami Aldobrandi e sei fiorentino, -
perchè dunque Dante da Castiglione t'incontra nel campo
nemico? - Vedi! nella mano mi tentenna la spada, pensando che sta
per versare sangue cittadino..., e tu non pensi a nulla?
«Nel contemplarti così atante della persona, penso al
Filisteo abbattuto da David.»
«Ma David» riprese tosto il Castiglione infervorandosi
nel dire, «ma David combatteva per la sua patria, e Dio lo
sovveniva!»
«A me poco preme che il diavolo mi aiuti, purchè tu
muoia.»
«Ma non ti sta punto a cuore la tua patria?
«La mia patria è la spada.»
«Ahi! serpente... la tua anima è un nido di vipere, -
muori!» proruppe Dante; «dacchè il tuo cuore
trabocca di veleno, si rompa... la tua tristizia supera i tuoi anni;
- muori! - tu hai vissuto anche troppo...»
E sollevò lo stocco.
Io ho veduto questo stocco! - E lo baciai, perocchè fosse
impugnato per la difesa della patria, - e lo bagnai di pianto,
imperciocchè versasse sangue fraterno.
Lungi circa otto miglia da Firenze, continuando per la via che mena
a Carreggi, dove morì impenitente il magnifico Lorenzo del
Medici del più atroce peccato che uomo possa commettere
quaggiù, e pel quale gli uomini meritamente non danno perdono
nè Dio, voglio dire il disegno di togliere la libertà
alla patria, tu incontri un'erta malagevole: percorrila intera e
troverai su la cima, come aquila che riposi dentro il suo nido,
Cercina castello della casa Castigliona; - davanti le si mostra
Firenze, dietro ha un dirupo: - il tempo avendo cacciato la mano
nelle viscere della montagna, la costrinse da questa parte ad
avvallare, sicchè i muri di Cercina squilibrati, per molte
frane paurosi, minacciano precipizio.
Io imprendeva cotesto breve pellegrinaggio con uomini ai quali il
cielo fu largo di arguto intelletto e, meglio dell'intelletto, di
cuore gentile che sa amare la patria quanto ella è più
sventurata.
Trovammo il castello abitato da un nepote di Dante, povero e solo.
Egli ci mostrava sembianza selvatica, quasi leoncello sorpreso nella
sua caverna; anni correvano ed anni che orma di piede italiano non
era comparsa lassù! Ma quando egli udiva essere noi saliti a
venerare l'onorata reliqua, esultò: - una stilla del sangue
dei Castiglioni gl'infiammò la faccia, ci offerse cortese la
tazza ospitale e trasse da un vecchio armario lo stocco, di cui
all'elsa stava appeso un cartello che a lettere d'oro diceva: Questo
è il famoso stocco col quale Dante da Castiglione
combattè il duello... nel 1529. - Posto perpendicolare al
terreno mi giungeva a mezzo il petto, - tagliava da due parti; - la
impugnatura e il pomo tutto di ferro, se non che si vedeva sul pomo
alcuna traccia di doratura; - il guardamano si componeva di una
sbarretta di ferro posta a traverso, - sulla sbarretta un cerchio,
dove insinuandosi l'indice e il medio, si potesse stringere la
radice della lama in cotesto punto scavata; - e intorno la sbarra e
il cerchio copia di cordone di seta bianco e rosso, forse per meglio
impugnarlo e acconsentire il campo, - e questo cordone prolungandosi
da ambe le parti termina in due nappe, - prolungamento il quale
serviva, come vedemmo, ad avvolgerlo intorno al braccio del
combattente, onde per lassezza o per altro caso non rimanesse
disarmato.
O casa Castigliona, ecco quanto rimane di te! - Un castello che
rovina - una fama che si perde, - una spada che la ruggine consuma!
- Però, qualunque tu sii, o nepote di Dante, che te ne stai
come uno spettro custode delle tombe a vigilare su la spada
dell'inclito tuo avo, - esulta! - esulta! - tu non sei povero! Tu
hai in casa un ferro che può servire di leva al trono
più superbo della terra; - tu hai un ferro che alzato
può infondere un magnetismo di gloria nell'animo di un popolo
- un ferro che posto nelle mani anche di un morto avrebbe la
virtù galvanica di farglielo brandire minaccioso. - Esulta!
la povertà di te abitante il castello de' tuoi padri commuove
la nostra ammirazione, mentre la dovizia di quelli che abitano
l'avvilita Firenze fa piangere. Dappertutto può concepirsi
l'antica Firenze meglio che nella Firenze moderna; - colà
tralignati nepoti hanno venduto l'usbergo che difese il petto ai
loro parenti, - colà la spada impugnata per la patria
scambiarono in scuriada. - Vuoi leggere le carte dove i nostri
grandi vergarono l'eterne sentenze? Va nelle biblioteche dei popoli
stranieri: - questa stirpe svergognata ha venduto la sua
eredità per un pugno di monete: che cosa non venderebbe ella
mai? l'anima se l'avesse, - l'ossa degl'illustri antenati, se non
fosse stupida tanto da ignorare dove riposano, l'azzurro e le stelle
del firmamento, se le potesse stringere nelle sue mani codarde.
Miseria e sventura!
Oh! se potessero queste pagine scritte col sangue durare, io da gran
tempo mi sarei aperto le vene, perocchè vorrei rimanessero in
testimonianza che nel presente deserto delle anime visse un
precursore di cui la voce protestò contro la tristizia dei
tempi ed invocò l'aurora di un giorno di gloria;
perocchè vorrei che i nostri figli, entrando per avventura in
qualche antico camposanto, si trattenessero dall'oltraggiare le ossa
paterne, pensando come fra tante miserabili reliquie forse si
trovano mescolate quelle dell'uomo che l'amor santo di patria
accettò come mandato di grandezza e di martirio, nè
gli fu mai infedele finchè i suoi occhi poterono versare una
lacrima, la sua bocca proferire una parola, il suo cuore mandare un
sospiro per la libertà.
Intanto Dante e Bertino hanno mutato molti colpi senza offendersi.
Bertino, agilissimo, dall'uso quotidiano esercitato, muove
così veloce la spada che a gran pena la seguita l'occhio. Ora
si distende sul terreno, quasi a toccarlo col petto, e là
puntando la mano manca si sostiene; ora balza di un salto da un
lato, ora dall'altro; - spesso aperte ambe le braccia ed abbattuta
la spada, invita con perfida lusinga il nemico a ferirlo nel petto;
- e' par che scherzi intorno alla spada nemica a guisa di farfalla
intorno alla fiaccola senza bruciarsi mai l'ale. Certamente cotesto
è giuoco pericoloso da volere spacciato il duello con un
colpo solo.
Dante, accortosi non potere, a cagione della gravezza delle sue
membra, reggere la prova coll'avversario in cotesto assalto
procelloso, se ne sta guardingo, tutto in sè ristretto,
vigilando a non perdere la misura; anzi è fama che
prevalendosi della sua molta forza, lo stocco sostenesse pel pomo, e
così spazio tale acquistasse per cui Bertino non sarebbe mai
giunto a toccarlo nel petto, se non che deviandone fortemente la
lama dalla parte destra o dalla sinistra. L'Aldobrandi, sdegnoso di
resistenza così lunga, raddoppia i conati, all'improvviso
finge di accennare alla spalla e di repente descrive mezzo cerchio
con la punta e minaccia il torace, quindi replicando col ferro in
senso inverso la curva, ferisce al Castiglione il braccio diritto
verso la scapula.
«Ah!» urla Bertino, «l'ho pure veduto il tuo
sangue; - ma per renderti il ben dell'intelletto mi è forza
aprirti più largamente la vena.»
E prevalendosi del ribrezzo che ogni uomo prova nel sentirsi un
ferro tagliente e ghiacciato penetrare nelle carni, vibra lo stocco
di nuovo e lo aggiunge leggermente nella bocca.
«Dimmi, Castiglione, or che lo assapori, ti par egli buono il
tuo sangue?»
Dante non rispondeva, ma digrignava i denti da mettere ai meglio
animosi spavento, le sopracciglia orribilmente stringeva, gli erano
diventati ritti i capelli; - non pertanto fermo osservava con
risguardo il nemico.
«Per santo Jacopo!» esclama Moreno il soldato spagnuolo,
«cotesto vostro gentiluomo fiorentino mi sembra lo scoglio del
quale fece Moisè scaturire la fontana: - versa sangue da due
ferite e non si move.»
«Guai all'Aldobrandi, se si moverà!» risponde
l'italiano.
«Ei mi parrebbe tempo; - vedete, - ecco, - ha toccato un'altra
ferita nel pesce del braccio sinistro.»
«O santo Giovanni Battista, assistetelo voi!»
supplicò il soldato italiano, «messere Dante corre
pericolo presentissimo di vita: - vedete, - per la seconda volta ha
rilevato un fendente nel braccio sinistro.»
Invero Dante già da quattro ferite è impiagato; - e
comecchè leggere elle sieno, non cessano per questo di
indebolirlo e d'affliggerlo: - fu suo proponimento, quando prima
scese nel campo, vista la furia dell'avversario, stancarlo; e
quantunque egli avesse in questa parte conseguito l'intento,
ciò non era avvenuto senza suo danno: ond'è che,
sentendosi adesso venir meno la gagliardìa, deliberò,
deposta la difesa, assaltare francamente l'Aldobrandi.
E per meglio investirlo alla sprovvista, finse indietreggiare come
smarrito. Se Bertino lo incalzasse improvvidamente baldanzoso non
è da dire; - già nell'accesa fantasia lo spinge ai
pali dello steccato, già lo costringe a rendersi; - gli dona
la vita; - le sue orecchie intendono il grido della vittoria, - la
sua anima s'inebria di gloria!
Mutati anche due passi, Dante si ferma. Bertino, divampante d'ira a
cagione della resistenza impreveduta, mena la spada con tanta
rapidità che coruscando la lama al raggio del sole declinante
toglie la vista al Castiglione.
Ah! giovanetto, tu se' prode in battaglia, ma tu potrai più
presto smovere le Alpi dalla base loro che spingere vivo il tuo
avversario dal posto nel quale egli ha deliberato omai di vincere o
di morire; un'altra volta vibri la spada, e un'altra volta la
fortuna te la tinge di sangue nemico... ultima però; - lo
spazio ascendente della curva hai percorso, ti rimane lo spazio che
discende e declinando conclude con la morte.
La quinta ferita colse Dante nel braccio sinistro, e forte gli
lacerò la carne; onde, preso da terribile furore, cacciato
via ogni riguardo, venne a mezza spada. - Molti poeti assomigliarono
l'ira umana, come per dimostrarla fuori di modo spietata, a quella
dei leoni, degli orsi e di altri cosiffatti animali. - Male accorti!
- Il furore dell'uomo non ha paragone; egli è solo in natura.
- Dante tempestava, - il battere de' suoi denti scuoteva i nervi dei
circostanti: - imbrattato di sangue, sozzo di polvere, alza con ambe
le mani la spada... guardati, Bertino, che ti cala adosso un colpo
tremendo.
E fu tremendo davvero, chè il taglio del suo stocco scontrato
il taglio dello stocco avversario, lo incise profondamente per
traverso, e poi, mutando direzione, fece scoppiare un pollice di
lama, la quale scheggiò via sibilando intorno al capo di
Bertino, come palla di archibuso. - Il braccio di Bertino con impeto
irresistibile sbalestrato lontano dal cuore lascia scoperto il seno
di lui; - ci si avventa la punta del ferro di Dante bramosa di
sangue.
Non pertanto schivò l'Aldobrandi l'assalto volgendosi spedilo
a mancina di faccia al sole: il Castiglione si prevalse del
vantaggio allargando un passo da parte e non concesse campo a
Bertino di mutare cotesta posizione senza suo grave pericolo.
E cotesta situazione di per sè stessa lo esponeva a pessimo
partito, dacchè i raggi del sole gli abbagliavano gli occhi,
e tra quella luce scintillando la spada nemica gli balena funesta
sugli occhi quanto quella dell'angiolo che allontanava dall'Eden i
primi padri colpevoli.
Il conte di San Secondo, male sapendo come potere in tanto estremo
sovvenirlo, immemore delle leggi della cavalleria stese l'alabarda
su la quale erasi fino a quel punto abbandonato, come per accennare,
e con grave voce esclamò:
«Bada al sole! - Poni mente al sole, - o tu sei morto! «
Giovanni da Vinci, padrino di Dante, il quale a cagione della
immobilità e taciturnità sua aveva fatto dubitare se
fosse un cavaliere vivente o piuttosto un colosso inanimato, ruppe
il silenzio dicendo:
«Signor conte, per avventura dimenticaste il bando?»
«Me ne ricordo, capitano; il peggio che può andarmene
è la forca.»
«No, il principe di Orange non vi condannerà ad essere
appeso, ma io vi passerò molto bene da una parte all'altra
con la mia partigiana.»
«Voi?
Un urlo immenso, doloroso, troncò cotesta lite.
Tacquero entrambi ed attesero a contemplare il campo di battaglia.
Miserando spettacolo!
Giace l'Aldobrandi supino con le braccia prosciolte; - la manopola
uscita dalla mano si era tratta dietro la spada che stava adesso
lontana dal braccio che l'aveva impugnata; - dalla gola aperta versa
un fonte di sangue.
Confuso dal bagliore, scambiò Bertino un istante il raggio
del sole col baleno dello stocco avversario; - un solo istante
smarrì il ferro nemico, e Dante sottentrando allungò
le braccia con quanta forza gli aveva concesso natura e gl'immerse
la spada nella gola: penetrò la punta omicida nell'ugula,
ruppe l'osso del palato, e l'occhio sinistro si rovesciò
sanguinoso fuori dell'orbita. - Un momento prima tanto bello, tanto
leggiadro, - adesso orribile... orribile a vedersi!
«Arrenditi!» gli grida il Castiglione, «arrenditi,
o ti finisco!»
«A molto... migliore cavaliere... che non sei tu... io mi
arrendo», risponde con parole interrotte Bertino Aldobrandi;
«mi arrendo... a Dio.»
Percosso il Castiglione dalla voce e dalle parole, punta a terra la
spada; la sua naturale pietà adombrata come da una nuvola di
furore tornò luminosa a spanderglisi su l'anima, e ridivenuta
mite, si curva affannosa sopra il morente.
«Oh! io mi sento morire», riprende a gran pena Bertino,
«presso a morte Dio mi rischiara l'intelletto... ahi tardi!...
pure in punto che basta a pentirmi... Perdonami... e vogli una
grazia concedermi... Deh! gentil cavaliere, non volermi questa
grazia negare... non maledire alle mie ossa... ma le seppellisci
pietoso... nell'avello de' miei maggiori... credo in Santa Maria
novella... Ahi! madre mia!...»
«O giorno di dolore! o giorno d'ira!» esclama Dante
appoggiando il mento sul pomo della spada; «Ecco, i fratelli
uccidono i fratelli, e figli di una stessa terra si lacerano tra
loro! - noi bagniamo questo suolo col sangue del parricidio, - e il
suolo sconsacrato produce un frutto amaro, - il frutto della
schiavitù. - O patria mia ridotta a tale che non sai se devi
affliggerti maggiormente delle sconfitte o delle vittorie dei tuoi
figliuoli! - miseri noi, cui la morte del nemico tormenta con i
rimorsi medesimi del delitto! - la congratulazione pesa come una
rampogna; - la fama turba come il chiodo che conficca il nostro nome
alla storia quasi a gogna perpetua, - ormai la nostra scelta sia nel
vivere codardi o nel vivere iniqui. - O giovanetto! - fossi tu
spagnolo, o tedesco; la mia anima si allegrerebbe: - ora ella
piange, - ella maledice la sua fortuna, - ella desidera scambiare
teco il destino. - O Dante! tu che tanto amasti la patria, qual
giudizio ti aspetta in faccia dei posteri! - Tu hai spento un uomo
che valeva meglio di te. - E chi ha detto ch'egli sia spento? - Egli
se ne mente... egli vive, ed io l'ho conquistato alla
patria...» E qui, buttate via manopola e spada, s'inchina
palpitante sopra Bertino; - mancandogli pannilini, straccia la sua
camicia, tenta arrestare il sangue della ferita, gli fascia con
amore la gola, e poi corre a raccogliere lo stocco e la manopola
caduti al trapassato, e l'una e l'altro gli adattando alla destra,
«Sorgi», continua con voce di comando, «tu non sei
morto; - io appena ti vidi, ti amai, - come dunque posso averti
ucciso io? - Stringi la spada. Fiorenza aspetta la tua difesa...
affrèttati... stringi la spada, ti dico; oh! dolore...
dolore... la morte gli tiene irrigidite le braccia... egli è
morto!... ed io l'ho trucidato!...»
La stanchezza, il dolore e il molto sangue perduto lo facevano
vaneggiare; forse sarebbe caduto, se Giovanni da Vinci nol
sosteneva; con lo aiuto di alcuni staffieri accorsi egli lo
trasportò fuori del campo, non senza avere prima gettato uno
sguardo sopra la lizza gridando:
«Vittoria! - vittoria!»
Il conte di San Secondo, fieramente turbato, si volse con man piglio
verso il capitano da Vinci e gli parlò minaccioso:
«Tu rompi la legge del bando...»
«Tu la rompesti primo, - solo faresti troppo trista figura
sopra la forca: appesi insieme poi le daremo sembianza di
gentildonna con le sue gioie da festa. - Vittoria, Martelli!
vittoria!»
Ma la vittoria aveva abbandonato Ludovico Martelli.
Quando prima scesero in campo, Ludovico e il Bandino si gittarono
giù dalle spalle un mantello che gli riparava dal freddo,
nè presero cura di metterli tanto in disparte che non
potessero in seguito apportare loro impedimento.
Tremavano entrambi; se alcuno dei due avesse avuto animo più
pacato, al primo colpo terminava la battaglia. I circostanti
mandavano un mormorio simile a quello degli spettatori mal
soddisfatti di uno spettacolo scenico: - pareva che non osassero, -
eppure cotesta esitanza nasceva dall'odio soverchio che infiammava
ambedue; - avevano per trucidarsi mestiero che quella ardente
passione si sfuocasse. - Alloraquando diventò l'ira
pacatamente omicida cominciarono le disperate percosse, e furono
poste in pratica le arguzie tutte, gl'inganni e le orribili arti di
tagliarsi le membra.
Volle sventura che, mentre dava il Martelli un passo indietro per
ischifare una botta, il piede gli s'intricasse nel mantello,
sicchè venne a perdere l'equilibrio del corpo, onde il
Bandino sottentrando veloce lo giunse, comechè leggermente,
con la punta della spada sopra la fronte tra ciglio e ciglio.
Ludovico, toltosi d'impaccio, rispose di una stoccata tesa, la quale
avrebbe da parte a parte trafitto il Bandino, dove questi non avesse
piegato speditamente il corpo, non tanto bene però che lo
stocco nemico non gli forasse la carne sotto la poppa manca e via
gli portasse una lunga brandella di pelle.
La ferita riportata da Ludovico sopra la fronte stillando sangue
glien'empie gli occhi e gl'impedisce la vista: - egli fruga per
trovare un pannolino: - non lo avendo o non lo trovando, tenta
strappare una nappa di seta pendente ai cordoni avvolti intorno alla
sua mano. Un solo istante china lo sguardo per vedere di bene
afferrarla, e questo istante bastò al Bandino per sollevare
la spada e calargliela sopra la testa.
Improvvido di consiglio, ma ben fermo da saltare indietro o da
parte, il Martelli allunga la mano e stringe il taglio della spada
nemica; il Bandino la tira a sè con forza e gliela recise
fino all'osso; - intanto il sangue negli occhi si condensa
più copioso; - egli comincia a scorgere mezzo gli oggetti, -
confusamente, - circondati da iride sanguigna; - gli scorre un
sudore ghiacciato per tutto il corpo; sente intronarsi le orecchie
di un zufolio fastidievole: - due volte si vide il ferro del Bandino
minacciante sul capo, e due altre volte, riportandone sempre
profonde ferite, si difese con la mano sinistra; fermo di morire, ma
bramoso di trascinare seco l'avversario nella tomba, punta la spada
al petto e precipita là dove gli sembra che stesse il
Bandino: - fu agevole a questo sfuggire quel cieco moto, - pure
così rapido gli venne addosso che gl'incise buona parte del
braccio di larga, non già pericolosa, ferita. Il Martelli
rimane scoperto - e in qual parte siasi ritirato il suo avversario
non vede; - mentre brancolando si sforza incontrarlo, una fiera
percossa gli spezza la testa e lo costringe a vacillare come uomo
ebbro di vino; - barcolla tre volte e quattro... sta... trema... e
finalmente cade stampando della sua persona un'orma sanguinosa sopra
la polvere.
«Muori!» urlò pieno di tremenda esultanza il
Bandino, e curva la gamba sinistra, stesa la destra, ambe le mani
levate, l'intero corpo acconsentendo all'urto, si atteggiava a
fendere fino al mento la testa del caduto; - ma non ancora aveva
percorso la metà del giro, che un'altra idea di vendetta
più truce gliela fermò, nè gli parendo potersi
ormai trattenere più oltre, chiuse le mani, e la spada cadde
inoffensiva sul fianco del Martelli; - egli poi si rimase con le
braccia aperte nella guisa dell'uomo che manda una maledizione: -
infatti egli intendeva lasciare a quel prostrato la vita come una
maledizione. - Se muore - egli pensò, - il suo tormento
cessa; - se vive, gli si rinnoveranno ogni giorno i dolori della
morte; non che tôrgli il sentimento, avrebbe dovuto dargli
parte del suo; - se non sente, non soffre, ed egli stava per
aiutarlo a riparare dietro al sepolcro! Oh! viva e racconti la sua
bocca al mondo la disfatta patita, - palesi il suo aspetto al mondo
la propria vergogna, - duri testimonio vivente che Dio non esiste,
o, esistendo, non prende cura degli uomini; o se pure la prende, i
suoi giudizi paiono oltraggi di cinico, non già consigli di
suprema intelligenza.
«Vivi!» replicò il Bandino; «tu mi salvasti
la vita, io te la rendo. Dio ha giudicato tra me e te: - impara a
rispettare chi val meglio di te: - il cielo ti dichiara traditore...
non sono eglino infallibili i decreti del cielo?»
«Tu hai vinto la persona... e non la querela....»
«Ho vinto l'una nell'altra... arrenditi!»
«Dio mi ha abbandonato... una volta abbandonò il suo
figliuolo... adesso abbandona la libertà... ma che più
nulla di divino deve durare sopra la terra?»
«Arrenditi!»
«Mi arrendo al marchese del Guasto...»
«A me devi arrenderti... a me che tengo sotto i miei piedi la
tua testa...»
«Oh! io mi arrendo...»
E che? - Egli aveva giurato di voler morire, egli un'ora innanzi
avrebbe tagliato la gola a chiunque si fosse osato proporgli di
comporsi in pace col Bandino; - e adesso si arrende così?
Gran parte e la migliore di sè gli sfuggiva dal cuore insieme
col sangue; dianzi le arterie gli vibravano piene di vita, - adesso
languidissime sembra appena che palpitino; - il dolore gli tiene
l'anima ingombrata per modo che non lascia luogo a pensiero di
sorte. - Quanti superbi disegni si porta via la vecchiezza! - Quanti
orgogliosi proponimenti all'appressarsi della morte impallidiscono!
- Gli anni penetrano nel sangue, come il mercurio, e lo
irrigidiscono; - la stupidità, scacciati via l'odio e l'amore
dal cuore umano, se ne compone quasi un sepolcro di pietra; - l'uomo
è signore del momento presente; e tosto che conosce esserne
signore, il momento è passato; quello che segue rimane fuori
della sua potestà.
Ma quando assale un pensiero di orgoglio o turba la invidia,
m'incammino là dove sopra lieve eminenza giace il cimitero
della mia città: - quivi, appoggiando la spalla alla soglia
della porta, mi volgo a contemplare la terra che abbandonai, e,
immaginando essere convertito nel Tempo, esclamo: O città dei
vivi, tu sei grande, ma questa città dei morti già ti
contiene dieci volte, e ti conterrà venti, cento, quanto
parrà a me, perchè il sepolcro è una delle cose
nel mondo che non dice mai: Basta! - Io compendio tutto, - uomini e
cose; - io solo posso comporre in pace nella medesima fossa
l'oppressore e l'oppresso; - per me il conquistatore si contenta di
tre braccia di terra, e se gli pongo al fianco un cadavere, ve lo
sopporta mansueto e paziente senza dirgli: Fatti in là; -
egli ve lo sopporta, mentre vivo imponeva a' popoli interi
sgombrassero le provincie per lasciargli libero il passo, ordinava
al mondo estendesse i suoi confini, ai cieli si allontanassero per
respirare più aperto: - io riduco in essenza gli enti creati,
- degli animali mi basta la cenere, - delle città la polvere;
- nel cavo della mano porto l'esercito di Cambise, - su le mie
spalle in un sacco Sodoma e Persepoli. - Un giorno verrà
ch'io mi volgerò al sole e gli dirò: Chiudi le
palpebre e dormi, tu hai vigilato assai; - e poi soffierò su
le stelle e le spegnerò come fiaccole rimaste accese dopo la
fine del festino... e perchè no? - Forse non ho cacciato dai
cieli una moltitudine di numi, come il castaldo, terminati i lavori
dei campi, licenziate le opere? - Forse non ho lasciato appesa alle
volte del firmamento una serie di dii, quasi scheletri di condannati
al patibolo... spettacolo pieno di miseria e di scherno? - Un
giorno, stanco di distruggere creatori e creature, cause ed effetti,
io staccherò dai cieli il manto azzurro e me ne
comporrò un sudario funebre per addormentarmi nel seno della
eternità... Eternità! - Io me ne torno alle domestiche
mura salutando umilmente per via anche il mendico che mi domanda
l'elemosina per l'amore di Dio.
Da ambedue le parti sconfitta: - dall'un lato e dall'altro silenzio
di trombe, mormorio di voci inquiete: - i baroni tedeschi e
spagnuoli irrompendo dentro lo spazio vietato ricordavano i colpi e
le vicende del duello.
«È stato un nobile duello, - quale avrebbero potuto
combattere due cavalieri castigliani!» esclamava uno
Spagnuolo, cui uno smilzo Tedesco rispondeva:
«Certo degno di due baroni alemanni.»
La querela dichiararono non persa nè vinta, e dalle genti
credule fu reputato segno che la fine della guerra avesse ad essere
per ambedue le parti infelice; per la quale cosa avesse a giudicarsi
la ragione stare di qua e di là, o piuttosto non fosse
ragione in nessuna.
Dante avendo con giuramento dichiarato ultima volontà del
morto Aldobrando essere stata di avere sepoltura negli avelli de'
suoi maggiori, potè trasportarsi seco il suo cadavere. Lo
accomodò pertanto con amore infinito dentro ad una bara, lo
fece con diligenza lavare, poi gli mise attorno l'armatura completa,
sicchè pareva un guerriero il quale col sonno rifacesse le
forze.
Nell'altra bara composero il Martelli.
Giannozzo, il servo fedele, sostenuto dalla speranza di salvare la
vita al diletto padrone, vigilava il trasporto.
Sul tôrre commiato dal principe, in segno di militare
onoranza, ordinò si sparassero tutte le artiglierie; al quale
frastuono la città, paurosa di sventura, rimase taciturna.
NOTA.
[a] È pregio dell'opera riportare certo aneddoto riferito
nella Vita di padre Gerolamo Savonarola scritta da fra Pacifico
Burlamacchi lucchese al capitolo che incomincia: Come Lorenzo dei
Medici ammalato volle confessarsi da lui. - Lorenzo trovandosi
infermo a morte, domandò il confessore; ed avendo appresso
don Guido degli Angioli e messer Mariano della Barba, suoi
famigliari, disse: Non voglio alcuno di loro; mandate per il padre
priore di San Marco, perchè io non ho ancora trovato
religioso alcuno se non lui. - Andò dunque un messo a
chiamarlo da parte di Lorenzo, al quale egli rispose: Dite a Lorenzo
ch'io non sono il suo bisogno, perchè noi non saremo
d'accordo; però non è espediente ch'io venga. -
Ritornato il servo con questa ambasciata, disse di nuovo Lorenzo:
Torna al padre priore e digli che al tutto venga, perchè io
voglio essere d'accordo con lui e far tutto quello che sua
riverenzia mi dirà. - Ritornato dunque il servitore a San
Marco e fatta la proposta al padre priore, egli prese subito il
cammino verso Careggio, villa di Lorenzo lontana due miglia dalla
città, dov'egli giaceva ammalato, e per compagno suo prese
fra Gregorio vecchio, al quale per la via rivelò che Lorenzo
al tutto doveva morire di quella infermità nè poteva
scampare. Giunto questo al luogo ed entrato nella camera di Lorenzo,
salutatolo prima con le debite cerimonie, dopo alquanto di
ragionamento disse Lorenzo: Padre, io mi vorrei confessare, ma tre
peccati mi ritirano addietro e quasi mi pongono in disperazione. -
Al quale egli disse: E quali sono questi tre peccati? - Rispose
allora Lorenzo: I tre peccati sono questi, i quali non so se Dio me
li perdonerà: il primo è il sacco di Volterra, che
patì per le promesse ch'io feci, - dove molte fanciulle
persero la verginità, ed infiniti altri mali vi furono
commessi; - il secondo peccato è il Monte delle fanciulle
delle quali molte ne sono capitate male standosi in casa per non
avere riavuta la dote loro; - il terzo peccato è il caso dei
Pazzi, dove molti innocenti furono morti. Alle quali cose rispose il
frate: Lorenzo, non vi mettete tante disperazioni al cuore
perchè Dio è misericordioso ed anco a voi farà
misericordia, se vorrete osservare tre cose ch'io vi dirò. -
Allora disse Lorenzo: E quali sono queste tre cose? - Rispose il
padre: La prima è: che voi abbiate una grande e viva fede che
Dio possa e voglia perdonarvi. - Al quale rispose Lorenzo: Questa ci
è grande, e credo così, - Soggiunge il padre: Egli
è necessario ancora che ogni cosa male acquistata sia da voi
restituita, in quanto sia possibile, lasciando ai vostri figliuoli
tante sostanze che sieno decenti a cittadini privati. - Alle quali
parole stette Lorenzo alquanto sopra di sè e di poi disse: Ed
ancora questo farò. - Seguì allora il padre la terza
cosa dicendo: Ultimo è necessario che si restituisca Fiorenza
in libertà e nello stato popolare a uso di repubblica. - Alle
quali parole Lorenzo voltò le spalle nè mai gli dette
altra risposta; onde il padre si partì e lasciollo senz'altra
confessione. Nè dopo molto spazio di tempo Lorenzo
spirò e passò all'altra vita.
CAPITOLO VENTESIMOTERZO
LA MORTE
Nelle man vostre, o dolce donna mia,
Raccomando lo spirito che muore
E se ne va sì dolente che Amore
Lo mira con pietà...
Dante, Rime.
In sull'una ora di notte, la medesima via seguitando, se ne
tornarono a Firenze, dove, avvisati i capitani di guardia alle porte
e fortezze, risposero con le artiglierie levando clamorosa gazzarra.
Il convoglio procedeva lentissimo; - ad ora ad ora si fermava,
affinchè il moto non riuscisse funesto al Martelli; molte
torcie bituminose gettavano luce vermiglia, come se per ardere si
alimentassero del sangue versato in cotesta infelice giornata: si
udìa pel bujo un accorrere di gente e voci confuse ricambiate
alla lontana, - poi si vedevano figure avvolgersi intorno alle bare
simili alla ridda dei demonii esultanti per qualche gran delitto
commesso dagli uomini.
Dante con passi rigidi, le braccia fasciate, il capo pensoso rivolto
a terra, cammina in mezzo alle bare; le sue forme,
michelangiolesche, l'espressione che loro comunicava lo splendere
sinistro delle torcie, incutevano in chiunque lo riguardava
meraviglia e spavento.
Giunsero in via del Parione: la medesima gente della mattina si
stava affollata alle finestre, - però non come la mattina
salutante, agitante i fazzoletti per dare conforto o per causa di
onore: nè al suo balcone mancava Maria... misera! gli occhi
di lei per troppo piangere non distinguevano bene; - un sentimento
indefinito di sventura la teneva oppressa; ma la sua testa
cominciava a diventare immemore, - le idee vi trascorrevano
sconnesse, o nessun altro vincolo conservavano fra loro, eccetto la
continuità di tormento. Non per tanto con le pupille dilatate
cercava, come per istinto, un oggetto che non le riusciva
incontrare, quando Giannozzo, levando la faccia lagrimosa, le
gittò tale uno sguardo che le sommerse l'anima dentro un
abisso di dolore: passò l'angoscia ogni segno mortale, e
dalle sue fauci ingrossate sfuggì un grido.
Forse il grido della madre che veda l'unico suo figliuolo
precipitare nel torrente può assomigliarsi a quello che in
cotesta ora lanciò per la notte la povera Maria. - Ma qual
cosa quaggiù può assomigliare il grido della madre
disperata? Io per me credo che torture d'inferno non valgano a
strapparlo uguale dai labbri dei dannati. Gli astanti a quello
strano lacerarsi dell'aria portarono ambe le mani agli orecchi,
imperciocchè temessero di averli feriti, e pregarono il cielo
che per pietà di loro non si rinnovasse. Bocca mortale non
può cacciare fuori due volte un suono siffatto.
Passando dalla chiesa di San Michele Berteldi, vi depositarono il
corpo di Bertino Aldobrandi: il giorno appresso che avesse sepoltura
convenevole piuttosto alla pietà di chi gliela dava che ai
meriti di lui curarono. Lo rammentarono pochi; - più pochi lo
piansero; il cuore di sua madre, quando ne seppe la morte,
sentì dolore per tutti, gli occhi di lei lo lacrimarono per
tutti... misera madre! pienamente misera, imperciocchè la
gloria mai si inchinasse a consolare quel pianto.
«Alzati!» grida un servo investendo co' piedi il soldato
rimasto immobile nel cortile del palazzo Martelli; «alzati e
cibati, perchè messere Ludovico ritorna; - e non
morto...»
«Oh!» esclamò saltando da terra l'uomo d'arme
mutilato; e, immemore di sè, solleva il moncherino in atto di
battersi la fronte.
Di fuori si udia come fremito di mare in lontananza; - dentro si
vedevano lumi correre di su, di giù, e un affrettarsi di
servi e un irrompere senza saper dove. Chi mai aveva così
presto apportato la notizia nella casa Martelli? - Un vento precorre
l'infortunio, siccome le procelle della natura.
Il mutilato si precipita alle porte, quinci tende lo sguardo per le
prossime vie; dappertutto erano tenebre, se non che all'improvviso
il popolo allaga il terreno, non pure a udirsi, ma ben anche a
vedersi somigliante all'onda nera di torrente infernale: poco dopo
le torcie diffondono sinistro splendore, - poi appariscono le bare,
- poi il gigantesco Dante da Castiglione, davanti al quale l'onda
del popolo si apriva, non altrimenti che le acque del fiume grosso
davanti il petto di poderoso cavallo intento a guadarlo.
Nè il mutilato potendo, atteso la gente, percorrere lo spazio
che lo divideva dalla bara, mandò fuori un guaito in accento
di domanda:
«Morto?»
Dante rimase percosso da cotesta voce, e sebbene non si accorgesse
da cui moveva, pur comprendendo dal suono quanta angoscia
travagliasse l'anima di quello che lo proferiva, rispose per
tôrlo dalla incertezza:
«No: vive.»
Con infinito amore fu il Martelli portato e deposto entro al letto;
- gli rinnuovano l'apparecchio; - lo circonda Giannozzo con le cure
di madre: Dante non si mosse più dal suo fianco; - seduto
sopra un basso sgabello, con le mani si abbracciando le ginocchia su
quelle riposava la faccia ed attentissimo porgeva l'orecchio se
più o meno uscisse affannoso l'anelito dal petto
dell'infermo.
Le ferite erano di per sè stesse pericolose, non mortali; -
ma l'anima stette percossa in maniera che forte dava a dubitare se
si sarebbe rilevata più mai. Il volto gli si faceva con
incessante vicenda ora bianco, ora di fuoco; - la vergogna gli
spingeva il sangue alla fronte, urtandogli dolorosamente il cranio,
- l'ira glielo richiamava intorno al cuore: non tregua mai nè
riposo: un zufolìo acuto gli strazia i nervi, sicchè
spesso si scuote e si distende rigido, come se il trisma lo
assalisse; - talvolta un rapido roteare di fiamme par che lo investa
e seco lo trascini; onde, temendo gli manchi sotto il terreno,
sporge le mani per afferrare un oggetto qualunque, e supplica Dio
che alcuno lo liberi dal precipitare. Sovente si lamentò che
sua madre lo lasciasse così nudo e assiderato giacersi in
mezzo a nevi insopportabili; più spesso esclamò:
«Levatemi questi carboni di sotto, perchè mi
arroventano le carni! - Mi avete esposto alla bocca dell'inferno! -
Voi mi avete tradito! - Mi avete sorpreso in mezzo al sonno per
trasportarmi nei deserti dell'Africa! - È il tormento di
Busiride!...»
Questo delirio nasceva, per così dire, dai dolori fisici; a
mille doppi più doloroso era quello che ei cacciava fuori
stretto dallo spasimo morale, e:
«Dove mi trascinate voi?» gridava. «Io non voglio
il paradiso, tenete per voi, angioli e Dio, le vostre celestiali
allegrezze, - il mio cuore mortale non sa concepirle. - Tu sei,
Maria, il mio paradiso; - Maria, vedi quell'aquila sopra codesta
roccia dirupata?... vieni... vuoi tu che la raggiungiamo col
volo?... vieni... stringimiti alla cintura... oh! come scorriamo
leggieri... come andiamo in alto! - perchè gemi, Maria? - Ti
offende forse quel suono lontano che pare di sospiri? Non badarvi...
e' muove dal brulichio che fa su quel punto nero la razza delle
formiche infernali che si chiama uomini, - la razza dei miserabili
che si vanta simile a Dio e si divora sopra un pugno di terra
insanguinata, - che si contende le sepolture. Maria, stringimi
forte... la procella mi ha rovesciato l'ale... misericordia! la
bufera mi trabalza, mi travolge peggio che filo di paglia... si
fendono i cieli.... ci fulminano coll'acqua e col fuoco. - Bene! se
la tempesta non avesse lampi, io morirei... ma finchè uno
splendore - o di sole o di fulmine - mi mostrerà il tuo
volto... io sarò lieto, Maria. - Guarda, Maria, studia il
passo, imperciocchè su queste verdi erbe e odorose che tu
calchi improvvida ha strisciato il serpente, - e il serpente, lo
sai, insidia il piè della femmina da quel giorno in cui una
donna chiamata come te, o Maria, gli calpestò la cervice..
ecco la biscia! salvati! - Gran Madre di Dio, ella non mi ascolta! -
si compiace nel suo sorriso!... il sergente l'ha affascinata!... ti
salverò tuo malgrado... Ahimè! sono ferito! il mio
sangue si tramuta in veleno... come mi pesa il cuore! come mi pesa
la testa! - Io muoio di sonno...»
E qui si addormenta, e tutto il suo corpo stilla sudore; - poi con
piccola voce rispondeva:
«Ti amo tanto, Maria! - non fuggirmi... accostati... io
abbisogno di sentirti alitare... se mi ponessero dove non è
aria, io mi nudrirei del tuo alito... se dove non è luce, mi
scalderei al tuo sguardo, - tu mi saresti il creato; - ma deh!
Maria, non amare il Bandino. - In fede di gentiluomo egli non merita
il tuo affetto... senti! - Io ho versato il sangue per Fiorenza! -
egli trucidò la patria; me benedisse il cielo con un raggio
di poesia.... costui è chiuso ad ogni senso di bello... e
poi... io dico o lo taccio? - Te lo dirò... io l'ho
contemplato fisso più di un'ora... ho partitamente distinto
il volto e la persona... mi sono fatto qui nella mente la sua
immagine con la tenacità dell'odio, e subito corsi ad uno
specchio per paragonarmi con lui; - in verità io lo vinco in
bellezza; - egli ha gli occhi smorti, infossati, livida ha la
sembianza e truce; - i miei occhi splendono lucidissimi, - ho bianco
il colore... l'aspetto benigno... amami dunque; - e se non vuoi
amarmi, - sia, - ma non abbandonarmi... a me basta che tu mi tocchi
con i tuoi piedi... io porto invidia al pavimento della tua
cappella... detesto quasi il tuo libro di orazioni... lui beato! -
Senti, io sarò qual più mi vuoi... se mi dirai:
piangi, io piangerò con tutte le viscere, perchè sono
nato a questo: - se m'imporrai ch'io rida.... ed io mi
sforzerò, - riderò, - e sempre terrò riposto un
pugnale nel seno per uccidermi quando mi dirai: sgombra da questa
terra... - perchè non mi rispondi, Maria? - Dove vai? -
Perchè ti allontani? - Chi è colui che ti chiama? -
Ah! - s'intrecciano per le braccia... ridono forte.... bisbigliano
sommessi... si volgono... si schermiscono... Morte di Dio! Il
Bandino! - Maria si allontana col Bandino!»
«Questa è cosa che non può durare!»
esclamò Dante da Castiglione la sera del 3 aprile del nuovo
anno 1531.
I miei lettori sanno i Fiorentini avere il costume di cominciare
l'anno il 24 marzo, perchè in quel giorno cade la
solennità della incarnazione di Cristo: l'uso d'incominciare
l'anno dal gennaio data da epoca assai meno remota a quella che
percorre il nostro racconto.
«Questa cosa non può durare!» replicò
Dante, «corrono ormai venti giorni dal duello; le sue ferite
appaiono rimarginate; - il corpo ha riposato... nè il delirio
cessa... forse... Giannozzo!»
Dante si strinse in segreto colloquio con Giannozzo, e dopo pochi
momenti, tolto il mantello, che la notte era fredda e piovigginosa,
s'incamminò a gran passo verso Parione alla casa della vedova
Benintendi.
«Ella è in casa madonna?» domandava il
Castiglione alla fante che venne ad aprirgli l'uscio.
«È.»
«Ditele, un cavaliere desidera favellare con lei per cosa onde
ne va la morte o la vita.»
«In mal punto veniste, messere; adesso sta rinchiusa in
cappella nè vuole essere sturbata nelle sue orazioni.»
«Non importa: andate in ogni modo.»
«Con buona licenza vostra io non andrò, messere.»
«Va, per Dio! e dille Dante da Castiglione instare per
vederla... Il caso è grave... io voglio vederla, -
intendi?»
La fante obbediva, imperciocchè lo sguardo di Dante, commosso
a furore non consigliava a fargli troppa opposizione, - quindi a
poco tornava la fante per dirgli, non senza un qualche dispetto,
entrasse liberamente.
«Madonna!» favella Dante con quei suoi liberi modi,
salutata in prima Maria, «spero mi conoscerete... io mi chiamo
Dante... e sono di casa Castigliona.»
«Messere, dei vostri illustri fatti così piena è
la fama che...»
«Eh giusto, madonna, si tratta adesso di questo! - Io non lo
diceva mica per quello che pensate voi, nè anco per
ombra», interruppe Dante, il quale, comunque in campo feroce,
nel foro audacissimo, manteneva nei socievoli commerci peritanza
virginale, «io lo diceva soltanto per conoscere se voi mi
tenevate in concetto di gentiluomo onorato.»
«Onorato! Voi mi parete quanto onore viva al mondo.»
«Bene; - e sopratutto discreto.»
«Io vi venero come padre, se non fosse peccato direi come
Dio.»
«Bene via: ora dunque, Madonna, ascoltatemi se volete, non
sono troppo destro nell'arte di favellare con femmine; voi mi
confondete, - quasi mi fate obbliare la cagione per la quale mi
condussi in vostra casa... però, siccome penso essere le
vostre parole sincere, io ve ne profferisco col cuore quelle grazie
che so e posso maggiori, - e di ciò basta. - Conoscete voi
Ludovico Martelli? Se voi nol conoscete, non monta, - egli invece
conosce, e più che non gli farebbe di mestieri, voi; -
insomma egli sembra preso da svisceratissimo amore per voi, madonna
Maria; - già corrono venti giorni dal duello, le sue ferite
si rimarginano, ma il suo cuore ha tale una piaga alla quale
eccellenza di fisico o virtù di farmaco non giovano; - il
più del tempo vaneggia, e voi chiama e voi prega che non lo
sprezziate, altri non gli preferiate in amore; ed invero qualora
ciò faceste, voi avreste il torto, madonna, perocchè
sia il più gentile cavaliere che viva in Italia. - Ora non
credete voi che la presenza e parole vostre gli apporterebbero
altissimo conforto? Io penso che sì, - e forse varrebbe a
fargli deporre quella ostinata voglia di morire che tanto lo assale;
- venite dunque, madonna, e per voi sia conservato un difensore alla
patria, un amico ai suoi amici, a molti infelici un benefattore, i
quali da lui in fuori non hanno sostegno altro su questa terra. - In
quanto all'onor vostro non dubitatelo vi giuro in fede di gentiluomo
che non solo non iscapiterà, ma acquisterà nuovo
pregio; imperciocchè, se a voi piaccia, - rimarrà ad
ognuno celata la cortesia vostra, o se venisse per accidente a
sapersi, fu ed è sempre nobile ufficio di gentildonna
sovvenire senza pregiudizio della sua onestà di pietosa aita
un cavaliere prestante.»
«Messere Castiglione, che cosa mai pretendete da me?»
«Nulla, madonna, che a me non paia convenevole al vostro
decoro, al giusto consentaneo ed all'onesto; io per me, quando sto
in procinto di commettere azione la quale possa essere giudicata
diversamente dagli uomini mi pongo una mano sul cuore e mi consiglio
da lui; se egli approva, ed io con animo lieto la imprendo,
imperciocchè quando l'uomo sta bene con sè, vedrete
che gli altri terminano sempre di star bene con lui.»
«Non vi sia grave, messere, attendere per brevi
momenti», interruppe Maria; e lasciato Dante soletto,
passò in altre stanze.
Dante, rimasto senza compagnia, si pone a passeggiare turbato
mormorando:
«Ma doveva pure conoscere che non vi sarei riuscito! Io non mi
sento acconcio a cosiffatte bisogne; la parola stretta in quattro
mura mi manca; dei concetti che penso ad aria aperta non mi riesce
aprire la millesima parte dentro una stanza; avrei dovuto affidarne
l'incarico a qualcheduno dei miei amici così valenti a
ragionare per filo e per segno su la stagione, sul caldo, sul freddo
e su tante altre belle cose che pare un incanto; - io non so quali
argomenti adoperino, ma, a sentirli dire, e' ti sembra proprio
vedere quello che espongono; e se ti vogliono cacciare addosso il
furore, tu sbuffi come toro ferito; se piace loro farti piangere, tu
piangi... Oh! se potessimo tornare a vivere due volte io porgerei
ascolto a quel buon padre Zaccaria il quale sudava acqua e sangue a
farmi leggere su que' suoi libri latini: - ma a quei tempi io ne
facevo turaccioli per l'archibuso! Quante volte ho ammazzato un
colombo con un'egloga di Virgilio e con un pezzo di piombaggine
levata dalle vetriere della cappella...»
Gli troncava le parole Maria, la quale, tornando coperta di una
specie di gabbano di colore sanguigno, disse:
«Deh! cavaliere, siatemi cortese di porgermi il vostro
braccio, e andiamo...»
«Favellate da senno? Oh siate benedetta! Dopo Maria
Santissima, e madonna mia madre, la femmina che d'ora in poi
terrò più in pregio sarete voi...»
«Ludovico!» chiamò Dante con voce soave
accostandosi al letto.
«O Dante mio, se' tu?»
«Ti senti un po' sollevato, Vico?»
«Sollevato? Sì... certo... sollevato verso il cielo; -
il mio fine si avvicina... eppure mi parrebbe di morire contento, se
potessi una volta - una volta sola contemplarla... udire dalla sua
bocca che... non mi abborre... Maria!»
«Senti, Vico... e s'ella venisse?...»
«Chi venisse?»
«Colei che desideri tanto, - colei che così spesso
chiami, - Maria.»
«O mio diletto, e perchè vuoi rendermi fuori di misura
angosciose le ore della mia agonia? Forse non ho sofferto
abbastanza? - Io manco di vigore per consumarmi nell'anelito di
speranza che ha da riuscire vana...»
«Ella verrà.»
«S'ella avesse promesso di venire tra un secolo, io, vedi,
Dante, amico qual tu mi sei, ti ruberei la vita per aggiuntarla alla
mia e così poterla aspettare...»
«Ed io non aspetterei che tu me la togliessi... io te la
donerei;... ma ella verrà prima...»
«E quando?»
«Tosto; anche adesso.»
«Oh venga!... subito... venga! - Il mio cuore non m'inganna.,
- io non la vedo, - ma il mio sangue sente la presenza di lei. - O
Maria! - o Maria! - Guarda in che stato si trova ridotto il tuo
Ludovico - Maria!»
«Ahi Ludovico! Non ti bastò vedermi sventurata, tu mi
hai voluta anche iniqua.»
«Nè sventurata nè iniqua. Io ti ho mantenuta la
parola. - Non ti giurai lasciarmi uccidere? Ecco, come vedi, io
batto alla porta della morte; - desiderava di non arrecarti
l'affanno di udirmi un'altra volta... al cielo piacque altrimenti...
io non poteva fare di più... apersi il mio seno all'odiato
nemico. Oh! perchè non vi spinse la spada più forte -
Non pertanto, vicino a comparire davanti al tribunale di Dio, nel
mio seno mortale comprimo la rabbia... ed ogni altra passione che ci
viene dalla terra, per dirti che Giovanni Bandini... non è un
codardo.»
«Ludovico!»
«Poichè gl'istanti della mia vita sono numerati, non mi
volere interrompere, Maria. - Egli non è un codardo...
bensì traditore... in ciò non lo scuso, nè Dio
lo scuserà... - Io amerei poterlo avere in pregio, - vorrei
potere renderlo onorato, - degno in tutto di te. Forse le lagrime
del pentimento hanno la virtù del battesimo... San Pietro
rinnegò Cristo... San Paolo lo perseguitò... Tu dunque
imprendi a fargli detestare il suo misfatto... convertilo alla
patria... almeno tentalo; e se il cielo seconda la tua opera, Maria,
confida a quell'uomo la tua sorte... amalo... che bene lo amerai. -
Per me poi... io era nato a morir presto - troppo gran fiamma ardeva
nel mio petto perchè non mi consumasse veloce; - non mi
uccide il ferro del Bandino bensì la mia passione, - il tempo
mena l'oblio; - bene spesso la lapide del sepolcro seppellisce col
morto gli affetti dei vivi. - Nè, quando pure mi fosse
concesso, a te felice vorrei comparire dinanzi ombra dolente,
nè desidero insinuarmi pensiero miserissimo a turbarti le
gioie dell'anima - E' v'ha un'ora nella notte, nella quale i sepolti
nei chiostri dei conventi sembra che mandino su pel campanile una
voce di bronzo ai morti della prossima chiesa, e questi a quelli di
un'altra, finchè quel suono si disperde nello spazio quasi
per domandare a tutti se debbano continuare a dormire o se pur
giunse il tempo di presentarsi al giudizio finale... ora consacrata
alle meste memorie - alla ricordanza degli antichi trapassati...
Maria, in quell'ora... in quella invocazione dei defunti alla
preghiera pei vivi, ricordati di me che ti amai tanto... tu poi non
mi ami, o Maria...»
«Io?»
«Tu non mi ami, e lo so; - perchè vorresti lusingarmi
adesso? Io intendeva assuefarmi a questo veleno... egli fu assai
più potente di me e mi ha divorato le viscere. - Che cosa
vuoi farvi? - ormai le viscere sono corrose. - Però non
dovrebbe increscerti ch'io muoia per te... anche a Dio piacciono gli
olocausti di sangue... Addio! - Talora vorrei supplicare l'Eterno,
che a tanto peso di sciagura condannò la mia giovanezza, di
poterti mettere in oblio, Maria,... ma io non posso invocare il mio
inferno... e d'altronde quanto è tremenda angoscia, mio Dio,
quella di uno spirito immortale che per la durata di secoli senza
fine si affanna in un amore che non può ispirare altrui... O
Creatore! sovvieni alla tua creatura. O Cristo! alle spine, ai
chiodi, alla lancia nel costato la tua anima spirò... io
sopravvivo alle mie ferite...»
«Ludovico, confortati, vivi per essere felice; - se, come dici
e come credo, tu mi ami tanto, a nome dell'amor tuo, io ti prego, -
io t'impongo di vivere: - la mia vita ebbe uno splendido mattino; tu
vedi come la funesti tenebroso il vespero; - beato te, a cui
certamente si apparecchia una vicenda diversa!»
«E il tuo destino, Maria?»
«Io sono morta al mondo: - anche me ha consumato la mia
passione; - io per me credo avere vuoto il seno, - o se alcuna cosa
dentro vi avanza, ella è un pugno di cenere. - Gli affetti
d'ora in poi traverseranno il mio cuore quasi pellegrini nel
deserto, o affrettandosi a fuggirlo, o vi rimanendo sepolti; - ma il
cielo, - e solo il cielo lo può - nella sua misericordia
illuminerà con speranza questa caligine di dolore, -
ravviverà lo spirito contristato col refrigerio della divina
compassione.»
«Ahi Bandini! Bandini!»
«Deh! Ludovico, che questo nome non ti sfugga dalle labbra
più mai; - io non ho fibra che mi stia ferma nell'udire
cotesto nome d'infamia; io lo abborro: lo avrei amato infelice e
perseguitato, - lo avrei seguito sposa, ancella, tutto, in
qualsivoglia plaga del mondo; se il sole avesse troppo ardenti
piovuti i suoi raggi, nè albero o frasca avesse portato la
terra per ripararlo, io mi sarei sciolta i capelli, e, glieli
diffondendo sul volto e sulla persona, gli avrei detto: Riposati
all'ombra, diletto mio; - se trapassando una landa nevosa non
avessimo trovato asilo nessuno, io mi sarei incisa le vene e lo
avrei scaldato nel tepido lavacro del mio sangue... La vita, oh!
è egli un sacrifizio dare la vita per l'uomo del nostro
amore? - Adesso... io lo abborro; il traditore non potrebbe dirsi
punito, se trovasse un asilo dove ricovrare il suo capo; - a lui sia
padre il delitto, consorte la paura, figlio il rimorso, - in lui si
rinnovi la maledizione di Caino; - viva una lunga agonia, - col
terrore di essere riconosciuto e lapidato, viva una vita
immortale.»
«Se come parli, tu senti, Maria, - ecco, io ti aspetto a
braccia aperte... vieni... oh! vieni... a farmi palpitare di
speranza e di amore...»
«Ormai io sono sacra: con giuramenti solenni io mi legava a
Dio; - lo supplicai di pace, ed egli m'indicò la quiete del
monastero: - tra poco queste mie chiome cadranno recise; - in breve
udrò su me viva salmeggiare le preghiere dei morti:
null'altra cura in me, tranne quella di scavarmi la fossa, -
null'altro pensiero tranne quello di stancare quotidianamente il mio
Creatore, onde gli piaccia abbreviarmi questa veglia incresciosa che
si chiama vita; null'altro mi starà a cuore, Ludovico,
finchè le mie labbra si chiudano alla parola, che offrire
voti a Gesù e alla santissima sua madre Maria, onde ti
concedano giorni riposati e dolcezza di sposa e orgoglio di figli
generosi, - magnanimi, - a te somiglievoli.»
«Odi, Maria, - senza ferro, o laccio, o veleno, o mezzo altro
esterno di levare me stesso dal mondo, io sento stare nella mia
volontà sola il vivere o il morire; se il tuo destino vorrai,
aggiungere al mio, - ecco, io vivo; se tu lo neghi, io spiro.»
«Ludovico, ho giurato...»
«Un sacerdote ti scioglierà dal giuramento e ti
porrà in pace col cielo.»
«E chi mi porrebbe in pace colla mia coscienza?»
«L'amore.»
«Ho giurato! ho giurato! Lasciami... io sono sacra... Invano
speriamo felicità dallo spergiuro. Dalla soglia del sepolcro,
dove io m'incammino a seppellirmi viva, ti supplico a vivere...
Addio! Perchè prolunghiamo questa ora piena di amarezza?
Addio! Il Signore, che contempla il nostro sagrifizio, ci
somministrerà forze non isperate per consumarlo... rammentati
in cielo chiamarsi gloria quello che in terra si va dicendo.
martirio.»
«Or dunque addio! Però, in questa ultima ora dalla
quale ogni vivente tremando rifugge, una grazia ti chiedo, Maria,
una grazia che può rendermela la più lieta di quante
io ne abbia goduto nel mondo, tale per cui il paradiso e le sue
gioie mi sembreranno una continuazione di morte...»
«Chiedila, Vico...»
«Nè io oserei domandartela, se subito dopo non dovessi
avvilupparmi nel manto della eternità. Ma il volto di colui
che sta per essere coperto da una lapida può animosamente
svelare il suo desiderio. Il mio sangue, più che mezzo
gelato, non colorirà più la mia fronte col vermiglio
della vergogna...»
«Parla, via, in nome di Dio! >
«Maria, ho sete di un bacio... Maria, questa è la sete
degli agonizzanti... Ah! lo rifiuta. Spinto desolato
traverserò lamentando i regni della morte, siccome disperando
ho consumato la vita.»
«Ludovico!» tutta tremante favella Maria e nel favellare
si curva, «possa non prenderne nota l'angiolo accusatore, o
cancellarlo l'angiolo della pietà... eccoti un
bacio...»
«Un altro! Oh un altro!... mille altri ancora!»
E con un impeto che sembrava, ed era, rabbioso, forte le avvinghia
ambedue le braccia intorno al collo: - la testa della donna tiene
strettamente congiunta con la sua; l'una respira l'anima dell'altro.
- Ludovico, traendo un gran sospiro, esclama:
«Questo abisso di contentezza supera la mia natura
mortale!...»
La donna, immemore, non ardisce abbandonare quella bocca; intanto il
suo pensiero volgendo a considerare quanto fedele amatore si fosse
costui e qual tesoro di affetti nel suo cuore accogliesse, sente
vacillare il suo proponimento di rendersi a Dio; spera le sia
rimesso il voto, nella sua mente delibera premiare tanto amorosa
costanza: - la concetta durezza le si scioglie, quasi neve tocca dal
sole, e giù per le guancie le scorre uno sfogo di dolcissime
lacrime. - Allora raddoppiando il delirio dei baci esclama:
«Vico, tu hai vinto Dio.... io ti amo!»
Non risposta, - non moto, - non fremito di fibra: - or come
può esser questo? - Ella guarda.
Ludovico tiene gli occhi dischiusi... ma fissi... ma vitrei: - le
labbra aperte, - tese, - scolorate, - fredde.
«Gran Madre di Dio, che avvenne mai?»
Ella tenta svincolarsi; - le braccia di Ludovico la stringono come
tanaglie; prorompe in altissime strida, - accorrono... ahimè!
ahimè!
Ludovico è morto e par che seco voglia strascinare nel
sepolcro la donna amata.
Povero Ludovico! Infelice Maria!
Il giorno appresso, in mezzo alla sala del palazzo Martelli, sopra
magnifico letto il corpo del defunto Ludovico era esposto alla vista
dei popoli.
Giannozzo apparecchiò quel letto, l'ornò dei panni
più doviziosi serbati nelle arche della famiglia; intorno
intorno vi dispose i drappelloni con tutte le armi entrate per via
di parentado o in altra guisa in casa, siccome correva il costume di
fare ai funerali dell'ultimo fiato d'illustre prosapia; - poi
lavò diligentemente il cadavere del suo diletto signore, lo
profumò con acqua nanfa ed altri preziosissimi odori, gli
pose addosso la vesta dei giorni solenni: - ciò fatto, gli
stette accanto immobile, come ogni giorno vediamo lo scheletro
davanti un feretro; - quantunque al fedele Giannozzo la vita
tuttavia durasse e il dolore, nessuno oggetto avrebbe meglio di lui
rappresentato la immagine della morte.
E il giorno dopo aprirono l'avello della famiglia Martelli; - ma per
due. Giannozzo, colto nella notte di apoplessia, che in quei tempi
chiamavano accidente di gocciola, fu trovato alla dimane ghiaccio
nel letto, - e il letto era bagnato... segno certo che il buon servo
non trapassò dal sonno alla morte, - sibbene dal pianto alla
eternità. Dio apra le sue sante braccia a cotesta anima
degna!
Su quell'avello nei tempi susseguenti furono veduti venire
quotidianamente a pregare un uomo ed una donna: - erano l'uomo
d'arme mutilato e la vedova.
Certo dì la femmina non comparve; - simile al corvo
dell'arca, dimenticò l'asilo che l'aveva riparata.
Mercè le larghezze del nobile Ludovico, le fu fatta
abilità di accasare la figlia con certo giovane di onesto
lignaggio. Caduta la Repubblica, istituito il principato, quel
giovane ottenne di presente notabile ufficio, lo sperò nel
futuro maggiore: allora, consapevole del come procedesse sospettosa
la nuova tirannide, consigliò la suocera di rimanersi da
coteste visite giornaliere; e la suocera cessò,
imperciocchè all'utile d'oggi ci riesca lieve, oh! anche
troppo lieve, sagrificare la gratitudine di ieri: - e poi tutti gli
affetti hanno la propria stagione, - e adesso per quelli della
vedova correva la stagione dell'inverno. La riconoscenza si stava
attaccata alla sua anima come una foglia pallida al tronco
inaridito, - qualunque soffio di vento bastava a divellerla e fu
divelta: - inoltre quello andare incessante la infastidiva, e
nondimeno senza sapersene dire la ragione continuava: - quando
cessò si accorse come il cuore da gran tempo non vi
contribuisse più in nulla; - le faceva forza l'abitudine: -
prossima a morire, la sua anima assumea la durezza della lapide. Il
mutilato invece nè per tempo sinistro nè per ingiurie,
che gravi e spesse n'ebbe a soffrire sotto il duca Alessandro,
nè per minaccie che contro di lui operassero, mancò un
giorno solo di visitare il sepolcro del suo benefattore; -
però anch'egli alfine una volta non venne, - ma la scusa non
recò ingiuria alla pietà; - lo aveva trattenuto la
morte.
CAPITOLO VENTESIMOQUARTO
IL SACCO DI PRATO
Ma chi pensasse al poderoso tema
E all'omero mortal che se ne carca
Nol biasmerebbe, se sott'esso trema.
Dante.
Sei tu mai salito in cima alla cupola di Santa Maria del Fiore?
Se vi sei salito, ti ricorda del punto in cui, abbandonate le
consuete scale, ti fu forza appigliarti alle staffe esterne di ferro
per giungere alla palla che incorona la cattedrale di Firenze.
In quel momento ti venne fatto per avventura di porgere l'orecchio
verso la terra? Allora tu avrai udito un rumore indisinto di voci
umane che muore poco oltre i lembi del cielo. - mentre invece,
quando il cielo parla alla terra, egli la scuote ne' suoi più
intimi penetrali con la magnifica voce del tuono. - E se nel
medesimo tempo ti piacque declinare lo sguardo, avrai veduto gli
uomini, e ti saranno parsi quello che veramente sono: insetti
brulicanti sopra una terra che li produce e li divora.
O superbi! Si annoverano esse le foglie che cadono nei giorni
d'autunno? Voi siete meno che foglie cadute o cadenti dallo immenso
albero della natura.
Se tu pertanto, sospeso tra il cielo e la terra, queste cose udisti
o vedesti, e non ti strinse la paura di precipitare, - beato te! -
Dio ti concesse nervi di ferro.
A me giunto in questa parte del mio faticoso lavoro sembra sentire
lo sconforto che in quella occasione mi assalse: mi trema l'animo.
Fossi io potente come l'aquila delle Alpi! Dalla vetta del
più alto comignolo dei monti patrii caccerei un grido che
scuotesse dal capo alle piante la mia patria diletta e mi
nasconderei volando nella immensità.
Ma io sono un povero novellatore; ho sbozzato un colosso, ed ora mi
fa ribrezzo a vederlo; - non mi attento accostarmivi per sospetto
che, debole com'è sopra la base, non mi si rovesci sul capo e
non m'infranga...
Oh la vita misera ch'io meno! Il mio cuore ha sentito una voce che
l'intelletto non seppe comprendere e le labbra non sanno ridire. Con
pochi cannelli di carbone sopra una rozza parete mi prese vaghezza
di effigiare l'Iliade... il divino poema! - Accorre la gente e ride;
- pochi, i migliori, ne sentono compassione.
Dite, - pensate voi forse essere questa opera di gloria od esercizio
di vanità? Voi v'ingannate, - ella è opera di dolore e
di amaritudine di spirito: ella è opera di vendetta e di
terrore: ella è opera di eccitamento e grido di resurrezione:
io la porterò al termine senza soccorso di Cireneo, quando
pure dovessi cadervi sotto tre volte, - quando pure dovesse, come la
croce di Cristo, convertirsi nel mio supplizio.
Che importa poi che la sua memoria vada dispersa con le sue pagine?
Nè a me nè ad altrui dorrà di certo che caschi
nell'obblio; di lieto cuore invoco che la scintilla rimanga perduta
nelle vampe, a patto però che desti lo incendio.
Questi libri battaglie, queste scritture agonie non ponno e non
vogliono essere compresi che dalla gente oppressa da lunga, immane e
abborrita tirannide, e che ha fermo di strozzare anche quando
dovesse morire un'ora dopo.
Imperciocchè due cose non possono contemplarsi senza pianto
come senza ira nel cielo o sopra la terra: - la morte di un Dio e la
morte di un popolo.
Ma Dio dopo tre giorni risorse; - a quando la resurrezione del
popolo?
Se le giornate della servitù si compongono di cento anni, -
tre secoli già sono scorsi dacchè il mio popolo
cadde...
Si approssima l'ora? - non so, ma gli armati vigilanti alla custodia
del sepolcro tremano; non gli assicura la pietra che vi posero
sopra...
Intanto io piango la morte di un popolo, perchè un altro ne
rinasca.
Però alla mia mente per ora si affacciano solo sinistre
fantasie, perchè il mio cuore è inebbriato delle
ultime lacrime piante da una nazione caduta, perchè il sibilo
delle ossa de' suoi grandi travolte dalla bufera forma il suono che
accompagna la mia storia.
Tristo o beffardo, il mio grido move dallo spasimo di piaga
insanabile.
Via, lasciatemi lamentare in pace sopra la terra de' miei padri, -
poi mi coprirete con le ceneri delle sue desolate città.
Perchè, quando il poeta stenderà la destra al salice
per istaccarne l'arpa e cantare l'inno della risurrezione, possa con
la manca raccogliere i fiori che la natura avrà fatto
germogliare sopra la mia fossa e comporsene una corona.
O Italia mia, tutte le miserie di Gerusalemme ora tornarono
più incomportabili che mai ad aggravarsi sopra di te; - nulla
ti manca della città riprovata, tranne il compianto de' suoi
profeti.
A me basta l'animo per essere il tuo profeta.
«La miglior patria nel mondo è la groppa di un cavallo
che corre», ha detto il poeta arabo, e il poeta per questa
volta non disse la verità: buono è il cavallo che
corre quando la notte ingombra la terra e la necessità ti
stringe di passare tramezzo ai nemici che occupano il tuo paese
all'intorno.
Allora, anche quando il corsiero divorasse la via, come nella
ballata di Leonora, il cavaliero griderebbe pur sempre: All'ali!
all'ali! Allora se volge gli occhi al firmamento, invidia la
facoltà che Giob attribuisce al Signore di tenere suggellate
le stelle, e maledice la quarta giornata della creazione.
Vico, Annalena e il padre di lei, affidati a poderosi cavalli,
fuggivano traverso la moltitudine dei nemici; ogni speranza di
salute ponevano nella velocità.
E a Vico, oltre quei due capi diletti, importava di porre in salvo
cosa da cui forse pendeva la salute della Repubblica; - la
commessione dei Dieci al Ferruccio di tentare gli estremi rimedii
alla tutela della patria: - egli non aveva potuto consentire di
separarsi dal fianco nei pericoli di quella fuga la sua amata
Annalena; - malgrado il disagio, la volle seduta in groppa al suo
corsiero e con ambedue le braccia stretta intorno alla sua vita. In
questo modo correvano e non proferivano parola.
Dalla rapidità del moto nasce durante il giorno una specie di
ebbrezza lieta di fiori, di luce, di cose e di animali: - nella
notte, piena d'immagini sinistre e di fantasime spaventose; - e poi
l'aria soffiava umida, - investiva le membra un tepore quasi alito
di febbre, - il sangue si rimescolava nelle vene a modo di metallo
fuso.
Annalena chiude gli occhi e sempre più forte si appiglia ai
fianchi di Vico, ma indi a poco il tenerli chiusi le incresce, e li
riapre non già riposati, anzi maggiormente sconvolti dalle
tristi visioni del suo pensiero.
E guardando la terra, le sembra che la via le fugga di sotto,
mentr'ella crede di rimanersi ferma; - gli alberi le appaiono la
schiatta dei giganti resuscitata che corre al giudizio finale; -
l'agitarsi e lo stormire delle frondi un piegare dei capi loro e un
susurrarsi parole misteriose di favella sconosciuta; - un suono di
gemiti e di preghiere di trapassati ingombra quanto è vasta
la campagna. Se atterrita volge lo sguardo al cielo, ecco ella
contempla rovinare da un lato le nuvole e dal lato opposto
precipitarsi la luna colla foga di cavalla selvatica per le lande
della Lituania; - vede ruotare vorticoso il firmamento,
sicchè teme l'ordine della natura consumato, le leggi
dell'armonia sospese e la creazione prorompere nell'antico suo caos.
E Vico sentendo intorno ai fianchi una stretta convulsa le domanda:
«Lena, tu tremi?»
«Sì, ma di freddo.»
In questa medesima maniera è fama rispondesse Silvano Bailly
al carnefice quando lo strascinava assiderato per le vie di Parigi
al supplizio; - e forse Silvano Bailly, come il mio personaggio, non
diceva il vero, imperciocchè l'anima che si consacrò
intera al miglioramento degli uomini, se consideri gli schiavi
liberati avere convertito le loro catene non già in ispada
per difendersi contro i tiranni, sibbene in mannaia per percuotere i
liberatori, ha paura, - ella trema dei destini della umanità,
- e se può non tremare per sè, trema per Dio!
Venuti al sommo di una altura, lanciano lo sguardo nella sottoposta
vallata e vedono facelle andare in volta di su e di giù,
quasi lucciole vaganti alla campagna nelle notti di estate. Da prima
Vico n'ebbe sospetto; - si fermarono tutti; - all'improvviso uscendo
egli dalla meditazione,
«Avanti,» esclamò, «non v'ha pericolo...
indovino l'avventura.»
Nè furono andati gran tratto di strada che sentirono i passi
precipitosi di uomo che fugge, e poco dopo videro trapassarsi
d'accanto un'ombra, e dietro alla lontana accorrere un altro che
affannosamente gridava:
Alla croce di Dio! misleale, marrano, fermati... se ti aggiungo, ti
ammazzo come un cane... ahi! tristo ladro! - Arrestate il ladrone -
Al ladro! al ladro!»
Quando fu presso a Vico, questi gli domandò:
«Che hai tu, villano?»
E il villano rispondeva:
«Oh! messer cavaliere... udite la mala azione che mi ha fatta
Giomo di Lapo... Eravamo andati insieme a spogliare i morti...
perchè in verità nei tempi che corrono non abbiamo
altro mezzo da campare la vita... ed avevamo raccolto un buon
fastello... un pesante fastello in verità; ed egli disse:
Mariotto, portalo prima tu, e quando ti sentirai stanco, io ti
rileverò; - ed io com'ei disse feci, e non credeva mi volesse
ingannare, che uguanno a maggio gli battezzai un figliuolo; - e
quando mi parve essere lasso lo chiamai: - Fratelmo, dammi aita,
ch'io più non posso; - e il tristo rispose: Va pure innanzi
un altro mille passi, che io allora prenderò il fastello e
senza darti altro impaccio lo porterò fino a casa: - ed io mi
sforzai, finchè, rifinito di lena, fui per cadervi sotto. -
Giomo allora, ch'è giovane ed aitante di persona, mi tolse il
carico e, recatoselo prestamente in ispalla, cominciò a
camminar forte e a dilungarsi da me; - alla prima svolta della
strada con quanto aveva di forza nelle gambe si cacciò alla
dirotta a fuggire», ed io vecchio e stanco ormai dispero
raggiungerlo; - egli dimani ciberà sè e la famiglia...
io, se torno a casa, vedrò morire di fame la mia... Oh! io
non tornerò a casa... tanto anche qui vi è terra da
seppellirmi!»
E piangendo lasciò cadersi in mezzo della via. Vico gli
gittò un fiorino. Il villano, quando l'ebbe riconosciuto al
tatto e al chiarore della luna in quel punto velata da nuvole meno
dense, balzò in piedi e, senza rendere grazie, deposta a un
tratto la vecchiezza, la stanchezza e il dolore, con alti scoppii di
risa si dileguò per la campagna.
Proseguono la via, ed ecco un nuovo incontro; - due villani
avviluppati insieme rotolavano sul fango; - alfine uno prevalse, e
puntato un ginocchio sul petto dell'altro e forte stringendolo per
la gola, gli diceva:
«La catenella dorata la voglio per me... me la darai?»
«Io la vidi primo, - dammela... o ti strangolo...»
E l'altro, quantunque dalle fauci compresse potesse appena
articolare parola, ostinato nella rabbia della rapina, rispondeva:
«Io prima la presi... la voglio per me...»
«Dunque ti ammazzerò.»
«Ammazzerai tuo fratello? - E che dirai a nostro padre?»
«O scellerato!» grida Vico mettendo fuori la spada,
«lascia il tuo fratello, o se' morto...»
La libidine di guadagno vinceva nel nuovo Caino la paura della
morte; - sentiva il ferro penetrargli nelle carni e non abbandonava
la gola del fratello: fu mestieri che Vico e il padre di Annalena
scendessero e a forza gli separassero: - appena il fratello ebbe
lasciato la gola del fratello, come se uscisse dal fascino
gittatogli addosso dal demonio del fratricidio, si percosse la
fronte e si allontanò traendo dolorosi guai:
«Ohimè! Qual confessore mi darà l'assoluzione di
tanto misfatto? Ohimè! che se adesso io mi morissi, me ne
anderei dannato. Tienti la roba, io non la voglio, - mi
rammenterebbe il mio delitto.»
E l'altro, quasi non si accorgesse del pericolo da cui era scampato
o non lo rammentasse, gli tenne dietro parlando:
«Avrai il tuo mezzo dei gabbani, delle spada, - di tutto avrai
il mezzo; - ma la catenella la voglio intera per me che intendo
donarla alla Ginevra mia... Che vuoi tu farne, fratello? tu non hai
innamorata, nè mai ch'io sappia ti sei fidanzato con alcuna
fanciulla della pieve...»
Alla fine i nostri personaggi si trovarono in parte che, per aver
dato campo a mortalissimo scontro tra i soldati del Ferruccio e le
bande imperiali scorrenti pel paese, era piena di uccisi; le varie e
tutte miserevoli attitudini di morte offendevano la vista;
più offendeva l'odorato un fetore infame di corpi corrotti; -
e non pertanto queste sensazioni erano di gran lunga superate dal
turpe spettacolo della umana avidità.
I saccomanni, con gli occhi cupidamente intenti a trovare cosa che
loro piacesse, senza pietà scorrevano sopra le sconcie
ferite; le mani rapaci senza tremare si bruttavano di sangue e di
marcia; - le ultime vesti toglievano, restavano i nudi corpi in
disonesta mostra nel mezzo della via; e se s'imbattevano in alcuno
che portasse anella o cerchietti di oro alle orecchie, se riusciva
loro agevole di quinci rimuoverli, sì il facevano; -
altrimenti le orecchie e le dita ornate del metallo prezioso
tagliavano e dentro lo zaino riponevano - alle figliuole e mogli
loro serbavano la cura di separare con comodo a casa le dita dagli
anelli, le orecchie dai cerchietti.
E videro un corvo posato con gli artigli sui labbri di un morto
pascersi avidamente degli occhi di lui; - di repente balzò
fuori da un folto cespuglio un lupo, stese le branche sul cadavere e
ne cacciò il corvo; il quale volando altrove manifestò
coll'osceno gracchiare l'ira di trovarsi sturbato nel suo festino di
putredine: - e il lupo ebbe appena bevuto un sorso di sangue,
stracciato un brandello di carne, che ecco gli fu sopra l'uomo, il
potentissimo tra gli animali di rapina; sicchè, mal sazio e
ringhiando di furore, toccò al lupo sgombrare davanti
all'uomo, come il corvo sgombrava davanti al lupo.
Questa avventura illuminata dal raggio sanguigno che tramandavano le
lanterne portate dai villani, durò appena due minuti, ma
lasciò in coloro che la videro tale impressione da non
dimenticarsi nè anche quando poseranno il capo sul capezzale
di pietra dentro al sepolcro.
Vico sciolse un lungo sospiro ed esclamò:
«Ecco la storia degli uomini che furono, sono, ed ahi! Dio
voglia che non sia, di coloro che in futuro vivranno.»
Davano forte degli sproni nei cavalli per lasciare il luogo
maledetto da tanta e siffatta manifestazione di umana tristizia; ma
la fortuna parava loro davanti un nuovo scontro.
Le zampe del cavallo del vecchio percuotono sul petto di un giacente
traverso il cammino; le ossa delle costole sotto il colpo
sgretolarono, - l'aria violentemente compressa si sviluppa dalle
viscere e manda suono come di sospiro: - fremerono tutti e scesero
precipitosi di sella.
Con molta cura furono attorno al giacente, - e lo ponendo a sedere,
se residuo alcuno gli fosse rimasto di vita investigarono; male
però riuscivano nei tentativi loro, sepolti com'erano d'ogni
intorno nel buio. Come volle fortuna, alcuni villani carichi di
preda passavano quinci poco discosto portando lanterne, - li
chiamarono e li pregarono per Dio volessero essere cortesi di aiuto
a cotesto infelice.
E poichè l'uomo è creatura strana, sebbene nel
richiamare quel nemico alla vita corressero rischio di consumare poi
a sanarlo parte e forse tutta la preda, accorsero i villani alla
voce di carità e lo sovvennero.
Appena però eransi curvati, si rialzarono atterriti da un
urlo spaventevole che aveva gittato il vecchio, e nel punto medesimo
lo videro protendersi ferocemente, avventare le mani intorno al
collo di quel corpo, quasi intendesse strangolarlo; per certo il
furore gli accecava l'intelletto, dacchè, scorto il giacente
alcun poco al chiarore del lume, conobbe essere da gran tempo fatto
cadavere.
Il vecchio muta all'improvviso consiglio; toccato appena il
giacente, si rileva da terra e, scopertosi il capo, gli occhi
affissando al firmamento favella in suono ispirato:
«Dove passò la vendetta di Dio che cosa mai
aggiungerebbe la mano dell'uomo? - Io aspettai lunghi anni invano
questa vendetta, e poichè non la vidi, ti rigettai dal mio
seno, - ora che hai posto l'uccisore del figlio sotto la zampa del
cavallo del padre, io tremo tutto davanti alla tua tremenda
giustizia, o Signore!»
Tacque e dopo un silenzio non breve riprese:
«Costui, non che i più scellerati tra gli uomini, vinse
in nequizia le più feroci tra le belve; però la sua
iniquità non toglie l'obbligo a voi di mostrarvi pietosi,
dacchè egli ebbe nascendo il segno della salute: - dategli
pertanto sepoltura, ma non gli ponete memoria; - il suo nome
rammenterebbe delitti che per decoro della umana natura è
bene s'ignori che possano essere stati commessi: - non gli dite
preghiera, ella andrebbe dispersa; comunque infinita la misericordia
di Dio, i suoi misfatti la superano. - Patria di quell'anima era
l'inferno.»
Si allontanò precipitoso; - i villani impauriti non osarono
accostarsi e le fiere lo divorarono.
Il vecchio abbandonate le redini, si lasciava in balía del
cavallo; avvertito di badare alla strada, non pareva intendesse;
domandato a grande istanza più volte chi fosse colui del
quale gli era occorso il cadavere e per quali casi a lui noto, non
dà risposta: molti argomenti adoperati e tutti riesciti a
vuoto, Annalena e Vico non cercano rimuoverlo dal suo pertinace
silenzio.
Annalena, volgendo il discorso a Vico, incominciò:
«Vico, quando ti curvasti a soccorrere quel corpo che tanto
par che abbia in odio il padre mio, ti cadde il piego dei Dieci...”
«Ben me ne accorsi, e me lo riposi nel seno», riprese
Vico, tentando con la mano se vi fosse pur sempre.
«Ma tu non ti accorgesti che cadde sopra una piaga del morto e
s'imbrattò di sangue...»
«Ti sei ingannata; per certo scambiasti il suggello rosso con
una macchia di sangue.
«Io non isbaglio... guarda...»
Pur troppo la fanciulla aveva ragione; il piego era macchiato. Vico
nel riporselo di nuovo sotto le vesti continuò:
«Non credo si rimarrà per questo di spiegarlo il signor
commissario...»
«Lo spiegherà, io ne sono sicura.»
«E tu lo dici in suono di pianto? E di che temi?»
«Non so, Vico; - ma vedi, quel sangue mi arriva di sinistro
augurio...»
«Da quando in qua gli uomini di guerra tolsero per sinistro
presagio il sangue dei nemici?»
«Io odio la guerra... e quel sangue mi spaventa...»
«Consòlati; - per noi una spada tagliente val meglio di
un buon presagio.»
«Ah! tu non sai quanto è duro il destino.»
«So che un re di Roma recise col rasoio una pietra.»
«Sì, ma l'avrebbe egli tagliata con gli occhi? L'uomo
sopra il suo destino può, io dubito, quanto gli occhi possono
per tagliare le pietre.»
«E allora che importa sgomentarci? libiamo, come costumavano
gli antichi, agli dèi infernali e moriamo.»
«Significate al signor commissario che Vico Machiavelli giunto
or ora da Fiorenza ha da consegnarli lettere degli magnifici signori
Dieci di libertà e guerra», diceva Vico, smontato in
Empoli al quartiere del Ferruccio, alla lancia spezzata che v'era
posta di guardia.
«Non si può. Il commissario ha comandato che per cosa
al mondo non si turbasse prima dell'Ave maria del giorno.»
«Andate tuttavia; e se dorme, svegliatelo.»
«Ferruccio non dorme: - guardate quella grand'ombra sopra
l'opposta muraglia, - è il signor commissario Ferruccio che
passeggia su nella sala del primo piano.»
«Dunque avvisatelo.»
«Non si può; l'ordine non lo concede.»
«Almeno portategli o fategli portare questo piego.»
«Non si può; - l'ordine non lo concede.»
«Il diavolo riposi le tua ossa», mormora tra i denti
Ludovico, e subito dopo riprese: «Ebbene, tostochè
giunge l'Ave maria recategli questi fogli: se mi vorrà,
ditegli che sono al quartiere; se mal ne avviene, il mio debito
è compito.»
E quinci si partiva sdegnoso; ma appena fu in lui un poco queto quel
primo impeto d'ira, ripensando come il Ferruccio, avendo tolto
l'arduo incarico di ripristinare l'onore della milizia italiana,
doveva mostrarsi zelantissimo della disciplina, e il danno poco ed
incerto che poteva derivare dal soverchio rigore non era da
paragonarsi a gran pezza al danno immenso e sicuro che sarebbe nato
dalla troppa rilassatezza, - concluse, siccome gli avveniva il
più delle volte, di dar torto a sè, ragione al
Ferruccio.
Si ridusse ai quartieri - apre la porta rimasta socchiusa, penetra
nella stanza e vede Annalena e il padre di lei seduti davanti al
focolare e così sprofondati nelle proprie meditazioni che non
si accorsero della sua presenza, - presa pertanto una scranna, egli
si pose dall'altro lato del focolare di faccia a Lena.
Lucantonio all'improvviso, senza muovere ad atto alcuno le membra,
senza quasi agitare le labbra, come se la voce partisse da precordii
di pietra, in suono roco parlò:
«Annalena..., voi cesserete d'ora in poi di chiamarmi padre...
perchè... perchè voi non siete mia... figlia...»
La fanciulla, presaga di sventura, teneva l'animo apparecchiato alla
rassegnazione, come colei che attende di sentire una condanna: ma le
parole del vecchio superarono in dolore ogni sua aspettativa;
prorompe in istrida angosciose e corre a gittargli smaniante le
braccia al collo.
Lucatonio stette immobile alle carezze; le lacrime della bella
sconsolata cadevano invano sopra di lui, come le stille della
rugiada sopra i leoni di marmo posti nella loggia della piazza dei
Signori; non l'accolse, non la respinse; si sentiva impietrito.
Passò forse mezza ora di tempo, a capo della quale
Lucantonio, ma questa volta con voce tremula, che l'umanità
tornava a soperchiare sul cuore del vecchio, riprende:
«E' mi era così dolce sentirmi chiamar padre...! e da
te, Lena! - ed ora mi chiamerai Lucantonio senz'altro, -
perchè non mi sei figlia.»
La passione gittò gli argini; scoppiò da' suoi occhi
irrefrenato il pianto; strinse con impeto convulso tra le sue
braccia Annalena, ed Annalena lui: pareva ambedue s'ingegnassero
mantenere a forza di amore quanto avesse potuto perdere per natura
il vincolo che da tanti anni gli univa.
«Ahimè!» riprese il vecchio ponendo una mano
sopra la fronte alla fanciulla, «questo tuo capo innocente non
seppe immaginare il male neppure all'insetto che ti pungeva, ed ora
dovrà contenere il germe dell'odio ch'io vi semino dentro...
Dio voglia che rimanga senza frutto! - D'ora in poi, quando
camminerai tra i campi nel bel mese di maggio, i fiori non avranno
più profumi per te, non più canto gli uccelli, non
più sorriso la natura: - occuperà l'anima intera una
tremenda contemplazione di misfatti; - i tuoi sogni verginali
cesseranno, atroci fantasmi ti sveglieranno nella notte, e tu
stenderai paurosa la mano sul guanciale, perchè nel sogno ti
sarà apparso temperato di sangue: ascoltami, io ti racconto
una storia funesta; tu la crederai appena, tanto ella è
truce; - io la vidi con questi occhi, con questo cuore io la sentii,
e forse non ti rendo con le parole la millesima parte del vero. - Tu
nasci dei Tosinghi e sei di Prato; io nacqui in Casa di tuo padre; -
a lui per fortuna sarei stato famiglio, ma l'amore ammendando i
torti della fortuna ci volle fratelli, imperciocchè avendo
egli ucciso nascendo la madre sua, noi bevemmo la vita dal medesimo
seno, e le nostre braccia s'intrecciarono da pargoli sopra un
medesimo collo. - Taccio le voglie e gli studi della infanzia:
giungemmo agli anni della giovinezza; percorrendo il nostro cammino
egli lasciò per la via il suo genitore, - io il padre e la
madre; - a lui rimase la madre di suo padre, ma non per durare; a me
nessuno; egli vinceva me negli studii, io vinceva lui nell'esercizio
dell'armi: - entrambi però agli studii anteponevamo il
diletto di vagare pei monti, d'inseguire le fiere, di lanciare il
falcone per aria, e il mantenere cani e cavalli. - Un giorno,
trafelati dopo lunga corsa, perduti di vista i famigli, rinvenimmo
un luogo delizioso per l'ombra che vi facevano antichissimo pioppi,
- l'erba folta invitava a ristorare il corpo stanco, - ci ponemmo a
giacere; non alternammo parola; da tutto il corpo aspiravamo il
misterioso diletto che muove dalla faccia lieta della natura: -
all'improvviso ci percuote un canto, - un angelico canto che diceva
versi di amore, - li quali noi riconoscemmo fattura di Dante; - ben
mi ricordo che terminavano così:
E par che dalla sua labbia sì muova
Uno spirto soave e pien d'amore
Che va dicendo all'anima: Sospira.
E cessato il canto, udimmo più distinto il fremito delle
fronde, il mormorio delle acque vicine, sicchè ci parve ch'ei
tenesse bordone a quelle rime: - nè io lo proposi a lui,
nè egli a me, - eppure ci levammo entrambi e c'indirizzammo
colà donde usciva la voce; l'intelletto pieno di libri
latini, noi pensavamo incontrare una driade o qualche altra ninfa
più gentile, - ma il cuore co' suoi palpiti m'assicurava
avrei trovato una sorella di amore: un ventilare di veste bianca ci
fece scorti della presenza della donna... poco oltre ce ne occorse
un'altra; - una cantava e l'altra coglieva fiori sopra l'argine
ombroso; - spigliate entrambe di persona, di piè leggiero, di
gioventù splendide e di bellezza, - questa coglieva fiori e
ne tesseva ghirlande! l'altra se ne incoronava così per
vaghezza il capo, quasi a santificarle col tatto delle sue chiome, e
poi le appendeva ai rami degli alberi: noi ci mostrammo così
umili in vista che non ne presero sospetto e ci guardarono di tale
uno sguardo che parve dirci: Noi vi aspettavamo. - Simili alla rosa
nascosta nella valle che attende il raggio del sole per colorirsi e
per ispandersi, ambedue attendevano uno sguardo di amore; - noi le
guardammo, ed esse si fecero vermiglie. Per singolare accidente
erano entrambe sorelle di latte, entrambe orfane, e così
strettamente unite da amoroso legame che in nessuna delle due
appariva sforzo per dimenticare da una parte i troppo superbi,
dall'altra i troppo umili natali. Dicono nessun maggior dolore
travagli l'uomo che quello di rammentarsi dei tempi felici nella
miseria; - io però non conservo idea distinta del bene
goduto... tanto peso di sciagura gravitò sopra il mio
intelletto! - Io scorgo confuso traverso una caligine, - la mia
anima ha perduto perfino i piaceri della memoria. Taccio i dolci
desiri; - io amai Selvaggia, tuo padre Tomaso madonna Ermellina; ci
fidanzammo; - il giorno destinato alle nozze venne. Tomaso aveva da
fanciullo avuto dimestichezza con Naldo Monaldeschi, gentiluomo del
contado di Prato, dimestichezze che l'anima bisognosa di amare
confonde con l'amore, e sovente non sono altro che infermità
dello spirito; - costui abbandonò le case paterne, corse
varii casi di fortuna, fu soldato e combattè, spada di
ventura, ora per impero, ora per la Francia, nelle guerre di Napoli
e di Lombardia. Rimasta la guerra, se ne tornò a casa con
qualche danaro di meno, qualche anno di più e per aggiunta
alcune ferite riportate sopra campi dove bene si poteva acquistare o
morte o preda, ma gloria non mai. Tomaso, quasi questo tempo fosse
scorso pieno di soavi cure e di esercizio di gentili discipline al
compagno come a sè stesso, ricominciava l'antica comunanza di
affetti, la fraterna intimità. Lo volle pertanto compagno
agli sponsali, convitato al festino: - quando andammo a tôrre
le spose a casa, Naldo era della comitiva; - egli non aveva mai
veduto le donne: allorchè si apersero gli usci, e vestite di
bianchi panni, inghirlandate di rose si presentarono alla nostra
vista, Naldo le guardò, allibì e si accostò
tremante alla parete, - sì forte il tremore lo assalse; io me
ne accorsi e ne sentii orgoglio, comecchè non sapessi chi di
loro fosse capace a recare siffatto turbamento nell'animo del
soldato; ma, o movesse dalla mia o dalla donna del mio fratello, era
per me la causa dell'orgoglio medesima. - Ci prostrammo agli altari,
si compirono i riti: Naldo, come se fosse tramutato in uno dei santi
di pietra che occupavano le nicchie, non faceva atto di seguitare la
comitiva quando usciva di chiesa; - lo scotemmo per le vesti, - ei
risensò e ci tenne dietro col capo chino, a passi lenti. Fu
imbandita la mensa: quivi non mancarono voti di poeti che dovevano
rimanersi inani ed augurii che riuscirono bugiardi. Quando una voce
chiamò i convitati a propinare alla salute di madonna
Ermellina, le labbra di Naldo non si mossero - la coppa gli stette
colma davanti. Però da quel giorno in poi Naldo si prese
usanza della nostra casa, sempre più si pose avanti
nell'animo di Tomaso ed anche nel mio; imperciocchè sia
l'amicizia un tesoro che per divisione non iscema, all'opposto
dell'amore. In lui mi piaceva la saldezza del corpo, la faccia tinta
dal sole delle battaglie, uno sfregio sopra la fronte tra ciglio e
ciglio, e poi la comunanza dei diletti: - ma non andò guari
tempo ch'io l'odiai, dacchè senza nessuna reverenza parlasse
delle donne; le quali ci largiscono piaceri ed affetti che se
durassero, potremmo esser contenti della terra senza più
oltre desiderare il paradiso; - in ogni caso rispettate la donna,
perchè vostra madre fu tale: - ancora, se narrava le geste
passate, egli non toglieva argomento di onore dai colpi arditamente
feriti, sibbene dalle insidie parate con sottile scaltrezza, dalla
vittima improvvidamente caduta, dalla morte con animo tranquillo
arrecata; e a caccia, quando il cervo rifinito si abbandonava in
balia dei veltri, e il cavaliere pietoso allo strazio del nobile
animale scende di sella e gli dà il colpo di grazia, egli
invece si rimaneva immobile a cavallo contemplando le viscere di lui
palpitanti sotto i denti dei cani. - Spesso lo smarrimmo per la
foresta e lo trovammo tornato a casa... Insomma a che mi vado io
dilungando? Egli aveva concepito ardentissimo amore per madonna
Ermellina; se non che tanto lo tratteneva la virtù della
castissima donna che ben si accorse sarebbe speso ogni consiglio
invano di tentare apertamente l'onor suo; - sentendosi inetto a
inspirare amore, ogni suo studio pose a seminare la discordia. In
questa opera d'iniquità, i più tristi i migliori; -
quindi egli riusciva anche troppo. - Era tuo padre superbo, tua
madre timidissima; i cuori si gonfiavano, ma le labbra stavano mute;
intanto la rifiniva l'angoscia - il verme rodeva il bel frutto, e da
qual parte vi fosse penetrato non appariva. - Certa volta mi occorse
una doviziosa catena appesa al collo della mia Selvaggia: lo
domandai da cui le venisse e come; - mi disse avergliela donata
messer Naldo, onde io le notai: Selvaggia, le catene di oro si
adoperano a tenere schiava l'anima, come le catene di ferro a tenere
schiavo il corpo; chi dono accetta padrone riceve; mal facesti a
tôrla, ma dacchè l'hai presa, bada al fine. - Nè
stette molto la mia povera Selvaggia che venne a me tutta tremante,
dichiarandomi messere Naldo dopo molte parole e larghe promesse
averle raccomandato l'amor suo presso madonna Ermellina; essere il
suo amore divenuto furore; non vedere nè ascoltare più
nulla; volerla sua ad ogni costo, viva o morta. - Deliberai meco
stesso il giorno appresso, mentre erravamo pei boschi, dichiarare
pianamente la bisogna a Tomaso e farlo scorto del pericolo che
correva; ma il giorno dopo, così consigliando od ordinando
Naldo, ci dirigemmo verso la foresta, dove occorreva certo ponte
sopra un torrente copioso nell'inverno di acque, nelle altre
stagioni arido e di letto orribilmente scabroso. Naldo prese a
favellare meco e mi trattiene indietro, narrandomi alcuni fatti
d'arme avvenuti tra gli Spagnuoli e i Francesi nel regno ai tempi
del gran capitano Consalvo. Tomaso, come vaghezza lo consiglia,
precede spronando a precipizio, - tocca il ponte, e il ponte
sparisce sotto le zampe del cavallo: - tavole, pietre, cavallo e
cavaliere vanno a rifascio sossopra. - Dio lo salvò; - il
cavallo si ruppe tra i massi: Tomaso, in più lati ferito,
ebbe salva la vita: - quando lo rinvenimmo vivo, Naldo si morse le
labbra e ne fece scaturire il vivido sangue; io stetti per
piantargli il pugnale nel cuore, ma subito dopo tanto amorosa
sollecitudine ostentava, in così angosciosi lamenti
irrompeva, ch'io bandii dalla mente il truce sospetto con la
prestezza con la quale vi era comparso: - risanò e, appena
ebbe alzato il fianco infermo dal letto, chiese di esser tratto nel
giardino a respirare l'aria aperta; gli fu impedito quel giorno, pel
seguente concesso: - venuto al barco del castello, volle dimorarvi
anche dopo il tramonto per rinfrescarsi del vento vespertino; -
cominciavano a non bene distinguersi le cose circostanti, quando ad
un punto stesso udimmo lo scoppio di un archibuso ed il ronzio di
una palla. A Tomaso fu portato via, senz'altra offesa, il
tôcco di capo, e la palla oltrepassando sfiorò la pelle
delle spalle di madonna Ermellina che in piedi al fianco dello sposo
ne sorreggeva la testa; proruppe la donna in un grido e cadde con la
faccia sul terreno. Naldo, tratto fuori di sè dall'ira
soverchiante, mormorò tra i denti: Ahi! male accorto! - e
cavando la spada si avventò dalla parte donde era mosso il
colpo. - Io lo seguiva; uno scherano con le mani e co' piedi si
affaticava arrampicarsi su pel muro che circondava il barco del
castello; ei gli fu sopra e con ispaventevole soprammano dai reni lo
passò al ventre, sfregiando con la punta della spada
l'opposta parete; rovesciò supino lo scherano, e sollevati
gli sguardi già pieni di morte vide il suo uccisore, lo
riconobbe ed esclamò queste parole: Oh! come voi, messer
Naldo?... Ma questi non gli diè tempo di continuare, - forte
lo calcò di un piede sul petto, gli spinse dritta la spada
verso la gola, e sopra appoggiandovisi con ambe le mani gli ruppe le
fauci. Per quanto investigassimo, non giungemmo a scuoprire alcune
traccie di delitto, - solo trovammo sul morto copia di monete,
prezzo certamente del sangue. I miei sospetti si accrescevano, ma
ormai non mi si offriva più comodo di restringermi a
parlamento con Tomaso. Naldo gli aveva atterrita la mente: - forse i
suoi nemici, forse, e con più verosimiglianza, i parenti
gl'insidiavano la vita; non volergli mancare in tanto estremo non
consentire ad abbandonarlo, ed altre siffatte novelle pretestando,
fermò sua stanza al castello. Adesso si attacca a Tomaso come
un rimorso, non gli lascia ora senza paura, gli empie le notti di
angoscia; la stessa sposa Tomaso riceve sospettando, - accumula arme
di ogni maniera nella sua stanza, raddoppia la spessezza dei muri,
munisce di ferro le porte, prende a custode degli agitati suoi sonni
un molosso delle Alpi. I servi la più parte accommiata, i
ponti levatoi alzati; i cavalli percuotono invano le selci delle
scuderie; i cani stanno pigramente distesi a canto del focolare. -
La fortuna ordinò che, recandosi certo giorno per mie bisogne
da Tomaso, il suo cane, sia che lo spingesse maligna natura o non mi
ravvisasse, mi si avventa alla persona per mordermi: io tento
placarlo, egli vie più s'inferocisce; allora consigliato
dalla tutela di me gli sferro tale un pugno nel capo che lo mando a
rotolarsi per terra: Tomaso, di cui era infermo l'intelletto, arde
di sdegno, abbranca una mazza d'arme e me la lancia contro; beato
me, ch'ebbi agile il fianco per ischivarmi, e l'ira gli faceva
tremare le mano! la mazza dette in pieno nella porta e vi si
fermò confitta. - Rimasi immobile, smarrii la vista e
vacillai un istante: subito dopo rinvenuto esclamai: O Tomaso, vi
sono io diventato tale che la mia posponiate alla vita di un cane? -
Tu sei un cane..., tu m'insidii la vita... - E tra il fascio
dell'arme afferrata una spada, si avventò contro di me; io
pure trassi fuori la mia... ma Annalena, ti giuro per il tuo amore
che mi è sì caro, non averla tratta ad offesa del
padre tuo, soltanto a tutela di me: - a qual miserevole fine sarebbe
riuscito cotesto caso non saprei dirti, se Naldo e madonna Ermellina
sopraggiunti non lo trattenevano. - Io gittai il ferro e fuggii via.
Giungo ansando nelle mie stanze e, fatto rifascio di quanto mi cade
tra mano, esco dal castello del tutto compreso da terrore: - corso
ch'ebbi grande spazio di via, la coscienza prese a domandarmi: E
dove vai? Dove lasciasti Selvaggia? Come vivrai senza il tuo Tomaso?
- Gittai il fastello, mi vi posi a sedere e vôlto dalla parte
del maniere cominciai a vagheggiarlo, come donna innamorata; mi si
sciolse il furore, e copertami la faccia con le mani piansi; - poi
mi alzai e ripresi la via del castello: - qui giunto, rimisi con
diligenza le cose donde le tolsi, e mi accorsi allora nella mia
preoccupazione non aver badato come la più parte fossero
vesti ed arnesi donneschi. - Correva l'ora nella quale secondo il
costume scendeva a invigilare la profenda dei cavalli: - andai alle
scuderie e attesi al governo degli animali con maggiore cura del
solito. Mentre uscito dalle scuderie mi volgo a chiuderne le porte,
ecco mi sento percuotere leggermente sopra una spalla: - era Naldo.
Costui veniva a invelenirmi la piaga; io lo ascoltai e ormai pacato
finsi assentire ai suoi detti; - che più? - Il tristo mi
propone mescere nel vino di Tomaso un liquore che mi darà
vendetta piena e non sospettata; tale, insomma, da bastare a
qualsivoglia offesa, comunque atrocissima. Presi la caraffa e subito
dopo, mutata voce a sembiante: Ahi perfido e misleale uomo! voi
cristiano battezzato non abborrite dal consigliare un delitto che
menerebbe alla eterna perdizione l'anime nostre? Io da gran tempo
studio le vostre storte vie, e poichè la paura dell'inferno
non vi rattiene, forza è che vi trattenga una scure sul capo.
- Egli poi non mutò sembiante, ma, forte com'era della
persona, mi venne addosso, mi abbracciò e, côlto il
destro, mi tolse la caraffa di mano esclamando: Io m'infingeva: tu
sei il migliore uomo che io mi abbia conosciuto; oh raro esempio di
virtù vera! - ed altre siffatte parole aggiungendo, ruppe la
caraffa sul selciato. - Così come l'acqua contenuta nella
caraffa si disperde, egli soggiunse, si disperda ancora la memoria
del fatto, o si rammenti soltanto per celebrare la virtù del
servo fedele. Lucantonio, nei detti acerbi contro di me profferiti
ebbi dimostrazione dell'animo tuo: - se altri tu ne avessi
adoperati, a quest'ora io ti odierei; io primo narrerò a
Tomaso la tua magnanimità! - E mi lasciava.
«M'ingannassi nel mio sospetto! - Guardai il selciato e vidi
l'acqua innocente aver corroso la pietra; - mi feci cuore e mossi
ratto alle stanze di Tomaso; mi negarono l'entrata; pregai ed anche
minacciai, ma non riuscii nell'intento. - In questa scendeva la
notte, ed io, pieno di rabbia, improvvido di consiglio, contemplando
il male nè lo potendo prevenire, mi caccio tra gli alberi del
barco del castello: immemore di me calcava e ricalcava le medesime
vie, quando mi accorgo di uno stormire di fronde; mi soffermo e al
tempo stesso sento percuotermi a tergo e stracciarmi violentemente e
vesti e il giustacore di bufalo, - Spicco un salto, volto la faccia,
e l'omicida è già lontano. Quantunque l'ombre fossero
già alte, io ravvisai nel fuggente lo scudiere di Naldo. O
casa dei Tosinghi a quale estremo ridotta! Il pugnale mi era rimasto
fitto nel corame; ne lo trassi fuori, e al primo lume conobbi essere
quel desso che Naldo portava sempre alla cintura, quel desso ch'egli
soventi volte mi diceva aver avuto a gran prezzo da un mercatante
saracino perchè maravigliosamente attossicato. - Deliberai di
farmi a trovarlo e mi avviai al maniere; uomini sconosciuti vi
stanno a guardia, - il passo precluso alla maggior parte dei vari
appartamenti, - quelli di Naldo e di Tomaso sopra tutti vietati; -
era per disperarmi. All'improvviso si apre fragorosa una porta, e
n'esce Naldo, com'uomo cui prema altissima cura; udendo rumore, alza
il torchio e mi ravvisa, - prorompe in un grido di meraviglia, e
quindi, ostentando sicurezza, Lucantonio, comincia, voi qui? - Io
qui; vi sorprende per avventura, messere? Io vengo a riportarvi cosa
che avete smarrita. - Smarrita io? - Sì bene voi: ecco il
vostro pugnale. - Pugnale! Non riconosco cotesto pugnale... e si
tirava indietro per sospetto. - Colpa della poca luce: egli è
il vostro famoso pugnale avvelenato; il pugnale che porta sul pomo
la vostra arme di cesello... - Gran mercè dunque... e dove lo
trovaste mai? - Fitto nel mio giustacuore, mentre tentava
addentrarsi nelle viscere...; però ve lo riporto. Quando voi,
messere Naldo, troverete il mio, non me lo riporterete,
perchè vi starà fitto nel cuore: - e mi salvai,
essendo egli armato di tutte armi, ed io in giustacuore di bufalo. -
M'ingegno penetrare nelle stanze di Tomaso; mi vengono meno gli
scaltrimenti e l'ardire, - trovo, dovunque mi volga, gente nuova e
di sinistre sembianze; - si preparava il misfatto. Un buon consiglio
mi venne dal cielo: - la notte aveva consumato la metà del
suo corso; - scendo nel parco e cauto mi porto sotto le finestre di
Tomaso. Infelice! Il sonno non iscende più sopra le sue
palpebre, un'ombra nera traversa la finestra rischiarata dalla
lampada interna, - la notte gli accresce i terrori. Allora io presi
a cantare la canzone che udimmo nel tempo felice dai labbri di
madonna Ermellina, quando prima la incontrammo sull'argine fiorito:
l'ombra non comparve più, ristette il mio signore pensoso e,
come mi narrò in seguito l'unico scudiere che gli avevano
lasciato attorno della sua buona famiglia, e dopo avere lunga pezza
porto ascolto, domandò: Ella è questa la voce di
Lucantonio? - Mai sì, messere. - Mi avevano pur detto ch'egli
si fosse allontanato! Va' e caccialo via. - E siccome lo scudiere
non si moveva: Guai! continuò Tomaso percuotendosi la fronte,
guai al signore di cui il famiglio vergogna obbedire quei comandi
ch'ei non vergogna trasmettere! - E poi mutato animo, Va',
ordinò allo scudiere, e digli apparecchi il mio cavallo; - mi
accompagnerà a Fiorenza, dove mi chiamano a render ragione di
accusa di fellonia. - Che rete infame si fosse questa non
comprendeva; - di madonna Ermellina non udiva novella, di Selvaggia
nemmeno; apparecchiai i cavalli e mi posi ad aspettare sopra la
soglia del maniere - Silenzio e tenebre: - un'ora prima del giorno,
porgendo attentissimo l'orecchio, ascolto rumore di pedate; - si
accostano; - si aprono le porte, e vedo comparire Tomaso squallido,
gli occhi spenti entro un cerchio colore di piombo che assai gli
scendeva sopra le guance; - lo séguita il fido
scudiere, da un lato ha Naldo che sembra dargli conforto, e dietro
sei uomini d'arme a me del tutto nuovi. Giunto sul limitare, afferra
con la manca le redini e i crini del collo del destriero, e la
diritta porgendo al perfido amico, favella: Naldo, io temo che noi
non ci rivedremo più; nelle cause di stato la innocenza non
giova, imperciocchè non puniscano il fatto, sibbene la
potenza di commetterlo, e gli stati deboli conoscemmo sopra gli
altri crudeli. Avrei potuto fuggire, ma non si porta mica la patria
sotto le suola delle scarpe, e a me aggrada assai meglio restarmi in
patria tradito e sepolto che ramingare vivo presso popoli stranieri;
abbi in custodia il mio castello, fa buona guardia a madonna...,
t'ingegna celarle, quanto più puoi, il mio fato; e se i casi
mi volgono siccome prevedo..., ramméntati la promessa, e
addio. - Messere Tomaso! allora io proruppi di forza e tentai
significargli la frode; ma Naldo, avventatomi negli occhi un suo
sguardo pieno di ferocia, mi strinse la gola e sorridendo rispose:
Tomaso, fatevi animo, il cuore mi dice che presto ritornerete; il
vostro castello sarà ben guardato dai vostri nemici, - io vi
ho messo gente che a un cenno mio si lascerebbero andare giù
dai torrioni... parate a tutto, - e qui guardandomi di nuovo: -
assolutamente a tutto; avrà la vostra donna leale custodia e
i conforti dell'amicizia; andate presto per ritornare più
pronto. - Tomaso crolla il capo in segno d'incredulità,
scioglie un sospiro, solleva lo sguardo al maniere, e saltato in
sella, caccia via il cavallo alla dirotta. Io mi era taciuto per
timore di lui, vedendo come fosse in potestà di Naldo
convertire in opera di sangue l'opera di frode, però sul
punto di allontanarmi non potei contenermi dal dirgli: Naldo,
badatevi; Iddio non paga il sabato. - Ed egli a me irridendo: Il
diavolo è molto miglior pagatore, - ei paga in tempo debito.
- Spronai il mio destriero per raggiungere Tomaso. Provveduto di
più poderoso cavallo, egli mi precedeva di non poco cammino;
- lo chiamo, non mi ode o non mi porge ascolto; - urlo, percuoto, mi
affatico tanto che alla fine gli sono vicino: allora, tra per
l'affanno della lunga corsa e per la passione che forte mi agitava,
presi a parlare parole confuse a guisa di forsennato. - Tomaso
temè avessi perduto lo intelletto; io quanto più
m'infiammava, tanto meno riusciva a farmi comprendere; certo si
perdeva un tempo oltremodo prezioso, ma, per concludere qualche
cosa, era mestieri di esporre partitamente i miei sospetti a Tomaso;
lo feci; dapprima egli m'interrompeva, non consentiva udire muovere
dubbio sopra la fede di Naldo; poi gli parve il cumulo delle prove
tanto grave che stette a intendermi pensoso; all'improvviso esclama:
Ahi! tristo servo, perchè non mi hai avvisato? - Oh Dio!
risposi, - quando ebbi piccola prova, non ardiva parlarvi
perchè voi non mi avreste creduto; - quando invece ebbi prove
anche troppe, trovai preclusa ogni via per giungere a voi. - Ma
Selvaggia? - Io non so più che cosa sia divenuto di lei. - O
perfido, ora conosco la cagione per cui con diversi argomenti ti sei
ingegnato a tenermi lontano da madonna Ermellina... Lucantonio,
diamo volta... e accorriamo... - A farci ammazzare come scomunicati
neh? Non vi movete di qui, che io corro per provvedere al vostro
bisogno.
«Eravamo prossimi alla casa di persona devota; la destai, in
brevi parole le esposi quanto avesse a fare; - i suoi molti
figliuoli giovarono; - sparsi di qua e di là per la campagna,
adunarono in poco tempo buona quantità di villani; - avevano
tutti chi archibuso, chi spada, che le guerre degli stranieri hanno
fatto simili arnesi comuni nelle più riposte terre d'Italia.
In questo modo armati, c'incamminammo cautamente alla volta del
castello; - chiuse le porte principali, i ponti levatoi alzati, -
nel circuirlo occorremmo alla postierla di tramontana; - quivi fuori
varii scudieri tenevano allestiti alcuni cavalli, - apparecchio di
prontissima fuga. Agevol cosa sorprenderli; - ordinammo loro
tacessero, pena la vita. Passammo oltre e giungemmo alla sala
terrena del maniero; una voce di donna ci percuote; - era Selvaggia
che, svelta a forza dalla sua diletta signora, plorava sconsolata e
Dio chiamava e gli uomini in soccorso della male arrivata donna.
Feci atto di muovermi a cotesta volta, e meco coloro che io aveva
condotto. Tomaso si stava, - non ardiva manifestarmi il suo
concetto; - io lo compresi e, mutato animo, gli strinsi la mano; - i
miei affissi negli occhi di lui e mormorai: Confortatevi, a me
penserò dopo; ed egli, lo sguardo e le parole considerasse
come il sacrifizio più grave di cui potessi dargli prova, o
come rimprovero della passata ingiustizia, diventò rosso e mi
tenne dietro coprendosi il volto. Madonna Ermellina erasi ricoverata
nella stanza di Tomaso: colà, stretta una spada, come meglio
poteva si aiutava. Noi giungemmo allorchè Naldo, smesse le
dolci parole, le manifestazioni dell'osceno suo amore e le
preghiere, riassumeva l'impeto della feroce natura. Alle minaccie
mesceva giuramenti da subbissare il castello; - ormai, diceva, avere
aspettato anche troppo; pericoloso l'indugio; lo seguisse per amore,
altrimenti lo avrebbe seguito per forza; fin qui essersi astenuto
dal sangue; comincerebbe adesso e al sangue aggiungerebbe
l'incendio. In chi fidare costei? Il marito lontano, la casa piena
di suoi fedeli; temesse che il suo amore ad un tratto per tanta
repugnanza non si convertisse in odio... e, - Vieni, accostandosele
aggiungeva, vieni; Naldo vale quel tuo stolto Tomaso. - La donna
schivandolo rifuggiva nell'angolo opposto della stanza e lo
rampognava: - Vorreste voi usarmi violenza? e non temete? - E di che
ho a temere io? Nessuno qui può trattenermi. - E Dio? - Egli
è troppo buon compagno per impedirmi nelle mie bisogne. -
Madonna Ermellina allontanandosi da colui passava traverso la porta
dietro la quale noi dimoravamo; Naldo la incalzava ardentissimo.
Tomaso si pone improvviso tra la sua donna e lui. Naldo, come
percosso sui capo, impallidì, vacillò, gli occhi
declinò a terra, poi gli rilevò pieni della
malignità dei serpente; ma avendo veduto la stanza ingombra
di villani con l'arme, si conobbe spacciato. Tomaso con voce solenne
gli disse: Naldo, fate che gli occhi vostri mai più
s'incontrino su questa terra co' miei... potete partire. -
Mentr'egli si allontanava con l'inferno nell'anima, io lievemente
percotendogli la spalla gli susurrai nell'orecchie: Dio non paga il
sabato; - ed egli a me: Mal ride chi ultimo non ride, ed io vivo pur
sempre. - Di lui non udimmo più novella; - tornò il
corso della nostra vita lieto, e se alcuna volta rammentammo i
sofferti travagli, ciò fu per meglio rallegrarci delle gioie
del tempo presente. Nel bel mese di maggio, quando il prato è
verde e l'aria serena, giova rammentare le brume dell'inverno e la
tempesta. I servi accommiatati ripresero gli antichi uffici,
suonarono di nuovo le volte del castello di canti; giullari e
menestrelli lodarono la cortesia del cavaliere e la beltà
della dama. Finalmente per colmo di esultanza fu la nostra vita
coronata di figliuoli; - voi, Annalena, con altra fanciulla e due
giovanetti, formaste l'orgoglio di vostra madre... io...
ahimè! ebbi un figlio... Beato me, se non lo avessi avuto
mai!»
Il vecchio si tacque, come spossato dall'amarezza della memoria,
quindi, ripresa lena, continuò:
«Correva l'anno 1512; - la fortuna di Francia dopo la
battaglia di Ravenna scadde in Italia. - Cesare nemico a Fiorenza,
perchè amica di Francia; papa Giulio avverso anch'egli alla
patria nostra pel concilio di Pisa; - i Fiorentini poveri di armi,
di valore e di consiglio. Giovanni cardinale de' Medici, che poi fu
papa Lione, scampato come per miracolo di mano ai Francesi, incita
Raimondo di Cardona, vicerè di Napoli, ai danni della patria
sua: di presente gli pagava buona somma di danaro, assai maggiore
gliene prometteva, conquistato il paese, perchè i Medici
furono sempre generosi ladroni. L'esercito spagnuolo, superati i
monti del Mugello, allaga il piano. Tomaso, devoto alla Repubblica
di Fiorenza, provvede il castello di ogni cosa al combattere
necessaria e si rimette in arbitrio della fortuna. Noi vedemmo
dall'alto dei muri l'oste nemica e non la tememmo, perchè,
manchevole di artiglieria, non avendo in tutto l'esercito che due
soli cannoni, poco danno poteva apportarci; inoltre difettava di
vettovaglia; - la gente del contado non lasciava occasione di
tribolarla con la guerra alla spicciolata. Tentarono i soldati
spagnuoli una volta l'assalto, ma, quantunque valorosamente si
comportassero, furono respinti: - presto speravamo ci liberasse il
flagello. Tomaso, percosso di palla d'archibuso, non potè
certo giorno vigilare alle ronde consuete: finchè le gambe mi
ressero, mi aggirai io sopra le mura. A notte inoltrata mi
raccomando alle guardie stessero all'erta: poi me ne andai a
riposare qualche ora al maniero. Mi svegliano furiosissimi colpi:
confuso dal sonno, sicuro del presente pericolo, pensando fosse al
di fuori sopraggiunta cosa che domandasse nuovi provvedimenti, apro
le porte... Ahi vista!... Tra il chiarore di torcie bituminose,
circondato da una mano di nemici, io riconosco Naldo. Appena ebbi
tempo di gettare un grido; fui stramazzato al suolo, strette le
mani, chiusa la bocca. Il notaio del castello, Francesco da Puglia,
ci aveva traditi. - Si empie il maniero di singulti e di aneliti, la
infame strage incomincia; - da ogni parte sangue. Tomaso, la
consorte, i figli, Selvaggia mia, a forza erano tratti nella sala
dov'io mi giaceva legato. Qui, Naldo propone a Tomaso che se la
moglie e i figli di sua mano trucidasse, gli salverebbe la vita.
Tomaso assente, e gli dànno una spada. Le mie viscere
fremevano: egli guarda prima Naldo con occhi pieni di morte, - ma
vedendolo cinto di armatura di ferro, circondato da troppi scherani,
all'improvviso volta la spada contro il suo petto e cade morto ai
piedi dei figli. Il mio cuore riprese i suoi palpiti; un grido
d'imprecazione si levò dalla bocca delle vittime contro
l'empio assassinio: egli pensando che, quelle voci tacendo,
tacerebbe eziandio la sua coscienza, ordinava trucidassersi. Si
avventarono iniqui contra a quei corpi delicati, nei seni, nelle
gole immersero i ferri, - e quelle misere creature non si
difendevano, - non imprecavano, - invocavano solo il nome santissimo
di Dio. Alla rabbia degli uomini si aggiungeva la rabbia del cielo;
- cadeva la pioggia a torrenti, - l'uragano rovesciò
edifizii, schiantò alberi, - un fulmine rovinò la
cappella e, rotta la lapida di un'arca antichissima murata su la
parete, sparse per la terra le ossa degli antenati della famiglia.
Era il mio voto a Dio distruggitore perchè sobbissasse gli
uomini e la terra che gli sostiene. - Mi si accosta Naldo e,
toccatami la spalla, vi lascia la impronta delle dita sanguinose: -
Mal ride, egli esclama, chi l'ultimo non ride. - Per suo comando mi
levano da terra; nulla curato il furore degli elementi, mi traggono
nel barco e mi legano ad un albero; - io non proferiva parola.
Giunto a cotesto estremo, abborriva la vita, ed anche con isperanza
di salvarla non avrei fatto mostra alcuna di viltà; e poi tra
tante immagini di morte non essendomi comparso davanti il figliuol
mio, consolazione ineffabile in quella ultima ora erami il pensare
che, non trovato da quei feroci, vivesse... Un vortice di fiamme
scaturisce dalle più alte finestre del maniero, - al chiarore
dell'incendio della mia casa vedo il mio figliuolo legato... in mano
dei feroci ancora esso: ogni mio proponimento venne meno;
supplicai... mi avvilii... e, oh Dio! con qual frutto? Ah! io non
posso dirlo... questa memoria mi abbrucia il cervello... No...
dolore non fu mai pari al mio su questa terra di maledizione...
ahimè!..., ahimè!»
Povero Lucantonio! doveva bene angustiarti tormentosa la memoria del
caso; imperciocchè dopo diciasette anni ti agitava una smania
convulsa, e fremevi e battevi i denti e percotevi dei piedi la
terra, sicchè poco più avresti fatto, se in quel punto
ti avessero lacerato le membra con le più crudeli torture.
Poi lo sovvenne il conforto estremo della sventura, il pianto.
Annalena e Vico piangevano anch'essi.
«Udite... se mai fu strazio più osceno di questo...
venitemi a canto... abbracciatemi... imperciocchè senta che
l'animo non mi basterebbe al nefando racconto, se l'amore... se
l'aspetto vostro non mi sostenessero.. Venitemi appresso...
più presso al cuore... non mi lasciate... io finisco. - Me lo
appiccarono... Geri... il mio bel figliuolo... l'unico mio
figliuolo... che tanto rassomigliava Selvaggia... me lo appiccarono
ai rami dell'albero sul mio capo... me lo appiccarono... e mi
lasciarono; - e per tutta la notte m'intronò lo sghignazzare
di Naldo e la sua voce che ripeteva: Mal ride chi ultimo non ride. -
I piedi del giovanetto agitati dal vento mi scompigliavano i
capelli; - una lastra di ferro rovente offende meno. Sforzo con
tremendo conato i lacci che mi legano all'albero, - i miei polsi
rimangono più dolorosamente stretti che mai, la corda cede
tanto ch'io posso levarmi su la punta dei piedi... il corpo di Geri
non oscilla più... i piedi del figlio riposano sopra il capo
del padre! - Geri..., se sei vivo, rispondimi per amore di Dio...
Geri, aiùtati con le mani... allárgati il capestro...
Geri, rispondimi... - E Geri non rispondeva. Chi potrà dirvi
tutte le parole ch'io proferii, - con quanti cari nomi io lo
chiamai? Chi lo spasimo durato allorchè, i piedi rifiutando
sostenermi in cotesta sconcia positura, mi era forza riposarli a
terra; e allora io non sentendo più il corpo del figliuolo
sfiorarmi, dondolando, i capelli, temeva che quel momento di
sostegno cessato avrebbe potuto cagionargli la morte? Chi la lunga
contesa, il disperato dolore e l'esitanza?... Rifinito di forze, mi
abbandonarono gli spiriti; misericordia di Dio fu sospendermi in
quel punto la vita, maggior pietà sarebbe stata tôrmela
affatto. - Quando gli occhi miei tristi si riapersero alla luce, mi
trovai sciolto, - molti miei conoscenti mi stavano attorno
contristati; - il capo, i piedi e le mani acerbamente mi dolevano,
tentai levarmi e non potei; mi posi a sedere, e gli occhi drizzai
all'albero maledetto; io non vedeva bene. - O voi pietosi, io
cominciai, che mi circondate, ditemi per pietà, se mio figlio
pende tuttavia dall'albero! Lo avete salvato? - Mi risposero
singhiozzando, e poi uno di loro riprese: Lo abbiamo sepolto accanto
a voi. - Piegai la faccia, e al lato destro mi occorse una fossa
coperta di piote recenti. Il delirio mi vinse, e mi atteggiai come
il cane quando raspa per iscavare. - Ah! prima che la terra me lo
ricuopra per sempre, ch'io lo rivegga anche una volta. - Mi levarono
per le braccia onde allontanarmi dalla vista di tanta miseria.
Giungemmo presso al castello; la pioggia aveva spento l'incendio, la
parte superiore rovinata, la inferiore illesa: io non so come mi
tornarono le forze; mi liberai da coloro che mi tenevano, e corsi
alla volta della casa... penetrai nella sala... deh! mi sia concesso
non ricordarvi la strage nefanda: così potesse non
rammentarla l'anima mia!... Selvaggia mia, se il cuore non mi ti
avesse indicata, non avrebbero saputo ravvisarti i miei occhi...
come orribilmente ti avevano lacera la gola, con quante ferite
guasto il castissimo corpo!... Mi prostrai... la faccia posai sul
pavimento, e dai precordii sospinsi una molto terribile bestemmia,
però che maledissi colui che, avendo dei fulmini pei giusti,
sembrava impassibile agli scellerati. Per Dio! odo il mio nome
susurrato da una voce che sorge dalla terra: - vivesse Selvaggia? La
sua gola non fosse insanabilmente lacerata? - Levai la faccia... ahi
dolore! pur troppo la testa appena giunta le stava al busto per la
pelle della nuca... ella era morta... irrevocabilmente morta! -
Caddi di nuovo, e il mio nome da capo susurrato mi percuote le
orecchie... temei fosse un errore della fantasia commossa, - e non
mi levai finchè una terza chiamata mi assicurò che io
non m'ingannava: la voce si partiva dal cumulo dei cadaveri della
famiglia del povero Tomaso: vinsi il ribrezzo e mi detti a frugare
con cupide mani tra quella massa di carne sanguinosa... Tranne uno
spregio sopra la spalla, tu eri rimasta illesa... la tua genitrice
una volta ti porse la vita col latte del suo seno medesimo... ella
riparò le tue ferite, ella ti coprì col corpo;
comunque morta, ti aveva difesa, e tu cauta per istinto ti eri
taciuta finchè non ti comparve davanti una faccia amica...
Sventurata, e pure non del tutto misera, madonna Ermellina, se
morendo potesti salvare i giorni della tua pargola... mentre io
infelicissimo padre... oh!»
La fiamma del focolare all'improvviso cessa, e dalle legna vermiglie
si leva una colonna larga, bianchissima: nel tempo medesimo un gran
colpo fu bussato alla porta.
Vico, Annalena e Lucantonio si strinsero in un solo abbracciamento e
proruppero in grido doloroso.
Passata la prima impressione del terrore, Lucantonio asciugandosi la
fronte col dorso della mano, mormorò:
«Ah! mi era parso vedere l'anima del mio figliuolo.»
Annalena giunse le mani e alzandole al cielo diceva:
«O Signore, io sperava tu mi avessi conceduto la vista della
mia genitrice.»
E Lucantonio riprese:
«I luoghi che prima amai m'increbbero: raccolto quanto meglio
potei dal naufragio della nostra fortuna, mi ridussi ad abitare su
quel di Fiorenza: a te costumi diedi convenienti alla nuova
condizione; tacqui i natali e le sventure per non ti contristare la
bella giovinezza: due amori suscitai nel tuo seno, quello della
patria primo, poi quello di me; non perchè lo meritassi, ma
perchè ne aveva immenso, irresistibile bisogno... Adesso in
te se ne leva un altro il quale per certo non ispegnerà gli
altri due... Se ciò avvenisse... sento che la tazza del
dolore non si vuota mai. Di Naldo che avvenne? Voi lo avete veduto,
or non è guari, cadavere miserabile sotto le zampe del mio
cavallo.»
I giovani stavano per consolarlo, quando furono trattenuti da un
secondo colpo più fortemente bussato.
CAPITOLO VENTESIMOQUINTO
VOLTERRA
Tanto fischiar di strali,
Brillar di brandi ignudi,
Colpi così mortali,
Urto sì fier di scudi,
Sangue non fu mai tanto,
Nè più letizia e pianto.
Arminio, tragedia.
Era Francesco Ferruccio. Egli s'inoltrò con passi gravi, e in
sembiante severo; ma quando vide la fanciulla atteggiata di dolore,
quasi statuetta che un bel pensiero di artista abbia posto sul
sepolcro di un primogenito o di sposa nuovamente divelta dalle
braccia - forse dal cuore - dell'amato consorte quando dal volto di
Vico e di Lucantonio conobbe l'angoscia esser passata colà,
di severo divenne mesto ed appoggiò il gomito destro sul pomo
dello spadone, sopra la mano la faccia.
E dopo alcun tratto di tempo incominciò:
«Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il
sole, mi è forza partire in servizio della Repubblica per
impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell'uomo sono
uguali ai passi del viandante, - i giorni del soldato trovano appena
paragone nei passi del cavallo che fugge.»
Ludovico alzò gli occhi attonito e rispose:
«Perchè rimango io?»
«Per ordine dei signori Dieci consegnerò la terra al
nuovo commissario Andrea Giugni... Costui conobbi sempre studioso
della licenza, la quale, finchè non trovi luogo a dimostrarsi
nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la
libertà, - uomo di corrucci e di sangue, non di quell'animo
fermo che i gravi casi della patria domandano, - di costumi corrotto
e superbo, - ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La
impresa a cui mi prepongono i Dieci gioverà assai alla salute
di Fiorenza, perchè, vincendola, come, da Dio sovvenuto,
confido, ridurrà alla sua devozione una città ribelle,
e il suo credito scaduto verrà a rinverdire; in ogni caso,
scemerà forza all'esercito, perchè Orange
manderà gente a tentare di ricuperarla. Però il danno
non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finchè
conserviamo questa terra, non sarà mai spacciata la patria;
la campagna ci è aperta fina a Pisa, - comodissima ci
sovviene la facilità di provvedere gli assediati; - insomma
il Palladio di Fiorenza si conserva qui dentro. Or dunque voi
comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che
vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata
e me ne ragguagli con diligenza.»
«Ma», riprese esitando Ludovico, «la promessa che
voi faceste al padre mio moribondo mi suona diversa; o non
prometteste voi ch'io vi sarei morto al fianco per la patria
combattendo?»
«Vico, io non muto mai; ma dite: - voi da quel tempo in poi
nulla vi sentite mutato? Allo amore di patria non si mescolò
per avventura un altro amore? Vostro malgrado, non si levò
nel cuor vostro un istinto di conservazione per la vostra vita
dacchè un'altra vita vi preme molto più della vostra?
È santo il vostro affetto, ed io lo approvo; pure sarebbe
stato meglio che vi avesse acceso in altra stagione. Ma i fati
reggono gli eventi; io poi non domando mai cose superiori alla umana
natura; - male, penso, si lascia il fianco della sposa per
affaticarsi quotidianamente al raggio del sole in battaglia.»
«Amaste voi mai?» una voce soave interrogò il
Ferruccio, e si partiva dalla fanciulla.
«Io? - Amai mio fratello Simone, valente spada e fidato
consiglio; - amai l'uno e l'altro mio genitore, ed amo le mie due
sorelle, che, rimaste a casa, certo nè anche a quest'ora
cessano dalle notturne preghiere per la tutela della mia vita... ma
sopratutto amo la patria; - donna amata e gelosa, custodisce tutti i
miei affetti... la mia anima è a Fiorenza, intorno al
gonfalone della Repubblica; - la mia anima sta sulla corona che
circonda la testa dei lioni del Comune... gran parte della mia anima
posa eziandio su questa spada... oltre di ciò, io temo non
avere anima per nessuno.»
«Misero voi!»
«Misero io! - e perchè, giovanetta?»
«Perchè», risponde Annalena sollevando
all'improvviso le ciglia e con ardentissimi sguardi fissando il
commessario, «perchè amando avreste appreso nessuno
intelletto essere tanto grande nè cuore gagliardo ai quali il
buono amore non aggiunga grandezza e gagliardia; la patria nuda di
affetti a me rassembra un sepolcro: - l'uomo difenderà per
religione quel sepolcro, perchè contiene le ossa de' suoi
congiunti e conterrà le sue; - ma se vi aggiungi la difesa
della sua sposa e dei figliuoli, allora il soldato ti parrà
fulmine di Dio contro i nemici: io mi rammento avere udito
raccontare dal padre di Vico come gli antichi Spartani non
accettassero combattenti nella falange sacra dove non fossero
innamorati...»
Ferruccio crolla, sorridendo, la testa; e la fanciulla con maggior
fervore continua:
«Voi altri, perchè dotò natura di più
salde membra di noi, non rifinite mai di lamentare la nostra
debolezza; ci pretendete più forti e non vi restate dallo
sconfortarci in ogni maniera; l'avvilimento nostro volete a un punto
e rimproverate. Or dunque da che traete argomento di sospettare che
l'amore sarà d'impaccio alle opere generose di Vico? Se
dall'esser mio di donna, senzachè vi ricordi più
remoti esempi, qual cittadino di Fiorenza fin qui ebbe virtù
che potesse, non dirò superare, ma reggere al paragone di
quella di Lucrezia Mazzanti? Ed io fui sua figliuola d'amore, ed io
con questi occhi contemplai gli estremi aneliti della sua vita
mortale. Ai giorni nostri, donna Maria di Padilla non difese vivo il
consorte, non lo vendicò morto e, quando ai più
animosi mancò l'ardire, non sostenne ella sola la
libertà della Spagna contro lo sforzo di Carlo, che Dio
confonda? Se perch'io mi sono Annalena... voi non mi conoscete
ancora.»
«E che vorreste fare, giovanetta?» le domanda
amorevolmente il Ferruccio.
«A lui», riprese Annalena additando Vico, «quello
che spetta a moglie d'uomo che combatte per la difesa della patria;
a voi quanto incombe a figliuola di padre affettuosissimo: - io per
me abborro il sangue, - e la guerra è necessità che
deploro con tutta l'anima; - la vita considero dono di Dio, la quale
non possiamo spendere mai tanto bene quanto nella tutela della
libertà...; e quindi io pregherò il Signore che volga
gli occhi alla terra e favorisca non il più forte, ma il
più giusto; - appresterò bende e rimedi alle ferite
mentre voi vi avventurate al pericolo di riceverle; - vi
veglierò infermi; - vi tempererò con freschi pannilini
l'ardore delle membra quando vi travaglierà la febbre;
riceverò nel mio seno il colpo che vi sarà
indirizzato... vivrò con voi, e per voi morirò.»
«Padre! su, padre!» esclama il Ferruccio agitando il
braccio di Lucantonio; e questi:
«Chi mi rammenta che una volta fui padre? Quale spietato
rinnovella in me l'antico dolore? Sei forse Dio, per potermi rendere
il figliuolo? Uomo, - intendi, - tu puoi schiudere la bocca del
sepolcro, ma per traboccarvi dentro il tuo simile, non già
per trarnelo fuori.»
Ferruccio attonito non sapeva che cosa volessero significare coteste
lugubri parole: Vico gli espose in breve i fieri casi di lui e come
non fosse sua figliuola Annalena, sibbene orfana e nata di messer
Tomaso Tosinghi da Ponzano.
«La donna, comunque si chiamasse, che fu degna del tuo cuore
ben poteva ottenere anche il tuo nome; e non pertanto mi piace
ch'ella esca dei Tosinghi; - così per te riviverà un
gentile e onorato lignaggio. - Lucantonio, io sono il Ferruccio. - A
me il padre di Ludovico morendo commise la cura d'incamminarlo nella
vita: vorreste voi unire la vostra Annalena col mio Vico? Pari di
età e di animo, paionmi concepiti da un medesimo pensiero del
Creatore.»
«Di', l'amerai come l'ho amata io?» con immensa passione
Lucantonio interroga Ludovico senza badare alle parole del
Ferruccio; «la sosterrai nella vita, le torrai dal sentiero
che deve percorrere i triboli e le spine? Io, vedi, quando era
stanca me la recava in collo e la portava finchè le braccia
intormentite potevano sorreggerla: - guarda i bei piedi ch'io le ho
saputo conservare; - se il freddo l'agghiadava, io le sue mani mi
riponeva nel seno e col calore del mio cuore le riscaldava,
sicchè il gelo non le stagnò mai il sangue sopra le
dita, - ed ora nota come le ha bianche e delicate: quando camminammo
nella estate per le aperte campagne, tra il sole e lei posi il mio
corpo, e la sua pelle rimase intatta; - col mio fiato le inumidii i
capelli; - quando ebbe sete, io le porsi tutta l'acqua della mia
tazza... Abbile cura... allorchè dorme le solleva la testa,
imperciocchè il suo alitare sovente sia soffocato... e in
quel momento Dio ti salvi dalla tremenda paura che mi ha
travagliato. Se così l'amerai, prendila; - siate due in una
carne; - tu, Lena, appóggiati al nuovo sostegno; - appena io
posso ormai sostenere me stesso... Ora non mi avanza altra causa per
dimorare su questa terra... Accoglimi dunque nella tua pace,
Signore.»
Il Ferruccio, modesto com'era, andò egli stesso pel prete. Il
matrimonio fu celebrato nelle domestiche pareti, chè prima
del concilio di Trento molte formalità, diventate in seguito
sostanziali, si trascuravano; mancarono i riti solenni; non vi
assistè la corona dei parenti e degli amici. Furono nozze
dicevoli al soldato in procinto di perdere la vita, - alla donna che
corre pericolo di diventare vedova prima che sposa. La religione del
cuore supplì alle pompe religiose, l'amore immenso dei pochi
alla proterva allegrezza dei molti convitati.
Compiti appena gli sponsali, Vico baciò in fronte la sua
donna e tenne dietro al Ferruccio disposto a partire. Annalena,
comunque abbattuta dalla notte vegliata e più dalle
sensazioni sofferte, apparecchiò le poche masserizie a
trasportarsi necessarie; Lucantonio taciturno l'aiutava senza
mostrarsi affaticato. Tal era quel vecchio che gli anni non sapevano
aggiungergli una ruga sopra la fronte, l'angoscia una puntura sul
cuore, il disagio indebolire que' suoi nervi di ferro.
Il sole co' suoi primi raggi faceva coruscare la picca brunita in
cima all'asta che regge il gonfalone del popolo fiorentino. Prossimo
d'ora in poi a ricercare invano la bandiera della libertà
sopra la nostra terra, pare ch'ei la vagheggi con aumento di luce.
La brezza mattutina svolge agitando le pieghe del gonfalone, e
n'esce un fruscio confuso che ti fa credere che, animato per
miracolo, voglia all'improvviso favellare, e per troppo affetto la
parola non si formi distinta, come immaginò l'Alighieri di
quel suo avo Cacciaguida quando gli comparve davanti nel Paradiso.
Millequattrocento fanti stanno schierati sopra la piazza maggiore di
Empoli sotto diverse insegne e divisi in sette compagnie capitanate
da Nicolò Strozzi, Paolo Corso, Sprone, Balordo e Giovanni
Scuccola da Borgo a San Sepolcro, Goro da Monte Benichi e
Tomè Siciliano. Si aggiungevano quattro compagnie di
cavalleggieri sotto la condotta dei meglio animosi cavalieri che
agli stipendii della Repubblica militassero, Amico Arsoli, Iacopo
Bichi, Gherardo conte della Gherardesca e Musacchino.
Il Ferruccio, accompagnato dal nuovo commessario Andrea Giugni e dai
capitani che lasciava alla difesa di Empoli, Piero Orlandini cui
egli stesso con fervidissime istanze aveva più volte
raccomandato ai Dieci come prode non meno che prudente uomo di arme
e della libertà sviscerato, Tinto da Battifolle, Bocchino
Corso e il conte di Anghiari, percorre le file, esaminando se
avessero trasgredito in nulla i comandamenti di lui.
Imperciocchè egli avesse prescritto che ogni soldato si
provvedesse di pane per due giorni, apparecchiassero picconi e
strumenti altri siffatti da espugnar terre, una soma di polvere
d'archibuso, due some di corda cotta e tre some di scale. Quando co'
suoi propri occhi conobbe essere stato obbedito in tutto, si volse
ad una banda della ordinanza fiorentina distinta dalle altre
compagnie per la sciarpa verde che costumavano i giovani ascritti
alla medesima, in segno, dice lo storico Nardi, dello sperato frutto
delle loro fatiche, e pel gonfalone del Comune, insigne di una croce
bianca in campo rosso.
«A voi», incominciò egli con forza, «non
dico nulla. Quando vi cadrà dalle mani la bandiera, un'altra
cosa vi cadrà sul collo, - la scure del tiranno. La
libertà sta impressa sopra la vostra testa, - l'una non
può reggersi senza l'altra. Allorchè l'animo non vi
bastasse ad essere eroi, siatelo per disperazione; da una parte
troverete gloria, sicurezza, leggi buone, vita larga e tranquilla, -
dall'altra, vituperio e sangue.»
Ciò detto, stese la mano e indirizzò la voce alle
compagnie stipendiate:
«L'ira di Dio e i misfatti degli uomini ci hanno reso
stranieri tra noi; - noi favelliamo uno stesso idioma, noi
allevò una medesima terra, e tuttavolta la nostra patria non
è la vostra; - ben potrei dirvi difendersi in Fiorenza la
libertà dell'universa Italia, - qui essersi quasi intorno al
cuore ristretti gli ultimi palpiti di lei; - fiaccola accesa sopra
il faro illuminare anche i popoli che non contribuiscono coll'olio a
mantenerne il lume. Ma io la vostra condizione presente comprendo e
compassiono. Privi da gran tempo di libertà, ella vi sembra
nome vano e senza idea; all'amore di gloria or si sostituisce in voi
l'amore di un frammento di metallo coniato; - combattete senza
passione perchè non avete patria. Però io non pretendo
da voi cose superiori all'opera comunale del soldato pagato.
Chiunque non si sentisse gagliardo abbastanza per seguitarmi nelle
nuove imprese, rimanga; - adesso gli concedo facoltà ampia a
restarsi; varcata che avrà di un passo la porta di Empoli,
non sarà più a tempo; - un passo indietro lo
spingerà irrevocabilmente alla morte. Intanto mi corre
l'obbligo di saldare i debiti. Romanello, uscite di riga.»
A queste parole si fece innanzi un giovane di forme egregie, nato
nel contado di Arezzo, il quale si era virtuosissimamente adoperato
in quelle quotidiane avvisaglie; il Ferruccio, sorrisogli alquanto,
gli disse:
«In premio delle prodezze vostre vi dono una celata ed un
cavallo. La Repubblica adesso non può guiderdonarvi nè
di più nè di meglio. Sta in arbitrio vostro lo stare
come l'andare.»
«Con buona licenza vostra rimarrò a provare se buon
cavallo e buona celata mi donaste voi.»
Gli accenti severi e il dono onorato commossero i soldati, - i volti
loro avvampavano di vergogna, - il cuore battè con violenza
sotto gli usberghi di ferro, imperciocchè l'uomo, come la
pietra sotto la mano del fabbro, diventi ad un tratto o la statua
d'un Dio, o un mortaio da sale, - e con unanime grido risposero:
«Noi verremo tutti: - voi siete la nostra patria.»
I soldati amavano il Ferruccio più che padre, - ed io ebbi
luogo di notare che il capitano giusto e severo è temuto a un
punto ed amato; - i soldati riconoscono la pena non da lui
bensì dalla legge, mentre il premio all'opposto,
anzichè dalla legge, da lui solo derivano. Io però non
affermerei questo avvertimento tanto generale che non andasse
soggetto a gravi eccezioni; - nondimeno io l'ho fatto replicate
volte con animo quieto e forse preoccupato da pensieri poco
onorevoli alla umana natura: - certamente l'uomo è migliore
della sua fama.
Il Ferruccio, agitando la destra, di nuovo favella:
«Or dunque deponete le vostre particolari bandiere,
accoglietevi tutti sotto il gonfalone della Repubblica; - per ora
abbiate una bandiera comune: - tra poco, Dio sovvenendoci, ci
acquisteremo comune anche la patria.»
E come disse, fecero. Allora egli si strinse da parte col nuovo
commessario Giugni e, prendendogli ambe le mani, favellò:
"Messere Andrea, per lo corpo santissimo di Nostro Signore vi
raccomando la difesa di Empoli. S'egli non è tale, come ho
scritto agli magnifici signori Dieci, che le donne, non che altri,
lo possano con le rocche e coi fusi difendere, certo i soldati con
le picche e con gli archibusi molto agevolmente il potranno. Questo
Popolo ha buona mente verso la Repubblica; ma voi sapete bene essere
il popolo voltabile cosa e pronto a levarsi al primo vento che vi
soffi dentro. Il migliore spediente ond'ei non senta la fatica
consiste nello affaticarlo del continuo: pensate ch'Empoli perduto
darebbe vinta ai nemici la guerra; fate buona guardia; in caso di
assedio, badate alle mura verso la porticciuola d'Arno e verso San
Donnino; - da questi lati paionmi più deboli che altrove: -
praticate un fosso interno, - a me il tempo mancò per farlo;
- giù in fondo conficcatevi aguti di legno o di ferro; -
innalzate un argine: in castello troverete legname a ribocco, e
quando le terre possiedono legname, le non si ponno sforzare;
troverete copia di munizioni tanto al vivere quanto al combattere
necessarie. Addio, messere Andrea; fino dalla gioventù prima
procedeste sviscerato della libertà e mille volte poneste a
sbaraglio della vita per cause da nulla; adesso pertanto
rammentatevi che sopra il vostro capo riposano i destini di Fiorenza
e forse d'Italia; abbiate fisso nella mente che voi avete a perdere
una patria e un nome che di padre in figlio a voi pervenne
onoratissimo e splendidissimo. - Partiamo"
Iacopo Bichi, piegandosi sopra la sella del cavallo, mormorò
nelle orecchie del Ferruccio:
«Di nemici va pieno il contado, commissario; non parrebbevi
prudente, onde fuggire ogni impaccio, che ripiegassimo il gonfalone,
e i tamburi e le trombe tacessero?»
«No, Iacopo», riprese il Ferruccio; «e' bisogna
incamminarci al conquisto di gloria non come ladri, sibbene da eroi.
- Date nei tamburi. Viva la Repubblica!»
I soldati ripeterono il grido Viva la Repubblica e si posero in via.
Volterra è città antica, posta quasi nel mezzo della
Toscana, sopra un monte assai alto: sedendo sopra cinque gioghi,
dicono gli storici che presenti per pianta quasi la figura di una
mano. Chi prima la edificasse ignoriamo; alcuni le danno origine
propria, altri straniera; tra questi chi l'attribuisce ai Lidii, chi
a' Pelasgi, chi a Tirreno; non manca chi ne affermi fondatore
Noè: incertezze e favole le quali nonpertanto valgono a
dimostrare i suoi remoti principii.
Ciò che apertamente possono esaminare i pellegrini sono le
reliquie delle mura ciclopiche che occorrono pur sempre nel suo
territorio, e scritture di lingua che ormai non intendiamo
più: le prime fanno fede che visse un di una schiatta di
uomini dotati di forze assai superiori a quelle dei popoli moderni;
- le seconde, di un tempo tanto antico che mal si accorda colla
età attribuita alla nostra terra. Dicono Giano nascesse in
lei; affermano quivi ancora trovasse i natali san Lino; i quali
casi, se come narrano, avvennero, segno è certo avere usato
sempre benigno riguardo a quella città la Idea, che i popoli
posero con vicenda perpetuamente alterna nel cielo a disimpegnare le
funzioni di Dio. Volterra fu delle dodici città etrusche sede
dei lucumoni; qualche archeologo volterrano sostiene essere stata
prima tra tutte; gli antiquari aretini scrivono lo stesso di Arezzo;
altri altre cose: la quale questione di preminenza, come
delicatissima, lascio alla decisione del benigno lettore.
Si resse prima con proprie leggi; e tanto i suoi antichi cittadini o
amarono la libertà o abborrirono la tirannide che ordinarono
nessuno di loro tenesse i magistrati, ma annualmente si concedessero
agli schiavi fatti liberi: quale tradizione riportata da Aristotele
non so come si accordi con l'altra che quivi ponesse sua stanza il
principale lucumone di Etruria. Come che sia però, se a lei
piacque la libertà, la invidiò in altrui; e gli
storici ci riferiscono ch'ella, collegata con Arezzo, Chiusi,
Rosselle e Populonia, tentasse restituire Tarquinio in Roma. Male
incolse a Volterra provocare l'aquila romana, dacchè, quando
usciva appena di nido, rimase da lei malamente ferita; fatta adulta,
la divorò. Elio Vuturreno con sessantamila Toscani,
comportando acerbamente il minacciato servaggio, giurarono vincere o
morire: giacquero spenti sul campo di battaglia presso al lago di
Valdimone. Volterra e la rimanente Etruria diventarono da prima
municipio, poi colonia romana. Nelle contese tra Mario e Silla,
Volterra seguì le parti del primo: superando il secondo, ne
sottopose alla legge agraria il contado.
Durante il medio evo la ressero conti, marchesi e gastaldioni, poco
dopo, i vescovi; ma questi più di nome che di fatto,
imperciocchè nell'esercizio dell'autorità temporale li
troviamo contrariati tutti, spesso banditi, uno - Galgano vescovo -
trucidato.
A libertà scomposta successe tirannide sfrenata. I Belforti,
congiunti finchè attesero a dominarla, si divisero poi su lo
spartire della preda: i deboli ricorrono ai Fiorentini per aiuto.
Secondo l'antica natura dei potenti, i Fiorentini sovvengono i
deboli contro i vincitori per opprimere entrambi. Volterra, col nome
di socia, diventa sottoposta a Firenze. Però, se togli
qualche ingiustizia commessa dal popolo fiorentino per
necessità della sua politica, se dalla parte dei Volterrani
qualche impeto per rivendicarsi nell'antica libertà, tra
signore e servo non vedemmo mai concordia più diuturna
nè più sicura di questa.
La maggiore iniquità che avessero a sopportarvi i Volterrani
venne da Lorenzo dei Medici il vecchio. Siccome il racconto di
questa avventura giova a svelare l'ingegno di un uomo che la fortuna
sembra proteggere anche, dopo la morte così che perfino il
titolo di onoranza a tutti i cittadini comune muta in attributo
singolare della sua magnificenza, non mi sarà grave esporla
con qualche larghezza.
Mentre mi dispongo a farlo, mi occorre alla mente un pensiero
importuno, ed è questo. L'unico conforto che avanza al
magnanimo oltraggiato da' suoi contemporanei consiste nel confidare
il proprio nome al futuro e dal sepolcro, dove precipita col cuore
rotto, appellare alla fama. E pure anche questa fama diventa ancella
della fortuna e dura a celebrare, per inerzia e per costume, morto
colui che adulò vivente. Lorenzo dei Medici salutano tuttavia
i posteri col nome di Magnifico, lui dicono grande, lui generoso e
sapiente. Scrittori stranieri impallidirono sopra antichi volumi per
rinverdirgli la corona e nascondergli officiosi sotto le fronde
dell'alloro la impronta di tiranno che un ferro popolano gli segnava
sul collo. - Quanti furono coloro che encomiarono il Ferruccio? E
non pertanto questi morì per la libertà della patria,
- quegli, come vedemmo, moriva senza l'assoluzione del
Savonarola promessa a patto di restituire la patria alla
libertà.
Or dunque si narra come Bernuccio Capacci da Siena offerisse alla
Signoria di Volterra di condurre in affitto per dieci anni i pascoli
del Sasso e le miniere dello allume; la quale offerta, quantunque
fosse da autorevoli cittadini vigorosamente contradetta, non
pertanto venne dai priori e dai collegi approvata. Il popolo
cominciò a riprendere come lesivo l'affitto. Il Capacci, per
assicurare il negozio, ci chiama a parte Paolo Inghirami, uomo fiero
e potente, e Lorenzo dei Medici. Aperte le miniere, tanta fu la
copia dell'allume che, tra per invidia di alcuni contrarii allo
Inghirami e la lesione che veramente sentiva il popolo, invocato il
disposto delle antiche leggi, si ottenne cassarsi il partito e di
nuovo proporsi il negozio davanti il magistrato. Varie ebbe vicende
questa trattativa; e forse, cresciute a termine conveniente le
offerte, usata modestia e blandizie, sarebbesi condotta la bisogna
di quieto a buon termine, se l'Inghirami, trasportato dalla superba
natura, fidandosi nella forza, non avesse preferito ai modi benigni
i riottosi. I magistrati offesi, volendo far mostra di
autorità, ordinano gli operai dalla miniera si cacciassero,
gli edifizii si demolissero. Paolo, bollente di sdegno, si riduce a
Firenze per avvisarne Lorenzo; e questi, ne' suoi privati interessi
mescolando la patria, fa decretare si rimetta ad ogni costo
l'Inghirami nel possesso della miniera; i giudici che ardiscono
amministrare la giustizia a suo danno s'imprigionino: Rafaello
Corbinello, capitano di Volterra, provveda onde abbia forza il
decreto. Paolo torna in Volterra, percorrendo le strade con
accompagnatura di Côrsi armati, in sembianza e più nei
modi tiranno. Il popolo, che in moltissime cose si assomiglia al
bove, lo assomiglia anche in questa, che, quando è quieto, un
sol fanciullo lo mena, ma quando monta in furore, cento uomini lo
fuggono. Al popolo dunque un giorno scappò la pazienza;
- l'accompagnatura dei Côrsi disparve, distesa appena
una delle sue mille mani; - Paolo e i suoi aderenti, costretti a
salvarsi, riparano nel palazzo del capitano. L'autorità e la
paura di pena remota mal giovano contro a furore presente: a
malgrado le dimostranze, cadono spezzate le porte; il popolo
irrompe; Romeo Barbetani, che primo si oppone, riduce in pezzi, -
gli altri ristretti in cima della torre collo zolfo e col bitume
soffoca, - poi ne strascina per le strade i cadaveri, miserabile
trofeo di cittadina discordia.
Lorenzo dichiarò la maestà del fiorentino popolo
offesa per cotesta strage, pernicioso l'esempio dove si lasciasse
impunita. I priori gli ebbero fede o s'infinsero, chè ormai
in lui di tiranno era tutto, tranne la corona, superflua eppure
ambita insegna di potenza.
Un popolo si armava ai danni dell'altro per sostenere Lorenzo dei
Medici nella impresa degli allumi: fu questa guerra avaramente
incominciata, crudelmente combattuta. Lorenzo mosse contro Volterra
Federico duca di Urbino con poderosissimo esercito; e poi
impedì che la città si soccorresse, - gli amici di lei
corruppe o spense; sicchè abbandonata, soprafatta dal numero
e dal tradimento, cedè alla fortuna del nemico. Con quanta
misericordia si comportasse verso i vinti Lorenzo, che la
posterità si ostina a chiamare Magnìfico, si dimostra
da queste poche parole di uno scrittore volterrano: "Io non
istarò a narrarvi la universale desolazione, gli incendii e
gli spogliamenti di cui vanno piene le storie del tempo. Basti dirvi
che la rovina di questa patria fu tale che pochi esempi sono
accaduti simili a questo, per cui non è risorta mai
più»
Alcuni cittadini di Volterra, i meno, - perchè i generosi non
furono mai troppi, anteponendo alla servitù l'esilio,
ricoverarono in varie terre d'Italia. Poco dopo sopraggiunse nella
rovinata città Lorenzo con pecunia per corrompere il popolo e
per innalzare la fortezza; ogni privilegio le tolse, di libera la
ridusse serva, e tali e tante vi commise enormità che presso
a morte la memoria di quelle lo travagliava fino al punto di
disperarlo del perdono di Dio.
Il popolo fiorentino, scacciati i Medici, attese a riparare le
ingiurie del tiranno, restituì ai Volterrani il governo e
l'entrate; ma, ormai troppo profondamente offesi, non poterono
risorgere all'antico splendore.
Però quando Firenze, venuta meno ogni speranza d'accordo,
deliberò sostenere gagliardamente la guerra contro le armi
collegate dello imperatore e del papa, i Volterrani mandarono
ambasciatori alla Signoria per offerirle tutte le forze loro in
quanto valevano. Cresciuto il pericolo ed occupato in gran parte dal
nemico il dominio, ottennero licenza dal capitano Nicolò dei
Nobili di armarsi e di provvedere con ogni argomento tornasse loro
più destro alla difesa della città. Ma l'affezione
veniva meno con la fortuna: quotidianamente cresceva il numero di
coloro che dissuadevano gli animi da mettersi in mezzo a fortune per
lo meno incerte e difficili, e con la speranza dei beneficii del
barcamenare gli lusingavano: e l'uomo, per sua natura, senza
mestieri di sollecitazioni, vediamo essere ad abbandonare l'amico
infelice pel nemico avventurato anche troppo inchinevole: infida, ma
potentissima paciera, - la prosperità.
A Giovanni Covoni potestà di San Gemignano parve bene
lasciare cotesta terra, non avendo forze sufficienti a mantenercisi;
e poi lo consigliavano a quinci remuoversi le notizie che ad ogni
ora gli venivano più certe, starsi i Volterrani in procinto
di dar volta e ribellarsi al Comune. Presentatosi alla porta di San
Giusto con le sue quattro compagnie, i Volterrani lo accolsero con
sembianze liete, - ma, per quanto ei sapesse pregare e ammonire, nol
vollero alloggiare in città; solo gli concessero stanza nei
borghi. Per la qual cosa sdegnato il Covoni ordinò che alla
mattina seguente su l'aprire delle porte entrassero i soldati senza
rumore nella terra e prendessero i canti della piazza dei Priori; e,
come disse, fecero, ma non senza rumore nè senza spargimento
di sangue, avvegnachè volendo contrastare i Volterrani, due
di loro, ch'erano fratelli, rimanessero uccisi.
Adesso il commissario abbandona per istoltezza quanto aveva in
virtù della forza conseguito. Lasciandosi aggirare dalle
insinuazioni dei maggiorenti tra i Volterrani e malgrado le proteste
dei più savi, impone ai capitani Goro da Monte Benichi e
Paolo Côrso ritornino alle stanze fuori di Volterra. Usciti
appena dalle porte, chiudono i cittadini le imposte e si fanno ad
assaltare le due compagnie rimaste: insufficienti a sostenere
l'impeto, uscirono anch'esse, più che di passo, di Volterra,
ed accozzatesi con le altre due, piene di mal talento presero la
volta d'Empoli.
Parendo, com'era, grave fatto cotesto, la Signoria di Firenze
provvide ai rimedii mandandovi Bartolo Tedaldi con due compagnie;
partito intempestivo quando inefficace. Avendo prevalso le parti dei
Medici, al Tedaldi parve somma ventura ricoverarsi co' soldati in
cittadella. I Volterrani, liberati dalla sua presenza, convengono a
patti con Taddeo Guiducci commissario del papa; poi mandano oratori
a Clemente e ne ottengono laudi, benedizioni e promesse, di cui non
fu mai penuria in corte di Roma.
Procedendo del tutto avversi alla Repubblica i Volterrani, ed a
ciò confortandoli Alessandro Vitelli, costruiscono bastioni,
innalzano cavalieri, turano le bocche delle strade che menano alla
cittadella, e le case opposte riducono ad archibusiere per offendere
chiunque si avvisasse sortirne per irrompere nella terra. Temendo
poi fossero pochi i soldati stanziati colà per sostenere le
parti del papa, condussero dugento fanti, poi altri cento,
finalmente chiesero ai Sanesi artiglierie e munizioni. I Sanesi
dettero cinque bariglioni di polvere, le artiglierie promisero, non
mandarono: onde si volsero ai Genovesi; i quali, desiderando
gratificare al pontefice, concessero due cannoni, due colubrine, un
mezzo cannone e un sagro, con trecento venti palle di ferro: e
perchè nessuno dei popoli italiani mancasse a spegnere il
focolare della libertà d'Italia, Luigi da Bivigliano dei
Medici, spedito in poste dal marchese del Vasto dopo la prima
ributtata dalle mura di Volterra, dette ventiquattro bariglioni di
polvere.
I chiusi in cittadella non si restavano; e comecchè avessero
piccola artiglieria, giorno e notte indefessamente traevano contro
la città: per altra parte cominciavano a patire difetto di
vettovaglie; sicchè, mosse parole di accordo, convennero in
una tregua di due mesi, a patto che l'uno non dovesse offendere
l'altro, i Volterrani pagassero al Tedaldi commessario della
cittadella scudi trecento, e giornalmente pel giusto prezzo gli
dessero copia di vettovaglie necessarie al bisogno degli assediati.
Siccome avviene, firmati appena i patti, l'una parte e l'altra
attese a non mantenerli; per la qual cosa indi a breve riassunsero
le offese molto più gagliarde di prima, ed alla fine, volendo
ad ogni costo il pontefice porre fine alla impresa, ragunato sforzo
di gente e di arme, deliberarono venire all'assalto.
Tale era la condizione della città quando Francesco
Ferruccio, ordinandolo i Dieci, abbandonava Empoli per sovvenire
alla fortuna pericolante della Repubblica in queste parti del suo
dominio.
Ferruccio, affrettati i passi, giunse in Volterra il giorno stesso
26 aprile che si partì da Empoli, trascorsa appena la
ventunesima ora: subitamente introduce i fanti per la porta del
soccorso nella cittadella; fatti smontare i cavalleggeri e cavare le
selle ai cavalli, per la medesima via gli mette dentro. Se i soldati
lo accogliessero con dimostrazioni di allegrezza è agevole
immaginarlo; egli, come uomo a cui il tempo tardi, imposto modo a
coteste gioie, favellò brevi parole:
«Attendano i soldati a riposarsi, - di cibo si confortino e di
bevanda; tra mezz'ora io gli richiamo alle armi.»
Uno dei cittadini di Volterra chiusi in cittadella accostando la
bocca all'orecchio di certo soldato fiorentino, mormorò:
«Ecco un comando ch'è più facile a darsi che ad
eseguirsi. Come faremo a confortarci di cibo e di bevanda che in
cittadella avanzano appena sette barili di vino, e dei pani forse ne
avremo cento?»
E il Fiorentino ghignando:
«Sta quieto; non sai tu che il nostro capitano si è
fatto imprestare il miracolo di multiplicare il pane quante volte
egli vuole?»
«Ahi tristo! per poco voi altri Fiorentini non diventate
luterani: tu schernisci il miracolo; non ischernirlo, perchè
io, alla croce di Dio, ti giuro che l'ho veduto.»
«Lo hai veduto?» riprese il Fiorentino spalancando gli
occhi; «amici, apriamogli la vena.»
«Che vena e che non vena! io ti dico che costà nella
terra dentro la chiesa di San Francesco si conserva un frammento del
pane moltiplicato dal Redentore, - è di orzo e fresco, come
se uscisse pur ora di forno.»
«Io non dileggio: - guarda; - il miracolo si opera.»
I soldati, aperti gli zaini, ne avevano cavato pane e vino, e stesi
per terra, dimentichi dei disagi della vita, improvvidi dei futuri
pericoli, motteggiando e ridendo di gran cuore, adempivano il
comandamento del capitano.
Ferruccio intanto, quasi il sole non gli avesse riarsa la faccia, il
cammino stancate le membra, la fatica e la polvere assetato,
taciturno si aggira per le mura della cittadella, specola i luoghi,
esamina i muri, nota le archibusiere avverse, poi assente col capo
ad una sua interna determinazione e, percotendo della palma aperta
il parapetto, esclama: «Può farsi!»
E subito dopo chiamò Vico e gl'impose portassegli una tazza
di vino; si trasse l'elmo, non scosse la polvere, raddrizzò
il cimiero. L'elmo pesante gli avea segnata sopra la fronte una
traccia di sangue pesto; non importa: vi sovrappone di nuovo
l'arnese di ferro; ei non ha tempo di sentire il dolore.
«Oh! questo è un uomo davvero», discorreva un
soldato asciugandosi col dorso della mano la bocca dopo di aver
bevuto; «egli principia dal principio; quando il soldato si
è cibato e ha dormito, riprende allegramente il suo cammino,
fosse anche per la eternità.»
«Certo, il capitano Ferruccio», discorreva un altro,
«ha avvertenza a tutto: infatti qual concetto dovrebbero
formarsi nell'altro mondo dei soldati della Repubblica fiorentina,
se, arrivati appena in paradiso, chiedessero da mangiare?»
«Ouf!» esclama un terzo sbadigliando e stirando le
braccia «muoio di sonno... Lasciatemi dormire.»
«Soldati!» tuonò all'improvviso la voce del
Ferruccio, «soldati!»
E gli uomini d'arme, fanti e cavalieri, assursero come se una
bombarda fosse loro scoppiata vicina.
«Mi dispiace che la necessità mi costringa a menarvi a
combattere senza che vi abbiate tolto ristoro al disagio sofferto;
ma la prontezza dello assalto levando ai nemici l'animo di
difendersi, con poco di fatica vi procaccerete riposo durevole e
sicuro. Or dunque perchè vi farei io lunghi discorsi quando
è duopo adoperare le mani? La mia pazienza è
metà più corta della mia picca: vedete costà
quella torre? la ravvisate voi?»
«Sibbene la ravvisiamo: ella è la torre del palazzo dei
Priori.»
«Or dunque sappiate che stanotte voglio giacermi là
dentro; aiutatemi a conquistarmi il letto; mi tarda dormire.»
«Lo pensate voi? sapete che ora fa egli?»
«Che importa l'ora? Qualunque istante è buono per
combattere e per vincere i nemici della patria.»
«Ma le ventidue ore si avvicinano: siete voi Giosuè? -
Pretendereste arrestare il sole su in cielo?»
«Con l'ajuto di Dio, intendo affrettare le mani sopra questa
terra. Rompete gli indugi, - attelatevi, - seguitemi, - la
città è nostra!»
E fece aprire le porte e si spinse avanti abbassando la testa, come
uomo fa per riparare il volto dalla procella. Da una mano brandiva
la picca; dall'altra teneva la rotella e una scala.
I Volterrani avevano, come narrammo, recinto intorno la fortezza con
archibusieri e bastioni; e di questi ne avevano innalzato fino a tre
nella strada di Santo Antonio, donde, sortendo dalla fortezza,
è forza passare se vuolsi riuscire sopra la piazza e quindi
nello interno della città: da cosiffatti ripari cittadini e
soldati mandavano continue scariche contro i Ferrucciani; ma, o sia
che le feritoie mirassero alto, o nel precipizio dei moti non
aggiustassero i colpi, nessuno rimase morto su quella prima sortita.
Il capitano appoggia la scala: per meglio resistere all'urto delle
pietre che gli rovinano sul capo, prende tra i denti la picca, e con
ambe le mani afferra la scala. A vederlo innalzarsi di grado in
grado imperturbato tra mezzo il turbine dei sassi che gli rimbalzano
su l'elmo e su le spalle; a vederlo ora comparire, ora mezzo
dileguarsi tra un nuvolo di terra e di polvere di calcina, non
paveva cosa umana, bensì paurosa apparizione di spirito
soprannaturale; amici ne tremarono e nemici.
Tentano respingere la scala dal bastione e cacciarlo riverso a
rompersi sul terreno; non vi riescono; quando poterono aggiungerlo
pel cimiero, s'ingegnarono tanto squassarlo che cadesse; ed anche
questo fu invano; egli torna a brandire l'asta e le vibra veloce
come il serpente la lingua; da destra, da sinistra spesseggiano i
colpi; già il sangue colora la parete esterna del bastione; -
morto il quarto ed il quinto, gli altri nemici non aspettano le
percosse poderose: al Ferruccio viene fatta abilità di
piegarsi col torace sul parapetto, poi mettervi la gamba destra; -
eccovelo in piedi.
In altra parte non favorisce la fortuna i suoi soldati. Il primo che
ebbe montati i gradi supremi della scala tocco in fronte da una
palla precipitò sopra i suoi. Vico, appunto atterrito, gli
tiene dietro sopra la scala perigliosa. Iacopo Bichi e Amico Arsoli,
vergognando lasciarlo solo al mal passo, appoggiano accanto altre
scale e ascendono deliberati a vincere o a morire: ben fu opportuno
a Vico il sussidio, perchè a mezza scala una pietra lo colse
così sconciamente sul capo che stordito sarebbe per certo
caduto, dove non lo avessero sorretto e con le rotelle tutelato dai
colpi succedenti quei due valorosi.
Da questo punto a quello superato dal Ferruccio era tirata una
cortina senza terrapieno forse larga due palmi; simulazione di
difesa piuttosto che difesa vera, - distava da terra dieci braccia
circa, - piena di pericoli pel trapasso, come quella che era stata
composta di varie maniere sassi lasciati nella naturale loro
informità. Il Ferruccio vi si avventura: grave di armi vi
corre leggiero quasi sopra un prato; - tutta la sua forma alta ed
asciutta si disegna sul cielo scoperto; pareva volasse; mercè
il suo ajuto anche quel punto venne sforzato: la bandiera della
Repubblica sventolò sopra i bastioni volterrani.
Vinto il primo bastione, rimase ad espugnarsi più ardua
difesa; tutte le case avevano ridotto a trincera, e internamente
sfondate potevano scorrere dall'una all'altra ed essere pronti ai
soccorsi; non visti offendevano, con ogni arnese ferivano, dal basso
lanciavano fuoco e ferro, dall'alto tegoli e materie ardenti.
Coteste strade anguste, paurose per tanti modi di morte, mettevano
sospetto nei meglio arrisicati; e il sospetto accrebbe quando
all'improvviso percosso da mano invisibile il capitano Balordo da
Borgo San Sepolcro vacillò e senza pure raccomandare l'anima
a Dio stramazzò spento. I soldati balenavano; anche un
momento concesso al pensiero, volgeranno le spalle. Ferruccio, il
quale in cotesta impresa si comportò più da soldato
che da capitano, ha incorso il biasimo degli storici, principalmente
del Segni. A parere nostro il Segni merita quel biasimo che troppo
facile compartiva al Ferruccio: guerre erano quelle che al capitano
non bastava disegnare, bensì gli correva il bisogno di
propria mano in gran parte eseguire; non come ai giorni nostri il
problema della vittoria poteva sciogliersi dentro un gabinetto
mediante i calcoli fatti con cifre di carne e di ossa: questo vanto
era anch'esso serbato a noi Italiani, ma più tardi, - parlo
di Napoleone Buonaparte. In somma, il Ferruccio con la sua mente
pensò quell'assalto e con le sue mani lo vinse; preso da
furore, cominciò da ferire quanti tra i suoi mostravano
viltà, e fatta una testa di cavalleggieri armati a piede, si
caccia avanti e riesce a capo della Via Nuova. Allora presero a
rompere i muri delle case e sforzarsi di entrare; la disperazione da
un lato e la speranza presentissima di vincere dall'altro
riaccendono la mischia; di qua e di là, morti e ferite. Pur
finalmente i muri furono rotti, - i Ferrucciani si spandono nelle
case. Allora comincia una guerra spicciolata su pei tetti, nelle
cantine, di stanza in stanza, con molta strage dei soldati e dei
cittadini di Volterra. I Ferrucciani, dalla dura resistenza
inacerbiti, non serbano più modo, ed agli orrori già
tanti aggiungono il fuoco, il quale apprendendosi agli antichi
edifizii, come voglioso di primeggiare nella opera della
distruzione, in breve ora riduce in cenere quaranta case: le avrebbe
distrutte tutte, se all'improvviso squarciandosi il cielo con
procella di saette e di tuoni non avesse mandato giù un
acquazzone, il quale spense il fuoco e le forze degli assalitori
spossati dal cammino e da sei ore di affannoso combattimento.
I capitani stavano attorno ai soldati e con ogni industria
s'ingegnavano stimolarli: Ecco, dicevano loro, e dicevano il vero,
più poco rimane a vincere la città, il più
è fatto; un lieve sforzo, e basta; pensate quanta gloria e
quanta utilità ci viene dall'acquistarla, e quanta vergogna e
danno ci verrebbe dal perderla ora che i nemici sono battuti:
considerate il pericolo di lasciarli ad agio onde le forze
rinfranchino e gli animi; e durante la notte potranno raccogliere
gente dai paesi circostanti e metterle dentro, fabbricare nuovi
ripari, ricevere soccorsi dai militi che scorrono il contado: in
somma chi non coglie il frutto quando e' può, pensi che mille
ostacoli si metteranno poi fra la mano e quello. Non gli
ascoltavano; imperciocchè dove abbia la fatica vinto il corpo
davvero, nè volere proprio nè esortazioni altrui
giovano nulla. Più degli altri, ma con profitto pari,
procedeva acceso ad eccitare i soldati il capitano Nicolò
Strozzi, strenuissimo cavaliere, a cui taluno, potendo appena aprire
gli occhi, rispose:
«Vedete, anche il signore commessario ha lasciato la presa:
l'uomo fa quello che può; lasciateci in pace.»
Di vero Nicolò si guarda attorno e non vede il Ferruccio:
presa lingua di quello che ne fosse accaduto, seppe essersi ritirato
poco prima in fortezza; e là essendosi fatto con presti passi
a cercarlo, lo trovò che, avendo rilevato un embrice sul
capo, temendo venir meno dallo spasimo, ed i suoi si perdessero di
coraggio, si era ridotto in fortezza per prendere un po' di ristoro
e poi tornare. Appena il capitano Strozzi con parole succinte gli
ebbe esposto la causa la quale a lui lo conduceva, il Ferruccio,
senza profferire motto, salta su in piedi e corre via; dietro a lui
si mette Nicolò. Passando per le strade della città,
lo Strozzi dal rinnovato traboccare dalle finestre di sassi e tegoli
si accorse che i Volterrani riprendevano fiato, e si accorse
eziandio come il commessario, spinto dalla sua impetuosa natura,
fosse uscito senza celata, sicchè ad ogni istante correva
pericolo di restar morto sul tiro. Nemico era lo Strozzi del
Ferruccio e per causa onorata; e la guerra e il comandamento
espresso dei Dieci avevano piuttosto sospesi che spenti gli
scambievoli rancori: non pertanto, conoscendo come nella
virtù di cotesto uomo fosse ormai riposta la salute della
patria, si levò di capo la celata e la pose su quello del
Ferruccio, senza che questi, tanto era preoccupato a rinnuovare
l'assalto, ci ponesse mente.
Non era impresa umana reintegrare le forze dei soldati; nè al
Ferruccio riuscì meglio degli altri impartire loro non
l'animo, bensì la balìa di muovere le braccia: allora,
altro non potendo di meglio, pensò di mettere al sicuro
l'acquistato, ordinando ai suoi prendessero i canti della piazza di
Santo Agostino e ritraessero sotto la cittadella due pezzi di
artiglieria caduti in sue mani; distribuì le sentinelle,
trasmise istruzioni, e nulla trascurò, dopo essersi mostrato
audace guerriero, di quanto si addice a prudente capitano.
Rivolgendo con animo pacato i passi alla fortezza, come per lenire
il fiero dolore di capo che lo travagliava, si cava la celata, e
vede non essere la sua; guardandola meglio, la riconosce per quella
del capitano Strozzi; ond'è che, scorgendoselo vicino e
scoperto, gli domanda:
«Come va che la celata vostra io mi ritrovo in capo?»
«Ce la misi io, perchè usciste senza e correvate
pericolo di rimanere côlto dai sassi.»
«E voi?»
«Io non sono il commessario... dei capitani se ne trova su di
ogni canto.»
Il Ferruccio tacque; e andarono anche alcuni passi; poi il primo si
fermò e disse:
«Nicolò, noi avemmo lite insieme e rappacciati siamo
per ordine dei Dieci... Volete voi che ci rappaciamo per ordine dei
nostri cuori?... il mio almeno mi comanda di fare
così...»
E gli stese le braccia: il capitano Strozzi lo abbracciò e lo
baciò, e si dissero amici fino alla morte.
Mentre i due valentuomini procedono con le braccia conserte verso la
fortezza, ecco d'improvviso percuote il Ferruccio un suono di pianto
e voci sconsolate che gridavano: Al fuoco! al sacco! - E levati gli
occhi, mira traverso la vampa delle fiamme correre donne sbigottite
co' pargoli in collo, traendosi dietro altri figliuoletti attaccati
ai lembi delle vesti, e uomini carichi di varie maniere di
masserizie, e finalmente un vecchio tratto sopra le spalle di due
giovani, il quale dandosi di una mano nella fronte e in atto
d'angoscia, sclamava: Federigo da Urbino e Ferruccio da Fiorenza,
distruggitori di questa nobile patria! I miei occhi hanno veduto il
saccheggio nel 1472, ma la seconda calamità supera la prima;
il capitano della Repubblica ci si mostra più fiero del
capitano dei Medici. Ahi! Patria mia! »
Divampante d'ira, il Ferruccio si spicca dalla folla dei circostanti
che aspettano i suoi ordini e si precipita a furia nella Via Nuova,
dove scorge ad ora ad ora le fiamme scaturire fuori dai fessi, ed
ogni volta più ampie circondare le pareti; - urta chiunque
gli si para davanti: - un soldato carico di preda afferra pel collo,
e caccia uomo e cose a rotolare lontano da sè sopra il
selciato; - ad altro, non lo potendo arrivare, avventa la picca tra
le gambe, e quegli pure stramazzando percuote della faccia la terra:
- feriva, mordeva; tanto fece in somma che giunse a penetrare
là dove brulicavano più spessi i rapaci.
«Ah! ladroni, non soldati! Voi mi rapite la bella fama! Io non
potrò domani mostrare più il volto! Davanti i
traditori voi mi farete arrossire! Per Dio! spegnete il fuoco,
lasciate il sacco, o vi mando al capestro, per la fede di
Cristo!»
La sua voce era fioca, l'armatura coperta di polvere e sordidata di
sangue, la faccia parimenti brutta di sangue e di polvere
d'archibugio, sicchè i soldati non lo ravvisando gridavano:
«Morte al ribelle! - Dategli su la testa! - Un palmo di lama
traverso il ventre per elemosina della predica! - Chi è
costui? - Chi sei tu?»
«Chi sono io?» tuonò con voce minacciosa balzando
sopra una pietra che si trovò vicina; e con ambe le mani
traendosi verso le orecchie le chiome lunghe intrise di sangue,
mostrò il volto terribile di furore e di grandezza:
«chi sono io? sono il Ferruccio...»
Ai più protervi mancò il coraggio, e non sostennero
quella vista; un profondo silenzio successe.
Ma riprendendo lingua uno più petulante degli altri:
«Capitano», soggiunse, «io vengo di Lombardia e
combatto per la paga; voi nè ci date il soldo nè ci
consentite il saccheggio: a quali guerre ci menate voi?»
«Questa è guerra domestica; non dobbiamo sterminare
nemici, sibbene ridurre al buon cammino uomini traviati che ci
furono e che ci saranno fratelli...»
«Fratelli! Si fanno ai fratelli le accoglienze col ferro e co'
sassi? Credeva che voi steste d'accordo come il diavolo e la
croce.»
«Taci, mercenario! Tu non puoi sentire in qual modo sei figlio
di una patria comune. Io ti ho comprato, ubbidiscimi: e
poichè voi tutti alla fama anteponete il guadagno, cessate
dal sacco, spegniamo l'incendio, e vi prometto due paghe.»
Spensero il fuoco, si rimasero dalla rapina, e, tranne quel primo
tumulto, stette incolume ogni cosa. Scrittori volterrani che
esposero in processo di tempo quel caso, intendendo con iniquo
consiglio a lusingare il principato calunniando la Repubblica,
narrarono di orribile saccheggiamento, di ferro e di fuoco e di atti
altri più nefandi. Essi mentono. Il Varchi, storico dabbene,
il quale, comechè dettasse le sue storie per espresso comando
di Cosimo I, osò dire la verità, dichiara al libro
undecimo: «Ai Volterrani fu salvata la vita e la roba, alle
donne l'onore; il che veggendo i soldati, cominciarono a dolersi
pubblicamente di lui... perchè il Ferruccio, parlando loro
coll'aiuto dei capitani, fermò il tumulto e promise loro due
paghe.»
Il giorno seguente, spuntata appena fu l'alba, mise il Ferruccio
tutta la milizia in ordinanza per espugnare quanto rimaneva della
terra, e la confortò ad operare animosamente. I Volterrani,
perduto l'animo, avviliti per le molte morti, la più parte
della terra in potestà del nemico, gl'istigatori già
in salvo, mossero parole di accordo, alle quali il Ferruccio rispose
si rimettessero in lui liberamente: e poichè i cittadini,
avendo avuto avviso che Fabrizio Maramaldo era in via per soccorrere
Volterra, cercavano con subdolo consiglio dilazionare la
conclusione, Ferruccio impone si risolvessero tra un quarto d'ora,
altrimenti riprenderebbe la battaglia: e' fu mestieri accomodarsi a
quei patti: i soldati, con le insegne basse e ravvolte su l'aste,
erano rimandati, - tutti gli altri trattenuti prigioni.
Giovambattista Borghesi, capitano per la parte del papa, innanzi
della partita domandò in grazia rivedere il suo fratello
morto la sera precedente al bastione di Santo Agostino; glielo
contese il Ferruccio acerbissimamente dicendo: «Cotesto tuo
affetto perchè? chi non ama la patria non può amare
persona; e in quanto al morto, fortuna sua morire così, che
ai felloni della propria terra aspetta il capestro.» Indi
appresso, Bartolo Tedaldi e Nicolò dei Nobili restituisce nel
palazzo del capitano: egli ferma la sua stanza in quello dei Priori,
che privi di ufficio rimanda a casa; - poi, ragunati i principali,
favellò loro agre parole; alle quali umilmente risposero
rammentasse che un cittadino di cotesta città, perchè
ebbe nome Clemente e ingegno pari al nome, fu accolto da Dio nella
gloria dello empireo, e gli uomini lo adorarono sopra gli altari. -
E Ferruccio di rimando soggiunse che se v'era un santo chiamato
Clemente, eravene un altro da tutti i popoli e da loro medesimi
Volterrani adorato; e che a lui garbava meglio di san Clemente e si
diceva san Giusto; che in lui non istava facoltà di far
grazia: - quando pur fosse, non l'avrebbe fatta. Dicono gli
adulatori dei principi essere la grazia il migliore giojello della
corona: la quale sentenza forse deve intendersi che tra le cose
pessime di cui si fregiano costoro sia per avventura la meno trista;
imperciocchè la grazia comprenda in sè ingiustizia,
offesa per quelli che ne rimangono esclusi, oltraggio alla legge,
turbamento agli ordini sociali: con tutto questo non volere
però egli adoperare rigore estremo; - se così
intendesse, avrebbe dovuto sovvertire di cima a fondo la
città e tra le macerie piantare un palo con la iscrizione: -
qui fu Volterra! - Rammentarsi la passata lealtà, scusarli da
un canto come traviati; sebbene per altra parte pensando che, appena
veduto l'antico amico afflitto e in pericolo, lo avevano
abbandonato, e rivolto contro il suo fianco il ferro traditore, si
sentiva ribollire il sangue a tanta turpitudine. - Quali beni vi
procacciarono i Medici? Le vostre mura portano tuttavia impresse le
tracce dell'incendio che appiccarono qui dentro; forse vivono ancora
femmine che alla memoria dei Medici si nascondono il volto nelle
mani... Generazione tralignata e codarda, almeno uno dei tuoi padri
volle col ferro vendicare le offese della sua patria; - tu non pur
le perdoni, ma invochi dal cielo catene, come s'invoca la pioggia su
i campi inariditi: tu supplichi un piede che ti calchi il collo...
Oh! io mi vergogno di avere sembianze simili alle vostre. Confessate
dunque il misfatto, e se ne roghi pubblico strumento,
affinchè ne rimanga memoria eterna negli annali delle infamie
di questo popolo.
Piangenti, a voce mesta, confessarono, tranne due, Cornelio
Inghirami e Filippo Landini; se non che il Ferruccio avendo detto
loro con mal piglio: «Voi lo confesserete in ogni modo o qui o
al sacerdote perchè io vi farò impiccare per la
gola», confessarono anch'essi, e ne fu stipulato contratto.
Allora il commessario Tedaldi manifestò ai Volterrani essere
decaduti da tutti i privilegi ed esenzioni, ed impose eleggessero
dodici cittadini co' quali potere convenire intorno ai nuovi
capitoli. Dipoi fu promulgato un bando, che tutti i soldati
albergassero in Volterra, - che nessun cittadino andasse armato,
pena la forca; - che in quel giorno medesimo gli fosse rimessa nota
precisa di tutto il grano, farine e grasce, per farle con le
artiglierie riporre in cittadella; - dalle tre ore di notte in poi
non si suonassero campane; chiunque si era rifuggito di Volterra vi
avesse a tornare sotto pena di confisca; ogni cittadino portasse la
croce bianca, antica insegna del comune di Volterra, altramente
andasse in prigione. - Bandi e pene, comechè incomportabili,
nondimeno sopportate senza querela: ma quando si venne all'imporre
seimila fiorini di gravezza, si udirono gemiti, voci d'ira a mala
pena compresse e querele umilissime. Non increbbe a costoro la
infamia del malefizio e neppure la turpitudine della pena; nulla i
perduti privilegi, la trista condizione della città nulla, -
i soli denari strapparono da quei cuori di pietra un sospiro che
affetti più generosi non avevano saputo suscitare.
Però inutili riuscirono le rimostranze: e perchè
indugiavano a pagare, il Ferruccio, presi alcuni dei maggiorenti, li
cacciò nel fondo della torre di Rocca Vecchia e fece loro
intendere che non ne sarebbero usciti se non gli pagavano la pecunia
richiesta. Non li potendo vincere cotesta minaccia, gli
spaventò col capestro; pagarono quando videro alzare la
forca, tranne solo uno, e fu Bartolomeo Falconcino, uomo abbietto,
nel quale molto più potè l'amore del danaro che la
paura del capestro, e si rimase in torre fino al termine della
guerra.
Grave carico danno, io non lo vo' tacere, a Francesco Ferruccio, di
aver mandato alla forca Buonincontro Incontri ed un altro
Volterrano, e rimesso a Nicolò Gherardi molto maggiore
peccato: ma le sono novelle. Innanzi tratto vuolsi considerare come
i Dieci gli avessero commesso di cavare dai Volterrani ribelli non
solo tanto danaro quanto bastasse alle paghe dei soldati che di
presente con esso lui militavano, ma altresì sopperisse ad
assoldare mille fanti, i quali, uniti co' due mila che Giampagolo di
Renzo da Ceri doveva condurre a Pisa o con gli altri che in pari
numero avrebbe raccolto Andrea Giugni in Empoli, e sotto la sua
condotta sarebbero comparsi da qualche parte alle spalle del nemico
a combattere onorate non meno che utili fazioni. Due fini pertanto
ebbe in mira il Ferruccio: procacciarsi pecunia per assoldare
soldati, e averli bravi e fedeli. Però impiccava l'Incontri,
il quale avendo ricevuto danaro dal Ferruccio per soldare gente,
vista la città sua tôrsi alla ubbidienza della
Repubblica, truffò le paghe, gettandosi dalla parte nemica:
questa colpa meritava, giusta la legge del tempo, la forca, ed era
dovere; il Ferruccio poi, versandosi in pericoli tanto supremi,
dovendo tenere osservanti tante maniere di gente di ogni risma, ed
anco per la sua natura austera, avrebbe fatto errore a rimettere il
castigo. Impiccò l'altro Volterrano perchè colto su
l'atto della fuga, da lui massimamente abborrita, come quella che,
oltre a dare indizio di animo avverso, gli toglieva il modo di
procacciare danari. I ricordi dei tempi testimoniano come il
Ferruccio non potesse apprendere cosa che tanto lo mettesse in
furore quanto questa di sottrarsi con la fuga a partecipare,
mercè poca moneta, alla salute della patria; così vero
che il conte Gherardo da Castagneto soldato devoto alla repubblica,
avendo chiesto licenza di menare seco fuori delle mura Flaminio
Minucci suo cugino, il Ferruccio gliela concesse a ritroso, non
senza molto ammonirlo che badasse a non lasciarselo scappare; e
poichè avvenne appunto come Francesco dubitava, quando il
conte gli si parò dinanzi tutto avvilito, egli, postergato
ogni riguardo alla potenza ed ai meriti del personaggio, tratta la
spada voleva ammazzarlo ad ogni modo; e lo faceva se non lo avesse
ritenuto il signore Amico d'Arsoli ed altri capitani di vaglia, che
con molta fatica lo raumiliarono. Perdonò al Gherardi, mosso
dalle supplicazioni della moglie che con quattro figliuoli gli si
era inginocchiata davanti, e perchè la colpa di tenere
pratica col campo nemico non compariva del tutto chiarita, lo mosse
eziandio la persuasione di Pagolo Corso capitano di valore cui gli
premeva tenere insieme agli altri bene edificato; e finalmente
perchè ne trasse somma notabile di argento pei servizii della
Repubblica.
Però, non bastando le somme raccolte alle paghe dei soldati e
agli altri bisogni della guerra, il commessario cominciò a
porre mano sugli argenti delle chiese, non mica sopra i vasi
necessarii al culto divino, ma sopra statue di santi condotte in
metalli preziosi e sopra arredi per troppa copia superflui. Se
preti, e frati subissassero, non è a dirsi; a pensare che
quei bei santi di argento stavano per ridursi in moneta, e in moneta
destinata non per loro ma pei soldati, erano per dare del capo nel
muro. In Firenze i sacerdoti chiamavano Ferruccio Gedeone, in
Volterra Acabbo o peggio; - egli però non era uomo da
rimanersi; chiamati alquanti di loro, egli si fece trovare seduto
davanti una tavola sopra cui stava aperto il libro degli Evangeli.
«Perchè», levandosi in piedi esclama il
Ferruccio, e la destra tenendo sopra il libro aperto,
«perchè ricusate partecipare alla commune difesa? non
comandarono gli apostoli agli universi cristiani, e non
insegnò san Pietro che, comperati a prezzo di sangue, non
dovessimo diventare servi degli uomini? Guardate, questa è
l'epistola che egli scrisse ai Corintii; vorreste per avventura
smentirla? Di che vi lagnate? Voi mi chiamate empio, perchè
statue d'argento e d'oro rappresentanti immagini di Dio e dei santi
io intendo convertire in moneta in pro della patria? Empio fu chi
prima adoperò la materia a figurare l'Eterno con forma che
perisce! Leggeste voi mai, o sacerdoti, i libri sacri? Udite Isaia:
- Gittarono nel fuoco gl'iddii loro perchè non erano iddii,
anzi opera di mano d'uomini, - pietra e legno, onde gli hanno
distrutti. - Porgetemi ascolto, io vi leggerò un'altra
sentenza del profeta «A cui assomiglierete Dio, e qual
sembianza gli adatterete? Voi non avete conoscimento. Egli siede sul
globo della terra, e gli abitanti di essa al suo cospetto appaiono
locuste; egli stende i cieli come una tela e gli tende come un
padiglione; egli riduce i principi a niente, e fa che i rettori
della terra sieno come una cosa vana, come se non fossero pure stati
piantati, nè pur seminati, o che il ceppo loro non fosse
radicato sopra la terra; solo che soffi contro a loro, si seccano, e
il turbo li porta via come la stoppa.» - A cui dunque lo
agguagliereste voi? Non prendete di Dio maggior cura di quella
ch'egli stesso si prenda: - pensate abbisognare egli della
protezione vostra? Dio padre non isdegnerà sovvenire con le
sue immagini la causa santa che difende col suo spirito dall'alto.
Temete che pel cessare delle immagini d'oro e di argento venga a
mancare la fede di Dio? Forse non illuminerà il sole, non
isplenderanno le stelle, non lo sentirà il cuore dei
generosi, non parlerà di lui tutta la natura? Andate ed
assumete sensi di carità per la patria vostra; - ricordatevi
che a Cristo serviamo meglio con l'esempio che non con le parole, -
e Dio redentore si aperse le vene per salvarci col sangue.»
Piegarono il capo, non ammollirono i cuori, e giù per le
scale si susurrarono agli orecchi essere il Ferruccio ariano,
luterano, ateo e manicheo insieme, perocchè tra tutte le ire
quella dei sacerdoti come la più cieca così è
la più codarda e spietata.
E poi siccome, malgrado le esortazioni, nessuno dava gli oggetti
richiesti, Ferruccio se li prese: e siccome i frati di Sant'andrea
avevano celato i loro e giurato non possederne, ne mandò tre
in carcere, donde non poterono uscire se prima non ebbero pagato
duecento cinquanta fiorini d'oro.
Il commessario pel papa, Taddeo Guiducci, essendo rimasto prigione,
Ferruccio se lo fece comparire davanti, ed è fama che appena
lo vedesse con questi accenti gli favellasse:
«Messer Taddeo, se io non temessi di rincrescere a Dio col
farmi micidiale del mio sangue, vi troncherei in questo punto con la
vita la facoltà di commettere altri misfatti.»
Era Taddeo Guiducci zio materno del Ferruccio; uomo di lieta vita,
pingue del corpo, di guance piene, ridondanti, color pavonazzo,
segnate di una rete di vene chermesi e azzurre, con gli occhi
sfavillanti, le labbra perpetuamente aperte al motteggiare o al
bevere. A quel fiero rabuffo rimase quasi fuor di sè; di
lì a poco riprendendo fiato, si attentò a domandare:
«Francesco mio, dite voi da senno? Non vi rammentate che siete
figliuolo della mia sorella.»
«Io lo rammento pur troppo! Per lei nascendo mi seguita un
peccato contro cui acqua di battesimo non vale; ormai la vita
sarà per me una battaglia tra il voto della mia anima e il
tristo germe che mi contamina il sangue; per voi io mi trovo in
istato di affaticarmi non per conquisto di onore, ma per fuggir
vituperio.
«Figliuolo mio», riprese amorevolmente il Guiducci,
«te fino da fanciullo sconvolsero sempre queste parole prive
di senso. Or odimi bene: o il principato prevale, o la Repubblica;
se il principato, primi ad oltraggiarti saranno coloro nei quali
massimamente confidi; - se la Repubblica, il popolo mal vedemmo
sopportare sempre il benefizio: ti pagherà coll'esiglio, e
Dio voglia che non adoperi il capestro.»
«Voi non intendete la fama ch'io desidero; - nella gratitudine
altrui non confido nè devo confidarvi, imperciocchè
operando il bene compiaccio a me stesso. L'assentimento della mia
coscienza propongo alla lode di mille generazioni: sommo de' miei
voti egli è questo, che, la sventura cogliendomi, io possa
levare al cielo la faccia e domandare animoso: - Perchè mi
opprimi?»
«Sconsigliato! Dà retta a me. Ormai la fortuna
abbandona la Repubblica, - unisciti ai più forti e
comanda...»
«Via dalla mia presenza; - le vostre parole non hanno
facoltà di vincermi, e tuttavolta mi turbano, come i vapori
della terra che non offendono, eppure velano la faccia del sole. -
Soldati, custoditelo con diligenza; - quest'uomo che in altri tempi
dove ci fosse offerto schiavo noi rifiuteremmo, vuolsi serbare caro
adesso, perchè lo potremmo cambiare con qualche nostro
fratello di arme rimasto in mano al nemico.»
«Francesco! e il sangue?»
«La infamia, come la morte, scioglie ogni vincolo; in voi
ravviso un traditore, non un congiunto... vi risparmio la vita, e
forse faccio male... Levatemivi dinanzi... traetelo fuori della
presenza del vostro capitano.»
Fabrizio Maramaldo napoletano ebbe indole codarda e feroce; cupido
di rinomanza quanto meno si sentiva a conseguirla capace; invidioso
e superbo: costui militava nell'esercito imperiale e, fortuna fosse
o favore, pervenne a tenere gradi supremi. Quando gli giunse la
nuova della espugnazione di Volterra, trovandosi su quel di Siena,
si vantò che gli sarebbe bastata la vista per menarsi dietro
legato il venditore dei panni, chè tale ei chiamava il
Ferruccio; lo avrebbero riveduto tra giorni; e mosse le compagnie,
si portò sotto Volterra, dove con tutte le sue genti si pose
alla porta di San Giusto. Appena fermato, manda un trombetto al
Ferruccio intimandogli la resa, salve le vite: al tempo stesso con
ispregio così del diritto delle genti come del Ferruccio gli
confidava parecchie lettere dei fuorusciti scritte ai loro consorti,
onde s'ingegnassero di levare a rumore Volterra, aiutando con le
mene interne gli assalti di fuori. Venuto costui alla presenza del
capitano della Repubblica malgrado gli avessero fermato addosso le
lettere, non rimessa punto la napolitana burbanza, superbamente
espose la superba ambasciata. Il Ferruccio non gli rispose parola;
bensì presolo per mano lo riconduce verso la porta, e sul
punto di accommiatarlo, presentandolo di alcuni fiorini, gli favella
così:
«A cui ti manda dirai che le città si prendono con le
bombarde, non con le parole; che tra poco noi gli faremo in persona
più ampia risposta; - te poi messaggero avverto che a
soldato, quale sei tu, disconviene portare proposte infami a soldato
quale sono io; e peggio poi ordire tradimenti: per questa volta hai
ricevuta benigna accoglienza e doni; - non ritornare; - quest'altra
tu avresti il capestro: va via.»
E senza por tempo tramezzo, messi in ordinanza alcuni de' suoi,
uscì fuori di Volterra ed appiccò una grossa
scaramuccia con le genti di Fabrizio. Dove i soldati nemici non
fossero stati meno tristi del capitano quel sùbito assalto
dava al Ferruccio vinta la impresa; ma, usi alle guerre, di per loro
stessi si rannodarono, strinsero le ordinanze, e conoscendo
pericoloso il luogo dove gli aveva spinti Fabrizio, a canto la porta
di San Giusto, si ritirarono nel borgo, dove parve bene al Ferruccio
di lasciarli stare. Ora, nel mentre ei tornava baldanzoso in
Volterra, ecco farglisi innanzi il trombetto da lui testè
dimesso, col duplicato delle lettere addosso dei fuorusciti ai
consorti loro, e di più un bando che promettea grossissima
taglia a chiunque ammazzasse il Ferruccio: ancora recava la seconda
intimazione al commessario di rendergli la città; insane cose
e incredibili, se le non fossero, vere.
«Impiccatelo!» appena lo ebbe scorto, grida con voce
concitata il Ferruccio.
«Signor capitano, rammentatevi che io sono un trombetto; -
l'ambasciatore non porta pena.»
«Mia non è la colpa: ti aveva pure avvertito; - ricada
il tuo sangue sul capo del Maramaldo. - Impiccatelo!»
Non valsero scongiuri, non lo mossero i volti dei circostanti
nè la gioventù del messaggero, nè lo spesso
invocare ch'ei faceva i parenti e la madre; stette inesorabile, e fu
impiccato.
Gli storici del tempo biasimano cotesta azione del Ferruccio, e
Benedetto Varchi, comunque espositore pacato delle cose di cotesta
guerra, e delle virtù di quel capitano innamorato, non dubita
qualificarlo superba e crudele e forse finalmente cagione della
morte del Ferruccio.
Io per me non dissimulo i brutti fatti; e se tale veramente dovesse
reputarsi questo del capitano della Repubblica, non vorrei
diminuirgli in nulla la reprovazione che merita: se non che reputo
debito del mio ufficio fare presente a cui legge che, per consenso
degli uomini intendenti del mestiero delle armi, hassi a reputare
verace messaggero il trombetto mandato a intimare la resa della
terra, allorchè questa assalita nelle regole si trovi ridotta
in termine da opporre poca resistenza o nessuna; mentre per lo
contrario, s'ei si presenti prima ancora che sia stata battuta, si
considera provocatore, come quello che propone atto vituperosissimo,
o spia: inoltre bisogna avvertire altro essere l'animo di quale
disamina i casi umani per raccontarli, altro quello di colui che gli
sopporta e gli vendica; e meglio ancora, - ardua impresa essersi
tirata sopra le spalle il Ferruccio, quella cioè di salvare
la patria pericolante con tale uno esercito al quale mancava ogni
senso di moralità, ogni disciplina preordinata al vincere:
effetti che possono in tempi quieti conseguirsi con l'ammaestramento
e con gli esempi buoni; ma quando il tempo manca, nissuna cosa
può meglio provvedervi come la manifestazione di
volontà inesorata. Però prima di giudicare il nostro
eroe, si ponga mente alla condizione di lui, e poi secondo la
coscienza consideri ognuno se merita conferma la rampogna antica, o
se piuttosto debba oggi assolversi pienamente. La quale opinione,
degna di benigno riguardo a cose ordinarie, non cade più
adesso che si ha come il trombetto recasse eccitamenti a ribellare
la terra e ad uccidere il commissario; nel qual caso, se il
Ferruccio non lo impiccò di prima côlta, hassi a
reputare piuttosto trascurato che magnanimo. Per ultimo non
rimarrò dallo addurre un'altra ragione, la quale
comechè mi paia la meno degna dello riferire, avvegnadio la
colpa altrui non valga ad escusare la propria, tuttavolta in guerra
si mena buona anche oggidì e si chiama rappresaglia: e questa
fu che il Maramaldo aveva impiccato barbaramente il giorno innanzi
alcuni uomini del Ferruccio che gli erano capitati nelle mani. Che
se il Varchi avesse conosciuto questi fatti come sono chiari a noi,
si sarebbe risparmiato di appuntare il preclaro uomo che a ragione
salutiamo l'ultimo degl'italiani.
Fabrizio Maramaldo, inasprito per quel primo scontro e lo
attribuendo a mille altre cause meno che alla vera, la imperizia
propria, immaginò, e gli pareva un bel trovato, di condurre
una fossa a onde fino sotto le mura di Volterra per praticarvi una
cava. Invano gli dimostrarono i più savi sarebbe riuscita
cotesta opera disagevole e inutile; disagevole, a cagione della
natura del terreno pietroso; inutile, perchè immediatamente
conosciuta dai nemici, i quali stando in parte assai alta,
avrebbero, per così dire, annoverato i loro passi. Non gli
ascoltava; volle ad ogni costo imprendere la cava. Il capitano
fiorentino fingeva non accorgersi di codeste mene e lasciava fare;
quando tempo gli parve, di notte con diligenza infinita
piantò alquanti pezzi di artiglieria sopra un cavaliere, con
la bocca volta verso lo spazio che correva tra la trincea ed il
campo del nemico: ciò compito, divenuta la notte più
nera, ordinò a Goro da Monte Benichi, soldato di molto
valore, uscisse da Porta Fiorentina con la sua compagnia, e con le
corde degli archibugi coperte, per non essere osservato, si
conducesse alla cava e sturbasse la impresa. Andò il capitano
Goro, e comecchè egli restasse sul primo incontro ferito di
una picca nel petto, combatteva con tanta virtù che il nemico
non seppe resistergli. Qui mentre si levava rumore grande di voci,
di colpi di archibuso e di passi di fuggenti e d'incalzanti,
Ferruccio col corpo steso sul terreno oregliava per sentire se
alcuno si movesse al soccorso.
Maramaldo, udito il trambusto e prevedendo l'evento, si dava della
mano per la fronte e su l'anca, bestemmiava Dio, se la prendeva
contro le stelle, faceva cose insomma da muovere al riso chiunque
gli stava d'intorno; rimesso alquanto da quel primo furore,
ordinò si soccorresse la cava: sapere bene egli quello che
diceva; se non gliela guastavano, doversi rendere Volterra;
andassero, corressero, mostrassero all'imperatore che anche Fabrizio
Maramaldo sa vincere. Nessuno mutava passo, conoscendo di andare a
morte certa ed inutile. Fabrizio di pazza ira avvampava: irrompendo
in parole forsennate, li tacciò di codardi. Allora quei
vecchi soldati risposero: «Colonnello, voi ci spingete a
morire come pecore, e ve lo faremo vedere a vostra vergogna»;
e s'incamminarono verso la cava.
Gli udì Ferruccio ed esultò: non potendo contenere la
interna allegrezza, replicò più volte: «Eccoli!
Eccoli!» Allorchè conobbe essersi tanto inoltrati da
percuoterli in pieno, sorgendo in tutta la maestà della sua
persona, con terribile grido comandò: «Fuoco!»
E i cannoni balenarono; le palle prendendo obliquamente la colonna
dei nemici vi seminarono la strage: ora, mentre, incerti di
consiglio, ignorando da qual lato si partissero le offese, non
sapendo, mancati gli ordini, se dovessero spingersi avanti o
ritirarsi, le artiglierie lanciano di nuovo la morte tra loro,
l'istinto della conservazione prevalse alla disciplina, e laceri,
sanguinosi si ritirarono. Fabrizio Maramaldo chiuso nella sua tenda
non lasciò vedersi da alcuno.
Qui fu che i soldati del Ferruccio, usando meno che temperatamente
della vittoria, uncinarono per la pelle della schiena una gatta
penzoloni fuori le mura della terra: la quale miagolando dileggiava
il Maramaldo. Scrivono alcuni che questo ordinasse il Ferruccio, la
quale cosa mi repugna credere di uomo così severo e feroce:
ad ogni modo, o da lui lo illepido scherno movesse o da lui si
sopportasse, non merita meno biasimo, conciossiachè il
Sassetti, con parole che nè più gravi nè
più acconce si potrieno immaginare intorno a siffatto
proposito, osserva: «le facezie che mordono, lasciano cruda
memoria di loro, e co' nemici più combattendo che burlando si
guadagna.» Di vero i nemici voglionsi sterminare, non
ischernire; ma la plebe matta e la gioventù folle questo o
non sa o non vuol sapere; e tale vidi io che di venticinque anni non
ardiva afferrare una spada per liberare la patria, prendere ad
argomento di scena il Radetzky che vecchio di ottantaquattro e
più anni spingeva il cavallo in battaglia per opprimere
ventiquattro milioni d'Italiani. Non è anche l'ora di
vincere; la vittoria ha da arrivare in compagnia della virtù,
o vogliamo dire ferocia nelle armi; però che pei tempi che
corrono di altra virtù non abbisogni la Italia.
Più fiera tempesta sovrasta al Ferruccio. Il marchese Del
Vasto viveva malcontento nel campo, dove, non che i primi, i secondi
onori gli erano stati negati; agli altri capitani dell'esercito
cesareo era come stecco sugli occhi: per la qual cosa avendo
domandato di andare a combattere pel contado, gli venne più
che volontieri concesso; andò di fatti e insieme con Diego
Sermiento capitano dei Bisogni prese Empoli, meglio delle armi
sovvenendolo il tradimento dell'Orlandini e la viltà del
Giugni; del quale infelicissimo caso favelleremo altrove con
larghezza maggiore.
Venuto il marchese a Volterra, per essersi poco diligentemente
accampato di prima giunta presso la Porta Fiorentina, fu subito
dall'infaticabile Ferruccio assalito, - ma, accorso al trambusto,
spinse il grosso dell'esercito contro ai pochi compagni del nostro
capitano e così celere gli si avventò alle spalle, per
mozzargli la strada, che se egli era meno veloce a ritirarsi, non ne
usciva in quel giorno a salvamento; ond'è, che seco stesso
considerando allora quanto lo superasse il nemico di numero,
deliberò di non avventurarsi in troppo fortunose imprese,
attendendo a condurre ripari di ogni maniera, siccome sono ritirate,
fossi larghi e cupi, nel fondo dei quali aveva fatto mettere tavole,
con certi aguti da recare certissima morte a chiunque vi fosse
precipitato sopra: tutto il suo sforzo consisteva nel ben munire la
parte delle mura verso San Giusto, sì perchè gli
pareva dal piantarvi che vi aveva fatto i suoi cannoni il marchese
volesse batterla da questo lato, sì perchè, essendo
quivi copia di terra, riesciva agevole al nemico di alzare le
difese.
Malgrado la previdenza di lui, l'astuto marchese muta nel corso
della notte, le batterie; da San Giusto le trasporta a San Lino,
provvede alle difese con sacca piene di terra, stipe e argomenti
altri siffatti. Ferruccio si confuse un momento; poi, non disperando
riparare alla trascuranza, moto raddoppia e vigore, - ordina si
carreggino i cannoni alla parte minacciata, l'opera aggiunge al
comando: apparecchiano monti di picche e di accette; ogni altra
difesa presto è condotta a quella parte, - egli in piedi
accanto al gonfalone aspetta l'assalto.
Cominciarono a briccolare le palle nemiche su l'aprire del giorno 13
giugno, rade da prima, poco dopo turbinose, e spesse a modo di
tempesta; il muro debole s'introna, la torre della porta a
Sant'Agnolo si sfascia, in poco d'ora quaranta braccia di muro
rovinano; al trambusto che fecero cadendo mancò il cuore ai
soldati, i cittadini pensando alla barbara avarizia degl'imperiali
agghiacciarono di spavento. Ferruccio tra il fumo e la polvere
comandava imperturbato; - ora tutto chiuso nel fumo si udiva
soltanto tuonare la sua voce, simile a Dio quando dettò la
sua legge sul Sinai; ora compariva parte del suo corpo, il capo o
una mano agitantesi e il rimanente avviluppato dentro a nebbia
misteriosa, quasi soprannaturale creazione che si affaccia alla
mente nei sogni di terrore. Ferve la mischia; in difetto di terra, a
ciò confortandoli gli stessi cittadini, sia che l'amore
antico o piuttosto, com'è da credere, la nuova paura gli
animasse, adoprano per riparo balle, sacca piene di lana, forzieri,
casse, masserizie di tutte specie dai Volterrani sgombrate nel
monastero di San Lino, molto adoperandosi in questa faccenda il
capitano Morgante da Castiglione. Le palle urtando in quelle fragili
difese le dirompevano con alto fracasso, - i frantumi schizzavano
lontano, causa anch'essi di dolorose ferite.
Ora il marchese, imbaldanzito per lo avventuroso successo, spinge
francamente i suoi soldati all'assalto: e per meglio tutelarli,
mentre si accostano alla breccia, raddoppia il fuoco delle batterie;
la morte passeggia nel trionfo della distruzione.
«Fermi!» urla il Ferruccio, - e il frastuono e l'anelito
non gli concedono formare altre voci: «fermi! viva la
Repubblica!»
E nell'estro della battaglia faceva mulinello della picca; una palla
gli porta via la picca, una schiappa nel tempo medesimo lo priva del
cimiero; i suoi gli cadevano attorno come pomi maturi da un albero
scosso fortemente nel fusto.
«Goro!» diss'egli voltandosi al capitano Goro da Monte
Benichi, «dammi la tua picca, e tu va per un'altra,
perchè io non mi posso muovere.»
Una archibusata fracassa la gamba al povero Goro, che stramazza per
terra e cadendo risponde:
«Messere Francesco..., anch'io non posso muovermi...; mi hanno
portato via le gambe.»
Il Ferruccio si sentì bagnare il volto, - se lo
asciugò pensando fosse sudore, - ma erano lacrime suo
malgrado sgorgate, perchè sebbene avesse altre volte voluto
impiccare questo capitano a Empoli a cagione del pronto stendere le
mani su la roba altrui, ciò non guastava punto l'affetto che
gli portava pel forte menare delle mani contro i nemici della
Repubblica; ond'è che, piegato il capo dalla parte opposta,
soggiunse:
«Signor Camillo, porgetemi la vostra...»
Colpito a mezzo del corpo da una palla di cannone, Camillo da
Appiano, signore di Piombino, trae un doloroso guaito scontorcendosi
negli ultimi moti vitali.
«Muoio! oh muoio!» lamentava; «almeno avessi un
po' di confessore... perchè l'anima di un cristiano è
troppo pesa per volare al cielo, se un confessore non la liberi
dalla gravezza del peccato... Signor commessario, assolvetemi voi...
Le mie colpe sono poche... nella espugnazione delle terre... quando
la vittoria ubbriaca il soldato... intendete!... e poi la repuguanza
irrita... e le più volte era ingiusta... perchè...
L'altra è che tutto l'oro che mi trovo sopra l'armatura non
lo aveva mica comperato dagli orafi di Ponte Vecchio... e...
e...»
Un getto di sangue che si scoppiò dalla bocca gli ruppe ad un
tratto la parola e la vita.
Gli assalitori si arrampicano sopra le rovine del muro, altri
appoggiano le scale; le artiglierie proteggono l'assalto; nessuna
palla passa senza recare offesa; d'intorno al Ferruccio, o di urto o
di ferita, ad ogni istante casca gente; qualcheduno si rialzava,
più molti rimanevano in terra prostesi, - era un tentare la
provvidenza la più lunga dimora in cotesto luogo. Iacopo
Bichi, il quale fino a quel punto non si discostava mai dal
Ferruccio, adesso gli grida:
«Commessario, sgombrate di qui... il nemico ha voltato da
questa parte tutte le sue artiglierie... non è il vostro
posto...»
«Non è il mio? - Non vedo altro pericolo maggiore...
Lasciatemi stare.»
«Messere Francesco, scansatevi per Dio!» urla da
un'altra parte Vico, «voi siete ferito nel ginocchio...»
«Non me ne sono accorto; - sta cheto, figliuol mio.»
«Venite, o vi faccio portar via dai cavalleggeri di messere
Iacopo.»
«Guardati dal farlo, figlio mio, ch'io ti passerei da una
parte all'altra con questa picca...»
«Ah! lo sapeva... Per la testa di san Giovanni
Battista!» mormorò tra' denti Iacopo Bichi nel vedere
rotolarsi nella polvere Francesco Ferruccio, che, percosso nel
ginocchio opposto della gamba prima ferita, non aveva saputo
più reggersi in piedi.
«È morto! è morto!» battendo palma a
palma, prese ad esclamare Vico Machiavelli.
«Silenzio!» lo rampogna severo il capitano Morgante da
Castiglione, uomo di vaste membra e di cuore anco più vasto.
- «La patria preme assai più del Ferruccio; è
morto da prode uomo di guerra: lo piangeremo poi; adesso bisogna
celare la sua morte, altrimenti ne seguirebbe sconforto e perdita di
tutta la impresa; io gli porrò il mio elmo e l'assisa; mi
vestirò la sua; voi trasportatelo fuori di qui... trattenete
le lacrime... a quanti ve ne domandano rispondete... è il
capitano Morgante ferito.»
In quel viluppo di uomini, nella orribile confusione che sconvolgeva
ogni cosa d'intorno, riuscì agevole condurre a fine il
proponimento del Morgante; nessuno ebbe tempo di accorgersi della
mancanza del capitano; e in quanto al menare le mani, molto bene ne
teneva le veci il valente capitano Morgante da Castiglione.
Colla visiera calata, il corpo coperto di un panno, Vico in
compagnia di due soldati portava il Ferruccio: egli ed un altro
sottentrandogli con le spalle alle ascelle, ricingendolo con le
braccia traverso la vita, lo sostenevano dalla parte del capo; il
terzo postosi tra le gambe e recatelesi su gli omeri, lo teneva
sollevato dalla parte dei piedi. Vico preme la immensa angoscia e
morde un lembo del panno che cuopre il Ferruccio per paura di non si
tradire con una esclamazione.
Lo menò nel suo quartiere; licenziò gli uomini, chiuse
con diligenza le porte: e non badando ad Annalena, che pure gli
corre dietro smaniosa e lo chiama co' più dolci nomi nella
più soave favella che mai avesse tocco orecchio d'amante,
libera il giacente dell'elmo, e scoperto che gli ebbe la faccia,
incominciò a lamentare:
«O messer Francesco, perchè ci avete abbandonato? Che
farò io senza guida su questa terra? Che farà la
patria senza il vostro consiglio? Io non vi darò sepoltura
finchè ella non sia caduta; - voi dovete entrare insieme nel
medesimo sepolcro. Oh! come queste labbra, che pur dianzi
sostenevano con la voce la battaglia, taciono adesso! Come questi
occhi pieni di vita non vedono, non dicono più nulla! Messere
Francesco, non ci abbandonate... non ci abbandonate per amore di
Dio!»
A Lena, quando contemplò il volto del giacente, stette per
mancare sotto il terreno; non pertanto, meno sopraffatta dalla
passione di Vico, conobbe il capitano dai colori della faccia non
trapassato, bensì dallo spasimo delle ferite tolto fuori di
sè. Con virile animo ella gli spogliò l'usbergo e le
gambiere; vide una contusione sotto le coste spurie, dal lato
destro; esaminò le piaghe delle gambe, - non le parvero
pericolose, - e già si accomodava a medicarle,
allorchè il Ferruccio, sciolto un grande sospiro, con
maraviglia e terrore di Vico, il quale si era lasciato in
balìa del proprio affanno, prese a parlare:
«Cavalleggieri, a me! - stringetevi, - incrociate le
picche...Schiavi, all'inferno! E tu, marchese, a tua posta schiavo,
sappi che una spada nella mano dell'uomo libero taglia per
sette!» E quindi si leva a sedere, volge attorno gli sguardi
attoniti e grida:
«Dov'è la battaglia? Dove mi avete portato? Vico, sei
tu? È distrutto il nemico?
«O commessario! ai muri si combatte asprissima zuffa; noi vi
abbiamo tolto dal terreno per morto.
«Perchè mi avete tolto? Perchè non mi avete
lasciato? Improvvidi! e non sapete che anche morto avrei potuto
spaventare il nemico? Forse non è il campo di battaglia il
letto di riposo pel guerriera? Vico, m'invidii la morte sul campo?
Pensi che sosterrei la vita per terminarla tra il pianto dei
congiunti e le preghiere dei sacerdoti? Su!... ridonami l'aria
aperta, mi sento soffocare qua dentro; datemi la picca... menatemi
contro al nemico... Non sopra inglorioso letto, - non tra lenzuola
ha da morire il Ferruccio... sibbene sul campo, - avvolte le membra
dentro il gonfalone della Repubblica.»
E siccome Vico non si moveva, Ferruccio concitato a profondissimo
sdegno riprese:
«Nessuno sosterrà il guerriero ferito! Mi
basterà l'anima... se no, piuttosto che i miei combattano
senza di me, mi spezzerò il capo nelle pareti.»
Balza dal letto; le gambe addolorate e dalla perdita del sangue
infievolite gli negano l'ufficio; egli cade percotendo della faccia
il pavimento. Vico e Lena lo soccorrono e tentano portarlo
nuovamente sul letto. Ferruccio si oppone con minacce e preghiere, -
poi comanda a Vico di sostenerlo tanto che arrivi contro al nemico.
Vico a mani giunte lo supplica a deporne il pensiero.
«Per l'autorità che in me trasferiva morendo il tuo
genitore, t'impongo di aiutarmi per tornare alla muraglia.»
Vico esitava pur sempre.
«Rompi gl'indugi, - o io ti maledico.»
Vico lo sorregge - invano. - Ferruccio non può mutare due
passi; ambedue si fermano sconfortati; all'improvviso Ferruccio
grida:
«Pommi su questa sedia; chiama gente che ti dieno mano e
portami così su la breccia.»
La gente venne. Lena si affaccendava a fasciargli le piaghe, ma il
capitano impazientito la respinge da sè:
«Non importa... vi rimane sangue che basta a salvare la
patria... Sentite!... sentite! - Viva l'imperatore! - Ah! il nemico
ha messo piede su i muri... presto... affrettatevi....volate... Viva
la Repubblica di Fiorenza! Morte all'impero! morte al papa!»
Il fiero capitano cacciò quel grido con tutte le viscere,
sicchè il suono tonante della sua voce superò lo
strepito delle armi e il fragore delle artiglierie. Tempestando e
minacciando ottenne lo riponessero sulla breccia dirimpetto le
artiglierie nemiche, a canto il gonfalone della Repubblica quivi il
terreno appariva solcato dalle palle; i più animosi si
allontanavano dal luogo reso terribile per cumulo di cadaveri: il
marchese Del Vasto, disegnando spingere la sua milizia a nuovo
assalto da cotesta parte, fa drizzare le scale, spinge i soldati che
si precipitano, salgono e già già afferrano la estrema
parte dell'argine rovinoso.
«Cavalleggeri! Lascerete uccidere qui il vostro commessario
senza difesa? - Viva la Repubblica! - La vittoria è nostra! -
E staccato il gonfalone, con quanto aveva di forza lo agitava
continuando a gridare: «Viva la Repubblica!»
Si riaccese la mischia; l'animo inasprito a nuova ferocia non faceva
sentire la stanchezza delle membra e le ferite; unirono gli sforzi,
ed anche per questa volta gl'imperiali furono ributtati dalla
breccia. Il Ferruccio quando li vide in fondo del fosso, si
risovvenne di certo suo scaltrimento di guerra, che consisteva
nell'avere allestito non poche botti piene di sassi, le quali,
riputando contenere munizioni, non avevano in sua assenza adoperato;
- le rotolano adesso su l'orlo dell'argine e le lasciano sopra ai
nemici; forte percotendo nel fondo del fosso le botti si sfasciano
con impeto immenso; i sassi schizzano violentemente, e quale
offendono nel piede, quale nelle gambe, tal altro nel fianco o nel
volto; pesti, infranti, non sanno come mettersi in salvo: coloro che
rimangono illesi prorompono in fuga precipitosa; nuova rovina di
sassi, una pioggia dolorosa di acqua e di olio bollente si rovescia
sopra gli offesi; oscene morti avvengono in cotesta infame fossa: -
gli urli dei dannati possono appena uguagliare, non vincere, i guai
che escono quinci entro a funestare le orecchie degli amici ed anche
dei nemici; - membra troncate galleggianti nel sangue.
Il marchese Del Vasto, ineccitabile quanto il ferro che gli vestiva
il petto, conobbe non dovere più oltre ostinarsi nello
assalto; si guardò di sfiduciare i suoi soldati dalla
speranza del vincere e sonò a raccolta; volle risparmiare il
sangue, non per pietà di loro ma per amore di sè,
imperciocchè quel sangue fosse venduto e gli appartenesse; in
quel sangue stava riposta la sua gloria e la libidine di censo
più largo.
Il giorno 21 di giugno, il marchese ricomincia la batteria da
più parti, a Sant'Andrea e a Sant'Agnolo; con estremo sforzo
si adopera contro; caddero i muri, corsero all'assalto; - pari l'ira
da una parte e dall'altra, il valore pari; - ma o sia che il valore
dei soldati di libera città comprenda virtù vera, e
quello dei mercenarii del principe partecipi piuttosto del furore, o
sia che vicino ad abbandonarle volesse Dio circondare di luce le
armi fiorentine, nei petti degli uomini trovarono gl'imperiali un
muro più insuperabile dell'altro composto di pietre. Si
rinnovarono le morti, i casi miserevoli, le sconce ferite; - di
nuovo i muri grondarono sangue, - il cielo fu bestemmiato o
invocato, - ed ei stette pur sempre azzurro e sereno.
Comecchè l'anima gli ruggisse dentro, e' fu mestieri al
marchese dichiararsi vinto e ritirarsi. Ferruccio gli sorgeva contro
invincibile come la necessità. Partì con vergogna; e
la gloria del superbo guerriero, seppure gloria deve rettamente
chiamarsi il rumor vano che l'uomo acquista combattendo per lo
straniero contro la sua patria, andò a spezzarsi entro le
mura di Volterra. Le parole tra lui e il Maramaldo furono molte e
acerbe: crucciato non volle tornare al campo e si ridusse alla
moglie nel regno; colà trasse nell'ozio e consumò
nella inerzia una vita oscura, - invecchiato strumento di tirannide;
- la sua morte non compiansero figli, - gli circondarono il letto
parenti avidi del suo retaggio, come il demonio della sua anima.
Possa Dio non concedere miglior destino a coloro che feriscono il
fianco della madre che gli ha generati!
NOTE.
(a) Nè molti nè di grande costrutto trovo che fossero
gli argenti e gli arredi sacri cavati dal Ferruccio dalla cattedrale
di Volterra; eccone la nota che si conserva nel Liber omnium rerum
mobilium et immobilium sacristiae Vulterrarum. 1°. Nostra Donna
col Figliuolo in braccio di argento, libbre 5 con base di rame
dorato. - 2.° Tabernacolo grande di argento con piè di
rame dorato con 6 smalti nel nodo: smalti 6 al piede con 6
angiolletti con tutti i loro pinnacoli con crocetta insieme o
crocifisso, di libbre 13. - 3.º Turibolo di argento con sette
guglie nel cerchio grande, e nel secondo cerchio guglie quattro e
mezzo, ad una manca la punta, libbre 7, once 2. - 4.º Un
turibolo di argento con sei guglie nel primo cerchio, che v'è
una spiccata, di peso libbre 3, once 9. - 5.° Una navicella di
argento con due smalti et due serpenti: dentro vi è un
cucchiaio di argento: libbre 2, once 2, mal peso. - 6.º Un paio
di ampolle di argento con arme del Gherardi, di libbre 1, once 4,
- 7.° Una pace con Nostra Donna di argento con dodici
castoni et pietre 8 et perle quattro con arme del Gherardi, di peso
once 8. - 8.° Una cassetta di argento da olio santo, libbre 1,
once 11. Et una lingua di argento con filo di oro, once 2. - 9.°
Una croce di legno coperta di argento con crocifisso di argento,
libbre 2, once 10. - 10.° Una crocetta di argento con crocifisso
e coralli, cinque bottoni, once 8. - 11.° L'argento che cuopriva
uno evangelistario di legno. - 12.° L'argento di uno
epistolario. - 13.º Una corona ad uso di crocifisso con gigli
ottantaquattro, con quattro madreperle per giglio ed uno castone; et
uno smalto senza pietra, libbre 1, once 6. - 14º Una tavola di
legno coperta di argento ad uso dello altare maggiore con quadri
ventuno. - 15.° Un bacinetto di argento coll'arme di Iacopo
Gherardi, di peso libbre 1, once 5. - 16.° Una croce di argento,
libbre 6, once 10. - 17.° Un calice di argento smaltato
con arme del Guelfuccio, libbre 2, once 3. - 18.º Un calice
grande di argento smaltato, libbre 3, once 10. - 19.º Un calice
e patena di argento, libbre 2, once 2. - 20.º Un calice e
patena di argento, smaltato, libbre 2. - 21.º Un calice e
patena di argento all'inghilese smaltato, libbre 2. - 22.° Una
patena. - 23.° Un bottone di argento, libbre 1, once 3. -
24.° Un anello con giglio, un cammeo e quattro pietre, due
rubini e due smaragdi e quattro perle, legato in oro.
Nelle Cronache Volterrane, dettate con evidente stizza in vituperio
del Ferruccio e dei Fiorentini, leggiamo che le milizie ferrucciane
su la prima giunta a Volterra combatterono comechè stanche
non mica per virtù ma per fame, non avendo recato con esso
loro tanto da potersi sdigiunare - ancora che il Ferruccio, fatto
prigioni quattordici Spagnoli, lasciò morirli d'inedia,
dopochè taluno di loro per attutire il tormento della sete
ebbe bevuto la propria orina, - di più, che il Ferruccio
assalito dal marchese Del Vasto e da Fabrizio Maramaldo perse
l'animo e si apprestava a fuggirsi co' cavalli fuori di porta a
Selca, se Morgante da Castiglione non lo incorava persuadendolo a
mostrare buon viso alla fortuna: - finalmente, che il nepote di
Bartolo Tedaldi prendendo in mano la barba della statua di santo
Ottaviano lavorata in argento esclamasse: "Questo vecchio
provvederà;" per la quale cosa si sa di certo che gli si
cangrenassero le mani, e dopo tre giorni miseramente morisse.
Così la racconta il Parelli, op. cit., p. 180; diversa il
Sassetti nella Vita del Ferruccio: Non fu santo Ottaviano (secondo
lui) bensì san Vittore; nè il nepote del Tedaldi lo
percosse, ma gli levò il frontale di argento, e quanto stesse
infermo si tace. Altri altramente: cose vecchie e non pertanto
(stupendo a dirsi!) se non del pari adesso universalmente credute,
del pari almeno date ad intendere. Il principe di Oranges bene altra
preda fece agli altari; imperciocchè, passando per l'Aquila,
ne arraffò la cassa di argento dove stava riposto il corpo di
san Bernardino da Siena, convertendola in suo uso; e di lui gli
scrittori la più parte servi della fortuna tacquero
perchè ei sostenne le parti del papa; e nota che l'Aquila era
città suddita e amica dello imperatore, Volterra ribelle alla
Repubblica; e il principe faceva per sè, il Ferruccio per la
patria: - nella necessità della quale (osserva il Sassetti,
(Vita di Francesco Ferruccio), con lo esempio di Davitte, che ai
soldati diede a mangiare la vittima mancandogli altri argomenti, non
è forse impio costume adoperare le cose destinale al culto
divino.» E diceva meglio se lasciava forse nella penna - Degli
argenti il Ferruccio coniò monete da quattro grossi; con gli
ori, mezzi ducati; ma pochi, perchè a mezzo giugno mancanti i
danari per le paghe, i Côrsi gli si abbottinarono ricusando
combattere.
(b) Tutti i particolari di queste memorabili fazioni di guerra non
si sono potuti riportare senza distendere a soverchia lunghezza il
racconto: di questo però vada persuaso il lettore, che il
Ferruccio, il quale pure aveva veduto le battaglie tra Spagnoli e
Francesi nel regno, scrivendo ai Dieci li chiariva «da tre
anni in qua non essersi vedute maggiori battaglie in Italia.»
Nel giorno 13 giugno tre furono gli assalti: il primo con dodici
compagnie, il secondo con diciotto, il terzo con venticinque,
combatterono dall'alba fino alle 23 ore di sera, e dei nimici
morironvi 400, altrettanti i feriti: ai nostri mancò la
munizione di polvere. Il Ferruccio rimase ferito nel secondo, non
già nel primo assalto: molti dicono di una sola ferita: il
Varchi ne parla in plurale: nella lettera del 6 luglio scritta dai
commissari di Volterra ai Dieci, oltre la percossa ricevuta alla
batteria, si rammenta la cascata da cavallo: e il Diario dello
Incontri riporta del pari di una mala ferita che si fece al
ginocchio, per esserglisi abbattuto sotto il cavallo mentre con gran
impeto si spingeva ad ammazzare un Volterrano che vide starsene
scioperato invece di accorrere ai bastioni: alla quale si aggiunse
la febbre: - e si fe' portare dove si combatteva per essere veduto
dai soldati. Questo secondo assalto incominciò il 21 giugno,
un'ora prima del giorno; dopo 500 cannonate che atterrarono in
più parti le mura riparate con botti, materasse e terra, alle
ore 20 salirono all'assalto: tre volte si spinsero su la breccia, e
tre furono respinti così duramente che dopo quattro ore si
dettero alla fuga lasciando sul campo 800 tra morti e feriti. Quando
l'esercito imperiale si partì con tanta vergogna, i
Ferrucciani gli corsero dietro menando rumore con teglie, padelle e
corni, dicendogli villania. - Fabrizio aveva tratto seco 500 fanti e
5000 cavalli: il marchese 4000 fanti: bagaglioni e marraioli non si
contano.
CAPITOLO VENTESIMOSESTO
IL TRADITORE
Riguardate e vedete
Se v'è dolore pari al dolor mio! -
Geremia.
La mia storia si approssima al fine, - ma per arrivarci meglio egli
è mestieri rifare i passi e tornarcene indietro: non te ne
dolga, o lettore; - vedrai una donna, e forse ne sentirai
meraviglia, ad un punto e compassione, perchè questa donna
sarà una madre addolorata.
La notte in cui fu arrestato Lorenzo Soderini, Cencio Guercione
recò immediatamente la nuova a Malatesta, imperciocchè
Cencio fosse uno di quelli che dovevano intervenire al ritrovo, ad
istanza del Baglione suo signore, il quale, per istarsene appartato,
non voleva meno, a guisa di ragno al sommo della tela, avere in mano
le fila di quanto in Firenze si operasse o dicesse.
Appena ebbe posto fine Cencio al suo parlare, Malatesta, sporgendo
fuori del letto, dove se ne stava giacente la gamba destra ed
agitandola a modo di spronare un cavallo, prese a dire:
«Cencio, andiamocene; sento un'aria di forca che mi stringe la
gola; va', sella i cavalli... mi pare che la terra mi manchi
sotto...»
«Parlate daddovero, messero? Adesso? Sul punto di raccogliere
la mercede delle onorate nostre fatiche?... io rimango.»
«Cencio, i beni senza la vita non valgono nulla.»
«E la vita senza i beni vale anche meno; addio al sangue dei
Baglioni vostri crudeli parenti e nemici; - addio Bevagna, Tunigiana
e le altre terre e castella: rimanga il nipote senza vescovado, -
Ridolfo vostro senza la duchessa di Camerino. - Ah! voi mi fate
pietà.»
«Usciamo da questo inferno, - diamo la porta al Principe e
lasciamolo a sbrogliare le sue faccende con la Signoria...»
«Ma allora chi vi assicura della fede del papa? E poi per
questo estremo noi siamo sempre a tempo. Abbiate pazienza, lasciate
a me la cura d'ingrandirvi un tal poco; altrimenti nessuno
vorrà credere che una nobile repubblica come questa sia stata
condotta in rovina da un goffo come siete voi: la nostra nicchia
è la ribalderia; sta bene, ma almeno occupiamone quanto basta
per farci figura... che cosa direbbe il diavolo di voi?»
«Cencio... ascoltami una volta per sempre... A cui darai vanto
del suono, al citarista o alla cetera? Tu sei in mia mano la cetera
- ricercandoti, ne ricavo ora il basso ora l'acuto; un giorno o
l'altro potrei anche lasciarmiti sfuggire di mano e mandarti a
rompere sul terreno.»
«Novelle! Voi fate l'altero per isprezzarmi, ed io vi domando:
va egli il cieco senza la guida? - Io sono il fidato destriero che
vi mena per balze e per dirupi; voi mi tremate sopra quando muovo
sul ciglione del precipizio e vi raccomandate a tutti i vostri
santi; io procedo sicuro e vi tolgo dai mali passi; - sono l'anima,
la mente del vostro corpo...»
«Se presumi tanto di te, - va' solo, - e vediamo...»
«Solo non posso andare, mi manca stato; la fortuna mi ha posto
in tal condizione che le opere mie mi darebbero fama nella taverna
che frequento o nella contrada in cui nacqui: il diavolo conta tutte
le ribalderie, ma lo storico segna quelle soltanto commesse sotto
l'insegna di un leone, di due pesci o di una corona; insomma anche
le scelleraggini, onde non muoiano presto nella memoria degli
uomini, abbisognano di una marca imperiale, reale o almeno
baronale...»
«Ed in prova che, dove io non fossi, tu saresti un fantastico
senza vergogna, ti osservo che, spaziando sempre nel passato e nel
futuro, tu non ti risovveresti del tempo presente.»
«Ogni uomo venne al mondo col suo patrimonio di ambizione...
perchè non dovrei avere ancora io la mia? Per me, vorrei
acquistarmi un bel tocco di fama o d'infamia, - insomma essere
rammentato, come una eruzione di Vulcano, un terremoto, un diluvio;
e malgrado il mio ingegno e la potenza di fare da me, voi, pur
troppo io sento, mi divorerete la esecrazione dei posteri. Dio mi ha
mandato Malatesta addosso come la ruggine del ferro. Se potessi
rivivere fra tre secoli, leggerei sopra i ricordi dei tempi:
Malatesta il più astuto... Ah! storico, invece di spendere in
inchiostro, comprati elleboro, tu sei pazzo; Malatesta fu il
più innocente, il più semplice uomo del mondo.»
«Ah! mi farai dormire: Cencio, invecchi e sermoneggi. - Va',
muta veste, e studia indagare quali voci corrano per Fiorenza. - Mi
viene un pensiero in mente. Vedi questa carta? - È una
lettera del Papa. Sai a cui è diretta? - A me. - Indovini
dove intendo depositarla? Alla Quarantia. - Ne comprendi la cagione?
- No. - Va', va', mio buon Cencio...; col tempo imparerai a tua
posta; per ora io ti saluto col nome di novizio nell'arte del
tradimento.»
Cencio alzò le spalle e, avviluppatosi entro una cappa
spagnuola, si accinse a partire. Malatesta, lo richiamando addietro,
«Guarda», gli disse, «che sia bene sbarrata per di
dentro la porta, e i Perugini veglino.»
Cencio alzò di nuovo le spalle con tale un atto che avrebbe
potuto significare: io non comprendo nulla.
Malatesta volle avviare a certa meta i suoi pensieri, ma non gli
riusciva; il timore che la porta non fosse ben custodita gli teneva
la mente del tutto ingombra: si levò dal letto con pena, e
aiutandosi appoggiato ad un bastone si strascinò per le
stanze giù per le scale, - toccò le sbarre, le
tentò con quanta forza gli era rimasta nelle mani attrappite,
e, assicurato da questa parte, si diresse al corpo di guardia.
I suoi fedeli Perugini vegliavano, la noia della veglia ingannando
col giuoco e col vino: inosservato egli apparve in mezzo di loro e
alzò la mano per favellare. I soldati cacciarono un urlo, non
di sorpresa, ma di terrore, così che Malatesta se ne
sentì avvilito; un pensiero gli traversò il cervello,
doloroso come ferro rovente: tu sei già più che mezzo
cadavere, - la tua vista mette spavento; cuopriti di cenere e muori.
- Egli non potè proferire parola, stette alquanto con la mano
quasi in atto di lanciare una maledizione, - poi ritornò
silenzioso nelle sue stanze.
Ad ora di notte inoltrata tornò Cencio: - la pioggia cadeva
giù a torrenti; la cappa e le altre vesti di lui erano
imbevute d'acqua; mormorava tra i denti mozze parole. Appena
Malatesta lo vide, incominciò:
«Cencio, che nuove?»
«Mi sono bagnato fino all'ossa», e senz'altro aggiungere
spremeva l'acqua dalla cappa in sembianza di uomo stupido.
«Cencio, dimmi, quali parole ti venne fatto
raccogliere?»
«Il freddo mi ha preso tutto il corpo; tremo come la
cicogna...»
«Vuoi tu ragguagliarmi di quanto hai ascoltalo tra il
popolo?»
«Il popolo, signor Baglioni, all'ora che fa, pensa ad altro
che a novellare; - egli gode ciò che non possiamo ottenere
più noi, - la pace del sonno.»
«Io ti comprendo, Cencio; il dispetto ti rode; tu mi porti
rancore e immagini arrovellarmi col tuo segreto: - tientelo, non so
che farmene, - se l'acqua ti ha concio, peggio per te. Io ho bevuto
intanto del buon vino, e mi riconfortò le viscere; poc'anzi
hai confessato che senza di me non potresti andare; io invece
procedo molto bene senza di te; - va', lasciami
dormire.»
«Or via, udite Malatesta...»
«Non voglio ascoltar nulla. Vassallo, obbedisci al tuo signore
e lascialo in riposo... i rimorsi mi fanno morbido il guanciale, -
il pericolo mi serve di letto: - anima volgare, a te lascio la
veglia con tutte le sue paure di questo mondo e dell'altro.»
«Non ha per ora più bisogno di me!» susurrava
Cencio Guercio; «sconterai la superbia alla prima
occasione.»
Venti giorni dopo il colloquio riferito qui sopra, la campana del
palazzo di giustizia, chiamato volgarmente il Palagio, suonava a
raccolta.
Chiamava la Quarantia al giudizio di sangue: di ciò facevano
fede i leoni coronati, il gonfalone appeso accanto alla porta del
Palagio, i magistrati che si vedevano traversare il cortile e salire
su per la immensa scala vestiti di cappe rosse.
Quando accennammo brevemente la forma del governo di Firenze,
dicemmo come levata agli Otto la facoltà di far sangue, la
concedessero alla Quarantia, ed avvertimmo ancora come dei due
fondamenti i quali costituiscono l'ordinato vivere civile i nostri
padri, periti del primo, cioè del diritto di ogni cittadino a
partecipare la suprema autorità dello stato, ignorassero il
secondo, la sicurezza personale. Nel 1527, sul principio della
rivoluzione, vollero in parte mettervi rimedio e lo fecero
instituendo la Quarantia. Certo non conseguirono lo scopo: i popoli
procedono lenti, che la verità percuote obliqua i loro
sguardi; comunque sia, cercarono per trovare. I delitti, in ispecie
quelli di stato, dovevano notificarsi dagli Otto alla Signoria, la
quale era obbligata estrarre a sorte quaranta uomini dalle borse
degli ottanta, che insieme al gonfaloniero, ad uno dei priori, tre
gonfalonieri delle compagnie, due dei dodici buoni uomini, due dei
dieci, uno dei nove, uno dei capitani di parte guelfa, uno degli
uffiziali di monte, due dei conservatori, uno dei massai di camera,
dentro i quindici giorni dal di della tratta dovevano spedire la
causa. Qual procedura tenessero nel giudicare vedremo in seguito.
Due uomini apparivano sopra la panca degli accusati, - entrambi
stretti di pesanti catene: il primo, disfatto nella sembianza, con i
capelli stesi lungo le guance, come se si fosse tuffato nel fiume,
imperciocchè un sudor freddo emanasse senza mai cessare dal
suo corpo; - le tempie avea cave, - le labbra pendenti e colore di
piombo, - gli occhi bassi circondati da un cerchio nero; tutto
svelava in lui il rimorso aver precorso la pena; - questi era
Lorenzo Soderini: l'altro pochi giorni avanti fu mirabile per adipe
e argomento di motteggio a chiunque lo avesse veduto per via; la
paura gli aveva tolto ad un tratto la pinguedine, le guance gli
cascavano giù dai lati grinzose come la pagliolaia dei bovi;
il vermiglio che un dì le imporporava si era mutato in una
tinta violacea, e il bianco degli occhi gli appariva chiazzato di
macchie gialle solite a precorrere la itterizia; egli non imitava la
immobilità del compagno, - anzi irrequieto agitavasi, gli
occhi rivolgeva del continuo da un lato all'altro pieni di terrore,
e con la bocca facea greppo, col capo ammicava in atto di
domestichezza a quanti entravano nella sala; - e siccome la
più parte passava senza badarlo, e gli altri lo guardavano
biechi, egli per farsi avvertire da' primi tossiva, stropicciava i
piedi, si alzava ritto ritto su la persona, non ometteva industria
per richiamare la costoro attenzione; ed ai secondi si sprofondava
in inchini per modo che col mento quasi veniva a toccare terra.
Anche il delitto può parere sventura quando il reo prossimo
ad essere colpito dalla legge si mantiene composto nella sua
umiliazione e mansueto come quegli che sente essere la pena effetto
di causa con le proprie sue mani fabbricata; quindi mentre l'aspetto
del Soderini gli conciliava favore, rifuggiva ognuno dalla impudenza
fratesca del secondo accusato; - ed infatti egli era Vittorio
Franceschi, nominato fra Rigogolo, minore osservante.
Seduto ognuno al suo luogo, si alza il gonfaloniere Rafaello
Girolami e con voce alquanto tremula incomincia:
«La Quarantia si trova ella di presente composta nel numero
prescritto dalla legge?»
Il notaio, scopertosi il capo, risponde:
«Magnifico messere gonfaloniere, i presenti superano i due
terzi.»
«La Quarantia», soggiunse il gonfaloniere, «vuole
ella decidere la causa in questa mattina?»
Da tutte le parti si levò la voce:
«Vuole.»
Il gonfaloniere torna a sedersi; dopo alquanto di pausa si volge
agli accusati e dice:
«Lorenzo di Tomaso Soderini, lo spettabile magistrato degli
Otto vi accusa di pratiche secrete con i nemici della patria, di
tentativi per sovvertire il reggimento, di voler ricondurre lo stato
sotto gli antichi tiranni... Che cosa potete voi opporre a questa
querela?»
Il Soderini schiuse a fatica la bocca, e dalle fauci gli proruppe un
singulto; - nel tempo stesso sopra i contorni dei labbri gli
comparve una bolla vermiglia, - scoppiò, - e dagli angoli
della bocca gli gocciò una bava sanguinosa: una volta gli
tremarono gli occhi, poi stettero quasi ghiacciati; crollò la
persona e cadde sul pavimento; - non sospiro, - non gemito per lui;
- il fragore delle catene fu l'unico suono che si fece sentire sul
traditore caduto.
«Frate Vittorio», continua il gonfaloniere, «voi
siete querelato del medesimo delitto: - che avete ad opporre per la
vostra difesa?»
«Domine, in adiutorium, io vi dirò, magnifico messere
Rafaello, la verità tale quale ella sta; perocchè,
vedete, io sia semplice come un fanciullo pur mo' nato: il
gentiluomo che voi testè interrogaste, certo giorno su l'ora
di vespro, mi fece chiamare in sagrestia, dove io, credendo volesse
accostarsi al tribunale della penitenza, lo segnai e gli dissi: Dite
su; - ma egli mi rispose: Non occorre per oggi, frate Vittorio; io
vengo da parte di Sua Santità a proporvi e, in quanto
bisogna, ordinarvi di porgermi aiuto per ristabilire la sua famiglia
in Fiorenza...»
«Perchè non veniste a denunziare il fatto alla
Signoria?»
«Onorando messere, voi sapete da noi altri frati richiedersi
tre voti soltanto, di obbedienza, di castità e di
povertà; - se esigessero da noi anche quello della scienza, i
monasteri sarebbero vuoti, come le aie...»
«Oh! no», interruppe una voce, «voi altri frati
giurereste anche questo voto, nè lo adempireste meglio degli
altri.»
«Ah! ah! come vi piace, padroni miei spettabilissimi; e
infatti ogni giorno una pioggia di motteggi si rovescia sopra le
nostre povere spalle, e non rifiniscono mai dal proverbiarci sopra
la nostra testa rasa e il piè di legno: poc'anzi entrando qui
dentro ho udito due gentiluomini che mettevano a partito se io mi
avessi più duro il di sotto o il di sopra...»
Siffatta plebea umiliazione di sè, anzichè movere il
riso, concitò lo sdegno degli ascoltanti; per la qual cosa il
gonfaloniere lo avvertiva restringersi nella difesa: - ma il
Carduccio, modestamente levandosi, tal dirigeva al Girolami grave
consiglio:
«Messere, sacra cosa è la difesa dei querelati: se il
frate parla scempie parole, nostro danno; noi non lo ascoltiamo per
diletto sibbene per dovere; lasciamogli il conforto di dedurre
difese inutili, dacchè non gli è dato promuoverne
delle concludenti.»
«Dunque», seguita il frate, «io credei che mi
burlasse, e con mal viso gli voltai le spalle garrendolo di venire
ad uccellare i religiosi nei loro sacrosanti asili, massime nell'ora
di vespro, in che facciamo la siesta.»
«Perchè avete tentato, dopo l'arresto del Soderini,
trafugarvi dalla città sotto spoglie mentite?»
«Eh! ma la giustizia del bargello ha l'ale alle mani per
prendere, e per lasciare soffre di gotta. Quando l'uom cade tra
cotesti roncigli, avviene di noi come della pecora che capita nel
pruneto; quando le va bene, qualche fiocco di lana vi lascia: onde
io che aveva sentito raccontare in qual modo certo villano a cui
apponeva avere imbolato il campanile della pieve se ne andasse a
casa e dicesse alla donna sua: Mogliema, ti avaccia a far fagotto
delle masserizie e andiamcene con Dio, imperciocchè mi
accusino di avere rubato il campanile. - Statti, gaglioffo, che io
di qui ne vedo la croce e ne sento le campane che sonano a gloria,
gli rispose la donna; - ma il villano insisteva: Partiamo tuttavia,
che al bargello per udire e vedere le campane e il campanile un anno
potrebbe sembrare poco, e in questo tempo meglio giova essere pollo
d'aia che pollo di stia. - Per le quali ragioni e cagioni deliberai
mettermi in salvo, e ch'io non argomentassi poi male lo vedete col
fatto: se mi riusciva sgombrare, non sarei qui con queste smaniglie
addosso.»
Cominciarono gli esami dei testimoni, nessuno a discarico; molti
deponevano come frate Vittorio, convertito il confessionale in
bigoncia, quinci diffondesse parole di veleno contro la Repubblica e
instigazioni al tradimento; altri gli contestarono la proposta da
lui fatta di accompagnarlo a inchiodare i cannoni sul poggio San
Miniato; non mancarono i soldati ch'egli con impudenza pari alla
goffagine s'industriò contaminare per introdurre i nemici nel
convento di San Francesco vestiti a modo di frati; in somma un
cumulo di prove, di riscontri e d'indizii si aggravò sopra il
suo capo da convincere la mente degli uomini meglio esitanti. Per un
pezzo il frate durò a gridare calunnia e vomitare contro i
testimoni atrocissime contumelie; poi all'improvviso gli
mancò l'ardire e si gettò genuflesso sul pavimento
piangendo dirotto e gridando:
«Misericordia! misericordia! vi prenderà ira contro un
cane morto? Vi appoggerete sopra la canna rotta? Abbiate compassione
di un povero folle....»
«Ed io pure sono folle, ma non ho mai morso le mammelle che mi
porsero il latte!» esclamò improvviso Pieruccio, il
quale, introdottosi furtivamente nella sala, se ne stava
accovacciato a mo' di cane sotto le panche tra i piedi dei padri, -
e meglio delle parole erano rampogna il suo aspetto attrito e le sue
piaghe tuttavia sanguinanti. Poi sollevando le braccia in atto
solenne, così favellava ai cittadini adunati: «Voi li
salverete, voi non avrete cuore di condannarli... Sventura a voi!
L'albero che avete piantato non alligna nella terra dei codardi e
dei traditori, - e sì, - e sì che l'albero piantato da
voi, quando non frutta libertà, somministra il legno per
costruire il patibolo!...»
Il gonfaloniere, supponendo offesa la maestà del luogo da
quei detti acerbi, ordinava traessero altrove il Pieruccio; se non
che egli, vietando ai mazzieri di toccarlo, dignitoso e superbo,
sgombrò da per se stesso dalla sala. Dal rumore che si
levò da ogni lato, dall'agitarsi dei capi dei cittadini,
parve quasi turbine trapassato per le piante della foresta.
Intanto Lorenzo Soderini, rinvenuto dal suo sfinimento, occupava di
nuovo il posto di accusato. Raffaello Girolami, con voce che studia
rendere quanto più poteva soave, gli domanda:
«Lorenzo Soderini, avete da opporre discolpa all'accusa che vi
danno gli spettabili signori Otto, di guardia e balia?»
Il Soderini mosse le labbra per parlare, ma non ne uscì
suono; - una mano di ferro gli stringeva la gola.
Allora il Girolami si piegò all'interno domandando,
«Ecci nessuno che prenda le difese di Lorenzo Sederini
accusato di tradimento?»
«Nessuno. - Mandatelo alla forca senz'altre
formalità.»
«Che sensi, che voci sono queste?» riprende il
gonfaloniere; «mi trovo io tra uomini civili, o...»
«Su, dite tra chi?» interruppe Lionardo Bartolini.
«O tra chi mi trovo?» ripiegò in buon tempo il
Girolami avvertito dalla interruzione del Bartolini che stava per
uscirgli di bocca qualche grave parola. «Perchè non
avrebbe messere Lorenzo le sue difese? Finchè la legge non
pronunzia sopra di lui, non può dirsi reo. E alla patria,
meglio che con le ire e l'impeto, si serve coll'adempire ai buoni
ordinamenti di lei.»
Questa proposizione che denotava un grado di civiltà non
consentito dai tempi giunse malgradita tra quelle menti accese;
parve provocazione e rimprovero; gli odii riarsero; ella fu quasi
bitume sopra legna infiammate, - i cuori si chiusero alla
pietà, - la sentenza non pronunziarono ancora, ma ormai la
sorte del Soderino e di fra' Vittorio è decisa.
Il gonfaloniere, cui studio di giustizia moveva e forse anche amore
della casa Soderina, interroga da capo:
«Chi difende Lorenzo Sederini?»
«Nessuno.»
«Affinchè i posteri», continua il Girolami,
«non abbiano a dire che, la ragione postergata allo sdegno, la
nostra magnificentissima Repubblica commise fatto turpe nel presente
giudizio, ecce, deposta un momento la maestà del grado, io
scendo alla difesa del querelato Sederini.»
«Voi non lo farete. Rimanetevi! rimanetevi!» gli
gridavano d'intorno tutti commossi, come mare in tempesta.
«Quando lo statuto non lo vieta», risponde con grande
animo il gonfaloniere, «staremo a vedere chi usurpa qua dentro
maggiore autorità della legge!»
E si pose sotto la panca dell'accusato. Quindi acconci detti
adoperando, chè fama aveva e prestanza di buon parlatore,
orò fervorosamente in difesa del Soderini: disse quanto
più atroce il delitto maggiore richiedersi la prova; essere
contro messere Lorenzo atroce l'accusa, gli indizi incerti,
perchè delle prove non ne concorreva pur una; la fuga
notturna e l'arresto nulla concludere; era forse vietato uscire per
la città ad ora insolita? non doveva presumersi ch'egli
andasse attorno per cose da tacersi a cagion di onestà? Male
condannarlo, se dal silenzio e dal pallore traessero argomento della
colpa: - a cui di noi l'accusa di traditore non terrebbe, non dico
la parola, ma la vita? - Lodò casa Soderina, rammentò
i molti beneficii da lei operati in vantaggio della Repubblica,
onorandissima famiglia la disse e tale da pregiare di sè
qualunque più chiaro stato del mondo; ricordò Piero,
al quale se mancò per avventura il senno, certo non ebbe
difetto di volontà; ma non gli mancò neanche il senno,
sol che si pensi ai tempi difficili, al viluppo dei contrari
interessi, allo sforzo di principi contro ai quali non valeva
potenza, e la fortuna dei quali non poteva prevedersi; che se molti
lo accusano, ciò avviene perchè, come spesso ho udito
dire da messere Iacopo Nardi, dopo il fatto di senno ne sono piene
le fosse; e più di Piero lodò Giovambattista, di cui
volendo tutti gli encomi raccogliere in uno, lo salutava col nome di
maestro di Francesco Ferruccio, áncora validissima della
pubblica salvezza; concludeva finalmente che, quando la coscienza
dei padri fosse convinta di qualche trascorso essersi reso colpevole
il Soderino, procedessero con mite consiglio, con intendimento di
chi corregge per migliorare, non con pena che paia vendetta.
Restituissero un cittadino alla patria, non consegnassero un
cadavere all'avello.
Giunto a questa parte della sua orazione, s'intese strepito di armi
e rumore di passi, come di molte persone che camminano strette tra
loro a modo di soldati, - si apersero fragorose le porte, - e le
lancie spezzate del Malatesta si posero sul limitare.
«Chi è il temerario che ardisce presentarsi così
alla Quarantia?» - domandarono alcuni cittadini; - altri
guardavano sorpresi e ansiosamente attendevano.
«Malatesta Baglioni!» rispose con gran voce Dante da
Castiglione.
Infatti Malatesta comparve tutto dimesso in vista, ma circondato da
spesso stuolo dei suoi più fidati, con Cencio Guercio al
fianco, le sue povere membra gravi di giaco, di gorgerino ed altre
armi da difendere e da offendere.
S'inoltra fino al banco dei principali magistrati, vi depone una
carta dalla quale pendevano vari suggelli, e tenendovi pur sempre la
mano destra sopra, in questa guisa favella:
«Figlio ossequente della Repubblica Fiorentina, a me parrebbe
mancare (e mancherei certo all'obbligo che le professo grandissimo e
di cui non potrò sdebitarmi, quando anche eterna mi durasse
la vita) dove io nel presente caso non cercassi, per quanto è
in me, chiarire la mente vostra, magnifici cittadini, e non mi
adoperassi con ogni mio sforzo a far sì che per voi si dia
insigne esempio al mondo del come in questa terra s'invigilino e si
puniscano i traditori.»
I circostanti maravigliando aspettavano il fine delle parole.
Malatesta, additato il Soderini, continua:
«Costui ardiva in nome del papa propormi il tradimento di
questa diletta patria: qui, voi vedete la commessione mandatagli a
così onorata impresa; io la ritenni nelle mie mani in
testimonio della nequizia dei nostri nemici e della mia
lealtà.»
Il gonfaloniere, udita siffatta proposizione, gesteggiando a mo' di
forsennato, si stacca dal fianco del Soderino. Giunto la mezzo la
sala, gli si volge contro e, alzate le mani in atto d'imprecare,
esclama:
«Sventura a te ed a me, che mi hai fatto dire parole le quali
peseranno contro di me sulla bilancia dell'Eterno nel giorno
finale!»
Si passavano di mano in mano il breve apostolico; pur troppo egli
comprendeva la commessione di un cittadino a tradire la patria, la
preghiera del padre dei fedeli per le spargimento del sangue
cristiano, anzi pure fraterno e innocentissimo; pur troppo la feroce
dimostrazione di calpestare la testa dei suoi concittadini per
qualsivoglia via, comunque snaturata. Il breve portava il suggello
dell'umile apostolo che pesca, del primo vicario di Cristo
redentore!
Lorenzo Soderini fece prova di favellare, ma glie ne tolse il potere
lo sguardo che incontrava del Malatesta: se l'occhio del serpente
affascina per la sua malignità, Malatesta superava in questo
la fiera più trista che mai partorisse natura.
Quando il breve venne nelle mani di Dante da Castiglione, questi,
dopo averlo letto ed esaminato molto attentamente, mosse i labbri a
certo suo garbo che stava a denotare trapassargli adesso per la
mente un pensiero molesto, e poco dopo con occhi bassi
incominciò:
«Posso io domandare al magnifico messer Malatesta la cagione
dell'avere indugiato tanto a partecipare alla Quarantia un simile
fatto?»
E qui sbarrati gli occhi, glieli avventa ardentissimi nel volto.
Malatesta, preso alla sprovvista, non seppe ripararsi meglio che
ostentando superbia.
«E chi siete voi e con quale autorità interrogate il
generalissimo della Repubblica Fiorentina?»
«Io sono uno dei vostri padroni; - io posso, quando se ne
presenti il bisogno, essere uno dei vostri giudici:
rispondete...»
Malatesta, percorsa con obliqui sguardi la sala, si assicurò
prima se i suoi cagnotti tenevano i posti e quindi soggiunse:
«Credete voi, messere Castiglione, ch'io non abbia altro a
fare che a salire in bigoncia e mettere tutto giorno male parole
contro chi sento migliore di me? La Dio mercede, la mia giornata va
piena di bene altre occupazioni. Se io dovessi denunziare tutte le
sollecitazioni che m'indirizzano i cittadini di Fiorenza per tradire
l'obbligo mio, non potrei attendere alle cure della guerra; io mi
contento sprezzarle e mantenermi nel dovere senza troppo gonfiare le
gote, m'intendete? Io non ho mai creduto servire bene il mio paese
spaventandolo ad ogni momento con vani terrori. Le proposte del
Soderini pensai che, movendo da leggerezza, non avessero
séguito, epperò le obliai. Ora che, la fama
m'istruisce i costui divisamenti essere più pericolosi di
quello ch'io dubitava, vengo prontissimo a illuminare la coscienza
dei giudici, mi affretto a destarvi dal sonno che dormite su l'orlo
del precipizio: giunge sempre bene colui che arriva a
tempo...».
«Ma per voi, mi sembra, avremmo potuto dormire, quanto i sette
dormenti, sul margine dell'abisso...»
«Silenzio!» interruppe il gonfaloniere; «magnifici
cittadini, apparecchiatevi ai giuramento ed ai voti.»
Malatesta chiese ed ottenne commiato; il gonfaloniere lo
licenziò adoperando umane parole, levando al cielo la sua
lealtà e l'obbligo che gli avrebbe in ogni tempo la
Repubblica professato grandissimo. E non pertanto vuolsi credere
che, senza gli uomini di arme i quali accompagnavano Malatesta,
primo il gonfaloniere Girolami avrebbe ordinato si sostenesse e
innanzi al Soderino nel capo si condannasse. Concede questa
facoltà alle parole e al volto il cuore riposto in mezzo del
petto e diligentemente coperto sopra di carne e di ossa.
«Che pártene? Meritai io la tua lode?» uscendo di
sala appoggiato sul braccio di Cencio Guercio, gli andava Malatesta
susurrando entro le orecchie.
«Avanti, - avanti», risponde quel terribile Cencio;
«così continuando voi diventerete la disperazione di
Dante.»
«Dante! Com'entra qui Dante?»
«Più che voi non pensate, o dolce signor mio;
imperciocchè, resuscitando, egli non saprebbe in qual parte
del suo Inferno riporvi; sì, voi mi pare le meritiate
tutte...»
«Va', - il demonio dell'acutezza ti possiede.»
«Perchè no? In cielo e in terra tutto mi comparisce
epigramma. Sapete voi che cosa ella sia la vita? Ve lo dirò
ben io: - un epigramma di messere Domeneddio...»
Si allontanavano motteggiando da un luogo dove stava per condannarsi
una famiglia inclita a perdere la fama, un uomo la vita. Soderini,
traditore infelice e pentito, perisce; eglino traditori avventurosi
e indurati si affrettano di mandare a fine il tradimento. La
provvidenza li contempla dall'alto e lascia fare.
Secondo il disposto della legge della Quarantia, primo il
gonfaloniere e dopo lui gli altri magistrati componenti quel
tribunale, succendendosi per ordine di dignità, giurarono
nelle mani dei frati di palazzo di dovere senza passione alcuna e
giusta la coscienza loro giudicare. Dipoi sopra una cartuccia
scrissero la pena che parve loro si meritasse la querela e la
depositarono sopra l'altare; donde poi rimesse tutte le cartucce per
opera dei frati e dentro una borsa raccolte, furono consegnate al
notaio dei Signori, affinchè a norma delle solennità
prescritte dalla legge ne eseguisse la estrazione.
Dalla estrazione resultarono più maniere di pene: a taluno
pareva non dovesse applicarsene alcuna, a tal altro parve qualunque
pena poca a tanto misfatto; da una parte perigliosa indulgenza,
dall'altra efferata immanità, - estremi entrambi biasimevoli
e consigliati da studio di parte. Poichè, non so s'io l'abbia
già detto altrove, e avendolo detto, piacemi e giova
ripeterlo adesso, per l'uomo di stato il delitto comincia quando la
necessità delle pene cessa; i facili in ogni caso al perdono,
specialmente se per motivi privati, si abbiano per traditori.
Le diverse pene dovevano mandarsi a partito; quella vinceva cui
numero maggiore di voti favoriva, ma che però superasse i due
terzi. Lasciarono i magistrati la sala per ridursi nelle stanze
dello squittinio. I rei rimasero soli con i rimorsi e le catene.
Dopo molte ore, la porta della stanza dello squittinio si apre
silenziosa su i cardini, poi si presenta improvviso come lingua di
fuoco, sopra la soglia, un mazziere vestito di rosso con lo spadone
dritto nelle mani; segno di morte.
Si riposero i magistrati nei seggi; i passi e i moti loro non
suscitavano rumore alcuno; pareva una processione di spettri. Al
cenno della mano che il gonfaloniere gli fece, il notaio dei Signori
si alza e con voce tremante legge:
«Invocato il nome di Cristo Redentore, della Repubblica
Fiorentina re. La Quarantia dichiara rei di tradimento contro la
patria Luigi di Tomaso Soderini e frate Vittorio Franceschi, li
condanna nel capo, ordina agli spettabili signori Otto di mandare ad
esecuzione la presente sentenza. Data, ecc.»
Il gonfaloniere, profondamente commosso, si leva sorreggendosi con
ambe le mani ai bracciuoli della sedia e indirizzatosi ai
condannati, favella:
«Uomini colpevoli, la giustizia umana ha dovuto condannarvi;
non perdete tutta speranza, volgetevi alla immagine di questo
Cristo: egli tiene le braccia aperte per accogliervi al suo seno; il
battesimo delle lacrime di penitenza basta ad acquistare il
paradiso...» - Nè potè parlare più oltre,
chè il singulto gli strinse la gola, e cadde a sedere di
nuovo.
I cittadini componenti la Quarantia cominciarono a vuotare la sala,
- alcuni con la ingiuria alla bocca, la minaccia negli occhi
passando dappresso ai condannati inasprivano la sentenza col
sarcasmo; altri, i favorevoli a loro, temendo essersi avventurati
anche troppo, non ardivano sollevarli con parole di conforto;
entrambi opprimeva un peso d'ineffabile angoscia.
Passa il nostro Dante. Egli ha dato il voto di morte, egli
combattè il consiglio di più mite sentenza, e non
pertanto adesso procede col sembiante compunto, la faccia tiene
dimessa, sinistri pensieri lo ingombrano. Lorenzo Soderini, giunto a
tale estremo, cercava con i suoi occhi velati e non rinveniva
persona che lo assicurasse di pietà, - la pietà
refrigerio dell'anima contristata: appena la figura di Dante gli
strisciò traverso le pupille, ebbe quiete quel suo volto
atterrito; - voleva chiamarlo e non ardiva toccarlo, e la lena gli
mancava alla mano; pur senza accorgesene, la sua destra fece un
atto, e la catena risonando aggiunse i lembi del lucco del
Castiglione; questi trasalisce e si volta indietro e con voce
profonda gli domanda:
«Che vuoi?»
«Una bocca che non mi maledica, un cuore che mi aiuti a
morire.»
«Io!» proruppe Dante rifuggendo lontano con atto di
abborrimento; se non che mutato di subito consiglio si accosta con
impeto e, «Perchè?...» interroga, - e poi si
rimane; quindi stringendo quanto poteva nella destra la sua barba
che era tornata a crescergli foltissima, due o tre volte la squassa
con violenza: «No, no», riprende, «la tua misura
è colma e non ha mestieri di rampogna; io non devo aggiungere
altra pena a quella che la legge ti ha dato. La colpa impunita fa
bestemmiare l'Eterno, ma nello spazio che corre tra la condanna e la
esecuzione della pena anche la colpa è sventurata e va
soccorsa: - noi piangeremo insieme.»
Senza altre parole aggiungere gli si posa al fianco per
accompagnarlo alla cappella.
Gli altri passarono; parte di loro notarono Dante, parte no: uno
solo si avvisò favellargli, e fu l'Antinori; egli, ostentando
maraviglia, lo richiede:
«Che fate voi qui al lato di questo traditore, messer
Dante?»
E quel magnanimo senza muovere membro gli risponde:
«Qui sto a confortare un moribondo, perchè non disperi
della salute dell'anima sua, e per seco supplicare Dio,
affinchè egli sia l'ultimo a tradire questa dolcissima
patria.»
Subito dopo si voltò dal lato opposto, come insofferente di
più lunghe domande.
Lorenzo Soderini e fra' Vittorio furono condotti alla cappella.
Il maggior bene che possa farsi ad un frate sta nel non dirne nulla,
ed io farò questo bene a fra' Vittorio, - non parlerò
di lui. Due furono frati, per quanto io sappia, nel mondo sublimi
davvero, e forse tre: - Arnaldo da Brescia e Girolamo Savonarola; e
perchè i popoli le costoro ossa non convertissero un giorno
in reliquie, i re mitrati del Vaticano gli arsero vivi e ne
dispersero le ceneri ai venti; ma coteste ceneri ricaddero per i
campi d'Italia e vi diffusero il germe del martirio e della
libertà: le ceneri e il sangue ottimi fecondatori sono di
libertà, e lo vediamo. Il terzo frate fu Domenico Campanella,
il quale per cacciare via i barbari d'Italia intendeva legarsi co'
Turchi e si sarebbe confederato col diavolo. Stupende menti e
stupendi cuori furono cotesti frati; e noi ci accorgiamo che pur
troppo osservarono il voto di serbarsi casti, imperciocchè
morissero senza posterità!
La cappella è angusta; la luce del giorno impedita da tende
nere non vi penetra dentro; molti ceri accesi sopra l'altare mandano
un chiarore pallido e rendono grave l'aria che vi si respira; due
battuti della compagnia del Tempio noti col nome di Neri, incappati
e incappucciati, stanno genuflessi davanti l'altare recitando le
preghiere dei defunti: ad ogni ora che passi, due nuovi fratelli
della medesima compagnia si succedono in cotesto ufficio lugubre.
Dante da Castiglione sta seduto sopra un lettuccio posto in
disparte, le braccia ha incrociate sul petto e tiene il volto
dimesso. Lorenzo Soderini anch'egli seduto sopra uno sgabello a
piè del lettuccio vi protende abbandonate le braccia, il capo
e parte della vita. Un tremito fitto fitto gl'increspa la pelle e
gli addrizza la più molle calugine del corpo: dalle tempie
livide e cave emana sudore perenne che scendendo giù per le
ciglia si confonde su l'angolo degli occhi con le lacrime e le rende
più amare.
Quali pensieri lo attristano?
Dapprima nessuno: tutto il cervello gli doleva siccome offeso da
forte battitura; tentava inutilmente volgere il pensiero a un punto
fisso; la fonte sembrava inaridita; si affaticava invano a suscitare
la mente percossa da paralisi; - l'anima gli era morta prima del
corpo; e sì che tanto breve ora gli avanzava di vita, a tante
cose doveva meditare e a tante ancora provvedere... Oh Dio! questa
impotenza lo contristava come i sogni sinistri, nei quali ti pare
sentirti il ferro dell'assassino nei fianchi e tu non puoi aiutarti
con la voce nè con la fuga. Ma di un moto convulso gli venne
fatto cambiare positura, ed allora la immaginazione, quasi vento
burrascoso nei campi, prorompendo sommosse un turbine di affetti e
di memorie. Come baleno per notte profonda illuminando largo tratto
di paese rivela allo sguardo pianure e colli e fiumane e alberi e
case, obietti in somma infiniti e infinitamente svariati,
così la immaginazione ricercò, - rischiarò, -
vestì di bellezza i casi più riposti della vita: -
sentì di nuovo il Soderini le gioie dell'infanzia, quando
è dolce voltolarsi su l'erba verde, e punge cura di
aggiungere correndo la farfalla, o desiderio di possedere l'uccello
che canta e il pomo che rosseggia sopra i rami dell'albero:
seguitarono i piaceri dell'adolescenza, - il primo cane
sguinzagliato dietro la fiera, il primo cavallo stretto tra le
ginocchia poderose; - e qui cominciava a mescolarsi una immagine di
vergine ch'egli desiderava ardentemente, e non ne sapeva la causa, -
che lo faceva sospirare, e ne ignorava il perchè; amava il
suo riso pel riso, gli occhi per gli occhi; la fiumana del cuore era
gonfia e non pertanto scorreva entro i suoi argini. Quanto ebbe
diletto in quei giorni slanciare il cavallo di piena carriera lungo
la via che passava davanti alla casa della fanciulla vagheggiata,
circondarsi di un nuvolo di polvere, e traverso quel nuvolo scorrere
come saetta e gittare un bacio a lei, che sporgendo dal balcone
mostrava la guancia pallida pel pericolo del giovanetto! Gli si
presentava alla mente il verde della campagna fresco, rugiadoso come
su l'alba di un bel giorno di primavera o sul crepuscolo di un
giorno di autunno, quando la pioggia lieve è caduta, e poi il
cielo si fece all'improvviso sereno: vedeva l'emisfero colorito del
più bell'azzurro che mai abbia sorriso sul nostro capo, e in
quegli spazi rotare con magnifici giri il falco pellegrino... Oh
felice, felice quel falco! Poi gli tornava alla mente la madre, o
come quando curvata sopra la culla gli sorrideva e, lieve vellicando
il suo corpo tenerello, convertiva in riso anche i pianti di lui
povero infante, o quando, inconsapevole il padre, gli somministrava
danaro per le sue voglie di fanciullo, o allorchè, amorosa
troppo, celava i suoi falli giovanili per non provocare lo sdegno
paterno: - povera madre! non gli aveva mai detto parola che sapesse
di acerbo, - dalla sua bocca non era uscita nessuna rampogna mai, -
non sapeva vietargli nulla; dov'egli si fosse ostinato in cosa che
le tornasse spiacevole, - Tu mi farai piangere! - ella diceva e
nulla più. Oh! come le immagini mutarono nell'agitato suo
spirito! il capo volge da una guancia all'altra, non trova quiete.
All'improvviso pargli vedere per mezzo sentieri ingombri di pantano
e di sterpi avanzarsi penosamente una femmina; ella mostra il
sembiante disfatto, spessi sospiri le prorompono dal seno, i piedi
muove pel fango, le vesti ha sordidate e le membra, e la bufera le
sventola dietro le spalle i capelli bianchi, cade la pioggia a
rovescio; i nuvoli spinti dal vento scorrono pel cielo e rassembrano
i demoni precipitati quando mossero battaglia al trono dell'Eterno.
- Quella è sua madre; i suoi passi tendono ad un ampio campo
recinto di mura; ella percuote sommesso alla porta: un ente senza
forma, e non pertanto terribile, spalanca i cancelli e le domanda
che cosa cerchi a quell'ora. - Piano! ella risponde per l'amore...
è egli sacrilegio rammentare qui Dio! - Silenzio! - Ebbene,
prosegue, per l'amore di Dio, sono una madre che vorrebbe piangere
sopra la sua creatura; ella fu scellerata, ma io la portai nove mesi
nelle mie viscere. - Cercala, riprende la voce; in cotesto spazio di
terra, colà da quella parte il campo maladetto accoglie i
cadaveri dei figliuoli che uccisero i propri parenti. - Non è
qui. - Più in là vi sono i padri che hanno ucciso i
figli, le madri che dispersero i loro portati. - Non è
là. - Più oltre giacciono i fratricidi. - Nemmeno. -
Là in fondo stanno i Giudei che crocifissero Cristo. -
Neppure. - Femmina, o chi cerchi dunque? - Altri... altri. - O
sciagurata! e allora tu cerchi un traditore della patria? - Piano!
io muoio di vergogna..., sì, un traditore. - Io non tengo
ricordo di costoro: corre gran tempo che la corda della forca lo ha
scaraventato fuori del mondo? - Ieri all'ora del crepuscolo. - O
dannati! cominciò la voce a urlare come un tuono, - o
dannati! sapreste voi dire dove giaccia il corpo dell'anima che ieri
cadde tra quelle che si tormentano nell'inferno? - La terra si
commosse quasi la scuotesse il terremoto, e dalle fosse infinite che
coprivano la campagna uscirono urli che dicevano: Lorenzo Soderini,
Lorenzo Soderini! ben venga la madre sua! - scopérchiati,
Soderini, fa accoglienza a tua madre! - E a lui sembrava udire sotto
terra coteste parole di scherno, e con ambedue le mani afferrava la
lapide per non essere scoperchiato; invano però, chè
una forza irresistibile toglieva via la pietra, ed egli compariva
davanti a sua madre ignudo, nero, arsiccio in mezzo di una fossa di
fiamme, sicchè la madre urlava anch'essa: Ahi! povere mie
carni! - e le mani cacciatesi nelle chiome, faceva atto di
precipitarsi nella fornace del figlio. - Il figlio invece la
respingeva, e la sua mano posta sul seno che l'aveva allattato, vi
levava la fiamma e vi lasciava la scottatura, e con feroci accenti
la rampognava: - Ora che hai pubblicata la mia infamia anche a'
morti, va', io maledico il tuo fianco che mi ha portato. - Il
condannato intanto arronciglia con le dita attratte la copertura del
letto, scuote smanioso la testa e geme:
«Povera madre!»
Dante da Castiglione contemplando il nuovo spasimo, volgendo il
pensiero alla femmina angosciata, ripete:
«Povera madre!»
Il Soderino temendo di beffe solleva la faccia; ma viste due lagrime
scorrere giù per la barba del Castiglione, come furente
strinse la destra di lui, la baciò con immensa passione e
proruppe in pianto irrefrenato. Il Castiglione lo conforta e spesso
gli viene ripetendo:
«Sii uomo!»
Frattanto sopraggiungono nuovi battuti per rilevar i fratelli che
hanno consumato l'ora. A Dante viene fatto, senza riporvi mente, di
stendere le dita quasi per contarla. Lorenzo, che si accorge del
moto, domanda affannoso:
«Quanto mi avanza a vivere? - Ditemelo, - sei ore, -
quattr'ore, - due, - una? - Io non voglio morire, non posso morire
così presto. Questa luce mi offende gli occhi, - quest'aria
mi pesa sul petto»; e correndo con impeto apre le tende e le
finestre. «Oh! - egli prosegue, - aria fresca che porti
refrigerio al mio sangue infiammato dalla febbre, domani per me
soffierai invano; addio, patrie valli, addio, fiume patrio, addio,
colline... Sopra uno di quei monti a cielo aperto, fornito lo spazio
di vita che natura concede agli uomini, l'emisfero stellato sul
capo, la cara famiglia d'intorno, sarebbe meno trista, forse
piacevole cosa la morte; ma ahimè! tra i miei occhi moribondi
e il cielo io vedro un ferro tagliente, un uomo che non conosco e
che m'uccide... ah! egli è crudele.» - E qui caccia
fuori un terribile urlo e con ambe le mani si cuopre gli occhi.
Dante accorrendo gli domanda qual cosa l'offendesse.
«Colà, - colà, - ed accennava col dito, - ho
ravvisato la villa della mia famiglia, - la stanza in che nacqui:
chiudete le finestre, - calate per carità le tende, - io non
posso sopportarne la vista.»
Continuava a percorrere la stanza. Il suono monotono dei fratelli
del Tempio gli percuote da prima fastidioso l'orecchio, poco dopo
insoffribile; si ferma davanti al Castiglione e in voce spenta gli
dice:
«Dante, io non sono disposto a morire, e pur conviene ch'io
muoia; mi sento le membra valide, i visceri sani; e tutto questo mi
renderà più dolorosa la morte... Se tu immaginassi
come agiti tremenda la preghiera dei moribondi profferita sopra un
uomo pieno di vita, tu allora sapresti quando sarebbe pietà
imporre silenzio a quei battuti: finchè non tacciano, io non
potrò sollevare il mio spirito al cielo.»
Dante ristrettosi con i due neri da parte gli supplicava:
«Fratelli, vorreste voi andarvene nell'altra camera e
colà pregare sommessi? - La vostra sembianza contrista il
condannato.»
«Fratello», risponde un battuto, «la nostra regola
ci ordina di pregare nella stanza del giustiziato.»
«Sì, sì, ma la vostra regola ha fondamento sopra
la carità, fratello; il divino Maestro lo ha pure insegnato:
la parola uccide, e lo spirito vivifica: voi non farete opera meno
meritoria per voi nè meno giovevole al condannato,
ritraendovi nell'altra stanza; i desiderii dei moribondi son sacri,
- ed a lui, voi lo sapete, avanzano appena sei ore da
vivere...»
«Se ci mandate via, noi ce ne anderemo; e se cotesta anima per
difetto di preghiera si perde, cada il castigo sul capo di cui n'era
la colpa.»
«Noi non vi cacciamo, sibbene vi scongiuriamo a non funestare
quel misero...»
«O noi preghiamo qua dentro e ad alta voce, come dobbiamo,
pregheremo per lui, o ce ne anderemo.»
«Andatevene dunque. Voi avete di carità la forma, vi
manca il cuore: voi movete le labbra, spingete una parola, ma la
fiamma manca alla voce, e la vostra preghiera ricade come un crasso
vapore che non può sollevarsi fino al cielo: andate! - Dio
non ha mestieri della mediazione degli uomini per soccorrere l'uomo:
il Redentore, che la pecora smarrita antepone alle rimaste nel
branco, gli stenderà le braccia: Cristo, per ascoltare
costui, non chinerà le orecchie più di quello che si
curvasse per ascoltare voi superbi ministri del Dio di
umiltà. Andatevene: se voi vi ricusate pregare, pregheranno
gli angioli per lui.»
Poi dopo successe un silenzio profondo tanto che si udiva il
crepitare dei ceri accesi dentro la cappella.
Ecco s'inoltra un uomo vestito di nero; - le sue sembianze paiono
scolpite nella pietra, - i suoi capelli sembrano metallici; dai modi
lo diresti un maggiordomo, - ed è veramente tale. Io non
saprei descriverti per l'appunto le sue maniere, ma potrai vederle
uguali nei cortigiani e in quelli altri che chiamano diplomatici, -
specie di pifferi dove non soffia Minerva per paura di sconciarsi le
gote; coteste sono maniere che sbigottiscono gli affetti e
respingono atterrite nel cuore le dolci espansioni pronte a
sgorgare.
Il nuovo personaggio, seguito da valletto il quale gli veniva dietro
recando una guantiera, fermatosi dinanzi al condannato, con voce
impassibile e cerimoniosa incominciò:
«Fratello in Cristo, e' dovete sapere, come fino dal 1300 e
tanti, messer Amedeo degli Amedei, in quel tempo rettore della
cappella di san Giuliano in San Nicolò delle Monache, e della
chiesa di San Remolo, pei rogiti di ser Giovanni del Guiduccio
ordinasse che i suoi successori nel patronato della cappella
suddetta accompagnassero i condannati alla morte e li confortassero
con un panellino confetto di once tre. Messere Ieronimo, mio
signore, abborrendo farsi vedere in cammino con un condannato, e per
altra parte desiderando mantenere il lodevole costume dei suoi
maggiori, mi manda a voi per presentarvi il panellino confetto, e la
mancanza della sua presenza redime con l'aggiunta di questo nappo di
malvagia.»
Dante credeva trasognare, ma poi l'ira lo vinse, e con dura favella
domandò:
«E chi è cotestui che tu chiami signore? La prima volta
è questa ch'io lo sento rammentare in vita. Non lo
conosco...»
«Colpa vostra», riprese il maggiordomo; «avreste
dovuto andare a trovarlo.»
«Colpa sua», interruppe con voce terribile il
Castiglione; «colpa sua se, nascendo degli Amedei, ha fatto
ignorare fin qui la sua esistenza in Fiorenza; - colpa sua se tanto
è da poco di cuoprire la sua abiezione con la fama dei
maggiori. Non so se il privilegio di cui parli sia vero; quando pure
lo fosse, riporta al tuo signore il vino e il pane, e a nome di
Dante da Castiglione Catellini Filettieri gli dirai essere cotesto
privilegio cessato dacchè la casa Amedei si spense; ch'egli
non deriva da loro, - che mentisce stirpe, e che io sono pronto a
provarglielo a tutta oltranza con lancia e spada, a piede o a
cavallo, prima che il sole tramonti.»
Lorenzo, curvo con la persona, gli occhi incavati, che i minuti
adesso passavano gravi sopra il suo corpo come anni, si accosta al
maggiordomo e con voce cupa gli dice:
«Fratello, gran mercè, - ma per qual cagione prenderei
io cibo e bevanda? Non è questo un oggi senza domani per me?
Nel giorno che succederà a questo dovranno le membra mie
triste fare altra cosa che rimanersi ferme nella fossa? - Riprendi
dunque cotesti alimenti... non versa la tesserendola nuovo olio
nella lucerna quando sta per coricarsi... Riportali al tuo signore,
e gli dirai dalla parte del condannato che i suoi maggiori ebbero
per avventura carità, ma furono certamente stolti... forse
non sapevano che al condannato non rimane altro sapore tranne quello
della morte? Quel vino avrebbe sulle mie labbra il gusto del sangue;
anche non fosse stato aceto e fiele quello che dettero a Cristo
nella sua ultima ora, qualunque liquore gli sarebbe parso ben
tale.»
«Va'», con mal piglio continua il Castiglione al
maggiordomo, «e di' al tuo padrone che aggiunga quel nappo al
vino che ha costume di bere: - così almeno diventerà
qualche cosa, - forse un briaco!...»
Il maggiordomo uscì salutando con la solita gravità.
Passò altro tempo senza proferire parola; adesso sporgendo
attento le orecchie il Soderini mormora numeri progressivi e dice:
«Anche di un'ora mi sono accostato al supplizio.»
«Io non ho inteso nulla», soggiunse il Castiglione.
«Ah! messer Dante, i sensi prossimi ad abbandonarci diventano
più perfetti, come il cuore pronto a cessare di battere
estende e moltiplica i suoi palpiti; voi lo sapete, anche a Dio
parve fuori di misura amaro il calice della ultima ora e
pregò il Padre di allontanarlo dalle sue labbra: - arguite da
ciò s'egli sia angoscioso. Ma pensiamo a morire, soggiunse
scotendo tristamente la testa; - venitemi accanto, messer Dante,
qui; - porgetemi ascolto, chè dalla gola m'esce piccola voce,
e mio malgrado la lena mi manca. - Del conforto che, abbandonandomi
tutti, vi compiaceste compartirmi, vi rimeriti Dio, ch'io nè
con parole nè con altro posso. - Se di tutt'altra morte io mi
morissi e per diversa causa, io vi direi, - e qui si trasse un
anello dal dito, - messer Dante, portate questo in ricordanza di me;
e voi lo porterete per amor mio; - ma io non ho diritto di
raccomandare la mia memoria; - si raccomandano ai superstiti le cose
infami? - Via da me questo superbo desiderio»; e così
favellando gittò in un canto della cappella l'anello:
«dimenticatemi...»
Di nuovo silenzio; alla fine del quale, a voce più fioca,
quasi con pena continuò:
«Messer Dante, voi ve n'andrete, vi scongiuro, da mia
madre»; e poi, come se avesse fatto uno sforzo superiore alla
sua lena, si tacque.
Il Castiglione, con gli occhi chini al pavimento, aspettò
lungo tempo che il Soderini continuasse. Poichè ebbe invano
aspettato, egli stesso riprese con suono di voce che studiò
rendere quanto meglio poteva soave:
«Andrò da vostra madre...»
Lorenzo trasalì, curvò la persona, gli occhi strinse e
le mani e non potè proferire parola.
Chi può ridire il dolore che Lorenzo soffrì in cotesto
istante supremo? Il suo corpo non meno che la sua anima stette
percossa dall'atroce catalessi. Quando pure potesse descriversi, le
lagrime cancellerebbero l'inchiostro, la mano tremante impedirebbe
si formasse la parola; - io passo questo momento senza narrarlo.
E nondimeno volendo Lorenzo esprimere quel suo concetto, per
riuscirvi cominciò da più lungo circuito e riprese a
dire:
«Io già sono morto; la pena mi ha colpito prima della
scure: in faccia alla legge, la terra raccolse le mie ossa; -
l'estremo bene concesso ai moribondi mi è negato; - io non
posso fare testamento; nè ciò mi duole perchè
mi premesse beneficare amico o parente: in questa ora mi accorgo
avermi circondato lusingatori pessimi, non amici; - ma sì
perchè avrei voluto istituire mia erede la Repubblica. - La
Repubblica, - voi mi direte, - non ha mestiere de' tuoi doni, e lo
so; ma io la supplicherei, quanto meglio umilmente potessi, a non
rifiutare le mie sostanze, - le accettasse come offerta espiatoria,
come testimonio di pentimento che non cesserà con la vita.
Ciò che mi è conteso faccia la madre mia;
finchè vive ella goda dei miei beni; - ella però
vivrà poco, - non istarete gran tempo a riaprire la lapide
del domestico avello per lei: mal si accosta alla bocca il pane
bagnato di lacrime, o se pur vi si accosta, non si converte in
alimento, sibbene in veleno dentro le viscere... Messer Dante, voi
andrete da mia madre e le significherete questa mia volontà;
- ditele come la sicurezza mia che per lei venisse soddisfatto
questo mio desiderio empiva di pace gli ultimi istanti della mia
vita... Ella mi ha amato sempre..., e lo farà...»
Ad un tratto Lorenzo stende la mano verso la daghetta di Dante e
trattola prestamente si allontana. Il Castiglione gliela vedendo
brandire, caccia un urlo ma non si muove. Lorenzo, reciso che s'ebbe
una ciocca di capelli, gliela rigetta sul letto e muove le labbra a
mesto sorriso.
«Non temete, io non posso uccidermi, - sarebbe aggiungere a
delitto delitto. Dopo la colpa di avere tradito la patria non mi
rimane altra colpa a commettere che sottrarmi alla sua sentenza: no,
il mio capo mozzo dal carnefice giova che dia salutevole esempio a
chiunque tanto fosse infelice da seguitarmi nel misfatto, - ed io
per certo non vorrò privare la patria di questo spediente per
atterrire i traditori, perocchè, Dante, - vedete se ridotto a
tale estremo io volessi ingannare nessuno! - assicuratevi che io non
era il solo nè il più terribile degli altri: -
guardatevi dal Malatesta. - Ora, messer Dante, voi recherete questi
miei capelli alla mia genitrice e le direte che avrei voluto
mandarle il cuore: - ella avrebbe allora conosciuto che se il cuore
di suo figlio fu infedele alla patria, non lo è mai stato per
lei, - che i suoi ultimi palpiti furono per Dio e per lei;
epperò non gli dia al vento, ma se li serbi per sè
sola nel seno ch'io ho ferito di tanti dolori, - che gli abbia cari,
che pensi a me, - che viva, non posso raccomandarle felice, - e non
mi maledica... Anche una grazia Dante, una sola grazia, - e poi le
mie labbra non favelleranno più di cose terrene; - io non ho
diritto a domandarvela, e non pertanto la pretendo da voi; - me la
farete, Dante? - Dite che me la farete...»
«Parla, e Dio non mi accolga in luogo di salute se io non te
la faccio, perocchè l'angoscia ti abbia rigenerato, e i tuoi
pensieri appartengano al paradiso. Spera; - il pentimento ha il suo
battesimo, come l'ha la speranza, ed anche al caduto resta una
gloria, ed è questa: poter dire rilevando il capo dalla
polvere: Detesto la colpa.»
«Sentitemi dunque: quando udrete insultare la mia vecchia
madre..., difendetela voi, trattenete le mani dallo avventare pietre
su quella testa che non ha più lacrime e pure trabocca di
affanno; - fate osservare che i suoi capelli, più che per gli
anni, diventarono canuti per una disperazione che non ha misura; -
impedite il popolo di sfasciarle la casa; se in lei albergò
un traditore, adesso è stanza di madre sconsolata; -
perchè io la feci tra tutte le femmine la più
infelice, non dovrà avere un riparo per riparare il suo corpo
dalle intemperie delle stagioni? - Ella non ebbe parte nel misfatto
del figlio nè deve renderne ragione: deh! almeno morto io non
le debba essere causa di amarezza. Se poi vorranno ad ogni modo
sfasciare la casa..., il cielo vedrà più scoperta la
sua miseria, e ne sentirà prima compassione... Oh quanto fui
scellerato!...»
«Spera», riprende Dante e gli pone ambe le mani in atto
amorevole sul capo; «quanto di nobile si contiene in Fiorenza
consolerà la tua genitrice; - anche i tristi rispetteranno lo
spasimo di una madre senza fine dolorosa; sulla testa piegata
dall'Eterno non deve posarsi mano mortale.»
«Ah! consolatela! parlatele d'un premio che diventa maggiore
pei patimenti sofferti, - mostratele sempre il cielo, ond'ella non
abbia ad abbassare gli occhi e vedere la fossa del suo figliuolo
maledetta; - beata lei, se non le s'inaridisce il fonte delle
lacrime! - Infelice me, che in ricompensa dei mali per me sofferti
non posso altro migliore bene desiderarti che la facoltà di
piangere!... Ahimè misero!...»
E qui tornava alle lacrime e tra il pianto ad ora ad ora veniva
sclamando:
«Senza speranza di salute eterna! - infamia e supplizio
interminabili!...»
Dante racconsolava cotesta smania e rispondeva.
«Confortati, Lorenzo, non disperarti; Dio non ti sarà
più severo di quello che ti sieno stati gli uomini... le tue
lacrime hanno estinto l'accusa; mira, Cristo placato ti apre le
braccia.»
Si mitigò lo spasimo nel Soderini, cessarono le lacrime, si
rimasero i singulti; una specie di letargo investì quel corpo
spossato.
In mezzo a cotesto silenzio squillò più acuta la voce
del bronzo che annunziava la penultima ora destinata al supplizio.
Dante fremè per tutte le membra, volse lo sguardo pauroso
sopra al Soderini e respirò più libero lo vedendo
assopito:
«Dio lo ha perdonato», pensò tra sè,
«poichè gli risparmia anche questo dolore.»
Nell'alzare degli occhi ecco vede presentarsi sopra la porta due
strani sembianti, - il cappuccino e il carnefice: - parvero quasi la
lingua biforcata vibrata da vipera in furore: - uno, quello del
cappuccino, era pieno di angelica bellezza; l'altro, del carnefice,
sembrava uscito dall'inferno; eppure in quell'ora male avresti
saputo distinguere qual fosse stato dei due più sinistro
dell'altro.
Vedendo che s'inoltravano per isvegliarlo, Dante si fece loro
incontro e prendendo ambidue per le mani li trasse indietro
favellando sommesso:
«Non lo destate.»
«E la confessione?» replicò il cappuccino.
«E il supplizio?» soggiunge il carnefice.
«Uditemi», riprende il Castiglione: «l'ufficio
vostro in parte è uguale; voi, frate, dovete sollevargli lo
spirito, - a te, carnefice, spetta di risparmiare dolori al suo
corpo. Se il suo spirito ricava d'altronde che da voi, o frate, la
sua pace, il vostro ufficio torna inutile, come lo sarebbe il tuo, o
carnefice, se in questo punto ei morisse. Frate, non gl'invidiate il
sonno; Dio sa come l'anima nostra si consoli meglio dell'uomo assai,
nè quel sopore lo addormenta senza consiglio divino; voi
fareste contro al vostro ministero svegliandolo, poichè lo
contristereste; pregate basso; lo sovverrete quando vi
chiamerà. Per te poi, o carnefice, se il cielo abbia sede
anco per te dubito forte: ma se tu speri nella misericordia divina,
aspetta senza moverti dal tuo posto che la giustizia umana ti getti
una vittima da sagrificare, e aspettala col cuore mesto, come se la
sventura ti aggiungesse; e sappi che qualunque passo tu moverai
incontro alla tua vittima, quel passo come delitto ti sarà
contato nel libro delle colpe.»
Il cappuccino piegò umile il collo e rispose con voce soave:
«Fratello, la vostra parola è buona; aspetterò
che mi chiami; intanto io pregherò per lui.»
Il carnefice si accovacciò come un mastino minacciato di
percosse e brontolava tra i denti:
«Alla fine dei conti il mio viso somiglia quello degli altri;
- prima o poi mi ha da vedere e sentire.»
Quando Lorenzo si risvegliò, si guardò ansiosamente
dintorno e non vide più il Castiglione: un suono languido gli
uscì a fiore di labbra che disse:
«Ahimè sono solo! - Mi hanno tutti abbandonato!»
«Dio è con te, fratello!» rispose il cappuccino,
e gli pose davanti gli occhi il crocifisso, il quale preso tosto dal
Soderini, lo baciò con intentissimo affetto.
Sonarono le quattordici.
La porta del palazzo dei Signori dal lato della dogana fu aperta; ne
usciva prima una banda dell'ordinanza con la fronte spessa di
uomini; i tamburi battevano scordati; la campana grossa del comune
empiva l'aria a tocchi lenti che parevano singhiozzi, - le
rispondeva la campana del Bargello, sicchè avresti detto
essere coteste due campane le prefiche della patria che lamentavano
la morte di un figlio scellerato. Subito dopo la milizia seguiva la
compagnia dei Neri; l'antesignano portava il Cristo con la faccia
rivolta verso i condannati; - dalle mani, dai piedi, dal costato e
dalla testa pareva che grondasse sangue, - immagine terribile di
compassione e d'orrore! - Al termine della compagnia venivano
Lorenzo Soderini e frate Vittorio Franceschi. Menare un frate al
supplizio non fu anche pei tempi che correvano cosa agevole e piana,
avvegnadio, quantunque allora come ora i Domenicani detestassero i
Minori Osservanti, questi gli Agostiniani, gli Agostiniani gli
Olivetani, catena di odio interminabile, pure, fatta adesso causa
comune non pel frate, dicevano essi, ma per l'ordine,
scombussolavano il mondo perchè ne uscisse pel rotto della
cuffia; - e le dicerie che andarono d'attorno erano state infinite:
ai deboli cacciavano addosso la paura dell'inferno, agli altri il
sospetto della divisione e dell'abilità fatta alle armi
imperiali di penetrare in Firenze se nasceva trambusto; e sarebbe
nato di certo, ma gli Otto, non badando il dire, avevano molto bene
atteso a fare e mandavano il frate così vestito dei panni
della sua religione al patibolo.
Si presentava appena la processione a capo di una contrada che la
gente a furia chiudeva le botteghe, le donne forte sbattevano i
balconi, ognuno si affrettava a ripararsi altrove, e ciò per
la superstizione che se gli occhi del condannato si fossero
incontrati nei tuoi, ti portavano malaventura; la quale però,
anche nel caso che siffatto incontro fosse avvenuto, poteva di
leggieri evitarsi col toccare immediatamente un'altra persona e
rigettarla sopra di lei. Le strade per cui procedevano, comparivano
deserte; sembravano fuggissero tutti dall'aspetto dei traditori.
I condannati camminavano con passi incerti; frate Rigogolo poi aveva
sembianza di ebro. Da una parte il cappuccino, dall'altra un
battuto, i quali gli sostenevano sotto le ascelle e di qua e di
là ponevano loro davanti gli occhi tavolette con immagini,
affinchè non si distraessero dalla preghiera e riposassero
gli occhi sopra oggetti dolenti.
Il cappuccino che confortava Lorenzo gli ripeteva con molto fervore:
«Sperate, sperate, - Dio vi apre le braccia.»
E il Soderini tutto umiliato gli andava rispondendo:
«Io spero...»
Ben altramente camminava la bisogna con frate Franceschi: - a lui
pure il frate assistente favellava di paradiso, di perdono, di
Cristo che lo aspettava a braccia aperte, di angioli che stavano ad
ammanirgli la palma del martirio. Ma frate Rigogolo con un tal suo
aggrinzamento di bocca come chi mangia limone, mostrando disdegno,
con piccola voce diceva:
«Non mi state mo' a rompere il capo; assai ne ho con questo
volermelo levare senza misericordia dalle spalle, perchè voi
veniate a metterci la giunta delle vostre parole sceme. Eh! frate
mio, rammentatevi che frate sono pure io e che conosco quanti paperi
vanno al paio; se voi andaste a contare le vostre novelle ad un
altro, pazienza! Lo comprenderei ancora io; - ma che veniate a
contarle a me che sono del mestiere! - Davvero gli è tempo
perso. - Dunque mi dite piuttosto, se a levarmi di mano a questi
giudei ci hanno pensato. - Si sono uniti? Le armi le hanno
pronte?»
«Affrettate il passo. Gli spettabili signori Otto hanno
ordinato che alle quindici ore sia spedita ogni cosa.»
Queste parole dette dal sergente maggiore della milizia fiorentina
interruppero il tristo frate.
Alle quattordici circa e tre quarti giunsero presso la porta alla
Croce, dove avevano innalzato il patibolo. Lorenzo Soderini,
soffermatosi a piè della scala e alzati gli occhi,
gemè dal profondo.
«Fate cuore, fratello», lo avvertiva il mansueto
cappuccino, «non è mai troppo dolorosa quella scala che
mette al paradiso.»
Di repente, una femmina prossima alla vecchiezza, di nobile
portamento, vestita a corruccio, sbuca di sotto al palco: e si
pianta ferma davanti al Soderini presso la scala.
«Sgombrate il luogo, femmina....»
«Io! - Io sono colei che mette posta maggiore in questo giuoco
di sangue.»
«Ahi madre mia!» urla Soderini, e si voltola smanioso ai
piedi della sua genitrice.
Ella poi non muta positura e nè anche sembiante; immobile e
severa favella:
«Qui ti aspettava.»
«Per pietà trascinatemi al supplizio; - chiudetemi
presto gli occhi, - fate che i miei orecchi non ascoltino....»
«I tuoi orecchi non cesseranno di ascoltare prima che dentro
loro risuoni una parola. Solo hanno potenza i genitori di proferire
questa parola, ma ella porta seco la sentenza di morte contro
l'anima - ella continua a perseguitare oltre la fossa lo scellerato
che la provocò....»
«Ah! non la dite, madre, questa parola... il cielo vede il mio
pentimento, - apritemi il cuore, vedetelo anche voi... e non mi
maledite.»
«Donna, la polvere presumerà più del suo
Creatore? Perdonate questo infelice; - Dio lo ha già
perdonato», diceva il cappuccino.
«Se Dio ti ha perdonato, se detesti la tua colpa, allora
anch'io ti perdonerò: tu mi nascesti dilettissimo e solo, -
tu dovevi essermi corona di gloria, - tu mi sei stato corona di
spine; - tu hai morso le mammelle che ti davan il latte. - Se sei
pentito, il seno di tua madre ti fu di guanciale nel nascimento, te
lo sarà anche in morte. Ecco, ti abbandonano tutti... anche
Dio, - ma tua madre non ti abbandonerà, - salirò teco
la scala del supplizio... perocchè la madre non si vergogni
mai del suo figliuolo.»
Gli astanti piangevano: solo veniva interrotto quel pianto dallo
stridere che faceva le scure acuita dal carnefice con la pietra nel
modo stesso che fanno i mietitori.
E la madre continuava:
«Oh Vergine santissima, vedi, io sono più derelitta di
te; tu sapevi il figliuol tuo morire a torto, - sapevi ancora
aspettarlo risuscitato una gloria per secoli senza fine...» -
E poichè il figlio continuava a piangere: -
«Perchè piangi? Tu mi hai resa la più misera tra
tutte le donne, - eppure io non piango. Io ti aveva dato il mio
sangue perchè tu lo trasmettessi ai tuoi figliuoli e non
perchè me lo rendessi esecrato sopra un patibolo; io ti aveva
donato tutte le mie sostanze, ed ora vuoi che raccolga la tua
lagrimevole eredità come un peso che le mie spalle non
possono sostenere, come un ferro infuocato che mi brucia le mani.
Vieni, ti precederò al supplizio; se io non seppi insegnarti
a vivere, deh! fammi contenta imparando a morire da me....»
Nessuno ardiva opporsele. La disperazione della madre esercitava
sopra tutti i circostanti virtù di fascino. Il carnefice
ardì stendere la mano per trattenerla; - la donna
dignitosamente superba lo respinse e subito dopo si trasse il guanto
e glie lo gettò nel volto dicendo: «Carnefice,
rammentati che tu devi toccare soltanto col ferro.»
Sventurata! Ora pone la mano sotto le braccia del figlio, e lo
sovviene a salire.
«Pensa un po'», gli mormorava agli orecchi, «qual
cuore sia il mio! Certo il piacere ineffabile che provai quando,
affidando te povero infante alla balia per recarti al battesimo, le
raccomandava badasse bene fosse tepida l'acqua che ti avrebbe il
sacerdote versato sul capo e poco il sale che ti avrebbe posto sopra
la bocca, - quel piacere, dico, è ben pagato, - troppo pagato
eh! col dovere adesso raccomandare quel medesimo capo al carnefice
perchè... te lo spicchi prestamente dal busto... con un colpo
solo. O figli! voi non pensate alle vostre madri;
imperciocchè, se la metà dei dolori che soffrono per
voi vi fosse manifesta, non le travagliereste come fate. Tu sapessi
quante volte, tardando a ridurti alle nostre case, se mai udiva per
la notte sonare a disgrazia la campana della compagnia del Tempio,
come cotesti squilli mi paressero voci interrotte della tua agonia,
ed ogni squillo mi fosse una coltellata nel mezzo del cuore: ma
ormai al passato non pensiamo più oltre, al presente
nè anche: il nostro presente appena lo segna il sole sopra la
meridiana; avvertiamo al futuro; se mai non mi uccidesse il dolore,
mi aspetti la tua anima, perchè, senti, grande veramente
è la misericordia di Dio, ma anche il tuo peccato è
fuori di misura grande; ti sei pentito, sta bene; ma se ti
accogliesse in paradiso, io temerei che Giuda mandasse dal profondo
dell'inferno una voce a Dio che dicesse: Anch'io mi sono pentito;
perchè non mi togli da questi tormenti, dove patisco da mille
cinquecento e trent'anni? - Ma Giuda forse non ebbe madre che
supplicasse per lui; aspettami, tu l'hai e oltremodo sventurata; io
ti raggiungerò ben tosto... non piangere! Mi desidereresti
per avventura la vita? In ciò che mancherà al tuo
pentimento suppliranno i miei spasimi. La Madre celeste, che
anch'ella vide pendere il suo figliuolo dalla croce, conosce a prova
un'angoscia che altrimenti non si potrebbe immaginare, ed
intercederà per noi. - Ecco siamo giunti.»
Il carnefice si accosta per bendargli gli occhi.
Il cappuccino, baciandolo, gli ha detto:
«Andate in pace.»
La donna parla di nuovo al carnefice:
«Fosse la tua anima dura quanto la tua accetta,
ascolterà nondimeno una preghiera. Sono io la madre che nove
mesi l'ho portato, che col mio latte l'ho nudrito; io, che, le
intere notti ho vegliato a mitigare le sue doglie infantili, a
ventilare l'aria d'intorno alla sua culla, perchè placido
dormisse i suoi sonni; - io, che, lui morto, non ho più nulla
sopra questa terra; io che, per dimostrargli l'amore immenso che per
lui ho sentito e tuttavia sento, mi trovo ridotta a supplicarti,
come si fa i santi, che tu... carnefice... assesti bene il colpo...
non me lo straziare!... soffra meno che si può... se un
rincalzo molle sotto al suo capo può... rendergli il colpo
meno penoso, vi porrò le mani... vuoi? Non vuoi. - Ebbene, mi
rimarrò. E se la preghiera non giova, prendi... questi sono
fiorini... ti basteranno sei mesi a nudrire la tua famiglia...
Lorenzo, l'ultimo bacio su questa terra... fra un istante ci
rivedremo in cielo....
Il Soderini si è genuflesso, il capo ha deposto sul ceppo. La
madre sta in piedi alla sua destra, il carnefice dalla sinistra.
Questi solleva la scure....
Perche non vibra il colpo? Qual mai forza lo trattiene a mezzo? Gli
manca per avventura l'animo? No; egli ne ha spacciati ben molti da
questo mondo. - Nell'abbassare la scure egli incontrava gli sguardi
della madre. La virtù che immaginarono i poeti emanasse dalla
testa di Medusa, e i naturalisti raccontano da certi serpenti
dell'Asia, adesso provava il carnefice; quegli occhi gl'impietrano
il sangue nel corpo, - gli pareva di fare, - e forse faceva
disperati sforzi, nè gli riusciva pure di un pelo declinare
le scure. Allora penso gli avesse soffiato addosso qualche
gettatura, e per malignità d'incantesimi lo avesse costretto
a rimanersi tutta la vita senza potersi punto muovere da cotesta
terribile attitudine; e a questa paura straluna gli occhi - i
capelli gli si drizzano come stecchi sopra la fronte.
Forse queste cose tutte avvenivano in meno di due secondi: mutata
positura, il carnefice si accorse rimanergli libero l'esercizio
delle membra; - non pertanto abborrì cimentarsi di nuovo
sotto lo sguardo della trucissima donna; - pianamente si volta
dall'altro lato e fa sì che le rimanga dietro le spalle; -
guarda davanti a sè per sospetto, - non vede nessuno; - si
avaccia con tale un moto che parve di rabbia, e aspirando col seno
capace largo tratto di aria, solleva con ambe le mani la scure.
Il Soderini aveva cominciato una invocazione; la prima sillaba
uscì chiara e distinta, la seconda no, perchè fu
proferita dalle labbra di un capo che rotolava sanguinoso sul
pavimento del patibolo.
La madre si mosse incontro al capo per impedirgli che traboccasse
dal patibolo giù sopra la piazza, ma all'improvviso cadde
quasi fulminata. Ella gittò uno strido che percosse come
dardo le orecchie degli astanti; - quell'urlo corrispondeva
all'ultimo palpito di un cuore spezzato.
Poi andarono pel frate: senonchè questi, sperando nel
soccorso di un qualche tumulto, s'ingegna differire, quanto meglio
per lui si può, il momento del supplizio. Le mani aveva
legate; co' morsi si affatica, co' piedi e col capo; - prega,
minaccia e bestemmia, muggisce di affanno; male gli giovano i
conati; - comechè reluttante, lo trascinano a forza.
Il popolo, il quale ha sempre plaudito il gladiatore che muore con
sembianze animose, vilipeso il codardo, non frenando lo sdegno alla
vista di cotanta viltà, irrompeva con urli e schiamazzi da
scuotere la terra: «Taglia, taglia....»
Soldati in copia avevano mosso a vedere cotesto spettacolo, e
poichè sapevano i cittadini vivere in sospetto di loro,
temerono fosse quello il segnale della strage; i cittadini ebbero
per le medesime cause uguale paura, e tu avresti veduto
all'improvviso in quel mare di popolo una frotta correre in un
senso, un'altra in un altro, simile a correnti di mare; e quando
venivano a urtarsi come i cavalloni che si spezzano contro gli
scogli, andavano all'aria cappucci, elmi, lembi di vesti, e tra
mezzo alla tempesta vedevi alzarsi e calare bastoni, coruscare
qualche spada; inoltre un rovinio, un muggito simile anch'egli al
fragore delle acque sconvolte. Tra le voci discordi superava quella
di tradimento; la città tutta si levò a rumore, - il
frastuono corse fino al palazzo dei Signori, i quali, adunatisi per
provvedere al pericolo, dettero ordini di chiamare la milizia. Nel
qual caso, scrive Benedetto Varchi gravissimo storico, si conobbe
quanto valgano le armi bene ordinate in una città,
avvegnachè i giovani ad un tratto e di quieto si ridussero
ciascuno al suo gonfalone, e arrivati sul luogo, parte con buone
parole, parte con migliori fatti, sedarono il tumulto. Il popolo a
mano a mano si dilegua; dopo breve ora nessun altro testimonio
avanzava dal naufragio tranne alcuni cadaveri talmente pesti che mal
si sarebbe distinto a quale specie di animali appartenessero.
Fu biasimata molto cotesta giustizia eseguita in quel luogo ed in
cotesta ora.
Il giorno appresso apersero l'avello di casa Soderina e vi calarono
prima un corpo mutilato, poi una donna e per ultimo una testa. Il
manigoldo aveva in un colpo troncato due vite.
La pubblica compassione allo spettacolo di tanta miseria rimase
profondamente commossa; una mano pietosa pose alla desolatissima
madre la lapide. Sul principio del secolo passato se ne leggeva
ancora una parte la quale diceva così:
...........
IVSTAM. FILII. NECEM. ADPRECARI
AC. FERRE. NON. POTVI
...........
IN. VITA. IN. MORTE. IN TVMVLO
COMITAVI. ILLVM
...........
A. CAPITE. FILII. MISERRIMI
MOERORE. MATERNO
AVERTE. IRAM. DEI. PUNTISSIME. VIATOR.
Ai tempi nostri non m'è riuscito rinvenire questa lapide;
certamente tra tanto volgere di vicende rimase distrutta con altri
incliti monumenti di storia patria.
NOTA.
"Nous revinmes a Paris, où madame de Chèvreuse ne fut
pas plus tòt arrivèe qu'on apprit l'exècution
de monsieur de Chalais, qui fut fort cruelle, parce que, ayant fait
evader le bourreau, on fut obligè de la faire faire par un
soldat, qui le massacra de telle sorte qu'il lui donna vingt - deux
coups avant de l'achever. Madame de Chalais, sa mere, monta sur
l'èchafaud et l'assista courageusement jusqu'a la mort."
(Mèmoires de M. de La Porte, valet - de - chambre de Louis
XIV.)
CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO
IL CALCIO
«Deinde illis omnibus qui cubantes in lectulis suis somniant
somnium de universali felicitate filiorum Adam in terris et
expectant libertatem civitatis ab æquitate potentiam, abrumpe
somnium et spem, et dic unicuique.»
"Quindi a coloro tutti i quali prostesi sui giacigli sognano il
sogno della universale felicità dei figli di Adamo sopra la
terra, e libertà aspettano dalla giustizia dei potenti, il
sonno rompi e la speranza, e favella a ciascuno.»
Hypercalypsis Didymi Clerici,
c. 18, v, 26.
Una falsa dottrina ha preso per somma nostra sventura a mettere le
barbe negli ingegni della presente generazione italiana; ma tanto mi
affido nel genio della bella contrada che spero non avranno tempo da
diventare radici. Traviando dietro deplorabili vaneggiamenti ai
quali imposero il nome specioso di scienza trascendentale,
abbandonarono i severi precetti della pratica filosofia per correre
dietro ad astrattezze di cui il meno che possiamo dirne si è
che tornano inutili. Per me ho tenuto sempre questi strani cervelli
in concetto di uomini incompiuti, ermafroditi intellettuali,
cioè nè osservatori nè poeti; se osservatori,
tu li vedresti speculare argutamente i casi umani, dedurne le poche
conseguenze sperimentali capaci di applicarsi ai bisogni degli
uomini, comporne un libro d'istituzioni accomodato allo intelletto
comune, non già misteri cabalistici dove nè Dio
nè il diavolo comprendono parola; se invece poeti,
anzichè immaginare inabile congerie di strumenti, di ruote,
di suste e ordigni altri siffatti incapaci a imprimere un moto
qualunque, i morti dalle antiche sepolture evocherebbero, a
favellare delle virtù e delle colpe passate con la magia
dell'ingegno costringerebbero, dalla intera natura colori per
avvivare i canti loro raccoglierebbero, e poi o Anfioni
edificherebbero Tebe, o Timotei Persepoli incendierebbero. Essi,
all'opposto, come Curzio, si cacciano nella voragine, non già
per salvare, sibbene a perdere le menti in infelici sofismi: nella
vertigine incomposta dei pensieri loro, afferrata una nuvola, si
affaticano a foggiarla nel sembiante del Giove di Fidia, e un soffio
leggiero di vento gliela converte nel più grottesco diavolo
che dipingesse il Calotta nella Tentazione di santo Antonio. Icari
dalle penne incerate, volano per cadere, - ogni nome di essi indica
un errore, ogni sistema un grado di avvicinamento alla follia.
Questa è la storia dei libri di siffatti empirici che hanno
tolto il nome di filosofi. Tale tra loro in molti volumi
s'ingegnò di provare l'uomo nascere incredulo, la scienza
farlo scettico in prima, poi condurlo alla fede, - altri altre cose.
Sortimmo noi la facoltà di pensare per disperderla in giuochi
siffatti di spirito? E poi hanno preteso descrivere Dio, le leggi
della creazione, e stampare la carta topografica dell'anima con la
famiglia delle passioni e delle idee. Fossero stati almeno cotesti
loro sogni leggiadri! Ma no, tenebrosi, confusi a guisa di deliri,
spossano l'anima e la infastidiscono miseramente. Sempre nel disegno
di sostituire i propri vaniloqui alla esperienza, parlarono di
morale e di politica. Qual morale! Qual mai politica!
Non si adoprarono già a temperare l'orgoglio dei fortunati
con la evidenza di un fine comune, - non intesero a sollevare
gl'infelici con la speranza di più nobili destini, - non
ispesero l'opra a provvedere all'effettuale miglioramento di tutti,
- no; pretesero provare ottime le condizioni presenti della
umanità; non dissero al caduto: Sorgi. - bensì invece:
in cotesto fango tu stai da principe, rimantivi e godi. - Almeno il
maligno di Ferney nel suo Candido rideva; questi poi favellano come
se si fossero accomodati sul tripode della pitonessa.
Avrei voluto non rammentare nomi, ma non mi riesce tacere del
Degerando. Immaginatevi, se vi dà il cuore, costui ridotto
nella quiete di stanza riposta davanti un banco elegante, tepide le
membra per un bel fuoco, il capo e i piedi coperti di pelli o di
seta, senza pure sorridere, dettare le seguenti sentenze: «Il
cavatore che, sepolto nelle viscere della terra, del continuo
percuote il duro sasso, sembra piuttosto patire un gastigo che
esercitare industria; il minatore vede la sua esistenza rianimarsi,
una luce più pura di quella del giorno ch'ei contempla lo
rischiarerà nel seno delle caverne sotterranee,
riprenderà lietamente il grave arnese caduto dalle mani
spossate e dirà a sè stesso: Ed io pure adempio alla
santa legge imposta dalla natura! E per me pure la vita è
preparazione a più alti destini!»
O Degerando! non andate a tenere questo proposito al minatore;
imperciochè s'egli riprenderà il martello caduto dalle
mani spossate, sarà per darvelo sul capo: e farà bene.
Povero minatore, intendi tu queste belle parole? Degradato alla
condizione del bruto, e peggio del bruto, imperciocchè egli
almeno goda l'aspetto del cielo e cibi sul prato l'alimento acconcio
al suo corpo ed abbia sortito dalla natura una pelle che lo ripara
dai rigori del freddo; e tu, infelice minatore, col cervello
inselvatichito, con l'agonia della luce, del cibo, della bevanda, di
tutte le necessità, ti placherai a siffatti conforti?
O Degerando! perchè non vi volgete piuttosto alle passioni
dei potenti e non gli ammonite a rinunziare ai metalli che cava il
minatore? Perchè non insegnate a costoro rispettare la
immagine di Dio, rimovendone il piede dal collo avvilito? Quando
celebrerete l'uomo uguale all'altr'uomo, - quando direte la
umanità non essere nata onde una parte di lei sia più
che numi, un'altra meno che bestie; allora sì che vi
saluterò filosofo davvero. Che se le condizioni della
pervertita nostra natura non consentono miglioramento, allora
tacete. Non accrescete ai dolori di questa maledizione che si chiama
vita il fastidio delle vostre voci. Nella schiavitù di
Babilonia, le vergini di Giuda appesero l'arpa al salice - e
piansero.
Negli ultimi tempi una simile filosofia, ch'io volentieri chiamerei
narcotica, più che altrove intorpidì l'Alemagna.
Colà il sospetto aveva posto un puntello sotto il mento degli
uomini e costringeva le teste a starsi rivolte verso le nuvole, -
temeva gli sguardi si chinassero alla terra. Goethe, ingannato, o
ingannatore, a modo di mago aveva descritto un cerchio e contendeva
agli spiriti affollati oltrevarcarlo. Allora quelle profonde menti
tedesche, mancando gli argomenti pratici, consumarono la copia della
interna energia in astrattezze infinite, in deduzioni di deduzioni,
in serie interminabili di vertiginose fantasticherie. Ma Goethe, il
quale gravitava con la propria gloria sopra il suo paese a guisa di
vampiro, cessò: sciolto è l'incantesimo, il circolo
rotto: il braccio della tirannide diventò paralitico, e
l'ingegno tedesco già scende terribile gladiatore nell'arena
del concreto. Ora volgono pochi anni, e la filosofia germanica
assume forme convenienti ai bisogni; già muovono guerra agli
edifizi feudali, imperciocchè quivi bene abbia il secolo
crollati i castelli dei baroni, ma non ancora la ragione distrutto
le leggi della barbarie. Scopo presente è la rovina;
rifabbricheranno poi; ora non deve rimanere pietra sopra pietra.
Secondi la fortuna i migliori! A savio cominciamento
conséguiti fine propizio! Essi hanno inteso il precetto di
Cristo: Guai a chi appone la toppa nuova al vestimento vecchio! - Le
paurose riforme, i provvedimenti codardi alla immensità dei
mali antichi paiono giunchi posti a riparo del mare in burrasca.
Sceglievasi forse tra paralitici o tra infermi il sacrificatore che
immolasse di un colpo la vittima davanti all'altare di Giove? Non
è questo lavoro delle figlie di Neottolemo; qui si vogliono
la forza e la clava di Ercole: non vi pare ella questa nostra
società più ingombra delle stalle di Augia? Badiamo di
non lasciarci andare ai sofismi; abborriamo imbiancare i sepolcri,
bensì scopriamoli e diligentemente rimettiamoli dentro. Altri
popoli ci hanno preceduto nel bene; pensiamo allo spazio da loro
percorso e non immaginiamo potercelo risparmiare; chi dice
altrimenti ci porge consigli d'ignavia e ci tronca la via alla
redenzione. La civiltà non procede a mo' di saetta, di cui
appena ti offende il baleno, ed una casa già cade in cenere.
Le grandi verità lasciano una ruga sopra la faccia del mondo;
il parto della ragione a prima giunta conturba la terra quanto la
morte di Dio. Innanzi di giungere al paradiso non percorse
l'Alighieri tutti gli orrori dell'inferno?
La nuova generazione si guarderà dal prosternarsi all'idolo
cui già disertano i meno ostinati fra gli adoratori; noi le
lasciamo un retaggio di falli e di colpe; - ne faccia senno e
cammini per la diritta strada a noi nati e vissuti nelle tenebre
procureranno i tempi pietà, non che perdono: in loro l'abuso
dell'intelletto frutterebbe infamia di traditori. Può l'uomo
tradire la patria ugualmente col pravo che con lo stolto consiglio.
A noi la provvidenza concesse e vita e ingegno e sostanze non come
nostra proprietà, sibbene come arnesi per contribuire al
maggior incremento della patria. In quella guisa medesima che il
castaldo nella stagione della messe raccoglie a sera dai mietitori
la falce che loro consegnava sull'alba e gl'interroga come l'abbiano
adoperata e quante biade mietuto; così la patria sul finire
della vostra vita vi domanderà conto dei doni che vi aveva
compartito. Contro i tristi e gli ignavi ella avrà due pene,
- due pene soltanto, ma ch'ella sola può dare e poi imporre
ai secoli che le confermino: la vergogna, o l'oblio.
Già io lo affermava poc'anzi, la morale e la politica
compongono una medesima cosa: non pertanto, avvertendo come la
morale domestica possa talvolta discordare nell'applicazione delle
sue teorie dalla morale pubblica, o contendere con essa, ne hanno
fatto una scienza a parte; ciò poco importa. Ma qui
principalmente i sofisti deviando dalle tracce severe della storia
non curarono esaminare gli uomini nel modo in che esistono, sibbene
in quello nel quale vorrebbero farli esistere. Composto un sistema,
si posero alla cerca di qualche fatto che valesse a sostenerlo; e o
sia non darsi genere di assurdità che gli uomini non abbiano
commesso, o sia qualsivoglia fatto tormentandolo possa presentarsi
sotto aspetto diverso dal suo naturale, o sia infine che
adoperassero mala fede nel riferirlo, non mancarono di aggiungere
alla regola l'esempio: ma l'assurdità non somministra
fondamento a speculare, e la tortura dei fatti si assomiglia
all'opera di cotesto avaro che comperava la cornice prima della
pittura, e se non vi capiva, la tagliava; - rispetto a mala fede
poi, i filosofi dovrieno lasciarla ai falsari. Così invertito
il metodo di ricavare dai fatti la regola concreta, alle regole
astratte applicarono il fatto, e a questo cumulo di superbia e di
errore imposero il nome di filosofia della storia,
imperciocchè di titoli pomposi non patiscano penuria. Se quei
loro vaneggiamenti non uscissero dalle coperture del libro,
basterebbe non leggerli, e tutto sarebbe detto: invece si avvolgono
strepitose per le scuole, - le menti facili dei giovani sorprendono;
e quando giungono i tempi grossi, i sofisti, chiamati dai settari a
far prova dei loro sistemi, si gittano col corpo traverso la
civiltà e ne impediscono il corso.
La Francia sconta troppo amaramente l'inganno dei suoi sofisti,
perchè noi d'ora in poi non ci guardiamo ben da giurare in
verba magistri. Colà un sofista s'ingegnava accordare la
legittimità con la libertà, - politico Mezenzio, e
immaginava un sistema nel quale fosse concessione quanto doveva
resultare da contratto bilaterale tra i due poteri legislativo ed
esecutivo, tra popolo e principe: invece di tenere la potestà
esecutiva emanazione della legislativa, rovesciate le cose, dava al
cielo l'origine di una condizione umana che Dio riprovò prima
del suo nascimento per la bocca del profeta Samuello. Un altro
sofista in cotesto infelice paese non seppe stendere la mente oltre
il suo sistema foggiato sopra le antiche forme della costituzione
inglese: quei nobili inglesi ravvisandole adesso squallide e viete,
si affaticano a modificarle; egli giunse tardi, - non importa, - il
secolo non deve procedere di un punto oltre il segno al quale
arrivava egli. Se costui fosse vissuto ai tempi in che David
peccò, quattro sarieno stati i flagelli minacciati dal
profeta Natan, - peste, fame, guerra e Guizot. Certo, se la Francia
avesse potuto scegliere, io per me penso che avrebbe tolto qualunque
altro flagello, tranne cotesto arido calvinista. Non parlo di cui
non ebbe pure il merito d'immaginare l'ecclettismo. I sofisti hanno
logorato il tempo a disputare su la forma e sul peso degli anelli,
ma non ebbero mai nè intenzione nè potenza di rimovere
le catene dalle mani di un popolo che libere intendeva alzarle al
cielo per ringraziarlo della ricuperata libertà. Nè a
vero dire essi soli furono i malaugarati sofisti. Tal visse a cui
non era amica la morte: come Cesare sul finire della vita si gittava
il manto sugli occhi; - egli ritardò, chi sa per quanti anni,
i destini del suo paese con quel suo ghiribizzo politico di trono
circondato da istituzioni repubblicane. Sarebbe stato più
agevole comporre in pace i truci fratelli i quali chiusi nel seno
della madre contesero, in vita si spensero arsi sul rogo l'odio
immortale manifestarono bipartendo la fiamma che gli consumava,
anzichè accordare repubblica e re. Tanto giovi a quest'uomo
lo splendido mattino della vita che lo salvi dal biasimo di averne
in siffatta guisa ottenebrato il tramonto; come parimenti desidero
che rimanga esempio perenne, onde in processo di tempo si guardino i
padri dal giudicare la causa di una generazione con le arguzie e i
motteggi, e abborrano i figli da confidare le sorti di un popolo a
menti affralite dagli anni.
Zanobi Bartolini sopra gli altri contribuì alla perdita della
libertà della patria; non già che le fosse nemico,
anzi ei l'amava, ma a modo suo e non senza vantaggio di sè.
Gli altri, come Baccio Valori e Francesco Guicciardini, le nocquero
meno, quantunque le procedessero apertamente avversi, perchè
le suggestioni loro apparvero sospette e furono respinte; quelle
invece del Bartolino benissimo accolte, movendo da persona che
pensavano di ottima mente verso l'attuale governo. Era l'ingegno di
Zanobi in apparenza pieghevole, in sostanza poi piuttosto ostinato
che fermo; avendo egli composto un modo di società al quale
da gran tempo non trovava da aggiungere o da togliere più
nulla, chiuse lo intelletto dentro un circolo determinato, e nella
maniera medesima che aveva posto al suo spirito le colonne di
Ercole, così consentiva la umanità progredisse fino a
quel punto e non più oltre; di là dal segno non sapeva
immaginare altro che abisso e rovine. Superbo più che ad uomo
non conviene, pose la sua parola contra l'onda popolare,
stimò l'avrebbe rispettata. Dio solo ha potuto porre tra il
mare e la terra una parola che si mantenne dal principio dei secoli
fino a noi, quasi muro di bronzo alle usurpazioni del soverchiante
elemento: quando un uomo, comunque re, comunque circondato di gloria
terrena, ardì imporre leggi all'Oceano, questo gli
rovesciò con la spuma il suo trono, gli empì la corona
di alga, e se men ratto alla fuga era costui, col più breve
de' suoi flutti gli avrebbe dato una sepoltura vasta quanto i suoi
regni. Parlo del re Canuto quando, insuperbito dalle parole dei
cortigiani che gli dicevano potere quanto volesse, ammantato di
porpora comandò al mare che non oltrepassasse il suo trono
innalzato sopra la sponda. Il Bartolino commosse il popolo contro i
Medici allorchè si accorse i Medici attendere a regnare soli
ed assoluti signori, e la tirannide non gli piaceva; nel moto del
popolo poi egli non ravvisò argomento per mutare gli ordini
vecchi dello stato, bensì all'opposto occasione di
modificarli, - anzichè rottura non saldabile mai, una via di
transazione; immaginò che i Medici, ammaestrati
dagl'inefficaci tentativi (come se i principi nelle commozioni
popolari piuttostochè insegnamento da seguitare non
ravvisassero sempre e poi sempre delitti da punire), si sarebbero
rimasti da toccare uno scettro a cui quante volte avevano steso la
mano, tante se l'erano scottata; avrebbero consentito reggere come
magistrati sottoposti alla legge ch'essi insieme con gli ottimati
avrebbero promulgato; il principio popolare non doveva starsene mica
senza rappresentanza nel consiglio; al contrario giovava che
l'avesse, ma poca, come corpo che abbisogna di perenne tutela, buono
a mantenere, non reggere lo stato. Quando all'opposto si accorse che
il popolo intendeva, licenziati i sopracciò, camminare
speditamente senza pastoie, lo tenne perduto; non potendo con la man
fiacca governare il corsiero generoso, lo calunniò sfrenato,
lo bestemmiò e lo maledisse: antichi vezzi rinnovati allora,
rinnovati più tardi e giù giù per i tempi
diversi fino a noi: cauto ed astuto deliberò rifare i passi,
ma, dissimulator potentissimo, mantenne la consueta apparenza; solo
in segreto raccolse intorno a sè tutta la fazione dei
Capponi, e qualcheduno della Pallesca, disse sopraggiunto il tempo
dei Ciompi, sentirsi piovere addosso gli ordinamenti di giustizia,
non sapere dove si andasse a finire. A cui troppo bene voleva
ascoltarlo parlava. I giovani nobili, i quali tanta caldezza
mostrarono da principio, commossi dall'autorità dell'uomo e
dalla gravità delle parole, adesso incerti da qual parte
dovessero pendere, s'intepidirono, in seguito aggirati, dubitando
nuocere alla patria, tenendo le sorti loro più oltre
congiunte con quelle del popolo, se ne staccarono, finalmente gli si
fecero avversi, come a nemico.
Malatesta trovò il Bartolino in siffatta condizione
allorchè prima fece cascare sopra l'animo di lui una parola
che lietamente accolta era seguitata da altre più aperte, e
finalmente compita con promesse di aiutarsi l'un l'altro. Malatesta
e Bartolino, mulinava il Bartolino (tanto è vero che in
pelliccieria per ordinario occorrono pelli di volpe) dovevano andare
insieme uniti ai più tardi nepoti, come salvatori della
patria. Bartolino avrebbe condotto gli accordi; Malatesta rimasto
con le milizie in Firenze, mantenuto l'osservanza dei medesimi
finchè non si fossero le cose assodate da non far temere il
tradimento; in ciò il Perugino ingannava Zanobi, non
già che quegli superasse quest'altro in astuzia, chè
anzi di gran lunga gli restava addietro; ma perchè lieve cosa
sia ingannare chi già inganna sè stesso.
La invidia che i giovani nobili, specialmente l'Antinori, portavano
profonda a Dante da Castiglione, contribuì non poco a
separarli dal popolo.
L'Antinori finchè mantenne la speranza di poter superare il
Castiglione, lo emulò lealmente; però, sentita che
ebbe la propria impotenza a pareggiarlo, non che a vincerlo, prese
ad astiarlo. L'astio, siccome questa perversa passione costuma che
tiene della natura del cancro, appena nato gli divorò ogni
affetto del cuore, gli inaridì qualunque altro o buono o
tristo affetto. Comecchè il truce astio gli ribollisse dentro
al cuore ardente e furioso, quivi stette contenuto alcun tempo prima
di giungere agli orli estremi: pure vi giunse, e l'alito della
coscienza che muore lo soffermò anche alcun poco su questa
ultima parte; poi il suo angiolo custode torse altrove la faccia, e
l'astio sgorgò, come torrente di veleno, per tutte le vene
dell'Antinori, - la sua lingua dardeggiò mortale come quella
del serpente, e dalla menzogna, dalla calunnia, dagli altri tutti
assassinii della bocca s'incamminò all'assassinio della mano.
Alle vecchie cagioni di odio che venni esponendo nel corso della
storia un'altra se ne aggiunse e fu questa. Correva in Firenze
l'usanza di giuocare nel carnovale al calcio. Le memorie greche,
latine e italiane raccolte sopra cotesto giuoco lo affermano di
origine antica; la quale cosa credo di leggieri ancor io,
perchè, considerando com'egli principalmente consistesse in
calci ed in pugni, penso queste essere nati gemelli con le mani e
coi piedi, che ogni uomo sa esistere contemporanei al padre Adamo
nel mondo. Il conte Giovanni dei Bardi, tra gli accademici della
venerabile Accademia della Crusca il Puro Alterato, ce ne lasciava
la descrizione scritta in lingua che fa testo per l'acconciatezza
delle parole soltanto, perchè in ciò che spetta alla
precisione, poco s'intende e a gran pena. Costumava farsi simil
giuoco sopra la piazza di Santa Croce: si divideva il campo in due
parti uguali e si circondava di steccato: i giuocatori, sebbene il
suddetto Alterato prescrivesse dovere essere ventisette per parte,
trovo nel Varchi che quello di cui mi occorre far parola fu giuocato
da venticinque. Si dividevano in quattro classi: i così detti
Innanzi, che stavano presso alla linea partitrice del campo, gli
Sconciatori venivano dopo, succedevano i Datori innanzi, chiudevano
finalmente i Datori dietro. Vestivano leggieri e spediti di colori
svariati, - rossi e bianchi, verdi e gialli, o simili; premio della
vittoria una gioia, una veste, una bandiera. Ai due capi del campo
alzavano due tende, dove stanziavano gli alfieri o capi delle parti,
i quali appartenevano alle famiglie per chiarezza di natali e per
fortune maggiorenti: questi mettevano tavola ai giuocatori e con
ogni ragione rinfreschi gli regalavano: in processo del tempo sotto
il principato vi si mescolarono burlevoli accessorii. Io ho
sott'occhio una stampa rara che dimostra il calcio fatto in Firenze
il dì primo maggio 1691, per le feste delle reali nozze del
serenissimo elettore palatino del Reno, colla serenissima Anna Maria
Luisa principessa di Toscana, dove tra i giuocatori pronti a
pestarsi di busse la persona compariscono introdotti genii e
amorini, poi Giunone da un lato ed Imeneo dall'altro, la prima in
guardinfante, l'altro con un immenso morione di penne, entrambi
abbigliati di manti a strascico; nè qui finisce: seguitano
Giunone, Flora con quattro giardiniere, Minerva con quattro amazzoni
e dodici ninfe, tutte, bene inteso, con guardinfanti ai fianchi e
piume in testa. Imeneo si tira dietro sei sacerdoti (e qui sta bene,
perchè non vi ebbe dio che tanto fosse dovizioso di vittime
come lui), le tre Grazie e per ultimo sei Virtù, ch'io a
confessarmi candidamente, non giungo a comprendere; solo vi scorgo
una Giustizia, ma con certi bilancioni spaiati ch'io non mi attento
quasi a sostenerla Giustizia, sebbene a bilance pari io in coscienza
non l'abbia mai veduta fin qui. Or dunque il giuoco incomincia col
battere della palla: un mandatore vestito di ambedue i colori della
livrea batte la palla al muro, talchè subito risalti in mezzo
agl'Innanzi, e si ritira. Gl'Innanzi accorrono tosto, e quanto
più possono si affaticano a far propria la palla; se ad uno
di loro viene fatto di côrla tra i piedi, gli altri si
affollano attorno e lo difendono ond'egli possa avviarla agli
Sconciatori; ma quando anch'egli arriva a distrigarsi dalla mischia;
non così lieve troverà la via dal suo posto a quello
degli amici Sconciatori, imperciocchè gli Sconciatori avversi
ecco che gli correranno sopra di fianco e lo costringeranno a
lasciare la palla, dove gli Sconciatori amici non lo sovvengano di
prontissimo aiuto: bolle il conflitto; se la fortuna seconda i primi
conquistatori della palla, dagli Sconciatori ella passa ai Datori
innanzi, e questi o col calcio o col pugno stretto le danno con
forza da spingerla oltre lo steccato di faccia. Quando poi, per la
prossima pugna degli Sconciatori e degl'Innanzi, i primi Datori non
abbiano comodo di bene assestare il colpo, inviano la palla ai
Datori indietro; ai quali, siccome posti in parte tranquilla,
è concesso agio di divisare il come e il dove indirizzarla.
Possono ancora gl'Innanzi quando sieno veloci di gamba e gagliardi,
prendere la palla e via correndo tra gli emuli destramente
serpeggiando portarla dall'opposto steccato con bell'onore di
vittoria; ma ciò pochi tentano, ed a pochissimi concede la
fortuna di poterlo effettuare. Come ognuno pensa, ciò non
avviene senza capi rotti, nasi pesti, occhi contusi e qualche volta
costole fracassate; molto più che l'onorevole accademico Puro
Alterato ci fa sapere come caschi nel gioco certa rifioritura a
crescergli leggiadria giovevole il prendere, quando capita il
destro, a traverso la vita l'avversario e sbattacchiarlo supino a
stampare la sua persona sopra l'arena, o attraversatogli il passo
con la gamba insidiosa mandarlo a rompersi i denti contro la terra:
gioconde venustà, piccolezze urbane che mettono proprio
addosso la voglia non solo di vederle, ma di pure provarle. Due
passate laterali della palla, o falli, formano una caccia a danno di
chi li commetta; una palla passata oltre lo steccato opposto fa una
caccia, due, due cacce; allora suonano trombe e tamburi, e i
giuocatori mutano di luogo.
I Fiorentini non vollero intermettere la usanza antica di giuocare
il calcio nell'anno dell'assedio, e all'amore del patrio costume si
aggiunse il desiderio di recare onta al nemico. Fecero pertanto
sulla piazza di Santa Croce una partita a livrea, venticinque
bianchi e venticinque verdi; premio della vittoria una vitella; e
per essere non solamente sentiti, ma veduti dal nemico, misero i
sonatori sul comignolo del tetto di Santa Croce, dove fu loro tratta
da Giramonte una cannonata, che passò alta e non offese
persona.
Tra i giuocatori erano Dante da Castiglione dalla parte dei verdi
Sconciatori presso il muro, e il Morticino degli Antinori dalla
parte dei bianchi Innanzi nella quadriglia di mezzo. Dopo varie
vicende del giuoco che qui non occorre rammentare, il Morticino, che
audace era molto e di membra snelle, standosene sbrancato dagli
altri, attendeva a ghermire la palla per portarla poi, correndo e
schivando gli avversari, dall'opposta parte del serraglio; cosa,
come vedemmo, altrettanto piena di pericolo che di gloria; gli
riusciva afferrarla; ratto procedendo ed avvistato, perviene ad
evitare gl'Innanzi, e già disegnava oltrevarcare gli
Sconciatori tra lo Sconciatore dritto alla fossa e l'altro traverso
alla fossa medesima, quando il primo correndogli addosso di fianco
lo costringe a piegare verso lo Sconciatore di mezzo; poi, non gli
parendo bastasse lo spazio, s'incammina verso lo Sconciatore
traverso al muro, e all'ultimo, non trovando nè anche qui
campo sufficente al suo disegno, corse alla volta del Castiglione
Sconciatore diritto al muro. Questi, che si sentiva grave della
persona, stava a canna badata, volendo con la diligenza supplire
alla tardità delle membra: onde, scorto che ebbe il Morticino
indirizzare i passi alla sua posta, gli fece punta addosso correndo
in linea retta mentre quegli si avanzava di scancio: ormai giunge
l'Antinori al mal passo; presto curvandosi s'ingegna sottrarsi alle
mani poderose di Dante, che gli cadono sopra tenaci come uncini di
nave e lo tirano a sè prepotentemente. La bestiale ira che
assalse l'Antinori non è cosa da potersi descrivere; pesta,
sgraffia, morde, si agita in modo che poco più farebbe, se
gli fosse entrata in corpo una legione di demonii. Ad ogni invito
del Castiglione di metter giù la palla risponde del pugno o
di un calcio, - poi si fruga, come per cercare il pugnale. Dante,
venutagli meno la pazienza, comanda con con gran voce:
«Innanzi a me, - fatemi spalla; e poichè non vuole
lasciare la palla costui, guadagneremo la caccia spingendo Innanzi e
palla fuori dello steccato.»
Così detto, lo avvinghia intorno ai fianchi e lo leva da
terra con maraviglioso piacere dei riguardanti, i quali,
parteggiando pressochè tutti per lui, col battere delle mani
e con voci alte e diverse applaudivano.
L'Antinori si ostina a non lasciare la palla, che anzi tiene
strettissima col braccio manco, e con la mano destra continua la
tempesta dei colpi sul capo al Castiglione; poi tenta nuova prova
per isvincolarsi. I suoi piedi giungevano appunto alle ginocchia
dell'avversario: pian piano gl'inoltra fin dietro alle giunture
della gamba, e allora, raccogliendo quanto aveva di forza, sferra
con i talloni tale urto che sperò ce ne fosse di avanzo per
traboccare il Castiglione supino. Pari colpo, racconta Omero, fu
usato da Ulisse contro Aiace Telamonio nei giuochi per la morte di
Patroclo, ma con diverso evento, chè Dante non cadde come il
Telamonio, ed anzi, piegato appena il ginocchio, sentì
invadersi i precordi di furore, e col furore nuova gagliarda.
Però quella continua grandine di colpi sul capo,
comechè lo riparasse non poco il berretto soppannato, glielo
intronava molestamente, dalla bocca grondava sangue e dal naso; gli
occhi aveva contusi in molto sconcia maniera; con le mani non poteva
aiutarsi, si provò co' denti; una volta gli riuscì
azzannare la manica della veste all'Antinori, - questi a sè
la trasse di forza e lasciandovene un brano riprese il martellare;
secondandolo meglio la fortuna una seconda fiata, il Castiglione
perviene a mordergli la nuda carne; - se adesso stringesse non
è da dirsi: - il sangue respinto nelle vene di sopra e di
sotto al morso vi faceva greppo, e pareva che le volessero
scoppiare, - i tendini rappresi non consentivano al Morticino di
bene stringere o bene distendere la mano, - un'angoscia cocente gli
tormenta il braccio fin lungo la scapola; sul punto di trarre un
guaito per vergogna ci raffrena, ma intanto scricchiola i denti e
manda fuori un sommesso mugolio.
I compagni di Dante, facendosi largo con gli urti, menando busse e
calci, acquistando animo quanto gli avversari ne smarrivano, dal
plauso popolare confortati, guadagnano terreno. Non fu però
senza contrasto la vittoria; spesso da una parte e dall'altra
uscivano di schiera giuocatori vomitando sangue e denti; più
spesso accorsero per ordine del maestro del campo esperti famigli
che trassero dalla calca alcuni caduti e tutti pesti, li portarono a
braccia nelle tende, dove gli affidarono alle cure dei medici: pur
finalmente dopo vari casi Dante si accosta allo steccato: la immensa
brama di balestrare oltre il Monticino, non gli concede di
appressarvisi: tuttavia allarga le gambe e tanto preme vigorosamente
le piante che il terreno gli si avvalla dintorno, - stringe
più forte con le braccia l'avversario, più acuti gli
addentra i denti nelle carni, - quindi da sè respingendolo
con veementissimo impeto, lo caccia a rotolare lontano nella
polvere, al di là dei cancelli.
Il popolo assurge dai suoi seggi e quasi percosso da delirio
prorompe in grida inestinguibili, la gloria del Castiglione levando
a cielo. Le trombe ne suonano il tronfo. Ogni buon popolano tenne
come sua la vittoria di Dante; tutti si congratulano, gli fanno
festa dintorno; le donne sventolano i pannilini dai balconi e gli
gettano a piene mani fronde di alloro.
Un tenebrore di morte fasciò gli occhi allo Antinori; stette
alquanto come morto, ma quando gli si avvicinarono i famigli per
aiutarlo, egli balzò in piedi da sè e volse attorno
trucissimi gli occhi. Quel volto, per ordinario pallido, ora livido
e nero, il sangue rappreso, lo sguardo torto empirono di spavento i
famigli, che non si attentarono accostarglisi. Come si narra
dell'antico Anteo, che quante volte traboccato a terra, tante si
rialzava di nuovo vigore ingagliardite le membra, costui se cadde
tristo, si levò iniquo: rotto ormai ogni freno, il pudore
postergato al mal talento, irruppe nelle più brutte
turpitudini per offendere il Castiglione: cospirare alla perdita
della patria e della libertà, purchè fruttasse
adempimento della implacabile vendetta, non solo reputa atto
indifferente, ma gli parve merito e dovere; e poichè, o
peccato nostro o naturale cosa, troppo più operative vediamo
essere la invidia e le malnate passioni che non l'amore della
virtù e gli affetti gentili, così gli venne fatto di
riuscire oltre le speranze. Tanto si travagliò costui che i
giovani nobili, delusi, desiderarono la tirannide dei Medici, come
partito unico di emanciparsi dal giogo del popolo.
Ad atterrire le menti sopraggiunsero giorni adri per casi
lacrimevoli e per sinistre apparizioni, chiamati dai volgari
egiziachi o più comunemente uziachi. Il sole scurò ai
ventotto di marzo, e con paura notarono che quantunque volte il sole
eclissava, seguivano in Firenze tristi accidenti. Pochi giorni dopo
fu decapitato Stefanino delle Doti per avere in compagnia di Piero
di Giovanni del Fornajo ucciso a tradimento messere Bernardino di
Arezzo, insegna dei signori Dieci, mentrechè usciva di
palazzo. Otto Cocchi, senza che se ne sapesse la cagione, di per
sè medesimo si tagliò la gola. Un soldato ferito, mal
comportando l'acerbità della piaga, fatto caricare da un
garzone lo archibuso, se lo sparò nel petto. In piazza dei
Signori avvennero tre risse, ed in più parti della
città si pose mano alle armi con ispargimento di sangue ed
offensione di molti. Lione di Agnolo della Tosa, percosso di un
sasso nel capo, mentre battevano la torre di San Giorgio,
uscì incontanente da questa vita. E poco prima una masnada di
Côrsi di quelli di Pasquino spensero a colpi di alabarda Andre
di Lionardo Ghiori e lo rubarono. I frati corrotti spargevano veleno
dai confessionali, l'animo ai più baldanzosi scrollavano. I
Palleschi già procedevano a testa levata, col motteggio e la
minaccia sulla bocca. Gli Arrabbiati non cessavano dal rammemorare
la profezia del Frate: che lo aiuto verrebbe quando ogni speranza di
soccorso fosse perduta; ma per questa volta con sembiante allibbito
e a fiore di labbra.
A crescere lo scompiglio ebbe parte quella Caterina dei Medici che,
allora fanciulla di undici anni, per comandamento della Signoria
conservata nel monastero delle monache Murate, destinavano i cieli
ad esercitare il truce ingegno sul reame di Francia. In costei la
ragione sopravanzando l'età, non pretermise argomento di
sovvenire alla fortuna della sua famiglia: dapprima vinse parte
delle monache e le indusse a seguitare la sua fazione, sicchè
il santuario sonò di preghiere discordi e più sovente
di male parole e di peggiori fatti; poi divenuta alquanto più
baldanzosa, mandò a presentare i sostenuti e i principali
Palleschi, quasi per confortarli a tener fermo, con paniere di
berlingozzi, nel fondo delle quali aveva effigiato per mezzo di
fiori l'arme delle palle. Onde, quando fu deliberato in consiglio
qual partito dovesse prendersi sopra di lei, Lionardo Bartolini,
repubblicano avventato, non senza riprensione dei più tepidi,
disse: «Quando t'imbatti nella vipera ècci forse
partito altro diverso da quello di correrle tosto sopra e di
romperla co' piedi? Io per me sostengo che la si abbia a mettere
spenzoloni da un merlo delle mura contro le prime archibusate del
nemico.» - Non pertanto vinse il più mansueto
consiglio, e per tôrre via gli scandali mandarono di queto
messere Salvestro Aldobrandini affinchè quinci la rimuovesse
e nel monastero di Santa Lucia la traslocasse.
Ma sopratutto fu grave sventura la perdita di Empoli. Vi avevano
mandato, come altrove dicemmo, per commessario Andrea Giugni, uomo
conosciuto sempre svisceratissimo della libertà e nella
gioventù sua piuttosto audace che animoso, ma di maniera che
sogliono essere i giovani poco civili. Sul quale proposito il Nardi,
santissimo petto, pone una avvertenza nelle sue storie che importa
molto ripetere, onde gl'Italiani la meditino e se ne giovino:
«generosità di animo, che abbiamo per esperienza di
questa guerra veduto essere molto differente dal valore dell'arte
militare, come ancora per l'opposto abbiamo visto molti giovani di
vita modesta e civile essere diventati nella guerra valorosi
soldati.» E al Giugni aggiunsero per capitano o sargente
maggiore Piero Orlandini, il quale reputarono infellonito contro i
Medici perchè un suo consorto, chiamato del medesimo nome di
lui, avendo in tempo di sede vacante scommesso con Giovammaria
Benintendi che il cardinale dei Medici non sarebbe papa, quando il
Benintendi gli disse che lo avesse a pagare, rispose voler vedere
prima s'egli era canonicamente stato fatto; quasi intendesse
inferirne che, non essendo legittimo, non poteva esser papa: per le
quali parole, preso e collato, gli fu dopo poco ore barbaramente
mozza la testa nella corte del bargello; molto più poi che
Francesco Ferruccio non rifinava nelle sue lettere ai Dieci di
raccomandarlo come uomo assai pratico della guerra e che avrebbe
fatto loro onore, chiedendone la promozione come ricompensa alle
fatiche sostenute, che intendeva durare in pro della patria; ma
costui, rotto alle lascivie e solo intento ai grossolani diletti
della vita, esercitava le armi come mestiero atto a procacciargli il
pane giorno per giorno, parato sempre a servire quello che glielo
crescesse e meglio glielo accertasse.
Il principe di Orange, considerando di quanto grave momento fosse
per l'esito della impresa il conquisto di Empoli, deliberò
fare ogni sforzo per ottenerlo: comandò pertanto a Diego
Sarmiento vi andasse ad oste con tutte le sue bande dei Bisogni,
alle quali, per dare maggior nervo, aggiunse alquanti soldati vecchi
del marchese del Vasto, impose a don Ferrante Gonzaga vi cavalcasse
con tutti i suoi cavalieri, e commise al signor Sampietro maestro
delle artiglierie il carico di trasportarvi buona parte dei cannoni
del campo; - spedì ancora con diligenza al signore Alessandro
Vitelli che stanziava co' suoi su quel di Pistoia quinci si movesse,
e quanto meglio avesse potuto celato e spedito si accontasse col
Sarmiento sotto le mura di Empoli. Ciò fu ottimo appresto di
guerra. Nè pretermise gl'inganni, in cui forse, più
che nelle armi, riponeva fidanza. Avuto a sè Giovanni
Bandini, gli disse: essere per commettere grave imprudenza, della
quale la prospera fortuna poterlo giustificare soltanto, sprovvedere
il campo dei migliori combattenti, di cavalli e di artiglierie per
espugnare Empoli; volere ad ogni costo prendere quella terra e
prenderla presto; lo sovvenisse in quella sua estremità;
l'opera e il consiglio suoi assicurarlo meglio di venti bombarde;
andasse, vedesse se v'era modo appiccare alcuna pratica con quei di
dentro; nelle sue mani depositare il proprio onore e la propria
vita: - e a queste aggiunse tante altre di quelle parole che i
signori sanno trovare quando hanno bisogno degli altrui sussidi.
Promise il Bandini e mantenne oltre la promessa;
imperciocchè, essendosi aggiunto Nicolò Orlandini,
fuoruscito di Firenze e sviscerato Pallesco per soprannome il Pollo,
mandò un segreto messaggio al capitano Piero Orlandini, sua
conoscenza vecchia, per fargli palese che, se avesse potuto
ascoltarlo, egli era per dirgli parole che lo avrebbero reso il
più lieto uomo del mondo. Si strinsero tutti a parlamento, e
il Bandino col Pollo, parte col mostrargli la causa della Repubblica
perduta, parte con buona somma da pagarglisi di presente, molto
maggiore in futuro, senza troppa difficoltà svolse
l'Orlandino a fare il piacer suo. Però l'Orlandini lo
ammoniva sul Giugni non potersi contare, avvegnachè ben fosse
ignavo e trascurato, ma non pertanto zelantissimo della Republica;
ancora doversi prima ostentare una grande dimostrazione di forza e
battere furiosamente le mura, dacchè i terrazzani, le
reputando insuperabili, e di vettovaglia non patendo difetto, se ne
stavano baldanzosi; e poi quel Ferruccio gli aveva esaltati in modo
che da senno credevano potersi, non che dagli uomini cogli
archibusi, ma dalle stesse donne con le rocche difendere la terra.
Il Bandino, lasciando l'Orlandino bene edificato, conferisce
partitamente col Sarmiento, e convengono piantare due batterie, una
da parte di tramontana, l'altra verso ponente; alla prima
comandò il Sarmiento, alla seconda il Vitelli. Il Sarmiento,
cosa per quei tempi stupenda, senza punto ristarsi, trasse trecento
colpi di cannone: perchè parte di un puntone e della muraglia
si sfasciò con terribile rovina.
Anche a' giorni nostri chiunque ne avesse vaghezza, soffermandosi in
Empoli, potrebbe contemplare le stimmate impresse sulle mura di
quella terra dallo straniero in pro della tirannide domestica; ma
chi passa per Empoli ad altro non attende che a sollecitare la muta
dei cavalli per attingere presto la Pafo d'Italia; e sì, che
se l'aspetto delle margini sul seno del guerriero reverenza ispirano
e amore, amore e reverenza più grandi dovrebbero infondere
negli amici le ferite della nostra città. E in questa parte
sieno grazie alla tirannide, che lasciava a qualche nuovo Antonio la
veste insanguinata di Cesare da agitarsi un giorno davanti al popolo
raccolto in benefizio della libertà. - Io mi dilungo dal
vero: non vive più popolo, bensì un tristo gregge di
animali senza occhi, senza orecchi e senza cuore, - una mandra di
enti abbietti assai più che lo stesso tiranno non desidera:
egli cessò da gran tempo di tormentarli, perchè non
riusciva a strappare loro nè anche un sospiro; li percuoteva
sul capo, rispondevano con un sorriso; le mogli ne stuprava e le
figlie, e gli profferivano grazie; a qualcheduno gittava la testa di
suo padre recisa, ed egli curvo la riceveva e ossequioso come
presente di re. Io continuo la storia.
Rovesciata la muraglia, gli Spagnuoli con furiosissimo impeto si
cacciarono giù nel fosso per salire all'assalto: giunti in
fondo, troppo tardi si accorgono del fallo: quivi la terra melmosa
si avvalla loro sotto i piedi, sicchè rimangono
inestricabilmente impantanati; e quei della terra, inanimati dal
capitano Tinto da Battifolle, gli sfolgorano con gli archibusi, gli
ammaccano co' sassi e spesso uccidono a un punto e seppelliscono
sospingendo loro addosso interi cantoni della muraglia intronata: e'
fu mestiere ritrarsi. Dalla parte di occidente il Vitelli
rovesciò spazio non minore di muraglia ma, capitano
più circospetto di don Diego, abborrì avventurarsi in
quel fondo e si rimase contento a quella prima prova. Nella notte,
che come è madre di alti partiti agli animosi così
partorisce le paure e i sospetti nei codardi e i tradimenti nei
perversi, si restrinsero insieme i più doviziosi di Empoli,
tra i quali la storia ricorda Nicolò di Quattrino e Francesco
di Tempo, e agli adunati l'Orlandino espose: - come essi dal
resistere più oltre molto avessero a perdere, nulla a
guadagnare; non volessero mostrarsi tenaci a difendere la
libertà di Firenze più di quello che si fosse mostrata
la medesima Firenze; già avere ella capitolato; Ferruccio
disfatto esulare di Toscana; ormai le cose della Repubblica
disperate del tutto; in quanto a sè, uomo di guerra, nulla
potere aspettarsi di buono dalla pace; non pertanto increscergli
forte delle loro famiglie e di loro; si accordassero ora che si
trovavano in tempo buono; non vedevano lo sbigottimento dei soldati
dopo che avevano veduto cascare morto su i bastioni il suo capitano
Tinto da Battifolle? pensassero qual prova avessero fatto le mura
della terra, che il troppo fidente Ferruccio sosteneva bastevoli a
qualunque più fiera batteria. In cui fidavano? No certo nel
Giugni, badassero che un giorno o l'altro cotesto accidioso,
sè e i soldati acconciando con gli avversari, non lasciasse i
terrazzani a distrigarsi come meglio sapessero con loro. Dessero
pertanto spesa ai propri cervelli; egli ammonirli a fine di bene. -
Senz'altro consiglio convennero avesse a rendersi la terra, salve le
persone ed i beni; e fu tra loro fermato l'ordine della resa.
Su l'ora del desinare del giorno seguente, per cura dei mentovati
cittadini, e di Piero, si tolsero le artiglierie e le guardie da
certa parte di mura, e gli Spagnuoli non mettendo tempo fra mezzo
corsero a salirvi sopra. Superati appena i ripari, si sparsero per
le diverse vie gridando: Sacco, sacco! - e quanti cittadini empolesi
capitarono loro davanti, tanti ammazzarono; e cui rammentava la
capitolazione, irridendo, rispondevano non avere camminato delle
miglia più di mila per non acquistare roba in Italia: le
libidini tacquero, - ma di fatti crudeli, e più degli avari
non ne fu penuria.
Con la perdita di Empoli comincia l'agonia della Repubblica
fiorentina. I nemici accampati sotto Firenze ne fecero festa, e in
segno di allegrezza spararono tutte le artiglierie; i Fiorentini
all'opposto ne sentirono danno e dolore inestimabile: - persero la
vettovaglia quivi in copia raccolta, - rimase loro preclusa strada a
procurarsene della nuova, - l'animo dei cittadini cadde, e per prova
vediamo niente contribuire tanto ad attirarci addosso una sventura
quanto temerla e aspettarla.
Andrea Giugni e Piero Orlandini ebbero fama di traditori, e come
tali furono dipinti; la Quarantia li condannò alla pena
infame, comecchè contumaci, i loro beni posti nel fisco, le
case sfasciate. Tutta speranza di salute riposta nel Ferruccio. La
fortuna ha deposto su quel capo la vita o la morte delle
libertà italiane, tre e più secoli di progressione
verso l'ordinato vivere civile o di storno verso la barbarie.
Condizione dolente per un popolo, quanto gloriosa per un individuo,
quando la esistenza del primo s'immedesima al palpito del cuore del
secondo. Il più delle volte rovinano entrambi: quando invece
riescono a stare, la vita di cotesti uomini forma un'era nuova nella
durata dei secoli.
I magistrati di Firenze confermano Francesco Ferruccio commessario
generale e gli conferiscono autorità dittatoria, cioè
quanta n'esercitava la medesima Signoria.
Mentre si disperava del come fargli pervenire la commessione, il
Pieruccio si offerse parato di portare la carta e condurre incolumi
fino a Volterra Marco di Giovanni Strozzi chiamato Mammaccia, e
Giovambattista di Girolamo Gondi per soprannome Predicatore, eletti
commissari di cotesta città in luogo di Francesco Ferruccio.
Ora stiamo a vedere quali saranno le imprese di questo uomo, che in
pochi mesi ha superato in fama i capitani del tempo, e già si
avvicina gli antichi.
La storia non riescirebbe piena, nè potrei acconciamente
proseguirla, dove io tralasciassi di raccontare i modi adoperati dal
Malatesta per ispegnere la virtù dei giovani fiorentini;
molti essi furono, e tutti iniqui: cominciò ad affermare
deboli i ripari, non già perchè fossero gli edificati
mal sicuri, che invece erano sicurissimi, ma pochi: e siccome le
ragioni ch'ei ne dava, avevano apparenza di vero, così si
attese a soddisfarlo. Si alzarono nuovi puntoni e nuovi cavalieri,
si trassero cortine, si cavarono fossi, nulla insomma si pretermise
di quanto può riuscire necessario od utile alla maggior
fortificazione della città; in ciò egli s'ingegnava,
onde i giovani, spossati da coteste opere manuali, non volgessero il
desiderio al combattere. I giovani per lo contrario s'infastidirono
presto di simili fatiche, e considerarono che se una città
senza ripari è debole, molto più debole è poi
quando ha ripari, e non cittadini animosi a difenderli. Sparta
difesero per molto tempo gloriosamente i petti di cittadini, non
già muraglie di sassi: - le iattanze nemiche gli offendevano,
- statuirono far prova di sè, anelarono i campi aperti, il
sole delle battaglie.
Malatesta, assottigliandosi a trovare suoi espedienti, ora gli
armava e rassegnava, prometteva condurli contro al nemico, e quando
gli aveva fatti rimanere otto o nove ore in procinto di muovere, gli
rimandava sotto vari pretesti; quando non poteva fare altrimenti,
ingaggiava scaramucce parziali, o, come allora dicevano, badalucchi
senz'altro fine che quello di scemarli con le morti e con le ferite.
Però il tristo Perugino sortì esito diverso affatto da
quello che si era dato a sperare: i giovani si sbigottivano meno
delle perdite che non s'infiammavano pei vantaggi, accorgendosi le
spade loro tagliare quanto quelle dei nemici; videro che, per essere
soldati, bastava l'animo disposto a vincere o morire, - spesso
cedevano alla disciplina del nemico, più spesso il nemico
cedeva all'impeto di loro. Ebbe fama nei tempi un fatto di arme tra
cavalieri, nel quale si portò tanto egregiamente dalla parte
dei nostri Iacopo Bichi che, il principe di Orange dovè
accorrere con tutti suoi capitani a rinforzare la battaglia se non
voleva vedere quanti erano i suoi cavalieri disfatti. Poco dopo si
presentò un trombetto a Malatesta, esponendo che un
cavagliere imperiale desiderava rompere una lancia con alcuno quei
di dentro. Ottenne l'onore pericoloso il capitano Primo da Siena: si
scontrarono i due cavalieri presso ai fossi fuori delle mura, dove,
dopo alcune scorrerie condotte con maestrevole vaghezza, che ambedue
cavalcavano buono e poderoso destriero, spronarono impetuosi ad
incontrarsi; la lancia del cavaliere nemico percosse l'arcione della
sella del capitano Primo, e quantunque ferrato lo passò oltre
più che quattro dita. Se il colpo toccava alcun poco
più alto, pel capitano Primo era finita; - l'asta si ruppe
rasenta al ferro, e per la gran forza il troncone uscì di
mano al cavaliere. Il nostro gli pose la mira al petto con tanta
possanza che la lancia si spezzò in più parti, una
delle quali scorrendo infranse il bracciale e ferì il nemico
nella spalla sinistra. Poco dopo avvenne altra zuffa, dove Giometto
da Siena si portò con indicibile valore, e di leggeri sarebbe
riuscita battaglia campale, se una dirotta pioggia sopravvenuta
all'improvviso non avesse scompartito i combattenti.
Nè vuolsi lasciare inonorato il caso e il valore di
Anguilotto da Pisa, di cui la fine tanto si rassomiglia a quella di
Siccio Dentato, nome inclito nelle antiche storie romane. Costui,
avuto sdegno col conte Piermaria da San Secondo, passò agli
stipendi di Firenze con parte della sua compagnia, cosa acerbamente
intesa non pure dal conte, ma dal principe medesimo, e della quale
statuirono prendere, potendo, insigne vendetta. Anguilotto, come
colui che ardimentoso era molto, non si rimaneva mai dall'uscir
fuori qualunque volta gliene capitasse il destro, quasi per isfidare
i nemici. Ora avvenne che, tenendogli le spie addosso (o come pare
più verosimile, da segreti avvisi del Malatesta), furono
avvertiti sarebbe Anguilotto uscito da porta alla Croce con poca
compagnia per iscortare certi contadini che andavano per legna; gli
tesero insidie, e trascorso ch'ebbe appena la imboscata, che avevano
posto grossissima, gli si precipitarono contro i principi Orange e
Salerno, il duca di Melfi ed altri dei principali con più di
duemila fanti, don Ferrante Gonzaga con cinquecento cavalieri, e lo
posero in mezzo. Tanto potè in costoro una brutta ira che non
vergognarono andare con mezzo esercito a combattere un uomo!
Anguillotto, vista la piena, si tenne morto, ma non per questo
s'invilì nell'animo o si abbassò ad atto che paresse
codardo; anzi, deliberato in tutto di morire da prode uomo com'era
vissuto, si accostò ad un albero e quivi prese a menare le
mani; lo investirono primi il conte Piermaria con sei cavalleggeri,
e a quello che più lo stringeva dappresso vibrò
sì gran colpo che lo trafisse da un lato all'altro: sovvenuto
da Cecco da Buti, suo luogotenente, continuarono a combattere
finchè durarono loro le armi ed il vigore di sostenerle.
Anguillotto, poichè ebbe tagliata la punta del partigianone,
trasse la spada e, pur sempre ferocemente menando, tanti ne uccise
che si era innalzato come un riparo di cadaveri davanti: ma la spada
ecco gli è diventata troncone, il taglio ottuso, e per
parecchie ferite gronda sangue, sicchè opprimerlo adesso
riusciva agevole, e non pertanto sbigottiti dalla stupenda strage
gli assalitori nicchiavano. Bellanton Corso correva a soccorrerlo; -
Giovanni da Vinci, il quale era a guardia di porta alla Croce, non
patendo la morte di quel generoso, dimenticando l'ufficio di
capitano, lascia la guardia e con certi fanti si muove ratto alla
riscossa; - Iacopo Bichi apprestati i cavalli sprona in ajuto di
lui; invano però; in quel punto Anguilotto percosso di una
zagagliata nel petto casca a terra senza riportarne altro danno
tanto lo difese il fortissimo giaco! Allora il conte di San Secondo
si getta giù di sella e, sovvenuto da un suo servitore, lo
scanna prima che ei si potesse rimettere in piedi. Cecco da Buti,
visto morto il suo capitano, getta l'arme e chiede i quartieri.
«Questi sono i miei quartieri,» risponde il conte, e gli
tira a tradimento tale una stoccata nel petto che andò a
riuscirgli dietro le spalle: poi tutti salirono a cavallo e
fuggirono via. La coscenza dava loro il sembiante di ladroni.
Italiani sperperavano soldati italiani in pro della tirannide
straniera e in danno della libertà della patria.
Il popolo, racconta Benedetto Varchi nell'undicesimo libro delle sue
Storie, ormai infastidiva per la lunghezza dell'assedio, e i
più prudenti conoscevano quanto più s'indugiava, e
più si peggiorava: «perciocchè con altro
vantaggio si fanno le cose quando altri può non le fare che
quando uno è costretto a farle; e tale ajuta uno che si regge
in piè, che, veduto sdrucciolare, non solo non lo sostiene,
ma gli dà la pinta.» Mormoravano dunque in Firenze, ed
una voce universale accusava Malatesta di non voler combattere;
ond'egli costretto, datone prima l'annunzio agli avversari,
uscì fuora «e disse, aggiunge il citato storico, che
per contentare il popolo, ma in fatto per isbigottirlo e aver
colorata ragione di non combattere, che voleva uscir fuora, ma che
bisognava prima tentare come trovasse i nemici per poter poi con
maggiore vantaggio assaltarli.» Uscì di fatto, e suo
malgrado fu combattuta tale battaglia (dal Varchi con tanta
evidenza, estensione e particolarità esposta da non potere
aggiungervi, nè anche volendo, parola), che avrebbe dato per
certo vinta la guerra e rotto il campo, se Malatesta ordinava
uscissero tutti ad azzuffarsi col nemico. Nessuna occasione si era
presentata migliore di questa dal principio dell'assedio in poi.
Stolto al pari che iniquo, tradì a un punto l'Italia e
sè stesso, come vedremo tra poco.
Un'altra fazione la quale senza tradimento del Malatesta avrebbe
dato vinta la guerra, o almeno posta la città in condizione
di accomodarsi a buoni patti, fu questa. Il signor Stefano Colonna,
per riacquistare la grazia presso l'universale, che conosceva avere
perduta pel fatto di Amico da Venafro da noi nei precedenti capitoli
accennato, propose un assalto notturno, noto a quei tempi col nome
d'incamiciata, contro il campo dei Tedeschi stanziati a San Donato
in Polverosa, al comando dei quali in luogo del conte di Felix era
stato preposto il conte Ludovico di Lodrone. Dove fosse riuscito, il
danno della perdita di Empoli si ristorava, perchè veniva ad
aprirsi la via di Prato e di Pistoia, donde potevano ricavarsi
vittovaglie e sussidi. Che poi Prato e Pistoia, comecchè di
presente sottoposte al nemico, fossero per mutare parte, non era da
dubitarsi, essendosi questa ultima città già levata a
rumore e cacciato via il commissario del papa con uccisione di molti
soldati spagnuoli. Conferito il suo disegno al gonfaloniere e agli
altri magistrati, lo commendarono assai, e gli dissero parole di
conforto, onde si affrettasse di mandarlo a compimento. Richiesto
Malatesta si turbò, si oppose, disse questo pensiero
follìa, andasse chi voleva andare, per lui si sarebbe
rimasto, le regole della milizia impedirgli di spingere a morte
sicura le vite degli uomini. - Non vedevano il campo dei Tedeschi
munito e insuperabile? Non sapevano starvi a guardia un capitano
vigilantissimo'? - Riuscirono le sue parole invano: vollero
ciò nonostante combattere: in questo mentre calò la
notte. Declinava la terza alla quarta vigilia, quando due uomini
appiattati dietro certe macie di sassi videro uscire dalla porta di
San Piero Gattolino un uomo con molto riguardo e prendere la volta
del campo nemico. Si rammenterà il lettore come Malatesta,
stando in sospetto di sè, lasciasse l'orto dei Serristori sul
Renaio e se ne andasse ad abitare la casa di Bernardo Bini su la
strada maestra di San Felice in piazza presso a San Pier Gattolino,
situazione che lo rendeva padrone della porta, e lasciava in sua
facoltà introdurre e mandar fuori quanta più gente gli
piacesse. I due sconosciuti trassero dietro all'uscio, e
all'improvviso gli caddero addosso per fermarlo, lo tennero,
gl'imposero di tacere, avrebbe salva la vita; ma siccome egli non
rifluiva di chiamare ad alta voce soccorso, gli dettero delle
coltella nella gola, e poi caricatoselo sopra le spalle con presti
passi attinsero porta San Miniato, dove scambiati certi segni,
furono loro aperte lo imposte e accolti dentro.
Erano Dante da Castiglione, di fresco eletto capitano della banda
della milizia sotto la insegna dei Vaio, e il capitano Giovanni da
Vinci. Costoro deposero il cadavere in mezzo della strada, e fatti
portare de' torchi, di leggieri lo riconobbero per un soldato
côrso, di quelli del Malatesta, travestito; lo frugarono
diligentemente, ma non gli rinvennero addosso alcuna carta; agevol
cosa fa argomentare mandarlo Malatesta ad avvisare il principe del
prossimo assalto. Si affrettarono pertanto a portarne la nuova al
signore Stefano, quando la prima persona che occorse loro davanti
nei quartieri di quel capitano fu Cencio Guercio, il quale per
ordine del suo signore esponeva, poichè ad ogni costo
intendevano combattere, volere Malatesta essere partecipe dei
pericoli di cotesta impresa, - non consentire la sua natura si
dicesse: fu sotto di Firenze combattuta una fazione senza il
capitano generale dell'esercito fiorentino, - manderebbe primi i
più valorosi tra i suoi soldati, ne darebbe la condotta come
pegno di onore a quelli tra i suoi capitani che meglio si fossero
comportati nella guerra presente: alle quali parole con certo suo
piglio soldatesco rispondeva il Colonna: non avere mai con mal animo
sofferto di prendere i suoi compagni l'arme a parte della gloria,
sol qualche volta essergli doluto di partire con loro il pericolo;
venisse il signore Malatesta, sarebbe accolto con la reverenza
dovuta al grado e al valore di lui. Cencio Guercio ossequiando il
Colonna si partiva. Allora si trassero avanti il Castiglione e
Giovanni da Vinci esponendo quanto era loro avvenuto; su di che il
signore Stefano si espresse con simili parole: - «Certo
cotesta volpe perugina qualche mal tiro ci apparecchia, ma come
volete voi che io rifiuti il vostro generale supremo? Quando si fa
quello che non si deve, c'incoglie quello che non si crede.» -
E ciò disse un poco turbato, perchè in suo segreto non
sapeva darsi pace che a lui avessero i Fiorentini anteposto il
Baglione.
Conferito col Malatesta l'ordine dell'assalto, due ore prima del
giorno il signore Stefano uscì di porta a Faenza conducendo
seco Giovanni da Turino, Virgilio Romano, Ivo Biliotti, Antonio
Borgianni, Gigi Niccolini, Zannone da Borgo, Piero Bolzoni,
Cristofano da Fano, Domino e Parigi da Fabbriano, Morgante da Urbino
e tutta la banda del Vaio condotta da Dante da Castiglione; fra
tutti oltre due mila. Da porta del Prato uscì Pasquino Corso
e Cencio Guercio col colonnello dei soldati del Malatesta: questi
poi uscì per la porticciuola della Mulina, attelandosi con
millecinquento fanti lungo la riva dell'Arno, acciocchè se i
nemici avessero voluto soccorrere i Tedeschi, non potessero varcare
il fiume. Il signore Stefano e Pasquino dovevano percuotere il campo
da due parti: prima il Colonna, Pasquino quando chiamato; scelse
quegli la più lunga via, questi la più breve. Cencio,
percorsa mezza della sua strada, disse a Pasquino, di lasciarsi
dietro parte del colonnello e procedere con l'altro alla volta del
nemico: il qual consiglio sembrando stolto a Pasquino, l'altro
riprese andasse pure innanzi, ch'ei troppo bene sapeva quello che si
facesse. S'inoltrano e, giunti presso ai ripari, Cencio, messa la
corda sopra l'archibugio, lo sparò contro una sentinella,
gridando ad alta voce: Svégliati, Tedesco, chè siamo
venuti a portarti treggia di piombo. - Il campo, che, essendo il
caldo grande e la notte inoltrata, se ne stava a dormire, fu subito
sveglio, e corse frettoloso all'arme. I Perugini molto di leggieri
superarono i primi ripari, ed inondati gli alloggiamenti, quivi
quanti trovarono o ignavi, o vecchi, o infermi nei letti tanti ne
uccisero poi secondo il mal costume dei soldati si sbandarono per
saccheggiare. Il signore Stefano, tutto cruccioso per la
contravvenzione all'ordine stabilito si voltò al Castiglione
e gli disse. «Messer Dante, comincia a manifestarsi il
Malatesta.» - Quindi accelerando i passi dette dentro i
ripari, e commecchè trovasse svegli i soldati, con tanto
impeto gli assalse che presto vinse le prime trincee, ed oltre
procedendo prese ancora le seconde: molto più che, ad
accrescere lo spavento dei nemici, Giovanni da Turino aveva portato
seco alcune trombe di fuoco, le quali gittate tra mezzo ai Tedeschi
sonnacchiosi partorirono effetto maraviglioso. Il conte Ludovico
facendo buon viso alla fortuna formò uno squadrone dei
più valorosi, ai quali impose abbassassero le picche e
stessero fermi. Il signore Stefano manda subito ad avvertire
Pasquino che lasci di inseguire chi fugge e si affretti a
soccorrerlo, e intanto si spinge ad affrontare il Lodrone. Ivo
Billiotti comportandosi con la consueta sua audacia fu quegli che
gridò: «Su, valenti uomini, lasciamo gli archibugi e
mescoliamoci.» - Obbedendo volonterosi al consiglio si
cacciarono tra i ferri delle picche, combattendo più
micidiale battaglia: pel bujo della notte si udivano gemiti, ferri
cozzantisi e un chiamare affannoso che faceva l'uno dell'altro, non
sentendoselo più a canto per sospetto non fosse caduto
ferito. I giovani Fiorentini, per quello che assicurano gli storici,
gareggiarono co' soldati vecchi, e assai chiaramente dimostrarono
come per essi si sarebbe potuto salvare la patria, se un capitano
meno tristo lo avesse voluto. Intanto il signor Stefano non vede
comparire il soccorso di Pasquino, e ben si avvisa della cagione. Il
valore dei prodi uomini che gli stanno d'intorno lo assicura di non
perdere, ma, per vincere conosce abbisognare di sforzo maggiore;
tuttavolta riappicca con sempre crescente avventatezza la zuffa
contro i Tedeschi, che si difendono con l'estremo della possa loro;
stanno davanti alle percosse saldi come muro di bronzo. Qui fu che
il Colonna rilevò due ferite, una nella bocca con perdita di
più denti, l'altra nelle parti pudende. Così si
travagliavano da una parte e dall'altra quando, cominciando farsi
giorno, Malatesta, udendo il suono delle trombe e vedendo che i
cavalli nemici si apparecchiavano a guadare il fiume, invece di
opporsi, come era suo officio, richiamò Margutte Perugino,
che aveva mandato avanti con cento cinquanta archibusieri, e Cencio
cogli altri soldati. Dante da Castiglione, accorgendosi del brutto
abbandono, corre alla volta del Colonna e lo prega a ritirarsi; egli
rimarrà a sostenere l'assalto. Il signore Stefano soldato
vecchio, a cui pareva troppo grande vergogna lasciare il campo
mentre il Castiglione, giovane e nuovo nell'arme, vi si mantiene,
rifiuta. Non riuscendo Dante a persuaderlo con le parole, si volge
ai circostanti ed esclama: «E che! lascerete voi finire il
valente capitano Colonna così malconcio della persona?
Menatelo via dal campo, conservatelo all'onore della milizia
italiana.» - Lo trassero a braccia; appena raggiunse il
Malatesta, che si era fermato davanti la porta della Mulina.
«Gran mercè, capitano» gli disse, «il
soccorso di Perugia vale peggio del soccorso di Pisa: questo venne
tardi ma il vostro non giunse mai.»
«Signore Stefano, non vedete voi che i cavalli di Orange hanno
già presso che guazzato Arno? Se si spingevano tra la porta e
me, dove sarei andato io?»
«All'inferno, dove dovresti essere andato già da gran
tempo», gli rispose concitato il Colonna, a cui l'ira toglieva
la consueta prudenza.
Indi a poco sovraggiungevano i giovani fiorentini non in sembianza
di fuggiaschi o di perdenti, bensì invece di uomini che non
avevano vinto come voleano. Anch'essi comparvero carichi, non
già di preda a modo dei soldati, specialmente quelli del
Malatesta, sibbene dei fratelli loro morti e feriti, che
pietà cittadina e gentile alterezza aveva persuaso a non gli
lasciare sul campo. In fondo della colonna si vedea un fitto
polverio, e quinci muoveva strepito d'armi, uno sfidarsi
scambievole, un dirsi ingiuria. Tentavano i più animosi tra i
nemici sturbare la ritirata; più volte si avventarono, e
sempre furono con molte morti respinti da Dante da Castiglione e da
alquanti incliti giovani che gli faceano corona. Pur finalmente
accorgendosi gli Oragiani essersi anche troppo inoltrati sotto il
tiro delle artiglierie, voltarono frettolosi le spalle. I nostri si
fermarono, e quelli che poterono inviarono al nemico fuggente un
ultimo saluto di piombo e di fuoco.
Al termine estremo della colonna ecco comparisce Dante; gli è
uscito l'elmo di testa, ha i capelli rabbuffati e sordidi di
polvere, la faccia nera dal fumo della polvere; stringe nella destra
un troncone di spada; preoccupato dalla intensa passione, senza pure
vederlo si accosta al Malatesta. Questi raggiante in volto
occorrendogli lo chiama a nome; Dante lo guarda traverso, poi torce
la persona, come si fa quando a caso s'incontrano gli oggetti
abborriti. Insiste il Perugino e giuntogli sopra, si curva sul mulo
per abbracciarlo e baciarlo. Non lo sostenne quell'anima sdegnosa, e
da sè ributtandolo proruppe:
«Va' va'; tutto questo ho già letto nell'evangelo di
San Matteo, e vi ho letto eziandio un'altra cosa che tu non attendi,
oppur ti sovrasta, il capestro e la infamia.»
«Messer Castiglione, uditemi per Dio.... Una forte gazzarra mi
ha percosso dalla parte del monte; io mi sono tratto indietro forte
temendo non assaltasse il principe di Orange i bastioni di San
Miniato. Incolpatene i giovani lasciativi a guardia, che hanno messo
fuoco alle artiglierie in festa della rotta dei lanzi.»
«E dell'uomo mandato stanotte ad avvisare l'Orange chi ne fu
colpa, Baglione? Credi forse che Dio non sia, o credi che, essendo,
non ti abbia egli a far render ragione dei prodi uomini morti in
battaglia pei tuoi tradimenti? Guai a te, Malatesta! Pensa al
fine!»
«Ormai mi sembra», favellava Cencio Guercio mentre il
Castiglione si allontava, «che sul conto nostro vadano tutti
d'accordo.»
«Ma era quello che pensava ancor io; ecco il mal passo: ormai
non possiamo ingannare più nessuno; d'ora innanzi ci conviene
procedere a visiera levata.»
In questo mezzo tempo, quasi tante e siffatte sventure non
bastassero, sopraggiunsero novelle di Francia, le quali diceano Sua
Maestà Cristianissima negare ai mercatanti fiorentini
residenti a Lione i sessantamila scudi d'oro del sole già dai
medesimi a lui prestati nelle scorse urgenze, a fine di potere
sovvenire con quelli la patria ridotta in tanto estremo; anzi avere
usato Sua Maestà queste espresse parole; che, nel caso
avessero i Fiorentini a contendere con Cesare, non volea che
ciò facessero co' suoi denari; e poichè l'oratore
insisteva a rappresentargli che li danari resi a chi gli ha
imprestati non possono dirsi propri, ma altrui, egli, mostrando
avere quei discorsi in fastidio, aveva alzato le spalle e risposto
più nulla. Sapersi all'opposto, e per mille riscontri
confermarsi, che il re desiderava tornasse Firenze sotto il dominio
dei Medici, e in ciò adoperarsi con tutti i nervi per far
quindi a Clemente papa palese pe' suoi interessi giovare meglio i
trattati di un re di Francia che non le armi di un imperatore;
essere egli parato per tanto a qual si voglia infamia a patto di
venire a capo di nemicare Arrigo d'Inghilterra e il pontefice contro
Carlo, stringere nuova lega e vendicare con nuove battaglie le
offese apportate alla sua anima superba. Essersi gli oratori rivolti
a madama Luisa, e averle rammemorato le tante e con tanti giuramenti
reiterate promesse di soccorrere i Fiorentini, restituiti appena che
le fossero i nepoti: farla adesso lieta di loro presenza i nepoti;
ricompensasse dunque la fede della lealissima città di
Firenze, la quale col mantenere viva la guerra aveva contribuito non
poco alla restituzione degli incliti principi: alle quali
esortazioni la invereconda donna avere risposto non volere
più guerra, essere pur tempo il mondo si pacificasse, tratta
appena da un mal passo guardasi molto bene a non porre il piede in
fallo; avere ella acconciato i casi suoi, pensassero i Fiorentini a'
loro. «Talchè» conclude l'ultima lettera
dell'oratore Carduccio, «è necessario fondarci in su
l'ajuto divino e su i provvedimenti gagliardi di modo che più
facilmente e con più reputazione si possa con cotestoro
comporre.»
Così brutto mancamento di fede abbiamo veduto rinnovare dai
Francesi ai giorni nostri. Taccio della Polonia, parlo d'Italia:
minacciati dalla lega settentrionale, concitarono gl'Italiani a
levare le armi per ricuperare l'antica libertà, si fecero un
riparo di animali viventi, e quando si furono apparecchiati a
sostenere l'urto nemico, lasciarono precipitare chi si era levato
per loro, motteggiarono sopra i supplizi, ai caduti schernirono, e
quando stretti dalle imprecazioni del mondo doverono rispondere, uno
di loro salì su la tribuna e al mondo stupefatto
gridò: Il sangue della Francia è per la Francia!
Di ciò si rammentino gl'Italiani. Se la fortuna apparecchia
al mio popolo rinnuovamento di magnifici destini, se ne rammenti,
non per vendicarsene, ma invece per aiutare con tutte le sue forze
la Francia se pericolasse nel suo cammino al meglio; e sovvenendola
le dica: Io ti ajuto perchè ai popoli grandi è
necessario mostrarsi generosi: io ti ajuto perchè quando una
stella scomparisce dai cieli, il bujo diventa maggiore; ti ajuto
ancora perchè, durando la lotta di due diversi principii, le
nazioni che parteggiano per la libertà riunendosi in lega
comporranno il fascio del littore che non si spezza: mentre se
stanno divise tra loro, saranno la verga debole che rompe il
fanciullo per giuoco. I Greci ebbero in costume violare i
giuramenti, fu turpe fama del popolo la fede Greca; - però
secoli passarono e secoli prima che un occhio piangesse sopra i
destini di quella famosa contrada. Subentrò la fede punica, -
Cartagine è ridotta in un mucchio di rovine che nessuno,
anche potendo, vorrebbe rilevare; adesso vince le fedi greca e
punica la fede francese. - Tradisci Francia, quanto più sai,
- la Italia non t'imiterà per questo: - comunque serva, val
meglio di te libera e fortunata, imperciocchè, sebbene le
sieno incatenate le mani, volge nel pensiero alti concetti di
governo, e conosce essere le nazioni sorelle in faccia a Dio, e
sente che quando una nazione dice all'altra: Io mi sono composto un
seggio della tua testa e ben vi sto, - allora la religione e la
legge mal possono imporre ai cittadini, - non uccidete, non rapite.
Ogni vincolo sociale si rompe, e la fossa di Daniele presenta appena
paragone conveniente col mondo contristato da tanta perfidia.
NOTA.
(a) Di Francia non possiamo essere nemici mai; però non a
fine di rimbeccare gli svergognati scrittori che le nostre rose,
tristi o stupidi, e forse ambedue, appo i Francesi bistrattano, dei
quali io so che i dabbene di cotesto popolo hanno onta e gravezza,
ma sì a chiarire quale di noi ab antiquo abbia fatto governo
la Francia, e vedano se meritiamo che un giorno ci dia mano a
rilevarci, io porrò alcune citazioni intorno alla fede di
Francesco I re gentiluomo, com'egli vantavasi.
Nel maggio del 1529 Baldassare Carducci oratore fiorentino
domandandogli: «E noi, venendo Cesare, che abbiamo adunque da
fare?...» Il re rispondeva: «Non vi abbandonerò;
noi siamo una cosa stessa.» Lettere di Carlo Cappello oratore
veneziano a Firenze, pag. 25. - Nella Legazione di Baldassare
Carducci in Francia ms. presso Gino Capponi si legge:
«Stringendo più volte questa maestà a ricordarsi
della devozione e fede delle signorie vostre verso di lei in questa
composizione, ha con tanta efficacia dimostro l'obbligo che gli
parve avere con quelle che non si potria dire più;
affermandomi non essersi mai per fare alcuna composizione senza
total benefizio e conservazione di cotesta città, la quale
reputa non manco che sua. Ed ultimamente mi ha ripetuto queste
medesime ragioni di assicurazioni il gran maestro, ricordandogli io
il medesimo, dicendomi: Ambasciatore, se voi trovate mai che questa
maestà faccia conclusione alcuna con Cesare, che voi non
siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite che io non sia
uomo di onore, anzi ch'io sia un traditore.» Ancora, il
medesimo Carducci scrive che Francesco I «nel consiglio
voltandosi a ciascheduno di noi con le più grate ed amorevoli
parole che si potesse immaginare, ne assicurava di voler mettere la
vita e abbandonare il riscatto dei figliuoli per la conservazione
degli stati di ciascuno dei collegati.»
Poco dopo il povero uomo, che giurista era e non uso a pescare nelle
torbide acque delle corti, tutto smagato, avvisa: «Io non
posso senza infinito dispiacere di animo significare l'empia ed
inumana determinazione di questa maestà e suoi agenti in
questo trattato di pace stretto contro mille promesse e giuramenti
del non concludere cosa alcuna senza la partecipazione degli
oratori, degli aderenti e collegati, come più volte si
è per me scritto e significato alle signorie vostre e per gli
altri oratori ai signori loro. E nondimeno, senza farne alcuno di
noi partecipe, questa mattina hanno pubblicato la composizione e
pace con grandi solennità ed altre dimostrazioni di
allegrezza senza includere alcuno... Talchè sarà una
perpetua memoria alla città nostra e a tutta Italia quanto
sia da prestar la fede alle loro collegazioni, promesse e
giuramenti.» (Lettera ai Dieci, 5 d'agosto 1529.)
Nella medesima lettera più oltre: «Confesso veramente
in questo potermisi imputare avere prestato fede a tante
affermazioni di non concludere mai senza collegati, ma parimente e
più hanno peccato tutti gli altri oratori, i quali hanno dato
ai loro signori molta più certa speranza che non ho dato io
alle signorie vostre. E parmi avere ad essere scusato ricordando
alle signorie vostre l'ultima asserzione del re, dove si
trovò Bartolomeo Cavalcanti, e come anco per una sua avranno
inteso, cose che certamente avrebbero ingannato ogni uomo, visto che
espressamente e con giuramento disse non essere mai per comporsi con
Cesare altrimenti, e piuttosto voler perdere i figliuoli che mancare
ai confederati.»
E tutto questo non basta: allora, come sempre, i Francesi
trascorsero all'ira e alla minaccia contro quelli che non si
volevano lasciare tradire pei comodi loro; imperciocchè
l'oratore veneziano avendo detto al gran maestro che alla sua
repubblica bastava l'animo difendersi sola, nè per fargli
piacere avrebbe lasciato le cose di Puglia, anzi nel presagio di
decezione avere già mandato 50 galere ad Otranto per tenerle
ferme, quegli rispose: «Guardate che, non avendo voi un
nemico, non ne abbiate due.» Medesima lettera.
E questo accordo era già fatto, perchè il Trattato di
Cambray non solo conteneva il patto dell'abbandono delle cose di
Puglia per parte dei Francesi, ma sì anche che, intimati i
Veneziani a sgombrare il regno, caso mai non avessero obbedito, il
re di Francia avrebbe sovvenuto di 20 mila ducati il mese
l'imperatore per cacciarneli a forza. (Documenti, Molini, Documento
302.) Abbiamo visto che Francesco I non rendeva i danari imprestati,
onde i Fiorentini non si potessero aiutare; - nè volle
fermarsi qui, che, udendo come i Fiorentini di Lione stessero per
mandare 50 mila ducati a casa, emanò un perfido bando
proibitivo sotto asprissime pene di portare fuori del regno argento
ed oro monetato. (Lettera di Carlo Cappello pag. 202.) - Così
non restituiva i danari nè gli lasciava dare.
Indi a breve mutò il re di Francia, e allora, essendo morta
Firenze, aizzò Siena per far morire anch'essa. I Francesi
dove toccarono fin qui spensero. - Enorme cosa parve anco ai
partigiani di Francia il trattato di Cambray; e Iacopo Pitti
nell'Apologia dei Cappucci, pag. 368, 369, s'industria rovesciarne
la colpa sopra «i cattivi ministri corrotti dal papa, che fece
cardinale il vescovo di Tarbes fratello di Grammonto, principale
consigliero del re, al quale avendo egli data commessione che
spedisse subito per la gente domandata dal Carduccio, non ne fece
altro, andando pochi giorni di poi a trovare il re in campagna, con
lettere finte come i Fiorentini erano tanto stretti dalla fame che
trattavano l'accordo, e però aveva sospeso l'ordine di
spedire la gente di arme, acciocchè sua maestà non
s'inimicasse col papa nè con Cesare, senza il benefizio degli
amici fiorentini. Il che creduto agevolmente dal re seguitò
nelle caccie, ma sopraggiunto dall'oratore dolente di tanta
tardanza, gli manifestò la cagione: la quale mostra in
contrario da lui, con assicurarlo che in Firenze era da vivere per
due mesi, allora fu di nuovo data... la commessione: il quale con la
medesima astuzia fermò un'altra volta quel re.» E poco
dopo: «Come il re intese che egli (il Ferruccio) si metteva in
punto con le genti raccolte in Pisa, si pelava la barba temendo che
non fosse dalla fazione francese seguitato in Italia.»
Traveggole di partigiani sono elleno queste; Francesco I sapeva bene
e meglio quello che accadeva in giornata a Firenze, e rimane lettera
nobilissima del vescovo di Tarbes oratore di Francia a Roma a
cotesto re dove lo ragguaglia di ogni cosa. Merita cotesta lettera
sia divulgata, ed io lo farò per ora di sunto e traducendo,
però che nell'originale sia lunga troppo ed a comprendersi
difficile; ha la data dell'aprile 1530; fu estratta da G. Molini
dalla Libreria reale di Parigi, e occorre stampata nell'Appendice IX
dell'Arch. Stor. Ital., pag. 473. L'oratore racconta come avessero
dato ad intendere al papa che gli avrebbero condotto Firenze a
chiedergli perdono con la corda al collo, ma che per ciò
conseguire ci era bisogno di quattrini e di molti: però che
il papa improvvido di partiti, aveva fatto disegno di vendere fino a
26 cappelli cardinalizi per cavarne un 600 mila ducati; dalle quali
cose l'oratore, commosso, si era condotto il lunedì santo al
papa; a cui chiesta licenza di aprirgli l'animo suo come cristiano,
prete, vescovo, epperò suo sottoposto, non già come
oratore, ed ottenutala disse, essere stato mirabilmente sbigottito
per la impresa di Firenze pensando alla fama di lui papa e al grado
eccelso che occupava, e più poi della tenacità nel
proseguirla, correndo per le bocche dei soldati il detto, avere loro
dato il pontefice carta bianca di fare di ogni erba fascio:
considerasse che da ciò non poteva ricavarne altro che spesa,
travaglio, fastidi, amaritudini e disgusto; perchè di avere
Firenze per fame bisognava deporre il pensiero, ed egli poterlo
accertare che ci era vittovaglia fino a novembre, durante questo
tempo donde trarrebbe i quattrini? Bene avere inteso ch'egli pensava
cavare 4 o 500 mila scudi dalla creazione dei cardinali, ma
considerasse che con questo partito spianterebbe la Chiesa,
perchè, oltre ai vituperii che poteva aspettarsene dai
luterani, egli metterebbe tal peste nel collegio che di qui a cento
anni se ne proverebbero gli effetti. - Il papa rispose: essere la
creazione dei cardinali la faccenda che più lo noiava, anche
quando si trattava di gente dabbene, per la copia grande che se ne
aveva; conoscere a prova che l'oratore favellava d'incanto, ma che
l'onore suo lo costringeva a questo, - Allora gli dissi che non ci
era onore nè utile, perchè avendo Firenze in rovina,
di qui a venti anni non ne avrebbe approfittato di uno scudo, mentre
vi avrebbe speso tutto il suo e quello degli altri; e badasse che la
creazione dei cardinali non avesse ad essere la sua estrema unzione,
perchè, fatto questo, gli era chiusa ogni via a raccogliere
pecunia, correndo rischio di non essere più obbedito come
papa, cascare in obbrobrio presso i principi cristiani, e dato in
balia ai suoi nemici, i quali spoglierebbero la Chiesa di quanto le
avanza; ed io conosceva di tal cuore che venuto a questo si sarebbe
lasciato morire di fame e di angoscia. Rispose che ben per lui se
Firenze non fosse mai stata... e se poteva io consigliarlo a chinare
il capo davanti sette od otto paltonieri di Firenze che avevano
menato il popolo a precipizio: non dovermi essere ignoto ch'egli si
sarebbe attirato l'odio dei principali cittadini che esulano fuori
di patria e quotidianamente lo stimolano a tirare innanzi, che in
altro modo si troverebbero diserti per avergli fatto servizio... Di
qui altre parole e per ultimo la proposta di calare a composizione,
auspice Francia, con promessa di condurre la pratica per modo che la
domanda di accordo si movesse piuttosto dai Fiorentini che dal papa,
quante volte questi lasciassero ferma la libertà, come aveva
sempre detto, ed allora diceva, ma queste erano lustre, però
che fine e premio della guerra mossa da Clemente contro la patria
sua fosse la tirannide.
CAPITOLO VENTESIMOTTAVO
FINIS FLORENTIÆ
Eccomi solo
Ho il mio coraggio e la gloria meco.
Aiace, tragedia.
Cuoprirà l'erba e il tribolo
Le mute spoglie, ed irti
Per le notturne tenebre
Vagoleran gli spirti,
Che morti ancor daranno
Spavento.
Il bardo della Selva Nera.
Ferruccio, ributtata una mano di cavaleggeri che gli aveva mosso
contra Fabrizio Maramaldo, il quale si era vantato bastargli la
vista per impedirlo nel cammino, varca la Cecina e, seguitando la
via littorale, tocca Rosignano e giunge a Livorno.
La sua grande anima così potentemente gli agitava le membra
che non sentiva più bisogno di cibo o di bevanda, nè
lo spossava fatica. Mirabile e misteriosa è la forza dello
spirito, e quando abbiamo udito narrare le stupende gesta di qualche
eroe, ci siamo compiaciuti a immaginare un'anima di fuoco entro un
corpo di ferro. La storia però ci ha tramandato come gli
uomini più famosi, anzichè apparire aiutanti della
persona, fossero oltremodo di fibre delicate e gentili; tra i
moderni basta rammentare Bolivar. Ferruccio poi era ben composto, ma
non avrebbe potuto reggere fisicamente ai gravosi travagli, dove la
gagliardia dello spirito non gli avesse somministrato insolito
vigore.
I suoi soldati gli avevano posto tanto singolare venerazione che se
egli avesse comandato proseguissero il cammino, comecchè
rifiniti dalla stanchezza, avrebbero obbedito. Ferruccio, li vedendo
trafelati, co' piedi sanguinosi riarsi al sole, e per altra parte
pensando che stavano per avventurarsi in sentieri ancora più
aspri, con maggiore pericolo di essere assaltati, ordinò
facessero alto, di riposo convenevole confortassero le membra.
Nè in quei remoti tempi era Livorno fastidievole vista per
un'anima repubblicana. Certo, non per anche il commercio l'aveva
ingrassata sì da non dar luogo a sentimento altro diverso che
non fosse guadagno; non le erano divenuti ancora nomi del tutto
ignoti patria e libertà; non ti pareva, al primo porre il
piede nella sua piazza, udire rinnuovato il caso di Babele o
piuttosto il vestibolo dell'inferno rimbombante per voci alte e
fioche; non ancora, onde crescesse di popolo, l'avevano convertita
in asilo di ladri, falsari, di ogni risma ribaldi; no, Livorno non
era anco fatta la tavola di salute a quanti mai tristi vissero nel
mondo. Livorno abitava poca cittadinanza, ma pura fino all'ultimo
artista; breve si estendeva il giro delle mura, ma su quell'umile
castello si era posata una stella, come già sul presepio di
Betelemme; i suoi bastioni erano stati consacrati col sangue dei
cittadini sparso in difesa della libertà, i suoi ripari resi
illustri dalla vittoria.
Tutto questo ignora Livorno popolosa, Livorno intenta ai subiti
guadagni. Eppure, come Dio volle, avvenne che un uomo si ostinasse a
lanciarvi dentro la voce di patria, e sentendola ripetere mille
volte, esultò immaginando quivi palpitassero mille petti cui
largivano i cieli il dono pericoloso di amare la patria. Grave
errore fu questo, perocchè non ripetessero già la voce
bocche mortali, ma l'eco: e chi non sa che l'eco tanto risuona
maggiore, quanto più il luogo è deserto? Livorno se ne
sta pingue, stupida, mostruosa sopra il mare etrusco, come la balena
buttata alla spiaggia dall'impeto della tempesta.
Ferruccio allora contemplò con religiosa riverenza quelle
bastie dalle quali era stato respinto Massimiliano I, don Chisotto
fra gl'imperatori; si compiacque immaginare la pazza ira di quel
superbo costretto a indietreggiare vinto da così debole
castello, con la minaccia sopra le labbra, la paura nel cuore, con
la veste lacera, chè una palla da falconetto gli aveva
portato via una manica del suo robone imperiale di broccato d'oro
trapunto di perle, la quale trovata poi fu venduta cento ducati. Il
prode uomo si prostrò davanti alla statua che per ordine
della Signoria di Firenze condusse di macigno Romolo del Tadda e
collocata sopra la fronte del bastione del Villano in benemerenza
della fede e del valore di che fece prova in cotesto avvenimento la
gente del contado.
Ella era semplice come la virtù, bella come il fatto che le
aveva dato origine. Rappresentava un villano con un palo in braccio,
un sacco, un barile ed un cane ai piedi; denotava il palo le
palizzate costruite e difese contro Massimiliano imperatore; il
sacco e il barile, il pane e l'acqua, a cui stettero contenti gli
assediati finchè durò l'assedio; il cane, la
fedeltà pel comune di Firenze. E qui è cosa festevole
assai notare come l'uomo, creatura superba, scelga un animale per
significare qualche sua virtù, il cane per la fedeltà,
il serpente per le prudenza, e simile. La verità scoppia la
superbia, le bestie vagliono meglio di noi, forse perchè,
come al creatore piacque, non compartiva loro la ragione.
Questo insigne monumento scomparve sotto il principato; in vece sua
orna adesso Livorno la statua di un principe con quattro uomini
incatenati sotto nella base, ingenua espressione della monarchia! -
Chi è costui? Prima fu cardinale, poi principe della Toscana
per retaggio del suo fratello maggiore morto di veleno. Quale
impresa rammemora il monumento? Nessuno lo sa. La storia tace. Le
statue ritte al principe vivo, più che dimostrazione di
grandezza in lui, fanno testimonianza della viltà di chi
gliele offriva. Non forse i Romani inaugurarono statue a Domiziano,
a Nerone e a Caligola? Se i cranii dei Medici inariditi dentro le
loro sepolture potessero formare un desiderio, certo vorrebbero
rovesciati i prepri simulacri. Oh! voi sapeste quanto è cosa
dura la memoria a colui che si spense nel rimorso. I Medici
già quasi avrebbero conseguito l'oblìo: le monete
dalla loro effigie consumava il tempo: la storia udendo i delitti di
quella turpe famiglia gittò lo stilo e non volle registrarli;
chè nè tante furono nè tanto scellerate le
colpe degli Atridi; e poi questi costrinse il fato, mentre nei
Medici fu spontaneità di libidine e di sangue... - per altro
non si ricorderebbero; stanno le statue: - in ciò che
più agognarono, adesso rimangono puniti, - nella bassezza di
turpi lusingatori. Durino quelle statue; non le logori il tempo, la
inclemenza dei cieli non le offenda: i principi hanno elevato con le
loro mani il proprio supplizio; - ogni uomo sa dove lanciare una
maledizione: assai lunghi anni si conserveranno così. Quando
mutilate cadranno ingombrando, masse deformi, il terreno, possa
urtarvi dentro il cieco e rifiutarle, esecrandole, per seggio dove
aspettare l'elemosina del popolano che passa.
Col sembiante dimesso, ravvolgendo mesti pensieri, passeggia il
Ferruccio sopra la estrema sponda del mare; volge i suoi passi verso
la parte di ponente, - ad ora ad ora solleva lo sguardo e geme, non
trova luogo dove fissarlo senza che si rinnovi in lui un'antica
memoria di dolore: guardando a man destra scorge la eminenza dove
già stette Torrita, l'antica città; - in lei si
agitarono alti spiriti, in lei fu copia di santi affetti, in lei
care ricordanze, decoro di sapienza e di grandezza: adesso rimase
ogni cosa sepolta, un denso strato di terra la ricuopre, un altro
più denso di oblio; sparirono fin anche le rovine; il tempo
non ha lasciato neppure una lapide dove piangere la morta
città. Questo dileguarsi di città e di reami senza
segnar traccia fra i posteri, - questo morire tutti e il non vedere
differenza alcuna tra la estinzione di un popolo e la caduta
dell'erba dei campi davanti la falce del mietitore, contristavano
amaramente l'anima del nostro eroe. Nè gli giova meglio
guardare a manca; quivi a breve distanza nel mare gli si presenta un
monumento che richiama alla memoria un popolo italiano svenato da un
altro popolo italiano, - la terribile battaglia della Meloria.
Colà Pisa giacque sotto la fortuna di Genova. Oh nefande
guerre fraterne!... Ferruccio dà volta e indirizza il cammino
verso levante: adesso si pone a contemplare il cielo e le acque. -
Magnifici elementi! Dapprima gli sembra che emuli poderosi vogliano
cimentarsi percorrendo a gara il cammino della eternità sopra
due parallele infinite, poi lontano lontano, quasi li prenda
fastidio della corsa solitaria, - si riuniscono, - si confondono -
continuano uniti il sentiero che loro avanza per giungere al punto
determinato. Il mare spiana le acque perchè il cielo vi
contempli dentro la propria bellezza, e il cielo ricambiando l'amore
del fratello gonfia con l'influsso della sua luna le marine, col
tremolìo delle stelle irradia i lembi dei flutti mormoranti;
e quando la divina lampa del sole ha infuocato le sue sfere, non
sembra che la deponga in grembo al mare perchè si riscaldi a
sua posta? In riva al mare sorgeranno per avventura pensieri strani,
se vuoi, ancora bizzarri, ma sempre grandi: nè alcuno presuma
immaginare alti concetti, se prima non contempla questa gloriosa
creazione di Dio: se mai tu ti affacciassi al mare, e il cuore
rimanesse muto dentro di te, calca di un piede l'aratro e rompi il
seno della terra, - la natura ti destinava per questo.
Lo spirito del Ferruccio per siffatte immagini si estende;
concepimenti sublimi si affollano come ispirazioni al pensiero di
lui, ch'egli si affatica a ridurre a tale che possa la favella
significarli e l'altrui ingegno comprenderli. Quasi tratto fuori di
sè, si percuote la fronte e, gli occhi fissi nell'alto,
esclama:
«Magnifica, Creatore, l'anima mia, - pel mio cuore
basta!»
Vico Machiavelli si accosta frettoloso al Ferruccio, grave cura lo
preme, - da lontano lo chiama, - quegli non ascolta, - replica la
chiamata e sempre invano; - giuntogli dappresso, lo scorge, quasi
tolto a' sensi diversi, tendere ansioso lo sguardo su le acque, come
farebbe la madre che affidò il figlio all'Oceano per
iscoprire la vela che deve ricondurglielo tra le braccia; e
poichè alla voce aggiunse il tirare della veste, Ferruccio lo
guarda in volto e favella:
«Chi sei? Perchè mi togli la visione della mia gloria?
Vico, tu qui?» - e, senza attendere risposta, continua:
«Vieni, siimi testimonio che in questa ora Dio mi ha rivelato
il disegno di poter tutelare non solo la libertà della
patria, ma cambiare la faccia all'Italia, - forse anche il mondo.
Vedi là oltre?» - e col dito gli accenna davanti a
sè, - «là oltre è Africa; piegando
alquanto a levante, quasi dirimpetto a Roma, giaceva Cartagine...
Quando la fortuna di Annibale prostrava le forze romane in Italia, i
padri nostri ardirono accogliere lo stupendo divisamento di portare
la guerra in Africa, e Scipione mutò i destini del mondo,
però che Annibale accorrendo in aiuto della patria, -
all'aquila romana tornò il cuore a riprendere il fatale suo
volo a traverso la terra. Più che le libertà italiane
premono ai Dieci e alla Signoria di Fiorenza le case e masserizie
loro; la fortuna di rado favorisce i meschini concetti, spesso gli
audaci. Essi mi hanno rivestito di facoltà che paiono
amplissime, ma sottosposte alla condizione di volgermi più
che io possa veloce alla tutela di Fiorenza: Corri, mi hanno detto,
ma dentro il circolo che noi ti segniamo. - Ah! mi avessero dato
balìa di movermi a mio talento, ecco, imitando l'esempio di
Scipione, giorno e notte camminando con passi accelerati, mi spingo
a Roma, sorprendo papa e cardinali, distruggo il papato, sciolgo il
voto del Frangsperg, - le dottrine di Lutero, che già
serpeggiano, non pure nel popolo, ma nelle reggie dei principi,
confermo, - la mia causa aggiungo a quella dei riformatori in
Germania, - scuoto il seggio di Carlo, - libero a un punto l'Italia
dal giogo spirituale e temporale, - rifabbrico il Campidoglio, -
resuscito il popolo romano... Ahimè! questo pensiero mi
ucciderà; bisogna che tenti dimenticarlo. Chiudiamoci in
Fiorenza, manteniamo viva la lampada, dacchè ci è
conteso suscitare l'incendio; anche qui occorre pericolo, anche qui
è gloria.»
Vico, lasciato trascorrere alcun tempo, favellò:
«Signor commissario, Giampagolo Orsini a grande istanza
domanda restringersi a parlamento con voi.»
«Colonna... Orsini..., che vuol da me questa lebbra d'Italia?
Per bene egli certo non giunge. La Repubblica ebbe abbastanza di
loro. Va' e riportagli da parte mia che s'ei viene a restituire il
danaro che sotto fede di condurre dugento fanti e dugento cavalli ai
servigi di Fiorenza si rubò il suo consorte abate di Farfa,
gli renda e si vada con Dio: traditori, per somma sventura, ne
possediamo anche troppi.»
«E non pertanto», soggiunse Vico, «ai modi aperti
di lui e alle sembianze giovanili, avrei giurato non fosse uso a
male opere...»
«Non importa; per essere giovane, non morde meno velenosa la
vipera... Ma tu lo dici giovane: di lui non intesi mai novella. Come
si chiama suo padre?»
«Renzo da Ceri, uomo assai riputato nella milizia, nè
per quanto io sappia, contaminato da brutta fama. Almeno il
Cristianissimo lo esperimentò fedele, quanto valoroso
capitano.»
«È vero; - lo udrò, - mi aspetti.»
Dopo breve ora, Ferruccio si presentò all'Orsini e conobbe,
come gli aveva riportato Vico, essere giovane di belle non meno che
di prestanti sembianze. Lo guardò fisso in volto e con voce
aspra lo interrogò:
«Orsini, che domandate voi dal commissario Ferruccio?»
«Signor commissario», risponde Giampagolo arrossendo e
declinando modestamente lo sguardo, «la fama che in tanto
breve spazio avete saputo meritarvi grandissima empie tutta la
Italia. Qua mi trasse amore della vostra virtù e desiderio di
combattere per la causa che sostenete. Ormai questa impresa
diventò tale che le più inclite spade d'Italia vi sono
concorse per una parte o per l'altra: ella è amara cosa
pensare come non sieno tutte concorse dalla parte più giusta,
- ch'è la vostra; - colpa delle nostre voglie divise ed anche
del fato, imperciocchè senza intervento dei destini mal
saprei dichiarare a me stesso la cecità degli Italiani
raccolti nel campo imperiale, i quali guerreggiando Fiorenza par che
non veggano come con le proprie mani si lacerino le viscere; - io
poco offro alla libertà di Fiorenza, o piuttosto d'Italia, -
ma se non offro di più, non m'incolpate; vi do quanto
possiedo di danaro e di sangue.»
«Giovane, la causa che piace a me, non sembra che piaccia alla
fortuna. Gli Orsini poi cercarono sempre e sopra tutto la
fortuna.»
«Commissario, conosco le colpe dei miei padri e le detesto.
Per quanto mi fosse concesso operare in pro dell'Italia, assai di
leggieri comprendo non potrei a gran pezza ristorare il danno che le
arrecarono i miei. Ma s'è folle che il nipote insuperbisca
pei vanti paterni, ingiusto è del pari che a cagione del
padre si abbia a disprezzare il figliuolo: e certo voi, commissario
Ferruccio, non accogliete sì bassi spiriti nè
contenderete che un giovane procacci con la sua spada la sua fama,
nè vorrete ch'io getti via disperato una vita che potrei
spendere utilmente pel mio paese, gloriosamente per me.»
«Udite, Giampagolo, giunto a questa parte della età
mia, per amara esperienza, ho conosciuto che il linguaggio quanto
più si mostra generoso, tanto maggiore abiezione dell'animo
adombra.» - Qui il giovane alzò gli sguardi e li tenne
fieramente fermi negli sguardi del Ferruccio, il quale continuava:
«Però questo non dico per voi, Giampagolo,
imperciocchè se la ipocrisia potesse mentire, come fate voi,
non dirò favella, ma colore, sguardo e tutto in somma, allora
davvero mancherebbe ogni via per iscoprire la virtù, e col
timore di essere ad ogni momento tradito la vita non meriterebbe il
pregio di essere conservata tra tante tribolazioni. Venite dunque a
parte di quei pericoli e di quella gloria che mi destinano i cieli,
certo almeno di questo, che, qualunque sia per essere la nostra
fortuna, non mancherà di chiara ed onorata fama.»
Giampagolo gli strinse la mano, Vico l'altra, e fecero atto di
volergliele baciare; lo impediva il Ferruccio, che commosso
altamente diceva:
«No, no, venite tra le mie braccia: aveva un figlio, ora mi
trovo a possederne due: non dubitare, Vico, basta a tutti l'anima
mia. Orsino, buon augurio mi dai, tu mi accresci le forze alla
speranza.»
Questo fatto io trovo registrato da tutti gli storici, nè io
ho voluto tacerlo, e tutti quelli che con auspicio ed ingegno
migliori prenderanno a parlare di questi tempi, scongiuro a non lo
lasciare inonorato. Certamente lo straniero si meraviglierà
di questa lode, e non saprà persuadersi come si abbia a
levare a cielo azione così naturale. I comandamenti della
legge di Dio non dovrebbero per avventura comprendere ancora il
precetto al cittadino di sovvenire con tutte le forze la propria
patria? Giampagolo Orsini non aveva forse sortito i suoi natali in
Italia? Ma lo straniero cesserà la maraviglia per due cause:
una che senza la mia spiegazione gli sarà nota, cioè
che gli uomini in generale sogliono i comodi anteporre alla fama;
l'altra poi (e quantunque mi gravi dirla, la manifesterò ad
ogni modo, poichè a me non piaccia la ipocrita carità
patria che dissimulando le colpe assopisce con encomii bugiardi, e
ufficio vero di buon cittadino consideri la rampogna acerba che
conduce all'ammenda) abbisogna di commento italiano, ed è
questa, che o per ira di Dio o, come credo piuttosto, per tristizia
degli uomini, fummo e siamo noi altri Italiani siffattamente divisi
che il Romano crede avere che fare col Fiorentino quanto con un
abitante dell'Oceania o di quale altra più remota parte del
mondo. I Piemontesi si reputano così estranei alle cose
d'Italia che, favellando con Toscano, Romano o Napoletano, hanno in
costume di designarlo così: - Voi altri abitanti d'Italia. -
Questo mal seme funestando il nostro paese nei tempi di che si parla
anche più fieramente che ai nostri, l'azione dell'Orsini non
parrà ufficio patrio, ma sibbene amore purissimo degli uomini
e della libertà.
Il Ferruccio, lasciata Livorno, si riduce a Pisa: qui appena giunto
gli scemò la speranza, non l'animo. Gli aveano dato i Signori
poteri ampissimi, anche di donare terre e città, ora che da
Volterra e Pisa in fuori non ne tenevano altre nel loro dominio; lo
avevano eletto generalissimo degli eserciti, nè gli mandavano
gente o pecunia per farne; soffriva i tormenti di Prometeo, si
assottigliava l'ingegno per trovare danari, e non rinveniva il modo;
n'ebbe dall'Orsino, ma pochi: egli davvero si sarebbe coniato anche
il cuore. Quantunque di natura piuttosto superbo che altero: come
Provenzano Salvani, si condusse a tremare per ogni vena supplicando
fin colle lagrime i più facoltosi tra i cittadini pisani,
affinchè gliene imprestassero, offrendo sicurezza sopra i
suoi beni e su quelli dell'Orsino: vedendo non fruttare le preghiere
nè la promessa di largo guadagno, mutata mente, impose
pagassero; chi rifiutasse sarebbe carcerato; sopportassero tutti la
taglia così cittadini come forestieri; e poichè uno di
loro disse avrebbe sostenuto piuttosto morire di fame o impiccato
che pagare pure un quattrino, comandò nessuno ardisse
recargli cibo o bevanda. L'ostinato Pisano non perciò si
rimuoveva, e il Ferruccio sempre più si fermava nel suo
proponimento, e lo avrebbe per certo fatto impiccare, se i suoi
parenti pagando per lui non lo avessero liberato.
Nè già si creda che nel Pisano ciò fosse tutta
avarizia, ma in gran parte rancore contro i Fiorentini, i quali dopo
ferocissima guerra più che quindicennale tolsero alla sua
patria la libertà. Fu questa veramente colpa dei Fiorentini,
della quale però gli avrebbe, non che assoluti, celebrati la
ragione politica, se, come intendevano, riuscivano a dominare sopra
la universa Italia. Tra la serie infinita di sventure volle il
destino che il concetto medesimo agitassero i principi e le
repubbliche d'Italia, ma le forze si trovassero così
equilibrate con quelle degli altri, tanta sapienza dimostrassero gli
stati a stringere lega tra loro, onde altri non crescesse, che
nessuno potè condurlo a fine; sicchè le conquiste
delle terre vicine, mancato lo scopo, parvero ingiustizie, l'esito
non giustificò la rapina; suscitaronsi odii che non poterono
poi spengersi con i vantaggi di bene universale; l'amore di
municipio non si trasfondendo nell'amore di popolo italiano,
diventò furore. Adesso la piaga non duole... perchè la
si è fatta cangrena.
Mentre più si travagliava il Ferruccio in questa faccenda,
Luigi Alamanni, istando presso la nazione fiorentina stanziata in
Lione, raccolse certa quantità di pecunia e la inviò
speditamente al valoroso commissario. Riprese lena, si dette a
levare gente, formò nuove compagnie, mescolò agli
inesperti certa quantità di provati, esercitò tutti,
rivide le cittadelle e le munì; scrisse lettere ortatorie
agli uomini del contado e ne ottenne cavalli. Molti lavoratori si
presentarono co' loro arnesi rurali, ed ei ne formò due
compagnie di marraiuoli senza provvederli di altre armi,
perocchè sapeva che gl'istrumenti co' quali si lavorava la
terra sono eziandio molto bene acconci a difenderla; ragunò
vettovaglie, apprestò cariaggi, scale, polvere, ogni maniera
munizione. Considerando dovere tenere la strada per vie dirupate,
alle artiglierie impraticabili, per non rimanere privo di questo
potentissimo mezzo di guerra, ordinò dodici moschette o
vogliamo dire spingarde, da potersi accomodare in qualunque
più arduo luogo mercè alcuni cavalletti molto agevoli
al trasporto, finalmente apprestò copia di trombe di fuoco
artifiziato e distribuì ad ogni capitano la sua. L'antico
Briareo non sembrò più favola, egli operava ratto e
molteplice, come se la natura gli avesse compartito cento braccia e
cento teste.
Però mentre a tante cose provvedeva, dimenticò
sè stesso. La vigilia prolungata, i soprumani travagli,
l'oblio degli alimenti lo fecero macro, gli occhi gli diventarono
vitrei e fissi, sopra le guance pallide ad ora ad ora appariva una
striscia di colore etico. Un giorno, mentre più acuto
costringeva il pensiero alla meditazione, gli si turbò il
cervello; come arco troppo teso si rompe, e il dardo pronto a volare
nel brocco cade senza forza od obliquo, così la sua
immaginazione giacque spossata; sente lo sfinimento del naufrago
sopraffatto dalle onde burrascose, gli si abbuia l'intelletto; la
febbre, la quale dopo le ferite tocche a Volterra quando più
quando meno non gli aveva mai dato tregua, gli riarde il sangue e
gli ricorda essere la sua anima legata pur sempre all'inviluppo di
carne.
Lo tormentò un lungo delirio, ma anche nel disordine delle
facoltà intellettuali splendè luminoso a guisa di
stella che tolta all'armonia dei cieli si avvolga nella sua vagante
carriera non meno lucida di prima. Furono le sue visioni di patria,
di battaglie, di gloria, qualche volta di sconforto, ma rade e
passeggiere, quasi tenue nuvola presto portata dall'ale dei venti
traverso il disco della luna.
Risensato appena, solleva il fianco ed esclama:
«Abbiamo combattuto? Abbiamo vinto? - Ah! il morbo mi tiene
giacente nel letto. - Porgetemi l'arme; io non ho tempo di
trattenermi ammalato, non voglio essere infermo... anche un mese di
salute, fortuna, poi a cui la vuole gli dono la vita...»
A queste aggiunse altre parole, nè i circostanti riuscirono a
fargli deporre quel suo proponimento, se il medico discreto non lo
ammoniva che in cotesto modo agitandosi prolungava la sua
infermità con danno inestimabile della patria.
«Vico», disse un giorno al Macchiavelli, «chiamami
i miei capitani, la vista di questi prodi uomini mi
conforterà l'anima. Ahi quanto mi travaglia Fiorenza!»
E i capitani vennero, coperti di armi maravigliose, a vedersi; e il
Ferruccio esultò e,
«Alzatemi», soggiunse, il gonfalone col motto di
LIBERTÀ davanti gli occhi; se gli occhi, sollevando io non
vedo le pieghe di questo venerato vessillo occupare parte
dell'azzurro del firmamento, parmi vedovo il cielo, - non mi riesce
di pregare Dio. - Anime generose, deh! non mi mancate in tanto
estremo, obbedite adesso ad ogni mio comando.... Voi lo vedete...
non ve lo chiedo per me... per la patria vostra lo chiedo... a voi
tutti palpita un cuore... voi tutti avete od aveste una madre... una
donna... una cosa cara nel mondo, - voi non rallegrerebbe questa
dolcezza di amore senza la patria.... Amate... amate la patria....
Credete in me, - Dio non ne sarebbe geloso, se voi l'amaste anche
sopra di lui.»
«Capitano Ferruccio, state di buon animo, noi vinceremo o ci
faremo ammazzare con voi.»
Il giorno veniente ordinò si schierassero i soldati lungo le
sponde dell'Arno; egli sorretto da Vico e da Giampagolo si
accostò al balcone per contemplarli, - erano tre mila pedoni,
trecento circa cavalieri, - buona gente, ma pure tre mila trecento.
Ferruccio stette a considerarli con liete sembianze, poi
all'improvviso si fece tristo, e tanto non potè frenare la
interna passione che non prorompesse in queste acerbe parole:
«Ecco lo sforzo d'Italia per combattere lo straniero. Tre mila
trecento uomini e con pene di sangue allestiti. Quanti eravate
schierati su queste sponde medesime e di una sola città
d'Italia, - di Pisa, - quando moveste a battaglia di morte contro
una città sorella... la repubblica di Genova? Sedici mila
rimaneste morti o prigioni nella terribile battaglia della Meloria.
E un sacerdote benedisse le armi raccolte alla strage fraterna; ma
Cristo abborrì rimanersi complice a tanta nefanda
scelleraggine, e poichè le mani aveva inchiodate, per farsene
velo agli occhi, si staccò dal gonfalone e traboccò su
le pietre con caduta più dolorosa... avvegnachè
contemplasse dai cieli essere stato il suo sacrifizio indarno, - le
sue parole di pace scese come rugiada sopra la sabbia del deserto...
e il suo cuore si contristò... e gli angioli piansero... Su,
alzatevi, fratricidi, lasciate i vostri sepolcri di acqua e di
terra, venite ad ammendare le colpe prima che la tromba vi chiami al
supremo giudizio... Silenzio! - il sepolcro apre la bocca, ma per
divorare soltanto... O forsennati! migliaia foste a trucidarvi fra
di voi; - giungete appena alle diecine per combattere lo
straniero!...»
Dove nacquero, come si chiamarono gli eroi che, comunque pochi, pure
in cotesti tempi giunsero a tre mila trecento in Italia disposti a
vincere o a morire per la libertà?
Non isbigottirti, lettore; non è questa una minaccia di
rassegna d'esercito. Io non mi sento epico abbastanza da cimentare
così la tua pazienza; e poi, tu il sai, io rinnego la
pazienza per virtù nè vorrei che tu la possedessi,
lettore, almeno per ora. - Assicurati: - le rassegne soglionsi porre
nei secondi canti, e potrai, volendo, riscontrarle in Omero, Tasso e
negli altri santi della poesia scolpiti in pietra e da secoli
esposti entro le nicchie alla adorazione delle genti; - io me ne
sono dimenticato quando ci cascava il taglio, e adesso è
troppo tardi per riparare il fallo.
Dove nacquero questi eroi non so, come si chiamarono, tranne pochi,
nemmeno; - ma di questi pochi, vinci il fastidio, amico lettore, se
sei italiano, e leggi i nomi - nudi, - soli, - non fosse altro per
gratitudine e per imporne uno al figliuolo che sta per nascerti:
potresti fare di meno in onoranza di guerrieri che dettero la vita,
tentando conservarti la libertà?
Vissero uomini (che Dio li perdoni) a cui talentò calunniare
la gloria e dirla polizza giuocata alla lotteria della storia, fumo,
sogno e mattana. - Non è forse sfrondato abbastanza l'albero
della vita onde ci affatichiamo ad abbatterne le ultime foglie? -
Evvi una gloria che presto si spenge, come la luce della farfalla
detta lanternaia, côlta dalla morte e ve n'è un'altra
nella di cui lampada il tempo versa secoli e secoli per alimentarla.
Evvi una gloria per gli oppressori dei popoli, e ve ne ha un'altra
pei liberatori; - la prima danno gli uomini, la seconda scende dal
cielo. - Salute, o vera gloria! Nè calunnia nè dubbio
potranno mai tanto accecare l'uomo che non veda questa stella polare
della sua vita. Tu scintilli traverso le mura del carcere, - tu
coruschi anche sul ferro della scure. Pochi anni bastano a
disperdere le dovizie raccolte, - la verga del potere tosto o tardi
si rompe come vetro nelle mani dei potenti, le tombe orgogliose, le
piramidi stesse non salvano dall'oblío; - ma tu fedele al tuo
amante irradii il suo tumulo modesto; - le generazioni che uscirono
dal tuo fianco quinci derivano ogni giorno decoro, nè tu
consenti che impallidisca per tempo; il tuo iride divino, volga la
stagione procellosa o serena, non iscomparisce mai dal cielo dei
generosi. No, - non è un sogno la gloria, se dopo tre secoli
di morte e di servitù, palpitando cerchiamo i nomi dei
difensori della libertà patria, se gli rinnoviamo nei nostri
figliuoli, se nel pronunziarli il sangue nei suoi moti si accelera.
Si rammentano dunque Giampagolo Orsino, Vico Macchiavelli, Sprone e
Balordo da Borgo San Sepolcro, Paolo, Giuliano, Francesco e Grigione
Corsi, Capitanino da Montebuoni, Vaviges Francese, Antonio da
Piombino, Nicolò Masi, Gigi Niccolini, Goro da Montebenichi,
Bernardo Strozzi, Amico Arsoli, Alfonso da Stipicciano, il conte
Carlo da Civitella, Carlo da Castro ed altri assai di cui non mi
è avvenuto rintracciare memoria.
Papa Clemente, terminata la guerra, fece trasportare a Roma gran
parte delle scritture concernenti l'assedio, e affermano le
bruciasse. Forse un diligente esame nell'archivio delle riformagioni
a Firenze potrebbe resuscitare alla fama nomi ignorati; ma cotesto
archivio è diventato un altro Eden dopo il fallo di Adamo, e
certo dopo la perdita del paradiso nessun'altra sventura può
affliggere più crudelmente l'uomo della perdita della
libertà, - un orto esperide col dragone che guarda i pomi
d'oro. Bene sta; le polveri si tengono chiuse... badate alla
favilla!
Passati che furono davanti gli occhi del Ferruccio i soldati da lui
raccolti, trovò essere, come abbiamo avvertito, in tutti
tremila fanti e trecento cavalli; ondechè fidando nel fiero
portamento di loro e nell'aspetto animoso, sorrise alquanto e
soggiunse:
«Comunque pochi basteranno; perchè, vedete, figli miei,
se incontriamo forze pari od anche una metà maggiori, noi le
vinciamo di certo ed entriamo in Fiorenza: o ci muovono incontro
grossi i nemici e sforniscono il campo, e allora escono i nostri e
lo mettono in rotta. In ogni caso l'impresa è vinta; ma
Orange si rimarrà al campo, perchè partirsene sarebbe
troppo grave errore di guerra.
Era da circa mezz'ora suonata l'Ave Maria della sera. Giovanni
Bandini se ne stava pensoso, tuttavia sotto l'influenza di cotesto
istante del giorno in cui la luce che muore ci ammonisce che tra
poco anche la nostra vita passerà così: istante
solenne che ci ritrae le passate vicende come un punto luminoso o
come una nuvola nera in fondo all'orizzonte; - che ci schiude le
labbia ad un mesto sorriso, o ci nasconde mezzo le pupille sotto le
sopracciglia aggrottate, secondochè il pensiero evoca memorie
di delitto o di virtù; - istante pieno della prossima
eternità.
Gli occhi del Bandino non guardano il cielo; - quivi non isplende
stella per lui, - non lo conosce per patria, - dal cielo non aspetta
inspirazione, ma castigo. - Se gli fosse dato di aggiungere le
dimore celesti, vorrebbe pervenirvi come Encelado, o vincitore, o
fulminato. - Contempla la terra: che guarda egli sì intento?
- Forse l'immaginazione gli mostra le sue colpe convertite nei vermi
che dovranno divorare il suo corpo? - Nè rimorso nè
passione possono mutare quel suo volto... - è diventato di
pietra.
Un tocco sopra la spalla gli fece cambiare attitudine, quantunque a
rilento e quasi suo malgrado, ch'egli si compiaceva a pregustare gli
orrori dell'inferno; nè a prima giunta ravvisando il
sopraggiunto, con voce pacata interrogò:
«Chi sei?»
«Messere Bandino, io sono Pirro Colonna.»
«O Stipicciano, che volete da me? Nulla di buono per
certo...»
«Forse che sì; - io vengo da Roma.»
«Volete dire dal contado. Roma ha giudici che prima di
pronunciare sentenze se la intendono col papa, - e Roma ha patiboli
pel vostro collo, messer Pirro.»
«E nonostante questo io vengo proprio da Roma, dove fui a
baciare i piedi santi del beatissimo padre.»
«Ma non vi ha egli scomunicato?... non vi pose addosso la
taglia?»
«Il cielo ei può serrare e disserrare. Sebbene quello
che a me sopratutto premeva si era che non mi serrasse il collo. Non
tolse il nome di Clemente in simbolo della clemenza e mansuetudine
sua?»
«Ah! non ci pensava adesso.»
«Or bene, sappiate che siamo ridivenuti amici carissimi, se
mai ne vissero altrettali al mondo: guardate questo segno... lo
ravvisate? - Io devo conferire con voi cose che Sua Santità
mi ha rivelato in arcanis. Siamo sicuri?
«Parmi di sì: favellate.»
«In qual concetto tenete il principe Orange?»
«Lo reputava meno francese: il suo cervello due terzi del
giorno ha sommerso nel sonno e nel vino, l'altro terzo nel giuoco;
animoso è molto, - io però ho veduto mastini molto
più valorosi di lui.»
«Il papa crede diversamente, - lo reputa uomo da prendere la
Toscana per sè, - da condurre in moglie la duchessina..., da
lasciare insomma quel dabbene duca Alessandro come l'arme di casa
Pucci, - un moro senza corona.»
«Chi disse al papa siffatte novelle?»
«Forse nessuno, - le avrà immaginate... sospettate...;
or che mi ricordo, affermava essergli state riferite da tale che
udì vantarsene l'Orange.»
«Il papa s'inganna.»
«Silenzio! Non vi preme ella l'anima vostra? Il papa è
infallibile.»
«Orange non conserva un pensiero più di cinque minuti,
per timore che non gli arrechi il dolore di testa.»
«Ma il papa non vorrebbe differirgli più di oltre il
regno dei cieli: in questa faccenda ci guadagnano tutti, - l'Orange
primo, che va in paradiso di volo, perchè il santo padre gli
manda pel viaggio tre once di piombo e non so quante libbre
d'indulgenze plenarie, - misura di carbone pesato alla stadera
dell'Elba, che ha la prima tacca sul mille; ci guadagniamo noi che
attrapperemo una diecina di prebende, - non furono istituite per
darsi a coloro che recitano il breviario alla gloria di Dio? Noi
serviamo a Dio ben altro che con uffizi. - Il papa si libera da'
suoi timori; - povero vecchio! In verità abbisogna di spirito
riposato per questi giorni che gli avanzano a vivere. Rimane il
rimorso, ma il papa tiene i rimorsi in conto di zanzare; - con buone
cortine se ne difende, e bisogna crederlo, perchè lo ha
provato, povero vecchio! - Gli eredi acquistano più presto il
retaggio; - gli scultori innalzano più presto il sepolcro; -
i poeti percuotono la musa, come una moglie dopo dieci anni di
matrimonio, per farla piangere lacrime di Elicona. Per me credo che,
a dirlo allo stesso Orange, risponderebbe: Il papa ha ragione: -
però il santo padre non desidera sia consultato, e afferma
che quando si fa la cosa utile, non importa ottenere il consenso di
colui in vantaggio del quale la operiamo.»
«Orange ha una spada... non basta... gli manca una testa, -
peggio per lui; - non è vela acconcia per nessun vento, -
morrà, - non mica perchè pericoloso, ma perchè
a nulla buono; - per me poi... Ah! per me ormai corre buon tempo
ch'io non conto più - colpa dei teologhi, i quali al primo
delitto non dovevano comminare l'inferno per sempre; - ora, o dieci
o mille, la eternità dura lo spazio medesimo. Orange è
morto, - ho già trovato il modo. Quando giace morto qua
dentro», e si toccò la testa, «poco può
andare ch'egli si giaccia morto nel camposanto. - Messer Pirro,
siate diligente a segnarvi con la vostra compagnia di qui a due ore
tra le bande degli archibusieri che partiranno pel contado di
Pistoia.»
«Ma, per quanto ho udito e vedo, - nessun si muove nel
campo.»
«Buona notte, - tra due ore... intendete... anche una parola
di più, sarebbe di troppo.»
Forse due ore correvano dacchè aveva avuto luogo il colloquio
riferito qui sopra, quando due uomini uscendo con molto riguardo
fuori di Firenze dalla porta di San Pietro Gattolini, indirizzavano
celeri i passi alla volta del campo. Percorsero un tratto di strada
taciti e uniti; all'improvviso uno di loro si fermò e disse
all'altro:
«Cencio, qui conviene separarci: siamo alla fine; ora
sì che bisogna adoperare arte e destrezza, - è l'atto
quinto; dopo di questo potremo volgerci al pubblico e comandargli,
come i personaggi di Terenzio al termine della commedia,
Plaudite.»
«Plaudite! E se il mondo ci saluta con tale un fischio che
l'eco ne rimbombi dentro l'inferno?»
«Ci consoleremo con l'antico detto del dio Momo: Nè
anche Giove piace a tutti; - parteciperemo la sorte di tutti i
grandi intelletti che in vita o furono calunniati o derisi o spenti,
- in morte onorati come santi. Ai Fiorentini non piaceremo di certo,
almeno io; ma vi sono apparecchiato, perchè Gesù
Cristo lo ha detto: Nessuno è profeta in patria sua. Tu vedi
che se ti danni, ciò non avviene senza buone autorità
sacre e profane.»
«E sopratutto senza compagnia. Dio vi abbia nella sua santa
guardia, messere Bandino.»
Fu cotesta una notte consacrata ai tradimenti. A quattro ore di
notte Cencio Guercio ritornò a Firenze, e dopo breve spazio
di tempo Malatesta Baglioni e il principe Orange, senza altra
compagnia che di due uomini d'arme, s'incontrano presso la porta
Romana.
«Messer lo principe», cominciò il Baglione,
«tutta la fortuna della guerra si è ridotta sopra un
trarre di dadi. Si accosta il commessario Ferruccio, capitano
valoroso, fortunatissimo...»
«Capitano italiano, - soldato da insidie; - noi stiamo a buona
guardia, ed egli non ardirà tentare l'assalto...»
«Signor vicerè, dov'io non fossi stato, a quest'ora
avrebbero rotto quattro volte il vostro campo. Adesso non corre
stagione di garrire fra noi, - lasciamo le parole, che menerebbero
troppo in lungo il discorso. Ferruccio ha per avventura maggiore
l'audacia che il senno; però senno ha molto. Ferruccio
conduce gagliardissimo esercito, e se giunge ad entrare in Fiorenza,
potete pensare a ripiegare le tende.»
«Mi hanno riportata la sua gente sommare appena a duemila
fanti e a cento cavalli...»
«V'ingannarono. Dai ragguagli che egli, il Ferruccio, ha
spedito ai signori Dieci risulta menare seco cinque mila fanti e
mille cavalli almeno.»
«Ne siete sicuro, signor Malatesta? Egli è poi vero
tutto quanto mi dite?»
«Vero come un giorno dovremo andare in luogo di salute.»
«Che fa quel Baccio Valori, che mi porta sempre notizie le une
più fallaci delle altre? Veramente adesso è tempo di
stare a sollazzarsi coi libri greci e latini! - Egli è
mestieri ch'io vi pensi sopra...»
«E mentre pensate, l'occasione fugge. Urge adesso, messere lo
principe, non mettere un momento fra mezzo. Togliete con voi il
fiore dell'esercito, andategli incontro e opprimetelo nei monti di
Pistoia.»
«E il campo me lo guardate voi, Malatesta?»
«Pur che andiate presto, io ve lo guarderò.»
«Sono io bene sveglio? Siete voi che mi parlate, Malatesta? O
mi credete così semplice da intricarmi in siffatte reti? Ben
altri ingegni che non sono i vostri si richieggono, o Malatesta, per
ingannare un Orange.»
«Vicerè, io non inganno. Il papa mi assicura un
guiderdone che non saprei sperare nè desiderare maggiore: -
ponete gli occhi su questo breve.»
E tolta di mano la lanterna ad uno de' suoi uomini d'arme,
presentò all'Orango la carta dei patti firmata dal papa; -
quindi, ripostasela in seno, continuò:
«La parca Fiorenza non potrebbe, nè anche volendo,
darmi tanto. Ora dunque vedete che preme a me consegnarvi la
città per lo meno quanto a voi preme prenderla. Non dubitate:
- io mi terrò fermo finchè non torniate
vittorioso.»
«Andrò - ma farò spargere voce ch'io non mi
allontano; sia vostra cura confermarla; - ritornerò tra poco:
- mi basta la vista, - due giorni o al più tre. Però
in ogni caso fatemi una polizza con la quale con sacramento vi
obbligherete a non uscire di Fiorenza finchè io non torni, -
altramente non avrei scusa. - Rodolfo, andate a procurare una penna
e una carta.»
«Lasciate la polizza. Non basta a voi quello che basta al
pontefice?»
«Non basta.»
«Ma sentite: la carta non ha mai trattenuto nessuno; - voi
capite lei essere tanto fragile cosa che non resiste alla pressione
di un dito.»
«Non importa. Io la pretendo ad ogni modo.»
«Ed io la farò.»
«Scrivete. Noi, Malatesta Baglioni, sotto sacramento ci
obblighiamo e promettiamo di non uscire nè lasciare che altri
esca di Fiorenza prima del ritorno nel campo...»
«Ritorno nel campo...»
«Del principe Orange. In fede. - Apponete il vostro
nome.»
«Dunque siete sicuro di ritornare...?»
«Al più lungo fra tre giorni.»
«Addio. Lasciate ch'io vi stringa la invitta destra. Vi
accompagni la fortuna. Buon viaggio!»
«Apparecchiate le feste: ci rivedremo fra tre giorni.»
«Quando mi sono fregato la bocca, chi potrà accusarmi
di aver bevuto del vino? - Buon viaggio! - Va'; - nel viaggio che
imprendi nè ti si stancheranno le piante, nè ti
rovescerà il palafreno. - E poi vi ha chi cerca le lame di
Brescia o di Damasco! - Stolti! - La intenzione dell'uomo taglia
meglio di qualunque acciaro. Qual pugnale potrebbe vantarsi di
ferire più giusto delle mie parole? Tornerà fra tre
giorni... ed io non devo uscire finchè ei non rivenga in
campo... per Dio! ciò mi obbliga a starmi in Fiorenza per una
eternità... e quello ch'è peggio, l'ho promesso con
giuramento... basta, il papa mi acconcerà con Cristo. - O
Cristo, tu pure per la tua parte dovresti sovvenire la giusta causa!
Deh! pensa tu a far morire il Ferruccio, come io ho pensato a far
morire l'Orange! Allora comincerò davvero a conoscere che ti
sta a cuore la Chiesa, ed io andrò persuaso di essere accolto
fra gli eletti in paradiso, alla tua delira, Amen.»
Così l'empio Malatesta scherza col delitto e con l'inferno.
Dio non paga il sabbato.
Vedeste mai più immobile cosa delle arene del deserto
finchè il vento tace? Le sferza il sole co' suoi raggi, - le
pestano le piante dei dromedari e dei cammelli, - la caravana vi
procede sopra spensierata come sul cimitero della natura:
all'improvviso ecco comparisce una nuvola infuocata, - subito dopo
il soffio sterminatore; e la bufera del deserto rugge più
terribile della procella del mare; - qui arte di nocchiero non
giova, - ogni argomento umano vien meno, - quasi serpente inferocito
ravvolge la sabbia nelle sue interminabili spire uomini e animali: -
dov'è la caravana? Tra un centinaio di secoli una mummia
d'uomo, un osso fossile di dromedario o di cammello faranno
testimonianza che un giorno fu calpestato il deserto. - Così
il popolo.
Il due di agosto corre una voce, il principe Orange, lasciato il
campo, aver mosso contro al Ferruccio; il fiore dell'esercito
accompagnarlo; la fama, esitante dapprima, si difinisce e conferma,
siccome avviene quantunque volte precorre la verità. Il
popolo solleva la faccia contristata per vedere se alcuno viene a
sovvenirlo di consigli o di comandi. Gli uni non mancarono nè
gli altri. I giovani della milizia, e sopra tutti Dante da
Castiglione, presero a dire essere venuto il tempo di combattere,
porgere Dio nella sua misericordia l'occasione per liberare la
città: il popolo s'infiamma, la parte migliore dei magistrati
acconsente, il gonfaloniere esulta ancora egli e promette in tanto
stremo non si rimarrà neghittoso a vedere.
Due dei Dieci andarono in gran fretta a trovare Malatesta Baglioni e
Stefano Colonna, e a pregarli che volessero rendersi al palazzo per
consultare; ambidue si mostrano rilenti a obbedire, pur vanno, - il
primo in compagnia di cinquecento soldati, armato di corsaletto e di
celata.
Per le scale del palazzo Zanobi Bartolino ricambia una parola col
Malatesta, e con quella parola gli pone in mano il pugnale per
trucidare la patria.
Stavano adunati la Signoria, i Collegi, i Dieci, i Nove e i
gonfalonieri dei sedici gonfaloni. Quivi con acconce parole Rafaello
Girolami espose; la mente del governo essere di rassegnare
l'esercito e poi rimettersi in tutto all'arbitrio della fortuna e
combattere. Malatesta a siffatta proposta rispose le seguenti parole
riferite da Giovambattista Busini.
«Signori, io sono venuto a farvi reverenza ed ho indugiato
sino ad ora perchè mi era detto che le Signorie Vostre mi
volevano gettare a terra di questo palazzo; tal vedo tra voi che mi
mostrò sempre aperta, la finestra dalla quale fu precipitato
Baldaccio; - e pur ora, salendo, udii dire da uno dei vostri
cittadini: Va' pur su, va' pur su; tu non uscirai. Io non sono
traditore, ma vi affermo che poco più avete rimedio a
salvarvi.»
«Noi non vi chiamiamo», riprese il gonfaloniere,
«per udire discolpe, - conosciamo a prova la fede e prodezza
vostre, e in queste intieramente noi confidiamo. Nei liberi
reggimenti non è da farsi conto delle parole che si vanno ad
ogni ora spargendo dintorno dai malcontenti e più spesso dai
tristi; a voi basti possedere la fidanza della Signoria. Noi vi
chiamiamo per sapere quanta gente abbiamo e per fare la rassegna.
«Voi avetene poca.»
«Quanta poca? Non paghiamo dodicimila paghe? Che dite voi?
Perchè ci fate pagare tanti danari non avendo gente?»
«Per mantenere la reputazione a voi e a me; perchè se i
nemici sapessero che noi abbiamo così poca gente, darebbero
l'assalto alla nostra città.»
«Noi vogliamo ad ogni modo rassegnare la gente.»
«E come? Non c'è una picca tra' soldati.»
«E dove sono quelle di cui li provvedemmo?»
«Ne hanno fatto fuoco per cuocere pesciduovi.»
«Quante ne manca?»
«Ne mancano seimila.»
«Saranno provvedute domani.»
«Mancano gli arnesi ai cavalli per trainare le
artiglierie.»
«Abbiamo gli arnesi.»
«Mancano i cavalli.»
«Abbiamo i cavalli.»
«Dunque i traditori siete voi», rispose alterato il
Malatesta, «che tutte queste cose avete provveduto e meco non
ne teneste parola.»
«Malatesta, a mani giunte vi supplichiamo ad assaltare il
campo.»
«Questo non è possibile.»
«L'esercito è scemato, il capitano lontano.»
«Eccelsi signori, v'ingannano; poche genti mossero contro al
Ferruccio. Fabrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli lo stringono su
quel di Pistoia con due eserciti due volte maggiori di quello che
farebbe mestieri per opprimerlo. Qui sta il principe, e veglia
attentissimo per ributtare chiunque esca.»
«No, le nostre spie non c'ingannano; sappiamo tutto: il
principe ha mosso contra il Ferruccio con la gente più
valorosa del campo, nove o diecimila tra fanti e cavalli; a guardare
il campo rimasero da quattromila e dei peggiori; sappiamo avere
ordine di non uscire a fare giornata, bensì in caso di
difficoltà ridursi nel forte della piazza abbandonando il
Sassetto, Musciano, Giramonte, il Gallo e gli altri luoghi forti;
noi abbiamo seimila ducento settanta soldati in punto da combattere,
ottomila della milizia cittadina; allestimmo ventidue pezzi di
artiglierie da campo: voi lo vedete, sappiamo questo ed altro
ancora.»
«Voi non sapete nulla... voi non sapete nulla; vi mettono di
mezzo, vogliono la vostra rovina..»
«Bene, sia, - noi vogliamo combattere; vostro ufficio è
obbedirci.»
«Voi mi volete ammazzare, - ma ammazzerete un corpo
fradicio.»
«Che parole, che pensieri sono questi vostri, messere
Baglioni? Noi vi ripetiamo che vogliamo combattere.»
«Or da che parte intendete uscire, signori? Da San Friano no,
perchè da Monte Oliveto ci sfolgoreggiano i nemici con le
artiglierie fin sulla porta e impediscono attelarci in battaglia, e
inoltre abbiamo i Tedeschi di San Donato in Polverosa alle spalle;
non da San Pier Gattolino, perchè, come vedete, le batterie
avversarie distano dalla città un tiro di archibuso appena.
Da San Giorgio nemmeno, standoci di faccia il cavaliere del
Barduccio. E quando pure potessimo stenderci in battaglia,
affrontare i ripari e superarli, chi ci difenderà in quella
disordinata zuffa da seimila fra Tedeschi e Spagnuoli che
c'incalzeranno dietro nuovi della battaglia e composti? Uscendo
dalla parte opposta dell'Arno ci mancano le forze, perchè
dobbiamo tenere guardato il monte e sostenere la cavalleria, alla
quale dal nostro canto non possiamo opporre cavalli. - Ora pensate
voi se io, od altri v'inganna.»
«Messere Malatesta», notò Michelangiolo
Buonarroti, «non ha osservato che l'Arno è gonfio,
nè così di leggeri potranno aiutarsi i nemici delle
due sponde del fiume. Messere Malatesta ha lasciato eziandio
inosservato che per la via di Rusciano e per la valle verso il Gallo
può molto bene avanzare la gente senza timore d'impedimento
per le artiglierie nemiche.»
«Il signor Malatesta», riprese Francesco Carduccio,
«ha pur anche dimenticato che quantunque volte i Fiorentini
assaltarono il campo, stettero a un pelo di metterlo in rotta... La
causa poi per cui mancammo il fine, se si partisse dalla fortuna o
da che muovesse, - meglio di tutti può dirvi qui Malatesta
Baglioni.»
«Carduccio, Carduccio, la vostra lingua ferisce velenosa
quanto quella della vipera.»
«Piuttosto le vostre orecchie stanno tese con più paura
che quelle della lepre.»
«Voi mi portate rancore, voi vorreste farmi capitare male, -
un giorno verrà in cui i Fiorentini si accorgeranno chi di
noi due fu traditore.»
«Ma io credo che, per saper questo, i Fiorentini non
abbisognino aspettare pure un istante.»
«O signore Stefano», interruppe il gonfaloniere,
«perchè non ci aprite la mente vostra? In negozio di
tanta importanza certo il vostro consiglio varrebbe a farci deporre
o confermare la opinione nostra; - in nome di Dio, favellate.»
«Onorando messere Rafaello, questa eccelsa repubblica possiede
copia di capitani, come il signor Malatesta e il commessario
Ferruccio, i quali assai meglio di me varranno a torvi d'impaccio;
pure, dacchè così volete, vi dirò schiettamente
il parer mio. Nei termini ai quali vi veggo ridotti, vi consiglierei
ad accordare; nonpertanto io vi ho promesso difendere il poggio, e
sia che si voglia, - vi terrò fede: se delibererete uscire,
uscirò anch'io, non degli ultimi, ma nè anche dei
primi! - è tempo che il signor Malatesta assuma questo
principalissimo ufficio di capitano generale.»
«Prodi uomini», si volge il Carduccio ai capitani
chiamati nella consulta, «pare a voi potersi assalire il campo
con buona speranza?. Siamo da quindicimila contro quattromila,
nè l'animo ci manca.»
«Non è vero... e' v'inganna», grida Malatesta.
«Tacete, Malatesta, - io ve lo impongo in nome della legge.
Stanno in Fiorenza quindicimila circa soldati, - buona e animosa
gente; - il principe d'Orange ha abbandonato il campo, si trae seco
quattro colonnelli italiani, tutti i cavalleggeri, compresi gli
stradiotti, non so quanti archibusieri, da tre mila e più
fanti tra Tedeschi e Spagnoli; - arrogete il campo essere scemo
delle bande del Maramaldo e del Vitelli; - ancora, devonsi
aggiungere gli Spagnuoli ribellati che sotto la condotta di Cuviero
stanziano ad Altopascio; - noi dunque superiamo adesso di gran lunga
il nemico».
«Odilo!» proruppe Malatesta, «non par ch'ei dica
la verità? Come avete saputo tutte queste cose,
messere?»
«Queste sappiamo ed altre più assai, Baglione. - Noi
sappiamo ancora che ieri a tre ore di notte...»
«Che ardireste?...»
«A tre ore di notte due uomini fuori di porta Romana si
restrinsero a segreto parlamento; - uno di loro adesso arriva a
Prato; - voi comprendete che possiamo dunque sapere dove in questo
punto si trovi l'altro, - Malatesta...»
«Ah! voi mentite...»
«Soldato! Se tu sei barbaro, come Brenno, sappi che io sarei
romano, come Papirio; ma rammenta che le armi di che hai cinto la
persona e l'apparecchio dei cinquecento soldati coi quali tu minacci
non potrebbero forse salvarti.» - E tra mezzo a un tumulto
sempre crescente, allo schiamazzo universale, con maggior voce il
Carduccio continua:
«Non anche noi siamo ridotti ad avere scettri di avorio e
canizie per difesa; qui sotto le vesti abbiamo i nostri pugnali, -
nei nostri petti un cuore che freme alla vista dei
traditori...»
Si prolunga il trambusto; i capitani perugini si stringono attorno
al Malatesta silenziosi e minaccevoli; - i padri si agitano sui
seggi, - parlano o piuttosto gridano tutti. Veementi erano i gesti,
veementi le parole; - i capi ondeggianti davano sembianza di mare
commosso o di campo di spighe quando il vento soffia. Pure,
adoperandovisi i migliori cittadini, lo stesso Malatesta accennando
che volea parlare, si placò a mano a mano lo schiamazzo; in
mezzo al digradante conturbamento fu udita la voce del Malatesta:
«Che libertà è questa vostra? Volete libero
reggimento, ma soltanto per voi; - amate il favellare sciolto
finchè vi giova; - quando vi nuoce, condannate il malcauto ad
avere mozza la testa. Io ho aperto francamente il parere mio,
perchè amo questa città davvero e perchè non
vorrei vedere voi altri trucidati sotto i miei occhi.
Michelangelo Buonarroti, levandosi in piedi ed ambe le braccia
stendendo verso il Baglione, profferì queste solenni parole:
«I codardi non lasciano eredità di odio o di amore. Noi
vinceremo; e quando pure rimanessimo morti, sappiate che co' vermi
nati dai cadaveri dei martiri della libertà le furie
compongono il flagello di rimorso e di terrore col quale percuotono
eternamente i tiranni.»
«Posciachè fato comune è morire», aggiunse
Dante, «una palla, una piccata nelle viscere sono bene spesso
infermità meno dolenti delle altre, - sempre più
gloriose.»
Ma il petulante Malatesta riprende: - «Questo è il
parer vostro, nè, comunque vaghi, due fiori fanno la corona:
or via, adunate il vostro consiglio generale; io esporrò le
mie, voi le vostre ragioni, e stiamoci a quello deciderà il
popolo chiamato a parlamento.»
Questo fu, come narrano gli storici, il colpo maestro del Bartolino.
Egli sperò, acconsentendo i padri, suscitare le cupide
passioni della plebe o. sbigottirla col terrore. Pessime sempre
vedemmo riuscire alla libertà della patria le deliberazioni
prese in piazza: abbandonato il governo, vi avrebbe steso la mano il
Bartolino, Malatesta doveva appoggiare la usurpazione con le armi;
così di leggieri si conseguiva lo scopo, le palle senza
resistenza si ristauravano: se poi i padri negavano, si screditava
lo stato; non era il bene generale a cui miravano, bensì
piuttosto la ostinazione di pochi arrabbiati; diversamente,
perchè non consultare la mente degli universi cittadini?
Temevano il pubblico suffragio? il popolo è ottimo
conoscitore di quanto o come dannoso deve fuggire, o come giovevole
seguitare.
Così colui che in tutta la sua vita non seppe rivestire un
fiasco, eccolo ad un tratto sapientissimo a reggere gli stati in
tempi difficili: pazze cose! ma la gente per avventatezza di sangue
cieca, o per cupidità traditrice, non argomentò mai
più acconciamente; e lo vedemmo pur troppo.
Però conobbero la insidia latente; composta appena
l'agitazione, si scompigliò di nuovo l'assemblea, diverse
voci si fecero sentire soperchiando il trambusto: Siamo dunque
venuti a questo? - Il parlamento - la balìa, - questo
è un volere mutare lo stato. - Non ci par farina del suo
sacco. - Io ben conosco chi fa fuoco nell'orcio. - Si udì mai
maggiore impudenza di questa? - Forse non costituiva il popolo
questo libero reggimento, - non elegge egli i maestrati? - Guai se
piegano a siffatte enormità! - la patria sarebbe perduta.
Rafaello Girolami, quando prima potè farsi ascoltare,
favellò:
«Signor Malatesta, voi non siete chiamato qui come consultore,
molto meno come ordinatore; voi ci dovete la fede vostra. Da voi non
desideriamo sapere se dobbiamo fare o non fare una cosa, sibbene il
modo di farla. Se nei momenti di maggiore urgenza, i maestrati
dovessero aspettare per risolversi il consiglio di tutti i
cittadini, nessun governo potrebbe rimanere in piedi tre mesi.
Inoltre Fiorenza aduna il parlamento quando muta stato. Intendereste
voi forse rovinare questo reggimento? Non lo crediamo. Voi tutti
uomini di guerra qua dentro raccolti, vi pare egli possibile
l'assalto del campo con speranza di riuscita?»
I capitani, specialmente i Guasconi, con i gonfalonieri, risposero
tutti ad una voce altro non desiderare che venire alle mani con quei
di fuori; essere dispostissimi a vincere con onore, o a morire senza
vergogna; potersi assaltare il campo scemato com'era del fiore dei
combattenti, potersi ancora, come spesso avevano provato, assaltare
pieno di gente, purchè i Signori li badassero alle spalle,
nè, mentre presentavano il petto al nemico, il traditore
tagliasse loro per di dietro i garretti.
Tra tanto consenso di uomini di guerra, Pastrano Corso, Cencio
Guercio, Biagio Stella, Margutte da Perugia ed altri tra Côrsi
e Perugini fidati del Baglioni risposero essere stoltezza
combattere, andare incontro a certissima morte; ne avrebbero
acquistato biasimo presso il mondo, castigo presso Dio.
«No, no», proruppe Dante, «il mondo può non
imitare quelli che si sacrificano, comecchè inutilmente, in
favore della libertà, ma per certo li loda.»
«Che dite voi?» tonava il divino Michelangelo,
«che si farebbe Dio delle sue stelle, se non le adoperasse a
coronarne la fronte degl'incliti che morirono combattendo la
tirannide?»
E i capitani generosi volgendosi con mal piglio ai satelliti del
Malatesta:
«Al canto si ravvisa l'uccello. Avete paura? Restatevi; - noi
andremo senza di voi.»
«Noi!» quasi disperati urlarono i Perugini e i
Côrsi, cui morse acerba la rampogna, e comecchè
corrotto, una stilla di buon sangue italiano bolliva loro dentro le
vene; - si voltarono al Malatesta per conoscere dal suo viso se
dovessero o no rispondere all'invito. Malatesta immobile come un
faro in mezzo a mare in burrasca, non muta sembiante, o atteggia la
persona a moto generoso o di rabbia.
«Noi andremo senza di voi», replicarono i capitani
fedeli, «e ne facciamo sacramento sopra gli evangeli
santissimi.»
E mossi da un medesimo impulso si affollarono all'altare in fondo
della sala, dove stese le mani giurarono con grande effusione di
cuore avrebbero difeso Firenze finchè bastasse loro la vita.
«Vieni», disse Lionardo Bartolini, gonfaloniere
dell'Unicorno, a Dante da Castiglione, gonfaloniere del Vaio;
«forse tu non vorresti giurare?»
«Lionardo mio, chi rinnuova non mantiene; chi giura più
spesso delle femmine?»
«Certo di' bene. Quando esse giurano amarti per una
eternità, - ciò si deve intendere per una settimana,
con un poco del lunedì veniente, - ma poco...»
«Ho giurato una volta, e basta.»
Intanto Rafaello Girolami, guardando fissamente il cielo con le
braccia aperte, non senza molto pianto e singulti esclamava:
«Invitto Malatesta Baglioni, capitani valentissimi, vi prenda
amore della vostra fama, pietà di noi; non consentite che il
patrio fiume e le strade di questa città nobilissima corrano
sangue cittadino, - le strida degli uomini e delle donne desolate
feriscano il cielo, si ardano i palazzi, si contaminino i tempii di
Dio, si commettano infine quelle nefande abbominazioni le quali
siccome aprono l'inferno a chi le commette, non sono meno
incomportabili per chi le sopporta. Non vi diede la madre vostra
viscere umane? Cristo nostro Signore non v'insegnò
carità? sono le orecchie vostre di granito pel nome santo di
patria?»
I fidati di Malatesta mormoravano, - non si movevano, - pure
accennavano vacillare. - Tristi tutti!... ma il momento solenne,
l'esempio della virtù, il pensiero della perfidia ch'esita
sempre, finchè non sia irrevocabilmente consumata, e
l'appello non mai del tutto rivolto invano alla particola eterea
dell'uomo, gli soverchiava più poderoso di loro medesimi. Li
vide il Baglioni li vide e sorrise, e con suono benigno, guardando
il gonfaloniere, favellò:
«Si abbiano per non profferite le mie parole. Anche quando vi
piacesse il fato dei Saguntini, la fama loro splende assai luminosa
nelle storie, onde io non debba rifiutarmi parteciparla con voi. E
però, quantunque volto dalle magnificenze vostre ci
sarà comandato e per la parte dell'eccelso signor
gonfaloniere mantenuto quanto ne fu promesso, sono disposto a
mettermi a qualsivoglia manifesto pericolo, come manifestamente
vedranno.
«Dio vi benedica!» riprese il gonfaloniere esaltato,
«io verrò con esso voi armato di corsaletto e di
picca.»
Il Carduccio, declinato il volto, gemeva.
Il giorno appresso Malatesta avendo sentito per fedeli ragguagli la
pubblica esaltazione giunta al suo colmo, stimò bene
maneggiarsi in maniera da godere il benefizio del tempo. La Signoria
per tempissimo in compagnia di tutti i magistrati si recò in
Santa Maria del Fiore, dove si comunicò; poscia andarono a
processione per quelle medesime strade e con le reliquie medesime
che sogliono portare per la festa di San Giovanni. Intanto si
ragunarono i gonfalonieri, cittadini pieni di ardire e con esso loro
buona parte dei soldati pagati, ai quali pareva mille anni di venire
alle mani col nemico; pronti erano i Signori, pronto ed armato il
gonfaloniere, disposto, secondo la sua promessa, ad uscire ancora
egli.
Ad accrescere l'ardimento universale, si aggiunse un segno che,
comunque naturale, nondimeno anche ai nostri tempi, in cui tanto
lume di esperienza o abbiamo o vantiamo, riuscirebbe di maraviglioso
vantaggio in casi difficili. Un'aquila ferita in un'ala, aiutandosi
come meglio poteva, lungo il corso del fiume si rifuggì in
Firenze, dove presa da un pescatore e da questo presentata al
capitano Ridolfo di Ascesi, che stava di guardia alla porta San
Friano, egli, ritenuto per sè il corpo, mandò per un
suo soldato la testa alla Signoria. I signori, tenendo o fingendo
tenere simile accidente come augurio favorevole a sè, funesto
agli imperiali, ne fecero grandissima festa e al soldato, che fu
Cristofano da Santa Maria in Bagno, donarono quattro ducati d'oro. E
tanto più ebbero accetto siffatto presagio in quanto pochi
giorni innanzi il vento aveva staccato una bandiera dalle finestre
del palazzo, dove era scritto LIBERTAS, e travoltala per certe corti
prossime al Baldracca, dove si durò fatiche assai per
riaverla. Pareva anche il cielo volesse per questa volta intervenire
per tutelare la innocente città dalla truce cupidigia del
papa.
Comparve finalmente Malatesta, ma tardi, e dopo molte cerimonie
cominciò a squadronare i soldati per passarli in rassegna. Il
Busini, testimone oculare, racconta come Malatesta, per avvilire
l'animo dei Fiorentini, adoperasse una astuzia onde i soldati
apparissero pochi, e fu, che dove le file si componevano di cinque e
sette uomini, egli le istituì di sette e di nove. Il quale
accorgimento, non che sortisse l'effetto divisato dal Malatesta, ne
sortiva uno del tutto contrario; imperciocchè i Signori
ponessero in diversi luoghi molti cittadini, che annoverando uomo
per uomo e fattane somma, trovarono avere nove mila soldati pagati
in punto di combattere, di seimila e tanti che gli estimavano prima.
A tale erano ridotte le cose nella infelice Firenze.
Fornita la rassegna, che portò via buon tratto della
giornata, prese il Baglione ad arringare con sì lunga diceria
presso la quale le prediche di fra' Benedetto sarieno parse
epigrammi; poi dispensò copia di munizioni ai soldati;
chiamati in cerchio attorno a sè i capitani, molti ordini
distribuì, molte diligenze raccomandò, infiniti uffici
commise; - una operazione dopo l'altra, e a suo grandissimo agio. Il
giorno se ne andava, e non è da dirsi con quanta passione
vedessero i più animosi accostarsi il sole al tramonto.
Allora Malatesta, per isfuggire il mormorio che udiva a mano a mano
andare crescendo, quantunque i soldati conservassero le ordinanze,
nella stessa guisa che il mare gorgoglia innanzi che il vento soffi
ad agitare le sue onde, si cansò andandosene verso porta San
Nicolò. Colà giunto, spedì Cencio Guercio con
altri suoi fidati incombenzandoli di andare a riconoscere il sito e
i forti degli imperiali; tornassero tosto per quanto avevano grata
la sua grazia; capirono, come doverono comprendere, e si
affrettarono co' passi della testuggine. Così il subdolo
Malatesta, baloccandosi ora intorno ad una cosa, ora intorno ad
un'altra, pervenne a sera. Rimanendo spazio breve di giorno, quinci
egli si tolse all'improvviso, e con lui tutti i Perugini e tutti i
Corsi, raccolte prima le bagaglie, onde le compagnie ne rimasero
disordinate. La notte sopraggiunta non concesse luogo di abbracciare
prontamente altro partito, - all'opposto nacque confusione e
terrore: - temerono che i soldati del Malatesta, aperte le porte,
lasciassero il nemico irrompere nella città e mandarla a
ruba: i giovani della ordinanza, ancora efficacissima nelle
estremità della cadente repubblica, stettero tutta la notte
vigilantissimi, guardando le strade e le piazze con amorevole
diligenza. - Questo stato non può durare; gli eventi
precipitano al fine; egli fu deplorabile, - ma pieno di onore, di
compassione e di germi di futura vendetta.
Addio, Firenze, - tornerò per vederti agonizzare,
verrò per darti un viatico di lacrime prima che tu vada dove
Atene e Sparta andarono, dove la romana libertà precipitava,
dove tutte le tue sorelle ti precederono. Ultima stella del cielo
d'Ausonia.
Perchè piangete? Arduo è bene revocarci passi
dall'inferno, ma non impossibile. - Volete, e sarete.
Mi volgo al campo della Gavinana.
CAPITOLO VENTESIMONONO
LA BATTAGLIA DELLA GAVINANA
Or chi ti può guardare,
Infelice castello, che non pianga?
Pietro Ricciardi, Sonetto sopra Gavinana.
Fra le alpi medie che Toscana partiscono dal Modanese, superati
alquanti meno ardui gioghi, ti occorre il colle di Prunetta. Quasi
penisola, questo monte s'inoltra da mezzogiorno a tramontana e
nasconde la valle ov'ebbe sepoltura la Repubblica Fiorentina. Il tuo
petto affannato, pervenuto una volta alla sua radice, non domanda
riposo; se i tuoi occhi si volgono a misurarne l'altezza, al tuo
spirito non ne deriva sconforto, bensì desiderio
irresistibile di pareggiare col rimanente del corpo la
velocità dello sguardo per attingerne la cima.
E quando, palpitante, il volto bagnato di sudore, tu giungi a
toccarne la sommità, che chiamano le Lari, tu lanci
giù nella convalle quanto hai di virtù visiva nella
testa, di anelito nel cuore, e la verità non impallidisce
davanti l'aspettativa; imperciocchè le magnificenze della
natura sieno le sole che la umana immaginazione non possa superare
giammai.
Se rialzando lo sguardo dalla valle ti venga fatto girarlo attorno,
ti si presentano monti sopra monti, e parte di questi ti ricordano
memorie che il tempo non ha per anche corroso dalle tavole della
storia, o ti accennano col nome sventure e fatti che hanno stancata
la tradizione. Da una banda sorge il colle di Mal Consiglio, dove
è voce Catilina statuisse scendere a tentare la fortuna delle
armi contro Quinto Metello, - e poco sotto il piano di Mal Arme, ove
fu combattuto l'aspro conflitto. Vi perdeva Catilina la fama e la
vita; - guai ai vinti! Se egli sforzava il destino, forse Sallustio
lo avrebbe celebrato vendicatore del popolo contro la tirannide dei
patrizi. - Quinci ti accennano la Selva Litana, di cui la terra
nascose le ossa di una legione romana uccisa dai Galli Boi. Il giogo
del Mal Passo va nomato per più recente dolore; - egli ha
fatto piangere per tutta la durata della vita una madre, chè
tra le balze di lui rimase miseramente infranto il figliuolo della
sua tenerezza. Il Libro Aperto, i Sassi Scritti, la Croce Arcana, la
Tana dei Termini, le Torri di Pompilio, sono i nomi dei monti che
circondano la valle e dei quali invano tu cerchi la origine remota.
Per poco che Dio abbia benedetto la tua anima di poesia, l'aria che
spira vivida su questi monti ti suscita alle visioni dei tempi
trascorsi e dei futuri. Il passato è coperto di velo nero,
l'avvenire di velo colore di rosa, perchè il primo lo ha
tessuto l'esperienza, il secondo la speranza; ma all'occhio del
poeta, come a quello di Dio, la eternità si offre intera,
quasi circolo luminoso di cui i secoli compongono i punti. Al
cospetto di Dio e del poeta ogni cosa sta presente. Però i
grandi poeti sopra la terra si annoverano più rari dei giorni
della creazione; - parte maggiore di Dio conteneva il cranio di
Dante che non il giro dell'emisfero celeste.
Dall'aria che spira su i colli emanano effluvii vitali, chè
di lei si nudriva la libertà infante, e di lei si compiace
allorquando, cacciata meno dall'odio dei tiranni che sbigottita
dalle turpi frivolezze di coloro che si dicono suoi amici, abbandona
i piani per approssimarsi alla sua patria, ch'è il paradiso.
La luna sorta dall'opposto monte del Crocicchio balza impetuosa di
nuvola in nuvola; e ricorda la credenza indiana che immaginò
la fuga dell'astro della notte traverso i cieli per sottrarsi alle
persecuzioni del serpente che la insegue per divorarla.
Da cotesto alternare di tenebre e di luce sorgevano spaventosi
fantasmi.
In verità nella magnifica valle io vedeva una tomba
scoperchiata dove giacesse l'immane scheletro della Repubblica;
posava il suo teschio sopra di un colle, e l'altro ossame si perdeva
protendendosi lontano lontano lungo la forra tenebrosa che si
sprolunga dalla parte di mezzogiorno.
E nelle nere masse dei castagni secolari immaginava contemplare gli
spettri degl'illustri defunti i quali traessero a lamentarsi sopra
la fossa della Repubblica defunta.
Il vento cacciava zufolando giù pei declivi le foglie di
castagno cadute, e gli echi dei monti ripetevano un suono
somiglievole al canto dei trapassati.
Allora spontanea mi si affacciò alla mente la visione del
profeta Ezechiel, - la visione delle ossa inarridite.
E gridai con gran voce: «Potrebbero queste ossa
rivivere?»
Te avventuroso, o profeta, a cui promise il Signore di ricoprire
coteste ossa di nervi di carne e di pelle, e mandare lo spirito dai
quattro venti che soffiasse sopra gli uccisi, e rivivessero!
I morti dicevano: «Le nostre ossa sono secche, - la nostra
speranza è perita, - e in quanto a noi siamo
sterminati.»
Ma il Signore rispose: «Ecco, io apro, o popolo mio, i tuoi
sepolcri, io ti traggo fuori delle tue sepolture, e ne compongo una
sola nazione sopra la terra. - Io prendo la verga dove sta scritto
Josef, che è in mano di Efraim, e quella della tribù
d'Israel sue congiunte, e le metterò sopra la verga di Giuda
e ne farò un medesimo fascio, e saranno una stessa cosa nella
mia mano.»
Alla voce di Dio le ossa si accostarono ciascuno al suo osso, lo
spirito entrò in loro, ritornarono in vita, si rizzarono in
piedi e furono un grandissimo esercito.
Oh! perchè mi manca la fede del profeta! Qui si vuole la mano
di Dio, ed io non ardisco sperare nel miracolo.
Se io esclamassi sopra i vostri sepolcri: «Sorgete!» la
mia voce spirerebbe prima di giungere alle soglie della morte.
E l'eco me la rimanderebbe come uno scherno.
Almeno, poichè io vi evocava dal vostro riposo, potessi, o
sacri spettri, diffondere sopra di voi la luce del canto,
rivendicare il vostro nome all'oblio dei secoli ed alla
ingratitudine degli uomini!
Ma di ciò degno nè altri mi crede nè io stesso;
- porto le pene della mia audacia, perchè i rimorsi mi
travagliano e la paura.
E sì che io visitai i luoghi dove combatteste, o miei padri,
con religione pari a quella del pellegrino che muove al sepolcro di
Cristo, - toccai le armi che stringeste nel conflitto, - bagnai la
bocca alla medesima fontana dove dissetaste le labbra riarse
dall'ardore della battaglia, - tolsi un pugno della terra delle
vostre sepolture e me lo accostai al cuore perchè mi
s'infiammasse e sapesse dire.
I raggi del sole possono trarre un suono dal granito; - il cuore
esulcerato dallo infortunio diventerebbe per avventura più
duro della pietra!
Ma ormai quello che è scritto è scritto; giunge troppo
tardi il pentimento. Se adesso io mi abbandonassi spossato, sarei
meno degno di compassione che di vituperio. Dio mi sovverrà
nella estrema fatica. I fatti con tanto amore raccolti non devono
rimanere occultati; io gli narrerò con fedeltà di
storico, invocando che nasca il poeta il quale gli sublimi del
canto.
Due cose nocquero principalmente al disegno del commessario
Ferruccio di liberare la patria: la prima fu, che alle ferite non
bene sanicate si aggiunse la febbre venutagli addosso un po' per la
troppa fatica, un po' a cagione dello ammuttinamento dei
Côrsi, i quali levarono tumulto per difetto di paga; di che il
Ferruccio sentendo inestimabile ira e dolore, proruppe fuori della
chiesa di Santa Caterina, dove alloggiava con la testa scoperta, in
giubbone da niente altro riparato eccetto le lunette di maglia, ed
avventatosi in mezzo ai sediziosi, con lo stocco alla mano tre uno
dopo l'altro ne uccise, restando attonito tutto il resto. La
seconda, che sopramodo lo travagliò, fu non avere pecunia
nè trovare via per farne; imperciocchè coi danari alla
mano intendeva raccogliere gente che bastasse non solo per
combattere meno disperata battaglia con gl'imperiali, ma lasciare
Pisa e Livorno presidiati in guisa si potessero tenere anco quando
Firenze, per diffalta di vettovaglia avesse dovuto capitolare, ed i
suoi sforzi per soccorrerla fossero riusciti invano. Consiglio
così magnanimo come arguto; avvegnadio finchè ci
è fiato ci è speranza, e per esperienza lo provammo
anche ai dì nostri; invero era a sperarsi allora su gli umori
di Francia, voltabili sempre, sopra la morte del papa, che ormai non
poteva troppo tardare, su le molestie del Turco nella Ungheria non
meno che sul mareggiare delle coscienze alemanne divise dalla
Riforma.
Fra queste angustie il nostro eroe tanto si tribolava che i
commissari di Pisa scrivevano ai Dieci in data del 25 luglio
esserglisi aggravato il male in modo che i medici concludevano per
qualche dì non poterlo guarire... «e per essere la
presenzia sua utilissima, e quanto sia necessario il farlo presto;
dall'altro canto non potere esercitare la persona per qualche
giorno; ci è parso spacciare di nuovo a Vostre Signorie;
avvisando tutto, acciò quelle commettino quanto doviamo
eseguire.»
I Dieci, pressurati dal popolo, il quale, non trovando più
sozzure e schifezze da cibare, urlava con l'urlo della fame,
scrissero al Ferruccio che per amore di Dio si avacciasse; che se
non poteva andare egli, spedisse ad ogni modo tutta quella gente
preponendole Giovanbatista Corsini detto lo Sporcaccino, o quale
altro gli paresse più idoneo; nel qual caso davano a colui
che mandasse la medesima autorità. - Presentata questa
lettera al Ferruccio, dopo averla letta e poi ripiegata, tenendola
in mano, la prese da un lato co' denti dicendo:
«Andiamo a morire.»
E siccome il signore Giampagolo gli veniva raccomandando di mettersi
in lettiga e così farsi trasportare con manco suo travaglio,
egli rispose mestamente:
«No, figliuolo mio, no, pel cammino che mi avanza a fare le
mie gambe basteranno.»
E senz'altro indugio il Ferruccio si pose in via, lasciata Pisa il 1
agosto 1530 e movendo per la Valdinievole: chiesta e non ottenuta
dai Pesciatini la vettovaglia, fatto mostra di prendere la via
maestra e piana, prevalendosi dell'oscurità della notte,
tralascia l'agevole sentiero e si getta tra i monti che gli sorgono
a mano dritta nelle vicinanze di Collodi. Diventando la notte
più nera, ed essendo ormai pervenuto a Medicina, castello del
contado lucchese, gli parve di qui rimanersi, tanto più che
in questo luogo aveva dato ritrovo a certi capi di parte
cancelliera, per propria prestanza e più per le molte
parentele ed amicizie a sostenere le cose della Repubblica
pericolante adattissimi.
Disposti gli alloggiamenti, invigilato a che ognuno fosse provveduto
del bisognevole, non potendo ormai più vincere la impazienza
dello attendere, si cacciò fuori solo dal castello speculando
se gli aspettati giungessero.
Nè stette guari che, udendo rumore, mosse il grido consueto
del conoscimento; a cui venendo data la convenuta risposta,
ravvisò gli amici e con gran cuore li condusse nella sua
stanza.
Ridotti così a segreto colloquio, il Ferruccio mostrava loro
la commissione dei Dieci, i quali gli ordinavano valersi dell'opera
e del consiglio di Baldassare Melocchi detto il Bravotto, del
capitano Guidotto Pazzaglia e del capitano Domenico Belli,
chè tale era il nome dei chiamati: diceva intendimento della
Repubblica essere ch'egli prendesse la strada per Calamecca, Monte
Berzano e Prunetta e quinci gittarsi nella valle di ponente, tra la
Panche e Pontepetri, donde risalendo i Lagoni, indirizzarsi alla
Badia Toana e scendere poi, come meglio gliene venisse il taglio,
per Montale o per la contea del Vernio: ma la seconda, potendo, alla
prima strada anteponesse, imperciocchè i conti Bardi di
Vernio si erano profferti in simil caso di fare quanto spettava a
cittadini amorevoli della Repubblica; finalmente a loro con tutte le
viscere si raccomandava, nelle braccia loro si riponeva, dipendere
da essi la salute di Firenze o la sua distruzione, e con
l'abbattimento di Firenze la morte vera di qualsivoglia
libertà in Italia.
Il Bravotto e il Pazzaglia con dimostrazioni infinite di benevolenza
risposero - non dubitasse, avrebber eglino medesimi condotto
l'esercito così sicuro come se avessero dovuto menarlo
traverso i poderi; penetrato più addentro nella montagna
pistoiese, non gli sarebbe venuta meno le vittovaglia, povera, ma
sana e copiosa; e poi tutta la parte cancelliera, in numero da
uguagliare se non da vincere, l'esercito fiorentino, si sarebbe
levata in arme e lo avrebbe seguito finchè non lo avesse
riposto trionfante in Firenze. - E qui non rifinivano dagli
abbracciari, dalle iattanze, dalle manifestazioni di smodata
allegrezza.
Intanto il Ferruccio notava che il capitano Domenico Belli, dopo le
prime accoglienze, si era imbrunito del volto e, le braccia piegate
sul petto, non aveva più aperto bocca. Andatogli dappresso e
postegli domesticamente le mani sopra le spalle, quasi motteggiando
gli diceva:
«Ora perchè tacete, capitano Domenico? Voi ci
diventereste per avventura nemico?»
«Nemico no, - ma amico non posso.»
«E come non potete voi?»
«Ho dubitato della mia parte, disperai della Repubblica
fiorentina e della fazione cancelliera, lo scoperto ed impunito
tradimento di Malatesta mi spaventava, la discordia dei cittadini mi
tolse l'animo, la imbecillità dei capi mi abbatteva del
tutto; - allora pensai provvedere a me stesso. I Panciatici, mi
offersero comporre le antiche inimicizie, facemmo pace obbligandoci
con sagramento di non apportarci più oltre molestia...»
«Ed è ciò che vi trattiene?» lo interruppe
il Bravotto.
«Null'altro...»
«E credete voi da senno che, quando saranno diventati
superiori, i Panciatici vi manterranno i patti?»
«Non so di loro; io so soltanto che debbo mantenere i
miei.»
«Dunque voi», riprese il Ferruccio, «mancate alla
patria nel suo maggior bisogno?»
«O alla patria, o alla coscienza, - e la mia prima patria mi
sta qui dentro», risponde il Belli percotendosi il seno; -
«messere commessario, sull'anima di vostra padre, che fareste
voi?»
«Io! - ma parmi che l'uomo debba distinguere su le cagioni per
le quali è condotto a rompere la fede.... Forse talvolta
dimostra maggiore magnanimità colui che la rompe che quegli
che la mantiene.»
«Voi non dite la verità. Lasciate l'uomo arbitro di
giudicare i casi secondo i quali deve o no mantenere la fede, ed
egli vi proverà ch'ebbe sempre ragione. - Rispondete, vi
prego, messere commessario, alla mia domanda; che fareste
voi?»
«Io! - manterrei la fede data e mi romperei il cuore.»
«Ed io serberò la fede, e, senza pure rivedere la
faccia de' miei in questa stessa notte, con le armi ed il danaro che
mi trovo addosso, me ne vado in Ungheria per combattere contro il
Turco e spendere la vita in favore della cristianità.»
Il due di agosto riprese l'esercito fiorentino il sentiero per le
aspre giogaie di quei monti, ed affrettando, quanto meglio poteva,
il passo, arrivò a notte fitta in Calamecca, castello della
montagna pistoiese, di fazione cancelliera. Ferruccio considerata la
stanchezza de' suoi e il bisogno di averli ben validi nello scontro,
che aspettava imminente, dell'esercito nemico, ordinò nuova
posa.
Percorsa l'alba del giorno tre di agosto, che fu festa di santo
Stefano, l'esercito della Repubblica continua la via. L'aria
uliginosa, sollevandosi dalle valli, ingombra il cielo d'intorno,
sicchè poco vi si addentra lo sguardo. Il sole quando si
levò, pallido e privo di raggi, parve un occhio senza
palpebra. Nessuno avrebbe ardito innoltrarsi senza la fidanza che
avevano nelle pratiche guide.
In silenzio procedendo e ordinato il esercito condotto dal Bravotto
e dal Pazzaglia, giunge a quella parte del colle di Prunetta che ha
nome la Croce delle Lari. Qui sotto giace la terra di San Marcello,
principalissima della montagna pistoiese e, come panciatica,
parteggiante dei Medici. - Ella se ne sta improvvida, chè la
nebbia fitta le cela qual turbine di guerra si addensi sopra di lei,
quasi colomba che intenta ai dolci nati non vede il falco il quale
chiuse le ali si lascia piombare sopra il suo nido. Ora tra il
Melocchi e il Pazzaglia comincia il seguente colloquio.
«Bravotto», dice il Pazzaglia, «quinci poc'oltre
giace il castello che alberga i nostri nemici...»
«Che così spesso ci hanno arse le case...»
«Rubato i campi...»
«E noi tante volte offeso nella persona...»
«Fatto scempio de' nostri più cari...»
«Ci verrebbe pur bene il destro di distruggere quel nido di
vipere...»
«E perchè nol facciamo?»
[Footnote 1:]
«Ma... il commessario lo vieta; c'indicava la strada da
tenersi.., e tu ricordi con quante maniere di scongiuri ne
supplicava a non deviarne pure di un passo.»
«In meno di un'ora noi riduciamo San Marcello a tale che il
viandante non ne ravvisi più traccia, - distruggiamo una
gente che lasciata dietro di noi potrebbe molto agevolmente
riuscirci molesta, diamo spirito agli amici di mostrarsi per noi, -
ingrossiamo l'esercito, - spaventiamo il nemico, - e noi ci laviamo
le mani nel sangue degli odiati avversari.»
E così favellando erano già scesi verso la valle di
San Marcello, - l'opposta a quella che avrebbero dovuto percorrere.
Se nella rimanente Italia, con vergogna dei padri e danno diuturno
di noi, la vendetta si manifestò come passione, in Pistoia fu
rabbia. L'animo contristato rifugge dall'udire i fatti trucissimi
che desolarono la infelice contrada, nè fu certo
carità patria rendere con moderna edizione comuni le Storie
pistolesi, che per lo innanzi occorrevano di rado. Era vanto tra i
Pistoiesi offendere non il colpevole, sibbene il più reputato
personaggio della famiglia di lui, il quale spesse volte mansueto in
mezzo alla ferocia de' suoi deplorava l'iniquo talento. Non
impietosirono i duri petti le preghiere dell'età vetusta, non
i gridi delle madri, non i vagiti degl'infanti; invano i sacerdoti
dai pergami esclamavano: Pace, - pace! - Segno della bestiale ira
erano perfino le cose inanimate; sovente gentildonne d'inclito
lignaggio congiunte agli offensori, a piedi nudi, coperte della sola
camicia, col pargolo al collo, dovettero fuggire dalla casa in
fiamme; e dall'alto delle torri il nipote, anzichè arrendersi
nelle mani dello zio, lasciò cadersi capovolto a infrangersi
l'ossa sopra la selci; ogni vincolo rotto, ogni senso di
carità e di amore affatto spento; il petto più duro
del ferro che fasciava i corpi loro. Quando una parte cacciava
l'altra, ecco la fazione vincente scindersi anch'essa per la preda
sanguinosa, e sorgerne una rete interminabile di omicidii e di
rapine. Così prima i Cancellieri si divisero in Bianchi e in
Neri; quindi i Bianchi in Vergiolesi e gli altri della sua parte;
poi i Neri in Traviani, Ricciardi, Lazzari, Tedici, Rossi e
Sinibaldi; nè qui si stette la infame rete di uccisioni, di
scisme e di rapine, ma anzi si moltiplicò per modo che come
mi strinse il dolore a pensarvi, così mi assale vergogna a
raccontarle. E l'antico cronista fiorentino, il quale percosso da
tanta immanità, si avvisò specularne le cause, non
seppe trovare argomento altro migliore se non questo uno, che i
superstiti della strage catilinaria fermandosi in cotesta contrada
vi togliessero donna e di generazione in generazione il truce sangue
e le furie loro senza tralignamento ai più tardi nepoti
tramandassero. La quale opinione non solo deve rigettarsi come
falsa, ma ed anche biasimarsi come trovata ad arte per adombrare la
vera. Gran parte di colpa vuolsi attribuire ai Fiorentini, i quali,
mirando al dominio della Toscana e forse della universa Italia,
ebbero per accorgimento di stato tenere Pistoia con le parti, Arezzo
con le armi; onde, non che si dessero pensiero a sopire le antiche
discordie ne suscitavano sempre delle nuove. Ma il mal seme
partorì pur troppo la mala pianta; chè quinci mosse la
favilla che accese sì gran fiamma in Firenze ai tempi di
Corso Donati, e adesso vedremo che fu causa della rovina della
repubblica. Onde quanto meglio considero la ragione delle umane
vicende, tanto più mi confermo della sentenza di Focione, che
la politica degli stati non deve andare disgiunta da buona morale.
Un popolo nella lunga giornata dei secoli non è crudele e
perfido impunemente a danno di un altro popolo.
L'avantiguardia fiorentina, scesa in fondo della valle, piegò
alla volta di San Marcello, là dove anche ai giorni nostri
occorre una cappella di pietra grigia dedicata alla Vergine, posta
lungo la strada che da Pistoia conduce a Modena. I terrazzani non
conobbero il pericolo prima che sel vedessero irreparabilmente
caduto addosso; la nebbia fitta impedì loro pensassero ai
ripari. Irruppe pertanto nel castello la piena dei nemici: ben
s'ingegnarono chiudere le porte della Fornace e del Poggiuolo, ma
non poterono; - chiusero quella del Borgo, e a nulla valse,
imperciocchè gli assalitori accatastandovi davanti copia di
legna suscitassero tale un incendio di cui anche ai tempi presenti
occorrono vestigi. Dopo quel caso mutarono nome alla porta, e di
porta del Borgo lo chiamarono porta Arsa, che tuttavia le dura. Le
stragi, le rapine, i turpi fatti che così spesso e con tanto
fastidio tocca riferire allo espositore delle storie umane qui si
rinnovarono e più crudelmente che altrove; uccisero i vecchi,
perchè avevano offeso; le donne, perchè i figli
avevano nudrito alla offesa; i fanciulli, perchè crescevano a
offendere; le masserizie distrussero, le case rovinarono, i ricolti
serbati a mantenere la vita dispersero, pochi fuggirono, e recatisi
in collo i cari figlioletti, si dettero a cercare riparo
arrampicandosi su per l'ardua montagna detta la Serra o il
Partitoio; alcuni si chiusero nel campanile, dove disperati di
scampo attendevano, come meglio potevano, a difendersi. Poco
però avrebbero potuto sostenersi, che il Bravotto co' suoi
compagni sfidando la pioggia delle pietre erasi spinto a piè
della torre e quivi con suoi arnesi s'ingegnava tagliarla, se non
sopraggiungeva il Ferruccio. Nel contemplare la strage e l'incendio
arse di sdegno, e per poco stette che, pretermessa ogni ragione di
stato, non facesse lì per lì appiccare il Pazzaglia,
il Bravotto e quanti si trovavano seco partigiani Cancellieri; pure
compresse l'acerbità del dolore ed ordinò, pena la
vita, cessasse l'infame uccisione, si spegnesse la fiamma; il vigore
de' suoi si logorava non mica trucidando i nemici, bensì
spargendo sangue italiano. Chiamati sotto le insegne i soldati, li
trasse fuori della terra e gli stanziò sopra certa eminenza
la quale e per la sua situazione e per avere prossime le mura gli
parve opportuna a respingere qualunque assalto improvviso. Al tratto
di terreno occupato dall'esercito del Ferruccio rimase il nome di
Campo di ferro, come ne fa fede il seguente distico riportato nel
manoscritto del capitano Domenico Cini:
Ferreus hic ager est, ex quo Ferrucius olim
Sive hostem statuit vincere, sive mori.
Al punto in cui il pendio cessa e la pianura incomincia, il
viandante che si avvisasse entrare in San Marcello per la porta del
Borgo, oggi porta Arsa, incontrava e tuttavia incontra una casa
sopra le altre notabile. Vi abitava in quel tempo Antonio Albumenti
Mezzalancia di Pippo Calestrini, capitano di parte Panciatica, sopra
ogni altro della sua fazione temuto ed odiato; - ma egli, come colui
che ardimento aveva troppo e senno poco, toglieva ad abitare quella
casa fuori della mura del castello, volendo mostrare che non aveva
bisogno di ripari e sapersi molto bene difendere da sè
stesso.
Quando la gente del Bravotto e del Pazzaglia investirono la sua
casa, ed egli, tratto dal rumore, fattosi al balcone conobbe questi
suoi feroci nemici, si tenne spacciato; ma accennando nel volto
quella speranza che non aveva nel cuore, vedendo ormai ingombro il
terreno della casa, ordinò che la moglie, i figli, insomma
tutta la famiglia si ragunasse dentro una stanza, ed egli afferrata
una spada a due mani si piantò sul limitare minacciando
sicurissima morte a chiunque attentasse inoltrarsi: poco gli valse
cotesto disegno, chè il Bravotto, impaziente del fine, scese
nella strada e, appoggiata una scala alla finestra, gli
riuscì, quando meno sel pensava, alle spalle. Mentre quella
stanza si empiva di urla e di strage, il prete Nanni di Pippo,
fratello del misero Mezzalancia, si precipita dalla finestra opposta
a quella per la quale era entrato il Bravotto e, lo secondando la
fortuna, casca senza offendersi in terra: si rileva trepidante e
prorompe in fuga precipitosa. Ben se ne accorsero i suoi nemici e
gli spararono dietro moltissime archibugiate; non lo coglievano:
alcuni cavalli lo inseguirono, e il caso (poichè la paura gli
aveva rapito il lume dell'intelletto) così bene lo diresse
nella fuga che i cavalieri, impediti dal cammino sdrucciolevole,
trattenuti dalle molte asperità del terreno, dopo una lunga
caccia dovettero rimanersi del seguitarlo. Di questo prete tra poco.
- Il Ferruccio, ignaro che sopra il suo capo si era commessa tanto
nefanda tragedia, co' principali dell'esercito si ferma nelle stanze
terrene della casa del trucidato Mezzalancia.
Il cielo presago della sventura che stava per avvenire incupì
maggiormente la sua faccia, - di grigio diventò nero e parve
assumere gramaglie pel prossimo lutto. - La pioggia dirotta allaga
d'improvviso la terra.
Per altra parte il principe di Orange, pervenuto il due agosto a
Pistoia, vi si fermò tutta la giornata attendendo ad
ascoltare gli esploratori e spedire di ora in ora ordini e messi a
Fabrizio Maramaldo e ad Alessandro Vitelli, affinchè si
stringessero alle spalle del Ferruccio senza lasciargli campo a
ritirarsi; la qual cosa gli sembrò avere molto bene
conseguita quando gli fu riportato che il capitano Cuviero con gli
Spagnuoli ribelli di Altopascio, chiesto ed ottenuto perdono, si era
congiunto con lui, e che Nicolò Bracciolino con mille armati
di parte panciatica lo sosteneva e guidava. A ora di vespro, il
principe, salito in cima del campanile del duomo, domandò ai
cittadini pistoiesi che lo circondavano gl'indicassero la strada da
tenersi fra i monti; della qual cosa, secondo che i ricordi dei
tempi ci fanno fede, fu pienamente istruito da Bastiano Brunozzi.
Appressandosi la sera, dietro la scorta di Bastiano Chiti, uomo
pratico del paese, si pose in via e camminando tutta la notte si
condusse la mattina sotto i Lagoni, luogo quasi ugualmente distante
da Gavinana e Pistoia, e si accampò in certo piano tutto
ingombro di castagni che torna sopra a San Mommè, ricoperto
dal poggio che riguarda Pontepetri e le Panche, adattissimo alle
insidie e tale da sorprendere senza essere scoperto il Ferruccio,
quando si fosse inoltrato, per la strada ch'egli disegnava tenere.
Mentre l'Orange, in questo luogo fermando l'esercito, attendeva a
riconfortare gli spiriti, ecco arrivare affannoso da capo alle
piante contaminato di fango un sacerdote; dalla paura turbato e
dalla agonia della vendetta, trafelato di stanchezza, non trovava
parole intiere; - si aiutava col gesto nè giungeva a farsi
intendere meglio; - lo consigliarono a riprendere lena, lo
ristorarono con vino generoso, sicchè, tornatogli l'animo,
cominciò a dire: «Ferruccio, si trova a San Marcello; -
la terra ormai è stata ridotta in cenere, i popoli sepolti
nelle rovine... io, per la grazia di Dio appena salvo, ho veduto con
questi miei occhi trucidata tutta la mia famiglia; - a che tardate?
Muovetevi, se volete sorprendere il nemico come dentro una fossa.
Di ciò tanto opportunamente avvertito l'Orange dispose
muoversi, molto più che conobbe a prova il breve riposo dopo
la notte perduta sgagliardire piuttosto che afforzare il corpo; per
lo che, recatosi in mezzo all'esercito accompagnato dai principali
capitani, salì sopra un monticello e con lieto sembiante
rivolto ai soldati disse loro:
«Soldati, si avvicina il termine dei comuni nostri fastidi.
Vinta questa battaglia, torneremo a casa onorati ed anche doviziosi.
Il papa, come uomo che si fida poco di voi e meno di me, non vuol
pagarci, se prima non vinciamo. Vinciamo dunque; se non per volere,
mostriamoci eroi per necessità. Della vittoria sarebbe
piuttosto follia disperare che sperare baldanza. In ciò mi
affida la prodezza vostra in tante venture provata, la dappocaggine
dei Fiorentini...»
«E sopra tutto il vostro numero, sette volte maggiore di
quello del Ferruccio», interruppe con gran voce il Bandini.
Orange abbassò arrossendo la faccia e, subito dopo
rialzandola ridente, soggiunse:
«Non saremo poi tanti, Bandino. In ogni caso, anche per questa
parte possiamo star certi della vittoria. Non pertanto mal ti
avvenga, Bandino; interrompendomi tu hai tolto alla storia la
più bella arringa che mai siasi avvisato di fare un capitano
di esercito da mille anni a questa parte. Adesso non mi riesce
riprendere il filo degli argomenti... Oh Dio! mi stanca tanto
pensare. Meglio così, imperciocchè se ci scapita la
storia, ci guadagnate un tanto voi altri soldati; - io vengo subito
alla conclusione, ed è questa, - beviamo.»
Non aspettarono i soldati a sentirselo dire due volte. Messa mano ai
barili, ne empirono capacissime tazze e le mandarono in volta
alternando risi, motteggi ed augurii per la vicina battaglia.
Il principe, bevuta prima una ed un'altra tazza, n'empì la
terza, e considerando che il Bandino, assorto nella sua cupezza, non
domandava da bere, gli porse la propria tazza dicendo:
«Bevi, Bandino, perchè potrebbe darsi che il fato ci
contendesse bagnare un'altra volta le labbra nel divino
liquore.»
Il Bandino, accostatasi appena la tazza alla bocca, la consegnava ad
un paggio, - il poco vino libato sparse per terra; - gli parve
avesse sapore di sangue.
Ora in quel luogo accadde ciò che nel medesimo punto avveniva
a San Marcello. Il cielo si annuvolò ad un tratto e
rovesciò sopra la terra grossissima pioggia. Orange e
l'esercito stando fuori allo scoperto, ne rimasero bagnati fino alle
più riparate parti del corpo; nè di questa avventura
rimase per nulla sbigottito il capitano cesareo, ma anzi traendone
favorevole auspicio, non senza molto riso così favello:
«Soldati! Noi non anderemo punto imbriachi alla guerra contro
i nemici, poichè con tanto favore Iddio ci adacqua con le sue
sante mani il vino.»
Ciò detto, con prontezza non meno che con savio intendimento
dispose l'ordine della battaglia, il quale fu questo. Mandò
innanzi Teodoro Becherini, Zucchero Albanese, Rossale, Francesco da
Prato e Antonio da Herrera con i cavalleggeri, e per difesa maggiore
diede loro in compagnia trecento veloci archibugieri, imperando che
dovunque incontrassero per la via luoghi angusti pei quali con
difficoltà passasse la cavalleria, quivi ponessero certe
squadre di archibugieri; onde se a caso, abbattendosi nei nemici
grossi, avessero dovuto retrocedere da queste squadre appostate su i
poggi, ciò potessero fare a poco a poco senza sbandarsi; e se
invece il nemico fosse venuto loro sopra in luoghi piani dove
scorgessero la cavalleria agevolmente adoperarsi, allora si
spingessero innanzi e facessero ogni sforzo di entrare in Gavinana
prima del Ferruccio, avendo avuto dagli esploratori ragguaglio il
capitano fiorentino intendere ad occupare Gavinana e quivi
afforzarsi contro di loro, unendosi a quanti per quella montagna
parteggiavano per la fazione guelfa o cancelliera, ed erano amici
alla Repubblica Fiorentina. Avrebbe seguitato l'Orange con gli
uomini d'arme, i corazzieri e le fanterie.
Affrettando il passo, i cavalleggeri imperiali si accostano a
Gavinana e ricercano i terrazzani aprissero le porte a nome
dell'imperatore e del papa.
I principali del castello, recatisi sul ballatojo di porta Piovana,
rispondono alla intimazione: aprirebbero volentieri, purchè
avessero fede che sarebbero lor salve le sostanze e le vite.
I capitani dei cavalleggeri soggiungono; «Aprite tosto; di
ciò vi malleviamo sotto parola del principe Filiberto di
Orange capitano cesareo, che di poco tratto ci seguita.»
E i terrazzani da capo: «Di voi punto non ci fidiamo;
aspettate che venga il principe, e quando egli proprio ci assicuri,
vi apriremo le porte; nè l'esitanza nostra deve adontarvi,
imperciocchè essendo Gavinana ab antiquo di parte
cancelliera, e occorrendoci tra voi non pochi panciatici,
crudelissimi nemici nostri, meno di voi sospettiamo che di
loro.»
Tutte queste parole mettevano innanzi i Gavinanesi non per voglia
che avessero di arrendersi, ma per dar tempo di arrivare al
Ferruccio, a cui avevano mandato celerissimi messi, ed ora, per
sempre più affrettarlo, si posero a suonare furiosamente le
campane a martello.
I messi di Gavinana incontrano il Ferruccio nella casa del
Mezzalancia.
«Affrettate i passi, per Dio! messere lo commessario; Gavinana
appena si tiene, tanto l'assalgono grossi i nemici d'intorno; ma per
poco che tardiate, voi troverete un mucchio di rovine. Il principe
d'Orange in persona comanda all'esercito.»
«Maledetta sia la paura che vi fa vedere da per tutto il
principe di Orange come se fosse il trentadiavoli e la versiera! Vi
pare egli che esso avrebbe voluto o potuto abbandonare il campo
sotto Fiorenza?»
«Io vi giuro pel corpo di Cristo, messere Ferruccio, che
Orange vi sta incontro; molti dei nostri lo hanno veduto.»
Allora il Ferruccio trasse un sospiro e tra i denti mormorò:
«Ahi! traditore Malatesta!»
Subito dopo il Ferruccio, raccolti i capitani, esponeva: stargli di
fronte il nemico, il quale bene si avvisava incontrare, ma non
già in sì gran numero, nè il principe stesso,
nè così subito alle spalle; argomentare dallo stormo,
essere inseguito; dicessero essi quello che in tanto estremo
intendevano imprendere. - Risposero tutti: quanto a lui piacesse a
loro piaceva, essere parati a mettere la vita nella imminente
battaglia. - In mezzo a tanto consenso per combattere, Giampagolo
Orsino, comecchè sentisse sarebbero tornate malgradite le sue
parole, pure non volle mancare al debito di leale soldato, aprendo
francamente il parer suo. Egli fece notare il fine di ogni loro
sforzo essere la liberazione di Firenze e la salute della
Repubblica; quindi ogni ingegno doversi porre a entrare sani e salvi
in patria; potere questo di leggeri venir fatto seguitando su pei
monti la strada tenuta dalle femmine fuggenti da San Marcello, e
procedendo per gli Appennini riuscire in Mugello, donde calati a
Scarperia, sarebbero venuti quasi su le porte di Firenze. - Ai quali
consigli il Ferruccio oppose: che per fuggire bisognava lasciarsi
dietro carriaggi e vettovaglie, sicchè non sapea di che
avrebbe nudrito i soldati per quelle aspre giogaie; ancora, i nemici
avere gambe pronte quanto le loro, per lo che gli avrebbe incontrati
in ogni luogo forti come ora, più baldanzosi di ora, entrando
in concetto di seguitare gente schiva di venire alle mani: e messo
da banda il sospetto di essere perseguitato, quello che punto
maggiormente aveva a temere era, che, precorrendolo nel piano di
Mugello, quivi i nemici lo aspettassero e, come quelli che troppo,
in ispecie cavalli, lo superavano, a mano salva l'opprimessero;
finalmente conchiudeva con la proposta altre volte avanzata da lui,
cioè che se il nemico cui andava incontro fosse di poco od
anche una metà superiore al suo esercito, egli lo avrebbe
vinto di certo; oppure lo superava di sette od otto volte, ed allora
i cittadini di Firenze avrebbero assalito il campo vuoto di soldati
e così liberato in altro modo la patria. In ogni caso avere
veduto sempre nascere pessimi effetti dalla fuga; ma la morte
stessa, quando generosa, essere stata feconda. Gli audaci sforzano
la fortuna. L'Orsino, persuaso dalle ragioni del Ferruccio, lo
supplicava preporlo al posto più pericoloso della battaglia.
Il Ferruccio, uscito all'aperto, di slancio saltò in sella al
suo buon cavallo e, levatosi l'elmo di testa, all'esercito, che gli
stava schierato davanti come in anfiteatro, rivolse queste
nobilissime parole, conservateci da Bernardo Segni al quarto libro
delle sue Storie:
«So per esperienza, soldati fortissimi, che le parole non
aggiungono gagliardia nei cuori generosi, ma sì bene che
quella virtù che vi è dentro rinchiusa, allora si
mostra più viva che l'occasione o la necessità la
costringe a far prova di sè. Siamo in termine dove l'una e
l'altra cosa ci si apparecchia per fare al mondo più chiara e
più bella la costanza e la fortezza degli animi nostri;
l'occasione vedete bellissima e sopra ogni altra onoratissima che ci
si mostra difendendo con giusto petto l'onore delle armi italiane e
la libertà della nobilissima patria nostra, per farvi
risplendere per tutti i secoli di chiara luce; la necessità
ci è presente e davanti agli occhi, che ci fa certi che
ritirandoci saremmo raggiunti dalla cavalleria nemica, e che stando
fermi non avremmo luogo forte da poter difenderci nè
vettovaglia da poter vivere, quando bene prima entrassimo in quelle
mura. Restaci adunque solo una speranza, e questa è la
disperazione di ogni altro soccorso infuorchè di quello che
dalla virtù delle vostre destre infino a questo giorno state
invittissime e dal vostro animoso spirito procede. Questo ci
farà in ogni modo vincere; nè, benchè siamo
meno per numero, ci dobbiamo diffidare, per la speranza, oltre a
quella della virtù vostra, maggiormente in Dio ottimo
massimo; che, giustissimo e conoscitore del nostro buon fine,
supplirà con la sua potenza dove mancasse la forza
nostra.»
E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada,
riprese:
«Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno.»
Carlo conte di Civitella e Amico Arsoli condottieri dei cavalleggeri
spedisce innanzi, affinchè trascorrendo velocemente occupino
Gavinana; seguita egli con la battaglia composta di quattordici
bandiere; pone quindi le bagaglie, e la dietroguardia, ch'erano
quindici insegne, commette alla fede di Giampagolo Orsino.
I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e
già vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero
più in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura
di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.
Il primo colpo è percosso, - ne succedono mille; uomini,
cielo e campo di battaglia, tutto si presenta terribile. La strada
sopra la quale combattono serpeggia a mezza costa del monte. - Da un
lato il dirupo, - dall'altro l'erta scoscesa. In quelle angustie
pochi prendevano parte alla battaglia, ma, sospinti dai sorvegnenti,
quei pochi così si stringevano che, diventata inutile la
spada e la lancia, si finivano a pugnalate, e i cavalli medesimi
partecipando il furore dei combattenti si laceravano a morsi. Armi,
cavalli e cavalieri precipitavano giù nel burrone, lasciando
sulla schiena del monte spaventevole striscia di sangue; ed è
fama che in quel giorno, l'umile rio delle Catinelle menasse
giù alla valle più sangue che acqua, e la Vergine, che
anche ai dì nostri scorgiamo posta a custodia della fontana
dei Gorghi, vide in cotesto memorabile caso di sangue umano
contaminate le caste sue linfe.
Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri
fiorentini, o trasportati dall'estro della strage, o sia piuttosto,
come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone
assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la
costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a
conveniente altezza, gridarono: «Viva la Repubblica!» -
poi spinsero giù alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel
ventre intieri gli sproni. Quando eglino percossero i fianchi dei
nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall'urto oltrepassarono
volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte
giù nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei
cavalli: nondimeno così irresistibile fu l'impeto che la
schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro
nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati.
Allora crebbe il cuore ai Forentini: i capitani sopra gli altri
volevano essere, siccome maggiori nel comando, così primi nel
pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano
i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli,
trovando dietro a sè bastevole spazio, si volgono e si danno
alla fuga. Rifecero con veloci passi la via, piegarono di nuovo a
destra di Gavinana e s'internarono nel bosco dei castagni, detto
Vecchieto, sperando mantenervisi per virtù degli archibusieri
appostati dietro i tronchi degli alberi. Ma nè per questo si
rimase punto l'ardore dei nostri, che, scesi da cavallo, con in mano
la picca conquistarono albero per albero e a palmo a palmo il
terreno, sicchè pervennero a ributtarli fuori del bosco,
cacciandoli oltre la fonte delle Vergini.
Il Ferruccio, trovata sgombra la via, accorre frettoloso e tra gli
applausi dei terrazzani entra in Gavinana per la porta Papinia.
Trasportato a festa sopra la piazza, mentre alzata la mano impetra
silenzio per manifestare la gratitudine che serberebbe eterna la
Fiorentina Repubblica per la divozione del popolo egregio di
Gavinana, ecco volge lo sguardo alla contrada che mette capo alla
porta Apiciana, e vede maravigliando comparirsi davanti la bandiera
imperiale.
Fabrizio Maramaldo, il quale, come avvertimmo, aveva ricevuta
commessione dall'Orange di tenere dietro al Ferruccio, giunto
anch'egli sopra le Lari di Prunetti e quivi avvisato della scesa dei
Fiorentini nella valle di San Marcello, piegò a mano sinistra
al ponte di Mammiano, e scortato da buone guide, tenendo il cammino
verso i monti che sovrastano a San Marcello, per la via sotto al
Piano dei Termini, riuscì presso le mura di Gavinana dalla
parte di levante. I terrazzani, accorsi ad incontrare il Ferruccio,
nè da questa banda temendo l'offesa, l'avevano lasciata
scoperta. Maramaldo, tentata la porta e la trovando salda, si pose a
speculare la muraglia; ella era, siccome composta di muro a secco,
debolissima; in breve tempo e con molta agevolezza gli riuscì
atterrarne tanto spazio quanto bastasse a passarlo due uomini; un
soldato, il più animoso, si provò ad entrare; non gli
si opponendo nessuno, si assicurarono gli altri del sospetto
d'insidia e a calca vi si affollarono. Così Fabrizio
Maramaldo entrava in Gavinana da levante nel punto stesso in cui vi
penetrava Ferruccio dalla parte di settentrione.
Il Ferruccio non profferì parola, ma a corsa si spinse
incontro al nemico sbarrandogli lo sbocco alla piazza; gli tennero
dietro Vico Machiavelli, Nicolò Strozzi, Goro da Montebenichi
e molti altri dei valenti uomini che rammentammo di sopra, -
oppongono una muraglia di ferro; adesso coloro che tra i nemici si
mostrano più volonterosi vorrebbero ritirarsi, ma sospinti
dalla piena dei sorvegnenti vanno a trafiggersi sopra le picche dei
nostri; alcuni, tolto coraggio dalla disperazione, menarono orribili
colpi, ma alla fine furono spenti; già d'intorno al Ferruccio
si era innalzato un riparo di morti e di moribondi, sicchè
gli convenne per mantenere la terribile zuffa calpestare quel
baluardo di carne umana. Ad accrescere l'eccidio, uomini e donne
lanciavano dalle finestre e dai tetti sassi, tegoli e di ogni
maniera masserizie su le teste degl'imperiali, che vedute dall'alto
avevano sembianza di palle da artiglieria disposte per entro un
quadrato. Durò gran pezza la mischia, e il Ferruccio si
sentiva stanco, non sazio di uccidere; l'armatura, già
brunita splendidamente, appariva adesso vermiglia dal cimiero agli
sproni, qua e là ammaccata, in parte fessa; pensò
nuovo modo di strage, si risovvenne delle trombe di fuoco, e
mandò Vico a vedere se la pioggia ne avesse lasciata illesa
qualcheduna; ne rinvenne tre buone a farne uso, le portò
frettoloso, le dispose con diligenza e, avvertiti i compagni
affinchè si cansassero, appiccò loro il fuoco:
prorompe una tempesta di palle, di scheggie, di vetri e di simili
altri proietti di cui solevano i nostri antichi riempire le macchine
di guerra; - la strada rimase sgombra; - di tanta gente stipata
avanza un mucchio informe di membra lacere, e su le pareti delle
case appaiono attaccali frantumi di cervelli umani, o impresse col
sangue le forme dei corpi quivi schiacciati; l'impeto della vittoria
non concesse ai nostri osservare per quale orribile rivo cacciavano
le gambe, si spinsero oltre sguazzando nel sangue allo esterminio
nemico.
Ecco arriva l'Orange, a vedersi mirabile per l'armatura fregiata di
oro e di argento con sottile lavoro, pel cimiero piumato, egregia
opera dell'arte, ed anche pel poderoso cavallo pure egli adorno di
pennacchi e di ricca gualdrappa; il superbo animale, quasi
consapevole di portare così grande barone, scalpita, sopra
sè stesso si ripiega, si compiace in somma nei moti smoderati
che in un cavallo comune di ordinanza sarebbero stati puniti con
acerba ferita degli sproni.
Quale impeto di cieca ira agitasse il capitano imperiale
contemplando scomposte le squadre dei cavalleggeri, non è da
dirsi; si avvolgeva furente pel campo gridando: «Dove siete,
miei cavalleggeri?» E i suoi cavalleggeri erano polvere. Ad un
tratto si accorge di un alfiere che malamente ferito se ne stava
acquattato dietro un castagno; - gli corre sopra, gli strappa di
mano la bandiera e, dandogli dell'asta traverso la faccia, lo manda
tutto pesto a rotolarsi nel fango. Sventolando poi la insegna,
continua a imperversare pel campo; non mica supplichevole, ma invece
garrendo i soldati con parole di contumelia gridava:
«Marrani, cani senza fede, tornate in battaglia! ringraziate
Dio essere sortiti all'onore di farvi ammazzare per sua
maestà l'imperatore; tornate in battaglia, o, alla croce del
vero Cristo, vi faccio sterminare dalla mia gente di arme!»
In questo modo favellando, egli primo precipita giù per la
china del campo delle Vergini.
Sorgono due collinette, una di faccia all'altra, fuori della porta
Piovana, e con le coste presentano due piani inclinati acconci a
difendersi, malagevoli ad assalirsi; quello che rimane a destra di
chi entra in Gavinana si appella piano delle Vergini, l'altro che
giace a manca chiamano Vecchieto. I nostri, diloggiati i nemici,
stanziavano nel campo di Vecchieto, e ottimamente riparati dai
castagni, che quivi anche ai dì nostri vediamo più
grossi che altrove, dirigevano contro ai nemici disposti allo
scoperto sul piano delle Vergini una tempesta di palle spessa e
fragorosa come grandine. Pieno di pericolo l'inoltrarsi, ma l'Orange
credeva che palla plebea non valesse a forare il corpo di un
principe.
Tra il piano delle Vergini e Vecchieto havvi una via alpestre, e in
questa strada, ma più vicina al primo campo che a quello di
Vecchieto, occorre una fontana con la immagine della Madonna; ella
se ne sta in mezzo a tanta rabbia di uomini, quasi colomba posata
sul margine del vulcano. Perchè non placa ella i feroci?
Perchè sensi mansueti non diffonde nel cuore degli omicidi? I
ferri si inchinano davanti il seno delle femmine, - l'istrumento
della morte rifugge dal seno onde traggono il primo alimento le
creature umane. Avevano il cuore aspro come pietra i Romani e i
Sabini, e non pertanto diventarono miti alle supplicazioni delle
donne imploranti pace. Ma cotesti non erano figli di una medesima
terra; nessuno oltraggio avevano agli assalitori arrecato i
Fiorentini; essi lasciarono derelitte le mogli e le madri a casa per
disertare altre madri, altre mogli; i campi abbandonarono incolti
per devastare altre campagne: male dunque a loro avvenga, abbiano la
tomba che si sono meritata, sieno scordati dalle mogli lontane, le
quali l'annunzio della morte loro sentiranno come si ascolta la
nuova delle fortune insperate. E tuttavolta, se alla Vergine non
piacque separare la mischia, s'ella conobbe la giustizia della causa
della Repubblica, perchè non ottenne la vittoria ai
Fiorentini? Perchè con esempio memorando non dimostrò
in conforto della virtù infelice prendersi su nei cieli cura
e difesa della innocenza dei popoli? - Vana cosa fu sempre
affaticarci la mente con domande alle quali non sappiamo trovare
risposta.
Prima che il principe si avventurasse nella impresa rischiosa,
monsignore Ascalino, dubitando di male, come prudente capitano
pensò alla ritirata e dispose una banda di due mila tra
Tedeschi e Spagnuoli in certa forra che giace tra Gavinana e il
prossimo castello di Maresca; per questo caso di ora in poi la
chiamarono la Forra Armata.
L'Orange muove imperversato giù sul pendio, così saldo
si mantiene sopra l'arcione, così facile acconsente con la
persona ai moti del cavallo che pare comporre una stessa forma con
lui, - un mostro creato alla distruzione della specie umana.
Sceso in fondo del luogo ripidoso, trasse le briglie, e il buon
destriero si fermò immobile. Il principe gira intorno la
testa a speculare se alcuno avversario gli si presentasse davanti,
ed ecco vede un cavaliere armato alla leggiera starsi presso la
fontana delle Vergini senza fare atto di andargli incontro, ma ed
anche disposto a non rimoversi da quel luogo. L'Orange, piegando a
quella volta il cavallo e al comando della voce aggiungendo il
gesto, gli grida da lontano:
«Non mi aspettare, soldato; sgombra, io ti concedo
fuggire.»
Nicolò Masi di Romania, nel quale riviveva pure una scintilla
di greco valore, non rispose e non si mosse. L'Orange stimolando il
cavallo gli giunge appresso e rinnova la intimazione, e
poichè la vide tornar di nuovo invano, gli si stringe
addosso, animoso sollevando la spada.
Allora il Masi con stupenda celerità, prima che il colpo
della spada calasse, si alzò su le staffe, con ambe le mani
strinse la mazza di arme e ne percosse l'elmo del principe in modo
che questi perdette la sinistra staffa e piegando il capo confuse i
pennacchi del suo cimiero con quelli che fregiavano il frontale del
cavallo. Comecchè intronato, l'Orange si rilevò
furioso e menò sul Masi manrovesci e fendenti che certo gli
avrebbero recato assai danno, se gli occhi abbarbagliati per entro
vortici di fiamma gli avessero conceduto assestarli meglio, o se da
meno fina armatura il Masi stato fosse difeso. L'astuto Greco
però, seguitando il duello, a mano a mano si ritirava
sperando di farlo prigione, cosa che avrebbe dato vinta l'impresa, e
il principe ormai cieco della mente cadeva certo nella insidia, se
il conte da San Secondo e Giovanni Bandini non avessero eccitato
quanti stavano appresso di loro fanti ed uomini di arme a portare
soccorso al capitano.
«Per poco che tardiamo», essi dicevano, «non
saremo più in tempo. Avanti Herrera! Avanti Rossale! Dove non
occorre pericolo non si acquista gloria; ove si avventura il
capitano deve inoltrarsi anche il soldato.»
Herrera e Rossale si avanzano co' loro squadroni; il volto hanno
pallido come codardi, e pure si mostrano animosi nei moti; passando
a canto al Bandino, questi a voce sommessa dice all'Herrera:
«E bada a tirare giusto... un colpo, e basta.»
I cavalli si avventano, scomparisce lo spazio; all'improvviso
s'innalza una densa nuvola di fumo; da una parte e dall'altra si
sono mandati la morte scaricando gli archibusi. Chi rimase in sella?
- chi ricoperse cadavere illacrimato il terreno? Non alitando soffio
alcuno di vento, il fumo continua ad ingombrare il campo della
zuffa. Di lì in breve però un magnifico cavallo ornato
di piume galoppa, privo di cavaliere, di su di giù per le
squadre dei soldati, empiendo il campo di tumulto e di spavento.
È il cavallo del principe di Orange. Il suo signore giace
spento nel fango trapassato da tre palle di archibuso, una nel
petto, un'altra nel braccio sinistro, e la terza nel collo sotto la
nuca.
E da un altro lato della nuvola del fumo sbucarono due cavalieri,
gridando: «Salva! - salva!» - spingendo alla dirotta i
cavalli. Erano Herrera e Rossale, cui la paura di comparire davanti
al giudice supremo col sangue fresco di un assassinato sopra le mani
rendeva codardi.
Tutta la gente di arme si disperse fuggendo, sicchè a Pistoia
prima, poi a Firenze e al papa in Bologna corse la fama della
disfatta e della morte del principe, sentendone, secondo i desiderii
diversi, o immensa gioia, o infinita tristezza.
Per quello che abbiamo potuto indagare, sembra che da tre parti
arrivasse sul principe la morte, dagli archibusieri appostati a
Vecchieto, dai terrazzani schierati sulle mura della Gavinana e
dagli assassini, ai quali in nome del papa era stato commesso il
tradimento.
Tantavilla francese, paggio del principe, continuandogli in morte
quella fede di cui tante prove gli dava nella vita, malgrado la
presenza del nemico e il pericolo che correva grandissimo, non volle
lasciarlo, ma invece indirizzandosi al cavaliere che si vide
più prossimo, e fu il valoroso Masi, lo pregò a
porgergli aiuto onde caricarselo sopra le spalle.
E il Masi, magnanimo di cuore, come prode, commiserando al fato di
tanto personaggio, scese da cavallo e sovvenne nel pietoso ufficio
il servo fedele. Il Tantavilla, poichè si fu recato su le
spalle il corpo dell'Orange, sorreggendolo con la mano manca, stese
la destra al Masi e gli disse piangendo:
«Generoso cavaliere, se non vi sdegna la mano di un servo, me
la stringete, vi supplico; ella è mano di servo
fedele.»
«Di gran cuore», rispose Nicolò commosso, e
gliela strinse con affetto; «se mai ti stringesse alcun tuo
bisogno, sovvengati di Nicolò Masi. Ora parti, chè le
parole sul campo di battaglia vogliono esser corte, e Dio ti tenga
nella sua santa guardia.»
Il Tantavilla trasportò la spoglia del principe nella
cappelletta poco lungi da Gavinana, a lato della via che mena ai
Lagoni, e quivi, temendo non gli venisse tolta, l'avvolse entro una
coperta di lana e la sotterrò in mezzo del pavimento, dove
anche oggi si vede il segno dello scavo, benchè risarcito,
per la lunghezza di un corpo umano. «E colà
stette», narra il capitano Cini, «finchè, dopo
acquistata la vittoria, fu da chi comandava mutato parere e
considerato meglio levarlo da quel luogo ignoto e portarlo altrove;
e così, quando si partì il vittorioso esercito
imperiale, fu dissotterrato e involto nella stessa coperta, messo
sopra un grosso cavallo. La spoglia mortale del principe,
spenzolando di qua e di là le braccia e le gambe, e dimenando
capo, lacrimoso spettacolo della miseria umana, giunse a Pistoia. Lo
posarono prima fuori di porta al Borgo, donde il clero lo rimosse
con pompa, e a grande onoranza lo trasportarono alla cattedrale.
Quivi ebbe esequie solenni come vincitore. Poco dopo lo deposero
alla certosa di Firenze, e quinci, dopo averlo imbalsamato, lo
spedirono alla sua genitrice, che certo non si aspettava rivedere in
questo modo il diletto suo figlio.»
«Vittoria! vittoria!» con immense strida gridavano i
soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna,
rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai
tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi
pannilini. Le campane sonavano a gloria.
«Vittoria! vittoria!» rispondono i cavalleggeri fuori
delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il
piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato
lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, -
l'ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.
E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de'
suoi si appoggia all'asta della lancia sotto il magnifico castagno
che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno
rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio;
- non lo poteva con le labbra, chè lo impediva l'affanno.
Qui circondato dall'Arsoli, dal Masi, dai conti di Castro e
Civitella, da ambedue gli Strozzi Nicolò e Bernardo, e da
altri egregi difensori della Fiorentina Repubblica, udiva i vari
casi della battaglia e la morte del principe.
«Dio faccia pace alla sua anima», favellò il
Ferruccio, «egli è morto da valoroso. Se alcuno
rinviene la sua spoglia mortale, si rammenti che il guerriero spento
in battaglia è cosa sacra al guerriero. - Guai a chi
l'oltraggia!»
Ahimè! Mentre si rallegrano della vittoria, ella apre l'ale
per fuggire dalle loro bandiere.
Alessandro Vitelli e Mario Colonna con gl'Italiani, gli Spagnuoli
ammottinati di Altopascio e il Bracciolino capo della fazione
panciatica, inseguendo, secondo il comandamento ricevuto, l'esercito
fiorentino, giunsero anch'essi alla Croce delle Lari. Tenne sentiero
diverso il Maramaldo: piegò a mano diritta, passò il
fiume Limestre e riuscì di faccia alla dietroguardia di
Giampagolo Orsino.
S'incontrarono sul piano di Doccia posto a mezzo cammino tra
Gavinana e San Marcello. L'Orsino, considerando non potere resistere
a tanta piena di nemici e difendere così gran numero di
bagaglie, ordinò ai marraiuoli che aveva in copia il
Ferruccio condotti da Pisa si affrettassero ad alzare un terrapieno
formato a mezzo cerchio, il quale condussero maraviglioso e con
incredibile celerità. Il viaggiatore che visita quel campo
può anche oggi contemplarne i vestigi per un tratto di meglio
che dugento braccia. Dietro al terrapieno si difende l'Orsino; il
nemico grosso minaccia di prorompere, quasi un fiume appena
contenuto dagli argini; qui si rinnuovano le ferite, il dolore, il
pianto dei moribondi, la strage nefanda. Il mio spirito contristato
non sa che cosa più oltre deve narrare di miserabile, la
fantasia cade stanca di avvolgersi tra così moltiplici
immagini di morte, e al mio lettore risparmio il fastidio di
più oltre affliggersi sopra le sventure e le colpe degli
uomini. Forse non rimaneva rotto l'Orsino; la fortuna gli concedeva
ritirarsi incolume in Gavinana, se il malefico ingegno del
Bracciolino non si fosse adoperato ai danni della patria; non furono
mani straniere, ma per maggiore dolore italiane quelle che
consumarono il sacrificio della più nobile repubblica di
questa nostra contrada. Noi dobbiamo compiangere la battaglia della
Gavinana non pure come sventura, ma altresì come delitto.
La discordia percorse veloce e continua sopra la faccia della misera
Italia, dalle Alpi al mare ionio a guisa di spola nelle mani del
tessitore; se pose l'orma su i monti, li compresse; se sopra le
pianure, le inaridì; con un flagello di vipere percosse le
generazioni e trasfuse nelle vene di loro il veleno e la rabbia. Ora
i figli portano il peso delle paterne iniquità; - ma durezza
di fato per sospiri non muta, e il cielo arride alle mani animose, -
non agli occhi piangenti. Ora i figli stanno in pace tra loro; -
imperciocchè come contenderebbero i bovi gravati dal medesimo
giogo? In espiazione degli antichi delitti, una volta ogni anno
nella festa dell'Ascensione i monti di Gavinana risuonano di canti
lugubri: due processioni muovono, una da San Marcello, l'altra da
Gavinana, verso la fonte dei Gorghi. Quando s'incontrano, i cantici
si rinnuovano più alti, accostano gli stendardi e fanno
toccare i crocifissi tra loro; ciò chiamano - il bacio dei
Cristi. I discendenti dei truci faziosi s'impalmano mansueti,
più voti ricambiano con gli animi pacati; simili alle regine
della tragedia inglese, ora che giacciono sopra la terra, le ha
fatte amiche il pianto. Se questi inni e questi gemiti hanno forza
di rompere il vostro sonno secolare, ossa degli antichi defunti, oh
come affannosamente dovete fremere dentro ai vostri sepolcri! -
Venite e vedete; - per colpa vostra gli eredi del vostro sangue
altro intelletto ed altra forza non serbano che per piangere e per
pregare. - Io per me, quando considero come è tumida la
fortuna e corriva agli oltraggi, e quanto all'opposto consigliera di
pace la sventura, tremando m'interrogo se per caso la provvidenza
commise alla miseria ordire il vincolo di concordia unicamente
durevole tra gli uomini. - Ma io l'ho detto, affaticarci con domande
a cui non sovviene la risposta è amaritudine di spirito; e
tra queste bene spesso ne occorrono di tali che percuotono le
orecchie, quasi una squilla che suoni a infortunio, o piuttosto
feriscono il cuore dolorose a sentirsi quanto il dardo della vipera.
Nicolò Bracciolino, che co' suoi mille faziosi procede col
Vitelli a modo di lancia franca, esperto del luogo, si stacca dai
compagni e per certe vie oblique a lui note celandosi dietro ai
tronchi dei castagni che spessissimi crescono in questo lato, in
silenzio, co' passi del traditore, si avvicina al fianco della
colonna dell'Orsino. Fu agevole cosa trucidare e disperdere i pochi
e meno validi soldati che vi stavano a guardia, - scompigliare le
bagaglie, mandare sottosopra some e carriaggi, - empire di spavento
ogni cosa. Orsino, udendo rumore alle spalle, conobbe il caso e si
tenne spacciato; tuttavolta, disposto a morire da valoroso, strinse
intorno a sè i suoi, ne fece gomitolo, e così
ordinato, non altramente che fosse un corpo solo armato di mille
spade, si dispose ad aprirsi la strada camminando sul petto dei
nemici.
Sovvengati, lettore, se mai fosti in riva al mare, di aver veduta
una barca per forza dei rematori rompere le onde che incessanti si
accumulino contro di lei e, come se avessero senso di rabbia,
fremere riottose lungo i fianchi e subito chiudersi ribollenti
dietro il timone; così la virtù dei soldati
dell'Orsino supera il numero dei nemici, ma il suo drappello
procedendo scema, mentre da ogni stilla di sangue avversario sembra
che nascano nuovi guerrieri a combatterlo; - male incolse a cui
volle inseguirlo troppo dappresso, perchè sovente rivolse la
faccia e balestrò la morte nelle file dei cesarei; - venuto
al rivo delle Catinelle si fermò di nuovo, e di nuovo quelle
umili acque si tinsero di sangue umano; finalmente lacerato dalla
testa, su i fianchi, dopo avere fatto quanto e più a forza
umana era concesso, ripara in Gavinana; i terrazzani non ebbero
tempo per chiudere le porte, - proruppero nel castello amici
mescolati ai nemici.
Per altra parte Fabrizio Maramaldo fuggendo tutto pauroso s'imbatte
nella banda della Forra Armata, la quale, e per essere posta in
luogo riparato e per non avere ricevuto ordine alcuno, non erasi
mossa; la reputando nemica, stava per gittare l'arme e raccomandare
per misericordia la vita; se non che, ravvisando l'errore, riassunse
presto la superba natura, e levata la voce comandò: si
muovesse a salvare i compagni messi in rotta, si affrettasse;
avrebbe vinto la impresa, se si fosse comportata col consueto
valore.
Si agitarono i due mila, accelerarono i passi, vogliosi di
mescolarsi in battaglia; appena usciti dalla Forra, i cesarei
sbandati, vedendo una bandiera levata dove potere riannodarsi,
cessarono la fuga ed ingrossarono la banda, in breve sommarono a
meglio di quattro mila e tutti uniti s'indirizzarono impetuosi
contro la Gavinana. In cotesto cumulo di gente, comecchè
mosso da passioni diverse, ardeva immenso il desiderio di vincere; -
gli uni per vendicare la vergogna, gli altri, quelli della Forra
Armata, per orgoglio che fosse detto di loro: il colonnello di
monsignore Ascalino salvò l'esercito imperiale a Gavinana.
Ferruccio brandiva la picca, la quale per essere adoperata dagli
Stradiotti cavalleggeri greci si appellava stradiotta, e
accompagnato dall'Orsino, da Amico e Alfonso Arsoli, dai conti di
Castro e di Civitella, da Agostino Gaeta dall'uno e l'altro Strozzi,
da Francesco Vivages francese, da Sprone di Borgo, da Paolo e
Giuliano Corsi, da Antonio da Piombino, da Giovambattista Cambiaso e
dagli altri valenti capitani, giù si scaglia contro il
Bracciolini, il Colonna e il Vitelli, quando, udito rumore, si volge
dal lato opposto e contempla inondato nuovamente di nemici il
castello. Allora gli s'intenebrò l'intelletto, gli venne
affatto meno la speranza, non l'ardire nè l'animo
apparecchiato alla morte magnanima; supplica gli astanti tengano
testa al Vitelli finchè ritorni, e rovina dove lo minaccia
maggiore il pericolo. Quasi non avesse per sei intiere ore
combattuto, quasi gran parte del suo inclito sangue non gli fosse
sgorgata dalle vene, apparve terribile come il Dio di Moisè.
La voce, il guardo, le mani, tutta la persona insomma spirava la
distruzione: «e il fatto, racconta il Cini, si rinnuovò
con tale e tanto strepito di archibusate e di picche ch'era cosa
spaventevole a sentirsi e orribilissima a vedersi, giacchè fu
sì crudele e disperata battaglia che appena si poteva passare
nella piazza di Gavinana impedita per i corpi morti e feriti che
dappertutto v'erano ammonticchiati.»
E fu questa battaglia degna di Omero, - ma noi non possiamo avere un
Omero. Egli cantava all'ombra dei laureti cresciuti a coronare la
fronte degli eroi che ascoltavano, - noi seduti sopra un sepolcro
narriamo storie alle ossa inaridite; - la traccia di quel divino
sopra la terra greca assomigliava alla carriera del sole nel
firmamento, splendida e sublime; - non che le case, gli schiudevano
i tempii, ond'egli si santificasse col canto. - Poco gli nocque
essere cieco degli occhi del corpo, dacchè le muse lo
guidavano e la gloria gli rischiarava l'intelletto. - Quando le
labbra frementi susurravano l'ultimo verso del canto, e la corda
vibrava l'estremo tocco, egli sentiva distinto l'alitare dei petti
ai circostanti, e il suo cuore si empiva di nuovo sangue e di nuova
poesia, argomento di forza alle immagini future. - La vergine greca
colla mano e la guancia appoggiate alla spalla del garzone, come la
Psiche di Canova su quella di Amore, udendo le miserie di Andromaca,
obliò un istante il suo affetto e gemè per la
sconsolata regina; - la madre argiva, al racconto delle stragi di
Ettore Priamide, si strinse più forte il pargoletto al seno
ed abborrì la guerra, - ma quando le furono rivelate le
mirabili prove di Achille, le s'infiammarono le guance, e
l'entusiasmo della patria la inebriò; allora guardando con
occhio scintillante il suo figlio, esclamava: Abbi la fama di
Achille, - e con voce più bassa aggiunse: più provvida
di Tetide, io guarderò a tuffarti interamente in Lete. - E
quando un fatto comune chiamò la grande anima di Omero nel
regno delle ombre, i Greci lo assunsero in cielo, are gl'innalzarono
e voti, come a Dio, - sette città se ne contesero la nascita;
- i sapienti loro ne derivarono leggi, politica, morale e quanto
abbisogna al retto ordinamento della umana società; - lo
consultarono come oracolo, ne trassero responsi. - La Grecia tutta
tolse per simbolo Omero.
Male arrivato poeta nelle terre d'Italia! Alle generazioni che ti
scorrono davanti pallide e vuote, siccome larve, parla di gloria, e
ti risponderanno: usura; - guai a te, se ti esce incauto dalle
labbra il nome santo di patria! Ti aspetta il luogo infame dove
avrai per compagni la meretrice e il ladro... perchè l'amore
di patria in questa terra è delitto; in verità, vi
dico, delitto ricercato e punito più gravemente assai del
latrocinio. - Certo il tuo nobile cuore, o poeta, non verrà
meno per questo, - ma rimarrai contristato profondamente per le
turpitudini dei tuoi fratelli, - la parola ti spirerà sopra
le smorte labbra, e non potrai essere Omero.
Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la
campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma
finchè vede persona davanti a sè; allora fece sosta,
ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire
erasi storta, si chinò e raccolse da terra uno spadone a due
mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i
superstiti a chiocciola, s'incammina al castello in soccorso di
quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano
chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della
Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati
cadaveri. In quel momento il Ferruccio alzò la voce e
chiamò a nome i suoi più valorosi compagni; nessuno
gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.
Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira,
due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti
ad abusarne quanto più furono immeritevoli di conseguirla,
con minacce barbariche gl'intimano da lontano la resa.
Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli
domanda:
«Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?»
«No», gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata
secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i
sorvegnenti imperiali.
Nicolò Strozzi, considerando come quel valoroso, più
che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si
esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e
lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.
Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo
volle pel primo affrontare il nemico. Cessata la speranza di
vincere, combattono per non morire invendicati. Gl'imperiali
abborrenti di sostenere l'estreme ire di quei terribili uomini, si
allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni
momento ne cadeva uno per non più rilevarsi, - nè i
superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi
Trecento e Leonida.
«Il gonfalone di Fiorenza! Gli angioli scendono a difenderlo:
viva la Repubblica!»
Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni,
allorchè, alzando all'improvviso lo sguardo, videro
sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza
accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.
E al balcone si affacciò Vico Machiavelli, che con la voce e
col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo
propugnacolo.
Non senza nuove perdite colà si condussero; stremati
com'erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro
infinita.
Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai
balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a
bersagliare il nemico. Gl'imperiali, sospinti dalle minacce dei
capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte
salirono all'assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle
palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i
conati invano, spumava di rabbia, e all'ultimo mandò a dire
che se in mezz'ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati
quanti erano.
Si accingono all'ultima prova; - le palle vengono più rare; -
arrivati a mezza costa scemano ancora; - a piè del muro
cessano affatto, - stanno immobili alquanto di tempo paurosi di
sorpresa, - non offesi si rinfrancano, i più timidi saliscono
a gara, - insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare
i balconi.
I nostri non hanno più polvere, - non palle, e dimentichi dei
pericoli e dei propri dolori, contemplano l'agonia di un valoroso.
Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; - non ha parte
di corpo illesa; - invano tentarono arrestargli il sangue, -
prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. -
Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale
forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire
anch'egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella
parte, - e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch'ella
genuflessa.
Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il
nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell'uomo,
imperciocchè accennino la presenza della morte - o Dio.
E intorno intorno genuflessi i pochi compagni superstiti,
comecchè laceri, spicciando sangue dalle aperte piaghe,
supplicano per l'anima dell'uomo forte che trapassa: Amico Arsoli
percosso da tre punte nel fianco, Bernardo Strozzi sconciamente
ferito nello stinco sinistro, Giampagolo Orsino, il prode Masi ed
altri che non ricorda la storia.
La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma
l'animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla
coruscante a modo di baleno verso il balcone.
Colà il vessillo della Repubblica, come se avesse senso
d'intelletto, tentava svolgere le sue pieghe, che si ostinavano a
rimanersi rigide a guisa di pietra; - il giglio se ne stava chiuso
in mezzo di quelle non altrimenti che dentro un sepolcro, - lui pure
opprimeva la inerzia della morte.
Fatto segno alle archibusate ed ai sassi del nemico, - ecco
finalmente cade anch'egli percosso per non rilevarsi mai più.
Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della
morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con
mestissimo accento:
«È caduto! È caduto!»
All'improvviso le porte sfasciate si disfanno, - irrompe il nemico
nelle sale del castello.
Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico
una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di
pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte.
Entrarono e videro l'agonia del campione della Repubblica, - o
piuttosto dell'ultimo fra i grandi Italiani.
Gli Spagnuoli, - nei quali gli orrori della superstizione non erano
giunti a spegnere tutto sentimento di carità e di religione,
nè il truce pensiero di Carlo V, che tormentandoli con la
gloria e la rapina gli aveva sguinzagliati a mo' di veltri sopra
l'Europa, poteva snaturare affatto il gentil sangue che trassero dai
cavalieri antichi, a cotesta vista declinarono i ferri, l'ira
deposero dai cuori, la iattanza dai labbri, e piegando i ginocchi
trassero i rosarii e si unirono a pregare pace per l'anima del
forte.
I Tedeschi sfilarono lungo i muri e colà si fermarono
immobili così che apparvero panoplie poste a decoro delle
pareti nelle sale dei castelli feudali; - nè ciò
nacque in essi da pietà o da religione, ma dal non sapere che
cosa si avessero a fare, imperciocchè fosse stato lor detto:
Andate ed uccidete il nemico, - ed ora, trovando invece di nemico un
uomo morto, non sembrava a costoro cosa buona uccidere chi
già stava per trapassare.
Maramaldo, a cui durava tuttavia nel cuore la paura, impaziente
degl'indugi, mandava speditissimi messi a incitare la strage e a
riportargli novelle. Appena conobbe a qual punto fossero ridotti gli
eventi, egli scelse tra i suoi colui che a prova sapeva più
iniquo, e lo mandò con espresso comandamento di portargli
morto o vivo il Ferruccio davanti.
«Su, figli di triste femmine», favella procace il messo
del Maramaldo, che si chiamò Sciarra e fu di Calabria,
«su, che Cristo vi mandi il malgiorno e il malanno; pare a voi
che ve ne abbia date poche per pregare alla salute di costui? Se
rialza le braccia, certo non lo farà per benedirvi.»
E poichè sentiva un mormorio di rimprovero, si
affrettò a presto soggiungere:
«E poi voi preghereste invano; egli muore scomunicato, e qui
non v'ha confessore che valga ad assolverlo.»
Moreno, il soldato spagnuolo di nostra antica conoscenza,
cessò le preghiere ed accostatosi in atto solenne al
moribondo,
«Io lo confesserò», disse, «perchè
tutto buon cristiano può assolvere in articulo mortis, e Dio
confermerà l'assoluzione del soldato che non ha mai rapito il
pane dell'orfano, nè messo le mani nel sangue dell'infante e
del vecchio. - Su parla, uomo prode, e non isdegnarmi, dacchè
io per me sono umile cosa, ma l'ufficio che ministro presso di te
è santo.»
Il Ferruccio stese, quantunque a fatica, la mano al soldato e con
piccola voce rispose:
«Se alcuno io mai avessi voluto scegliere onde portasse la mia
preghiera al trono dell'Eterno, sareste voi, generoso nemico...
Però non ho mestieri di ministri tra me e il mio Creatore: -
io favello da faccia a faccia con lui. Che parlate voi di
umiltà? Davanti la spada... davanti la morte siamo uguali,
soldato..., e voi non sapreste immaginare, non dico più
umile, ma più miserabile condizione di me che sento portar
meco nel sepolcro il destino della mia patria...»
«Tregua alle parole!» interrompe lo Sciarra,
«monsignor Fabbrizio Maramaldo comanda che, ad ogni patto,
morto o vivo gli si meni davanti costui; unite l'aste delle picche,
adagiatevelo sopra, recatevelo in ispalla e andiamo.»
Ciò dicendo mosse per aggiungere alle parole l'esempio e
già stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico
Machiavelli saltando all'improvviso in piedi lo respinse lontano,
poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel
taglio, troncata nella punta, e l'alzò per percuoterlo.
Ahimè! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, egli
vacilla com'ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi,
stramazza duramente per terra.
Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio
e si protende smaniosa sul corpo del marito.
Dirimpetto alla chiesa della Gavinana sorge una casa, una volta
Battistini, oggi appartenente ai Traversari. La porta principale
essendo elevata assai dal terreno, vi si salisce mediante una scala
a due branche che lasciano uno spazio di alquante braccia quadrate
davanti la porta.
Qui sta Maramaldo volgendo di tratto in tratto lo sguardo verso la
porta Apiciana per vedere se il Ferruccio giungesse. Finalmente
l'empia voglia gli rimase soddisfatta; - si apre la folla, e il
Ferruccio, tratto a vituperio con ineffabile angoscia sopra i
bastoni delle picche, si avvicina alla casa Battistini.
Maramaldo con subito alternare diventa in volto bianco e vermiglio,
- vuole incitarsi a furore, siccome costumano le belve flagellandosi
i fianchi con la coda; e non pertanto, malgrado che provocasse
l'ingegno plebeo già troppo di per sè stesso corrivo
all'ingiuria, non sapeva spingergli su i labbri una contumelia
qualunque; la coscienza gli mormorava dentro: Codardo! egli vale
troppo meglio di te.
Glielo distesero ai piedi, ed egli stette lungo tempo a guardarlo
senza potere profferire parola, poi cominciò tra lo scherno e
la rampogna:
«Infelice! Vedi a che ti ha ridotto il folle pensiero di
resistere alle armi di sua maestà Carlo V imperatore e re, e
del Beatissimo Padre? Vedi, sconsigliato, come in mala ora lasciavi
il fondaco? Credevi forse che il combattere battaglia fosse
così agevole che misurare panni? Stolto! Tu hai senza scopo
empito i sepolcri di tuoi concittadini. Tu, alla vanità che
ti rode compiacendo, hai sagrificato migliaia di uomini. Dio ti ha
riprovato, - Dio ti confonde ai miei piedi; - io potrei calpestarti,
e tu lo meriteresti; - ma rispetto in te il segno del cristiano - e
ti risparmio. Il Signore nella sua misericordia ti concede spazio
sufficiente di vita per riparare ai tuoi falli; - adempi al comando
dell'Eterno e chiedi pubblica perdonanza all'imperatore...»
Il Ferruccio aperse gli occhi e gli levò al firmamento, quasi
per richiamare la mente di Dio alla bestemmia che si faceva del suo
santo nome, e quindi favellò queste poche parole:
«Soldato! Renditi meritevole della vittoria, usandone con
modestia. Vedi, la terra intorno è tutta ingombra di morti...
e la più parte imperiali...»
«Codardo! tu sei vinto, e minacci!»
«Non sei tu che favelli colui che vidi fuggire ben cinque
volte davanti a me?»
«Rendimi ragione del sangue del mio trombetto, assassinato in
Volterra.»
«Mal rammenti Volterra... ella pur vide la tua
viltà...»
«Or via, dacchè la poca vita che ti rimane tu adopri ad
aumentare le tue colpe, Sciarra, gli taglia la gola.»
Sopra il portico della casa si erano adunati i principali
dell'esercito, e con gli altri un alfiere che teneva fermo lo
stendardo imperiale quasi sul capo del Ferruccio. A tutti dolevano
le svergognate parole del Maramaldo, ma nessuno ardiva fargliene
dimostranze; quando poi videro lo Sciarra che, tratta la daga, si
disponeva a mettere in esecuzione il comando del Maramaldo,
proruppero in grido di orrore, e allo Sciarra mancò l'animo
di farsi innanzi.
L'odio rese il Maramaldo ingegnoso. Afferrato lo Sciarra pel braccio
e trattolo in disparte, esclamò:
«Valorosi guerrieri, vi chiamo in testimonio che ho riparato
la colpa. Misero me e per sempre abborrito, se avessi ad altre mani
commesso la vendetta dell'inclito vostro capitano generale Filiberto
di Orange e dolcissimo amico mio, condotto a morte immatura da
questo vile scherano. Io stesso placherò la tua anima,
spargendo le ultime stille di questo sangue esecrato. Accetta questo
estremo ufficio con quel cuore col quale te l'offriamo e che ci
viene fatto meno tristo dal pensiero che sia per riuscirti gradito
nel seggio glorioso a cui fosti assunto. Tedeschi... Spagnuoli...
Italiani..., applaudite... all'anima del principe di Orange!»
E col volto colore di cenere, gli occhi stralunati, recatosi in mano
il pugnale, si avvicina a gran passo verso il Ferruccio.
E questi vedendoselo ormai venire addosso, lo guarda in volto e
sorridendo gli dice:
«Tu tremi! Ecco... tu ammazzi un uomo morto.»
E il ferro dell'assassino penetrò fino al manico
nell'intemerato petto del prode Ferruccio.
Mentre, dibattendosi nella morte, solleva il Ferruccio le mani,
incontra il lembo dello stendardo imperiale, - apre per l'ultima
volta gli sguardi, lo ravvisa, - lo afferra nella convulsione
dell'agonia e, fattolo cadere, vi si avviluppa le membra.
La bandiera nemica serve di lenzuolo funerario al Ferruccio... Egli
lo vede... esulta e spira l'anima immortale.
Di che mai comporrebbe l'Eterno la corona dei suoi santi, se l'anima
del Ferruccio non fosse cittadina nel cielo?
Dove riposa il suo corpo? S'ignora; - non pietra, - non segno, - non
iscrizione accenna il luogo dov'ebbero ultima stanza le gloriose sue
ossa. Nè ciò crediate per impedimento di governanti,
ma per viltà, per ignoranza, per ignavia dei posteri. Oh Dio!
simili cose scrivendo, io mi vergogno d'essere nato uomo.
Dicono fosse gittato lungo la grondaia della chiesa della Gavinana,
e il manoscritto del capitano Cini racconta che, scavando ai suoi
tempi presso le mura della chiesa, fu rinvenuto uno scheletro di
grande ossatura corrispondente al corpo robusto che aveva il
Ferruccio, siccome ci attestarono gli scrittori.
Certo coteste erano bene le ossa del Ferruccio, e lo argomento
dall'averle tosto riposte sotto terra: anche le ossa del Ferruccio
tornate alla faccia del sole dovevano mettere spavento.
I morti sommarono a numero infinito. Ricordansi fra gli altri
Alessandro Orsini, cugino pel signor Giampagolo, Guccio Tolomei,
Tomaso Lorenzi, Giovanni Arrighetti, Francesco Covoni, Michele
Uberti, Paolo Bernardini e Francesco Moretti; pochi dei feriti
sopravvissero, per essersi azzuffati in luoghi angusti, a corpo a
corpo. Messer Giovan Carlo Saraceni non dubita affermare essere
stata questa una delle più terribili e sanguinose battaglie
che mai si sieno combattute in Italia. Non si andrebbe troppo
lontani dal vero calcolando che Ferruccio ingaggiasse la giornata
con forze otto volte minori di quelle dei nemici, tenuto conto della
parte panciatica, che si aggiunse agl'imperiali. Nelle storie a
questa battaglia rimase il nome di San Marcello, ma devesi chiamare
della Gavinana.
La terra data in balía dei soldati; vi fu commesso quanto la
vendetta sa suggerire di più truce, l'avidità di
più rapace; nè cosa nè persona rimase intatta,
- fino le campane rapirono e venderono a' Lucchesi. Da gran tempo
noi miseri abitatori di questa contrada ci compriamo a vicenda i
nostri brani che ci strappano dalle spalle gli stranieri. Un caso
avvenuto dopo la preda delle campane fece pensare che Dio volesse
vendicare l'insulto fatto alla sua casa. Mentre sopra la piazza
della Gavinana attendevano certi soldati a votare i bariglioni della
polvere, cadde per avventura di mano ad uno di loro la corda accesa,
e l'incendio che ne seguì mandò a male meglio di
trecento imperiali.
Avanti che io mi allontani da Gavinana mi giova ricordare due fatti
i quali, comecchè di contraria natura fra loro, meritano di
non passare obliati.
Il primo (e questo narrerò più brevemente
perchè torna in oltraggio alla nostra natura), il primo fu di
Amico Arsoli, quell'egregio conduttore di cavalli di cui sovente
abbiamo esposte le geste. Odiato a morte da Marzio Colonna, fu da
lui comprato e barbaramente messo a morte. Ripreso dai suoi compagni
della perfida azione, allegava in iscusa la strage operata
dall'Arsoli del suo cugino Scipione Colonna, come se l'Arsoli non lo
avesse morto combattendo lealmente in battaglia, e come se,
incrociate una volta le spade, il nemico non dovesse ingegnarsi con
ogni suo sforzo di superare il nemico. Ma al Colonna pareva non
dovesse siffatta scusa bastare; imperciocchè costumasse fra i
Romani di cotesti tempi degenerati vendicarsi con quanta maggiore
sicurezza potevano e fare le esequie ai parenti col sangue comprato
dei nemici.
Non così Giovanni di Mariotto Cellesi, il quale essendosi
anch'egli partito da Pistola per comprare Nicolò Strozzi col
proponimento di menarlo a mal termine, lo trovò ferito nello
stinco e ridotto a tale che, mutatosi all'improvviso di animo e
l'ira convertita in compassione, lo riscattò con mille
ducati, lo trasportò con amorevole cura a Pistola e quivi,
fattolo nella propria sua casa medicare, lo guarì, lo
nudrì e, accomodatolo di danaro, con buona accompagnatura lo
rese sano e salvo a Firenze.
E avverti che la ingiuria era per gli odierni costumi gravissima e
deliberata; imperciocchè Nicolò insinuatosi nell'animo
della moglie del Cellesi la persuadesse ad abbandonare il marito; ed
ella lo fece, ma indi a breve venuta in fastidio all'adultero, si
rimase con la vergogna e col danno. Bene a ragione il Cellesi
pensò che per una rea femmina non dovesse mandarsi a male un
uomo prode, chè tale si fu Nicolò, e, se togli questo
peccato che ho detto, anche costumato cavaliere.
Durarono assai tempo i predicatori a citare dai pergami un simile
atto nelle loro dicerie al popolo, favellando dell'amore del
prossimo. E forse io penso che anche oggi non isdegnerebbero
rammentarlo, se lo sapessero. Ma i predicatori non leggono
più storie.
I giorni susseguenti alla battaglia, quando i vincitori si erano
partiti trascinando i vinti, i feriti languivano lontani negli
ospedali, e la terra aveva accolto i morti; - allorchè il
silenzio e il terrore occupavano quei campi fatali, - fu vista
aggirarsi per valli e per pendici una forma di donna palpitante,
scapigliata, quasi menade ebbra di vino... Oh! ella era ebbra
davvero, ma di dolore; - con la faccia ritta al cielo, battendo le
palme rapida, a guisa di lingua di fuoco scorreva pei ciglioni dei
precipizi, e l'aria forte percossa dal ventilare dalla sua veste
bianca le fremeva dietro come persona commossa dal pericolo di
qualche capo diletto. Il montanaro, la contemplando giù della
forra o dalla balza vicina, chiudeva gli occhi pel terrore, e
facendosi il segno della salute supplicava per l'anima di lei... se
non che, sogguardando pauroso, la rimirava festante spaziare lontana
dal dirupo, - quando ecco sottentra a perigliare su l'arduo sentiero
altro e più compassionevole oggetto, - era un vecchio
oppresso dagli anni e dalle sciagure, il quale, sebbene gli
tremassero sotto le gambe, aveva ben saldo il cuore; ad ogni orma
che stampa vacillante sul ciglione, scorre nell'anima di chi lo vede
il ribrezzo, e la pelle rimane compresa da crispazione
angosciosa..., pur nondimeno lo spirito governa il corpo, ed esce
illeso dal mal passo.
La donna fuggendo e il vecchio inseguendo scorrono in piano di
Doccia, rivedono la fonte dei Gorghi, il rivo delle Catinelle, si
accostano a Gavinana, piegando a destra lungo le mura, e finalmente
ansanti si fermano nel bosco delle Vergini a piè di un
castagno.
In verità uno dei più belli che crescano in quel
campo, dove ne vegetano dei bellissimi, e nel suo tronco, ad arte
scortecciato, mostrava una croce.
Cadendovi davanti genuflessa, appoggiandovi le mani una sopra
l'altra, e su le mani declinando la testa, stette la donna immobile,
bianca e, dove il palpito del seno non l'avesse dimostrata viva,
uguale in tutto a statua di marmo.
E il vecchio le veniva accanto piegando anch'egli i ginocchi e, come
lei, le mani e il capo appoggiando al tronco del castagno, - senza
parlarle, - senza consolarla, - senza pure toccarla; i suoi dolori
erano di quelli che per parole non si placano; soltanto piangeva.
Immemore dapprima di ogni cosa terrena, la derelitta per quel pianto
incessante si sentiva a mano a mano, dai truci fantasmi della
immaginazione chiamata agli affanni della vita; allora si accorgeva
del vecchio, che le plorava a canto e le si abbandonava nelle
braccia, - con le sue guancie premeva le guancie di lui, - e
confondevano insieme l'alito, i sospiri, le lagrime. - Quanta
inenarrabile angoscia aveva accumulato il Signore sul capo di quelle
due creature!
I montanari, indovinando la causa per cui eglino non potevano
abbandonare coteste rupi, li compassionavano, ed anzi anch'essi,
miti sotto il flagello di Dio, con ossequio religioso li
proseguivano.
Allo approssimarsi del verno, più che altrove, diviene
squallida la natura su i monti, - il vento si agita inquieto
giù per le valli, - lungo le forre, e il mormorio che nasce
dalle foglie cadute menate in volta e diffondentesi per tanto spazio
di paese, rassembra un lamento che mandino gli alberi e la terra nel
vedersi rapire la bella veste di cui andarono superbi nelle migliori
stagioni dell'anno.
Una sera dei primi giorni del verno, all'ora del crepuscolo, - in
quel momento in cui la luce e le tenebre si contendono il cielo, - e
l'anima umana vacilla tra le cure della vita e i pensieri della
eternità, - in cotesto istante, che anche all'assassino viene
involontaria una preghiera della infanzia su i labbri, e nel cuore
un pensiero per la madre che lo amò tanto, - in quell'ora di
mestizia e di pace, Lucantonio si presentò al metato della
casa nuova. Teneva in collo, sorreggendola col braccio destro,
Annalena, che dalla pieghevolezza dei contorni sembrava
addormentata, se non che la destra le pendeva inerte lungo il
fianco, la manca dietro il dorso del vecchio, - e questi si aiutava
sorreggendosi forte al bastone, - il capo aveva scoperto, - i suoi
capelli bianchissimi si disegnavano nella porpora del crepuscolo,
gli avresti detti tinti nel sangue.
Giunto in mezzo al metato, volgendosi ai montanari quivi raccolti,
con ferma voce e non pertanto sinistra domandò se alcuno di
loro per amore della Madonna e per i suoi danari avesse voluto
accompagnarlo al piano delle Vergini con palo e zappa, onde
assisterlo in un'opera pia.
«Per amore della Vergine e vostro senz'altro», risposero
i montanari, «noi vi accompagneremo»; - e le loro donne,
mogli e figlie, fosse pietà, fosse voglia curiosa, o l'una
cosa e l'altra, vollero ad ogni patto seguitarli.
Procederono a due a due come in processione silenziosi -; - veniva
ultimo il vecchio; - egli non aveva permesso a nessuno di toccare
Annalena; - e sì che quel peso doveva gravarlo, e ad ogni
passo che mutava, pareva accostarsi di un anno al sepolcro.
Ad un tratto il vecchio proruppe nel cantico dei morti e
supplicò al Signore perchè nella sua immensa
misericordia avesse compassione di lui.
E gli altri vennero ad ogni verso rispondendogli, sebbene
ignorassero chi e dove fosse il defunto.
Lucantonio gli fece fermare nel bosco delle Vergini, a piè di
un castagno, ordinando scavassero colà dove additava.
Tolta alcun poco di terra, la vanga incontra stritolando ossa umane;
il montanaro lascia l'arnese ficcato nella terra e rifugge
inorridito.
«Continua l'opera, montanaro», con voce solenne riprende
Lucantonio, «tu non profani le ossa dei morti, - io riunisco
la moglie al marito, - questa ch'io tengo su le braccia è la
sposa, - lo sposo giace là dentro, - il sepolcro sia il
talamo di ambedue. Ieri all'alba ella svenne e diventò
fredda... io la esposi al sole... l'avviluppai in caldi pannilini...
col mio fiato mi sono ingegnato riscaldarle le mani, ma ella si
è fatta sempre più fredda... l'ho chiamata co' nomi
più cari... Vieni, le ho detto, sebbene questo pellegrinaggio
mi avvelenasse il sangue, vieni, andiamo a visitare la fossa di
Vico. - Non mi ha risposto... Io l'ho tenuta per morta: ella difatti
è morta...»
Il montanaro continua a scavare la fossa, - e il vecchio soggiunge
favellando ai circostanti:
«O madri! - questa povera creatura non conobbe sua madre: - o
padri!... ella non ebbe le paterne carezze... La sua anima fu tesoro
di amore... e per lungo tempo la sventura si appigliava ai lembi di
questo e di quello, interrogando: Chi devo amare? -
Imperciocchè io l'era servo, - e quando ella ebbe trovato un
gentile garzone, prode e dabbene, Dio glielo ha tolto. - Questi
giovani appena si conobbero nella vita, - ora staranno insieme una
eternità. Lode al Signore!»
I montanari mal sapendo se quella lode al Signore uscisse sincera
dal labbro del vecchio, o in fondo a quel discorso sonasse accento
di disperazione, scherno o rampogna, - piansero, - calarono il corpo
di Annalena nella fossa - e le pregarono pace.
La notte diventò profonda, i montanari tolsero commiato;
Lucantonio voleva pagarli, ma si ristette, perchè le lacrime
non si pagano. Il vecchio cortese chiamò un fanciullino che
gli era stato sempre al fianco e, postogli nelle mani quanto si
trovava a possedere di danaro, gli parlò sommesso: Quando tuo
padre avrà fame, - e tu dagli questo.
Rimasto solo, così al buio incise sul tronco del castagno il
nome di Annalena sotto quello di Vico, poi si accomodò a
sedere con le spalle appoggiate al tronco, le mani conserte e
abbandonate nel grembo, le gambe tese, il capo chino sul seno.
Il montanaro a cui il figlioletto aveva dato il danaro del vecchio,
cercandolo il giorno appresso, lo rinvenne seduto a piè del
castagno; lo reputando addormentato, aspettò gran tempo
perchè si svegliasse, poi lo tentò per le braccia...
Non si scosse, perchè era morto.
Raccontano che quel bosco si chiamasse prima della Vergine in onore
della Madonna, ma dopo quel caso lo dicessero delle Vergini, in
memoria ancora di Annalena quivi sepolta.
Ho cercato il castagno che protegge con le sue ombre il sepolcro di
quei tre miseri, e non l'ho trovato; ma se, come assicurano, gli
alberi crescono di diametro strato sovrapponendo a strato senza
cancellare le incisioni del coperto, è da sperarsi che,
abbattendo talvolta qualche castagno del bosco delle Vergini, il
bottaio che ne farà caratelli trovi quel tronco consacrato
dalla sventura.
CAPITOLO TRENTESIMO
LA VENDETTA DEGLI UOMINI E IL CASTIGO DI DIO
La infamia seguirà la parte offensa
In grido, come suol, - ma la vendetta
Fia testimonio al vero.
Dante.
Ahi fortuna! Ci vien meno sotto i piedi la terra. Dove precipitiamo,
o Cencio?» disfatto dal terrore esclamava Malatesta Baglioni,
a cui Cencio riferiva rotto l'esercito imperiale, morto l'Orange,
Ferruccio vincitore accostarsi a Firenze, il destino della
Repubblica prevalso; - alle quali parole Cencio rispondeva:
«Ch'è questo, signor Baglione? Non dubitate; un
sostegno non sarà per mancarvi giammai: se vi fugge dalla
parte dei piedi, la Repubblica sta apparecchiandovene un altro dalla
parte del collo.»
«Maledetto quando mi apparisti davanti! Possa la tua anima
traboccare dal patibolo nell'inferno! Ma ti par ora questa da
motteggiare, Cencio? Vien qua, Cencio, senti: vediamo se vi ha mezzo
di salvarci la vita... la vita! e che devo farmi della vita senza la
potenza, senza le dovizie... senza...?»
«Senza il sangue dei nemici?»
«Lo hai detto. - Costoro non mi uccideranno, anzi diranno al
valletto: Prima che quella vivanda passi al cane, datela a Malatesta
che sta di fuori seduto sopra i gradini del nostro palazzo.»
«Addio Chiusi, addio duchea di Bevagna e Tunigiana.»
«Il figlio che doveva essere orgoglio dei miei tardi anni, che
stava per condurmi regal donna in casa!»
«Non che il duca di Camerino, ma il più povero
artigiano non si vorrebbe mescolare con lui; voi non avrete da
sodare la dota nè anco il cento ducati...»
«E il nipote, cui già immaginava ammantato della
porpora cardinalizia...»
«Diventerà dopo dieci anni curato di campagna...»
«Potessi fare un patto col diavolo! Ah!...»
E gettò un grido di spavento, chè in questo punto si
udì forte un rumore di uomini accorrenti, e subito dopo tutto
affannoso comparve nella stanza Biagio Stella, il quale espose: la
prima nuova della battaglia falsa, vera la morte dell'Orange, ma
esservi pur morto il Ferruccio, e il suo piccolo esercito andare
disperso pel contado toscano.
«O santo Pietro!» favella Malatesta levando le mani al
cielo e poi come spossato declinandole al pavimento, «o santo
Pietro! Queste due morti giovano meglio al pontefice che le tue
chiavi d'oro e d'argento. Dopo tanti anni di matrimonio io dubitava
a Cristo non fosse diventata incresciosa la Chiesa sua moglie; ora
poi conosco a prova cotesti sponsali rimanersi pur sempre sotto
l'influsso della luna del miele. Io comincio a credere in Dio...
Biagio, un abbraccio; - Cencio, un bacio; - figli miei, questa
è l'ultima nostra fatica; - anche il grappolo di Perugia
produce vino generoso, - e la vendemmia ci aspetta. Cencio, torna la
speranza del sangue nemico assai più soave del vino. Biagio,
comunque adesso mi travagli il caldo, parmi rinfrescarmi all'ombra
dei platani di Tunigiana, sotto i gelsi della valle Topina; - i miei
occhi, Cencio, sono inebbriati di rosso, il vermiglio mi lusinga
intero... rosso il sangue di Sforza, - rossa la porpora di Ridolfo,
- rosso il manto ducale del figliuol mio: Cencio, Biagio, - mi sento
l'uomo più avventurato del mondo; - andate per sonatori, per
femmine, - oggi è un bel giorno...
«È il giorno di morte della libertà
italiana!!!...»
«Magnifico messere capitano, - due magistrati che si dicono
dei Dieci della guerra fanno istanza di favellarvi.»
«I signori Dieci! I magnifici signori Dieci di libertà
e pace! Che vengano tosto, in miglior punto non potevano arrivare i
messaggeri dei magnifici signori Dieci. Cencio, Biagio, rimanete con
me, affinchè non abbiano a camminare troppo per rinvenire
medico, confessore e notaio per la Repubblica che muore; o piuttosto
sentite: noi rappresenteremo i tre sacramenti: io la Penitenza,
Biagio l'Eucarestia, e tu, Cencio, la Estrema Unzione; - guarda mo',
Biagio, non ti par egli che abbia Cencio una faccia di olio santo? E
per questa volta tu l'ungerai proprio all'agonia, come raccomanda
l'apostolo santo Iacopo, - la Estrema Unzione non si dovrebbe
replicare una seconda volta, - ciò sta contro le regole. -
Ecco i Dieci. - Ben vengano i magnifici signori Dieci. - In che e
dove posso spendere l'opera mia? Cencio, porgete sgabelli. - State a
vostro agio, come a casa vostra. Ci avanza ancora qualche poco di
vino; vorreste saggiarne? - Vino d'assedio... ma vi do quello che
ho, e di cuore...»
E tutte queste parole erano profferite con procacia e petulanza tali
da movere a sdegno i più mansueti.
I Dieci però o non si sdegnarono o molto bene dissimularono
l'ira concetta; onde mansueti risposero:
«Gran mercè, signor capitano generale, - noi ci staremo
in piedi; la urgenza del caso è tale che non concede la
perdita di un momento di tempo.»
«Orsù dunque dite: io tutto orecchie vi ascolto.»
«Malatesta, - voi siete cristiano, e vi supplichiamo per Dio;
- voi siete soldato, e vi supplichiamo per l'onor vostro; - voi
siete padre, e per l'amore dei vostri figliuoli vi scongiuriamo a
prendere pietà del nostro infelice paese. Voi lo sapete,
Orange è morto, - morto pur anche il valoroso Ferruccio; - il
nostro esercito rimase rotto, ma la vittoria del nemico si
assomiglia alla sconfitta; possiamo anche vincere, conduceteci
all'assalto del campo, - noi confidiamo sia per riuscirci agevole
opprimerlo; - vuoto dei migliori soldati, sbigottito, diviso di
voglie, forse mai come ora ci stette in pugno la vittoria.
L'ordinanza della milizia ad alta voce domanda mescolarsi col
nemico.»
«Ordinanza! Poveri folli! Ma che? credete voi che ordinare una
battaglia, esercitare il mestiere del soldato sia come cimare panni,
tignere sete e sedersi in banco a dare a prestanza sul pegno al
venti per cento d'interesse? Chi vi ha contato tante novelle?
Così foss'io sano, com'è Orange! -
Così...»
«Signor Malatesta, noi ne abbiamo sicurissimo
ragguaglio.»
«Ed io vi dico che vi hanno ingannato. Voi non avete
più speranza di vincere, e credetelo a me, che sono uomo di
guerra: abbandonatevi nelle mie braccia; sutor ne ultra crepidam, -
a voi i negozi, la spada a me. - L'ordinanza!... Voi avreste fatto
un gran bene a lasciare cotesta gioventù ai suoi fondachi,
che le bisogne sarieno state assai meglio amministrate...»
«L'ordinanza, messere...»
«L'ordinanza, messeri, ha fatto più male che bene, e
adesso non potrebbe fare più nulla. Sentite, io vi amo, e
perchè vi amo vi consiglio ad accordare: - ho già
consultato don Ferrante... voleva dire il principe Orange, e
promette buoni patti...»
«Chi ve ne dava la commissione?...»
«Me la sono tolta da me; io faccio la cosa utile, mi vesto da
gestore di negozi, come dicono i giureconsulti... appunto
perchè sono cristiano e temo Dio, voglio risparmiare la
effusione del sangue e conseguire con parole di pace quello che
ormai non potreste ottenere con la guerra; appunto perchè
intendo l'onore, mi piace guadagnarmi la fama che nasce da salvare
una città nobilissima, qual'è questa vostra; pur
troppo accolgo viscere di padre, e come padre sento qual debito
avrei presso gli uomini e presso Dio, se compiacendo ad alcuni
Piagnoni io lasciassi andare a fuoco tanti magnifici ostelli, a
sangue tanti incliti cittadini; se nulla mi premesse il decoro di
tante vergini e di tante gentildonne. Io dunque ho già
convenuto su i patti meglio importanti con don..., col principe di
Orange...»
«Chi ve ne conferiva il mandato?»
«Continuerete voi ingrati a maledire la luce che v'illumina?
Già comincia a pesarmi questa diuturna pazienza. Credete voi
che ignori le vostre vociferazioni? Forse io non so che mi andate
vituperando come traditore? Non conosco io che voi, in premio dei
patiti travagli in pro vostro, mi torreste la testa? E non pertanto
dissimulo e perdono come Cristo perdonò, e ai vostri vantaggi
mi affatico dicendo, com'egli disse: io li perdono, perchè
non sanno quello che si fanno. - Certo i posteri quando
apprenderanno questa mia longanimità mi estimeranno codardo;
avrei dovuto abbandonarvi, lasciarvi in balia del nemico, ma non me
lo concede la mia natura. Io restringo molte cose in una: speranze
non ve ne rimangono, io accorderò per voi; e se ostinati
volete ad ogni modo combattere, datemi licenza di ricondurmi alle
mie case..., dove forse mi attende la morte a cagione dell'ira del
pontefice ch'io mi sono provocato contro per voi..»
«Voi dunque non volete combattere?»
«Non voglio condurre a perdizione la vostra patria...»
«E desiderate la licenza...»
«La licenza! Portatemela e vedrete.»
«Malatesta, l'avrete.»
E crucciosi abbandonarono le case di lui. Allora Cencio, volgendosi
al Baglioni, favellò:
«Voi siete il libro della Sibilla: e se vengono con la
licenza?»
«Non verranno.»
«Ma se venissero?»
«Al papa certa volta prese talento di scomunicare non so quale
dei Visconti e gli mandò ambasciatori: questi lo incontrarono
sopra un ponte del naviglio grande e gli esposero la scomunica.
Udita ch'ebbe leggere la sentenza il Visconti, Messeri, disse agli
ambasciatori, ora vi conviene o bevere, gittati capovolti dal ponte,
l'acqua del canale, o mangiare cotesta condanna. Scelsero mangiare,
e ben per loro, che avevano denti buoni e stomaco migliore,
perchè il Visconti quinci non si rimosse, finchè non
ebbero trangugiato l'ultimo pezzo di carta pecora, e l'ultimo
frammento di piombo del suggello sub annulo piscatoris. - Mi manca
l'acqua: pur tanto è alta questa magione da fare preferire il
pasto della licenza al volo dalle finestre.»
Nelle insolite commozioni dell'animo di gioja o di dolore, gli
uomini abbisognano mescolarsi tra loro; quindi vedevi al palazzo
della Signoria un brulichío di persone, un andare e un
venire, un domandare l'un l'altro; se non che scomposta appariva
cotesta frequenza, paurosi i moti, inquieti i sembianti, nè
v'era mestieri di lungo esame per conoscere che per questa volta
l'afflizione raccoglieva la gente; il passo stesso accenna la
passione dell'uomo che cammina; rimossa ogni luce, io credo che di
leggieri possa indovinarsi s'egli muova ad un festino, o piuttosto
ad un mortorio.
Furono per bene due volte udite le parole del Malatesta, e mentre
tra il fremito universale tentava alcuno dei Signori proporre cosa
che fosse buona, ecco apparire Cencio Guercio, il quale, pretermessa
la debita reverenza, entrò nella sala del supremo magistrato
della Repubblica, non altramente che fosse una taverna, e
gittò sulla tavola un manifesto, che fu il terzo firmato da
Malatesta e dal Colonna, nel quale in sostanza si replicavano con
più diffuse parole i medesimi concetti.
Cencio, reso insolente dai casi, credendo ormai potergli essere
lecito qualunque malefizio, alla indignazione suscitata da cotesta
lettura aggiunse nuova esca, adoperando siffatto linguaggio:
«O mercadanti, sbrigatevi via: non vi par egli di avere fatto
aspettare assai messer papa e messere lo imperatore, principi e
baroni, di cui uno solo val meglio di tutti voi altri? I granchi
mangeranno le balene? Avete per questa volta conchiuso un tristo
negozio; - più che aspettate, e meno costate; - io, con buon
rispetto parlando, dalla lana in fuori non darei di voi altri
Signori due lire di piccioli; - la vostra testa è un'aia, -
volendo ci metteremo fieno, - ma per cervello, ah! ci si potrebbe
trarre d'arme da mattina a sera... Orsù via, sbrigatevi,
tornate alle faccende, le botteghe vostre vi attendono; anche
lì potete fare la guerra..., col braccio corto... e la
menzogna lunga, alle borse degli avventori.»
Dante da Castiglione e Lionardo Bartolini si mossero concitati e
levarono le mani per metterle addosso all'insolente soldato, ma al
Gonfaloniere sembrando che ciò non sarebbe avvenuto senza
notabile scapito della reputazione del governo, ordinò si
rimanessero, e aggiunse:
«Costui certo è pazzo od ebbro: così essendo,
non ci facciamo micidiali del suo sangue, quantunque l'oltraggio,
per la parte del Malatesta, diventerebbe maggiore.».
«Venga il medico e il carnefice», ripresero varie voci,
«ed il cagnotto vada all'ospedale o al supplizio.»
«Sentite, Signori», favella Cencio, ma sbaldanzito non
poco e pur continuando nella sua procace natura, «se mi
mandate all'inferno, vi scoperò le stanze...»
«Mazzieri», gridò Raffaello Girolami,
«cacciate questo ebbro dal palazzo.»
E i mazzieri accorsero, e Cencio suo malgrado, spinto fuori di
stanza in stanza, senza potere più oltre articolare parola,
si trovò, quasi prima di accorgersene, cacciato in mezzo di
piazza.
Il gonfaloniere Girolami in tanta urgenza di casi domandava
consiglio; Dante da Castiglione, consultatosi prima con Francesco
Carduccio, con Domenico Simoni ed altri della sua fazione,
animosamente disse:
«I partiti audaci, siccome sempre dimostrano spirito sicuro,
essere ancora il più delle volte favoriti dalla fortuna; per
tanto consigliare l'arresto del traditore Baglioni; si adunassero di
quieto le bande della milizia, stesse il Gonfaloniere in pronto a
condurlo, si mandasse un uomo fidato al Monte per guadagnare in ogni
maniera il signore Stefano, poi si scendesse con mille circa
soldati, e si circondasse la casa Bini: preso Malatesta, con breve
processo si condannasse nel capo, come i maggiori loro avevano
adoperato con Giovampagolo Vitelli al tempo della guerra di Pisa,
poi si rimettessero in tutto nelle braccia della fortuna sortendo a
combattere, e così vincere, ovvero insieme con la vita
perdere il tutto, determinando che quelli i quali rimarranno a
custodia delle porte e dei ripari, se per caso avverso la gente
della città fosse rotta, abbiano con le mani loro subito a
uccidere le donne ed i figliuoli, e porre fuoco alle case, e poi
uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta
la città, non vi resti se non la memoria della grandezza
degli animi di quella, e che sieno d'immortale esempio a coloro che
sono nati liberi e desiderano vivere liberamente.»
Questi consigli estremi, comecchè accolti con molto favore,
non sortirono effetto, sia perchè, secondo alcuni scrivono,
il Gonfaloniere rifiutasse uscire armato, sia piuttosto, come sembra
più vero, che Donato Giannotti, segretario delle tratte,
spedito al signore Stefano, non giungesse a persuaderlo. Per il qual
fatto, se il Malatesta si guadagnò fama di traditore operando
contro la patria, il Colonna se la meritò per essersi
astenuto dall'operare. E di questa sua mancanza parte fu colpa
l'astio ch'egli conservava pur vivo della preferenza data a
Malatesta nel capitanato generale della Repubblica, parte
all'invidia della gloria del Ferruccio, il quale in breve tempo era
giunto ad oscurare le vecchie reputazioni; e finalmente più
che ad altro vuolsi attribuire all'ordine espresso mandatogli da
Francesco I di Francia, col quale s'ingiungeva partirsi dagli
stipendi di Firenze quando prima, senza scapito del suo onore, il
potesse.
Riuscito questo provvedimento invano, Francesco Carduccio, sebbene
scorgesse la perdita della Repubblica ormai sicura, non
perciò abbandonava il timone, continuando a lottare contro la
fortuna, che ad ogni istante diventava più burrascosa. Egli
dunque propose, poichè Zanobi Bartolini di commessario della
Repubblica era diventato consigliere del Malatesta, Tomaso Soderini
e Antonio Giugni andavano navigando per perduti, i quattro
commessari si cassassero, ed altri più fedeli e più
acconci ai tempi presenti si sostituissero. La quale proposizione
venendo accolta con molto favore, in luogo dei tre mentovati
elessero Luigi Soderini, Francesco Zati, Francesco Carduccio, e per
quarto Andreuolo Niccolini confermarono.
Un altro provvedimento notabile e del pari promosso dal Carduccio,
il quale, preso in tempi opportuni, non è da dubitarsi che
avrebbe la salute della Repubblica partorito, fu questo. A
ciascheduno dei settantadue capitani stipendiati confermarono la
provvisione loro vita naturale durante, ancora in tempo di pace e
militando ai servizi altrui, purchè non fosse contro alla
Repubblica. Comecchè simile liberalità con animo grato
accogliessero i capitani, i quali nell'udirla pubblicare presi da
entusiasmo giurarono di nuovo difendere fino all'estremo Firenze,
tuttavolta non ebbe tempo di mettere radice, e la procella dei casi
sorvegnenti ne disperse, per così dire, il seme appena
gittato.
Restava il danno a riparare peggiore, voglio dire il Malatesta.
Francesco Carduccio esponendo per la parte dei Piagnoni, sosteneva
la proposta di Dante non doversi mutare per la sostanza in nulla,
soltanto andare sottoposta ad alcune modificazioni rispetto
all'eseguimento per il mancato sussidio del signore Stefano Colonna;
si adunasse pertanto la milizia, il palazzo del Baglione
s'investisse, lui al meritato supplizio si strascinasse. Alla quale
sentenza la maggior parte degli adunati, in cui assai più
della speranza preponderava la paura, obiettavano immane cosa essere
non pure tra popolo civile, ma eziandio presso quelli che fama hanno
ed ingegno di barbari, la sorpresa armata, il violato domicilio, la
strage nei moti delle scomposte passioni; potersi molto bene
provvedere a tutto accommiatando Malatesta, il quale volentieri
avrebbe aderito a siffatto provvedimento, imperciocchè egli
medesimo aveva chiesto licenza. Dall'altra parte il Carduccio,
insistendo sempre nei suoi primi raziocinii, aggiungeva: quel
domandare congedo essere nel Malatesta mera apparenza, chiederlo non
dato, dato poi lo ricuserebbe, e il vedrebbero; non parergli uomo il
Baglione da lasciare la vendemmia quando i grappoli stavano nel
tino; la milizia, pronta e vogliosa adesso, forse tra mezz'ora
rifiuterebbe adunarsi; fugace l'occasione e irrevocabile; pensassero
andarne grossa posta, la libertà della patria, forse anche la
vita.
Orò con grande eloquenza il Carduccio, e se non avesse avuto
per contradittore la paura, che, rubata la maschera alla prudenza
sotto il velame della temperanza sempre e poi sempre nasconde la
eterna viltà, non è a dubitarsi avrebbe prevalso il
suo consiglio; statuirono invece concedere licenza al Malatesta, che
in termini quanto bugiardi altrettanto magnifici compilarono
amplissima e codardissima. Compilata che fu, intesero affidarla al
Carduccio, onde in compagnia di altro commessario gliela recasse; ma
egli da quell'uomo astuto che era, presago ormai del futuro, si
cansava fuori della sala, aprendo l'animo suo al Castiglione con
questo proverbio fiorentino:
«Chi ha il lupo per compare, porti il cane sotto il mantello;
- e questi stati mi manderebbero a lui con la pecora.»
Allora la Signoria ne commise lo incarico a Francesco Zati ed a
Andreuolo Niccolini, i quali, comecchè a malincuore, andarono
vestiti in abito magistrale, montati sopra due bellissime mule,
preceduti da due mazzieri del comune e seguitati dal notaro ser
Paolo da Cutignano, affinchè rendesse pubblica testimonianza
del fatto.
Pervenuti al palazzo del Bini, assai facilmente ottennero
l'ingresso, se non che, appena entrati, vennero loro dietro chiuse
le porte, e si trovarono in mezzo ad una frotta licenziosa di
soldati. Dopo un attender lungo, durante il quale ebbero a soffrire
gli ammicchi, i sorrisi beffardi e le minacce mezzo susurrate dei
cagnotti del Malatesta, scese il comando che proseguissero. Andarono
con miglior volto che animo, tanto più che salendo le scale
si accorsero siccome avessero trattenuto dal seguitarli il notaio e
i mazzieri.
Nel porre il piede nelle prime sale occorse loro una quantità
di giovani nobili, i quali, ormai apertamente ribellati alla patria,
tenevano pel Malatesta. I commessari e i giovani abbassarono gli
sguardi, i primi per l'amarezza che sentivano del misero stato a cui
si trovava ridotta la patria, gli altri per rimorso di tale
un'azione intorno alla quale si sforzavano invano acquietare la
coscienza col dire che tornava in vantaggio manifesto del proprio
paese.
La stanza del Baglione era ingombra di gente. Cencio, prossimo al
suo orecchio, gli versava nell'anima il fiele concepito pel severo
rabbuffo e pel pericolo sofferto poco anzi dalla Signoria. Biagio
Stella, Margutte da Perugia, Pasquino Côrso ed altri
più assai fidati di lui davano delle giravolte intorno ai
commessari investigando sottilmente se sotto le vesti portassero
armi da offendere e porgendo attentissimi gli occhi alle mani. Quivi
pure incontrarono Zanobi Bartolini, il quale, ormai strascinato
dagli eventi e costretto (come per ordinario avviene a cui si mette
sopra mal pendío) a fare più di quello che si era da
prima proposto, non pensava essere sicuro, se non se nella casa del
traditore della patria; e Ormanozzo Dati e Alamanno dei Pazzi con
altri molti di quei giovani che furono dei primi nel ventisette a
prendere le armi contro i Medici e a trascorrere in atti
disordinati, come sfregiarne gli stemmi, arderli in simulacro,
rimoverne le statue dalle chiese, incendiarne le case.
Malatesta se ne sta seduto in fondo della stanza sopra un lettuccio,
attrappito nelle membra, con occhi viperini, di sembianze più
gialle, più triste del solito, che in quel giorno un fiero
dolore nelle ossa aggiungeva infinita malignità alla naturale
scelleratezza della sua indole. All'apparire improvviso che fecero i
commissari, un tremito gl'invase la persona, però che ebbe a
prorompere in un acerbissimo ahi! - ma subito dopo, vedendo come
nessuno gli seguitasse, si assicurò, cupo aspettando e
silenzioso che profferissero parola.
Andreuolo Niccolini gli si accosta con atti ossequiosi, e la favella
componendo al suono più dolce che per lui si potesse,
«Magnifico signore Malatesta Baglioni», incomincia
cavandosi dal seno la carta della licenza e presentandogliela con
bel garbo, «gli eccelsi Signori, i venerabili Collegi, il
consiglio degli Ottanta e Pratica, considerando gli alti meriti
vostri e il valore e la fede con la quale avete saputo difendere fin
qui la nostra patria da due potentissimi eserciti, con
acerbità inestimabile di animo si piegano a darvi quella che
con tanta istanza domandate vostra licenza; - però i meriti
vostri appunto e le infermità che vi affliggono, li
consigliano ad essere discreti e non volere...»
A questa parte del discorso di messere Andreuolo, Malatesta, gittato
l'argine della bestiale sua ira, strappa fremendo dalle mani di lui
la licenza, la mette in brani e poi urla con ingegno plebeo:
«Figli di malvage femmine! - La licenza a me? Mi avete voi
tolto per un corpo fradicio da mandarsi alla Sardigna? - Io vi so
dire che vivo e penso e opero, e ve ne accorgerete ben voi. -
Traditori!... scellerati!... voi mi vorreste con coteste vostre
parolone lunghe un miglio cacciare via per governare le cose a
vostro senno. - V'ingannate a partito; ho giurato salvare Fiorenza,
e la salverò in dispetto dei tristi; e tu, iniquo
ambasciatore di una sinagoga di farisei, prendi la mercede che si
conviene al tuo inverecondo ministero...»
Prima che il mal giunto Andreuolo se ne potesse accorgere,
Malatesta, cacciato fuori un pugnale, gli tirò presto tre
colpi, di cui uno solo avrebbe certamente apportata la morte al
Niccolino, dove la infermità non gli avesse tenuto in quel
giorno più che negli altri attrappite le braccia. Tuttavolta
Andreuolo, tra lo stupore e lo spavento, non sapeva muover passo o
sciogliere la lingua; sicchè il Baglione, nonostante storpio
com'era, lo avrebbe finito, se Alamanno e Zanobi, forse tardi
scorgendo l'inganno, non accorrevano a levarglielo di sotto.
Francesco Zati, pensando sovrastargli il suo ultimo giorno, caduto
ai piedi del Malatesta, lo scongiurava a salvargli la vita; ed egli
sdegnoso gli rispondeva:
«Va al diavolo! - io non voleva te, ma quel tristaccio del
Carduccio.»
Intanto nel palazzo si era levato rumore grande. I soldati, le
barbarie del capo superando, gittatosi in folla sopra al mazziere e
al notaro, li percuotono turpemente, tolgono loro il danaro e
perfino le vesti di dosso, le mazze di argento involano, le mule dei
commessari non rispettano meglio: che più? Gli stessi
commessari, quantunque difesi dai giovani fiorentini, non andarono
illesi dalla rapacia e dalla brutalità di costoro; toccarono
percosse da vicino e da lontano, a brani a brani furono loro
strappate le cappe di dosso, e non senza sforzi gagliardi poterono
uscire salvi dalle mani di quei masnadieri.
Pervenuto l'osceno fatto a notizia della Signoria, commossa da
immensa passione, delibera adesse per isdegno praticare il partito
che avrebbe dovuto mettere in opera dianzi con prudenza ed auspicii
migliori: per la qual cosa comandò si adunassero subitamente
in piazza tutti i gonfaloni armati e pronti a combattere; ed avendo
udito come quattrocento giovani fiorentini, sprezzata la religione
del giuramento, raccolti sopra la piazza di Santo Spirito si fossero
dichiarati che in caso di contesa avrebbero sostenute le parti del
Malatesta, come quello che nella rovina della patria gli assicurava
di oneste condizioni, mandò alla volta loro Dante da
Castiglione e Bernardo da Verazzano, onde si affaticassero a
ritrarli dall'esiziale proponimento. Andarono, il primo pur sempre
fidente di sovvenire la patria moribonda, l'altro sfiduciato
dell'esito, ma pronto in qualsivoglia ventura a soddisfare il suo
debito di cittadino, - con diverso concetto egregi spiriti entrambi.
Pur troppo la migliore gioventù del paese, uscita dal
più inclito sangue, stava sopra la piazza di Santo Spirito
accolta ai danni della patria, non però baldanzosa, ma
dimessa in vista, mesta e pensosa più di altrui che di
sè stessa; alcuni favellavano a mezza voce, - non era la
speranza argomento dei loro colloqui, - con sofismi intendevano
assicurarsi dei sinistri presagi; altri, ragunati a capannelli, non
ardivano guardarsi in faccia e non aprivano labbro; un'aria greve
sembrava che ingombrasse celesta piazza. Quasi brulichio di vermi
sopra il cadavere di generoso animale, tu vedevi agitarsi per quella
gente una mano di codardi, parte dei quali, lodatori esagerati della
libertà pur dianzi, ora con vituperii di ogni maniera la
laceravano, i Medici celebravano, i beneficii loro levavano a cielo;
a sentirli, stava per rinnovarsi l'età dell'oro, l'Arno
avrebbe menato miele, il Mugnone latte; niuna quiete sperabile, se
non se sotto ai Medici; avere i Medici mandati alla terra nella sua
misericordia Dio. - Vili ed infami di cui la razza si mantiene viva
anche a' dì nostri! piaga perenne con la quale la provvidenza
volle contristata la stirpe umana! Susurroni famelici, in perpetuo
abbaianti per un pane che gli sfami, senza badare se questo pane
getti loro davanti un santo o il carnefice, senza neppure curare
s'egli sia composto col frumento della rapina o con le lagrime degli
oppressi, - se temprato nel sangue d'illustri cittadini: - e l'altra
parte si affaccendava, mossa da invidia, da vendetta, da superba
viltà, da stolida arroganza e dall'altra famiglia di truci
passioni piovute sopra di noi come il fuoco del cielo sopra Gomorra.
Tra questi più degli altri si sbraccia Bono Boni, dottore di
leggi, e salta e strilla a guisa di gazza; non lo badava nessuno, ma
egli provoca, rampogna ed anche minaccia, prosontuoso per
l'appoggio, - lo credereste? - del Morticino degli Antinori.
Siffatta compagnia denotava l'ultimo grado di decadenza in questo
sciagurato. Bono Boni lo tiene per le braccia e ride di tale un riso
che aggrinzisce con infinite rughe tutta la pelle del suo volto dove
sta scritto: forca a caratteri da speziale: certo così ride
il demonio quando dopo i suoi perfidi avvolgimenti giunge a ghermire
l'anima insidiata.
Maledizione e sventura! Talvolta sembra che la storia giustifichi le
contumelie fulminate contro la gloria dagli infermi intelletti o dai
maligni. I nomi dei generosi che si fecero compagni al Ferruccio
nell'estremo tentativo di salvare la libertà della patria i
ricordi del tempo non raccolsero interi, mentre all'opposto furono
conservati i nomi di coloro che perfidi o traviati la impiagarono di
ferita insanabile. Eravi Alamanno dei Pazzi, sangue degenere dei
Pazzi, che congiuravano contro i Medici quando essi, deposta la
lunga arte, si manifestarono tiranni alla ricisa; eranvi quattro dei
Capponi, tralignati figli di tanta casa, i quali così
illustre nome eredarono quasi peso che le forze loro non bastavano a
sopportare; eravi...: ma la mente abborre l'ingrato ufficio, e la
mano rifugge dal vergare cose nefande. O Memoria, quando ai lontani
nepoti tramandi le geste degl'incliti avi, te meritamente salutarono
i poeti genitrice delle muse; - ma quando narri la storia delle
turpitudini antiche, io penso che dal tuo grembo traessero ben anco
nascimento le Furie.
Il magnanimo Castiglione, percorso che ebbe col guardo la piazza di
Santo Spirito, sentì mancarsi sotto le gambe, un freddo
sudore gli si diffuse per la persona, ed accostandosi vacillante al
Verrazzano gli disse:
«Bernardo, sostienmi...; mi cade l'anima e il coraggio; adesso
conosco che la patria è perduta davvero.»
E il suo meno appassionato compagno rispondeva:
«Io lo sapeva anche prima; non pertanto proviamo.»
E Dante allora co' segni della più disperata desolazione,
piangendo lacrime che lasciavano un vestigio ardente sopra le sue
pallide guancie, - meglio che con le parole esprimendosi con
singhiozzi, abbandonandosi nelle braccia di chi primo gli si parava
davanti:
«Pazzi», diceva, «Capponi, Cavalcanti, - voi qui!
Pazzi; adesso si fabbrica, non si distrugge un tiranno, - e voi qui,
Capponi! - per Dio! non vi rammentate che i maggiori vostri con
l'ingegno e col sangue difesero la Repubblica? - Cavalcanti...
Baccio... unitevi a me... aspettate... io mi getterò a
terra... calcatemi il corpo... servitevene come di bigoncia e
tornate a recitare la bellissima vostra orazione composta in lode
del vivere libero... io l'ho tutta a memoria... Se in parte vi fosse
sfuggita di mente, io potrò suggerirvela intera... Ma che il
mondo è sconvolto? Capponi, Pazzi e Cavalcanti promovitori e
difensori dei Medici! Per certo si disfà la natura, ritornano
le cose create alla pristina confusione. Quelli che narrano degli
Abderitani, i quali per tre giorni durarono pazzi, non vuolsi ormai
tenere più in conto di favola. Per Dio! vincete il veleno...
quando risenserete vi starà davanti svenata la patria. Udite!
la Signoria vi chiama... accorrete a sostenerla; - forse non
è ancora tutto perduto, - forse può tuttora trovarsi
via alcuna di salute... Se il gonfaloniere v'incresce, ci se ne
andrà dal magistrato; se, non volendo, io vi offesi...,
esulerò dalla patria... raggiungerò nel sepolcro i
miei padri, - quanto vorrete faremo...:»
«No, Castiglione», risposero alquanti dei giovani,
«la patria non può salvarsi intera; anzichè
perdere tutto, noi ci affatichiamo a mantenere la libertà...,
lasciamo l'addentellato per riprendere l'opera in giorni meno
sinistri...»
«Ahi delusi! Quando non avrete più armi, chi vi
manterrà la promessa? La mano disarmata se s'innalza verso il
tiranno ad implorare cosa che non sia limosina, il carnefice la
tronca: Per cui vi giureranno i Medici? - Su gli avelli dei padri?
Essi hanno loro legato l'iniquo proponimento di assoggettare la
patria. Sopra al capo dei figli? La lionessa educa i lioncelli alla
preda; - essi crebbero nella vendetta, - le prime parole che
proferirono le loro labbra infantili già non furono di padre
o di madre; essi dissero al sangue: Tu sei mio padre, - e alla
rapina: Tu sei la madre mia. - Vi giureranno sul Cristo? Chi, come
Clemente, comprò la cattedra di san Pietro può bene
anche ingannare, - può vendere Cristo. Sovvenite alla
patria... o patria! o patria! Vedetela lacerata come la moglie del
Levita...; e come della moglie del Levita furono mandati i brani
alle tribù d'Israello, ecco io distribuisco tra voi le membra
sanguinose della vostra Fiorenza. Le tribù, rammentatevi,
vendicarono la donna trucidata... Nel nome santo di Dio, salvate la
vostra genitrice che sta per essere manomessa...»
«Noi non possiamo.»
«Oh! come non potete? E chi vi contende morire? - Potè
Leonida alle Termopili? E, più avventurosi di Leonida,
poterono i Milanesi? Il barbaro ne distrusse la patria e ne
seminò la nuda area di sale; ma la terra della libertà
fece germogliare il seme infecondo: altre mura sorsero sopra le
rovine, e Federigo le vide e non le superò... Venitemi
appresso... da questo punto io vedo sopra la torre di San Miniato il
gonfalone del comune svolgere il suo volume per l'aere sereno; -
egli si compiace del bel cielo, - il cielo di lui, - entrambi
trionfali; - venite, vedetelo; e' par che vi accenni, onde
accorriate a difenderlo... vedetelo pure una volta e poi ditemi: Noi
non possiamo!»
I meno inverecondi dei giovani non ardivano schiudere le labbra, -
l'un l'altro mirava spiando nel volto del vicino la risposta da
darsi. Allora i codardi, temendo le parole ardenti del Castiglione,
proruppero in ischiamazzi plebei, col fango dell'anima loro
pensarono contaminarlo dicendogli oscene ingiurie e contumelie di
ogni maniera.
Boni Boni, curvandosi all'orecchio del Morticino, susurrava:
«E' farebbe mestieri cacciarlo via dalla piazza.»
«Certo che sì, - ma come?»
«Oh! non sapete che l'anima nostra fa più lungo cammino
e più presto con una palla di piombo che non con sei mute di
posta?»
Il Morticino declina l'archibuso, ne volge la bocca alla volta di
Dante e accosta la corda accesa al focone; il colpo partiva.
Alamanno dei Pazzi con pronte mani strappa all'Antinori l'archibuso
e, gittandoglielo a terra, così lo garrisce:
«E pârti poco quello che facciamo, onde tu vi aggiunga
ancora il vanto di assassino?»
Però crebbero gli urli, e con gli urli furono lanciate pietre
contro il Castiglione, il quale, conserte le braccia sul petto,
sostenne l'infame oltraggio senza piegare il collo, senza stringere
le ciglia; e comecchè i sassi in più parti gli
rompessero la persona, i suoi labbri non si mossero ad accento che
denotasse ira o dolore.
Poi all'improvviso scosse la testa ed esclamò:
«Uccidetemi, ma ascoltatemi.»
E si mescolò tra' suoi percuotitori, e quale abbraccia, qual
bacia e quale strascina, pure pregando che vogliano affrettarsi in
aiuto della patria.
Perchè si arresta il magnanimo? Per qual cagione alla intensa
alacrità successe tanto stupida quiete? Forse gli si
scoppiò il cuore e non sostenne la vista della rovina della
patria?
Come Cesare, quando tra i congiurati contro la sua vita riconobbe
Bruto, si avviluppò col manto la testa e ad altro non
pensò che a morire dignitosamente, Dante, avendo ravvisato
tra i ribelli della Repubblica il suo fratello Giovambattista,
pievano di Santo Appiano, non potè proferire altre parole se
non queste:
«Anche tu, Giambattista!...»
E con le mani si coperse la faccia; - ogni vigore rimase in lui
affatto spento, - non vide nè senti più nulla, -
stette come uomo morto. - E poichè Bernardo da Verazzano si
accorse che i tristi, imbaldanziti del silenzio di lui, erano per
rinnovargli qualche mal tratto, lo trasse via con dolce violenza da
quel luogo; ed ei lasciò condursi immemore, a guisa di
fanciullo, chiuso in tale una angoscia che non gli concedeva
nè un pensiero nè una lacrima nè un atto di
furore disperato.
Giunto presso al ponte Santa Trinita, incontra messere Bernardo da
Castiglione, il quale, tutto smanioso, volgendo i passi alla volta
di lui, da lontano gli grida:
«Sálvati, Dante, la patria è perduta.»
«Mente chi lo dice!» urla Dante, e gli occhi dilata
orribilmente, il volto pel subito moto gli diventa pavonazzo, e
dalle ferite torna a sgorgargli vivido il sangue.
«Ahi! mentissi davvero! - fosse quanto vidi ed udii un mal
sogno!... Ma ascolta, figliuol mio: dei gonfaloni chiamati la
metà appena si adunò su la piazza; dei mercenari,
tranne i Guasconi, nessuno. Il gonfaloniere gridava senza posarsi:
Arme, arme, a me il corsaletto e il cavallo... - All'improvviso
allibbisce e tace, e seco gli altri, che una nuova giunge disperante
in palazzo: Malatesta avere fatto impeto alla porta di San Pietro
Gattolino, dispersa la guardia, cacciato l'Altoviti che vi stava a
capitano, rotte le imposte, intromesso il nemico; le artiglierie, a
lui affidate in difesa della città, averle volte ai nostri
danni e minacciare ridurre i nobili palazzi, l'egregie basiliche in
un mucchio di cenere: stanziare insieme con lui Baccio Valori e don
Ferrante Gonzaga. In tanta confusione di eventi, in così
grande imminenza di pericolo non avere potuto la Signoria o saputo
abbracciare partito altro migliore che quello di rendere a Malatesta
il bastone e al Bartolino il commessariato; atto primo della
ricuperata autorità di ambedue questi tristi essere stato
disfare la Signoria, convocare gli Ottanta ed eleggere quattro
cittadini, Bardo Altoviti, Iacopo Morelli, Lorenzo Strozzi e
Pierfrancesco Portinari, per fermare la capitolazione...»
«E non vi basta? - E vi par poco, Bernardo?» interruppe
Dante, e poi con maligna intenzione soggiunse: «Ora in
rimerito delle mille pugnalate abbiatevi questa una. Voi, che
andavate tanto superbo della vostra stirpe, - voi che affermavate da
memoria di uomini incontaminato il candido manto dei vostri cani,
Bernardo, andato a casa, ardete le immagini dei padri, ardete gli
stemmi, me, voi, tutti i Castiglioni e i nostri palagi sopra essi,
imperciocchè la nostra schiatta siasi avvilita per sempre; -
colà, - su la piazza di Santo Spirito, Giovambattista dei
Castiglioni patteggia co' traditori ai danni della patria....»
Il vecchio vacillò, come se forte lo percotessero sul capo,
si appoggiò alla parete; dopo lungo tempo con labbra tremanti
riprese: «È prete.» - E di lui non disse altro;
stette di nuovo taciturno, quindi incominciò;
«Dante, tu sai se io abbia avuto viscere di padre per te; - tu
sai se anche potendo io vorrei consigliarti una viltà: - la
fortuna prevale: - sálvati, - consérvati a tempi meno
tristi..., aspetta che il popolo torni a svegliarsi.»
«No, l'uomo stanco s'addormenta e la mattina si sveglia
più gagliardo di prima, ma i popoli dormono un sonno di morte
eterna; - io rinnego la speranza, come renunzio alla vita.»
«Oh! non dirlo», favella il vecchio, «non
dirlo», e la mano gli pone sollecita sopra la bocca,
«non dirlo, figliuol mio; queste sono bestemmie che accendono
l'ira di Dio: ciò che il popolo veracemente vuole, quello
anche può; - tu sei giovane assai, ma pur devi sapere che tre
volte in novantaquattro anni fu cacciata di Fiorenza la casa dei
Medici, e due di queste, si può dire, ai tuoi tempi, nel
quattrocento novantaquattro ed ora nel ventisette...: perchè
non sarebbero cacciati la quarta e per sempre?»
«E quando?»
«Quando i loro peccati diventeranno maggiori dei nostri; e
sarà in breve, perchè agevole è agli oppressori
dei popoli passare il segno dell'ira di Dio.»
«Andiamo dunque.»
«Io rimango....»
«Avrebbe il vecchio più sangue del giovane?»
«No: appunto perchè ne ho meno, rimango; impaccio ti
sarei nella fuga, carico nell'esilio, e i miei anni sono tanti che
dipartirmi dalla patria a me null'altro frutterebbe tranne sepoltura
straniera.»
«Che cosa direbbero i posteri di me, se, il paese natale
abbandonando, io non portassi meco i miei parenti e i penati?»
«Il nostro Dio dovunque vive...»
«E voi?»
«Io vivrò, spero: vergogneranno forse insanguinare i
miei capelli canuti; e per le altre persecuzioni, - io le sfido, -
dacchè alla età mia ben possono arrecarmi gravi mali,
non lunghi.»
«Ahimè! ahimè! Io vedo gittare nei nostri avelli
prima la vostra testa, poi il busto...»
«Allora ti lascerò il legato di David, - la
vendetta.»
«Tristo il figliuolo che altro non sa che vendicare la morte
paterna! Il mondo mi maledirebbe infame.»
«Il mondo ti dirà grande; dirà che ogni affetto
spogliasti per consacrarti tutto alla patria; - dirà che, per
vivere intera una vita di odio e di persecuzioni contro ai tiranni,
all'amore di patria aggiungesti la rabbia della vendetta;
dirà che in tanta fiacchezza di animi non dubitasti lasciarti
dietro a pericolare un caro capo, onde gli estremi aneliti del viver
suo impiegasse a favore della patria. Voi piante orgogliose
abbatterà la tirannide, noi lascerà mezzo morte e
caduche; - in voi troppo alto freme lo sdegno onde sappiate
dissimulare; - voi avete il dorso d'acciaio e non potete curvarvi,
ma noi c'infingeremo vili e lusinghieri, gli assopiremo con dolci
parole, gli ricingeremo di una rete invisibile, - con l'arte noi
appianeremo la via al vostro ferro...»
In questo mentre sopraggiunsero Giovambattista Gondi, Cardinale
Rucellai, Giovacchino Guasconi, Antonio Berardi, Lionardo Bartolini
e Braccio Guicciardini e Marco Strozzi e il Busini ed altri
più assai, dilettissimi amici del Castiglione, i quali tutti
ormai disperati della salute della patria cercavano di mettersi in
salvo; ed insieme gli si posero attorno e lo scongiurarono ad essere
loro capo e compagno; senza di lui non sarebbero partiti; se egli
rimaneva, ed essi rimanevano, e sopra il suo capo sarebbe ricaduta
la morte di tutti; lo taccerebbero di codardia, se si lasciasse
andare alla disperazione; presto gli imperiali sgombrerebbero
dall'Italia, Clemente prossimo a morire, - allora chi difenderebbe i
Medici? Ma ed allora chi anche gli offenderebbe, se essi non
vivessero più? Andasse, si affrettasse; il signore Stefano
avrebbe loro fatto spalla a fuggire; - ogni indugio mortale.
Aggirato, confuso, andò il Castiglione o piuttosto
lasciò condursi, chiuso nel suo dolore, con le braccia
incrociate sul petto, a viso chino, e pervenuto alla porta San
Nicolò, levò gli occhi, la guardò una ed altra
volta sospirando; - quindi chiamatosi dappresso Bernardo gli
domandava:
«Bernardo, pel sangue di Cristo, ditemi il vero: dov'è
Michelangiolo?»
«In salvo.»
«E il Carduccio?»
«Non si è più visto, e lo crediamo
salvato...»
[Footnote 1:]
«Gran mercè. Ora sul limitare della porta io scuoto dal
mio calzare una terra maledetta, - la terra della mia patria,
perchè sta per produrre il frutto della tirannide.»
Ma quel pietoso vecchio di Bernardo curvandosi a stento ne raccolse
un pugno e tornò a cospargergliene i sandali dicendo:
«No, figliuolo mio, ella è terra di sventura. Negli
amari passi dell'esilio due sole cose ti rimarranno della patria -
la sua memoria nel cuore, - la sua polvere sul calzare, - e allora
ti sarà cara anche questa, e penserai parte di lei ricoprire
i tuoi padri, - i tuoi parenti - e forse anche me che ti amai tanto;
- serbala, Dante mio; noi adoriamo reliquie meno sante di
lei.»
Varcarono le porte, - si dilungarono alquanto; all'improvviso Dante
volge la faccia alla patria che abbandonava, e vede Bernardo sopra l
porta che gli manda un estremo saluto -; poi si chiusero le imposte,
e non vide più nulla. Allora lo vinse un fiero proponimento;
ratto trasse fuori il pugnale e puntandoselo ai petto
esclamò:
«Nessuno potrà impedirmi di morire a mio senno.»
Se non che gli amici lo trattennero, con dolci parole lo
raumiliarono, gli trassero il pugnale, nè glielo resero prima
che con solenne giuramento si obbligasse a conservarsi la vita.
Come finì questo magnanimo? Sortirono, o no, i suoi disegni
il loro adempimento? Morì per morte di sangue, o mancò
col cuore roso dalla amarezza dell'esilio e dall'ansia della
speranza delusa? La febbre del desiderio lo inaridiva, o piuttosto
prima di spengersi sorrise pure una volta nel rivedere la patria?
Non lo dirò. I casi e la morte di lui ben possono dare nobile
argomento a nuovo poema; - lascio la messe intatta a cui voglia
mettervi dentro la mano poderosa. Però chiunque non si sente
l'anima grande davvero si vergogni di stendervela; - gli ultimi
palpiti della libertà di un popolo sono santi quanto l'arca
di Dio; Rammenti Oza. Il dramma storico e il poema del popolo,
simili all'arco di Ulisse, chiunque gli afferra e non gli curva, -
uccidono.
La città era ridotta ai suoi termini estremi. I quattro
ambasciatori testè rammentati condottisi al campo intendevano
sopra i preliminari stabiliti a conchiudere la capitolazione. Ora
cominciano a scoprirsi le insidie; Baccio Valori s'ingegna di
escludere il patto principale, salva sempre la libertà; non
mica che, quantunque stipulata, pensasse l'avrebbe mantenuta papa
Clemente, ma perchè quando delle vergogne se ne può
fare a meno, non è male risparmiarsele; e Pierfrancesco
Portinari, lo vedendo stare così sul duro, non potè
tanto trattenersi che non gli dicesse:
«Si penserebbe, a sentirvi, che voi siate, messere Baccio,
nato in Fiandra o in Ispagna, non già che abbiate comune con
noi la patria in
Fiorenza. Dio faccia che non abbiate a pentirvi un giorno di avere
sotterrato con le vostre mani la Repubblica!»
E Baccio, comecchè inverecondo, chinò la faccia:
allora ad una voce gli altri ambasciatori esclamarono che quel patto
si aveva a mantenere, che altramente non potevano convenire e
avrebbero tolto piuttosto di andare a filo di spada. Baccio,
premuroso del dominio della città, non si ostinò
più oltre a quistionare di apparenze e lasciò correre
i patti, i quali furono rogati da ser Martino, di messere Francesco
Agrippa Cherico, e da ser Bernardo di messere Giovambattista
Gamberelli, alla presenza di sette testimoni, che furono il conte
Piermaria de' Rossi da San Secondo, il signore Alessandro Vitelli,
il signore Giovambattista Savello, Marzio Colonna, Giovanni Andrea
Castaldo e don Federigo di Uries maestro del campo imperiale. Don
Ferrante Gonzaga e don Giovacchino de Ric, signore di Balanzona,
stipularono per l'imperatore, Baccio Valori pel papa, e tutti tre si
obbligarono in proprio nome di farli dai principali loro ratificare
dentro il termine di due mesi.
I principali capitoli di questo accordo sono tre, che io copio
parola per parola, onde rimangano in perpetua memoria della infamia
di cui gli ruppe prima quasi che si fosse seccato l'inchiostro col
quale erano scritti.
«I. La forma del governo abbia da ordinarsi e stabilirsi dalla
Maestà Cesarea fra quattro mesi prossimi avvenire,
intendendosi sempre che sia conservata la libertà.
III. La città sia obbligata a pagare l'esercito fino alla
somma di ottantamila scudi, da quaranta a cinquanta contanti di
presente, e il restante in tante promesse così della
città come di fuori fra sei mesi, acciocchè sopra
dette promesse si possa trovare il contante e levare l'esercito.
IX. Che nostro signore, suoi parenti, amici e servitori si
scorderanno e perdoneranno e rimetteranno tutte le ingiurie in
qualunque modo, e useranno con loro come buoni cittadini e fratelli,
e Sua Santità mostrerà ogni affezione, pietà e
clemenza verso la sua patria e cittadini».
Vedrete come i principi mantengano fede; - ma poichè anche
modernamente lo vedemmo, e sempre invano, così questo
racconto io pongo non già a modo di esempio di cui possiamo
far senno, sibbene come fatto che narrando, le presenti storie, non
mi è concesso di pretermettere.
Conchiusi appena i capitoli, ecco arrivare con gran fretta messere
Giovanni di Luigi della Stufa, il quale, inteso degli ottantamila
scudi, prese a turbarsi e dare in escandescenza e strillare e
protestare non sarebbe mai per ratificarli il pontefice, chè
dugentomila, non che sufficienti fidenti al bisogno gli sarebbero
parsi pochi; e a queste aggiunse tante altre parole e così o
disoneste o precaci o inconvenienti alla occasione che Baccio
impazientito lo prese per le braccia e, trattolo da parte, lo
garrì acremente:
«Messere, voi mi parete mandato a posta per mettere in
iscompiglio tutta la bisogna; voi dovreste pure pensare che in
Fiorenza noi non ci siamo ancora; - se tutte le sostanze dure
fossero preziose, la vostra testa meriterebbe essere legata in oro e
mandata in presente al soldano di Babilonia. - Se altro non
imparaste nello studio a Pisa, fatevi tornare indietro il danaro
della laurea, perchè in coscienza non possono ritenerlo. -
Tacete, in vostra malora. - Lasciate che delle mura di Fiorenza me
ne aprano quanto una cruna di ago, io poi vi farò entrare un
cammello; - io bevo grosso come le balene.» E qui strettagli
famigliarmente la punta della orecchia sinistra, aggiungeva:
«O dove apprendeste, dottore, a impaurirvi tanto delle
promesse? Promettere da quando in qua significa mantenere? Le chiavi
della Chiesa aprono molto più arduo serrame che non è
questo.» Con tali intenzioni stipulavansi patti nel nome santo
di Dio. Dopo la conclusione dei capitoli terminò l'assedio, -
non già le stragi, come tra poco vedremo, - nel quale
rimasero uccisi da venticinquemila uomini per ambedue le parti, di
cui circa i due terzi appartennero ai nemici, senza però
contare quelli che nel contado per fame, per peste e per ferro
morirono, i quali sommarono a numero infinito. I danni patiti, non
dirò da ogni terra o castello, ma quasi da ogni casa
più volte saccheggiata, non sono tali che possano
significarsi con parole: allora, come ai nostri giorni, lo straniero
non fece grazia neppure ai chiodi. La natura, oltremodo sotto il
nostro cielo feconda, in poche stagioni ristorò i danni dei
campi; nelle fabbriche e' durarono assai più lungo tempo, ed
in alcune durano tuttavia.
Passati otto giorni dalla capitolazione, cioè ai venti di
agosto, il commessario apostolico, Baccio Valori, svolgendo la
trama, comunicato prima il disegno al Malatesta, manda i Côrsi
in piazza coll'arme, fa prendere i canti, quindi ordina sonassero la
Tonaia a parlamento. Accorsero al suono forse trecento, la
più parte faziosi, il rimanente plebe corrotta col danaro. La
Signoria, sforzata dai comandi, atterrita dalla presenza delle armi,
scese in ringhiera, e messere Salvestro Aldobrandini domandò
tre volte agli adunati:
«Piacevi che si creino dodici uomini i quali abbiano tanta
balía soli quanta ne ha il popolo di Fiorenza tutto
insieme?»
«Sì, sì, risposero; Palle, - Medici, - viva i
Medici!»
Baccio, montato a cavallo, con accompagnatura degli aderenti dei
Medici e di quanti speravano nel nuovo governo, andò alla
Nunziata a ringraziare Dio! - Di strane cose, invero, ode sovente
ringraziarsi Dio; brutta e consueta ipocrisia, la quale è da
credersi che assai più l'offenda della manifesta
empietà.
Qual fosse Firenze, perduta la libertà, con buona efficacia
di concetti non meno che con vaghezza di lingua, racconta Benedetto
Varchi al libro duodecimo delle sue Storie. Io rimanderei volentieri
il lettore al suo volume, se questo storico, e per essere di
soverchio prolisso e per lo stile che adopera, spesso intricato ed
oscuro, non riuscisse a cui lo legga sazievole; difetti però
che non devono in tutto ascriversi allo scrittore, ma piuttosto alla
morte che lo colse prima per lui si emendassero e si disponessero
acconciamente le Storie sue, dalle quali gliene sarebbe derivata non
piccola fama. La pagina però che accenno va scevra di simili
falli, ed io non so come si potrebbe, non che superare, arrivare.
«Ella era (il Varchi scrive) la città piena di tanta
mestizia, di tale spavento e di siffatta confusione che a gran pena,
non che scrivere, immaginare si potrebbe. I vincitori, fatti
superbi, guardavano a traverso e svillaneggiavano i vinti. I vinti,
per lo contrario, venuti dimessi, si rammaricavano tacitamente di
Malatesta e, dubitando di quello che avvenne, non ardivano di alzare
gli occhi, non che di contrastare ai vincitori; i giovani,
avvedutisi tardi dell'error loro, non ci conoscendo riparo, stavano
di malissima voglia; i vecchi, veggendosi in dubbio la vita e
l'avere, e invano delle loro discordie e pazzie pentendosi, stavano
di peggiore; i nobili si sdegnavano tra sè e si rodevano
dentro di avere ad essere scherniti e vilipesi dalla infima plebe;
la plebe, in estrema necessità di tutte le cose, non voleva
non isfogarsi almeno con parole contro la nobiltà; i ricchi
pensavano continuamente qual via potessero tenere per non perdere
affatto la roba; i poveri dì e notte in che modo fare
dovessero a non morire in tutto di fame; i cittadini erano
grandemente disperati, perchè avevano speso e perduto assai;
i contadini molto più, perchè non era rimaso loro cosa
nessuna; i religiosi si vergognavano avere ingannato i secolari: i
secolari si dolevano di avere creduto ai religiosi. Gli uomini erano
diventati fuori di misura sospettosi e guardinghi, le donne
oltremisura incredule e sfiduciate. Ciascuno finalmente col viso
basso e con gli occhi spaventati pareva che fosse uscito fuori di
sè stesso, e tutti universalmente pallidi e sgomentati
temevano ognora di tutti i mali, e ciò non senza grandissime
e gravissime cagioni.»
La mala belva caccia fuori gli ugnoli, la travaglia cupidissima la
sete del sangue e dell'oro; cominciava dall'oro: ostava il patto, -
ma guai al popolo che non ha tutela migliore di una carta scritta!
Nè al principe dei farisei, come l'Alighieri chiama il papa,
voglia mancava od ingegno di giudaizzare intorno alla lettera. La
capitolazione dichiara non s'impongano nuove gravezze oltre gli
ottantamila scudi, nessuno impedisca che i cittadini spontanei
offrano somme maggiori e più proporzionate alla mole dei
presenti bisogni. Fu pertanto ordinato ai Dodici di Balía
decretassero di proprio moto un accolto, ed i Dodici, mercè
la persuasione del capestro, consentirono liberamente, come i
senatori romani ai decreti di Tiberio: - dopo il primo successe un
secondo accatto, - e di lì in breve un terzo. Guai ai vinti!
Tutti questi trovati, siccome giovavano a riempire l'erario, poco o
nulla avvantaggiavano le cupidigie degli aderenti dei Medici. Baccio
Valori, argutissimo in siffatta specie di negozi, fece spargere ad
arte il rumore che si avevano a mandare sessantaquattro ostaggi nel
campo per l'osservanza dei patti stabiliti. I nomi dei più
doviziosi si rammentavano. Questi, presaghi del futuro, si
affaticavano a prevenire che li colpisse la disgrazia, si
raccomandavano, promettevano di grossi beveraggi, amici vi
adoperavano e parenti. Baccio, non mica ipocritamente nè col
mezzo di terze persone, ma egli medesimo con aperta impudenza,
imponeva il riscatto, riscoteva la pecunia, dava cedole
d'immunità, rimandava la gente assicurata. I più
zelanti alla repubblica erano primi a sottoporsi a questo infame
mercato, confidando con la devozione nuova fare dimenticare le
vecchie ingiurie, quasi, per non dir troppo, non fosse nato e
cresciuto tra loro Nicolò Machiavello, quasi tra loro non
avesse egli meditato e scritto intorno la natura, i costumi e lo
ingegno del principe.
Zanobi Bartolini, ormai sgannato, trepidava per sè; e
più del danno paventando assai lo scherno, se un giorno a lui
avvenisse quello che accadde all'antico Busiride, prevenne il caso
di doversi riscattare la vita da quel reggimento medesimo che aveva
con le proprie mani fabbricato. Si condusse con questo scopo a
complire Baccio Valori, e dopo le dimostrazioni di amicizia, che tra
loro intervennero grandissime, Bartolini si offerse pronto ad
accomodarlo di quattromila fiorini d'oro, offerta con tanto gran
cuore accettata quanto con piccolo fatta. Bartolini onestò il
riscatto col titolo d'imprestito, l'altro pensò a ritirare il
danaro e non renderlo mai; nè forse ciò sarebbe del
tutto bastato al Bartolino, come in appresso sarà manifesto.
La pecunia spremuta dai cittadini sommava a inestimabile
quantità: ora forte incresceva di spenderla al papa;
l'esercito o piuttosto quattro eserciti, cioè i Tedeschi, gli
Spagnuoli e gl'Italiani che militavano per lui e la gente condotta
agli stipendi della repubblica minacciavano divorarsela;
deliberò serbarsene per sè quella parte che potesse
maggiore, e affinchè chi legge conosca di che tiri sieno
capaci i vicari di Gesù Cristo, non mi sarà grave
raccontarne il come. Papa Clemente, chiamato a sè quel Pirro
Stipicciano che di nemico gli si era fatto esecutore dei più
riposti pensieri, epperò de' più scellerati,
statuì la maniera, la quale fa questa. Alcuni soldati del
signor Pirro dal medesimo aizzati uccisero due Spagnuoli, allegando
che quelli delle bande loro avevano messo in pezzi due Italiani e
poi gettati dentro ad un pozzo. Per il qual fatto essendosi levato
il rumore grande, gli Spagnuoli si armarono per vendicare i
compagni; se non che, frapponendosi i capitani in quel giorno, si
acquetarono, nè ebbero altro seguito le cose. Il giorno
appresso gl'Italiani, avuta prima la fede dei Tedeschi che non si
sarebbero mossi, ingaggiarono una terribile battaglia con gli
Spagnuoli, gridando: Italia! Italia! - Prevalse la virtù dei
nostri, rimasero rotti gli Spagnuoli, e tuttavia incalzando gli
avrebbero del tutto oppressi, se quel malefico Pirro, di concerto
con don Ferrante, non avesse con inganno persuaso Tanusio, capitano
dei Tedeschi, gl'Italiani del campo procedere d'accordo co'
Fiorentini; rotti una volta gli Spagnuoli, sarebbero corsi addosso
ai Tedeschi - avere giurato liberare Italia dai barbari. Il Tedesco,
porgendo fede alla menzogna, provvido di sè e de' suoi,
assalse gli Italiani quando meno se lo aspettavano. Gli Spagnuoli,
che stanziavano a San Donato in Polverosa, guazzarono il fiume e si
unirono con loro. Gli Spagnuoli dispersi, si accorgendo essere
così efficacemente sostenuti, fecero testa e tornarono alla
zuffa. Allora agl'Italiani non valse l'ardire. Percossi da ogni lato
con forze di troppo superiori alle loro, ebbero a dare volta non
senza avere prima rilevata una grande uccisione. Morirono da una
parte e dall'altra meglio di ottocento uomini, computati anche
quelli i quali per conseguenza delle ferite rimasero spenti; tra
essi capitani e gente di maggior conto non piccolo numero.
Così papa Clemente venne a risparmiare ottocento paghe! E
forse anche più, perchè gl'Italiani andarono dispersi
e, non che pensare alle paghe, si tennero avventurosi di salvare la
vita. Strana infelicità del nostro paese, o piuttosto
insuperabile perfidia di papa Clemente, che qualunque consiglio gli
suggeriva il demonio riusciva ad un tempo stesso funesto al genere
umano ed esiziale alla Italia. Dovendo conseguire con la strage il
rispàrmio del denaro, papa Clemente, invece di procurarla ai
danni dei Tedeschi o degli Spagnuoli, la volle effettuata sopra
coloro che la stessa sua patria avea nudrito, che il linguaggio
medesimo di lui favellavano. Ma per altra parte è giusto che
quale più pecca maggior pena paghi; e forse fu disegno della
provvidenza che tale riscotessero premio cotesti snaturati Italiani.
Quasi si fosse instituita tra loro gara di tradimenti, e come se il
cuore non consentisse al Malatesta di rimanere in questa parte a
veruno secondo, considerando ormai che se di per sè stesso
non si procurava la preda il papa gliel'avrebbe data tardi e poca,
ordinò ai suoi soldati, pressochè tutti Côrsi e
Perugini, a fingere di ammotinarsi: e così fecero;
percorrendo le vie della città tra lo spavento della
cittadinanza universale gridavano: Sacco! - sacco! - Trassero a
furia sopra la piazza di Santa Croce. Malatesta, simulando
turbamento per quel fatto, salito sopra il suo muletto, si
affrettò a quietare il tumulto; ma giunto appena, gli
ammotinati lo fecero prigioniero. Di tutta quella turpe commedia il
fine fu, che Malatesta disse ai cittadini che, se volevano salvarsi
dall'andare a fuoco e a sangue, bisognava pagare, e subito;
diecimila ducati in contanti..,
In questa maniera si adempiva ad uno dei patti della capitolazione
poc'anzi riferiti, cioè che la città non fosse tenuta
a sborsare oltre a scudi ottantamila, per le paghe dell'esercito.
Almeno era sincero lo Stufa!
Rimane il sangue. Pierodoardo Giachinotti, commessario di Pisa, dove
si era condotto con rarissima fede, ebbe ordine di consegnare la
città a Luigi Guicciardini; ossequente al comando, improvvido
della insidia, egli la consegnò al nuovo commessario, e
questi, con lusinghevoli parole assicurandolo, licenziata prima la
gente della repubblica, gli pose all'improvviso le mani addosso e,
gittatolo in prigione, lo martoriò con crudelissimi tormenti.
Già non adoperò costui la corda, l'eculeo e gli altri
strazi per fargli confessare un delitto qualunque,
imperciocchè egli troppo bene sapesse non essere colpa in
lui, ma perchè togliendolo subito di vita non gli sembrasse
troppo mite la morte: quando poi vide non avere parte del corpo dove
non fosse piaga, gli fece mozzare la testa. A papa Clemente bastava
che fosse spento; Luigi vi aggiunse di suo gli strazi, e ciò
per la ragione, che, essendo stato partigiano del vivere libero il
gonfaloniere della Repubblica, immaginò riacquistare fede
presso i Medici ostentando ferocia. I rinnegati di ogni tempo si
rassomigliano tutti. Clemente papa nel suo segreto esultava,
chè a lui non sarebbe sembrato aver vinto, se non giungeva ad
avvilire la umana natura e rompere quel vincolo di confidenza e di
amore senza del quale le compagnie, le famiglie e le cittadinanze si
scompongono. I suoi nemici distruggeva nei rami e nella radice.
Frate Benedetto da Foiano, udendo che cercavano di lui per
farlo morire, non gli occorrendo partito altro migliore, si
fidò ad un soldato perugino il quale promise di mettere in
salvo lui e le sue robe, ma egli, che della natura del suo capitano
partecipava pur troppo, tolte per sè le robe consegnò
il miserando frate al Malatesta, e il Malatesta alla trista derrata
del tradimento aggiungendo, come bene avverte uno storico, una
pessima giunta, dopo averlo martoriato prima per conto suo, con le
mani e coi piedi incatenati lo mandò a Roma. Papa Clemente
ordinò lo carcerassero in Sant'Angiolo, e nel consegnarlo a
Guido dei Medici, che v'era per castellano, fece avvertirlo ne
avesse cura secondo i suoi meriti; badasse a questo, che la sua
lingua gli aveva di più aspre trafitte inacerbito l'animo che
non le picche degli altri suoi nemici. Guido, di facile natura,
innamorato delle virtù del Foiano e pensando la sua molta
dottrina potesse avvantaggiare la Chiesa in quei tempi calamitosi,
molto più che gli aveva promesso, se Dio gli concedesse vita,
volere scrivere un'opera dove coi passi della Scrittura intendeva
confutare l'eresie luterane, ne prese buona cura e attese a
provvederlo di quanto è al vivere necessario. Così
procederono per non breve spazio di tempo le cose, finchè,
udendo che il papa veniva a visitare il castello, fidando placare il
suo sdegno, gli pose su la via il frate, il quale prosteso, col capo
chino al pavimento, le mani composte a misericordia, lo supplicava
pel sangue preziosissimo di Gesù Cristo a compartirgli il
perdono. I piedi del papa pestarono la barba del frate, il volume
delle sue vesti pontificali s'intricò alle membra di quello,
ma egli continuò il suo cammino senza badarlo, senza pur fare
sembiante di vederlo, senza movere parola di lui. Terminata la
visita del castello, e pervenuto sopra la soglia della porta, sul
punto di prendere commiato da Guido, accostandogli le labbra
all'orecchio, gli susurrò:
«Benedetto da Foiano è passato a vita migliore:
monsignor vescovo, di qui a cinque giorni voi gli direte o farete
celebrare l'ufficio dei morti.»
«Mai no, Santità, riprese Guido, che il Foiano vive, ed
io ve l'ho posto sul vostro cammino perchè lo vedeste e gli
usaste misericordia...»
«Tacete; - io vi dico ch'è morto, - e voi procurate di
celebrargli l'ufficio.»
E siccome il vescovo di Civita se ne stava a guisa di smemorato,
papa Clemente scotendogli il braccio con giovanile gagliardia,
replicò cupamente:
«Non intendi, stolto? - egli deve morire.»
Venne l'ora consueta in cui solevano apportare al Foiano il cibo e
la bevanda, ma egli attese invano gli alimenti; - pensò se ne
fossero dimenticati e si pose pazientemente ad aspettare. Intanto il
digiuno si prolungava, e lo stimolo della fame cominciava a
tormentarlo; - si affacciò alle ferrate guatando bramoso se
gli occorresse anima viva; - alla fine vide un soldato e lo
scongiurò andasse dal monsignor Guido ad avvisarlo che non
gli avevano portato il pane e che si sentiva fame; il soldato scosse
la testa e si allontanò silenzioso. - Dopo lungo tempo ne
comparve un altro, ed egli, «Fratello, in carità, si
pose a gridare, - porgimi un poco di acqua, - le mie viscere
ardono.» E il soldato: «Raccomandatevi a Dio; se io ve
la porgessi, perderei la testa.» - Allora si rimase stupidito;
poi dopo, tanta ira lo assalse per la disonesta morte a cui si
vedeva condannato che a capo basso corse contro la parete per
ispezzarvelo dentro, - e lo faceva; - ma il pensiero della eterna
salute lo trattenne. Adesso l'istinto potentissimo della propria
conservazione, l'acerbità del fine, l'occupano intero per
tentare mezzo alcuno di scampo; - abbranca con ambe le mani la
ferrata e la scuote cento e più volte, - e sempre invano; -
allora col medesimo impeto si volge alla porta squassandola,
scrollandola con quanto aveva di forza nei bracci, - e non consegue
intento migliore. - Le sbarre di ferro si macchiano di sangue, -
brani di pelle rimangono appesi agli arpioni della porta, - le mani
ha impiagate, piene di schegge, le unghie rovesciate, - e pure non
si arresta; - poi alla furia successe la quiete, e si pose
sottilmente a investigare se vi fosse modo di venirne a capo con la
industria. La pacatezza considerata inutile, tornò a
crucciarsi; quindi di nuovo alle tranquille indagini, finchè,
finita affatto la lena, gli si spense a un punto la speranza, e si
tenne spacciato; si trasse verso il letto e vi cadde sopra bocconi
gridando con voci di pianto: «Ahimè! questa non
è morte da cristiani, e me la dà il papa!...Nei tempi
andati un arcivescovo ci condannò il conte Ugolino..., ma io
non gli ho ucciso i nepoti... La pena eterna dell'arcivescovo non
ispaventa dunque papa Clemente? Oh! possa prima di morire il
pentimento ottenergli la pace del paradiso.» - Questo pensiero
di perdono volse lo spirito dell'Eterno in sollievo del derelitto;
ond'egli drizzando gli occhi in alto non vide più le volte
della prigione, sibbene la gloria degli angioli, il tripudio delle
creature celesti intorno al trono del Rimuneratore, mentre gli
apprestavano la palma dei martiri. Il frate si compose sul letto,
come il morto sopra la bara, e si rimase con intenti sguardi a
contemplare la visione di tanta beatitudine; - l'angiolo della
consolazione gli si pose a canto del letto e col ventilare dell'ale
bianche temperava l'ardore della fronte febbricitante; - assorte
tutte le sue facoltà nel divino cospetto, non sente i dolori
mediante i quali il corpo si avvicina alla estinzione; - non lo
travagliano strette convulse, i precordi non gli straziano le
trafitte della fame, - egli davvero a poco a poco manca, come
lampada a cui venga meno l'alimento.
L'anima, pregustando le celesti dolcezze, non si curava affrettarsi
ad abbandonare la sua terrestre dimora; imperciocchè dopo
cinque giorni andando per trasportarlo al camposanto non lo
trovarono, come credevano, cadavere, ma vivo e col volto pieno d'una
quiete stanca, - della soavità dei santi. - «Figli
miei, egli favellò con piccola voce ai sorvegnenti, - andate
in carità da monsignor Guido e ditegli da parte mia ch'io
sono, come vedete, in procinto dell'eterno viaggio, e che io perdono
a lui e agli altri il difetto del pane corporale, solo che non mi
privi del pane degli angioli, - del santissimo viatico...» -
Monsignor Guido, temendo il papa non si crucciasse, mandò in
fretta il suo cappellano a Clemente per sapere se dovesse
concedergli i sacramenti.
Il pontefice recitava il suo brevario quando giunse il cappellano;
udito che l'ebbe, rispose:
«Dunque non è anche morto colui? - Quanto tarda a
morire!»
«Pochi altri momenti gli rimangono di vita; sicchè se
la Santità Vostra volesse consolare cotesta anima, non
può fare troppo presto a rimandarmi... pochi momenti, io vi
ripeto, ha da vivere...»
«Quanti pochi?»
«Forse due ore.»
«Alla favella voi mi parete di Como.»
«Santità, sono Cremasco.»
«E come state a prebenda?»
«Santità, se non mi date commiato, io non giungo a
tempo pel Foiano...»
«Voi mi parete un dabben uomo; - s'io vi creassi prelato di
camera, vi piacerebb'egli?»
«Piacerebbemi, - ma adesso nulla più mi talenterebbe
che giungere a tempo per consolare il frate.»
«Andate dunque, proruppe Clemente, dacchè questo frate
vi preme cotanto; - non gli si amministri il viatico; - noi lo
assolviamo da ogni peccato in articulo mortis.»
Il cappellano, appena simulando l'orrore che sentiva, inchinata la
persona, si allontanava.
Il papa svolgendo le pagine del breviario mormora tra i denti:
«L'assoluzione plenaria anche dei casi riserbati a noi deve
bastargli, l'attrizione è sufficiente a salvarci; - s'ei non
si pente davvero, la colpa è sua; per me non lo impedisco
d'andare in paradiso, - anzi ci ho gusto; vada pur dove vuole,
purchè non si trattenga in questo mondo. - La Eucaristia non
importa poi assolutamente..., la particola... ella è poca
cosa... un pugillo di farina, - e non pertanto basterebbe a
mantenerlo in vita anche un'ora: che cos'è mai un'ora? Quando
il tempo si misura col terrore e con la sete della vendetta, un'ora
è la eternità..., ed io, mi sento vecchio... e ragion
vuole ch'io mi tolga affatto d'intorno le cure, e non potendo
levarmele, le abbrevii. Ricevi in pace, o Signore, l'anima di frate
Benedetto da Foiano...»
Frate Benedetto morì pertanto senza il pane eucaristico: non
mi fa cuore tornare col pensiero intorno al letto di lui. Intanto si
rammentino i cristiani che tre frati, Arnaldo da Brescia, Girolamo
Savonarola e Benedetto da Foiano furono, il primo, per comandamento
di papa Adriano IV, arso vivo; il secondo, papa Alessandro VI
ordinandolo, impiccato e abbruciato; il terzo, papa Clemente VII
imponendolo, fatto morir di fame. - O pontefici, cosa sarà di
voi quando Cristo vi domanderà ragione del sangue dei suoi
martiri?
Pareva alla nuova tirannide, ed era vero, che sarebbe sembrata al
mondo sempre bella ed egregia la impresa per la quale aveva
combattuto Michelangiolo Buonarroti; e poichè troppo bene
sapeva avrebbe gittato l'opera invano tentando guadagnare quello
austero intelletto, così deliberò mettergli in ogni
modo le mani addosso e spegnerlo. In ciò sopra gli altri si
moveva ardentissimo Francesco Guicciardini, lo storico, che fu a
bella posta mandato da papa Clemente, conoscendolo di aspra natura e
capace di fare più e meglio di quello non gli fosse
comandato. Arte vecchia di regno è questa, mandare gli Orchi
Ramiri a inferocire con le rapine e le scuri nella contrada ove
s'intende piantare la tirannide, - dissodare in somma col terrore la
terra destinata a raccogliere quel tristo germe. Ai tempi
però del Valentino, la tirannide ingenua, adoperato lo
strumento, lo infrangeva, ed Orco Ramiro compariva in piazza
squartato, - refrigerio al popolo e risparmio di mercede al
principe; all'epoca di cui favelliamo adoperavansi gli istrumenti e
poi si disprezzavano e lasciavano morire nella media; ai giorni
nostri si usano o si disprezzano, ma si butta loro qualche brano
della provincia desolata a divorare; così il lione abbandona
parte della sua preda alla iena. Credono alcuni che ciò muova
dall'ingentilita tirannide e da quella rilassatezza che ormai corre
in andazzo appellare civiltà; ma io sostengo che nasce
piuttosto dalla decadenza a cui tendono tutte le umane cose, e spero
ed auguro che abbiano a ritornare i giorni avventurosi pel principe,
l'età dell'oro della tirannide schietta! in cui egli poteva
torsi dagli occhi un servo che aveva ben meritato dell'inferno e di
lui, come usò il Valentino contro Orco Ramiro.
Michelangiolo, in buon tempo avvertito, si cansò ricovrandosi
nella casa di un suo fidato, nè poi parendogli cotesto asilo
sicuro, si nascose entro il campanile di San Nicolò. Ben gli
valse esser pronto, chè gli otto, il bargello e i famigli si
condussero nelle sue case e su pei camini e negli agiamenti perfino
esaminarono minutamente ogni luogo. Il bargello e i famigli che
adesso si assottigliavano l'ingegno per arrestare i partigiani della
repubblica erano quei dessi che or dianzi si sbracciavano a legare
gli amorevoli del principato. Alfonso re di Castiglia costumava dire
che se il Creatore lo avesse avuto per consigliere nella settimana
della creazione, gli avrebbe suggerito di far certe cose assai
meglio di quello che egli abbia creato; - io, che non sono re,
gliene avrei proposta sol una e gli avrei detto: Signore, un giorno
dovranno per colpa degli uomini o per effetto della tua maledizione
comparire nel mondo commissari di polizia, bargelli, sbirri,
procuratori generali, giudici criminali ed altri simili che mi
prende vergogna a rammentare; del peggior limo fabbrica una specie
di animali, tra il rospo lo scorpione e il serpente a sonagli, o
piuttosto un miscuglio di tutti questi rettili, e fino d'ora
destinati ad esercitare cotesti uffici nel mondo; distruggi quando
vuoi la umana stirpe, ma non la degradare poi tanto; e fallo ancora
per onor tuo, dacchè l'uomo sosterrà lui essere creato
ad immagine tua; e il pensiero che un commissario di polizia, uno
sbirro, un accusatore e di tal risma animali possano vantarsi simili
a te non ti fa drizzare le chiome immortali sul divino capo? - Il
bargello non lo trovò e si morse le dita.
Intanto Clemente, sia per superbia di principe, sia per mantenere
alla casa dei Medici l'antica fama di proteggitrice munificentissima
delle arti, o perchè sentisse che la morte di Michelangiolo
gli avrebbe concitato contro la indignazione dell'universo; sia
finalmente (come altra volta Nicolò Machiavello insegnandolo
lo avvertiva) - nessuno scellerato trovarsi così pienamente
perfido che in sè non abbia parte alcuna di meno tristo,
Clemente insomma spedì a Roma un cavallaro a posta a Firenze
con ampio salvocondotto per Michelangiolo ed ordine espresso di non
torcergli pure un capello. Michelangiolo, assecurato, uscì
dal suo nascondiglio e salì al poggio di San Miniato per
contemplare pure una volta la sua diletta Firenze; la fissò
lunga pezza, e valse quella visione a stampargli sul volto i segni
di dieci anni di vita consumata: scese chiuso nell'ira e nel dolore,
e giunto a mezza costa percorse correndo e tempestando l'altra
mezza, spesso borbottando tra i denti: Io la vendicherò; - e
guardandosi le mani aggiungeva: Voi sole mi basterete allo intento.
Da quel momento non si lasciò più vedere, - si chiuse
nella sua officina coi marmi, co' ferri e coi furori suoi; disse
volere scolpire la tomba a due Medici, Lorenzo duca di Urbino e
Giuliano duca di Nemours; cominciò il suo lavoro senz'altro
modello che la idea che ne aveva concepita nella mente e con
l'impeto per cui, secondo narra il Vasari, pareva che in breve ora
dovesse sbrizzare masse enormi di marmo. Scolpì su quei
sepolcri i crepuscoli, quasi per chiarire che i giorni nostri
passano come ombra, e non pertanto quelli del tiranno, comunque
brevi, si posano monumentali e solenni sopra una eternità
d'infamia; scolpì Lorenzo profondamente pensieroso presso il
sepolcro perchè i pensieri del tiranno vicino alla tomba sono
rimorsi. Così illustrava questi avelli Giovanni Battista
Niccolini; e quando egli non avesse scritto altro in onore della
patria, meriterebbe che il suo nome durasse immortale quanto quei
marmi; e poichè egli sortiva un'anima dai cieli capace di
sentire Michelangiolo, gli fu dato ancora ascoltare la morte che da
quell'arche aperte vi volgeva al tiranno pieno ancora di vita e gli
gridava: «Scendi ove comincia pei potenti la giustizia degli
uomini e quella di Dio.»
Benedetto Varchi, storico di volgare intelletto, scrive che
Michelangiolo, più per bella paura che per voglia che egli
avesse di lavorare, si pose a scolpire questi monumenti. La musa
negava al Varchi mente arguta e cuor gentile, onde potè
imprendere la storia d'una repubblica pei comandi del principe;
quindi non gli era dato intendere Michelangiolo. Bene all'opposto lo
intese Niccolini nostro, - per la qual cosa egli aggiunse:
«ma, fra gli esilii e le morti dei suoi, vendicare tentava
coll'ingegno quella patria che non poteva più difendere colle
armi, e fare in quel marmo la sua vendetta immortale.»
Il qual concetto di Michelangiolo si ricava non mica da induzioni
immaginose, sibbene pianamente dagli alti versi ch'ei scrisse in
risposta a quelli di Alfonso Strozzi, che, nulla indovinando del
pensiero di Michelangiolo e solo attendendo a lodarne l'ingegno,
dettò la seguente quartina:
La Notte che tu vedi in sì dolci atti
Dormire fu da un angiolo scolpita
In questo sasso, e perchè dorme ha vita:
Destala, se nol credi, e parleratti.
E quel magnanimo, abborrendo la lode, cruccioso che altri non
sapesse indagare la riposta sua idea, sprezzato il pericolo,
generosamente proruppe, e i suoi marmi dimostrò in questo
modo:
Mi è grato il sonno e più l'esser di sasso
Infin che il danno e la vergogna dura;
Non udir, non veder mi è gran ventura:
Però non mi destar, deh! parla basso.
Alessandro dei Medici, tentando avvilirlo, allorchè
divisò costruire in Firenze la fortezza di San Giovanni, la
quale fosse come di freno in bocca ai cittadini vaghi di cose nuove,
ordinò al Buonarroti con lui cavalcasse per iscegliere il
luogo acconcio. Il Buonarroti rispose che ciò poteva molto
ben fare da sè solo, e non volle andare. Biasimano molti
questa azione di Michelangiolo, come quella che, senza provvedere a
nessun benefizio della patria, a sè apportava danno: -
biasimatori codardi, imperciocchè troppo bene l'uomo giovi
alla patria quando le lascia un retaggio di esempi magnanimi che
inciteranno i figliuoli, o che in ogni evento diletta la renderanno
e onorata finchè la virtù abbia altare nel cuore degli
uomini. - Venutagli meno la speranza di vedere la libertà
restaurata in patria con ordinari argomenti, si ridusse a Roma e
quivi attese a por fine al più magnifico tempio che abbiano
le creature innalzato al Creatore, - e ciò forse egli fece
perchè, Dio avendo tanto splendida dimora sopra la terra, lo
prendesse qualche volta vaghezza di volgere gli occhi su di noi, e
vedesse a quali termini si trovasse l'opera delle sue mani ridotta,
e ne sentisse pietà.
Cosimo I, desideroso di fregiare la tirannide, lo richiamò da
Roma, gli profferse onori e ricchezze, adoperò preghiere e di
ogni ragione lusinghe; - nulla poterono sopra di lui siffatte
istanze nè la pressa amichevole che ogni giorno gli moveva
maggiore dintorno Giorgio Vasari. Stette incontaminato e fermo nel
proponimento di non piegare mai il dorso alla tirannide.
Ritornò il suo spirito al bacio di Dio così puro come
già se n'era dipartito. Cosimo I allora s'impadronì
del suo cadavere facendolo dentro una balla di mercanzie rapire da
Roma, e quanto più seppe lo deturpò con onori
principeschi; però, comunque s'ingegnasse, non giunse a
profanare quella gloria solenne, imperciocchè lo spirito di
lui ormai fosse fatto cittadino del cielo, e la sua fama avesse
già aperto ale poderose da attingere, coll'avvicendarsi delle
generazioni, la fine dei secoli.
Raffaello Girolami, non pure fatto securo della vita, ma tenuto bene
edificato, accolto simulatamente in grazia e perfino promosso
all'ufficio dei Dodici, mentre va accomodando l'animo ai tempi,
all'improvviso è preso e confinato nella rôcca di
Volterra, - poco dopo trasferito nella cittadella di Pisa. - Un
giorno, aprendo la carcere, lo trovano steso morto per terra; - le
membra tuttavia attratte da orribili convulsioni, la faccia colore
di piombo, qua e là chiazzata di macchie brune, i labbri
laceri fanno fede del veleno a lui ministrato. Papa
Clemente fu quegli che ordinava lo attossicassero; nocquero a
Raffaello le cure del suo fratello prelato in corte di Roma e le
istanze di don Ferrante, il quale gli aveva dato fede di renderlo
sano e salvo ai suoi. - Il veleno d'ora in poi vedremo essere mezzo
del tutto mediceo per ispegnere i nemici e bene spesso anche gli
amici della nuova tirannide: adesso lo adoperava Clemente per
liberarsi dalle molestie fraterne e amichevoli.
«Dormite voi?» - tentando un giacente sopra un lettuccio
nelle carceri del Palagio domandava sommesso un uomo che vi si era
introdotto al buio, con lievi passi, senza pur si udisse il minimo
cigolio della porta volgentesi sopra gli arpioni; e l'altro non
mutando costa con voce fievole risponde:
«Sì, - l'ultimo sonno sopra la terra.»
«A Dio non piaccia, - voi vivrete, messere Francesco.»
«Chi sei? Che voce è questa? Antonio!... Dolcissimo mio
cognato, anche una volta mi sarà concesso abbracciarvi!
Questa è grazia che supera la speranza!»
Antonio Alberti e Francesco Carducci si tennero assai tempo stretti
l'uno al seno dell'altro; e, ricuperata la favella, il Carduccio
prosegue:
«I figli miei, Antonio e la moglie?»
«Vivono. Ma un ferro stesso troncherà più
vite... voi non andrete solo alla patria dei giusti...»
«Ah! il mio cuore palpita per la patria, per loro, per te...
ed anche per me; - il cielo disperda l'augurio; - la coscienza
parteciperà loro virtù da sopportare... vivranno...
Io, vedi, Antonio, non desidero la vita ai miei più cari...,
eppure il cuore mi si spezza al pensiero che dovranno
morire...»
«Confortatevi, essi vivranno, e voi...?»
«Ieri fui coi miei compagni condannato a morte.»
Papa Clemente, preposta la vendetta al giuramento, aveva fatto
sostenere in un medesimo giorno Bernardo da Castiglione, Francesco
Carduccio, Iacopo Gherardi, Luigi Soderini e Giambattista Cei, e
perfino spedito da Roma la istruzione scritta di sua propria mano
nel modo da praticarsi per mandare alla morte questi notabili
cittadini. Non pertanto ai Guicciardini, Francesco e Luigi, al Nori
e agli altri Palleschi sembrava poco la morte, e ognuno andava
ingegnandosi di farla precedere da qualche suo tormentoso trovato o
da plebee villanie, che le anime altere offendono meglio degli
strazi. Furono tutti i mentovati messi al martoro; sospesi con la
infame corda, confessarono quanto vollero i giudici iniqui, - tocca
appena co' piedi la terra smentivano il detto, sè
protestavano innocenti: solo le parole strappate dal dolore facevano
fede, - delle altre non prendevano ricordo. Il Carduccio, tosto che
vide allestita la fune, dichiarò non esser mestieri cotesto
argomento per indurlo a confessare; imperciocchè non pure
confessava, ma si recava eziandio ad onore avere amministrato le
cose della Repubblica contro i Medici: - e non gli valse. Legato,
riprese risparmiassero cotesta immanità; sapere essere venuta
da Roma la sua condanna; stessero contenti alla sua morte; di
più non avere comandato nè desiderato lo stesso
Clemente: e nemmeno questo gli valse, - lo vollero ad ogni costo
mettere al tormento. Confermato tra i tormenti il supposto delitto,
lo interrogarono se avesse a dedurre discolpa.
«Discolpa per aver difeso la patria? egli rispose, - guardimi
Dio dal farlo! Così avessi potuto salvarla!»
Bernardo da Castiglione, richiesto anch'egli se avesse ad allegare
difesa, rispose, come nelle stragi napoletane Manthonè e
Speziale: «Se la capitolazione non basta, non saprei e
nè anche vorrei presentarvene altra.»
Stanchi, non sazi di oltraggiarli, li condannarono. Carduccio,
comecchè sentisse acerbo dolore per le sue ossa slogate, pure
fieramente parlò:
«Avreste dovuto incominciare donde avete terminato,
valentuomini; voi avete profferito un giudizio. - Giudici, non
sapete che sopra di voi vive un altro giudice? A lui mi appello e vi
cito tutti a comparire davanti al suo tribunale prima che passino
cinque anni. Rammentatevi del templario Molay.
«Ch'è questo?» domandò trasalendo Antonio
degli Alberti percosso da un sinistro fragore.
«Nulla: tentano con la sbarra di ferro le ferrate ai
carcerati, per accertarsi che non le abbiano segate per ricuperare
la libertà.»
«Affrettiamoci dunque: messere Francesco, alzatevi, lasciatemi
prendere il vostro posto; ora verranno per me... indossate i miei
panni e salvatevi.»
Il Carduccio si alzò e baciò in volto l'Alberti,
quindi prese a parlare queste solenni parole:
«Antonio, ascoltatemi. La vita è una grossa moneta che
non va sprecata nelle minime cose, ma generosamente spesa nelle
grandi. Nè a me la fortuna potrebbe presentare occasione da
impiegarla meglio che a rendere abborrita la nascente tirannide.
Molti hanno nemici la libertà e la virtù. Ora a quali
termini voi le vedreste ridotte, se primi gli amici loro le
disertassero? Che direbbe il mondo se, a me solo provvedendo,
lasciassi in carcere i compagni? Qual difesa darei se, per salvare
me già vecchio e infermo, io non abborrissi dal sacrificare
voi giovane e sano? Così, è vero, mi troncheranno la
testa, - ma, nell'altro modo, in qual parte io la sottrarei
all'infamia? E tra la sventura e la colpa nè io nè
voi, Antonio, possiamo rimanerci un momento dubbiosi. - Lasciate che
noi muoiamo; - egli è bene che il primo gradino del trono sia
bagnato di sangue, - più facilmente vi sdrucciolerà il
piede del tiranno. - Forse vi fa vergogna il patibolo? E credete voi
che se io ci vedessi l'onta della mia famiglia, già non mi
sarei fatto cadavere? - Nessuno è signore della morte
dell'uomo. No, Antonio, qualunque scala, - anche quella del
patibolo, è buona quando mena alla gloria. - La mia morte
è sfregio sul volto al tiranno. - Forse chi sa che non sia
questa una insidia? - Quale angoscia sarebbe la mia, quale il tuo
pentimento, se prima di trucidarmi giungessero ad avvilirmi?
Lasciami morire onorato. Socrate non volle fuggire, e fu divino tra
gli uomini...»
Il fragore delle ferrate percosse si fa più vicino, - la
porta della carcere si apre, ed una voce in suono di preghiera
favella:
«Uscite, messere,... affrettatevi..., o siamo tutti
morti...»
«Va' dunque, Antonio, di' a mogliema che prenda buona cura dei
figli e, se l'è dato, gli meni in terra meno sinistra al suo
sangue...»
«Venite, aggiunge la voce, - me perdete, e voi non
salvate...»
«Va'», soggiunse il Carduccio, e sorreggendosi al
braccio dell'Alberti lo accompagna; «va' e porta teco questo
mio estremo consiglio: provvedi a te e alla tua famiglia; - rimuovi
la mente dai pubblici negozj, dove sovente raccogli ingratitudine e
odio, - qualche volta la morte, - atroci cure sempre; educa i figli
nel timore delle leggi, accresci il censo domestico, vivi ignorato -
e muori tranquillo; - così non maledirai nè benedirai
i tuoi simili...»
«Per la croce di Dio!... affrettatevi...»
«Aspetta: che se invece ti freme l'anima dentro, - se nulla
aspetti di premio da' tuoi simili, - se un impeto sublime ti sforza
di compiacere all'alto proponimento di liberare la tua patria, -
allora, - e da me impara, - ricórdati che, sguainata la spada
contro il tiranno, vuolsi abbruciare il fodero; - tratta una volta,
deve nascondersi o nelle sue o nelle tue viscere: prima di venire ai
patti, vadano in rovina le case, in fiamme la città, a filo
di spada i cittadini. Coteste rovine sono feconde, - lì nasce
il grano di cui la libertà si fa pane; - la pace del tiranno
è il camposanto. - Ramméntati la morte di Bruto, - non
rammentare le sue estreme parole: - non è la virtù
vile nè schiava della fortuna, se, presso al supplizio, col
corpo intormentito da dolori acerbissimi, io posso la presente mia
condizione anteporre a quella dei miei oppressori.»
Il cognato, tratto violentemente, abbandona il braccio del
Carduccio, e la porta del carcere si richiuse davanti a questo.
Tentoni al buio, egli riguadagna il lettuccio, dove ponendosi a
giacere, esclamò:
«Oh come sono infelici i miei oppressori!»
E Dio consolatore mandò il riposo degli innocenti a quel
travagliato.
Due ore innanzi giorno, buona schiera di armati precedendo e
seguitando, da una parte il frate, dall'altra il carnefice, il
Castiglione, il Carduccio, il Gherardi, il Soderini e il Cei erano
condotti giù per la grande scala del Palagio nella corte a
ricevervi la morte. Il Cei scendendo pose il piede tra mezzo una
fenditura degli scalini e se lo storse in isconcia maniera.
«Ci mancava anche questa!» esclamò crucciato;
«io non so, messere Francesco, perchè, quando eravate
gonfaloniere, non vi deste pensiero di fare accomodare questa
scala.»
«Veramente, Giambattista, io non contava di averla a scendere
mai.»
«Vedete! Bisogna porre buona avvertenza a tutto; e' pare ne
sia stato architetto un cerusico.»
«Giambattista», riprese il Castiglione, «un romano
avrebbe tolto in sinistro augurio il vostro inciampo e se ne sarebbe
tornato indietro.»
«Ormai, Bernardo mio, non ne varrebbe il pregio. Messer
Iacopo, a che pensate voi? Su, animo.»
«Eh! io penso non essere questo il miglior quarto d'ora della
nostra vita...»
«Perchè no? Noi ci acquistiamo un tanto; - tolto che ci
abbiano il capo, per esempio, non ci dorranno più i
denti...»
«E poi andremo a vedere», interruppe il Soderino,
«come si risolva il gran forse.»
«Come, messere Luigi, dubitereste di Dio?» domanda
Giambattista.
«Io non credo e nè anche discredo; la fede non dipende
da noi, non più che avere il naso lungo o corto. - I frati mi
consigliavano a digiunare, ma siffatto argomento mi faceva venire
fame, non fede; - sicchè all'ultimo, conoscendo ch'io non
valeva a sciogliere il nodo, mi sono condotto nella vita come se Dio
fosse. - Se Dio esiste, - ho detto, - per certo egli ha viscere di
misericordia, e quante volte ho potuto ho soccorso i miei fratelli.
In somma se il Creatore esiste, non vorrà rigettarmi dal suo
seno, perchè il mio ingegno non seppe comprenderlo; - se
poi...»
«Tacete», favellò il Carduccio, «l'altro
supposto non possiamo concedervi or che tra l'ombre io scorgo il
nostro letto di morte.»
«Anzi, appunto per questo lasciatemi proseguire; - se poi egli
non è, io ho cercato mantenermi nella vita tale da accogliere
la morte tranquillo come un sonno confortatore.»
«La scala è terminata, badate alle gambe», grida
il Cei che camminava in capo alla comitiva.
«Ah!» sospirò profondamente il Gherardi.
«Gemete voi?» lo interrogarono gli altri affannosi;
«deh! non vi manchi l'animo al maggiore uopo!»
«Ahimè! Mi duole partirmi da questa terra senza pure
contemplare un'altra volta la luce divina...»
«Meglio così; - forse più forte ci stringerebbe
l'angoscia se vedessimo la cara patria rallegrata dai raggi
mattutini del sole...»
«Ahimè! ahimè! Carduccio mio, come lasciamo la
patria!»
«Largo le lasciamo un retaggio di virtù e di sventura;
noi pregheremo del continuo l'Eterno che le asciughi le lacrime e la
renda alla sua prima bellezza...»
«Chi sa quanti secoli si volgeranno invano?»
«Consólati, - noi stiamo per andare in parte dove lo
spazio non si misura col tempo...»
«Non penso a me, ma a' miei figliuoli...»
«Riconciliatevi con Dio», interruppe il frate,
«onorandi messeri; l'ora della vostra morte è
arrivata.»
«Senti, frate», parlò gravemente il Carduccio:
«noi non abbiamo mestieri riconciliarci con Dio, perchè
non lo abbiamo offeso mai; e quando pure, senza volerlo, lo avessimo
offeso, confidiamo non essere di bisogno il tuo ufficio ond'ei ci
ascolti; próstrati con noi e adoralo: chi sei tu che ti poni
tra il Creatore e la creatura? A che vesti di sacco, se la superbia
ti sta fitta nel cuore? Polvere, come noi, umiliati... e
prega.»
Pregarono; - nessuno ardiva sturbarli, - e quando si rilevarono, il
Carduccio parlò:
«Prima di partire salutiamo le nostre dimore. Frate, in
carità, porgi la tazza piena del vino dei condannati; -
amici, possa io abbracciarvi tra poco alla presenza di Dio. - Ecco
io propino, con l'ultimo sorso che beveranno le mie labbra mortali,
alla libertà della patria!»
«Dio salvi la libertà!» risposero gli altri e
s'impalmarono a vicenda.
Alcuni dei soldati, mossi da irresistibile impeto, gridarono
anch'essi: «Dio salvi la patria!»
E il carnefice stese la mano, ma subito la ritrasse mormorando:
«Io sono un abbietto... devo privarli del capo, ma non mi
è dato toccarne la destra.»
L'occhio del capitano sfolgorò alla vampa delle torcie a
vento e valse a impietrire di paura gl'incauti soldati.
Il Gherardi tremava; se gli accosta il Carduccio e gli favella:
«Iacopo mio, raccogli tutta la tua virtù... siamo soli,
ne circondano le tenebre, e nonpertanto tutto l'universo ci guarda.
- Va' tu primo, chè troppo ti recherebbe dolore la vista
della strage de' tuoi compagni... mi aspetti la tua anima,
chè moveremo compagni al paradiso... va'... va', Iacopo... In
questa vita tu lasci gloria immortale... lassù ti aspetta
eterna esultanza.»
Iacopo Gherardi, infiammato dall'ardente parola, si accosta animoso
al ceppo, - si prostra, - vi accomoda sopra la testa.
Il carnefice gli viene attorno dicendo:
«No, messere; così male acconsentirebbe la scure, e voi
soffrireste troppo.» - E con ambe le mani gli aggiusta il
collo sul tronco: pietà di carnefice!
«Dio!... Libertà!...»
Del capo di Iacopo, erano rimaste sul ceppo alcune scheggiature
dell'osso del collo e le cime della sua barba.
«Bravo Iacopo!» esclamarono ad una voce i compagni.
In breve ora fu consumata la strage.
Il papa, quando n'ebbe notizia, versò più di una
lacrima ed ordinò un solenne ufficio di requie per l'anima di
cotesti poveri defunti. - Che Dio faccia pace a quel buon papa!
E ormai insaniva la belva inebbriata di sangue: molte altre morti
funestarono la città. Lionardi Sacchetti avvelenato periva,
al Ciofi mozzarono il capo. Non poche condanne però
riuscirono invano, come quelle di Dante da Castiglione e di Lionardi
Bartolini, perchè si posero in salvo; notabilissimi cittadini
stettero imprigionati nella cittadella di Pisa, nella rôcca di
Volterra o nelle Stinche a Firenze; sommò a numero
inestimabile la quantità dei banditi. In ogni città,
in ogni castello d'Italia e qualche volta in terre straniere
lasciava Firenze miserevoli brani della sua bella cittadinanza; ne
confinarono su le Alpi, a Malta, nei borghi più remoti ed
inospitali della Sicilia; e quello che fa maggior compassione a
considerare si è questo, che molti furono o di così
poca mente o di cuore tanto codardo che con disagio e spesa infinita
mantennero i confini, pur confidando che la persecuzione avrebbe
tregua una volta; decorso il termine del primo confine, li
condannarono ad un altro più aspro; e morirono rovinati nelle
sostanze, scherniti dal mondo, senza nè anche il conforto che
nasce dal sentirsi incontaminati.
E perchè forse terranno alcune genti il mio racconto sospetto
e lo reputeranno fatto ad arte per vituperare chi primo
instituì la tirannide nella Toscana, valgami la testimonianza
di Benedetto Varchi, il quale, come spesso sono venuto rammentando,
scriveva storie per commessione di Cosimo I. Costui, e
comecchè nè grande cuore nè peregrino ingegno
si fosse, costui tuttavolta, più che al tiranno compiacendo
al vero, con eterna sua lode, sposta prima la infame proscrizione,
dettava la seguente pagina: «Io non so quello che a coloro i
quali queste cose leggeranno sia per dovere avvenire; so bene che a
me hanno elleno tanto arrecato in iscrivendole non pure di
rincrescimento e compassione, ma d'indignazione e sbigottimento, che
io, se le leggi della storia, le quali io, giusta mia possa, non
intendo di trapassare ritenuto non mi avessino, arei in così
larga occasione lungamente deplorato non meno la miseria e
infelicità della natura umana che la perfidia degli uomini;
conciossiacosachè queste cose fussono fatte tutte quante
direttamente contro la forma della capitulazione, nella quale si
perdonava liberamente a tutti coloro che in qualunche modo e per
qualunche cagione avessono o detto o fatto o contra la casa dei
Medici, o contra alcuni de' parenti e seguaci loro: - e con tutto
questo si ritrovano al presente di coloro i quali hanno o l'animo
così efferato o la lingua tanto adulatrice o la mano cotanto
ingorda che, lontanissimi così da ogni umanità come da
ogni verità, scrissono nelle storie loro che papa Clemente,
troppo temperato in tutte le sue azioni, parendogli che fosse uficio
di reputazione e pietà sua mantenere il nome il quale s'aveva
preso, usando moderata vendetta, fu contento della pena di
pochissimi. Del che tante più si dovrà o maravigliare
o stomacare chiunche saperrà che la volontà di
Clemente era che per più tempo ad ogni mano d'Otto si
seguitasse di confinarne degli altri: ma le grida che si sentivano
per tutta Italia e fuori, non senza grandissimo carico di don
Ferrante, giunsero all'orecchie di Cesare, e questo cagionò
che in confinando non si procedette più oltre.»
Questo era il perdono di papa Clemente!
In qual modo si adempisse il patto sostanziale, salva sempre la
libertà, adesso e più brevemente esporremo.
Un Giovannantonio Mussetola venne a Firenze con certa carta che fu
detta bolla d'oro, fatta da Carlo V in Augusta a' 21 ottobre l'anno
1530, e visitata prima la santissima Nunziata dei Servi, secondo la
vecchia arte di regno con la quale si tenta chiamare la
Divinità a parte delle tristizie dei potenti, andò in
palazzo seguito da moltitudine di popolo gridante: Palle, - Medici,
- Carlo, ed altre simili voci. La Signoria gli andò incontra
fino alla scala; egli entrato nella sala dei Dugento salì
sopra un rialto tenendo a mano dritta il duca Alessandro, a manca il
gonfaloniere con quattro signori per parte; drizzatosi in piedi, con
reverenza lesse la bolla.
Diceva in sostanza il foglio: essere Firenze decaduta dai suoi
privilegi per la temeraria guerra impresa contro lo imperatore;
averla però di nuovo tolta in grazia per la clemenza propria
e ai preghi di papa Clemente; ordinare che la famiglia dei Medici e
conseguentemente Alessandro, duca di Civita di Penna, suo genero, si
ricevessero e accettassero con quella stessa maggioranza la quale vi
avevano innanzi che cacciati ne fossero, e, riformandosi lo stato
come avanti il 1527, il detto duca fosse capo di tal reggimento in
tutti gli uffici e magistrati, finchè durava la vita sua; e
lui morto, i suoi legittimi figliuoli ed eredi e successori maschi
discendenti del corpo suo; e mancata la linea legittima di
Alessandro, succedesse in quella maggioranza il più propinquo
parente della medesima casa.
Troppo grave offesa era questa alla libertà della Repubblica,
e nonpertanto poca alla cupa libidine di Clemente. Nè
già era costui ardito, come il Valentino, da porre la fortuna
sopra un dado e trarne fuora Cesare, o nulla, bensì tale,
conservato prima il mal tolto, da condursi per via di avvolgimenti a
nuove rapine, - e nemmeno apertamente iniquo, come il conte
Francesco Sforza, sibbene, il costume de' suoi maggiori seguitando,
tale da mettere con arte altri innanzi, corrompere, tentare il
terreno, fingere insomma d'indursi con mala voglia e richiesto a
fare quello che, se meno era codardo, avrebbe a forza voluto e
acquistato. - Cominciò ad usare suoi ingegni con Baccio
Valori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori e Marco Strozzi;
se non che questi, non meno tristi di lui, e più di lui
astuti, quantunque indovinata la sua mente, fingevano di non
intenderlo, parendo a loro esorbitanza degna di eterna infamia
privare affatto la patria di ogni simulacro di libertà.
Considerato allora Clemente che quel battere delle buche non faceva
saltare fuori la lepre, deliberò vincere la ipocrisia e
mostrare aperta la sua intenzione; cosa, la quale sebbene apparisca
dovere essere agevole a cui abbia ormai conculcato la virtù,
vediamo all'opposto riuscire ardua a praticarsi, certamente
perchè quanto più l'uomo abbandona la sostanza, tanto
maggiore sente il bisogno di attenersi alle apparenze. - Chiamava
pertanto a Roma Filippo Strozzi, disegnando adoperarlo per mandare a
fine il suo proponimento.
Era Filippo uomo di arguto intelletto, di modi cortigianeschi e
magnifici, vago di conviti, di caccie e di ogni maniera signorili
sollazzi; nelle cose di amore intemperantissimo senza considerare
nè sesso nè età; d'indole varia, versatile; di
principe o di repubblica poco curante, moltissimo di sè;
nè tutto al vizio, nè alla virtù tutto; sebbene
sul principio della sua vita più di quello studioso che di
questa, all'ultimo poi più di questa che di quello, onde con
la morte generosa seppe redimere molte, se non tutte le colpe
commesse durante la vita. Adesso compariva ed era strumento
efficacissimo di servitù. I giovani nobili rimasti a Firenze,
avendo preso a schifo la parsimonia del vivere repubblicano, pur
troppo si mostravano vogliosi a seguitare gli esempi di Filippo, e
così con la rovina delle virtù civili si apparecchiava
la morte di ogni magnanimo spirito, o vogliamo dire la vita del buon
ordine del principato. Ciò che apporta non poca gravezza nel
considerare la ragione delle vicissitudini umane si è questo,
che la corruzione, madre sempre di tirannide, suole precederla,
accompagnarla ed anche seguitarla; mentre la virtù, senza di
cui ogni argomento a migliorare le nostre sorti è novella, di
rado accompagna e non precorre mai la repubblica: onde Vittorio
Alfieri scrisse la virtù parergli piuttosto figlia che madre
di liberi stati. La quale opinione mi è piaciuto accennare
non già perchè nessuno deponga la speranza, ma
all'opposto per la ragione che se talora gli eventi non vanno a
seconda dei desiderii, i troppo vogliosi témperino i
smoderati e gli accomodino ai tempi, ai casi e all'indole di questa
nostra stirpe, più assai infelice di quello che in generale
noi non supponiamo.
Giunto Filippo in Roma, Benedetto Buondelmonti in nome del papa si
fece ad incontrarlo e gli disse essere giunto il tempo di ricuperare
la grazia del pontefice smarrita e cancellare i sospetti passati,
assentendo o tutte le cose che gli verrebbero proposte, ossivero di
contradirle senza profitto della città e con suo pericolo
estremo. Filippo prontamente si offerse qual più lo
volessero, consigliere o cooperatore. Cominciarono i segreti
colloqui col papa, dove, oltre lo Strozzi e il Buondelmonti, egli
raccolse Iacopo Salviati, Roberto Pucci, Bartolomeo Lanfredini ed
altri pochi della casa Medici svisceratissimi. Il papa espose che,
essendo in là con gli anni, voleva scendere nel sepolcro
sicuro che la signoria di Firenze si mantenesse nella sua famiglia,
la quale a lui pareva che bene la meritasse per gli amplissimi
beneficii, così in pace come in guerra, procurati a suo
vantaggio. E Filippo tosto chiosava il testo dimostrando con
mirabile eloquenza tempestoso il vivere nelle repubbliche; doversi
ai grandi corpi politici dare un capo, una forza unica, una
rappresentanza alla quale i cittadini, non potendo pervenire,
cessino d'invidiare, il governo assoluto in somma; consiglio non
meno pernicioso che stolto parergli quello di lasciare a governo di
Firenze, siccome era al presente, due teste, il duca e la Signoria;
ciò partorire pessimi effetti e mostruosi non meno nei corpi
morali che nei fisici; chiamarci alla unità la natura, con
splendidi esempi manifestarcela, Dio ottimo massimo esistere solo.
Alle magnifiche parole di Filippo, Iacopo Strozzi di mano in mano
veniva rispondendo: «Filippo, tu non la di' come la intendi; e
se la intendi come la di', tu la intendi male.»
Lo Strozzi ciò nonostante procedeva imperturbato, e, per
farsi più benigno Clemente, conoscendo l'animo riposto di
lui, adesso parla della necessità di fabbricare una fortezza,
arnese efficacissimo a reprimere le subite ire del popolo, a porgere
asilo nei frangenti pericolosi, a tutelare, il governo;
avvegnachè la sperienza abbia insegnato che i moti popolari
presto si calmino, e se tu ti mantieni in parte da mostrarti quando
la plebe comincia a stancarsi, di leggieri la riduci all'antica
soggezione. E Iacopo Salviati, che pure era parziale e parente dei
Medici, oltre il citare molti bellissimi esempi di tiranni antichi,
ai quali nè le fortezze nè i giachi nè il
mutare di letto nè i molossi posti a guardia dei penetrali
valsero punto, ricordò l'esempio domestico e moderno dei
cittadini fiorentini, che, quantunque armati alla morte di Lione
papa, mantennero in podestà i Medici sprovveduti di armi e di
provvisioni a difendere o ad offendere capaci; e disse ancora
l'annona abbondante, la giustizia dirittamente amministrata, il buon
governo in somma tenevano il popolo contento, non già le
fortezze, inventate a tiranneggiare i popoli ed atte piuttosto ad
offendere altri che a difender sè, piuttosto a porgere
sospetti che a dare sicurezza. E poichè Filippo insisteva
smanioso a ributtare cotesti argomenti e si sbracciava a persuadere
il contrario, Iacopo gli ebbe a dire queste parole, conservateci
dalla storia: «Voglia Dio che tu, Filippo, nel mettere innanzi
il disegno della fortezza, non iscavi la fossa nella quale
sotterrare te stesso.»
Detto umano non parve mai più profetico di questo. Caduto
Filippo dal sommo della prosperità, tratto a gran vituperio
sopra un muletto, tra lo schiamazzo della folla inseguente, per la
città che seppe ridurre schiava e non valse poi a rivendicare
in libertà, o di propria mano, come si disse, o per l'altrui,
come meglio si sospettò, trovava morte sanguinosa nelle male
innalzate mura.
Data forma al disegno, Antonio Guiducci arcivescovo di Capua, giunse
primo a Firenze con la risoluzione della mente del papa, poco dopo
Roberto Pucci per disporre le materie, - in ultimo Filippo Strozzi
per mandare a fine il concertato tra loro.
Che importa raccontare il come? Dopo dugento cinquant'anni fu casso
il gonfalonierato, - il principe assoluto istituito. - Primo duca fu
Alessandro dei Medici, bastardo del pontefice Clemente e della
schiava africana moglie del vetturale da Colle.
Seguì una serie di turpitudini e di delitti, per cui la casa
degli Atridi, al paragone di quella dei Medici, rimase disgradata; -
s'inebbriano dell'ira di Dio e del sangue del popolo; - muta indole
l'uomo, - muta natura la terra. - O Firenze, tu apparirai d'ora
innanzi quasi una lira a cui il poeta nel suo furore abbia strappato
le corde.
E la pena fu condegna alla colpa. La famiglia dei Medici
mancò priva di fama, di vigore, di discendenza, - di tutto; -
lasciò eredità, - non d'ira, perchè il
disprezzo da gran tempo aveva vinto lo sdegno, - ma di schifo e di
abiezione. E gli ultimi Medici, quando videro imminente il sepolcro
a divorare la intera stirpe di loro, e conobbero i popoli
sopravvivere ai tiranni, - e, pentiti delle colpe dei padri,
intesero restituire il mal tolto, - la libertà a Firenze, -
altri principi tiravano giù dalle loro spalle le mal rapite
vesti per ammantarsene prima che fossero morti; - il ladro prima
dell'ammenda fu derubato. - Ma le proteste di Cosimo III al
congresso di Londra e il testamento di Gian Gastone fanno fede della
rapina del principe e del diritto imprescrittibile del popolo. Chi
più ne vuole, e più ne cerchi; io ho le mie ragioni
onde non raccontare per ora storia moderna.
Però Dio, anche nelle estreme miserie, non ci
abbandonò intero; e nel modo stesso che il sole in un giorno
d'inverno, quando sta per toccare i lembi estremi dell'Oceano,
all'improvviso da qualche apertura manda lontano sopra la terra
pallido e non pertanto bene augurato il suo raggio, - pegno di
giorno men tristo; - così sul punto della morte della
Repubblica e allorchè Carlo V, gonfio il cuore di superbia,
teneva i popoli in conto di polvere da calpestarsi dai suoi piedi
imperiali, e i principi per iscudieri, - nel mentre ch'ei non reputa
capaci a resistergli, non che altri, gli stessi elementi, e appena
concede avere un emulo in cielo, - ecco un vecchio venerabile di
canizie gli attraversa il cammino, e gli dice:
«Re della terra, tu hai intorno al capo un diadema di potenza
e di diamanti; - me, vedi, cinge la corona della morte, - i capelli
bianchi. - Re della terra, anche tua signora è la morte: e
noi occuperemo lo stesso spazio in grembo alla natura. Perchè
hai misfatto alla tua parola? Perchè ci hai tradito? Credi
che la voce del popolo non giunga al cielo? Io vo' che tu sappi
curvarsi Dio per ascoltare le querele della sua creatura. Mantienci
la libertà che ci promettesti; - restituisci la patria che ci
assicurasti o almeno rimettici nella nostra terra; - rendici le armi
che a patto soltanto e sotto la tua fede deponemmo; - e poi
conquistaci da cavaliere e da cristiano, non da traditore e da
codardo.»
E Carlo tremante, volendo e non potendo sdegnarsi, che il rimorso lo
pungeva come aspide, rispondeva:
«Tornate in patria; - riavrete le vostre sostanze,
purchè vi lasciate governare dal duca Alessandro.»
«Noi vogliamo patria e libertà; tu ce l'hai rapite, e
noi da te le ripetiamo, - e te le richiederemo al tribunale di
Dio.»
Il caso avveniva a Napoli; - era l'egregio vecchio Iacopo Nardi. -
Io non mi dilungo su questa avventura: adesso cominciano tempi
squallidi e che pure meritano essere esposti per insegnamento degli
uomini; ed io nel sospetto che le anime gentili si sconfortino
nell'udirli raccontare, considerando con occhio attonito come manchi
talora all'uomo una caverna per ripararsi dalla procella della
tirannide, che pure fu concessa alla belva per ischermirsi dalle
tempeste della natura, gli lascio. Cominci da lei chi detterà
la storia del principato; - la protesta del Nardi in cima al libro
parrà quasi l'impronta di Caino sopra la fronte del tiranno.
Su via, sorga qualche animoso in Italia che sappia scrivere un libro
col cuore col quale combatterebbe una battaglia. Nella terra di
Dante non nascerà più alcuno che valga ad
apparecchiare un nuovo Inferno d'infamia a coloro che ridussero in
servitù la nostra bella Firenze?
Il poema a cui non pose mano e cielo e terra, e che tuttavolta mi
è sacro, qui ha fine. Però a me e ad altri sembrerebbe
incompiuto, dove non raccontassi gli ultimi fati dei più
notabili tra i personaggi del mio dramma. Adempirò a questo
ufficio con anima pari a quello che, la Dio grazia, ho saputo
conservare fino a questo momento.
Zanobi Bartolini, col cuore roso dal rimorso e dall'ambizione
delusa, si ridusse ed abitare la sua villa di Rovezzano; qui,
sospettando per sè, - il giudizio dei posteri presentendo
severo, menò squallida vita. Il più delle volte
tristo, solo e secondo il suo costume seduto, sonnecchiando, sopra
un seggiolone ch'ei poneva obliquo al pavimento. A vederlo in
cotesta attitudine nissuno avrebbe pensato qual battaglia
combattessero nel suo spirito le feroci passioni; ma la settimana
stampava su la faccia di lui le impronte dell'anno; - le sue labbra
sovente balbutivano inintelligibili parole, - invocava la morte. Un
giorno alcuni suoi famigliari, credendo ch'ei dormisse, si posero a
lamentare su la Repubblica ed a rammaricarsi della cecità
loro, che, lasciandosi svolgere dai sofismi del Bartolini, avevano
le proprie forze adoperato a istituire la tirannide in casa. Chi ci
torrà da dosso questo Alessandro che noi stessi abbiamo
voluto? Che cosa più ormai gli rimane a tentare? Non è
egli forse diventato assoluto tiranno?
«Assoluto tiranno! Chi assoluto? Voi v'ingannate; non
capitolava Fiorenza a patto della conservata libertà?»
«E voi, uomo riputato prudente, pensate essere alla
malevoglienza ed alla forza bastevole riparo una carta scritta?
Stamani fu soppressa la Signoria, casso il gonfaloniere, Alessandro
de' Medici proclamato tiranno.»
Proruppe il Bartolino in un gemito profondo, sollevò le mani
e lasciò abbandonarsi la testa sopra le spalle; - la seggiola
squilibrata tracolla, e Zanobi rovinando percuote di forza la nuca
sul terreno; accorsero a sollevarlo; due sole goccie di sangue gli
erano sgorgate dalle narici lungo la barba, - nel rimanente non
pareva offeso. Pure gli giunse ogni rimedio tardo, - il colpo era
stato sufficiente a cacciarlo fuori del mondo. Così Eli
moriva quando gli fu riportato, con la sconfitta di Giuda, morti i
suoi figliuoli, l'Arca di Dio cattiva.
Fu, come dicemmo, Zanobi amorevole della Repubblica, ma, disdegnoso,
superbo, troppo in sè fidente, immaginò un concetto,
presumendo poterlo sostenere da sè solo senz'altri aiuti, con
tristi strumenti sperò fare opera buona; intendeva ingannare
a fin di bene, e fu posto di mezzo a fine di male. Stando col
popolo, non si sarebbe chiusi con le sue medesime mani gli occhi, e
di certo gli veniva fatto salvarlo; onde, per istringere molte
sentenze in una, Zanobi non con la intenzione, ma con l'effetto
rovinò la patria. La giustizia degli uomini, a cui male si
addice ricercare le intenzioni, sta al fatto e decide; - quindi di
lui rimase fama come di traditore; - e a parere mio ebbero ragione i
posteri. Non so se questo antico esempio ed altri che potrei
allegarne vicini avranno forza d'incutere salutevole timore in
coloro che, troppo presumendo di sè, pongonsi a capo dei
civili negozi: - forse non l'avranno, ma in ogni caso non si
potrà da loro dedurre la ignoranza. - Scopo di questo mio
discorso è tenerli avvertiti.
E Pieruccio? - Egli si trovò in quasi tutte le battaglie
della patria e quasi in tutte era rimasto ferito. Ora non gli
avanzava più veste che lo coprisse, - non ferro per
combattere, - non sangue, non parte di corpo che fosse sana. - Stava
per mancargli la patria; - perchè si tratterrebbe più
oltre quaggiù?
Ma anche lui prima di morire punse il desiderio di contemplare
dall'alto un'altra volta Firenze, - e s'invogliò di una fossa
posta sul colle più prossima al cielo per ricevervi le prime
rugiade, il primo e l'ultimo saluto della luce, per sentire
più da vicino la tromba dell'arcangiolo quando
chiamerà i morti, imperciocchè i giusti non rifuggano
dal giudizio di Dio. - Colà verso Trespiano, ove di presente
giace il cimitero della mia città, alcuni marraiuoli condotti
a prezzo, pochi giorni dopo la resa, scavavano fosse e vi stipavano
i cadaveri dei morti sparsi alla campagna, per amore di tutelare dai
maligni effluvii l'aere del contado. Qui venne alternando lento i
passi Pieruccio; - a vederlo non pareva cosa umana. - Egli non
piangeva, perchè aveva consumato le lacrime; - non sospirava,
perchè l'angoscia lo aveva fatto di pietra: - giunse sul
margine di una fossa; il marraiuolo zappando non lo badava; -
intento al suo lavoro empiva l'aere di un canto sinistro, di cui il
concetto era questo:
La ballata dell'uomo e del mattone.
«L'uomo è troppo superbo, e il mattone troppo umile; -
non pertanto entrambi escono dal mio seno, ed entrambi vi tornano; -
entrambi io terra amo come figli gemelli, - l'uomo dico e il
mattone.»
«Quando la gran madre natura comandò che dal mio seno
spingessi fuori l'uomo, mi disse: fammi un uomo; - e quando volle il
mattone ancora, disse: fammi un mattone; - nacquero per la
virtù delle medesime parole: la creta dell'uno stava accanto
alla creta dell'altro, caso fu che il mattone non nascesse uomo, e
l'uomo non nascesse mattone, proprio fu il caso; ora dunque
perchè l'uomo insuperbisce sopra il mattone?»
«Se l'uomo calpesta il mattone, non vi lascia l'orma - e il
mattone non soffre: all'opposto l'uomo si curva gemendo sotto il
piede di chi lo calpesta e non sa aiutarsi. - Lunga è la vita
del mattone, sicchè può sostenere, fatte cadaveri, due
o quattro generazioni di coloro che lo hanno calpestato. - La vita
dell'uomo passa come ombra, e spesso egli muore nella rabbia di
contemplare avventuroso il suo oppressore.»
«L'uomo si consuma nell'angoscia: - quando intendeste voi che
il mattone gridasse: ahimè? - Se il mattone diventa rosso,
ciò è perchè il fuoco lo cuoce: - l'uomo poi si
fa vermiglio a cagione della vergogna o del sangue.»
«E l'uomo è vinto dal fuoco, dall'acqua, - da tutti gli
elementi, - ma il mattone gli sfida per tempi immemorabili.
Però l'uomo è più duro del mattone in una parte
sola, - nel mezzo del cuore.»
«E se poni il mattone accanto al mattone, vi stanno quieti,
nè il fratello dice al fratello: Fatti in là. - Poni
l'uomo insieme coll'uomo, e si divoreranno tra loro - ma l'uomo
ragiona.»
«Il mattone rotto si tramuta in sassi; co' sassi qualche volta
si uccidono i re, qualche volta anche i papi. - I sassi
somministrano armi al popolo quando un giorno lo prende fastidio di
servire da gregge. I tiranni temono più i sassi dei pugnali.
- Ora a che è buono l'uomo quando ha chiusi gli occhi alla
luce?»
«Io sono la terra, - la terra antica, - ma figlia sommessa
alla mia genitrice natura; pure il mattone è il figlio della
mia tenerezza: io non mi sono mai vergognata di lui. - Se mia madre
ascoltasse il consiglio della sua figlia, io le direi: rompiamo la
stampa dell'uomo; creiamo invece un miliardo di tigri; anch'essi mi
sono figliuoli, e se non foss'altro, hanno la pelle più
vaga.»
Pieruccio lasciò che il marraiuolo ponesse fine alla canzone,
poi incominciò:
«Per cui scavi cotesta fossa?»
Al suono arrogante della voce il marraiuolo tenne ch'ei si fosse un
barone, per lo che, prima di raddrizzare il dorso, si recava
ossequioso la mano alla berretta; quando poi vide la strana
sembianza, riprese come stizzito il lavoro, rispondendo:
«Anche per te, se vuoi...»
«Sia; per me. Affréttati dunque, perchè il
vivere mi pesa, - aspetterò che tu l'abbia fornita, - poi
morirò; - lavora di forza. Voi altri uomini, per poco che vi
si mostri un fiorino d'oro, diventate terribili; - eccoti fiorini;
io me li portava addosso perchè hanno impresso il giglio e il
Battista, e perchè il re di Tunisi per essi conobbe il grande
stato di Fiorenza, ond'ebbe a riprendere l'astio dei Pisani che ne
levavano i pezzi; ma tu, villano, nulla sai di ciò e nulla ti
preme saperne; - io te li dono perchè tu presto mi apparecchi
il letto del mio riposo; - mi sento rifinito e mi tarda a
dormire.»
Disfece Pieruccio un lembo dei suoi stracci, e sulla terra diffuse
copia di fiorini. A quella vista il marraiuolo balzò fuori
dalla fossa; cupidi figgeva gli sguardi sopra l'oro sparso, - poi li
volse d'intorno, - ed alfine brandì la zappa.
Pieruccio, indovinando il mal talento di lui, lo avvinghiò
all'improvviso pel collo e ridendo gli disse:
«Perchè vuoi uccidermi? io ti affermo con sacramento
che, appena terminata la fossa, io voglio morire; indugia anche un
poco; - tanto la fossa dovresti pure fornirla per nascondervi dentro
il tuo delitto; - va' dunque e ti affretta; la mia vita sta nelle
tue mani, ma tu non devi tormela.»
E con impeto nervoso ricacciò il marraiuolo dentro alla
fossa, il quale cominciando a sentirsi agitare dai vani terrori che
a quei tempi ingombravano le menti del popolo, tremando forte e
senza più levare la faccia da terra, si adopera a terminare
lo scavo.
Pieruccio si pone a sedere su di una pietra; i gomiti appoggia sopra
i ginocchi, le guance abbandona ai pugni e contempla Firenze.
«Addio, di repente proruppe, - addio, Fiorenza la bella, -
addio, patria; - io non conobbi mia madre, - mio padre mi
procreò nell'ora del delitto e si vergognò del suo
sangue. - Tu, Fiorenza mia, non ti vergognasti di me - tu mi hai
amato come figliuolo, - io come madre; - mie tutte le tue glorie, -
non concittadini, ma fratelli miei gl'incliti personaggi che
uscirono dal tuo fianco. - Quando ambasciatori, baroni, uomini
insomma di alto affare venivano a farti omaggio, io, aggrappato al
capitello di una qualche colonna e spenzolato dal cornicione di un
palazzo, godeva dello splendore del corteggio e delle cerimonie
usate alla Signoria, - e il mio cuore esultava come di onoranza resa
alla mia famiglia: - il mio stemma faceva giglio rosso, - il
gonfalone di Fiorenza era il mio pennoncello. O Fiorenza! ti versi
l'Appennino acque perenni, onde tu goda di eterna fragranza, e dal
tuo fiore emanino sempre effluvii di grandezza e di gloria...
Tuttavolta i fanciulli della mia città mi hanno percosso nel
capo, - tale altra m'insanguinarono il fianco, - ma, - vedete, -
qualche dolore ci fa meglio amar la cosa diletta. E poi qual dolore
non placava l'esultanza di vagare pei suoi campi in primavera, - e i
piedi, le mani, la faccia, rinfrescare di rugiada, - inebbriarsi nei
primi raggi del sole, con aperte narici bevere l'area che spira
vividissimo dai colli paterni? - la terra morbida per erba folta ti
sembra elastica sotto le piante: tu ti senti leggiero da sfidare al
volo la rondinella che venne da lontane regioni a rallegrare l'anno
che rinasce... - Oh come è lieta la vita! Marraiuolo, hai
terminata la fossa?»
«Più poco manca.»
«Aspetterò paziente. - Adesso, o Fiorenza, i tuoi lioni
hanno cessato di ruggire. - Alla repubblica arriva gradita la voce
del re degli animali, - al principe giunge increscioso qualunque
suono che non sia di cortegiano. - O patria mia! tu mi giaci
davanti, e sei anche bella, perchè la vergine il primo giorno
della sua morte, quando l'ornano di fiori, e la vampa dei ceri
accesi le mantiene su le guance un crepuscolo di vita, sembra che
dorma; - pure tu sei morta, - ben morta, - povera patria! - La
statua equestre di Giovanni Acuto, costà in Santa Maria, par
che muova le braccia in battaglia; il suo buon destriero solleva le
gambe per mutar il passo; - o gente che vi trovate sotto la mensa
che sostiene il simulacro dell'Acuto, non vi prenda timore, - quel
passo non sarà mutato, - coteste braccia non faranno
più moto nel mondo, - il prode capitano diventò una
cosa inanimata. - Fiorenza ormai non cambierà più
fianco, imperciocchè ella non dorma, ma giaccia morta; - tra
poco il segno della putredine contaminerà la sua faccia: -
chi lo nega? - forse l'arca di marmo pario scolpita di sottile
lavoro e le gemme, i monili e le vesti di velluto magnifico
salvarono il corpo della contessa Matilde dell'insulto del verme?
Chiunque muore si disfà. - O Fiorenza! se almeno ti avessero
gettato sopra le spalle un lembo di porpora e sul capo una corona di
spine, e nelle mani posto una canna per iscettro... come
Gesù, saresti argomento di compassione; - ma no, gli
scellerati non si tennero contenti a renderti infelice, essi ti
hanno voluta contennenda e giocosa. Ti hanno acconciato in capo una
corona di carta e ti posero al fianco una spada da giullare, - poi
ti hanno data in moglie al figlio di un prete e gli hanno imposto
per patto nuziale che ti avveleni; - egli ti viene addosso e ti
porta il veleno nel manto ducale; - costui è miserabile e
piccolo, - eppure non meno mortale uccide il suo veleno. - La
potenza di nuocere non si misura nei principi dalla grandezza dello
stato, - appartengono tutti alla medesima famiglia dei serpenti, -
l'aspide spegne al pari del dragone...»
«La fossa è pronta.»
«Sii benedetto, marraiuolo; - eccomi - il mio cuore si rompe;
- marraiuolo, prendi tutti i miei fiorini, - lasciamene solo uno -
uno solo sul cuore; certo io non sentirò più nulla tra
poco, ma l'impronta del giglio mi farà del bene: - in ogni
caso, quando risusciterò, il mio primo sguardo sarà
pel giglio, e la mia anima esulterà. - Marraiuolo, ponmi poca
terra sul corpo, perchè voglio esser pronto alla chiamata
dell'angiolo, - voglio precedere al giudizio di Dio i tiranni della
mia patria che avranno sepolcro costà nella valle - e
accusarli; - e se non apriranno a me povero peccatore le porte del
paradiso, scongiurerò la infinita misericordia onde mi
converta in demonio per tormentarli a senno mio nell'inferno. - E
voglio anche precedere il tristo armento di quanti voi altri mi
seppellite qui intorno, onde, quando giungeremo davanti al giudice
piangolosi e supplichevoli, io possa essere in tempo a gridargli:
Dio eterno, cacciali via, perchè hanno combattuto contro la
libertà della mia patria. - Oh! quanto è gran dolore
abbandonare la madre e la sposa, ogni cosa in somma più
caramente diletta, e abbandonarla infelice! - un bacio, - un altro
bacio, - un altro ancora.» - E qui si avvoltola per la terra e
la bacia e ribacia con delirio smanioso, poi ripiglia: - «Dio
creatore, perchè, se la terra doveva essere un luogo di
pellegrinaggio, l'hai piena di tanti affetti? O perchè non ci
hai fatto il cuore più duro? E se la terra era un luogo di
prova, ond'è che ci adunasti tutti gli affanni dell'inferno?
Perchè per un solo paradiso ci apparecchiasti due inferni? -
Veramente la nostra patria è fuori di questo mondo; - qui non
possiamo vivere innocenti nè illesi; - di là il
ristoro delle angosce, di là il riposo, di là la
riparazione dei torti, il premio e la gloria... Io chiudo le
palpebre e muoio. - Nondimeno..., Dio padre..., se prima della fine
dei secoli... Fiorenza mia ritorna bella e decorosa, se torna ai
suoi leoni il ruggito, se il gonfalone della Repubblica alle sue
torri... Dio padre, toccami gli occhi ed aprimeli, - un minuto, - un
attimo, - ch'io la riveda... ch'io intenda il grido: viva
Fiorenza!... e poi starò per patto un milione di secoli nel
purgatorio... Fiorenza..., cuoprimi...»
La bocca del Pieruccio appariva contaminata di spuma, - la sua
persona nel furente rotolarsi sul terreno sassoso era rotta in
più parti nè dalle aperte ferite usciva sangue, ma
poco siero sanguigno che andava rapprendendosi intorno alle margini:
povero Pieruccio! sembrava percosso da epilessia; - i suoi ultimi
moti erano disperati ed angosciosi come quelli del pesce trafitto
dai denti della fiócina; - l'estremo atto convulso lo
sorprese sull'orlo della fossa e vi traboccò dentro, tenendo
le mani compresse sul cuore con un fiorino stretto tra le dita. Il
marraiuolo stette alcun tempo co' capelli ritti, la persona composta
a terrore, non osando nè potendo movere passo: - poi vide i
fiorini sparsi e si curvò a raccoglierne uno... due... tre e
tutti, non senza volgere sospettoso lo sguardo alla fossa per mirare
se ne usciva il Pieruccio. Si quietò la paura, e l'avarizia
prese a dominare assoluta su quello spirito tristo: allora si
risovvenne del fiorino che il Pieruccio aveva tolto per tenersi sul
petto, - gli venne l'agonia di possederlo, - non gli bastarono i
tanti raccolti, - gli sarebbe parso di non averne pur uno, se non
giungeva ad attrappargli anche quello; - però affacciarsi
alla fossa non si attentava; - tra il sì e il no vacilla, -
mosso appena il passo, a sè lo ritrae frettoloso, -
finalmente imprime un'orma in avanti, la seconda seguita spedita, -
si affaccia alla fossa. Oh Dio! - Pieruccio ha gli occhi aperti come
persona viva, - come morto le pupille intente, - e la sua bocca
contratta non si sa bene se rida o se minacci. - Finchè il
marraiuolo vedrà quel volto, non gli riuscirà
toccarlo; - concepisce nuovo consiglio, - impugna la pala e gli
getta tre o quattro palate di terra sul capo; - così
assicurato, si spenzola dalla fossa e, tese le braccia, s'ingegna ad
aprire con forza le mani al Pieruccio e levargli il fiorino. - Sia
che avanzo alcuno di vita rimanesse in questo misero, sia, come
credo piuttosto, che ciò derivasse da moto spontaneo del
corpo, comunque cadavere, il capo di lui si alza con violenza di
sotto terra ed empie di fango gli occhi e la faccia del marraiuolo.
- La paura lo vinse; - stette lungo tempo semivivo e immemore di
sè, sporgente col capo, le braccia e fino al torace dentro la
fossa; - mal si distingueva il vivo dal morto. Quando
risensò, non potendo ricuperare l'uso delle gambe, carponi a
modo bestia allontanavasi: - la cupidigia e l'avarizia sue lo
avevano degradato anche sotto la condizione del bruto.
Finalmente Giovanni Bandini stampa un'orma sul terreno della patria
con la esultanza del nemico che preme il seno del vinto nemico. -
Ahi misero! - Adesso ha côlto il frutto della vendetta, - si
accorgerà più tardi di qual gusto egli sappia, -
più tardi l'agonia della offesa e il rimorso e la paura; -
più tardi il cuore impietrito il volto senza pudore, il
sangue tramutato in veleno: - ora il suo pensiero viene assorto
dall'ansia di tenere nelle sue mani Maria.
Povera donna! oh perchè egli non la lascia in pace?
Finchè l'anima di lui si mantenne innocente, fu il suo amore
tutto lieto, tutto bello, come il fiore tocco dall'alito fecondo di
primavera, e le sue immagini di vita serena, con la sua donna al
fianco sempre amata, sempre amante, e con una corona di figli,
decoro dei tardi anni; - quando poi gli s'incupì
l'intelletto, - allora l'arse una fiamma d'inferno, - la passione
gli stette nel seno quasi aspide nel nido, - desiderò Maria
con più intenso furore, ma non per renderla felice, sibbene
per tormentarla; - scopo principale della sua vita era stato sempre
Maria; una volta lo agitava l'amore, adesso l'odio, e questo
più forte ancora di quello, perchè aveva aggiunto al
proprio fuoco le sue fiamme. Hans Verner immaginò, come altra
volta avvertiva, due anime che sempre si sieno amate di santo amore
nel mondo comporre un angiolo nei cieli, due anime che per amore
degenerato in odio sieno costrette a cercarsi per tormentarsi; io
per me penso, debbano formare giù nell'inferno un demonio.
Giovanni procede a salti a guisa di belva che si slanci sopra la
preda, - giunge alla via di Parione, - tocca la soglia della casa
verso la quale s'indirizzavano i suoi passi, e non si accorge due
festoni di cipresso pendere dal limitare. Deserte sono le scale; -
dalla parte della cappella muove odore d'incenso e talvolta un
bisbiglio di voci supplichevoli. Quivi affrettandosi, penetra nella
cappella; adesso gli si presenta un molto singolare spettacolo.
Sopra un letto parato di seta cremesina a frange d'oro col capo
inclinato su candidissimo origliere giace una pargoletta nell'atto
in che dipinse Rafaello il fanciullino Gesù il quale pare che
nel sonno favelli le parole: ego dormio, sed cor meum vigilat. -
Ella non dormiva però; - come i fiori che la circondavano in
segno della sua purità erano stati recisi dallo stelo,
così ella era caduta dalla vita; - una reliquia di bellezza
le rimaneva sul volto, nel modo stesso che, sparito il sole
dall'orizzonte, vi si ferma alcun poco a rallegrarlo la luce del
crepuscolo. E intorno al letto composti in varie sembianze
apparivano alcuni gruppi di fanciulli pallidi e silenziosi,
sicchè tu gli avresti tolti per uno di quei cari bassirilievi
di Lucca della Robbia dove con impenetrabile magisterio
effigiò i cuori degli angioli.
Il Bandino soprastette alquanto maravigliato, poi si accostò
spedito, movendo all'intorno insolito strepito a cagione della
armatura di che andavano gravi le sue membra. Allora i fanciulli
levarono la faccia e, gittando urli spaventosi, fuggirono dalla
cappella, non altrimenti che si faccia uno stormo di colombi
all'improvviso turbati nei campi dove lì trattiene desio di
cibo e di bevanda. Il Bandino sempre più si avvicina, e
pargli che la pargola defunta tenga nella sua mano destra, - e certo
tiene, - una carta suggellata indiritta a messere Giovanni Bandino,
gentiluomo fiorentino. - Tristo messaggiero era quello e apportatore
sicuro di sinistre novelle; - esitava a prendere la carta, pure alla
fine la tolse, e apertala in furia lesse:
«Giovanni!
Non ho più nulla che mi trattenga sopra la terra. Mia madre
è morta, - mia figlia, come vedi, morta; - Ludovico Martelli,
a me, come fratello, carissimo, anch'egli morto; - tu poi...
avventurato te, se fossi morto! - Io rammenterò quei diletti
defunti con affanno e con amore, - te poi con vergogna. - Non
cercarmi; - io ormai sono fuori della tua potestà; - tu fra
te e me ponesti il delitto, - io posi Dio. - E quando pure in te
fosse potenza di violare il sacro asilo dove ho preso ricovero,
sappi che il campanile della chiesa è smisuratamente alto, ed
io, anzichè venire viva in forza tua, mi precipiterei da
quello per cadere cadavere informe ai tuoi piedi. - Addio! Io
scaverò con le mie ginocchia i gradini dell'altare, - la mia
preghiera starà, come la lampada, eterna davanti la immagine
della Madre di Dio, affinchè ti tocchi il cuore, e prima di
morire tu detesti il tuo fallo. A San Pietro fu rimessa la colpa di
avere rinnegato il Salvatore, ma le lacrime della penitenza gli
scavarono due solchi nelle guancie, - e il rinnegare è men
reo del tradire. Grande fu il tuo misfatto, pure infinita si volge
alla creatura la misericordia del Signore. Gli uomini non possono
più assolverti, - Dio tuttavia il potrebbe. - Io ti
compiango....»
Non lesse più oltre, e con i denti e con le mani
stracciò il foglio, - tanta ira lo vinse; - poi, come lo
consiglia il furore, sferra un calcio alla bara, - e fiori e ceri,
origliere e cadaveri manda a rifascio sossopra.
E la cercò con l'astuzia del serpente, - ma non gli valse; -
la donna aveva con raro accorgimento soppresso qualunque traccia; -
in qual tomba sieno state riposte le sue ossa ignoriamo; - certo la
religione avrà consolato gli ultimi anni di cotesta
sconsolata, - non pertanto è facile a immaginarsi ch'ella
abbia affrettato co' voti la pace del sepolcro.
Il Bandino inferocì nella sua perfidia, ebbe un brano di
popolo a divorare, - anco a lui toccò una verga per percotere
i suoi concittadini. Sempre con l'offesa alla mano, la ingiuria alla
bocca, egli raccolse ampio tesoro di abborrimento e si tenne beato:
dovunque mostrava la sua pallida faccia non ardiva apparire il
sorriso, e le parole compagnevoli od erano tronche a mezzo, o le
terminavano bisbigliando; - i suoi detti amari non risparmiavano gli
amici meglio dei nemici, più volte ne fremè lo stesso
duca Alessandro; e se non lo uccise, ciò non avvenne per
dubbio di essere tenuto ingrato, sibbene perchè si sentiva
come sopraffatto dal fascino di quell'uomo tutto veleno. Spento
Alessandro, il Bandino, punto cangiato dagli anni, praticò
gli stessi modi con Cosimo. Questi, al primo sarcasmo profferito in
onta di lui e della duchessa Leonora sua moglie, fece bocca da
ridere, e nel cuore segnò la sua morte; e non tanto pel motto
acerbo, quanto per tórsi dattorno tutti coloro ai quali
pareva dovere andare debitore del suo innalzamento, attese un
pretesto che togliesse a un punto la reputazione al Bandino, e a
sè con la vendetta procacciasse fama di pio; - cupissimo
ipocrita fu in tutte cose costui; - ad un tratto lo accusò di
tale delitto del quale i modesti non assumono difesa per reverenza
al pudore. Prima di farlo infelice, lo rese infame; - quando il
principe accusa, i testimoni non mancano, e caso mai essi manchino,
i giudici per condannare si trovano sempre, - nè forse il
Bandino era del fallo imputatogli del tutto innocente, a simile
turpitudine condotto dal disprezzo di questa nostra umana natura.
Preso e condannato a perpetuo confino nella fortezza di Volterra,
donde dopo molti anni venne trasferito nella fortezza di San
Giovanni Battista, quivi morì nel 13 agosto 1568. Di qual
morte finisse è ignoto; questo solo sappiamo con sicurezza,
che quelle mura furono segrete, profonde e terribili come il petto
di Cosimo I, che i Medici con le proprie mani dettero opera a
fabbricare veleni, - che Cosimo fu ammiratore ed amico di Filippo II
austriaco re di Spagna, chiamato meritamente il demonio del
mezzogiorno, e finalmente che ambedue questi principi, non che
fossero inesorabili ai nemici, i propri figliuoli di ferro o di
veleno spegnevano!
Ora udite la fine di Bono Boni dottore di legge.
E perchè rammenterò io la morte di così
ignobile uomo con larghezza maggiore di quella che adoperava fin qui
ricordando l'ultimo fato di tanti personaggi più virtuosi o
più magnanimamente scellerati di lui? Perchè io
conosco, anche ai dì nostri, uomini simili affatto al nostro
Bono Boni: e forse il fine miserevole dell'antico Bono potrebbe
ispirare salutevole spavento ai Boni moderni, - e dico spavento,
avvegnachè, se mai avviene anima alcuna di costoro andare in
luogo di salute, ella vi perviene di certo per paura dell'inferno,
non mica per amore del paradiso.
Messer Bono ebbe donna, e la tolse non già aspettandone
domestica dolcezza o per posare le agitazioni della vita nella
quiete degli affetti matrimoniali, o per forme venuste, o per care
doti dell'animo; tutte queste ell'erano baie per lui. Egli
badò se avesse parenti e quanti; - se avanzati negli anni
assai; - se di retaggio provveduti e di eredi; - e quando la mente,
fatti i calcoli coll'abbaco del suo cuore, trovò il conto
tornargli, - allora chiese santificare, diceva egli, il vincolo col
sacramento. Nelle nozze egli ebbe in mente soltanto la
eredità; - le nozze egli considerò quasi prolegomeni
del testamento; e pensando poi che se la moglie veniva a morte senza
figli, non pure non avrebbe eredate dal socero, dai cognati e
dall'altra caterva dei parenti suoi, ma gli sarebbe toccato
restituire per legge di statuto metà della dote... la prima
volta diventò padre per calcolo, - la seconda per briachezza
- e la terza per distrazione. Dicono l'annunzio della nascita di un
nuovo figliuolo ricevesse col volto col quale intese dal suo
castaldo avergli il fulmine incendiato il pagliaio. Spesso fece
piangere la moglie derelitta rampognandole oscenanamente la
fecondità del suo alvo; imperciocchè sebbene la povera
donna sentisse dello scemo nel capo, nondimeno, come ogni giorno
vediamo, la natura non aveva percosso di stupidità le sue
viscere materne. Quegl'infelici germogli, aduggiati dalla influenza
dell'odio paterno, pesti da continue percosse, sbigottiti dai
rimprocci, dal vivere sottile estenuati, svennero intisichiti quasi
prima di nascere. Il padre a quale andava per dolersi seco delle
morti frequenti di casa sua rispondeva con serafica petrificazione:
«Miseri noi, non essi, a cui prima di contaminarsi di colpa fu
dato salire al paradiso, dove svolazzano cherubini bellissimi di
luce.» - La madre piangeva.
Un solo, il primogenito, sopravvisse indomato alle battiture e ad
ogni genere di tormento domestico. Il padre quando vide che ad ogni
costo voleva vivere, intese a cavarne profitto. La educazione a cui
lo crebbe fu lo sviluppo continuo di questo assioma, che
piantò nell'anima del fanciullo come principio di tutta
sapienza: - Il danaro è il sangue dell'uomo. - Onde, nel
cervello selvatico di cotesto sciagurato, danaro e sangue
diventarono due cose per cagione di vita connesse e producentisi a
vicenda, l'oro era il sangue, il sangue l'oro. - Il padre poi si
compiaceva compiere la educazione del figliuolo a un punto e quella
del suo mastino, - pane, - acqua, - bastone -; e catena; -
pensò sarebbero stati ambidue buona guardia, - amendue
avrebbero morso e latrato se mai il ladro s'introduceva furtivo,
notte tempo, in sua casa, - e il figliuolo meglio del cane,
perchè ci aveva maggiore interesse. Dopo la sua morte non
avrebbe egli eredato il suo sangue, - il suo danaro?
Dopo la sua morte! - E chi lo ha detto? - Non poteva forse il suo
figliuolo morire prima di lui? - Certo poteva, ma non perciò
sariensi i suoi giorni prodotti più lunghi. Oh avesse potuto
rubare al figliuolo i suoi giovani anni e aggiungerli ai suoi! Egli
sapeva che fisici valorosissimi avevano trovato la via di prolungare
la vita infondendo nelle vene dell'uomo decrepito il sangue del
fanciullo, ma da sè non poteva eseguire la operazione, e il
segreto gli sarebbe costato troppo oro... Basta, per ora si sentiva
forte e rigoglioso; - quando gli fosse venuto meno il vigore, vi
avrebbe pensato.
Talvolta spezzò la catena..., non il mastino, - il figliuolo
di messer Bono Boni, - ed irruppe nel fango della vita, - il vino -
e il bordello. Se il suo imbestialito intelletto non pregiava
più gentili piaceri, poteva forse incolparsi? - Tornato a
casa, una procella di colpi gli rompeva le ossa, - ed egli
quantunque si sentisse i denti capaci di lacerare suo padre, non
ardiva avventarsi a cagione dell'antico terrore; solo brontolava
cupo e digrignava le mascelle orribilmente.
Il figliuolo di messere Bono Boni appena conobbe che il danaro
comprava il vino e la meretrice, non volle aspettare la morte del
padre per possederlo; - dal germe della idea che il danaro era
sangue stava per nascerne un frutto nefando.
Però l'istinto della natura, non affatto compresso
dall'abbominevole insegnamento, prevalse; - prima del sangue egli
scoperse il furto. Quando la notte scendeva paurosa sopra la terra,
- e la grandine percoteva crepitante su i vetri, - e il tuono
squarciava le nuvole del cielo, - e gli ululati dei cani empivano
l'orrore delle tenebre; - nell'ore in cui la superstizione immagina
spalancarsi le antiche sepolture e quinci trarre gli spettri a
tormentare i colpevoli, - in cotesta ora che il meglio animoso si
stringe a cui gli dorme al fianco, - e chi si giace solo si fa il
segno della salute e si avviluppa nelle coltri, - il figliuolo di
messere Boni con suoi grimaldelli, a passi sospesi, ritenendo
l'alito, si accosta all'arca paterna e ruba in un attimo un pugno di
fiorini d'oro: - erano l'agonia di dieci famiglie ridotte dal padre
alla disperazione. - Così avvenne una ed altra volta. - Certa
notte poi a mezzo decembre, - la vigilia di un giorno di festa,
successe il caso che sono per dirvi.
Strideva acutissimo il rovaio: - di neve ogni cosa era piena e di
ghiaccio, - la campana che accenna le ore batte così distinta
che pare che picchi sul tetto della casa di Bono Boni. - Lo
sciagurato giovane, furente di libidine per nuova meretrice, procede
a procurarsi col furto il censo grancito all'orfano, per isprecarlo
in prezzo di prostituzione, - oscena serie di colpe! Pon mano sopra
la serratura, - apre la porta... morte di Dio! Bono Boni con una
vecchia casacca tutta rattoppata addosso, un caldanuccio davanti,
agli scarsi tizzi del quale andava ad ora ad ora rinfocolando le
dita assiderate, - al pallido chiarore della lucerna mezzo spenta, a
cui, mancato l'olio, avea messo un po' di rialzo da un lato onde
l'umore rimasto in fondo sgocciolasse verso il lucignolo, - sta
numerando i suoi fiorini, - i ducati del sole... li zecchini
veneziani... in somma un tesoro, e per quanto scarso splendesse il
lume, non pertanto le monete d'oro raggiavano.
Udendo Bono Boni rumore, solleva gli occhi.
Sovente avviene nelle Indie che, mentre ti accosti ad una siepe per
cogliervi fiore o chiappare farfalla, tra fronda e fronda ti vedi
all'improvviso comparire davanti il ceffo del tigre.
Così s'incontrarono padre e figlio; - non proruppero in urla,
- non fecero gesto, - vivono soltanto negli occhi; e come il rospo
avventa schizzando il raccolto veleno, essi l'un contro l'altro si
scagliano un getto magnetico di odio, di maledizione e di morte. Il
cuore si agita dentro cotesti empi petti, quasi groppo di vipere
sturbate nei loro congiungimenti. Nessuno si minacciò; - il
pensiero sta chiuso nel cervello loro, come il pugnale nella guaina,
- non hanno armi, e non pertanto cotesto è duello a morte, -
combattono con gli occhi, - riparano e studiano colpi di certa
offesa e mortale.
Ma gli sguardi del giovane ferivano più trucemente intenti, -
più divampati, - più pieni d'inferno; - quelli del
vecchio da un angolo all'altro balenarono smarriti; - gli
mancò l'anima, - si sente ferito; - allora pian piano stende
la destra obliqua e saltellante, come il ragnatelo per ghermire la
mosca, ad afferrare un coltello.
Prima che la mano giungesse al coltello, il figlio ha stretto la
gola del padre e con voce incavernata gl'impone:
«Dammi i fiorini.»
«No.»
«Dammi i fiorini, ti dico...»
«No, no.»
«No? - prendi.»
E qui gli sferra una martellata sul capo, poi soggiunge:
«Dammi i fiorini...»
Il sangue inebria al pari del vino; e più il vino è
generoso, - e il sangue ci appartiene dappresso, - tanto meglio
l'uno inebria chi lo beve, - tanto meglio inebria l'altro chi lo
versa: - quello che adesso sgorga è sangue di padre!
«Non vuoi tu darmi i fiorini? Prendi dunque, Bono; - prendi,
messer Bono Boni; - prendi, prendi.»
Il cranio va ai fieri colpi sbrizzato, - un lembo di cervello si
versa oscenamente pel viso a Bono Boni, - il rantolo prorompe fumoso
di sangue dalle fauci di lui; e il suo figliuolo continua a
martellargli rabbioso sul capo, - poi si fermò e gli disse::
«Ora vuoi tu darmi i fiorini? - Non rispondi? No? Io
tornerò a domandartelo tre volte e poi riprenderò le
percosse più forti di prima.»
E siccome dopo la triplicata, interrogazione il padre non rispondeva
nulla, il figliuolo si avvisò esaminargli la testa. Vista che
l'ebbe, scoppiò in altissime risa...
«Vedi ve'; - chi avrebbe creduto che questo capo contenesse
tanto cervello?» E poi in suono lieto continua: «Certo
ora non può egli rispondermi: prendili o lasciali stare, -
non dirà più nulla mai: - io posso portarli via a
bell'agio.»
E ne tolse piene le pugna e accorse alla casa della meretrice, la
quale non aborrì dalla moneta insanguinata nè del
contatto del parricida; - e sciolta appena dalle braccia di lui si
affrettò a denunziarlo al bargello, empiendo le mani di nuovo
denaro - e sanguinoso ancora egli. - Ora coloro che in versi o in
prosa ebbero coraggio di paragonare l'uomo al tigre mi dicano in
coscienza se non ne sentono pentimento e rimorso.
Pochi giorni dopo egli era tratto al supplizio; - andò
nè superbo - nè dimesso, - ma stupido, - affatto
chiuso nella sua bestialità. - Brevi momenti innanzi di
morire un raggio d'intelligenza, - l'unico che in tutta la vita gli
scintillasse al pensiero, gli si diffuse su l'anima, e
favellò:
«Non so quale delle due infamie sia per me la maggiore, - o
quando venni nel mondo per mezzo di messere Bono Boni mio genitore,
- o adesso che n'esco fuori per le tue cure amorevoli, compare
Taddeo.»
E toccò in atto di carezza le gobbe spalle al carnefice
Taddeo.
La meretrice, dopo che fu giustiziato, venne presa da veemente
scrupolo e, per mettere in quiete la coscienza, fece celebrare una
messa per l'anima del defunto alla Santissima Vergine
dell'Annunziata.
Se allora fosse costumata la reale e imperiale istituzione del
giuoco del lotto, onore e lume della presente civiltà toscana
ed anche romana, fors'ella ne avrebbe ricavato i numeri.
E forse vinto.
E forse diventata maggiordoma maggiore, - e allora avrebbe imbandito
mense, convitato a festini; - i poeti l'avrebbero cantata con una
procella di sonetti con la coda o senza; - crescendo poi gli anni,
l'avresti veduta convertita in donna di pietà insigne, -
direttrice di qualche asilo d'infanzia, o priora
dell'arciconfraternita del Sacro Cuore; alla fine, - poichè
tutte le cose hanno la fine, - defunta co' conforti di sette
confessori, uno meglio dell'altro - e santi uomini tutti, - e munita
in copia delle provvisioni spirituali necessarie pel viaggio della
eternità.
E forse anche morta in odore di santità e dieci miglia
d'intorno.
E operato miracoli, come sarebbe la guarigione dell'idrope alle
fanciulle dopo nove mesi di enfiatura, - e così discorrendo.
Ora andate, se il cuore vi regge, a battere la cassa addosso alla
reale e imperiale amministrazione del giuoco del lotto.
I filosofi lo biasimano, ed hanno torto. Date loro a tenere il
banco, e lo loderanno; - lo dimostreranno ancora filantropico,
siccome usa nel nostro linguaggio moderno.
Lascio del lotto e torno a messere Bono Boni, dottore di legge.
Se alcuno nel mio Bono si ravvisasse, si rammenti del discite
iustitiam, moniti...
Lo troverà in Virgilio, ma costà lo dice Flegia ai
dannati senza conclusione di nulla, perchè la predica ai
perduti senza rimedio per sempre la è proprio il soccorso di
Pisa; però io glielo dico prima di dannarsi, affinchè
si provveda.
Ora contemplino i popoli la giustizia di Dio.
Correva il 23 di dicembre dell'anno 1531. Dentro una sala ampia,
umida e buia Malatesta Baglioni e Cencio Guercio stanno ridotti
davanti al focolare. Malatesta sopra una sedia baronale a bracciuoli
da un lato, Cencio sopra uno sgabello dall'altro; lo spazio tra
Malatesta e il suo cagnotto era occupato da due sedie vuote. Non
dicevano parola; - di tratto in tratto il Guercio alzava gli occhi
per guardare Malatesta, ma, non osando sostenere la vista di lui,
gli abbassava pensoso, chè la paura gli si era cacciata
nell'anima.
Da molto tempo abbandonò la salute le membra del Baglione, e
nondimeno da pochi mesi a questa parte egli appariva l'ombra di
quello che fu. La pelle gli s'informava dalle ossa, gli cadevano
giù lungo le gambe le calze e ad ogni moto gli ondeggiavano;
- il volto aveva bianco come il marmo; - alcune ciocche di capelli
canuti gli fuggivano rabbuffate di sotto alla berretta, - la barba
sordida ed incomposta, - segno certissimo in lui, tanto studioso
della mondizie del corpo, di spirito agitato; - le sopracciglia
irsute celavano a mezzo le pupille, le quali muovono continue per
un'orbita dilatata, reticolata di vene sanguigne, - piena di colori
biliosi; - e poi l'occhiaia livida gl'ingombra gran parte delle
guance smunte e rugose. Le spalle tiene curve, il capo chino sul
petto; - ambidue i gomiti riposa sopra i bracciuoli, - con le mani
si appoggia ai pomi della sedia: - e' sono mani di cadavere; - le
unghie lunghe, violette alla radice, in cima bianche; - la pelle
gialla, - i nodelli sporgenti, e grosse vene di colore del piombo
gliele traversano sinuose. - Sta nel dominio della morte.
Oh come tremenda travagliava cotesta ora l'anima del Baglioni!
Prossimo ad abbandonare il suo corpo, lo spirito, a un punto vittima
e carnefice, domandava a sè stesso ragione della sua
esistenza. Truce rendimento di conto egli è questo, che pure
noi tutti dobbiamo fare una volta. Costui tentava sottrarne alcune
partite, altre s'ingegnava attenuarne, proponeva difese, implorava
perdono. Se codesti arcani dibattimenti si fossero potuti
significare con parole, in fede di Dio avrebbero disgradato le
più magniflche orazioni di Demostene; - ma la coscienza a sua
posta incalzava, chè non è dato all'uomo mantenersi
ipocrita con sè medesimo. E conchiuso ch'ebbe il calcolo, una
voce profonda in suono di sospiro gli uscì dalle viscere che
disse:
«Che cosa ho mai fatto?»
Parendo a Cencio che la domanda fosse indirizzata a lui, levò
il mento per rispondere; se non che dalla immobilità del
sembiante del Malatesta sospettò la volgesse a qualche larva
infernale, - si tacque pauroso. Il Baglioni indi a breve replicava:
«Che cosa ho mai fatto?»
Quindi, sforzato ad aprire intero il suo riposto concetto, continua:
«Mi odiano tutti! Sono venuto al mondo in orrore... e a me
stesso! Sempre mi vedo al fianco queste sedie vuote... ma che? forse
non mi rallegrò mai affetto di padre? O genitore infelice
sopravvissi ai miei figli? No. - I miei figli vivono, - ma sfuggono
da me... sono solo... Solo? no... io sto in compagnia dei miei
delitti... della mia vergogna... de' miei rimorsi...
«Ahimè! e non pertanto mi sento solo, e quando la mia
solitudine mi tormenta, e vacillante... tentone alla parete... con
pericolo imminente di percotere del volto la terra, io muovo in
traccia della mia figliuola, la rinvengo nella domestica cappella,
genuflessa davanti la immagine di Maria santissima, ed io l'ascolto
tra i singhiozzi supplicare la regina dei cieli che impetri perdono
della misericordia di Dio ad uno scellerato che ha venduto il sangue
de' cristiani, che ha tradito una terra nobilissima, che ha
condannalo la sua stirpe ad una eternità d'infamia...; e
quello scellerato sono io... L'ira mi spinge al coltello la mano...
Povera figlia! perchè dovrei punirti della mia colpa? - Io mi
sento costretto ad allontanarmi, badando ch'ella non mi avverta...,
perchè dov'ella mi scorgesse, l'ultima stilla di sangue mi
tingerebbe di vergogna la faccia. - I miei figliuoli cerco a un
punto e fuggo; i miei figliuoli fuggono me, essi portano in fronte
una rampogna, - il padre loro la infamia...
«E tu, Ridolfo Leone, che dovevi essere l'orgoglio della mia
vecchiezza... tu, sul capo del quale aveva accumulato tante
speranze..., tanto tesoro di affetti..., tu, che, per farti crescere
di stato, mi costi sudori, fama e perfino la salute dell'anima...,
perchè lasci il padre infermo a rodersi con le sue malattie e
la memoria? Il principe di Camerino lo ha respinto dalla sua casa,
come un vassallo, e gli ha detto: Il mio sangue non si
mescolerà col sangue dei traditori. - E la sua figlia, - la
fanciulla amata da lui col delirio del primo amore, - si è
chiusa in monastero per tôrselo dal cuore siccome se lo tolse
dagli occhi. - Sta lontano da me, Ridolfo, perchè io temo che
ad ogni istante tu venga a domandarmi. Per qual cagione mi hai
procreato? - E non pertanto vorrei che prorompesse contro di me in
detti amari, ancora in contumelie, versasse tutta la piena del suo
furore sopra il mio capo... Ma vedi, Cencio, alla croce del vero
Dio! quei suoi labbri compressi, quella sua parola fredda quando mi
chiama padre, mi lacera le viscere... Pensi forse ch'io non
m'accorga com'egli chiama in più dolce suono il suo cane?
Pensi ch'io non veda ch'egli s'ingegna nascondere alla gente che
nasce di me - e muta veste e s'infinge plebeo? Cencio, dimmi, hai
per avventura osservato com'egli abbia tolto dal pomo del suo
pugnale l'arme di casa Bagliona? - A quest'ora egli mi maledisce...
nè Dio giudice riprova cotesta maledizione, perchè
meritata.
«Intanto queste sedie rimangono vuote accanto a me. «Una
parete - e un abisso mi dividono dai miei figliuoli...
«I figli di Annibale..., ma egli mi è nipote..., e poi
è prete, - finchè da me sperava il vescovato con la
rendita di diecimila scudi, non mi si dipartiva mai dal fianco e non
cessava dal tempestarmi le orecchie con le autorità dei santi
padri e coi testi della Scrittura ond'io mi mi rendessi a fare le
voglie del pontefice; - mi assicurava della eterna salute, -
difensore della Chiesa mi salutava e propugnacolo della fede; -
adesso volge le sue lusinghe a più potente di me; - simile
agli oremus del suo breviario, egli cambia nelle sue adulazioni il
nome e le applica ad un altro, - mi abbandona ai pericoli e ai
rimorsi, - nè gli mancheranno citazioni per giustificare il
suo operato, - perchè no? Non insegnava il suo Cristo che
l'albero quando non è più buono a produrre frutto deve
essere reciso? Ah! la parola di Cristo sta in bocca ai preti come il
suo sepolcro in mano ai Turchi. - Egli s'ingegna nascondere il nome
della sua stirpe sotto il titolo di qualche dignità
ecclesiastica, - fosse anche quello di vescovo d'Aleppo. - Sta bene,
nè io posso biasimarlo di sottrarsi alla torre che crolla.
Dio lo esaudisca secondo i meriti suoi...
«Clemente! Clemente! Se le mie colpe saranno gravi sulla
bilancia dell'Eterno, quanto mai vi peseranno le tue!
Comecchè io fossi degno di avvilimento e di peggio, non per
questo mi sei meno spergiuro. Tu hai falsato meco tutti i tuoi
giuramenti...; solo mi gittasti davanti un brano di popolo ond'io mi
v'insanguinassi le labbra, - e potere dir poi: Vedete, anch'egli
è della famiglia dei lupi...
«A che mi valse il tuo consiglio, Cencio? - I miei bravi
percorsero tutte le corti d'Italia, mandarono cartelli a chiunque
osasse chiamarmi traditore. Sono stati derisi, e gli hanno rimandati
dicendo: Non fa mestieri duello, - chi dubita essere stato traditore
Malatesta?
«Clemente ha preposto al governo di Perugia Ippolito cardinale
suo nepote: questi ogni giorno appresta insidie alla mia vita; - mi
dolgo al papa, ed egli risponde non essere atto a fare stare a segno
un cervello così eteroclito e balzano, volendo per questo
modo significare che mi concede in preda al mio nemico, tanto
crudele più - quanto la sua ira non nasce da passione, ma da
disegno. - Odia costui la tirannide perchè non fu promosso
tiranno, - ora ostenta modi ed affetti repubblicani, blandisce i
fuorusciti, accarezza Dante da Castiglione, aizza contro di me i
Perugini; - queste misere reliquie della mia vita contende alla
infermità e desidera spingermi per morte sanguinosa dentro il
sepolcro. - Ahi stolto! se tu indovinassi quali giorni io tragga, tu
manderesti pel fisico più famoso del mondo onde cercasse
allungarmi la vita. Qual supplizio presumi inventare più
tormentoso della mia coscienza?»
E Cencio, che pochi giorni innanzi era stato preso a sassi dalla
famiglia del cardinale, ed uno dei fanti aveva ardito perfino
levargli la spada, romperglierla a mezzo, e quindi dargli dei
tronconi nel viso, con voci di sospiro lo interrogava:
«Ma qual pensiero, quale ostinazione è questa vostra?
Perchè volete rimanervi qui a farci ammazzare tutti come
paterini? Avete munito di anni e di ogni sorta di provvisioni il
vostro buon castello di Bettona, nè sarà facil cosa al
cardinale superarne i ripari.»
«I miei capelli, comunque crescano sopra testa maladetta, sono
numerati; non dubitare, Cencio, neppure uno di essi cadrà, se
lo impedisce il Signore; e se per lo contrario al cardinale fu
commesso dalla provvidenza di trucidarmi, le salde mura di Bettona
si romperanno come vetro al suo urto; - il frutto quando è
maturo bisogna che caschi. - Nessuno, Cencio, più di noi
può rendere testimonio che Dio esiste... - noi sentiamo la
sua esistenza come un chiodo nel cuore...»
«Ahimè! finisce il mondo, Malatesta sermoneggia»,
interrompe Cencio sforzandosi, comecchè inutilmente,
riprendere l'antica gaiezza; «mettiamoci in salvo. Che dice il
proverbio? Aiutati con due mani, e Dio ti aiuterà con
una...»
«Cencio», gridò Malatesta, «non
bestemmiare, vedi, o ch'io ti faccio gettare giù dai
balconi...»
E alzò irato il volto per aggiungere alle parole la minaccia
degli occhi.
Cencio, o sia a cagione del suo spirito abbattuto pur troppo, o sia
che veramente la voce del Baglione gli sonasse più severa che
mai l'avesse udita per lo tempo innanzi, levò il viso a sua
posta.
E i loro occhi s'incontrarono.
La fiamma ora nascondendosi sotto i tizzoni spariva, ora scaturendo
a modo di lingua di fuoco avventava un getto improvviso di luce
sopra gli oggetti circostanti. E quel subito splendore gli sformava
e li travolgeva in aspetti bizzarri: le cose inanimate parevano
scontorcersi sotto il tormento d'inconsueti dolori. Le sembianze dei
nostri personaggi disfatte e terribili davano idea del come debbano
agitarsi nell'inferno le anime dei dannati. L'uno l'altro guardando,
Cencio e il Baglione proruppero in un grido e al punto stesso
esclamarono:
«Voi avete...»
«Tu hai...»
«Una faccia di demonio.»
E quando quella loro paura fu del tutto quieta, si celarono gli
occhi con le mani, profondamene avviliti, ed esclamarono:
«A che mai siamo ridotti!»
All'improvviso il silenzio che lungo si manteneva in cotesta sala
viene rotto da un alto schiamazzo, da un cozzare di ferri, da
minacce; da bestemmie e grida dolorose, e poi un romore di persone
qua e là accorrenti, un chiudere di porte, e quindi ancora a
mano a mano appressarsi il calpestio.
Malatesta si alza tremante. - ma non per paura; però con le
mani non abbandona i bracciuoli della sedia, in questo modo
sostenendo l'infermo suo fianco. Allorchè il rumore sempre
più appressandosi sta per prorompere nella sala, la sua
destra con moto spontaneo ricorre al manco lato per cercarvi la
spada; le gambe indebolite non bastano a sorreggerlo in piedi, e
vacillando trabocca sopra la sedia; - sorrise e si acconciò
nell'atto che gli parve più dignitoso per aspettarvi la
morte.
Si spalancano le imposte, e una turba di uomini e di donne inonda la
sala. Alcuni dei sopravvenuti portavano torcie di bitume,
sicchè la nuova scena andava illuminata da quel sinistro
splendore. Non si sapeva la cagione vera del trambusto, - urlavano
tutti, e più di tutti una donna, che disperatamente si
abbandona sopra un ferito trasportato dai suoi compagni; - chi
quell'uomo e quella donna si fossero non si distingueva, tanto erano
contaminati dal sangue che copiosamente sgorgava da una profonda
ferita fatta all'uomo nella gola. In mezzo a tanti gridi il Baglioni
giunse a capire che poc'anzi a bello studio era passata prossima
alla sua casa una masnada di bravi della famiglia del cardinale e
che, avendo rinvenuto poc'oltre un suo paggio, lo avevano preso a
malmenare, - ch'egli si era rifuggito a stento dentro la porta, ma
che cotesti scherani, mal sopportando fosse loro scappato di mano,
avevano atteso a rompere gli usci e violare il domicilio di messere
conte: - che allora essi, seguendo lo esempio di messere Ridolfo
figlio di messere Malatesta, avevano aperto le porte e respinto la
forza con la forza; - esserne nata una molto terribile mischia, -
due della famiglia del cardinale rimasti morti sopra la strada, - il
maggiordomo di casa avere tocco una ferita mortale nella gola,
sicchè, come poteva vedere, più poco gli rimaneva di
vita; - in breve si aspettasse a sostenere più duro assalto,
perocchè i famigli del cardinale, partendo, avevano promesso
sarebbero tornati in forza, per lo più tardi, tra un'ora.
Malatesta udiva il racconto impassibile come se a lui non
concernesse. Intanto gli occhi del moribondo natanti nella morte lo
cercavano per raccomandargli con l'ultimo fiato della sua vita la
moglie e i figliuoli; - favellare ad alta voce non poteva; - con lo
spirito pronto a partirsi un argomento per richiamare l'attenzione
di lui cercava, e non gli occorreva; - sentendosi avvicinare il
diaccio della morte sul cuore, raccolse nel cavo del pugno alquanto
di sangue e glie lo gettò sul viso. Malatesta si riscosse, e
vedendosi cosparso da quella terribile pioggia, girò attorno
lo sguardo e s'incontrò in quello del maggiordomo, il quale
con estremo conato mormorò:
«La mia famiglia...»
«È morto!» urlò la moglie; e i figli con
eco straziante rispondevano: «È morto! - è
morto!»
«Fuggiamo, messere Malatesta», insta Cencio Guercio
tremante.
«Mettetevi in salvo, signore», supplicano a mani giunte
i vassalli, «tra pochi minuti non saremo più in tempo.
«Anch'io ho figli... che mi abbandonano... e che io non posso
abbandonare», favella Malatesta immemore di quello che
avveniva intorno a sè.
«Io non vi abbandono», susurrò Ridolfo Leone, che
gli si era posto al fianco per ricoprirlo del suo corpo;
«finchè il mio braccio basterà a sostenere la
spada, voi vivrete, signore.»
«Ed io non ardiva abbracciarvi, riprende la sua figlia, - per
paura di affliggere il vostro corpo già intormentito. -
Monaldesca vostra non sa ferire, ma pregherà Dio per voi... e
riceverà nel suo seno il colpo diretto al vostro
cuore.»
«Ahi, figli miei! Venite qui appresso a me.» E
così favellando solleva le mani, come per imporgliele sul
capo, se non che, di subito mutato consiglio, lascia caderle
abbandonate. I suoi occhi tentano piangere, ma non rinvengono
lacrime, - invece per lo sforzo s'infiammano e par che versino
sangue. «Benedirvi! No, figli miei; la mia benedizione
scenderebbe veleno sopra di voi e v'inaridirebbe la testa... Figli
miei, io vi domando perdono...»
«Silenzio!» gl'impose severamente Ridolfo Leone, -
«non mi fate vergognare al cospetto de' miei vassalli, - le
vostre colpe stieno tra voi e Dio... i vostri figliuoli non devono
saperle.»
Il giorno appresso Malatesta era chiuso nel suo castello di Bettona,
ma per morirvi.
Le troppe commozioni e troppo violente durate nel precedente giorno,
- il corpo ormai rifinito, - l'animo fieramente turbato, - il
disagio della via che così infermo aveva dovuto percorrere a
cavallo - e il rigore di una notte di decembre passata a cielo
aperto, - tutte queste cose gli avevano messo una febbre
intensissima unita a delirio e a spasimi che lo facevano voltolare
come forsennato nel letto.
Chiamato il fisico, poichè questi l'ebbe lungamente
esaminato, dichiarò quello essere l'ultimo giorno di
Malatesta Baglioni.
Venne il confessore, - ma le sue parole non erano intese si pose
accanto al letto recitando sue preci, pure aspettando che un istante
d'intelligenza gli desse abilità ad esercitare il suo
ufficio.
Cotesto istante fu atteso invano: - il delirio crebbe e con esso la
smania. Calato il sole, la malattia prese a inferocire più
terribile; molti degli astanti non poterono sostenere gli urli
dell'infermo e lo abbandonarono. - Certo era pur truce la visione
con la quale Dio giudice spaventava quel tristo.
E' gli pareva trovarsi dentro ad un immenso anfiteatro, migliaia e
migliaia di volte più vasto del Colosseo. Tutte le
generazioni della terra stavano sedute sopra i gradini in sembianza
di statue scolpite nel granito. Occupavano i più prossimi,
uomini del suo tempo, la maggiore parte a lui noti, gli altari di
forme sconosciute, e quanto meglio i gradini s'innalzavano, le forme
apparivano più gigantesche e più strane; orridi ceffi,
appena umani, che tenevano in grembo o sotto il braccio tigri, leoni
e grifoni, come i damigelli del medio evo portavano in pugno
sparvieri; la estremità dell'anfiteatro andava ingombra da
simulacri di più immane grandezza, - dalle razze ciclopiche
che scrissero la loro storia nelle montagne... che maneggiarono
l'intero abete aguzzato al cratere del vulcano per arnese di
guerra... cavalcarono il mastodonte come caval di battaglia... e una
caligine misteriosa le ravvolgeva a mezzo dentro di sè.
Malatesta, scorgendosi solo nell'arena, notando che gli occhi di
tutti stavano fitti contro di lui come archi tesi, s'ingegnava
stringersi, impiccolirsi, celarsi nelle viscere della terra, - ma la
terra era di granito anch'ella impenetrabile e liscio.
Il piano di granito stava inclinato, e dalla parte ove giungeva il
massimo declivio usciva un frastuono di mare in tempesta e urla
disperate di naufragio, - e divampava un fuoco vermiglio ad ora ad
ora rotto da fulmini, e tra i fulmini appariva un quadrante con una
sola lancetta, - e un'ora sola, - l'ora della eternità.
Di sotto al quadrante, una catena infiammata pendeva nell'abisso.
Le viscere del mondo si commossero, - un terremoto empì della
sua romba il firmamento; - le colonne e gli obelischi
dell'anfiteatro piegarono come cime di alberi al soffio della
bufera, - le statue furono trabalzate dai loro seggi, - i grifoni e
le tigri, comunque di pietra, sembrarono lanciarsi nell'arena
atterrite dal pericolo.
Le labbra delle stirpi vissute nel mondo si aprirono, - voci diverse
e orribili favelle, che nonpertanto la giustizia di Dio volle che in
cotesta ora fossero rivelate all'intelletto del Malatesta,
gridarono:
«Perchè si tarda? - La eternità è poca al
supplizio del traditore.»
Di repente ecco una forza irresistibile strascina Malatesta; gli
trema sotto la terra, egli vacilla com'ebbro, tenta appigliarsi alle
pareti dell'anfiteatro, - ma non trova luogo dove introdurre le
dita; - erano perfettamente liscie e commesse, come se fossero state
non di pietra, bensì di metallo fuso; - ei fu costretto a
cadere, e appena caduto, quantunque agli occhi il pavimento
rimanesse fermo, assunse egli pure l'impeto del torrente e travolse
il Malatesta con forza irresistibile. Allora cominciò una
lotta miserabile a vedersi. Il Baglioni s'ingegna trovare un qualche
rialzamento dove attenersi e ritardare la caduta; - il suolo si
stende disperatamente unito. Forte abbranca colle mani la pietra per
imprimervi le unghie, - la pietra non si graffia, ma le unghie gli
si arricciano dolorose verso la radice.
Mentre palpitante si affanna in siffatto travaglio, un vento
infiammato investe l'arena e mena in giro nuvole di terribile mole,
- e tra le nuvole appariscono i fantasmi di tutti coloro che egli
aveva menato a morte a cagione del suo tradimento.
Prima degli altri gli si mostra lo spettro di frate Benedetto da
Foiano, - scheletro affatto, - meno che negli occhi, i quali
stavangli incassati sotto le ciglia ossute, come palle di vetro: -
«Dannati, traditore!» gli disse dandogli una spinta e
passò.
Segue Rafaello Girolami con le labbra nere e lacerate dall'acqua
tofana, la pelle del colore di piante imputridite, chiazzata di
macchie livide, e, - «Dannati! traditore!» - anch'egli
gli gridava, - e datagli la spinta, passò.
Poi venne Francesco Carduccio in sembianza severa, quale lo aveva
sempre veduto mentre che visse, se non che intorno al collo gli
ricorreva un nastro vermiglio, quasi muliebre ornamento. Allorquando
egli volle curvarsi, la testa gli si staccò dalle spalle, ma
non per questo gli disse meno: - «Dánnati!» - e
lo cacciò con una spinta verso l'abisso.
Larve infinite lo tormentano, e tutte godono a fargli oltraggio, a
precipitarlo nel vortice dell'eterno pianto; ma sopra le altre uno
spettro gli sta attaccato alla vita con l'ardore del vampiro che
sugge il sangue alla vittima, - e lo tira, - e vi adopera mani e
piedi e denti e tutto, - e questo spettro è il Pieruccio.
Traendo dolorosi guai, il Malatesta precipita, quando, sul punto che
meno se lo aspettava, occorre in certo oggetto al quale si
raccomanda tenace; - sovvenuto da simile sostegno giunge a rilevarsi
sopra i ginocchi. Assettatosi in questa posizione, alza la faccia e
conosce essere il corpo a cui si attiene un colosso di bronzo. Egli
era addobbato del manto pontificale, - portava in capo il triregno,
- la destra teneva in atto di benedire; - guardando meglio, ravvisa
in quel simulacro la immagine di papa Clemente.
Allora, delirante di speranze, trasse con violenza a sè i
lembi del piviale, supplicando tutto dimesso:
«Beatissimo Padre, per voi servire, questo c'incoglie;
salvateci in nome di Dio dalla eterna dannazione.»
Gli occhi della statua coruscarono fuoco, - apersero le labbra e
divamparono fiamme, e dopo le fiamme ne uscì una voce che
disse:
«Dilettissimo figlio, noi vi abbiamo pagato, - noi non
possiamo altro che darvi la nostra apostolica benedizione.»
E stese la mano verso la fronte del Malatesta; - la pelle riarse a
quel tocco abbrustolita, e fra una traccia di fiamma verdastra
v'incise un T. Non potendo tollerare il Baglione la immensa
angoscia, portò ambe le mani verso la testa. Quando gli fu
quieto di alcun poco il dolore, egli volle di nuovo afferrare il
piviale del pontefice, ma si accorse esserne trasportato lontano;
già le sue gambe si agitavano nel vano, - più che
mezzo era immerso nella voragine, tenta - gravitando le costole
sull'orlo dell'abisso - rimanervi sospeso; - gli torna ogni conato
indarno, - non lo reggono i gomiti, - gli sfugge dalle mani la
terra; - allora rabbioso immagina mordere l'estremo margine del
pozzo.
Ma invece del margine del pozzo si morde miseramente la lingua, il
sangue nero gli goccia giù in copia dagli angoli delle labbra
e gì'insordida la barba.
Improvvido di consiglio, si volge attorno esterrefatto, ed altra via
di salute non gli si offre, tranne la catena rovente.
Vi si aggrappa con le mani e co' piedi; - la catena si distende con
orribile cigolio; - la lancetta del quadrante divora lo spazio che
la separa dall'ora con la velocità del cavallo sfrenato, - la
squilla suona.
Si aperse la terra, - l'anfiteatro cadde disfatto, - le statue l'una
sopra l'altra rovesciaronsi, precipitarono le stelle dal firmamento,
- ogni cosa creata si sformò, e un gemito lungo si diffuse
per la natura moribonda che diceva: - «È arrivata
l'eternità.»
Malatesta si drizzò sul letto e urlò disperato:
«La eterna dannazione incomincia!»
E poi ricadde sfinito, - gli venne meno l'anelito, - prostese le
braccia - e con un roco singulto declinò la testa.
Il frate confessore gli pose una mano sul petto e favellò
sommesso:
«È passato.»
I circostanti, compresi da ribrezzo, abbandonarono la stanza. Non
avvertito vi rimase Cencio Guercio.
Accovacciato come un cane, egli stette assai tempo immemore di
sè, profondamente avvilito sotto il peso della paura e del
rimorso. Alfine rinvenne e pensò al miserabile suo stato: se
si fermava, lo avrebbe manomesso Ridolfo Leone che gli portava mal
di morte, riputandolo istigatore dei misfatti paterni; se invece
usciva dal castello, lo avrebbero messo in pezzi gli aderenti del
cardinale Ippolito. Ad accrescere le sue angustie si aggiungeva che
gran parte del male acquistato in Firenze sperperò giocando a
carte, e quello che aveva potuto avanzare, tutto intento alla fuga,
nel subito caso della sera precedente lasciò a Perugia. Come
fare? Non fidava in congiunti, non avea amici, chè nei giorni
della prosperità fu suo diletto l'offesa, e l'altrui danno
contentezza.
Mentre in questo modo si affanna, i suoi occhi si posano sopra la
corona di conte del Baglione che doviziosa di perle posava sopra un
pulvinare di velluto cremesino a canto del letto: con l'atto
precorse il pensiero - l'afferrò bramoso e fuggì via.
Pervenuto nell'altra stanza, si accorge che non potrà
passare, con quel volume, inosservato in mezzo alle guardie del
castello; pargli consiglio migliore staccarne parte delle perle,
specialmente le più grosse, le quali giusta la foggia delle
corone dei conti ne sormontavano le otto punte. - Ponendo portando
senza intermissione ad effetto il suo disegno, trasse il pugnale e
prese a scastonarle; - ad ora ad ora suo malgrado si volge verso la
stanza dove si giace Malatesta, sospettando non abbia a rilevarsi e
venire a strappargli la corona dalle mani.
Ed invero Malatesta non era, siccome pensava, ancora defunto; - uno
svenimento cagionato dalle terribili commozioni lo aveva assalito e,
trovando le membra fievolissime, lo lasciava inerte come morto; -
però sentì lenta nelle vene risuscitarsi la vita e,
prima che la coscienza della sensibilità lo ravvivasse, lo
gravò indistinto un senso di angoscia ottusa, affatto
macchinale; - poi tornò la coscienza, e con la coscienza il
pensiero, sibbene deviato dal vero, quasi strale che non colga
più il segno. Allora lo punsero cocentissimi cruciati, e gli
parve essere steso con mani e piedi legati sopra un letto di fuoco;
- ineffabili erano i suoi sforzi per muoversi, ma rimaneva
irrevocabilmente confitto tra quei carboni ardenti. Schiudendo gli
occhi, si vede apparire trucissima davanti la testa mozza di Lorenzo
Soderini; - con occhi aperti senza palpebra lo fissava e con le
labbra insanguinate lo baciava, sicchè le stille del sangue
gli gocciavano in bocca e, corrosive come acido di vetriuolo, o
gliela ulceravano o gliela empivano di vesciche. Si volge a destra,
e la visione lo seguita, - la testa gli si pone accanto sul
capezzale; - si volge a sinistra, non gli giova meglio. - Chiude gli
occhi, ed ecco dagli occhi del Soderini esce uno sguardo tagliente
che gli fora la pelle del ciglio e costringe la pupilla a guardare;
- torna ad aprirli smanioso, - la testa mozza non si muove, - lo
sguardo non cessa, - non si sospendono i baci.
Gli fremono le fibre di spasimo; - tenta disperatamente un ultimo
sforzo per muoversi e vi perviene; - agita le mani, come se gli
fossero rimasti attaccati intorno ai polsi i frantumi delle catene;
disegna levarsi dal letto e sente un'angoscia acuta, quasi gli
staccassero da dosso un panno attaccato alla piaga; non importa; si
alza mormorando tra i denti stretti:
«Voglio andare al cospetto di Dio e dirgli: È troppo...
io voglio domandargli la morte dell'anima.»
Cencio Guercio, avendo staccata l'ultima perla dalla corona, si
accingeva a rimetterla al suo posto, allorchè si vede
comparire davanti il simulacro di Malatesta Baglione.
Parte delle membra gl'ingombrava il lenzuolo che si era tratto
dietro di sè, parte apparivano ignude nella loro lividezza ed
estenuazione cadaverica, - le palpebre teneva socchiuse, e le
pupille dentro erano color di cenere, come si osserva negli uomini a
momenti trapassati; - dritti gli stavano su la fronte i capelli
quasi stecchi d'istrice, - le labbra aveva peste, intorno sordidate
di sangue rappreso; - con una mano si reggeva un lembo del lenzuolo
sul petto, - l'altra agitava in atto di uccello grifagno, - e forte
ansava preso dal rantolo dell'agonia.
Cencio appena potè articolare parola; - diventa pavonazzo nel
volto e stramazza per terra, come tocco da apoplessia, - gli sfugge
la corona dalle mani, che, dopo avere rotolato alquanto sul
pavimento, si ferma in piano presso al Baglione.
Malatesta incespicando nello strascico del lenzuolo a sua posta
rovina la faccia in avanti, con la testa percuote su la corona, - ed
una punta privata della perla gli scoppia l'occhio sinistro egli
penetra lacerando in mezzo al cervello.
Due mesi dopo questo fatto un boscaiuolo, tornando da tagliar legna,
incontrò una testa spiccata dal busto e dopo due miglia un
busto senza testa.
I bravi del cardinale, abbattutisi certo giorno in Cencio Guercio,
che, bandito da Bettona, povero, pauroso, percosso nell'intelletto,
si era riparato nelle macchie, dove traeva vita affatto bestiale,
gli lanciarono contro i cani; - lo raggiunsero e lo tennero fermo,
forte addentandogli la carne delle cosce; - soppraggiunti i bravi,
senza pur dargli tempo di riconciliarsi con Dio, gli mozzarono il
capo spietatamente.
Il mio poema è finito.
Ed ora che ho composto nel sepolcro le glorie del mio popolo, -
chiuso la lapide - ed inciso sopra la iscrizione, - a che più
oltre lo spirito della vita si trattiene quaggiù?
Vorrò, prefica incresciosa, sedermi sopra gli avelli a empire
di singulti le tenebre? O come vaso di etere lasciato aperto
consumare, - spandendolo, - il dolore?
No; - nel modo stesso che la terra nasconde nelle sue viscere la
gemma preziosa, io voglio conservarmi dentro il seno il mio dolore.
Perchè non dovrei prenderne cura del pari diligente? - Le
foglie che compongono la corona della libertà sono nudrite
col dolore, - le rugiade che l'alimentano, emanano dalle lacrime che
la tirannide ha fatto piangere agli oppressi.
Io nascondo pertanto la lampana sotto il moggio. - Quando
apparirà l'aurora da ben tre secoli desiderata, allora la
riporrò a splendere sul candelabro; - dove le fosse venuto
meno l'umore la riempirò col mio sangue.
O Speranza! o Speranza! Nel delirio del mio affanno, - nella febbre
dei sinistri pensieri, io ti oltraggiai col nome di meretrice della
vita. - Talvolta mi apparisti simili ai fuochi maligni i quali, -
quando la notte è nera e la tempesta furiosa, - si mostrano
al pellegrino smarrito e lo conducono al precipizio; - tal'altra mi
sembrasti fata lusinghiera e fallace che si unisce ai passi
dell'uomo, come l'ombra quando il sole tramonta, e il suo cammino
volge all'oriente e lo mena lontano a insanguinarsi le piante
nell'arduo sentiero della vita. - Spesso l'uomo sconfortato si
abbandona a mezzo della via, e tu allora stacchi dalla tua corona un
fiore stillante di rugiada e, gittandoglielo in volto, gli
rinfreschi la fronte ardente di febbre, e sorridendo un sorriso di
serena lo inviti a continuare di tribolo in tribolo, d'illusione in
illusione fino alla fossa. Tratto che lo abbi in questa parte, tu
intuoni una canzone di scherno, a cui gli angioli rispondono
piangendo, e le bocche dei demonii divampano fiamme di allegrezza.
Leggendo del giuoco sanguinoso che tanto piace allo Spagnuolo, -
allorchè il perfido uccisore si accosta insidiando col
mantello rosso al re della mandra - e glielo para davanti agli
occhi, - e lo induce a piegare il collo per cacciargli tra le
vertebre la spada, - gemei e dissi: Così la Speranza!
Siede intera la umanità al convito di Tantalo, - lei la sete
tormentano e la fame tra sorgenti di dolci acque che rifuggono dalle
labbra inaridite, e tra frutti che si allontanano dalla mano
bramosa. - Te salutai, Speranza, come il più tristo dei
pensieri che nacque in mente a Lucifero - quando col cuore pieno di
rabbia precipitava dal cielo all'inferno.
In cielo, in terra, in mare, tra uomini e tra belve, quanto mi
occorse di perfidamente iniquo osai di assomigliartelo, o Speranza.
Io ti calunniava.
Figlia alata del desiderio, secondo che tuo padre ti genera turpe o
generosa, tu ritorni a rallegrare la mente donde sei uscita, come la
colomba dell'arca con l'olivo in bocca in segno di più felice
avvenire, o, come il corvo, ti svii a divorare i cadaveri.
Tu nasci dal fuoco, però che il desiderio sia una fiamma, - e
s'egli arda fosco e colpevole, tu ti diffondi per l'orizzonte della
vita come fumo di bitume che i venti disperdono, e gli uomini
maledicono; - se invece sieno sacre le fiamme che ti partoriscono,
te accoglie il firmamento candidissima nuvola che la luce ama
tingere nei colori della conca marina, e gli aliti della sera
ondulare soavi, quasi perla sul seno della vergine che palpita. -
Gli uomini desiosi tengono dietro al tuo volo perchè tu
rassomigli lo spirito eletto che muove alle dimore celesti, - il
voto del cuore generoso, - la preghiera di anima innamorata, - e
appresso te sospirano, perocchè pensino che quel gemito a te
affidato possa toccare le soglie del paradiso.
Tu, dea, conosci se i miei desiderii furono per me, - se spuntarono
dalla mia testa truci, quali i serpenti da quella della Gorgone, - o
se piuttosto, a mo' di raggi degni di splendere intorno alle chiome
dei santi; - tu sai che io ho mai desiderato salire per le tre scale
- della ipocrisia, - dell'abiezione, - e della infamia alla reggia
del vituperio; - se mai mi talentò staccare dalla massa di
ferro che si aggrava sul petto degli oppressi una verga onde
batterne a mia posta il capo al mio fratello per fargli sapere che
vivo; - se mai mi prese vaghezza stendere il cavo delle mani ebbre
di cupidigia allo strettoio ove si spremono monete e sangue ai
popoli - la vendemmia dei re!
Il mio desiderio si volse a tutte le nuvole pregne del fuoco celeste
onde lanciassero il fulmine sul capo, - a tutte le pietre
perchè si scoppiassero sotto ai piedi degli oppressori; -
avrei voluto che il mare sopra ogni flutto apportasse loro una
maladizione, - una maladizione cadesse sopra di loro da ogni stilla
di rugiada che emana dalle foglie, - che l'universo avesse una voce
di obbrobrio per quelli che fanno piangere. - O Cristo! non troverai
un'altra piscina entro la quale sanare la umanità dalla
lebbra dei tiranni?
Io ti chiamo in testimonio, o Speranza, se in mezzo alla più
atroce delle sventure che mai possa aggravarsi sopra un cuore
superbo, - la miseria, con la quale tentarono avvilirmi, - io mai
abbia pensato a cosa che fosse turpe, - o se il mutamento della mia
condizione abbia preposto a quello della mia patria.
Nel mio povero tetto educai un cipresso per tesserne ghirlande alla
maestosa defunta, - e venni quotidianamente inaffiandolo col pianto
dei popoli; ma poichè mi avanzava copia di umore - (non ho io
avvertito ch'egli era pianto di popolo?) - spensierato vi piantai
accanto un alloro, - e nello inacquarne le radici, spesso, quasi mio
malgrado, diceva: Forse... chi sa?...
Ora accadde che la terra degl'incliti trapassati è stata
potente ad alimentare ancora l'alloro. - Egli crebbe glorioso
accanto il cipresso. La immagine della morte e la immagine della
vita si confondono insieme, - i rami loro s'intrecciano, - e le
frondi susurrano, quasi due amici che si ricambino misteriosi
colloquii; - forse l'uno confida all'altro il segreto per cui
vediamo che un Dio e un popolo non possono lungamente tenersi chiusi
dentro il sepolcro.
La fenice è una favola, ma un popolo che rinasce dalle sue
ceneri può essere verità...
O Speranza, - quando, votata la coppa dell'ira di Dio, ti contemplai
nel fondo - io volli quinci rimoverti come la più amara di
tutte le fecce, - ma tu mi parlasti dicendo: A che mi getteresti? Io
sola posso riempire questa coppa della linfa di vita, - dell'acqua
che scorre dalle fontane celesti, destinata al battesimo delle
generazioni che rinascono.
Più pietosa assai delle preghiere che Omero cantò, per
rifiuto nè per oltraggio tu ti sdegnasti; - voce mutata e
sembianza, non salisti al cielo ad imprecare vendetta sopra lo
inospitale, - ma sotto rigido aere, per notti procellose, ti sei
posta senza lagnarti a piè della porta, pure aspettando che
ti venissero aperti i domestici penetrali.
Chiusa ch'ebbi la lapide di granito sopra la tomba della patria, -
io vidi la Speranza dall'altra parte del tumulo sorridente e serena.
Poi levò la mano e descrisse col dito teso nei cieli l'iride
dell'alleanza; - poco dopo, agitando le sue bellissime ale di
farfalla, ne scosse una polvere splendida quanto il raggio della
prima stella che scintillò sopra la terra, e - «Se vuoi
un segno», - ella disse, - «volgiti alla terra e guarda
il segno.»
Ed io declinai lo sguardo, e sul granito era cresciuta una messe
degna di lui; - aveva lo stelo di acciaro forbito, la spiga a guisa
d'impugnatura di spada.
«Un angiolo», riprese, «uscirà tra poco dal
tempio e griderà con gran voce: - Mettete dentro la vostra
falce, imperciocchè l'ora del mietere sia venuta, e il
ricolto rimasto sopra terra si secca.»
A che dunque l'angiolo indugia? La raccolta non pure è
matura, ma la terra è stanca di sopportarla.
Quasi turbine di polvere cacciato dal vento, miriadi di giorni al
soffio del tempo passarono sopra la faccia del mondo, - però
quel giorno non cadrà immemore di mano al secolo dentro
l'abisso; schiuse appena le palpebre, la eternità gli
porgerà alimento con le mamelle di bronzo, - i sette giorni
della creazione al suo primo apparire lo saluteranno dicendo:
Quantunque nato a distruggere, tu non ci sei meno fratello; -
benchè tardi venuto, ti sentiamo più grande di noi; -
noi sospendemmo alle volte dell'empireo il sole, la luna e gli altri
luminari, - ma ci dimentichiamo dell'astro senza del quale il sole
non iscalda, non rallegra la luna; campo di morte è la terra,
e che tu vieni adesso per porvi - l'astro della libertà.
Oh quanto tarda questo giorno!
Seduto sopra il colle, come i bardi di sant'Ulfrido, vedrò la
battaglia, - l'ultima che combatteranno gli uomini tra loro, e
celebrerò la vittoria, - la sola forse che il poeta
potrà cantare senza calarsi la ghirlanda sul volto per
nascondere il rossore.
Certo allora il mio sangue mi scorrerà languido nelle vene,
ma un raggio di quel sole lo renderà più vivido che
mai fosse nei tempi della giovanezza, - le sfere si curveranno al
mio orecchio, e l'armonia dei cieli mi sarà rivelata, - lo
spirito dei profeti scenderà sul mio capo, - gli avelli
stessi degli antichi defunti manderanno un suono per rispondere al
cantico nuovo, - all'inno della resurrezione e delle glorie di Dio.
E quando il cantico sarà cessato, - l'ultimo tocco delle
corde e l'ultimo palpito del mio cuore spireranno insieme, - la mia
anima volerà sopra l'estrema vibrazione armoniosa al
principio di tutta armonia.
O figli miei, - io ho molto patito per voi; io merito un premio.
Non vi chiedo lacrime, - perchè non dovete più
piangere.
Non vi chiedo sepolcro di marmo; - egli occuperebbe alcuni passi di
terreno che voi adopererete meglio seminandolo di frumento; - e poi
a me piace la tomba dove ogni anno la primavera rinnuova la verdura,
- e fino d'ora parmi che non morrò intero se sopra il mio
capo farà germogliare la natura erbe odorose e bei fiori.
E nè anche io vi chiedo la fama; - perchè
v'ingombrereste lo intelletto con la ricordanza delle cose che
furono? Gittate la storia nell'inferno, come il dragone
dell'Apolicasse, e suggellatelo con sette sigilli sopra di lui. Che
cosa mai presumereste impararvi? V'imparereste come la colpa generi
la vendetta, e la vendetta la colpa, come il serpe si morda la coda,
ed è cerchio infame di misfatti e di errori. Abbia il tempo i
suoi diritti, continuando il privilegio di Saturno di divorare i
suoi figliuoli; - un giorno anch'egli sarà divorato a vicenda
da sua madre; - il minuto semina l'ora e raccoglie la giornata; - la
giornata semina l'anno e raccoglie il secolo; - l'eternità
semina il tempo e raccoglie la morte, - e morte sia: - perchè
mi dorrebbe la morte del mio nome dopo quella del mio corpo? - Il
lenzuolo funerario non si consuma egli dentro il sepolcro?
Perchè non si dovrebbe logorare anche la fama, ch'è il
sudario funebre dell'anime?
Tutto parla di morte quaggiù. Mentre guardi il cielo, ti si
apre sotto ai piedi una fossa; - mentre vagheggi un fiore sopra la
terra, nel firmamento impallidisce una stella; - e se il tuo capo
riposi sul seno dell'amata tua donna pensando inebbriarli di
voluttà, - ecco, ecco, - bada a questo: le stesse pulsazioni
del suo cuore ti misurano la vita che manca e il tempo in cui ti
avvicini al sepolcro.
Dove sono o come si chiamarono gli uomini che lottarono con le mani
ignude contro ai lioni e rimandarono senza denti la tigre al
deserto? In qual modo si distrussero i giganti, - la razza dei
feroci cacciatori al cospetto di Dio? Dove giacciono i ruderi dei
loro enormi monumenti? Chi visse in Palmira e chi regnò in
Persepoli? Chi cantò prima di Lino e d'Orfeo? Chi
combattè prima di Agamennone? - Anche il firmamento rimase
vedovato dei suoi splendori, - le Pleiadi disparvero, - e non
pertanto quali occhi piansero perduti que' bei raggi del cielo? Chi
di noi può vantarsi più forte dell'elefante -
più bello del destriero, più maestoso del cedro del
Libano? - Eppure chi si curò rammentarci quando l'alligatore
divorò l'elefante, - il cavaliere straziò degli sproni
i fianchi al buon cavallo, - e la scure rapì alla foresta il
suo più nobile figlio?
E chi dunque sono io perchè mi debba increscere la
dimenticanza?
Io però merito un premio, e ve lo domando. Deh! fate che
prima di chiudersi nel sonno della morte questi miei occhi possano
vedervi liberi e felici sopra la terra dei vostri padri.
E questo è il premio ch'io domando da voi.
E veramente parve che questo premio avrei potuto avere correndo gli
anni di Cristo Redentore 1848, ma noi Italiani uomini mancammo alla
fortuna, non la fortuna a noi. Adesso vecchi ed affranti, fummo
condannati al martirio di Sisifo: non importa; amici antichi siamo
la sventura e noi, sicchè prima andrà sbrizzato il
sasso che cessi il talento e l'opera di rotolarlo. Questo imparammo
dai nostri padri, questo insegnammo ai nostri figliuoli. Nell'ora in
cui scrivo, la mia anima va ingombra di molta amarezza,
dacchè consideri starci il mondo intero nemico e la Francia
peggio degli altri; ella non ha neanco parole per noi, o le ha
stolte, qualche volta maligne; non importa: noi vogliamo essere
liberi dalla oppressione straniera.
INDICE
Introduzione
CAPITOLO I. Nicolò Machiavelli
II. La ritirata d'Arezzo
III. Il papa o l'imperatore
IV. La incoronazione
V. Papa Clemente VII
VI. Lucrezia Mazzanti
VII. La pratica
VIII. Giovanni Bandino
IX. Michelangiolo Bionarroti
X. Fra' Benedetto da Foiano
XI. Il profeta Pieruccio
XII. Maria dei Ricci
XIII. L'assalto notturno
XIV. Il Morticino degli Antinori
XV. Andrea del Sarto
XVI. La vendetta
XVII. Le baldracche
XVIII. Amore
XIX. La sfida
XX. Il guanto
XXI. La separazione
XXII. Il duello
XXIII. La morte
XXIV. Il sacco di Prato
XXV. Volterra
XXVI. Il traditore
XXVII. Il calcio
XXIII. Finis Florentiæ
XXIX. La battaglia della Gavinana
XXX. La vendetta degli uomini e il castigo di Dio