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Piero Gobetti

Risorgimento senza eroi
e altri scritti storici


Indice generale
INDICE    
Risorgimento senza eroi    
Prefazione    
Introduzione
 IL PIEMONTE STORICO    
Capitolo primo
 L'ERESIA DEL RISORGIMENTO    
Capitolo secondo
 IL PIEMONTE NEL SETTECENTO    
1. Il conte Radicati.    
2. La politica dei Concordati.    
3. Controenciclopedia preventiva.    
4. Il «caso» Giannone.    
5. Il fallimento dei moderati.    
6. Il conte Vasco.    
7. Alfieri.    
8. Le plebi e l'economia.    
9. L'ultimo del vecchio regime.    
La filosofia politica di Vittorio Alfieri    
Prefazione    
1. Alfieri e la critica.    
2. Machiavelli e il carattere della filosofia alfieriana.    
3. La gnoseologia.    
4. Polemica anticattolica.    
5. Polemica antimonarchica.    
6. La morale e la metafisica della libertà.    
7. La religione.    
8. La politica.    
APPENDICE  Le tragedie come fonte del pensiero politico alfieriano.    
Altri scritti sul Risorgimento    
LE SCUOLE DI METODO    
DOMENICO BERTI,  PEDAGOGISTA,
 FILOSOFO E POLITICO
( Spunti di una rivalutazione)    
LA LIBERTÀ D'INSEGNAMENTO
 IN PIEMONTE    
LA CRISI RIVOLUZIONARIA
 DELL'OTTOCENTO IN ITALIA    
LA FILOSOFIA DI LUIGI ORNATO E LA CULTURA POLITICA DELL'OTTOCENTO    
LA SCUOLA IN PIEMONTE PRIMA DEL 1844    
CATTANEO    
IL PENSIERO E L'OPERA DI
GIOVAN MARIA BERTINI    
RICORDI DI UN REAZIONARIO    
UN PRUSSIANO TRA I BRIGANTI    
IL MISTICISMO DI LUIGI ORNATO    
IL ROMANTICISMO CRISTIANO DI
 DI BREME    
LE «MEMORIE» DI CESANA    
SANTORRE DI SANTAROSA    
MILANO NAPOLEONICA    

Prefazione

Mon langage n'était pas celui d'un esclave.

Il Risorgimento italiano è ricordato nei suoi eroi. In questo libro mi propongo di guardare il Risorgimento contro luce, nelle piú oscure aspirazioni, nei piú insolubili problemi, nelle piú disperate speranze: Risorgimento senza eroi.

Il dramma del Risorgimento è nei tormenti della sua preparazione e della sua mancata preparazione. È materia per quelli che si sono scelta la parte dei precursori, dei disperati lucidi, dei vinti che non avranno mai torto perché nel mondo delle idee sanno far rispettare le distanze anche ai vincitori delle sagre di ottimismo. La storia è infallibile nel vendicare gli esuli, i profeti disarmati, le vittime delle allucinazioni collettive. Anzi prima della storia, questi fanatici della verità, paghi della solitudine, sanno vendicarsi da sé.

Ho scelto per la mia storia un centro d'osservazione che mi permettesse di vedere lontano e senza che fosse per ciò troppo frequentato: il Piemonte. Cosí ho potuto offrire delle indagini personali, logicamente connesse in modo che il quadro fosse completo senza che io dovessi riassumere risultati già noti e giudizi correnti. Dei personaggi e degli episodi piú discussi ho preferito parlare soltanto per cenni.

L'esposizione non piacerà ai fanatici della storia fatta: essi mi attribuiranno un umore bisbetico per rimproverarmi lacune arbitrarie. Ma io non volevo parlare del Risorgimento che essi volgarizzano dalle loro cattedre di apologia stipendiata del mito ufficiale. Il mio è il Risorgimento degli eretici, non dei professionisti.

P. G.

Introduzione

IL PIEMONTE STORICO

Carlo Felice fu l'ultimo re piemontese. Quartogenito di Vittorio Amedeo III, educato secondo il cerimoniale spagnuolo, ma tenuto lontano da ogni ambizione regale, poi ultimo sopravvissuto della famiglia, governò con la maschera di freddezza e il calcolo di astuzia di una vittima che ha ottenuto la sua rivincita quando non la sperava piú. L'audacia battagliera dei re del Settecento si attenua in lui per il ricordo dell'onta subita durante il periodo napoleonico.

Nell'amletismo di Carlo Alberto c'è tutto il disorientamento della provincia di fronte all'Europa moderna.

Dal '49 al '65 il Piemonte si sacrificò all'Italia per conquistarla. Antepose De Sanctis, Spaventa, Mancini, Ferrara a Boncompagni, Bertini, Balbo, Berti. Cavour conquistò l'Italia, ma gli italiani dal '48 al '59 avevano conquistato e disindividuato il Piemonte.

Ad unità compiuta il Piemonte si trova privo delle sue caratteristiche, proprio mentre le altre regioni le hanno accentuate. Dopo il '61 infatti si assistette a una serie di reazioni locali e di violento regionalismo, dal brigantaggio alla polemica federalista, che cercarono e sfruttarono tutte le tradizioni antiunitarie delle città e delle province. Torino invece si dovette proporre il compito nuovo, che Milano aveva imparato sotto l'Austria, di tenere il collegamento tra gli istinti africani della penisola e la civiltà europea.

Se non si valuta questa crisi, non si spiega lo spirito piemontese degli ultimi cinquant'anni. Sussiste un'eredità storica di sentimenti e di istinti non raccolta, quasi disprezzata, che tuttavia continua a pesare sul presente.

I valori del Piemonte di Carlo Felice erano la burocrazia e la diplomazia; gli ideali, la vita aulica e cavalleresca. La monarchia piemontese era stata audace e avara, gretta e avventurosa. Ma nel vecchio regime il culto della virtú s'era conservato. È innegabile che questi motivi serbino un fascino sugli animi dei piemontesi contemporanei, anche se essi non rileggono piú i romanzi di Calandra che ne sono nostalgicamente pervasi.

Del resto Settecento e Vecchio Regime rammentano caratteri della terra ancora attuali: il culto della pratica e il disdegno per le complicazioni psicologiche e romantiche. Il Piemonte ha sempre risolto i suoi problemi spirituali con una formula rigorosa: confinare le eresie all'estero (Radicati, Baretti, Alfieri) e accettare la religione piú facile e convincente: il cattolicismo inteso come ossequio all'autorità. I tentativi romantici del principio del secolo scorso non ebbero consensi né tra il popolo né tra le classi dirigenti.

L'esperimento più interessante in materia religiosa si ha da un punto di vista strettamente politico: ed è la pratica della tolleranza di fronte a tutte le fedi cui i principi di Savoia si mantennero fedeli sin dal Seicento e che sboccò nella grandiosa politica cavouriana. Ma contro chi volesse affacciare un'interpretazione protestante di questo fatto – che infatti a primo aspetto sembra seducente – basterebbe obbiettare il carattere rigidamente giuridico dell'esperimento: i valdesi furono tollerati, ma confinati nelle valli piú solitarie! E la legislazione sabauda li proteggeva e li garantiva, purché non scendessero al piano.

Questo è lo spirito del vecchio Piemonte, scontroso e aspro come le sue montagne, diffidente e inaccessibile, ma conciliante e tenero verso le questioni di buon senso. Non era terreno da Riforma o da ardori religiosi, e infatti Gioberti non vi ebbe mai – se non in qualche allucinazione tribunizia, durata pochi giorni – la popolarità che accendeva nel Mezzogiorno. Forse i piemontesi neppure avrebbero capito le sue formule, se Balbo non si fosse offerto come interprete scrupolosamente realista e nemico di utopie. Lo spirito rappresentativo dei tempi e dei costumi era per molti aspetti Solaro della Margherita. La filosofia importata da Rosmini non trovava cultori degni di partecipare alla storia europea; la letteratura, memore di Alfieri soltanto per un residuo di aspirazioni ribelli, si diffondeva in forme di divulgazione, con tutto lo stento e il pedagogismo impoetico che si sente nelle opere non dialettali di Bersezio e nello stesso D'Azeglio.

Questi esempi di fallimento bastarono per distogliere i piemontesi intelligenti dalla letteratura. La scapigliatura milanese vi trovò seguaci di gusto come il Cagna, vivente e dimenticato. Il periodo di fiorimento della letteratura a sfondo locale diede il frutto delle Novelle e paesi valdostani; ma tutte le manifestazioni finivano per dipendere dal verismo che Milano diffondeva corrompendolo con le mediocri aspirazioni romantiche di un piccolo mondo borghese. Il Piemonte era indifferente a questa letteratura e a questa morale e riuscí a ironizzarle con stanchezza decadente nell'opera di Gozzano. Il fallimento dell'eredità alfieriana non poteva essere piú sconsolante e aveva tutto il sapore di una disfatta di isolamento locale. Non c'era posto per innovatori. Anche Cena deve portare lontano il suo idealismo umanitario e inquieto e lasciare il posto al moralismo piú accomodante di Edmondo De Amicis.

E per condiscendenza naturale si lasciava la letteratura alle scrittrici come a quelle che potevano parlare piú propriamente un linguaggio da svagati, con risonanze e imitazioni colte da tutte le parti in un momento storico di pausa.

Per rinascere il Piemonte cerca altre vie. Dedica il fervore religioso di cui si era dimenticato dopo le guerre feroci dell'alto Medioevo a costruirsi un'economia e una vita sociale autonoma. L'eredità del liberalismo cavouriano è stata per cinquant'anni abilità amministrativa, spirito di trasformismo, giolittismo. Senza dubbio nella figura di Giolitti i piemontesi si erano abituati a sentire l'istinto della razza fatto di fiducia nella forza personale e di superiorità sulle circostanze.

Ma l'avvenire politico della regione, pur non rinnegando queste qualità diplomatiche, è altrove. In pochi decenni di lavoro Torino si è trasformata in un centro di grande iniziativa industriale. Trent'anni fa era ancora il paese delle piccole e medie intraprese, di una scarna e debole borghesia. Oggi ha creato la Fiat, un'azienda internazionale che è stata capace di reggere alla crisi travolgente del dopo guerra. Si potrebbero tentare analisi e riferimenti storici piú sottili e cogliere le psicologie nuove che questa vita della fabbrica viene determinando. Non sarà piú plebe: sarà un proletariato fedele alla dignità del lavoro e all'umiltà del sacrificio. Silenzio, precisione, coscienza tesa e presente sono indispensabili in questo ritmo di vita. Il senso di tolleranza e di interdipendenza costituirà il fondo severo di questi spiriti nuovi: e la sofferenza contenuta dovrà alimentare, con l'esasperazione, le virtú della lotta e l'istinto della difesa politica. Da queste esperienze nascerà la rivoluzione spirituale di questo popolo vissuto di rassegnazione e di mediocrità. Nel secolo scorso non bastò la cultura a svegliarlo. Sarà l'affermazione di un proletariato umile e trascurato, che vuol diventare democrazia moderna, l'origine di una cultura e di una civiltà che potranno trovare qui il loro terreno naturale. È tutto il Piemonte che oggi lavora utilizzando le virtú pratiche tradizionali per questa rivoluzione unitaria, per questo Risorgimento. Le glorie di Roma e le sagre del bel Cinquecento ci commuovono meno di questa umiltà di lavoratori. E ci sentiamo italiani e europei, e confortiamo i trepidi dubbi nella nostra pensosa fedeltà a questo Piemonte.

Capitolo primo
L'ERESIA DEL RISORGIMENTO

Il Risorgimento italiano è un frutto originale o segue l'imitazione francese? Nasce dal tormento teorico del Settecento o è tutto nelle astuzie diplomatiche dell'Ottocento? Si può parlare di una filosofia, di una verità che costituisca l'essenza del Risorgimento?

Una risposta a queste domande è data dalle ricerche che verremo qui esponendo.

Il nostro Risorgimento ha chiesto una sanzione e un contenuto allo spirito di lotta e di iniziativa del popolo. Solo questa partecipazione poteva garantire l'esistenza e la circolazione (nel noto senso paretiano) di classi dirigenti capaci di agire nello Stato moderno. Tutto il resto è utopia o letteratura.

Nel Settecento la vecchia classe politica, aristocratica ed ecclesiastica, pareva in Europa pressoché esaurita. In Francia e in Inghilterra il Terzo Stato era pronto alla successione. Invece in Italia l'economia arretrata non poteva ancora fondarsi sull'abbondanza e sulla rapidità di circolazione del capitale mobile, che sono necessarie per alimentare una borghesia.

Dev'essere l'iniziativa del principe a opporre tra noi le classi popolari appena sorgenti e immature alle classi dominanti privilegiate, il cui potere soverchio non garba al sovrano. Questa è la diagnosi piú definitiva del fenomeno centrale del Settecento: l'assolutismo illuminato. Ecco perché la lotta contro il feudalismo è condotta in nome delle prerogative regie e si risolve a favore dello Stato centralistico attraverso le riforme.

Verri e Beccaria si trovano, col paterno governo austriaco, in una situazione di leali servitori. Filangieri costruisce nobili piani giuridici, senza pensare alle rivoluzioni né alle forze popolari né alla libertà. Il modello è un ideale che sta tra Montesquieu e i costituzionalisti inglesi e non promuove rivolte contro il passato in nome di idee nuove o di stile liberale. La mentalità prevalente è conservatrice, con le preoccupazioni laiche e filantropiche che sono in favore nelle Corti e sembrano utili al dispotismo. Memori che la monarchia francese si è alleata alla Sorbonne e alla burocrazia contro la Chiesa, i nostri riformatori vogliono una moderata applicazione di illuminismo europeo. Però manca lo stimolo di una critica repubblicana e rivoluzionaria.

In riassunto la politica settecentesca è fatta su questi dati:

1) una monarchia, che domina tutte le forze sebbene sia in decadenza nel Sud, e ancora impotente, ma lungimirante e audace nel Piemonte;

2) nobili e grandi ecclesiastici: reazionari, feudali e teocratici perciò alleati;

3) plebi assenti, escluse dalle poche industrie, condannate al pauperismo e all'elemosina, clienti delle parrocchie;

4) la classe politica, in scarsa parte proveniente dalla borghesia dei nuovi ricchi o dei professionisti, nella sostanza formata da nobili, piú fedeli al principe che al feudalismo, perché educati secondo tradizioni burocratiche o militari.

Nel Settecento l'iniziativa è del principe; nell'Ottocento passa a questa nuova classe politica: e perciò solo nell'Ottocento si può parlare di Risorgimento e di uomini nuovi. Gioverebbe un parallelo D'Ormea-Cavour. Cortigiano D'Ormea, con gli espedienti dell'intrigo e la maschera del negoziatore. Cavour temperamento europeo capace talvolta di fondare la diplomazia sulle risorse della sincerità: lo sguardo acuto rivolto ai fatti economici, capiti come preparazione subacquea del fenomeno politico.

Tra D'Ormea e Cavour c'è stata la rivoluzione francese, dalla quale il nostro Risorgimento non può e non deve prescindere anche se vi reagí persino col misogallismo.

Alfieri fu il solo italiano che vedesse anche per noi in pieno Settecento la possibilità di una rivoluzione dal basso in senso unitario, condotta da aristocrazie repubblicane. Il suo pensiero è originale e anticipa la rivoluzione francese. Egli è un riformatore: ma le sue profezie hanno un rigore logico implacabile, mentre i nostri patrioti furono trasformisti.

Ecco in schema una storia dell'Ottocento.

Mentre le nazioni europee si sono liberate, con le guerre di religione, da tutte le ideologie dogmatiche, gli italiani non possono pensare ad una riforma religiosa, impegnati come sono dalle contingenze a distruggere il dominio territoriale dei pontefici; volendo essere laici soprattutto nella sostanza, essi si adattarono a professare un rispetto teorico alla Chiesa, e la attaccarono con armi politiche invece che sul terreno dogmatico. Cosí il Risorgimento resta cattolico, complici gli stessi eretici.

La preparazione ideale della lotta politica si esaurisce nel romanticismo, che oppone il cristianesimo spiritualistico al cattolicismo reazionario della Santa Alleanza.

Tuttavia questo opportunismo è machiavellico. La Chiesa ha fatto causa comune cogli assolutismi. Le monarchie, e specialmente la sabauda, sorprese e compromesse dai primi movimenti del secolo, hanno ceduto il loro posto di avanguardia e seguono l'equilibrio generale, retrive e non più progressiste. Le plebi continuano a vivere intorno ai conventi e agli istituti di beneficenza, tutti cattolici; e restano cattoliche per istinto, per educazione e per interesse. L'iniziativa spetta alla nuova classe borghese che attua con Cavour la politica antifeudale del liberalismo economico, per potersi dedicare ai traffici, alle industrie e ai risparmi, e formare la prima ricchezza e il primo capitale circolante in Italia. Come potrebbe questa classe proclamare una politica anticlericale fuorché nella questione dello Stato Pontificio? Essa si troverebbe assolutamente isolata mentre la sua vittoria è subordinata alla possibilità di trascinare con le astuzie diplomatiche le altre classi, volenti o no, sulla sua via. Tutte le idee prevalenti nella penisola son cattoliche o cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini). Solo le minoranze politiche, sicure del loro compito storico, sentono piú forte di tutti il dovere della fedeltà allo Stato e credono alle nuove esigenze economiche.

Il neoguelfismo è lo stratagemma per cui le masse avverse al programma nazionale borghese sono indotte a seguire le minoranze. Il liberalismo laico e moderato per evitare l'isolamento e per non trovarsi nemiche nello stesso tempo le plebi e la reazione, mette avanti idee banali e programmi di compromesso.

Cosí questa minoranza borghese riesce a conquistare la monarchia, sempre incerta, e a servirsi del suo prestigio. Vittorio Emanuele II crede di allargare i confini del Piemonte e serve al programma di Cavour che gli trasforma le basi dello Stato, facendo in un regno costituzionale un governo parlamentare. E gli storici si domandano ancora come Cavour potesse farsi aiutare dalla borghesia francese!

È ovvio che questa classe politica non possa bandire troppo apertamente le idee di libertà e di democrazia odiate dalle stesse plebi borbonicamente retrive. Essa conserva il suffragio ristretto, addomestica garibaldini e borboni con gli impieghi di Stato, esercita una generica propaganda patriottica, facendo giuocare l'equivoco del cattolicismo liberale. Mancavano forze e partiti ordinati: si supplí con volontari e avventurieri. Il nebuloso messianismo di Mazzini, l'entusiasmo di Garibaldi, l'enfasi dei tribuni furono le forze che favorirono un equilibrio provvisorio. Tutto questo è materia incomposta e vi affiorano i piú profondi vizi della razza: una direzione si deve a Cavour. Egli è lo spirito provvidenziale, l'originalità del Risorgimento.

La rivoluzione francese ha le proporzioni di un grande dramma ora nazionale, ora europeo. È la rivendicazione di masse popolari nuove, rivolta di popolo condotto da scelte guide borghesi contro classi in decadenza.

Il Risorgimento italiano invece è la lotta di un uomo e di pochi isolati contro la cattiva letteratura di un popolo dominato dalla miseria. La storia civile della penisola pare talvolta il soliloquio di Cavour, che da una materia ancora informe in dieci anni di diplomazia cerca di trarre gli elementi della vita economica moderna e i quadri dello Stato laico. In realtà, specialmente quando è solo, Cavour ubbidisce a una segreta voce della storia e ad un oscuro destino della razza, che sembra annunciarsi durante tutto il Settecento in misteriosi profeti disarmati, sorpresi dalle tenebre, appena indovinano la luce.

Capitolo secondo
IL PIEMONTE NEL SETTECENTO

1. Il conte Radicati.

La vita. Nel Settecento «i Piemontesi godevano di un dolce riposo e di una libertà pressoché grande come quella dei fortunati popoli della Gran Bretagna. Infatti i preti che parteggiavano per la Corte di Roma non avevano potenza né credito e quelli che favorivano la nostra Corte erano buone persone che odiavano a morte la gerarchia ecclesiastica, non potendo sperare nella loro carriera un vescovado o una ricca prebenda. Queste ottime persone predicavano sempre ed in ogni luogo a favore del sovrano ed era loro concesso valersi del suo favore per difendere la buona causa. Ed io, che ero fedele ed affezionatissimo al mio sovrano, la difesi cosí bene che gli ecclesiastici partigiani della Corte di Roma mi onorarono col titolo di eretico perché, dicevano, io protestavo continuamente contro i vizi e gli abusi del nostro clero. E insomma feci il mio dovere cosí compiutamente che fui citato tre volte dinanzi all'inquisitore per imputazioni che mi restarono sempre sconosciute; ma io me ne vendicavo allegramente non andandoci. Cosí mi condannarono in contumacia, attendendo tempo piú favorevole per seguire la crudele sentenza di questo tribunale»1.

Veramente la politica ecclesiastica fu per il Piemonte del Settecento la prima esperienza di una volontà statale moderna. Nelle vicende di Vittorio Amedeo II, impegnato dal 1686 al 1727 ininterrottamente in lotte religiose e in conflitti di giurisdizione con vescovi e arcivescovi del suo territorio, si scorgono tentativi di una politica laica. Le lotte religiose erano allora piuttosto contrasti di piccoli interessi, non sostenuti né da ideali politici inesorabili, né da limpide visioni giuridiche; ma in questi argomenti l'umile pratica viene sempre prima delle idee. E ci troviamo, a secoli di distanza, a riconoscere difensori di laicità, trascinati da una logica superiore alla loro grettezza, anche certi buoni duchi di Savoia, voraci goditori di badie, astuti nel contenderle alle decisioni ecclesiastiche per attribuirle a bastardi e a favorite. Invece che di una lotta per le investiture si tratta della piccola astuzia del duca che nutre ambizioni regali. Non si deve dar torto al marchese D'Ormea di aver lavorato in queste situazioni «religiose» da buon diplomatico, senza risparmiare ipocrisie e tranelli, come se la questione fosse tutta di bilancio e di equilibrio internazionale.

Ma sembra qualcosa piú che una curiosità storica ricordare che alla Corte di Savoia vi fu in quegli anni accanto ai diplomatici il teorico, accanto ai riformisti il riformatore, pronto a dare un contenuto dottrinale alla battaglia pratica, gridando la sua protesta.

Curiosa figura di canzonatore dell'Inquisizione, il conte Adalberto Radicati, e non sapresti dire se piú bizzarro nella vita o più originale negli studi!

Si nota in quest'uomo lo spirito di una nobiltà antica e inquieta, capace non tanto di teorie quanto di fortissime reazioni critiche a idee dominanti, inetto a soddisfare la passione innata verso la politica per il desiderio sempre teso di avventure; cervello anarchico e aspirazioni autoritarie, imprigionate nel lealismo piú entusiastico. Nella vita piemontese fu il primo nobile clamorosamente ribelle allo spirito di casta dei nobili. L'aristocrazia rispose mettendolo al bando. Nonostante le sue ambizioni di vita di Corte a vent'anni era già solo, perseguitato dalla fama di intrattabile, nemico di tutti. Per l'odio altrui la sua bizzarria s'irrobustiva. Lasciato solo, rinnegato, il suo spirito di contraddizione parve piú acuto, piú implacabile. Perciò interessano singolarmente la sua formazione mentale e il suo coraggio.

La ragion di Stato gli ispirava un odio anticlericale furente e Vittorio Amedeo ne traeva partito negli anni in cui la lotta con la Corte di Roma era più accesa.

Chiamano un giorno d'urgenza il conte alla Reggia. «J'y allai un peu inquiet», e vi trova in anticamera il procuratore fiscale e il grande inquisitore che attendevano seduti vicino al fuoco: «il n'y manquoit que le bourreau et mon affaire étoit faite». Ma il principe «d'une maniere fort affable et gracieuse» gli conferma la sua fiducia benché contro il conte sia stata presentata proprio in quel momento accusa di ateismo. «C'étoit la méthode ordinaire du Clergé de décrier par le nom odieux d'athée, tous ceux qui ne veulent pas s'en laisser imposer en matière de foi».

« – Connoissez-vous, – me dit-il, – les droits des rois et de l'Eglise? – Je lui repartis humblement que j'en avois fait ma particulière étude depuis plusieurs années». E gli presenta la sua tesi radicalissima: non si deve permettere ai sudditi di riconoscere altro diritto che quello del loro sovrano.

« – Que deviendroit donc l'autorité de l'Eglise, – me repliqua ce roi, – si le prince suivoit cette maxime? – Elle deviendroit, Sire, – lui répondis-je, – une chimère telle qu'elle est». E del resto: «Bien loin d'être divine, l'autorité du Pape, je puis prouver a Votre Majesté qu'elle est entièrement contraire à l'esprit de l'Evangile». Alla fine del colloquio, il principe pensa di utilizzare queste nuove dottrine e gli dà incarico di scriverne un libro. «Je me chargeai avec un plaisir extrême de cette commission, me flattant de pouvoir un jour délivrer ma patrie du cruel joug des ecclésiastiques»2.

Vittorio Amedeo II, re di maschia prepotenza e di ingegno implacabilmente autoritario, era il solo piemontese del tempo che potesse capire questo suo suddito: Radicati nella sua sicurezza di visionario non seppe accorgersi che il re diplomatico lo capiva senza rinunciare a tradirlo.

Già con le sue idee fisse il conte doveva apparire ai contemporanei un tipo di stravagante, di inconsulto nemico del quieto vivere, meritevole di tutte le persecuzioni. Ebbe inimicizia giurata dai parenti. Chi piú lo praticava da vicino piú si esasperava della sua spregiudicatezza. Egli portava il suo singolare senso di inopportunità negli stessi affari domestici. Il suo primo matrimonio si risolve in pettegolezzi e scandali; «due inique femine» sono per lui la moglie e la suocera. Muore la moglie, lo accusano di veneficio e si può salvare a stento allegando il consulto del medico Cicognini. Piú tardi durante una peregrinazione in Francia risolve di unirsi ad una persona che per raggione e per affetto tutta dipendesse dai miei voleri» e porta la seconda moglie, non nobile, a Passerano, urtando i piú rigorosi misoneismi. Quivi contraddice clamorosamente ai nobili del suo consortile, in lotta fiera con la plebe, predicando che «in un governo monarchico e assoluto il nobile come il plebeo sono parimenti sudditi del principe, dimodoché il principe deve rendere giustizia eguale al ricco come al povero, al nobile et al contadino per farsi temere ed amare ugualmente da tutti e potere cosí facendo mantenere sempre la sua autorità assoluta»3. Nel tempo di queste polemiche e delle seconde nozze, non aveva ancora passati i ventitré anni. Precoce come Vittorio Amedeo II.

Cerca nuovi nemici a Torino dimostrando ai cattolici che «la superstiziosa venerazione e il troppo rispetto che essi avevano per il vescovo di Roma loro facevano dimenticare quello che legittimamente devono al loro principe». Anche secondo Cristo «tutti i regni, tutte le province et insomma tutta la terra con le sue ricchezze doveva essere comandata e ordinata e posseduta da monarchi, principi o repubbliche, da tutti quelli che hanno il maneggio del civile governo, che a loro appartiene lo stabilimento delle leggi e di farle osservare dai popoli non solamente laici, ma anche ecclesiastici».

Di qui minacce dell'inquisitore: vane perché egli potrebbe essere arrestato soltanto se capitasse nel convento dei Domenicani dove è posto il Tribunale dell'Inquisizione «di che venni avvertito, dimodoché non capitai piú in quella Chiesa e quindi certamente perdetti la protezione del gran Domenico e dei suoi discepoli». Gli arrestano i Domenicani un cameriere «il quale ogni mattina udiva due o tre Messe et pareva che si nutrisse di Avemaria e di Paternoster perché sempre li aveva tra i denti et era delle compagnie fradelato e arolato». Ma sperano invano che, venendo al convento per averne spiegazione, egli cada nel tranello.

Tuttavia solo per l'ultima insidia di questa diuturna battaglia mossagli da preti e frati gli pare di poter conoscere «la frode e l'impossibilità che vi è di potersi fidare a coloro che militano sotto le insegne de' frati che sono la cintola di sant'Agostino, la corda di san Francesco e il rosario di san Domenico e un'infinità d'altre bande dette Compagnie, tutte inventate e stabilite per cavar denari e la divozione del popolo ignorante e superstizioso». Solo il favore del re lo salva contro l'accusa che gli fanno gli ecclesiastici «fra i quali vi era la stessa mia sorella monaca in Santa Chiara di Chieri», di maltrattare la figlia e trascurarne l'educazione. Non era vero e soltanto «non era ancora stata a confessarsi, ma ne dilungavo il tempo espressamente per mantenerla in quello stato innocente che fu ritrovata dal ministro di Sua Maestà quando gliela consegnai; perché sapevo che la Confessione è lo scoglio contro del quale fa sempre naufragio l'innocenza delle tenere verginelle; imperocché non sapendo esse che dire è di dovere che il confessore le interroghi e alle interrogazioni imprudenti e ai quesiti disonesti e lascivi talvolta ignorantemente e ben spesso maliziosamente fatti dai confessori egli è certissimo che per queste sante strade di penitenza il vizio e la malizia s'insinuano nei cuori innocenti».

Fu la sua ultima vittoria contro le persecuzioni4. Il marchese D'Ormea stava preparando il concordato con la Corte di Roma, la tregua era imminente. «Je pensais donc à me mettre à l'abri de l'orage qui me menaçoit et pour cet effet je me refugeai en Angleterre» (1726). Gli furono confiscati i beni (1729), poiché non gli si poteva apprestare il rogo. I contemporanei rimasero incerti se chiamarlo ateo o protestante o razionalista. Quale scandalo lasciasse dietro di sé si scorge in certi Riflessi politico-morali sopra il Manifesto del Conte Adalberto Ignazio Radicati di Passerano, scritti probabilmente da un nobile del suo stesso casato, conservatore e rispettoso di tutti i pregiudizi correnti, il quale giudica la sua opera «solenne ragazzata d'un cervello capriccioso e giovinastro, vano, bizzarro e torbido». Anche il Blondel scrive: «Era un pazzo, un empio dichiarato, ateo in fondo»5.

I casi della sua vita lasciano indecisi anche noi se le sue fossero convinzioni meditate o accese improvvisazioni. C'è in lui qualcosa di troppo avventuroso. Vediamo dunque quello che ci dicono le sue opere.

L'opera. «Au Serenissime et très puissant Prince Don Carlos Roi de Sicile, héritier présomptif du Grand Duché de Toscane, Duc de Parme et de Plaisance, etc., etc.» è dedicata per disperazione l'opera compiuta da Adalberto Radicati, dopo che egli aveva tentato invano di presentarla a Vittorio Amedeo II e a Carlo Emanuele III: la stampò in Olanda, seconda patria di Locke e di Bayle: fioriva nella libera Olanda l'arminianismo che aveva ereditato dai sociniani l'idea di tolleranza6.

Già dalla dedica puoi arguire il carattere del libro nel quale cercheresti invano lo stile teorico e le intuizioni metafisiche e critiche predominanti negli scrittori inglesi degli stessi argomenti. E del resto i Discours moraux, historiques et politiques, fanno parte di una raccolta tipicamente settecentesca a cui il Radicati ha dato il titolo quasi modesto e quasi malizioso di Recueil de pièces curieuses sur les matières les plus intéressantes. Chi volesse ricostruire dai dialoghi di Radicati un edificio logico, compiuto, non comprenderebbe i veri pregi di un'opera che è tutta scritta sotto l'incalzante necessità polemica, tra un'alternativa di vita o di morte. Il teorico è sacrificato al combattente.

Peraltro la stessa cultura del Radicati ci può trarre in inganno. È il primo italiano che abbia familiari scrittori come Toland, Collins, Algernon Sydney, Bayle, Voltaire. La prontezza e la vastità delle sue letture sono talvolta impressionanti. Soltanto sette anni dopo che Gionata Swift aveva pubblicato la sua celebre Modesta proposta, Radicati ne stampava, in Olanda, una traduzione francese in uno stile impeccabilmente ironico, bene intonato a tutto il Recueil. Scelta e traduzione ci dicono il suo gusto per gli scrittori piccanti e per la fronda democratica.

Nato intorno al 1690, morto nel 1737, è il primo illuminista della penisola7. Giannone, Verri, Beccaria sono anticipati. La sua passione vive nell'atmosfera europea del libero pensiero. Sulle orme di Locke indovina Rousseau, parlando di stato di natura e di governo del popolo. Teorizza i governi costituzionali; riconosce l'eguaglianza pratica delle varie forme statali (monarchia, aristocrazia, democrazia), quando siano liberamente accettate e si fondino sulle leggi (Discours, X, pp. 184-86). La laicità è un risultato chiaro e definitivo del suo pensiero.

Tuttavia anche nelle piú acute disquisizioni teoriche c'è sempre un fondo di dilettantismo. Si trovano proposizioni rigorosamente moderne, ma non si vince il dubbio che le parole corrano oltre le intenzioni, che la sua cultura resti vaga e indipendente dal suo istinto e dal suo carattere. Per credergli vorremmo la costanza, come prova di convinzioni meditate e troviamo invece segni di mutevole esotismo. Non saremo lontani dal vero concludendo questa circoscrizione dei suoi limiti di pensatore col segnalare come enciclopedista piuttosto la sua curiosità che il suo pensiero. La categoria del romanticismo, o del protoromanticismo di cui parla Croce per l'Alfieri, aderisce meglio a questo spirito di avventura. Cosí resterebbero senz'altro definiti certi suoi spunti di cristianesimo ostile ai dogmi e alle intransigenze del cattolicismo, vago cristianesimo che ricorre, durante tutto il Risorgimento, nei nemici dell'ortodossia.

«Se Gesú Cristo ha comandato l'umiltà e la carità ed è stato umile e caritatevole, se gli Apostoli hanno insegnato le dottrine di Gesú Cristo e imitato il suo esempio; e i primi cristiani durante duecento anni sono stati gli imitatori degli Apostoli, noi dobbiamo credere positivamente che le dottrine insegnate in seguito – assolutamente opposte a quelle di Gesú Cristo, degli Apostoli e dei primi cristiani – e i costumi dei moderni cristiani cosí lontani da quelli di Gesú Cristo e dei suoi primi discepoli; dobbiamo credere positivamente, dico, che non siano piú le stesse dottrine né gli stessi costumi, né in una parola gli stessi cristiani: quelli furono umili e questi sono ambiziosi. Quelli furono caritatevoli e disprezzarono le ricchezze, questi perversi e vendicativi. Dunque bisogna chiamarli nemici di Gesú Cristo e delle sue leggi e non suoi discepoli.

«Poiché Gesú Cristo non ha comandato nulla che sia contrario alla giustizia e alla virtú, ma ha stabilito savie leggi e se tutti le avessero osservate gli uomini vivrebbero pacificamente e sarebbero felici. Ma per loro estrema sventura essi non osservarono piú le dolci leggi di Gesú Cristo, bensí quelle dei preti suoi nemici, leggi crudeli ed inique, che privano gli uomini della libertà data loro dalla natura e da Cristo e li rendono miseri schiavi delle loro ambizioni» (Discours, II, pp. 36-37)

Questa opposizione del cristianesimo al cattolicismo potrebbe introdurci nello specifico terreno della Riforma, ma Radicati, dopo la satira o il motto di spirito, non osa darci svolgimenti teorici. Sfiora le piú scottanti questioni senza affrontarne né vederne i pericoli. La sua indulgenza ai motivi voltairiani di stile è un segno non dubbio di spirito d'avventura.

Per trovare un terreno piú solido e un interesse organicamente centrale dobbiamo passare all'esame del diplomatico nel quale si trovano per l'appunto i limiti della sua curiosità di sapere. Lo spirito quasi dilettantesco dell'indagine si risolve in eclettismo e in scetticismo verso le teorie. Senonché proprio in questa indifferenza c'è l'astuzia del politico che abbandona le questioni di principio per risolverle nel mondo dei fatti. Tradizione sabauda che lo stesso Cavour riprenderà in grande stile.

In Radicati, come in tutti i preparatori del Risorgimento, le ideologie restano precise finché si appoggiano allo Stato e al re l'interesse teorico, l'eresia, la Riforma, non suscitano energie pratiche.

Il pensiero di Radicati è tutto percorso da motivi eretici, ma nel momento in cui egli potrebbe pensare ad una Riforma, le ragioni politiche e la precisa intuizione delle condizioni sociali piemontesi lo volgono al piú cauto concetto di un cattolicismo schiavo del principe. La ragione di Stato è assolutamente dominante; il libero esame serve al polemista come strumento per un fine politico. A quale professione di fede egli volesse poi giungere con questa pregiudiziale di libertà, non ci riesce di precisare. Anzi il segno della natura eretica del suo pensiero sarebbe appunto in questa rinunzia alle preoccupazioni di salvezza metafisica. In realtà la lotta contro il potere temporale è la chiave di volta di tutte le sue affermazioni. La libertà religiosa, la difesa della tolleranza, la lotta contro la superstizione vi si connettono come ideali di migliori costumi e di serietà etica.

Seguendo il metodo indicato, egli fa risalire a Gesú Cristo il concetto di un libero pensiero nemico dell'ortodossia dogmatica e a proposito della parabola del Samaritano osserva: «Sembra che con questa parabola Gesú Cristo abbia voluto dichiararci che la maggior parte dei preti furono sempre privi di carità; e ci sarebbe pure da notare che, mentre i Giudei consideravano i Samaritani come increduli, perché non ammettevano il Pentateuco, Gesú Cristo in questa parabola loda il Samaritano e biasima i preti giudei; come in un'altra giustifica il pubblicano e condanna il fariseo. Da questo paragone vergognosissimo per i dottori della legge e per i preti giudei, e assai glorioso per gli increduli e i peccatori, come i Samaritani e i Pubblicani, sembra che Gesú Cristo abbia voluto farci capire che questi uomini, detti comunemente deisti o atei, i quali non hanno lo spirito guastato e pervertito dalla superstizione, sono piú ricchi di carità e infinitamente migliori di quelli corrotti dai vizi e dalle crudeltà ispirate dalle superstizioni8. Io dico deisti e atei perché questi due nomi sono sinonimi: il nome di atei infatti è dato abusivamente a quelli che negano le tradizioni, quasi non ci fosse modo di riconoscere una divinità senza accettare come verità santissima le piú assurde ed esecrabili menzogne umane come quelle di Zoroastro, Maometto, ecc., e di tanti altri non meno assurdi e grossolani che hanno avvelenato lo spirito degli uomini dando loro idee ridicole, stravaganti ed empie di Dio e rendendoli piú perversi e feroci di tutti gli animali. Ma è falso che i deisti siano atei perché tutti quelli cosí chiamati dal popolino e dai maldicenti ammettono una causa prima sotto vari nomi: Dio, natura, principio eterno, movimento e anima universale; tali furono Democrito, Epicuro, Luciano, Socrate, Anassagora, Seneca, Hobbes, Spinoza, Vanini, Bayle, e generalmente tutti quelli che si chiamano atei speculativi; nessuno ha mai negato una causa prima, né può negarla, se non sia sciocco o insensato. Perciò dobbiamo dire che la parola ateo significa deista, altrimenti non significherebbe nulla; perché non c'è al mondo gente di questa specie, come credono gli ignoranti o come vogliono far credere i preti quando colpiscono con questo nome odioso, per esporli al furore insensato del popolo, quelli che svelano le loro imposture» (Discours, I, pp. 23-25)

Non è facile trovare nel primo Settecento una pagina di critica al cattolicismo ispirata a una cosí precisa concezione critica. Contro le grettezze dell'ortodossia Radicati sente la superiorità generosa del libero pensatore. Nel ritratto che egli ne traccia c'è dell'autobiografia o almeno torna il ricordo delle sue dure battaglie. E nelle ultime conseguenze filosofiche queste proposizioni sembrerebbero addirittura affermare il valore della religiosità contro le religioni positive, dominate da esigenze pratiche non sempre purissime. In realtà poi, in tutta la polemica contro la Chiesa attuale, il Radicati argomenta da perfetto cristiano che all'avarizia degli ecclesiastici oppone lo spirito del Vangelo e dei primi fedeli. Tracciando la storia della decadenza del cattolicismo, si direbbe che abbia innanzi un grande sogno di democrazia evangelica e patriarcale. Cosí in un altro scritto, finta traduzione da Lucio Sempronio, Nazarenus et Lycurgos mis en parallèle, balena il concetto del Nazareno fondatore di perfetta democrazia.

«La costruzione dei tempii e la nomina dei Vescovi sono l'origine di tutti i mali che ha sofferto la religione cristiana; perché la superstizione dei fedeli arricchí i tempii e rese ambiziosi i Vescovi che ne avevano cura» (Discours, IV, p. 6r). «Questo fu per due provvedimenti che gli Apostoli presero secondo un giusto disegno, senza pensare alle cattive conseguenze che se ne sarebbero avute. Il primo fu di lasciare i Vescovi per tutta la vita nel loro ufficio; il secondo di destinare i religiosi all'amministrazione del potere temporale. Infatti, per quanto i Vescovi non avessero alcuna autorità sui fedeli, tuttavia essi ne erano rispettati tanto che li rendevano in qualche modo loro dipendenti, almeno per le cose spirituali e questa dipendenza, se fu insufficiente nei primi tempi a suscitare l'ambizione dei buoni Vescovi dotati di quasi tutte le virtú cristiane, accrescendosi doveva inevitabilmente convertirsi in obbedienza; abituare a poco a poco i Vescovi a comandare, i fedeli a obbedire; e cosí insensibilmente rendere i Vescovi signori e padroni dei fedeli come è successo alla fine» (ibid., pp. 62-63).

«Gli uomini essendo portati naturalmente a soddisfare i loro istinti, era certo che i religiosi i quali ne avevano tutti i mezzi, dovessero finalmente cedere a questa tentazione continua di impadronirsi dei beni comuni per accontentare le loro cupidigie. Per questo gli Apostoli non avevano voluto esercitare il potere temporale, perché temevano di essere sedotti dalle ricchezze troppo vicine; tanto piú che essi avevano davanti agli occhi il triste esempio di Giuda loro confratello, il quale incaricato da Gesú Cristo di ricevere le elemosine, diventò cosí avido del danaro da biasimare la sorella di Lazzaro perché non aveva venduto l'unguento che aveva servito per la testa e per i piedi di Gesú Cristo; mentre avrebbe potuto distribuirne il ricavo ai poveri. Non già che gli stesse tanto a cuore il loro interesse, come molto bene nota l'Evangelista, ma disse ciò perché era estremamente avaro e desiderava che Maria, venduto l'unguento, ne presentasse a Gesú Cristo il prezzo, perché egli l'avrebbe ricevuto come suo tesoriere... Questo esecrabile attaccamento alle ricchezze che portò l'Apostolo al piú orribile dei delitti, produsse in seguito la corruzione dei suoi successori9, ossia di quelli a cui furono confidati i beni dei fedeli perché si distribuissero a ciascuno secondo i suoi bisogni. Ma il piú grave è che gli Apostoli istituirono i Diaconi affinché i Ministri del Vangelo non si occupassero mai delle cose di questo mondo e tuttavia presto i Vescovi hanno abbandonato lo spirituale per dedicarsi al temporale. Ed ecco come. Dopo la morte di Gesú Cristo, gli Apostoli continuarono ad essere nella Chiesa di Gerusalemme i depositari del denaro dei fedeli e il fondo era costituito dalle offerte dei nuovi convertiti. Sicché i beni della Chiesa non erano in alcun modo distinti da quelli di ciascun fedele, come si può vedere ancora in taluni conventi di monaci dove si continuano ad osservare questi comandamenti. Nei primi tempi i cristiani destinavano con gran fervore i loro beni alle elemosine per il pregiudizio diffuso che il mondo era prossimo alla fine: cosí le offerte crescevano di giorno in giorno. E il gran precetto di Gesú Cristo che non ammetteva la proprietà dei beni fu seguito nella Chiesa di Gerusalemme, ma non nelle altre; anzi non fu conservato a lungo neanche in quella di Gerusalemme» (Discours, IV, p. 65).

«Diventate ricche le Chiese, i preti cominciarono a vivere piú comodamente e taluni, non contentandosi del vitto quotidiano che si riceveva in comune nella Chiesa, vollero separarsene e avere la loro parte in denaro sonante. Il disordine non si arrestò qui: i Vescovi divennero ambiziosi, disprezzarono e abbandonarono i poveri, appropriandosi ciò che era loro dovuto, usurparono i beni del pubblico e cercarono tutti i mezzi per accrescerli, infine cessarono di insegnare la dottrina di Gesú Cristo per applicarsi a soddisfare la loro avarizia. Si nominarono Diaconi e ricevettero essi stessi le offerte dei fedeli, delle quali si appropriavano lasciando ai Diaconi e agli altri preti la cura di predicare il Vangelo» (ibid., p. 67)

«I cristiani non avrebbero mai dovuto distinguere quegli che doveva predicare il Vangelo con questo nome vano di Vescovo, ma avrebbero dovuto chiamarsi tutti fratelli per obbedire al precetto di Gesú Cristo, il quale, sapendo i cattivi effetti di siffatte distinzioni e pensando di stabilire una perfetta democrazia, comandò espressamente ai discepoli di non lasciarsi chiamare mai dottori e maestri; ma che il primo tra loro fosse il servitore degli altri. Egli sapeva che questi titoli li avrebbero elevati al disopra degli altri uomini, e questo non deve essere permesso in un governo popolare nel quale tutti devono essere uguali» (Discours, IV, p. 68).

La diagnosi dei mali presenti della religione cattolica è condotta qui come semplice storia della corruzione della Chiesa, ridotta tendenziosamente a una storia di artifizi e di menzogne. Una storia, a dire il vero, un po' semplicista. In questo processo affiorano motivi protestanti e razionalisti. Per esempio, si consiglia di leggere la Scrittura, guardandosi dai commenti dei preti (Discours, I, p. 26). Si stigmatizza la disonestà del celibato dei preti, che è servito soltanto ad accumulare ricchezze (Discours, VIII, p. 155). Si denuncia l'assurdità etica del compelle intrari, derivato da una falsa interpretazione di Luca (Discours, IV, pp. 71-73). La Confessione, il Purgatorio, le Messe e le Indulgenze, i Monaci, le Compagnie religiose, sono tutti pericoli per la laicità dello Stato (Discours, VIII, p. 147). Anzi, in questi casi la religione cattolica diventa addirittura un pericolo per l'ordine sociale. «È chiaro che la vera religione ha lo scopo di obbligare gli uomini a reggere le inclinazioni del loro spirito con moderazione e i desideri del corpo con temperanza. Chi agisce contro queste grandi leggi, disonorando Dio deliberatamente, odiando il proprio fratello, o corrompendo se stesso, è un ipocrita e un falso cristiano, perché fa cose contrarie alle regole e repugnanti ai dogmi della sua religione oppure falsa e corrotta è la sua stessa religione se egli ne osserva i principi. E la religione cattolica romana è una religione falsa e corrotta perché essa disonora Dio, mescolando l'idolatria col culto divino e incoraggia gli uomini a corrompersi fra loro, favorendo le tendenze e abitudini viziose; permette inoltre di conciliare per mezzo di molteplici riti superstiziosi una vita cattiva con la speranza della salvezza eterna» (Discours, III, pp. 38-39).

Questa è l'affermazione teorica piú arrischiata dell'eresia di Radicati. Dopo questa parentesi pregiudizialmente anticattolica, egli si affretta a tornare alle sue argomentazioni pacatamente politiche, si preoccupa di combattere questi vizi nel momento in cui diventano pericoli sociali. Al sovrano appartiene l'autorità sia sacra che civile. Egli deve correggere la vita degli ecclesiastici ormai nemici dello spirito del Vangelo. A questo fine non vi è che un mezzo: togliere le ricchezze agli ecclesiastici, non consentire alla Chiesa libertà né immunità, limitare lo stesso potere pontificio.

Il liberalismo di Radicati era cosí posticcio che egli conclude tutta la sua battaglia in un programma statolatra. Qui egli è soltanto uomo del Settecento preoccupato di dare in mano al principe lo Stato forte, di abolire i privilegi e le iniziative che al principe si oppongono e creano dualità di potere, conservando funzioni giuridiche ed economiche alla Chiesa, ai Comuni, ai feudatari. Questi poteri limitanti l'autorità del principe essendo specialmente forti negli ecclesiastici, il Radicati presenta un programma laico. Ma anche di fronte ai Comuni è pronto a proporre consigli illiberali (Discours, IX). Intanto, per far prevalere i suoi disegni, abilmente suggerisce ai principi cattolici di appoggiarsi nella lotta contro la Chiesa ai sovrani protestanti. E il fine dichiarato è di avere un cattolicismo sottomesso alle esigenze di Stato. Anzi, con evidente contraddizione, ricade a parlare di religione «dominante» (Discours, XI, p. 218). Siamo nei limiti specifici del giurisdizionalismo. E del resto il Settecento è destinato ad avere nel giuseppinismo il suo esperimento piú tipico di politica ecclesiastica.

Il Radicati proclama dunque che dovrà essere il principe a disporre di vescovadi, parrocchie e abbazie, investendone chi gli piaccia; il numero dei monaci e dei preti dovrà essere pregiudizialmente fissato, salvo a essere diminuito man mano; i beni ecclesiastici diventeranno proprietà dello Stato che li assegnerà ai nobili e ai Comuni, abolendo l'esenzione dalle imposte: sarà tolto ai preti ogni potere né si consentirà loro di celebrare Messe a pagamento, sotto pena di condanna per simonia. Proibizione ai Gesuiti di tenere scuole; abolizione dell'Inquisizione, abolizione delle confraternite e delle feste religiose. Della confessione il principe si servirà, disciplinandola, come di una specie di istituto di propaganda tra i sudditi; penserà il principe a mantenere i poveri a spese dello Stato con i beni tolti alla Chiesa e a istituire scuole decorose (Discours, XII, pp. 122 sgg.).

Lo spirito di questa lotta era di attualità, e Vittorio Amedeo II difese contro il pontefice alcune delle riforme proposte dal Radicati. La lotta contro i Gesuiti e contro l'Inquisizione favoriva le correnti piú radicali di politica ecclesiastica che il conte di Passerano riprendeva per primo dopo Machiavelli. Ma perché questo sogno avesse un effetto era necessario che si formasse uno Stato nazionale. Adalberto Radicati giunse a questa intuizione, dimostrando nella dedica al re di Napoli che l'unità d'Italia, dopo la caduta dell'Impero romano, era stata impedita dalla politica del Vaticano. Cosí tutte le sue speculazioni ideali si possono ricondurre a una fondamentale passione politica. Per le sue convinzioni di leale servitore del principe, che a venti anni egli aveva già ferme nel suo spirito, s'indusse a combattere nei piú difficili campi dell'esegesi religiosa. Non bisogna dimenticare che egli si trovò ad assistere, ancora giovinetto, agli esempi di fedeltà monarchica dei valdesi: quest'esperienza non si cancellò piú dal suo animo. Costretto a filosofare, benché non sempre tra i concetti si trovasse a suo agio, si aiutò col suo gusto verso tutte le novità per combattere il passato. In questa passione per il nuovo della sua mente aperta c'è un presagio di mutamenti, un bisogno di esperienze che ci dànno lo spirito del secolo.

Invece la politica ecclesiastica di Vittorio Amedeo II e del suo successore aveva i limiti inesorabili in una situazione di diplomazia internazionale. E la cultura piemontese era-rimasta cattolica.

2. La politica dei Concordati.

L'opera dei principi sabaudi nei conflitti di giurisdizione con la Chiesa durante il Settecento è di carattere essenzialmente politico, senza pretese religiose e senza intransigenze rivoluzionarie. Gli storici, da Oriani a Ruffini10, li accusano, non ingiustamente, di troppa moderazione. Su Vittorio Amedeo II pesa la colpa dell'esilio del conte Radicati, su Carlo Emanuele III il proditorio arresto di Giannone. Ma, a guardare le cose spregiudicatamente, è proprio il caso dei carnefici che cospirano con le vittime. Nella Casa sabauda, sino alla fine del Seicento, la sottomissione alla Chiesa era stata tradizionale. Nel tempo delle reggenze delle due Madame Reali, i Gesuiti erano i padroni incontrollati. Se si confronta con queste secolari dedizioni, la politica di Vittorio Amedeo II è un coraggioso preludio di laicità. Infatti, per una lotta religiosa aperta mancava il fondamento indispensabile di una coscienza nazionale: Vittorio Amedeo II, garantendo l'indipendenza dello Stato dalle pretese del Vaticano, cominciava a lavorare per le premesse indispensabili.

I principi di Savoia guardano dunque all'avvenire, con moderazione e tenendo conto della immaturità delle condizioni oggettive seguono il secolo nella lotta contro i Gesuiti; sono i primi a togliere loro le scuole. La tendenza del primo re è di deprimere i sovrani poteri dei nobili e degli ecclesiastici per stabilire l'unità e l'organicità dello Stato; le parvenze democratiche servono all'assolutismo. Ma nella società del Settecento soltanto l'assolutismo riusciva ad operare in una direzione laica: cominciavano i tiranni il lavoro per la rivoluzione.

Senonché, una volta rassegnati a ignorare la libertà e a non proclamare apertamente il principio della tolleranza, non dovremo stupirci di vedere poi il re scendere ai ripieghi dei Concordati i quali, per la contraddizione in termini che significavano (patteggiamenti tra idee irriducibili), lasciavano in discussione la stessa autorità statale. E due secoli di esperienza ebbero un valore laico non tanto per i risultati di volta in volta raggiunti, quanto perché acuirono le menti e le attenzioni; abituarono i diplomatici a resistere al Vaticano, senza stancarsi di proporgli riforme che miravano nelle ultime conseguenze a seppellire il potere temporale. Si trattava di preparare gli uomini, i combattenti: intanto si sarebbero maturati i programmi e le idee.

L'equivoco contro cui si trovarono a lottare i principi di Savoia era una tradizione di ossequio al pontefice e di rapporti inguaribilmente ispirati all'idillio tra le due autorità. Papa Niccolò V aveva concesso nel 1451, quando Amedeo IV rinunciò alla tiara, il famoso indulto11 che attribuiva ai duchi l'autorità di dare riconoscimento ai dignitari ecclesiastici del proprio Stato. Ma la prerogativa rimase sulla carta e il Vaticano continuò a contare sull'ossequio più devoto della Casa sabauda che a Roma veniva citata a modello di conciliazione e di fedeltà.

A Vittorio Amedeo spetta la responsabilità di aver capovolto la situazione; ma il secolo XV che lo precedette non vi fu del tutto estraneo. Anzitutto il duca si trovò a dover risolvere in contrasto col dogmatismo cattolico di Luigi XIV la questione delle valli valdesi, esperimentate fedelissime ai sabaudi in tutte le guerre; era un argomento decisivo per una politica di tolleranza. Inoltre la dominazione francese aveva portato in Piemonte i liberi usi della Chiesa gallicana contro i feudatari ecclesiastici. L'istituto dell'appel comme d'abus, diretto a consolidare l'autorità sovrana contro le invadenze della giurisdizione ecclesiastica, era stato importato a Torino sin dal tempo di Francesco I, ed Emanuele Filiberto aveva cercato di mantenerlo e regolarlo. Con l'occupazione di Pinerolo Vittorio Amedeo II si trovò dunque ad avere l'esempio di tutto un sistema di difesa contro le usurpazioni teocratiche e fece un'altra esperienza di carattere liberale nel tempo che tenne la Sicilia dove accanita era la lotta contro la Curia romana per mantenere la franchigia del tribunale della monarchia «validissimo riparo, – dice il Boggio, – contro ogni eccesso teocratico o interno od esterno». I propositi laici si rafforzavano insieme con la liberazione dal provincialismo. Del resto opinioni recisamente laiche professa Vittorio Amedeo II già nel suo Mémoire pour le gouvernement de mon Etat12: «Il Papa mi contende quella specie di nomine ai grandi Benefici che i suoi antecessori hanno conceduto ai miei antenati, e con piú Bolle raffermato. A nulla mi serve il tenere un ministro in Roma se non ricevo altro che ripulse; che anzi dovrei desiderare di non avere in casa alcun Nunzio. Cosí avrei forse modo di contenere in certi limiti l'immunità ecclesiastica».

Non è senza interesse notare come la rivolta contro la Chiesa cattolica coincidesse con le prime timide manifestazioni di carattere democratico. È nelle assemblee rappresentative che si parlò anche in Piemonte la prima volta di anticlericalismo, per opera ed ispirazione del Terzo Stato. Si domandava una refformation des abbuz et excetz immoderez ecclesiastiques, tant des prelatz que inferieurs, si protestava contro le ingiustizie quilz se commectent en le stat ecclesiastique en abusant de leurs pretendus privileges13. In questi lamenti si avverte come un presentimento delle positive proposte del Radicati, rimaste di attualità in tutto il secolo.

Era piú facile ottenere lusingando che minacciando. Il riserbo dei governanti piemontesi corrispondeva ad una profonda ragione di Stato e ad una specifica esigenza di espansione che consigliava una politica di dignità verso il Vaticano, ma voleva che non si cercassero nuovi nemici. Nella situazione italiana il papa conservava una grande autorità: solo Venezia teneva fede alla sua secolare tradizione di indipendenza e di laicità. Genova era sottomessa. Toscana e Lombardia ossequenti finché non si inaugurò coi Lorena e con l'imperatore Giuseppe la nuova politica giurisdizionalista. Parma ebbe soltanto col Du Tillot una breve parentesi anticlericale. A Napoli fioriva il movimento anticurialista e se ne servirono Tanucci e Caracciolo, guardandosi dalle estreme conseguenze che dalle premesse aveva derivate Pietro Giannone.

Il marchese Ferrero d'Ormea fu in Piemonte il diplomatico di questa situazione e dalla sua sottile e ambigua politica nacquero gli equivoci effetti dei Concordati. Il marchese d'Ormea era meno anticlericale del re. Tra i contemporanei anzi ebbe credito la leggenda delle sue aspirazioni al cardinalato14: certo era sinceramente religioso15 e dalle ambizioni ecclesiastiche doveva trattenerlo soltanto la sua inguaribile passione per la politica e per il maneggio degli affari piemontesi che erano tutti in sua mano. Rimase sulla breccia sino all'ultima vecchiaia ed è caratteristica di un politico di razza la preoccupazione di trovarsi un successore, che assillò i suoi ultimi anni16. Duro, altero, astuto e autoritario, non ebbe le qualità di grande statista del Du Tillot o del Tanucci, iniziatori e creatori di nuovi orizzonti politici; la sua iniziativa rimane dominata dall'audacia di Vittorio Amedeo II che fu in qualche modo il suo maestro: e solo D'Ormea infatti capí e raccolse l'eredità del primo re guidando le troppo pacifiche astuzie di Carlo Emanuele III. Un'idea precisa delle sue doti ci possiamo formare leggendo il ritratto che ce ne ha lasciato l'ambasciatore veneto: «Soggetto che sotto il Regno presente ha tutta intiera la direzione del Governo e la fiducia di S. M.; esplicato alla giurisprudenza e fattivi progressi non volgari, ottenne prima la giudicatura di Carmagnola, poscia l'Intendenza di Susa; in siffatti uffizi mostrato avendo quale fosse la prontezza del suo spirito, il re Vittorio lo fece Generale delle Finanze, nel quale carico datosi vieppiú a conoscere, ebbe commissione di passare a Roma, dove maneggiò con mirabile facilità il Concordato sulle controversie pendenti da gran tempo fra li Duchi di Savoia e la Santa Sede. In rimunerazione fu promosso a Primo Segretario degli Affari Interni, e quindi, in tempo dell'abdicazione di Vittorio Amedeo, il re Carlo lo ascrisse nell'Ordine dell'Annunziata, e lo incaricò degli Affari Esterni, addossando con raro esempio le due Segreterie a un uomo solo; finalmente nel 1742 lo alleggerí del primo carico, dichiarollo gran Cancelliere di toga e spada, cosa non piú veduta in Torino»17.

Nella pratica degli affari ordinari era impareggiabile. Mandato a Roma per trattare con la Curia le questioni piú urgenti, vince con le astuzie del commediante, piú che con le risorse della dottrina.

«Davasi a divedere delle religiose pratiche osservantissimo e solendo il Papa di buon mattino dir Messa in una Chiesa poco frequentata, ginocchione gli si parava innanzi, tutto assorto nella preghiera, un grosso rosario snocciolando...»18. E seppe sfruttare mirabilmente lo spirito di conciliazione del cardinale Lambertini diventato papa alla morte di Benedetto XIII.

Con piú austerità, contando unicamente sul prestigio della disciplina, teneva a freno negli stessi anni gli spiriti ribelli della nobiltà il ministro della Guerra Bogino, che piú tardi ebbe la sua parte nella politica dell'abolizione delle manomorte. Ma Bogino trovava una situazione migliore e lo spirito di maggior conciliazione portato nei dissidi da re Carlo Emanuele III serviva piuttosto a consolidare i risultati, riconfermando concordati già raggiunti contro le nuove velleità controffensive della Curia, che a continuare il processo, se si eccettua la faccenda della Nunziatura.

La politica del padre fu creativa e battagliera in anni difficili, nei quali pochi principi pensavano a scuotere la dominante influenza del Vaticano; il figlio, mentre le riforme fervevano in tutta Europa, seguí mediocremente, in tutti i campi, le orme del primo re.

Che cosa rappresentano i Concordati? Come se ne valse lo Stato piemontese?

Le materie regolate riguardavano essenzialmente questioni di sovranità civile, non mai di riforme ecclesiastiche interne. Con tre Concordati (1726-1727-1742) si cercò di far riconoscere al re di Sardegna il diritto di proporre alla Santa Sede i candidati ai benefizi concistoriali (vescovi e abati). Ma la questione rimase aperta fino al 1791. Questo diritto di intenzione e di consentimento era un caratteristico provvedimento di giurisdizionalismo che ci ricorda le proclamazioni intransigenti del Radicati e ci mostra il re deciso ad avere sorveglianza sugli affari ecclesiastici, secondo il concetto, ormai prevalente in Europa, della Chiesa nazionale.

Coi Concordati del 1727 e 1741 e con un altro del 1749 il re affermava invece un suo preciso diritto di sovranità contro la giurisdizione che vescovi stranieri potessero esercitare sopra frazioni di territori staccati dalle loro diocesi e incorporati negli Stati di Sardegna. Era un caso specifico in cui dal conflitto di potere tra l'autorità ecclesiastica e l'autorità laica nasceva una vera e propria difficoltà di politica estera: il re ottenne che in queste frazioni il vescovo straniero dovesse farsi rappresentare da un suo vicario. Si affermava un principio nazionale contro il cattolicismo internazionale.

Nella questione dei tributi, del Foro e del diritto di asilo tornava ad essere in causa il principio dell'unità di sovranità. Queste materie rimasero in discussione dal '27 al '92, ma il diritto dei principi veniva di anno in anno prevalendo. Lo Stato cercava di liquidare le resistenze antistatali, anarchiche del feudalismo ecclesiastico. Non poteva conciliarsi con l'esistenza di una giustizia laica, esercitata da organi statali, la persistenza del diritto di asilo, vestigio di una vecchia autorità in contrasto con quella dello Stato, su un terreno in cui lo Stato non poteva accettare limitazioni. Poiché il governo piemontese non aveva la forza di abolire i privilegi del Foro ecclesiastico si accontentò di limitarli (1727-42).

Finalmente i provvedimenti contro l'immunità e le esenzioni dei benefici ecclesiastici erano necessari e improrogabili se si pensa alle difficoltà del bilancio piemontese dissanguato dalle guerre. Il regno di Vittorio Amedeo II è per questo aspetto una lotta senza tregua contro le resistenze tributarie dei suoi sudditi. Il Concordato del marzo 1727 e quello del 1728 autorizzavano Vittorio Amedeo II ad esigere tributi dai beni che la Chiesa avesse acquistati dopo il 1619; e nel 1783 Vittorio Amedeo III e Pio VI convenivano di assoggettare a tributi nella misura di due terzi anche i beni acquistati prima del 1619.

Eccoci giunti non soltanto per la cronologia alla rivoluzione francese; il re di Sardegna mira a farsi riconoscere il diritto dell'exequatur sui provvedimenti ecclesiastici; limita la concessione del braccio secolare. È vero che la Chiesa attribuisce a queste riforme il carattere di sue concessioni sovrane. Ma ciò che si concede in questa direzione non si riprende. Lo spirito della lotta contro il feudalismo può far agire tutte le sue risorse.

A questo punto i sovrani si armano perché intravvedono nella Chiesa una difesa contro il pericolo di novità; il debole Vittorio Amedeo III si lega apertamente alla reazione; l'iniziativa passa ai popoli, le riforme sboccano nelle rivoluzioni. Resta a sapere come il Piemonte fosse preparato a questo passo.

3. Controenciclopedia preventiva.

Se sono vere le premesse sin qui esposte, anche il Piemonte ci offre un esempio, assai guardingo e lontano dalle estreme antitesi, del dissidio del secolo tra scienza e fede, critica e dogma, tolleranza e fanatismo, liberalismo e clericalismo.

La lotta contro la Chiesa è condotta dalle eresie intellettuali laiche, ma queste, nella tendenza alla Riforma, trovano un limite nei principi a cui si devono alleare, i quali si fermano alle riforme e sono interessati all'indipendenza soltanto per arte di governo ossia per le loro lontane aspirazioni assolutiste.

Così sin dal Settecento si delinea l'equivoco della nostra rivoluzione nazionale. Il liberalismo non può identificarsi con la democrazia per la mancata preparazione religiosa. Invece di allearsi alle masse si fa complice delle monarchie. L'iniziativa liberale spetta ai governi, i soli che abbiano attitudini a mobilitare le forze necessarie per il trionfo delle idee pensate in solitudine dalle nuove aristocrazie laiche. Naturalmente queste idee trionfano, ma sono tradite dai nuovi alleati. Le masse cattoliche rimangono estranee alla lotta politica perché la Chiesa si è alleata all'assolutismo e tutti i tentativi di democrazia cristiana sono destinati a fallire. Anzi si ha il fenomeno di plebi recisamente antiliberali perché addomesticate dalla politica di filantropia della Chiesa la quale per far prevalere il suo socialismo reazionario conta soprattutto su turbe di parassiti. Bisogna aspettare il movimento operaio per avere in Italia iniziative autonome di masse popolari, che possano condurre la rivoluzione liberale alle sue ultime conseguenze.

Intanto nel Settecento è logico che la Chiesa si dedichi con identica cura alle due cause: conservazione politica antiliberale e conservazione ideale antilluminista. In Piemonte contro i timidi tentativi di libero pensiero e contro gli atteggiamenti laici del sovrano, la cultura cattolica fa il suo esame di coscienza, si organizza secondo le sue tendenze clericali, combatte l'eresia con armi filosofiche e si sforza, indulgendo all'eclettismo, di guadagnare la ragione alla causa della fede.

Abbiamo la controenciclopedia preventiva.

Dal punto di vista delle classi politiche possiamo dare questa diagnosi del fenomeno. Il re mira all'indipendenza e all'unità di giurisdizione e si trova a combattere contro gli interessi creati delle vecchie classi dirigenti, ossia contro i privilegi di nobili ed ecclesiastici. La nuova élite, che gli è indispensabile per questa politica, viene reclutata nel modo seguente: 1° una minoranza dell'aristocrazia che abbandona la solidarietà di classe o per devozione al sovrano o per istinto politico o per simpatia coll'illuminismo o per ambizione di cariche; 2° i nuovi dirigenti del ceto umile (non ancora borghese) che si sta elevando. Nel Piemonte del Settecento non c'è una borghesia in senso economico. Sembra formarsi invece un ceto medio di avvocati e medici, figli di contadini, che si affrettano, appena arricchiti, ad acquistare un titolo di nobiltà. Nell'aiutare questa nuova nobiltà ad affermarsi si nota l'astuzia di governo dei principi sabaudi: parecchi ministri provengono da questo ceto: nel Seicento il Trucchi, che i nobili odiavano e chiamavano turco, il Bogino nel Settecento. Quasi tutti si formavano, sotto il controllo governativo, nel Collegio delle Province19 che fu l'istituto tipo della ragione di Stato. Queste minoranze intellettuali, appena si libereranno dalle tradizioni di ossequio e di servilità, andranno oltre il gretto piano assolutista del re e continueranno la rivoluzione per conto proprio. Purtroppo questo ceto nel Settecento sembra appena annunciarsi e non si può consolidare, come vedremo, né durante la rivoluzione francese, né tra le difficoltà della seguente reazione. Tendono, ma non sempre riescono, a far calcolo sulle masse per isolare le vecchie classi nobili ed ecclesiastiche decise a difendere le posizioni passate.

Nel cardinale Sigismondo Gerdil, savoiardo, di Samoens, il quale nella sua lunga vita (23 giugno 1718-12 agosto 1802) giunse, si può dire, alle porte del pontificato, proprio negli anni in cui la Chiesa faceva appello a tutte le sue risorse per resistere alla rivoluzione francese20, possiamo vedere un esempio di stile e di cultura ecclesiastica perfettamente retrivi. L'Histoire des variations des églises protestantes del Bossuet fu la sua prima lettura. Il suo compito di polemista contro tutte le eresie sembra segnato sin da allora. Intorno al Gerdil si viene raccogliendo tutto l'ortodossismo non soltanto piemontese, ma europeo del secolo XVIII. Il motto è: Malebranche contro Rousseau. Per il metodo, Cartesio contro Locke. Il cartesianismo di Gerdil però è assai guardingo. Cartesio è per lui quello che ha diviso «ce qui appartient au corps d'aver ce qui appartient à l'esprit». Insomma dovendo lottare contro il vago spiritualismo rousseauiano si direbbe che egli chieda a Cartesio le solide qualità conservatrici e statiche del dualismo cristiano. Dove Cartesio si avventura in pieno razionalismo, Gerdil si appiglia ai metodi piú ortodossi della filosofia eclettica. Ontologista, non rifiuta lo sperimentalismo. Ha in pregio la cultura matematica e fisica.

Ma le vere astuzie istintive del Gerdil si possono scorgere nell'indirizzo della sua polemica pratica. È uno dei polemisti cristiani piú pacati, metodici, inesorabili, instancabili. Nella polemica l'intransigenza è nascosta e appare invece un tatto singolare. Teologo, egli non disprezza la filosofia21, ma nega agli eretici dignità di filosofi. La ragione ha la sua validità anche nei regni della teocrazia se serve a convincere del vero quelli che non hanno fede e ad avviare i filosofi alle imprese apologetiche. La speculazione sarebbe un mezzo di controllo piú che un mezzo di scoperta. L'amore per la verità del nostro teologo è prudente amore per le verità fatte. In lui le preoccupazioni di chiarezza prevalgono sopra i tentativi di profondità. Raccomanda con scrupolosa onestà la precisione del linguaggio e invece di individuare l'originalità di Locke o di Spinoza, rimprovera loro di usare con troppa ambiguità i termini fondamentali di sostanza, essenza, ecc. (Introduzione allo studio della religione, vol. I, p. 209). Cito la ristampa che sta nei primi due volumi delle Opere scelte (Milano 1836): «La sola evidenza può muovere l'animo ad un consentimento necessario» (ibid., I, p. 29). L'evidenza immediata ci fa intendere le idee semplici. Nell'esame delle idee composte bisogna procedere con metodo matematico per riconoscervi le idee semplici che entrano nella composizione.

Qui Gerdil è in assoluta antitesi con tutte le inquietudini del secolo. Il suo cattolicismo è di buon stampo antico e rifiuta ogni compromesso con la religione del sentimento e col cristianesimo romantico. Il suo ottimismo e la sua fiducia escludono queste avventure per proporre ai popoli molto piú semplicemente l'osservanza delle verità rivelate e l'ossequio alle autorità costituite. Nessun entusiasmo mistico, ma pacifico cattolicismo, arte del governo delle menti e delle volontà: culto abilmente lungimirante dei risultati pratici contro i meri tentativi e le illusorie speranze. Non piú santi: la religione ha bisogno di diplomatici.

Il cardinale Gerdil non si compiace di parole grosse o di professioni di fede intransigenti: pur di restare fermo nelle questioni di sostanza egli non è alieno, per ossequio al buon senso e talvolta addirittura al senso comune, dall'ostentare un cristiano costume di tolleranza e di conciliazione. Concede che la libertà di pensare non debba essere esclusa, ma soltanto regolata dalla religione. Considerate la debolezza del nostro intelletto! Esso ci può far conoscere il soggetto e il predicato; ma come affermare o negare se non c'è un criterio di fede, o, diciamo pure, un'autorità superiore?

Ed ecco che la vera libertà non è licenza, non può escludere l'autorità. Argomentazione garbata, a cui soltanto l'estrema logica del libero esame potrebbe rispondere che si è ripetuta in tutti i savi e paterni regimi dispotici.

Del resto, aggiunge il Gerdil, quasi atteggiandosi alla sua volta ad illuminista, la libertà di pensiero non è necessaria per la perfezione delle scienze (Introduzione, vol. I, p. 64). E nota ironicamente la superficialità filosofica dominante nei cosiddetti secoli colti, caratterizzati sempre da una vera decadenza del buon gusto. I secoli colti sono per l'appunto quelli che vengono dopo i tempi in cui vissero gli uomini sommi (Introduzione, I, p. 53).

La scienza progredisce soltanto nel rispetto alla religione; con la presuntuosa brama di tutto sapere progredirà una impaziente cultura, non la scienza. Bisogna sapersi fermare al momento giusto, tener sospeso il giudizio: la morale del buon cattolico si deve fondare su uno spirito di moderazione. Contro Locke e Rousseau bisogna dunque opporre questo abito mentale di fiducia e la tradizione, accettata come conservatrice. Perciò Gerdil non scrive una critica, ma una introduzione allo studio della religione, dove persino i filosofi antichi sono studiati tenendo come criterio direttivo il loro sforzo di conquistare il pensiero di Dio mediante la ragione.

Nella storia della teologia il Gerdil ha un posto notevole per il rigore con cui seppe riassumere le prove dell'esistenza di Dio integrandole con due nuove dimostrazioni, l'una desunta dalla contraddizione che nulla esista; l'altra dall'idea dello stato intelligibile di tutto ciò che è possibile22. Ma i suoi argomenti apologetici tendono prevalentemente a dimostrare l'utilità della religione per mezzo di considerazioni di ordine morale e sociale.

Specialmente nell'Anti-Emile si vede questo carattere essenziale della filosofia del Gerdil, intesa come filosofia e pedagogia del perfetto suddito. Bisogna combattere Rousseau fondando un sistema di idee conformi alla pace delle famiglie, alla tranquillità degli Stati, al vantaggio dell'umanità. L'ordine costituito è una necessità e obbedire è atto giusto davanti a Dio. Talvolta nel buon senso di queste argomentazioni ci sembra di vedere addirittura l'istinto del reazionario e la difesa del conservatore. L'apologista non si nasconde che il cattolicismo deve finire per coincidere con l'utilità; e fonda il diritto della società verso i sudditi sulla stessa base religiosa dell'ubbidienza richiesta ai figli verso i padri. La società è implicita nell'idea di Provvidenza. Nel concetto di uomo c'è il concetto di suddito. Non dalla politica dunque dipende la religione: Gerdil rifiuta recisamente questo machiavellico luogo comune del dispotismo e dimostra che si devono cercare nella religione le basi dei valori sociali (Introduzione, vol. I, pp. 237-47)

Una mentalità conservatrice si scorge nel Gerdil anche se si esaminano i limiti della sua cultura: base umanistica su cui si fonda un edificio rigidamente teologico; disprezzo per la cultura del secolo; critica del dominante indirizzo europeo d'informazione; aridità scientifica e persino nel pacato e pedantesco tono ragionatore un ossequio scolastico al fatto compiuto: è l'uomo caratteristico della controenciclopedia.

Tuttavia non si può non considerare con grande rispetto la passione sistematica che anima tutto l'edificio organico dei venti volumi delle sue opere. In questo amore dell'unità si deve riconoscere un vero filosofo. Mirabili sono le sue doti di chiarificatore. Le pagine in cui egli si oppone con l'acuto buon senso di pedagogista contro i presuntuosi della cultura sono ancora vive e convincenti, e nella sua bella lotta contro le superstizioni si vede un'onestà intellettuale esemplare.

Ma se Gerdil era un filosofo, filosofi non furono i suoi discepoli. La sua influenza serví soprattutto in un periodo di reazione ad addormentare lo spirito d'iniziativa.

Le classi nobili ebbero il loro predicatore di cattolica moderazione nel conte Benvenuto Robbio di San Raffaele da Chieri, allievo del Gerdil; poeta, uomo pio, fondatore dell'Istituto delle Conversazioni letterarie, nemico fierissimo di Voltaire, contro il quale scrisse le Lettere del Dottore Trialevo23. Nel Robbio ci sono le preoccupazioni del cortigiano che ricerca per dilettantismo le piú varie cognizioni, dalla musica alla poesia di Camões e di Pope. È singolare il suo interesse per la storia. Tuttavia egli ci appare misoneista come i contemporanei, in quei suoi curiosi scritti antifemministi e nelle sue preoccupazioni di educare i nobili. L'educazione disinteressata, ossia l'educazione priva di un interesse centrale: viaggi di piacere; culto della gentilezza e dell'onestà. In quanto alla religione: «La esatta idea della religione consiste nel non aggiungere né togliere nemmanco un apice ai misteri e ai precetti che ella c'impone di credere e d'osservare; nel non confondere ciò che è mera opinione e cade in contesa, con ciò che è infallibile e non disputabile».

Con questa esigenza di ortodossismo non ci stupiremo che il nostro conte finisse per appartarsi modestamente dalle preoccupazioni statali e nazionali, e, con la rivoluzione francese dinanzi agli occhi, continuasse a notare con arguto gusto di provinciale che la divisione d'Italia in vari governi cospirava a dare splendore alle metropoli.

In un'Europa che preparava la rivoluzione liberale, clericalismo e feudalismo sognavano un 'Italia sotto tutela, docile alle numerose Corti, sottomessa al vescovo e alla buona morale antica.

4. Il «caso» Giannone.

L'ambiguità della politica piemontese, l'influenza ecclesiastica tenacemente contrastata, ma ancora dominante, il filisteismo della cultura ufficiale, ci illuminano senza equivoco le persecuzioni inflitte dal governo piemontese all'avvocato napoletano Pietro Giannone.

Nella storia del caso Giannone possiamo vedere la vita piemontese della prima metà del Settecento in rapporto con tutta la vita italiana. Sul significato dell'opera di Pietro Giannone i giudizi sono ancora discordi. Ma per noi il suo pensiero apparirà chiaro se appena avremo l'accortezza di metterlo a confronto con la figura del conte Radicati. Due uomini, due culture. Ma una stessa battaglia.

Radicati, piemontese e nobile, ha le fissazioni dell'uomo di Corte, intransigente per istinto e per eleganza. Pietro Giannone, napoletano, plebeo, meraviglia i contemporanei per la vastità della sua cultura, ma resta come legato dal suo sapere che lo condanna alla solitudine in ambienti su cui non agisce un'opinione pubblica: è uno degli uomini piú rappresentativi del secolo, ammirato in tutta Europa e in Italia, e sembra un intellettuale senza radici nella realtà. Radicati è stato educato a Corte, è stato in esilio in Inghilterra, in un popolo libero e moderno; Giannone ha studiato filosofia scolastica e ha sperimentato a Vienna il cosmopolitismo erudito dei borghesi servitori del re. Il primo scrive le sue eresie in un francese elegante e nervoso; il secondo elabora le sue considerazioni giuridiche in un italiano accademico.

Neanche in Pietro Giannone il concetto di una rivoluzione italiana religiosa e morale giunge alle ultime conseguenze ideali. La preoccupazione dell'autorità, i pregiudizi del dispotismo restano fondamentali. Senti il suddito che vuol giustificare e legittimare la sua sottomissione. Pietro Giannone è l'uomo della cattedra, il giurista ghibellino. Le tradizioni napoletane vivono in lui. A Napoli la Corte ha promosso tentativi di scienza laica: non accade perciò che i pensatori vi si manifestino, come in Piemonte, quasi anarchici episodi di sovvertimento e di ribellione. Anche Metastasio parla dell'ardente falange vaticana di Napoli.

La situazione politica di Napoli si può ancora riassumere in una metafora, ricordando la lotta di guelfi e ghibellini. Napoli era uno Stato, poteva manifestare pretese sovrane. E le affermazioni dello Stato si incontravano con le tradizioni di ossequio al Vaticano. In questo ambiente Giannone studia il problema delle origini del diritto della Chiesa e conclude, dopo una poderosa indagine in cui il diritto è visto per la prima volta, genialmente, generarsi attraverso la storia, con una rivendicazione dell'indipendenza di Napoli dal pontefice.

Ma il governo di Napoli non fu piú coerente né piú coraggioso verso Giannone, di quel che non fosse stato Vittorio Amedeo II verso Radicati. La Storia civile del Regno di Napoli venne approvata dalla prima revisione laica, ma egli fu lasciato senza difesa quando gl'intrighi della Curia lo cacciarono da Napoli a furore di popolo. Le esitanze della diplomazia e l'ignoranza popolare limitavano in tutta Italia, senza eccezioni, gli ardori di protesta e di lotta anticlericale. Per Giannone bastò che la Curia diffondesse il sospetto che egli negasse il miracolo di san Gennaro!

Da Napoli a Venezia, a Vienna, a Milano, a Ginevra Giannone non trova risonanze né forze che lo difendano dai Gesuiti. Le sue peregrinazioni hanno una pausa di tregua soltanto presso l'imperatore.

A Vienna i primi studi giuridici si maturano in riflessioni filosofiche. Ne risulta il Triregno, opera incompiuta che ci dà un saggio della sua maturità. Nel Triregno Giannone coglie una specie di storia concettuale dell'umanità, dall'ideale di regno terreno che domina col paganesimo al regno celeste instaurato dal cristianesimo e corrotto poi nel presente regno papale, che è sovvertimento pagano dei primi ideali cristiani. Qui la critica dello storico investe tutto il dualismo cattolico in nome di una ideologia protestante. Si contesta alla Chiesa la potenza terrena; la critica dogmatica che ritornerà nell'Alfieri, svela tutti gli equivoci del concetto del Purgatorio. La Chiesa è riuscita ad instaurare il suo dominio assoluto, falsando la prima concezione cristiana che fa coincidere il regno celeste con la resurrezione dei corpi. Il dualismo cattolico di corpo e spirito, anticipando la vita eterna, parla arbitrariamente di una visione beatifica delle anime subito dopo la morte e usurpa in terra le funzioni di salvatrice delle anime.

Nel Triregno insomma, come altri ha scritto, efficacemente24, l'anticuriale della Storia civile diventa anticlericale. La critica giuridica del Sud viene a coincidere con la passione politica del Nord. Il Giannone è la riprova scientifica della tesi di Radicati. Tutte le correnti laiche del Risorgimento si manifestano opponendo il cristianesimo al cattolicismo.

Anche l'eresia di Giannone, invece di affacciarsi nel campo sociale ad agitare un ideale di libertà e di riforma popolare, resta giuridica e diplomatica. Egli è pronto a professare ossequio alla Chiesa nel campo spirituale. Ma i limiti tra laicità ed eresia restano indistinti come nel Radicati. La rivolta è nell'aria e le ideologie devono rimanere in un campo vago di critica senza compromettersi in progetti.

Il re di Sardegna aveva interessi presenti troppo precisi per poter cercare se questi fossero davvero i suoi ideali servitori. La cultura era ancora una merce sospetta. Per migliorare il Concordato che si stava trattando con la Curia il marchese d'Ormea non esita a promettere al cardinale Albani il sacrificio di Giannone. Con losco inganno l'avvocato napoletano è invitato da Ginevra in casa di un doganiere piemontese, certo Gastaldi, che lo fa arrestare, d'accordo con la polizia piemontese. Il misfatto non suscita scandalo perché l'opinione comune e i costumi pubblici ritengono che i delitti di Stato si debbano punire e non rivelare. D'Ormea avrebbe voluto consegnarlo al pontefice, abbandonarlo al rogo. Lo zelo dei servitori è sempre intransigente. Prevalse il senso della regalità del re che volle essere complice, ma sovrano. Invece del rogo Giannone ebbe dodici anni di carcere e la tomba nella prigionia. Il re di Sardegna, servendo il pontefice, infliggeva un doppio oltraggio al difensore della laicità. «Quello che mi dava pena, – scrive il Giannone nella Vita, – era d'aver da lui inteso che m'arrestavano per ordine non meno del Re che del Papa: cosa che io non poteva comprendere sapendo che, nella Savoia, il Re solo comanda e non il Papa».

Il 4 aprile 1730 fu indotto a pubblica abiura. L'esame delle cause e dei modi per cui questa avvenne ci porta ad escludere nell'avvocato napoletano ogni senso di viltà. È la sottomissione dogmatica spirituale del cristiano, accompagnata dalla speranza di libertà del laico, con la riserva mentale del giurista che conosce la nullità di ciò che si compie sotto imposizione.

Nei dodici anni del suo supplizio non rinunciò all'eresia del Triregno25. La confermò con nuove opere in cui parla il sarcasmo quando non può parlare la libera critica. Conservò l'idea fissa che il re di Sardegna dovesse capire la coincidenza tra gli interessi di Stato e la sua critica protestante. Morí il 17 febbraio 1748. L'anno dopo nasce Alfieri.

5. Il fallimento dei moderati.

Nella seconda metà del Settecento i riformatori e gli illuministi, in tutta Italia, non sono piú martiri isolati, sono gruppi di studiosi e di sognatori che nelle varie capitali s'intendono, collaborano, cercano corrispondenti dalle piú importanti metropoli europee, seguono un indirizzo critico comune. All'avanguardia, come si sa, stanno Milano e Napoli.

A Torino si era diffidenti verso le idee francesi. Perciò l'illuminismo vi prende un tono piú moderato, che un governo intelligente avrebbe saputo valorizzare rafforzando la classe politica con questi elementi, meno esperti di burocrazia e piú delle cose nuove. Carlo Emanuele e Vittorio Amedeo III proibirono l'esperimento, videro un sovversivo in chiunque sapesse scrivere, lo confinarono. Essi preparavano l'atmosfera spirituale dell'Italia della Restaurazione, che non ebbe moderati né uomini d'ordine, ma sovversivi o austriacanti.

A Torino non si formò «Il Caffè» né «La Frusta Letteraria» si formò tardi persino la loggia massonica. Perseguitati dalla Corte i «riformatori» emigrarono, furono vinti dagli ostacoli e dal sospetto, e non riuscirono a risolversi tra la scienza e la rivoluzione. Denina, nato per essere storico di Corte, finí in Prussia; Baretti, retrivo brontolone di temperamento, in Inghilterra; Dalmazzo Vasco, reo di aver tradotto Montesquieu e di pensare ad un regime costituzionale, fu seppellito in carcere. Ugo Botton di Castellamonte, fautore della necessità della divisione dei poteri, dovette aspettare l'invasione francese per far fortuna, come furono i francesi a salvare dalle persecuzioni l'innocentissimo Botta; Giov. Battista Vasco, onorato in tutta Europa per le sue monografie economiche, modelli di inchieste pratiche e di discussioni logiche, lasciò Torino per Milano; Solera non poté pubblicare il suo progetto per una Banca di agricoltura.

In tutti questi episodi si ebbe l'intervento personale del re. Stampando il suo Essai sur les valeurs durante la dominazione napoleonica26 il Solera racconta cosí le sue vicende. Un amico «croyant découvrir dans mon essai une vraie pierre philosophale en parla ouvertement d'une manière si avantageuse que la notice en parvint à la cidevant Cour. Feu Victor Amédée en fut informé, et m'en fit demander une première copie en 1786. Quelque temps après il m'en demanda une seconde pour être, – m'a-t-il dit, – communiquée à ses ministres. Je la lui portai pareillement. Il paraissait si enthousiasmé de mes idées que je crus d'autant mieux qu'elles allaient être adoptées, qu'il me chargea de travailler à la rédaction de l'édit portant l'établissement de la Banque nationale d'agriculture; et lorsque le la lui remis il me fixa le jour oú je devais revenir, à fin de statuer définitivement sur quelques articles de détail relatif au mode d'exécution. Je m'y rends: on me fait entrer et je trouve feu Victor avec son contrôleur général des finances. Celui-ci avec un ton de gravité et d'importance, qui à la Cour comme ailleurs masque souvent la nullité, débuta par l'éloge de ce qu'il appelait mes talents, et finit par une réprobation si entière, si absolue de mon ouvrage, que Victor, incapable d'avoir une opinion à lui, se rangeant docilement à celle de son ministre, m'en défendit sévèrement l'impression».

L'abate Denina non poté pubblicare in Torino un'opera anche piú innocente: tre libri, Dell'impiego delle persone27, in cui si consigliavano le occupazioni piú adatte per i vari ceti sociali, non esclusi gli Ordini monastici. Indottosi il Denina a pubblicare l'opera in Toscana, Vittorio Amedeo III lo destituiva dalla cattedra di eloquenza e lo condannava a sei mesi d'arresto nel seminario di Vercelli. Il governo non puniva un sovversivo, anzi un fedelissimo servitore del re, nemico di ogni avanguardia e di ogni convinzione accentuata. Denina non ha passione politica; non sente le inquietudini del Settecento, non nutre desiderio di novità; è un abate, non un laico, un amico delle gerarchie costituite, non un liberale. Temendo rivolgimenti sociali, sentendo annunciare tempi torbidi, Denina, eclettico e tollerante, raccomanda la causa dell'incivilimento. Vuole protetti i mestieri e le arti. Eliminati i pigri perché sia eliminata una delle cause della scontentezza delle plebi. Pensa che la società abbia piú bisogno di lavoratori che di soldati: parla da pacifista d'istinto. Un governo che crede pericoloso l'abate Denina ha perduto ogni fiducia nelle colonne della società.

Maggiori diffidenze si rivolgono al Baretti, spirito piú agile e piú audace del Denina. Nella «Frusta Letteraria» infatti lo storico de le Rivoluzioni è piuttosto maltrattato: erano due temperamenti inconciliabili. Dal governo piemontese e personalmente dal re, Baretti era giudicato «un homme qui a la cervelle un peu timbrée», una « tête folle et dérangée». Forse odiavano in lui anche l'anglomane.

Invece incorreggibilmente piemontese rimane il Baretti dopo tanti anni di noviziato europeo e preromantico.

Hanno scritto che la sua critica manca di idee nuove e di senso storico e che non vi si trova altro che il buon senso e la sveltezza dell'uomo chiuso nel suo tempo. E certo nulla è piú falso della fama di rivoluzionario e rinnovatore con cui il Baretti è passato nei manuali di storia letteraria e nell'opinione comune. Ora tutti ammettono che in questa leggenda l'influenza di Johnson entri per buona parte, ma sarebbe meglio spiegarci l'equivoco con quel curioso temperamento barettiano, pronto ad esaltarsi per nulla, quasi in odio alla tradizionale pacatezza dei conterranei e capacissimo di trasformare uno scatto di rabbia in una finzione di guerra d'idee. Ma l'ideale di questo burbero enfatico e litigioso era l'ideale e l'egoismo di tutti gli «uomini nuovi»: conservare le posizioni raggiunte, far riconoscere ad ogni costo le abitudini faticosamente acquistate di cultura, di educazione e di buon gusto. Se si pensa al Baretti giovane, prima del '5028 leggero, semiarcade, poetino petulante e inconcludente, pronto alla caccia del guadagno, amante delle buone compagnie, adulatore, presuntuoso, si capisce che egli dovesse tenere assai, dopo il 1760, a predicare contro i letterati che la fisica e la metafisica «si sbrigano molto piú presto nel rendere uomo l'uomo» e che facendo prevalere la sua sapienza di latino e di greco, citasse «Grozio e Puffendorfio».

In un quadro dei costumi piemontesi e degli sforzi dell'Italia per conquistarsi una maturità europea il ritratto del Baretti è essenziale. Il suo spirito pratico e utilitario sembra caratterizzare la repugnanza della penisola a ogni sogno di ribellione e di liberazione. L'educazione inglese gli fece capire Shakespeare; non lo corresse dalla sua ostinazione di montanaro retrivo, irascibile e scettico, e perciò, sotto il furore, incapace di una posizione di solitudine e di moralismo intransigente.

La morale del Baretti è la morale conciliante del gaudente e del conservatore soddisfatto che difende i buoni costumi.

In Inghilterra la sua galanteria di ospite e l'ammirazione per talune forme del regime parlamentare non gli impedirono di concepire l'odio piú arrabbiato contro la Riforma della quale il suo spirito superficiale di cattolico non poteva vedere il significato fondamentale. Sono noti la sua invettiva contro il maledetto calvinismo e l'odio verso i cromwellisti ai quali rimprovera «quella malvagia antipatia che chiunque è infetto di calvinismo sempre nutre verso il Governo monarchico e verso tutte le religioni episcopali». Una condanna analoga scaglia contro l'Enciclopedia: «Alcuni saputelli moderni di cortissima vista, ma di larghissima presunzione, vanno spargendo una loro poverissima dottrina e vorrebbero pure persuadere altrui che, se gli uomini fossero abbandonati alla semplice guida della loro naturale ragione, facilmente sarebbero migliori di quello che sono». Alla scuola di Rousseau egli non oppone un'esigenza storica ma la necessità di rispettare i sacri libri e gli antichi scrittori greci e latini, che sono stati e sono tuttavia e saranno sempre i fonti piú limpidi dell'umano sapere.

Professa costumi umanistici e cortigiani: critica e non capisce la libertà inglese.

«Ci vuol altro che il vostro sapere per fabbricare leggi che difendano il povero dal ricco, il debole dal forte».

«Noi siamo dei bei gonzi a credere che la libertà di cui la nazione inglese mena tanto vanto renda quel popolo il piú dovizioso, il piú gioioso, il piú avventuroso di tutti i popoli».

Teme che la libertà distrugga l'ordine e vi oppone come tutti i reazionari l'esigenza di un governo giusto. Al pauperismo vorrebbe riparare con la beneficenza pubblica, arte sopraffina, insegnata già dal dispotismo orientale e dai conventi cattolici, per corrompere le plebi. Dei suoi studi economici, fatti per seguire la moda settecentesca, non gli rimase che la mania del progettismo29.

Il nostro ritratto si può completare con una definizione: Baretti gesuita.

Nella corrispondenza del conte Finocchietti di Napoli si legge una lettera importante di un informatore veneziano30: «Conviene sapersi che questo buon uomo del signor abate Baretta è piemontese e che nella sua patria male potendo capire per la lingua oltremodo mordace, ad altri paesi i passi rivolse, finché giunse in Inghilterra, dove stette alcuni anni vivendo da moderno letterato, donde poi ritornò in Italia e parea fissato in Milano, quando sbucò fuori e con possente commendatizia del reverendissimo padre Giustiniani gesuita al fratello, perché è appunto uno dei revisori dello Studio di Padova, comparve in Venezia... Vuole il giudizio della maggior parte che questo Aristarco sia stato dunque chiamato e messo dalla Compagnia, impegnata di assisterlo ove si trattasse di ragionare sopra cose teologiche, per aver quindi motivo di prender con l'altrui maschera la difesa di quanto è stato scritto contro di lei e farlo in modo che quasi necessariamente passi per le mani di tutti come succede di tali sorte di fogli. Ma perché poi non avrebbe potuto con isfacciataggine, siccome fa, rintuzzare queste opere antigesuitiche, ove trattato si fosse unicamente di una savia critica, utile e moderata, questi buoni Padri lo indussero a sfoderare a bella prima il flagello contro quoscumque acciò che quindi non si potesse rilevare poi la differenza e fosse dal suo costume autorizzato quel che avesse detto contro gli scrittori nemici dei Gesuiti: oh infelice astuzia, griderebbe S. Agostino!»

In questa storia non si è mai visto troppo chiaro e gli argomenti per comprovare qualche complicità tra la «Frusta Letteraria» e i Gesuiti, checché protestasse poi il Baretti, non sono tutti infondati. Né avremo ragione di stupirne noi dopoché il pensiero del Baretti ci si è rivelato caratteristicamente reazionario e tutto inteso a cogliere nel cattolicismo un valore politico di strumento d'ordine e di regno.

L'amicizia del Baretti per la Chiesa fu costante ed è curioso notare come critiche e progetti di riordinamento pratico dell'edificio ecclesiastico egli rivolgesse talvolta contro i frati, non mai contro i preti. Nello Scritto mandato dal Baretti da Londra a S. A. R. il Duca di Savoia circa a varie operazioni da farsi nel principio del suo futuro regno, l'autore si preoccupa dell'accrescimento del numero dei frati, ma si guarda dal riferire il suo discorso alla questione centrale dell'invadenza del potere ecclesiastico

«Questi frati, se io non erro, oltrepassano nel nostro paese il numero di dodicimila. A provvedere di tutto il necessario una tanto sterminata turba, calcolando che ciascun frate costi solo ventidue soldi e mezzo al giorno, si richiede una somma la quale ascende a quattro milioni e mezzo l'anno circumcirca e siccome le Riverenze Loro non lavorano la terra né esercitano alcun lucroso mestiere non occorre darsi l'incomodo di provare che non guadagnano una lira l'anno allo Stato: cosicché considerati politicamente, riescono un peso morto addosso allo Stato medesimo, abbisognando a forza che i quattro milioni e mezzo sieno interamente frutto della fatica dei nostri agricoltori e dei nostri operai, direttamente o indirettamente. Il lungo costume e l'invecchiata superstizione del nostro popolo spensieratamente frataio, fa sí che esso non senta punto la gravezza di quel peso, il quale si è andato aumentando tacitamente di secolo in secolo; e forse per la medesima ragione il nostro Governo non si è mai voluto avvedere di un tanto politico disordine, e della perdita successiva fatta di migliaia di sudditi, che sarebbero pur nati di legittimo matrimonio, se le porte dei conventi non si fossero sempre tenute spalancatissime a tante anime di mosca, a tanti inesperti, a tanti sassi, e a tanti nemici del troppo lavoro»31.

Se chiedete al Baretti un rimedio vi dirà che i frati devono per l'avvenire rendersi utili e cominciare con lo studiare greco e latino. Siamo all'antitesi del pensiero riformatore di Radicati e di Alfieri. Non la mondanità dei costumi e l'allontanarsi dai precetti evangelici si rimproverano al clero, ma la sua scarsa utilità mondana, il poco spirito pratico! I preti invece son simbolo di ordine: quadri perfetti per lo Stato conservatore. Le lettere dall'Inghilterra di Baretti sono il testamento politico del piemontese che incomincia a sentire i pericoli e la paura dell'eresia e della rivoluzione.

6. Il conte Vasco.

L'enciclopedista per eccellenza, il riformatore, il Verri piemontese, è il conte Francesco Dalmazzo Vasco. I suoi manoscritti trattano di imposte, di codice criminale, di progetti costituzionali, di filosofia, della Corsica: stampati occuperebbero 20 volumi in-folio. È lo spirito di Radicati di fronte alla rivoluzione francese; un inquieto interesse portato su tutti i problemi, su tutti i mutamenti, su tutte le novità; una cultura di prima mano, europea; una curiosità schietta di storico, di innamorato del vero.

Come Radicati e come Giannone seppe rinunciare per le idee agli onori e alla vita tranquilla. Imprigionato due volte morí in carcere; e il suo nome resta una testimonianza dura contro la decadenza spagnolesca del regno di Vittorio Amedeo III.

Nel primo arresto c'è lo stile del conte Bogino, suo «mortale nemico»; poiché finsero una faccenda di disciplina amministrativa per mascherare una persecuzione contro la libertà di coscienza di un suddito.

«Il re Carlo Emanuele aveva fissato l'apparente castigo a pochi mesi d'arresto; ma quando uno sdrucciola cosí, par che vi sia l'indulgenza plenaria a dargli tanti urti che bastino per farlo rovinare onde, non sapendo i miei nemici cosa altro affibbiarmi, diedero mano al solito pretesto non ha religione e fecero credere al Re che io fossi un eretico, un ateo. Difatti S. M. Carlo Emanuele deputò il signor teologo Tonso, canonico alla cattedrale d'Ivrea, per venirmi a convertire; il quale, quando mi ebbe parlato, ebbe a meravigliarsi d'aver avuto una simile commissione. Io, essendo in castello, per occuparmi mi posi a tradurre in italiano lo Spirito delle leggi di Montesquieu con note, colle quali dava una sana interpretazione a quei passi ch'erano equivoci, e confutava quelli che non si potevano sanamente interpretare. Era ormai al fine il mio lavoro quando un mattino mentr'era in cappella mi fu, d'ordine regio, preso il manoscritto. S. M. lo fece esaminare da un teologo (non so chi sia né mi curai di saperlo, perché non potrò mai stimare un uomo simile) il quale riferí che, a dire il vero, non vi era alcuna eresia, ma si vedeva quello spirito di libertinaggio, che nuoce adesso cotanto alla Chiesa. In tutto ciò che ho scritto dopo che sono al mondo, ho sempre predicata la virtú e declamato contro il vizio, perché, sebbene purtroppo non abbia io esercitato la virtú, l'ho però sempre amata, e sono sempre stato persuaso che ella è necessarissima ad ogni individuo, ma altresí al bene generale. Se questo è spirito di libertinaggio, lo dica chi ha senso. In seguito a tale assurda relazione, S. M. ha creduto che fosse opportuno di continuare la mia detenzione per convertirmi. Questo e non l'affare di Corsica è stato il motivo poi, per cui Vittorio Amedeo salito al trono mi ricusò per dodici anni e di sentirmi e di permettermi di portarmi a Torino (con mio danno gravissimo di piú di centomila lire). Io ho sempre creduto che i miei nemici lo tenessero in inganno: cosa ne abbia a pensare adesso, nol so»32.

Delle teorie di Dalmazzo Vasco sono interessanti i luoghi che chiariscono il suo giusnaturalismo. Egli si appella a san Tommaso e cita il De Regimine principum come testo fondamentale della sua fede «monarchica» e «democratica»: prima del secondo arresto non era dunque né eretico né rivoluzionario. Invece dominava in lui il sentimento preciso dei diritti individuali e dell'insopprimibile dignità personale, confortata da evidenti letture francesi.

Il desiderio della libertà è nato con l'uomo. Vi sono diritti fondamentali che neanche la legge può contestare. Per esempio: «I pensieri non sono sottoposti alla giurisdizione degli uomini». «Ogni uomo ha il diritto di essere creduto innocente finché non è convinto di avere commesso un delitto» : questo è un principio non solo legale, ma naturale. I governi, nei quali sia legge il capriccio del principe sono privi di garanzie civili, sono governi tirannici. Cosí in diritto pubblico non il principe, ma apposite assemblee rappresentative devono fissare le imposte33. A proposito di diritto famigliare, Vasco vuole che la patria potestà sia limitata all'educazione dei figli; e non accetta il divorzio, ma chiede che si renda facile la separazione legale34.

Tutti questi non sono concepiti come piani astratti perché Vasco sa bene che è «impossibile immaginare un piano che sia conveniente ad ogni qualunque popolo». Sono resistenze e tentativi di conciliazione davanti allo spirito ormai trionfante della rivoluzione. Vorrebbero correggere i difetti, evitare le posizioni estreme.

Con l'animo di un moderato in cerca di utili riforme scrisse il Saggio politico intorno ad una forma di Governo legittimo e moderato da leggi fondamentali. Era un piano di temperamento per riconciliare la Casa regnante di Francia colla nazione, dunque il piano di un conservatore che credeva prudente evitare l'avventura di una controrivoluzione. Lo incolparono di voler dare consulti ad una potenza estera e di avere in animo la stampa del libro fuori dello Stato. Era il processo alle intenzioni contro lui che scriveva: «Dio ha riserbato a sé il giudicare i pensieri ed il scrutare i cuori; gli uomini sono giudici delle azioni, non dei pensieri».

Vittorio Amedeo III dispose che fosse «tradotto nel Castello di Ceva ed ivi trattenuto senza limitazione di tempo, senza colloquio e colla massima cautela, onde non gli sia permesso di aver carta, penna e calamaio» (22 agosto 1792). Credettero di piegarlo colle persecuzioni: ne fecero un uomo nuovo. Quando fu trasportato da Ceva a Casale e poi a Ivrea, chi lo vide lo trovò invecchiato, pallido, macilento, con barba lunga e irsuta, e colle gambe infilzate in un paio di stivali di piombo35. Ma lo spirito era vivo. La sua difesa, scritta in carcere, è un testamento che segue una logica dritta ed audace. Il suo linguaggio è aperto e senza riguardi: «Un principe che si mostra offeso che si declami contro un tiranno crudele e cattivo, non si fa egli grandissimo torto? Nessun uomo onesto si mostrerà offeso che si promulghi una pena gravissima agli assassini ed ai ladri».

«Il fatto si è che si teme l'esempio della Francia». Questo esempio ha ormai mutato le cose, ha reso impossibile governare senza «giustizia e carità». Dichiarando che «l'unica causa delle rivoluzioni sono le ingiustizie e le oppressioni» sembra che egli pronunci un'intimazione e che annunci la fine del vecchio regime. Morí in carcere il 12 agosto 1794. Sappiamo da un compagno di pena che negli ultimi anni non cessò di vagheggiare disegni di insurrezioni, che mandava a uomini fidi nel suo paese. Era nato a Mondoví, terra storica delle ribellioni piemontesi, straziata da Vittorio Amedeo II col ferro e col fuoco.

7. Alfieri.

Tra leali e fedeli servitori del re, tra laici moderati e giuristi dello Stato costituzionale, Vittorio Alfieri è il primo uomo nuovo, anche quando il suo tono e il suo stile si compiacciono di arcaismi, ora romanamente eroici, ora aristocraticamente anarchici.

La passione dominante di Vittorio Alfieri è risolutamente moderna; dall'angusto illuminismo del Settecento la sua volontà tende a un'affermazione romantica e individualista. È figlio caratteristico del suo tempo per la sua inquietudine avventurosa e per la disperata necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti, le tirannie religiose e politiche.

Ci ha lasciato il piú generoso esempio di resistenza intellettuale attiva contro le oppressioni politiche, resistenza dell'individuo solo che non è vinto già per il fatto di sentirsi spiritualmente piú alto del tiranno. Tre generazioni si educarono in Italia sulla sua opera; e ancora per noi rappresenta la morale intransigente dell'uomo libero in tempo di schiavitú.

La ribellione contro i contemporanei si esprime nell'ostinato disprezzo in cui egli tiene la cultura ufficiale e i modelli piú divulgati di stile e di pensiero.

Anche i critici piú eruditi sono attoniti di stupore per l'ignoranza dell'Alfieri. Essi non possono vedere che si tratta di un'ignoranza ricca di una scienza nuova e concludono indagini con terribili atti di accusa contro il loro autore. Alfieri sarebbe un superficiale, un egoista insopportabile che avrebbe per le idee l'interesse che porta alle avventure di viaggio e d'amore. Appena riconoscono un poco l'artista e il patriota.

La genuina atmosfera storica di Alfieri non è nel rigido ambiente tradizionale italiano, ma nel fervore spirituale europeo che con la libera critica prepara il culto dell'individualismo e le lotte per la libertà. Il violento rilievo della personalità alfieriana fa pensare piuttosto alle tragiche figure della rivoluzione che alla pacifica calma dell'illusionismo riformatore. I suoi accenti libertari ricordano Stirner e Nietzsche.

Alfieri non fu piú filosofo che poeta come scrisse Leopardi, ma fu filosofo e non mero letterato anche quando lo hanno tenuto lontano dal rigore metafisico, perché la sua vita e le sue battaglie presentano una inesorabile e continua coerenza, fondata su una esclusiva passione per la libertà che rimane il concetto centrale della sua polemica contro la tirannide e contro il cattolicismo, e la base positiva della sua morale eroica.

Anticattolico l'Alfieri fu per istinto. Comune con i pensatori del Settecento la repugnanza verso il dogmatismo e il formalismo della religione dominante. Il papa è complice del tiranno: l'inquisizione, il purgatorio, la confessione, il celibato, sono gli espedienti con cui si impedisce il libero pensiero. Il dominio temporale contrasta con la dignità dei popoli. I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere esservi un uomo «che rappresenti immediatamente Dio; un uomo che non possa errare mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della libertà, e il timore, non potendo essere ispirato dalle scomuniche, attesta chiaramente che dove è il pensiero del pontefice, là è il tiranno; dove vi è dogmatismo religioso, là vi sono spade a sostenerlo». «L'autorità illimitata sopra le piú importanti cose e velata dal sacro ammanto della religione importa molte e notabili conseguenze: tali insomma che ogni popolo che crede e ammette una tale autorità si rende schiavo per sempre». Un popolo sano e libero che accetti la credenza della infallibile e illimitata autorità del papa «è già interamente disposto a credere in un tiranno, che, con maggiori forze effettive e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa stesso, lo persuaderà e sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche come già obbedisce al solo papa nelle religiose». «Non vi può dunque essere ad un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo libero».

L'anticattolicismo dell'Alfieri ha le stesse aspirazioni laiche di tutta la critica del Settecento. Invece sono assolutamente nuovi i motivi politici positivi che egli accenna.

«La libertà è la sola e vera esistenza di un popolo; poiché di tutte le cose grandi operate dagli uomini la ritroviamo essere fonte». Qui gli istinti ribelli di Alfieri rivelano una chiarezza critica e religiosa; e la polemica contro il cattolicismo invece di risolversi nello scetticismo dei giacobini miscredenti invoca una religiosità piú spirituale, una morale eroica che guidi la vita e l'azione degli uomini e dei popoli.

Il credo alfieriano insomma, si rivolge a una religione e a un Dio «che sotto gravissime pene presenti e future comandino agli uomini di essere liberi».

La sua politica è un ideale di liberazione e un imperativo di lotta: chi gli chiederà di esporre un piano di Stato futuro e di decidersi tra le diverse forme costituzionali mostrerà di non aver inteso la sua posizione storica.

La sua volontà di combattente non può anticipare i risultati. Esige dal popolo – non piú plebe – spirito di sacrificio, che sia prova di attitudini rivoluzionarie. L'Italia non sarà libera senza i «bollenti animi che, spinti da impulso naturale, cercano gloria nelle altissime imprese», senza la «giusta e nobile ira dei drittamente inferociti e illuminati popoli».

Ecco la morale della rivoluzione. «Giunge avventuratamente pure quel giorno in cui un popolo oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia di liberi e virtuosi uomini». Lotta di libertà contro tirannide: lotta religiosa. Qui l'etica è alla base della politica. Non si è uomini se non si è liberi. Non si tratta di conquistare la libertà per mezzo delle riforme o attraverso l'utilitarismo dei moderati e dei filantropi; la libertà di politica di Alfieri nasce dalla libertà interiore, intesa come forte sentire.

Quest'idea è il programma politico di Alfieri, annuncio di una rivoluzione che ancora si attende nella storia italiana, ed è anche la sua metafisica, il suo assoluto, il suo Dio.

Ma è una posizione senza eredi.

8. Le plebi e l'economia.

La critica dei piemontesi «europei» si accompagna con un destino di solitudine. Essi sanno di non essere realisti in senso gretto, non hanno bisogno delle consolazioni dell'ottimismo, non si illudono sulle risonanze del loro pensiero e del loro esempio.

Ma nessuno di questi annunciatori ebbe la visione delle condizioni sociali delle plebi alle quali parlava. Lo stesso G. B. Vasco, uno degli economisti piú originali del secolo, tolse i toni piú squallidi dalla sua descrizione della società piemontese del Settecento. Gli storici esitano giustamente di fronte alle visioni complessive di una società sotterranea; sentono di non poter decifrare il linguaggio e la psicologia degli strati inferiori dell'umanità; e veramente tutte le intuizioni sembrano fallaci quando si vorrebbe intendere la vita di un secolo nei destini anonimi delle plebi diseredate. Ma il dramma di queste sofferenze, l'istinto ribelle delle plebi di Mondoví, messe a ferro e a fuoco per la loro resistenza a una tassa iniqua; la cupa rassegnazione dei contadini delle valli alpine e della contea di Nizza, condannati alla fame e a un lavoro senza redenzione, capaci di tutti gli eroismi e di tutte le sopportazioni durante secoli di guerre, che non avevano alcun senso per la loro vita, gratuite e infernali come la peste, l'inutilità di questo dolore per chi lo soffre è uno degli aspetti essenziali della preparazione del Risorgimento. Certo per un oscuro spirito di vendetta le plebi mettono oggi la leggenda di Pietro Micca (un nome alle loro sofferenze) molto al disopra della statua aulica di Vittorio Amedeo II. E il mito di Pietro Micca, comunque lo deformi il pedagogismo ufficiale delle scuole, è un'affermazione sovversiva, è nato dallo spirito della lotta di classe.

L'agricoltura. Il Piemonte è un paese naturalmente povero, montuoso, senza facili comunicazioni col mare, senza vie commerciali, rovinato dalle guerre, dai tributi, dai privilegi ecclesiastici e feudali. Fino al Cinquecento la coltura della vite è la piú ricca risorsa dell'agricoltura. Emanuele Filiberto introduce il gelso. Ma ancora nel Seicento metà delle terre sono fortemente incolte; altre sono minacciate dall'imperfetta sistemazione idrografica; Cuneo e Asti sono le meglio coltivate, ma poco se ne ricava oltre il grano sufficiente per il consumo locale, il vino e l'olio. Nel Settecento le condizioni migliorano; le terre incolte sono ridotte da metà a un quarto; nelle valli alpine i contadini conquistano lentamente e duramente alla montagna ogni metro quadrato di terra coltivabile. Tuttavia il suolo è povero, gli uomini tendono all'emigrazione, non esiste capitale mobile, se non presso gli ebrei che praticano un tasso di interesse oscillante tra il 50 e l'84%.

In quanto al regime della proprietà esiste un certo equilibrio tra piccoli, medi e grandi proprietari, perché anche i nobili soffrono delle condizioni generali di miseria, e povera è la Corte se si pensa che soltanto con Carlo Emanuele II e con le sue Madame Reali poté sorgere a Torino la grande architettura. Ma il patriziato possiede generalmente le terre migliori della pianura mentre i piccoli proprietari sono condannati alle piú difficili coltivazioni dei terreni collinosi e montuosi36.

Conduzione e coltura sono frazionate: fiorisce la mezzadria, tipico regime di un'agricoltura che non consente speculazioni industriali e non permette larghezze né al proprietario né al coltivatore; e nella mezzadria il paternalismo dei rapporti quasi famigliari tra le due classi è indispensabile per non abolire del tutto la rendita. Le vecchie classi di proprietari venivano tuttavia rapidamente esaurendosi: ma la mancanza di iniziativa nei coloni non consentí la grande trasformazione della proprietà che si ebbe in Francia. I prodotti di cui i coloni si trovavano a disporre dopo il raccolto erano cosí modesti per la scarsa fertilità del suolo e gli angusti confini del loro campo, che l'aumento dei prezzi verificatosi durante il regno di Vittorio Amedeo III non ebbe effetti benefici sulle loro condizioni.

Anzi la crisi preparò il tramonto della mezzadria. Mentre i prodotti rincaravano, le mercedi restavano stazionarie per la gran turba di nullatenenti, che le Opere pie non bastavano piú a nutrire. Ecco una situazione simile a quella in cui Ricardo troverà, in Inghilterra, le prove della sua teoria della rendita. Anche in Piemonte, in mezzo all'assenteismo dei vecchi nobili si forma una nuova classe di fittavoli che introducono i progressi della tecnica agraria e specialmente operano nelle condizioni adatte per avvantaggiarsi dell'aumento della rendita.

La sostituzione della grande affittanza schiavista alla mezzadria rompe il sistema paternalistico di protezionismo, filantropia e pace sociale inaugurato da Vittorio Amedeo III, e durato tutto il periodo della rivoluzione francese. In questi anni, braccianti e servi sono i protagonisti degli episodi di scontentezza e i fittavoli costituiscono la schiera prudente dei fiancheggiatori della rivoluzione francese. Ma da questa classe di profittatori del giacobinismo non si possono ricavare quadri politici seri.

Pochi decenni prima G. B. Vasco aveva scritto il suo opuscolo su La felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie37, quasi un presentimento di tempi torbidi, candida difesa della piccola proprietà, del conservatore illuminato. Ma le classi dominanti non erano illuminate e l'avventura della restaurazione consacrava la loro decadenza.

L'industria. Al movimento dei «riformatori» mancavano il sostegno e l'esperienza di un movimento industriale. Il colbertismo di Vittorio Amedeo II fece sorgere le prime manifatture di tessuti, ma Vasco, nel suo mirabile saggio Del setificio, dimostrò l'inutilità di questi dazi doganali. «Pensano alcuni e forse non hanno tutto il torto che il Governo non debba accordare alcuna protezione fuori quella che consiste in propagare i lumi e togliere gli ostacoli». «Le manifatture opportune si stabiliranno e prospereranno da sé senza che se ne mischi il Governo». «Quelle le quali si sostengono a forza di favori, di divieti, di provvedimenti... sono di sua natura poco convenienti al paese perché danneggiano l'agricoltura o qualche commercio piú naturale»38.

Il tenore di vita frugalissimo del Piemonte del Settecento consentiva di chiudere in attivo la bilancia commerciale: ma le esportazioni erano costituite per tre quarti dalla seta.

Ora il Vasco dimostra che la manifattura della seta entra nella somma totale per meno di un centesimo. «Il profitto della riduzione dei bozzoli in seta devesi attribuire alla legge che vieta l'uscita dei bozzoli»39. Infatti le manifatture straniere non sono inferiori alle nostre. Anzi, la nostra torcitura è piú spesso disuguale e se gl'intraprenditori avessero piú forte senso industriale, facilmente potrebbero essere diminuiti nei nostri filatoi il consumo della forza motrice e lo sciupío della materia. Il nostro setificio non è dunque un'industria sana; esso si regge sul fatto che noi abbiamo bozzoli di nerbo migliore.

Ma un'industria sarà sempre impossibile in Piemonte finché durerà il regime delle Corporazioni. Nel saggio Delle Università delle arti e mestieri, che Vasco afferma di aver scritto in omaggio a Turgot e a Smith, questa proposizione è data come il fondamentale problema economico del secolo.

Egli intravvede l'economia del mondo moderno, le leggi della vita industriale, il mercato mondiale, l'azione suscitatrice delle concorrenze, il trionfo della libertà e dell'iniziativa, la rovina del nazionalismo economico.

«Sarebbe assai malaccorto colui che volesse fabbricare le sue scarpe, la tela per le sue camicie, il panno per il suo vestito, ecc. invece di occuparsi tutto di un'arte, dal cui provento ritrar potesse onde comprare tutto ciò che gli abbisogna. La stessa cosa per il Governo che senza invidiare tutti i prodotti e tutte le manifatture straniere deve occuparsi di quelle che piú convengono alle sue circostanze»40.

Sono inutili tutti i controlli di Stato e le garanzie burocratiche:«I veri e naturali ispettori di tutte le fabbriche sono i consumatori ». Lo Stato non può che spandere la maggior copia possibile di lumi perché siano piú facili e più comuni i mezzi per discernere le merci buone dalle difettose. Ma in quanto ai tirocini, agli esami, ai regolamenti delle maestranze «non contribuiscono per modo alcuno alla perfezione dei manufatti, poiché l'impresario troverà il suo interesse a valersi di chi gli renda un lavoro fatto a suo genio e non impiegherà mai le persone a ciò fare incapaci»41.

Il regime delle Corporazioni è causa prima di crisi e di disoccupazione. Correlativi ai divieti e ai provvedimenti restrittivi diventano indispensabili per conservare un equilibrio sociale artificioso i sussidi della beneficenza. E in Piemonte le abbondanti elemosine pubbliche e private già troppo invitano la plebe alla mendicità e all'ozio.

«Un homme n'est pas pauvre parce qu'il n'a rien, mais parce qu'il ne travaille pas», dice Montesquieu. Il pauperismo in Piemonte era la garanzia del vecchio regime: chi vive di elemosina non potrà partecipare alla lotta politica; una libera classe lavoratrice non avrà cittadinanza su questa terra neanche nell'Ottocento: lo Stato rimarrà un congegno amministrativo in mano di pochi privilegiati. Il Risorgimento non sarà popolare dove non esiste un proletariato.

L'emigrazione. L'emigrazione è la sola ricchezza dei poveri. I piemontesi fedeli alle loro montagne non partecipano in forte misura all'emigrazione permanente: nel 1734 questa si valuta di 5958 anime su 496390 abitanti, nel Piemonte propriamente detto. L'emigrazione temporanea invece comprende in certe province metà della popolazione. Gli operai qualificati del Biellese (muratori), di Susa (cardatori), di Altare (vetro), ricavano in questo modo dall'estero un salario provvidenziale per l'economia piemontese. Solo l'emigrazione può evitare le crisi in un paese che ha eccesso di popolazione e scarsità di industrie42. Lo stesso governo paternalista fu costretto dalla violenza delle cose ad abolire quasi tutti i divieti di emigrazione.

Ma le turbe piú numerose dell'emigrazione temporanea erano di gente umile e misera senza parte né arte, stretti dalla disperazione, stanchi di durare alla fame: e in terre nuove dovevano cercare pietà piuttosto che lavoro. Dalla Savoia e dalla valle d'Aosta giungevano a Parigi spazzacamini e lustrascarpe e i piú poveri del Nizzardo si avventuravano talvolta sino a Londra «procurandosi il vitto coll'esibizione di varie curiosità, come lanterne magiche, mondi nuovi, marmotte e simili, e i piccoli mendicando». Anche oggi qualcosa di questa desolazione si vede in Saffron Hill.

9. L'ultimo del vecchio regime.

Rancori e tormenti rimanevano oscuri e sotterranei e nelle apparenze il regno di Carlo Emanuele III e del suo successore, dopo la pace di Aquisgrana, era un modello di governo ordinato, pacifico, equo. I politici piú realisti, di fronte all'ipotesi di un grande sovvertimento provocato dalla stanchezza delle masse popolari, credevano di capire che il rimedio piú sicuro fosse l'equilibrio garantito dal vecchio regime. Il calcolo non era esatto neppure in Piemonte, dove il colbertismo, fallito nell'industria, non riusciva a impedire una grande trasformazione nel regime della proprietà agraria. Senza dire che il vecchio regime era sconfitto in Europa.

L'ultimo dei realisti moderati che accettarono le critiche dei giovani senza rinnegare i vecchi fu il conte Gian Francesco Galeani Napione di Cocconato Passerano. Nato nel 1748 poté assistere sino al 1830 al contrasto di due mondi. Conservatore sotto tutti i regimi non si trovò a disagio né col principato sabaudo del Settecento, né con Napoleone, né con la Restaurazione. In lui si rivelano gli istinti di adattamento e le qualità anche meno belle del politicantismo italiano. In pieno risveglio enciclopedista rimane eclettico. Tra i tribuni e i demagoghi conserva lo stile impeccabile del gentiluomo piemontese arido e pedante; anche se non resiste a Napoleone, conserva le sue virtú di nobile servitore fedele.

Sorprendiamo il turbamento che i compiti nuovi di economia moderna e di politica internazionale portano nel tradizionale buon senso piemontese. Il Napione riusciva a salvarsi guardando i fatti da buon diplomatico, libero da ogni crisi spirituale. La politica discerne, pesa e classifica i valori dove la cultura lascerebbe sfumature. Le soluzioni proposte dal Napione ai problemi del suo tempo sono caratteristiche del piemontese lontano dalla metafisica e dal romanticismo: buon cattolico, mette lo Stato al disopra della religione, e in politica pregia piú i diplomatici che i letterati o gli strateghi. Data questa fermezza amministrativa, anche i problemi piú lontani diventano problemi di ordine naturale e resta sempre un modello di genialità il progetto che l'onesto e mediocre Napione presentò per una Confederazione nazionale che riconoscesse suo capo il pontefice, e specialmente servisse agli interessi piemontesi nella difesa contro la Francia. L'astuzia del leale servitore del re preveniva addirittura i sogni neoguelfi.

La distinzione è questa: che il neoguelfismo contava sulle corruzioni delle plebi e si risolveva in una demagogia di schiavi; il piano strategico di Napione invece si fondava su una candida astuzia laica e reazionaria. E solo con questi ripieghi il Piemonte poteva continuare la sua politica e destreggiarsi senza compromettersi, tra le esigenze e le pretese della Chiesa e la rivoluzione alle porte.

Il conte Napione era così preoccupato della piega che prendevano le cose che si indusse subito ad abbandonare la letteratura per l'economia e la politica ed è curioso rivedere anche nei suoi studi economici la stessa cautela ordinata e sapiente che non crede all'irreparabile e si ostina a suggerire i rimedi. I rimedi di Napione al pauperismo erano di natura utilitaria e riformista; egli sperava colla politica sociale di seppellire le crisi e di continuare a conciliare l'aristocrazia latifondista e gli affittuari, gli affittuari e i proletari. Non poteva credere che la crisi agraria nascondesse i problemi dello Stato moderno e una rivoluzione di idee.

C'è una parola che definisce insieme i suoi orizzonti spirituali e la sua pacifica longevità: tolleranza. Con l'idea di tolleranza l'antico regime si confessava indulgente verso gli uomini nuovi, e i conservatori in Italia riuscivano con la tolleranza ad evitare i dilemmi e le lotte religiose e politiche. Concessioni del cattolico al libero esame per allontanare la rivoluzione.

Le idee del Napione sulla religione sono per questo aspetto piú significative che singolari e l'eresia è sempre nascosta dalla prudenza del politico.

Ecco, per esempio, il frammento di un progetto del Napione per la pace con le potenze barbaresche, contro le crociate:

«Si ponga soltanto in considerazione, primieramente che nello stesso secolo XIII, secolo in cui il genio delle Crociate bandite contro gli Infedeli aveva invaso la mente di tutti, uno dei piú grandi uomini che aveva avuto la Chiesa di Dio [san Tommaso], fu di sentimento che permesso non fosse in alcun modo di muover guerra agl'Infedeli per far loro abbracciare la vera credenza... In secondo luogo, che qualunque siano gli stabilimenti fattisi e gli obblighi assuntisi da Sovrani e da Corpi nei secoli delle Crociate e della Cavalleria, o nel farli si ebbero presenti i dettami della Religione depurata dal fanatismo, ed in tal caso non potranno mai persuadere e tanto meno obbligare a dover essere sempre in stato di guerra cogli Infedeli, o non si ebbe verun riguardo a tali ammaestramenti, ed allora contro la verità non essendo di veruna forza la prescrizione, non si dovrebbe fare il minimo caso dei nostri piú zelanti che illuminati maggiori».

«Non sono gli Infedeli, ma l'Infedeltà che procurar si vuole di distruggere. E si è offendere la religione medesima il trarre da una pietà male intesa motivi d'indecisione e d'incertezza, travedere da per tutto le apparenze del male, ed opporre incessantemente un fantasma di Religione alle imprese piú giuste od alle massime di Stato piú fondamentali».

La rivoluzione francese non si fermerà piú né alla laicità, né al liberalismo, né all'idea della Confederazione nazionale.

Con la sconfitta di tutti i riformatori cade l'ultimo programma italiano. Alfieri e l'alfieriano spirito di Foscolo sembrano fuori della realtà e a quelli che credono di inserirsi nella storia, ai fiancheggiatori di Napione non rimane che il facile sogno di una Costituzione francese.

Nelle memorie presentate al celebre concorso lombardo del 1796: Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, si potrebbero cercare i documenti del tramonto delle tradizioni spirituali italiane43.

La filosofia politica di Vittorio Alfieri

Alla mia Ada

Questo saggio, che costituisce la tesi di laurea in filosofia del diritto, sostenuta da Piero Gobetti all'Università di Torino nel giugno 1922 (relatore il professor Gioele Solari) ottenendo la votazione di 110 e lode e dignità di stampa, venne stampato dall'autore stesso, nelle sue edizioni, in volume, nel 1923. Ripubblicato in Risorgimento senza eroi cit., pp. 157-246. Tutte le note sono dell'autore.

Prefazione

Questo saggio sull'originalità della filosofia politica di Vittorio Alfieri è la prima parte di una serie di studi sulla genesi filosofica del Risorgimento in Piemonte. Alcuni di questi studi già ho compiuti e presentati in altra sede; essi indicano la direzione e il punto d'arrivo delle mie ricerche, ma saranno tutti rifusi in uno studio piú comprensivo e sistematico. Penso che si possa ritrovare una corrente di pensiero, autoctona e ininterrotta, assai piú indipendente che di solito non si creda dall'influenza e dalle sovrapposizioni straniere – la quale nasconde le sue origini nell'oscuro principio del Settecento, rianimata e suscitata, sia pure indirettamente, da una serie di principi intelligenti e degni iniziatori di un mondo che i loro successori non seppero continuare; e poi trova espressione in G. Baretti, in V. Alfieri, in L. Ornato, in V. Gioberti, in G. B. Bertini.

Dai loro interessi speculativi questi furono tratti a vagheggiare un Risorgimento e un liberalismo che ben si può dire originale, e in cui si trovano le premesse della nuova cultura politica italiana. Anche se comunemente meno noti e piú fraintesi, essi non hanno certo minor importanza della corrente hegeliana di Napoli: meno felici e meno significativi di questi solo perché non trovarono nella cultura degli ultimi venti anni continuatori e interpreti parimenti profondi.

Di Vittorio Alfieri in particolare troppo si è detto – da chi lo salutava anarchico a chi lo voleva monarchico costituzionalista –, ma chi scrive spera di averlo studiato in modo non consueto si da giustificare almeno l'opportunità delle nuove indagini che per la prima volta ricostruiscono il pensiero filosofico suo e lo determinano nella storia dello spirito europeo e italiano facendone scaturire, con la sistematica coerenza che egli voleva, la religione e la politica.

1. Alfieri e la critica.

Per capire l'Alfieri e valutare i critici dell'opera sua con animo deliberato a far nostri i loro risultati e a superarli, bisogna risalire al De Sanctis. Invero la critica desanctisiana sull'Alfieri è stata fraintesa e negletta e se ne può cogliere il giusto valore solo dando un organismo sistematico alle frammentarie espressioni in cui s'è manifestata.

Dei tre scritti che il De Sanctis dedicò all'Alfieri il primo44 afferra e spiega il concetto dell'unità di passione in cui arte tragica e temperamento individuale coincidono con una coerenza che è perfetta nel Saul e in alcuni motivi di vita pratica dell'autore; il secondo45 segna un vigoroso approfondimento della formula estetica iniziale che imperiosamente si amplia a diventare canone di interpretazione storica e morale, sí che, venuti a coincidere il mondo del critico e il mondo del poeta, il momento dell'esegesi è fatto d'un subito centro intenso di polemica vitale e Alfieri e De Sanctis combattono insieme, difensori dell'immanentismo moderno contro il dogmatico «Proudhon della reazione»46, dell'onestà letteraria contro la superficialità, l'esprit, l'insolenza sterile di Giulio Janin47; il terzo48 pone con forte sintesi storica la figura di Vittorio Alfieri nel fervore di rinnovamento civile e morale dell'Italia settecentesca. In questo terzo momento di completa maturità riflessiva sono inverati i due primi (l'uno troppo esclusivamente letterario, l'altro ancora vibrante di motivi nobilmente pratici che sarebbe difficile ridurre sotto una rigorosa determinazione concettuale): e la nuova spiegazione desanctisiana del problema Alfieri appare piú ricca e piú capace di sviluppo.

Scrivendo di Alfieri durante il Risorgimento il De Sanctis doveva rimanere necessariamente compreso entro quei limiti che costituivano pure in sostanza la sua originalità: come per il Foscolo49, anche per l'astigiano egli era portato a trascurare il puro problema estetico per dedicarsi tutto alla interpretazione e all'esaltazione del pensiero patriottico e morale. Ma è un errore esegetico che dà piú completo sfolgorio di luce e di chiarezza che venti citazioni precise.

Mentre da un lato l'affermata identità di stile aspro e di ardente solitaria passione diventa la formula intorno a cui dovrà lavorare la critica estetica contemporanea, dall'altro il concetto di un pensiero alfieriano (che è insieme azione) patriottico e morale apre la via ad indagare e chiarire i motivi romantici dell'individualismo alfieriano che dànno la misura della sua coscienza filosofica e politica due compiti precisi che l'esegesi positivistica dimenticò in vane ricerche antropologiche, o in limitate documentazioni erudite.

Solo il Croce50 in una serie di brevi scritti ha svolto con qualche novità il concetto desanctisiano dell'unità dello spirito e della passione di Vittorio Alfieri, riuscendo a mostrare come il suo ardore pratico oratorio abbia, rispetto ai risultati estetici, considerevoli limiti in se medesimo, e tuttavia l'eloquenza lasci spesso libera via alla concretezza poetica. Per chiarire la psicologia dell'Alfieri poi il Croce è ricorso all'efficace definizione di protoromantico che determina secondo un valore nuovo il concetto di superuomo vivo come aspirazione nella Vita, reale di artistica realtà nelle dominatrici figure delle piú riuscite tragedie. Seguendo queste premesse, ottimi criteri ha suggerito il Croce per l'intelligenza estetica dei «vigorosi sonetti», del Misogallo e delle Satire a cui singolarmente lo avvicina il suo gusto squisito per il piccolo frammento perfetto, mentre l'esame delle tragedie è turbato dall'introduzione di un giudizio («troppo analizzato e calcolato») ingiustificatissimo per la Mirra e non coerente (o almeno non chiaro) col ritratto disegnato prima dello scrittore. Gli spunti crociani di critica estetica attendono dunque di essere integrati.

Piú inascoltata è rimasta la prima esigenza. È progredito il lavoro preparatorio; e, attraverso le ricerche di erudizione, sono migliorate, per dir cosí, le condizioni psicologiche e materiali in cui si trova il critico dell'Alfieri. I lavori del Masi, del Mestica, dello Scandura sulla politica alfieriana si sono fermati a considerazioni esteriori e frammentarie51. Contributi notevolissimi, essenziali, hanno recato il Bertana all'indagine biografica, il Masi allo studio storico dei tempi, il Farinelli e il Porena, per vie indipendenti e diverse da quelle percorse dal Croce, all'esame estetico, il Mazzatinti alla raccolta dell'epistolario e alla bibliografia, rifatta poi dal Bustico, ma lo spirito di Vittorio Alfieri pensatore e poeta è sfuggito a questi sottili indagatori52.

La ragione di tale infecondità critica è nel metodo: non si può intendere uno scrittore restando nei limiti della filologia; l'unità dell'individuo si ritrova solo filosoficamente attraverso l'unità della storia. La visione del De Sanctis è ancora la piú matura perché si concreta dentro una storia dello spirito italiano. Ma la cultura positivista, che dimenticò addirittura il Vico e si ridusse negli ultimi anni agli studi antropologici sul genio invece di rivivere le opere dei grandi spiriti, volle vedere nel Settecento italiano soltanto l'effetto di due lavori negativi: i giochi poetici dell'Arcadia e l'importazione e imitazione delle idee francesi. Già il Boncompagni53 aveva superato questo gretto pregiudizio antistorico quando studiava nell'Alfieri e nel Botta gli antesignani del liberalismo piemontese; i nostri critici invece, preoccupati di lasciare da parte le idee per rincorrere i fatti, ignorando il pensiero del Settecento, si ritrovavano poi di fronte il fenomeno del Risorgimento senza poterne intendere le ragioni profonde: e coerentemente con questa impotenza la storia dell'Ottocento era vista nel suo mero aspetto esteriore (dati biografici, battaglie, atti della diplomazia) o, al piú, come tradizione eroica senza che i dati e i documenti venissero a prendere valore in un organismo di pensiero e di coscienza, senza che l'eroico venisse inteso come concreta azione di uno spirito per un concreto ideale.

Insomma non si intende l'Alfieri se non si determina il rapporto che lo lega alla tradizione Machiavelli-Vico-Gioberti. Il positivismo ignora questa tradizione.

La necessità di determinare tale rapporto apparirà piú chiara quando il nostro studio sarà compiuto: poiché è appunto uno degli intenti nuovi del presente lavoro. Che l'Alfieri professasse, con piú ardente calore libertario, la stessa concezione attivistica della storia che si trova in Machiavelli è risaputo; né alcuno ha messo mai in dubbio l'importanza dei legami di cui il Gioberti coscientemente volle avvincersi all'opera e alla profezia alfieriana. Dubbio può sembrare invece il discorrere di un Alfieri legato idealmente al Vico. Pare assodato che l'Alfieri non abbia letto mai il filosofo napoletano, e del resto tra il pensiero storicistico e le preoccupazioni metafisiche del Vico e l'esasperato individualismo e antintellettualismo alfieriano ognuno sarebbe tratto a vedere piuttosto antitesi ed esclusione che coincidenza e vicinanza. A queste obbiezioni si risponde che il nostro discorso mira a cogliere le fasi ideali della formazione dello spirito italiano e le tappe che si segnano acquistano perciò valore di simbolo e significato trascendentale di natura diversa dall'esegesi della personalità empirica.

Le recenti ricerche storiche e filosofiche hanno singolarmente aiutato e preparato un'indagine integrale che spieghi la figura dell'Alfieri nella storia dello spirito italiano.

Una mente sintetica che si riproponesse oggi il compito dell'Oriani potrebbe dare tutta una nuova visione dell'originalità italiana nel Settecento.

E poiché la coscienza nazionale nasce operosamente in Piemonte bisogna pure interpretare la funzione filosofica del Piemonte, sinora dimenticata, nella creazione della nuova realtà ideale italiana; bisogna vedere come il vecchio Piemonte burocratico e militare abbia inteso le esigenze culturali che l'imminente rivoluzione gli metteva innanzi. Volendo anticipare alcuni risultati, osserveremo che nello sforzo di soddisfare queste esigenze il pensiero piemontese, pur rimanendo singolarmente aderente alla realtà empirica e alieno da astrattezze metafisiche, diventa pensiero italiano e la critica al dogmatismo elaborata nel Settecento si realizza positivamente nella dottrina dell'immanenza e della libertà.

2. Machiavelli e il carattere della filosofia alfieriana.

Giuseppe Baretti fu il restauratore del culto di Machiavelli in Piemonte. Prescindendo da giudizi e spunti letterari, qualcosa di veramente machiavellico v'è nello Scritto mandato dal Baretti da Londra a S. A. R. il Duca di Savoia circa a varie operazioni da farsi nel principio del suo futuro regno54. Consigli di cinquecentesca abilità ringiovaniti dalla fresca esperienza della vita e della cultura inglese. Il nostro scrittore è guidato da due preoccupazioni: la necessità di rafforzare lo Stato all'interno attraverso una libera politica di riforme popolari e di provvedimenti che limitino a poco a poco la soverchia potenza ecclesiastica; e il progetto di un'abilissima politica estera tendente all'occupazione della Repubblica di Genova. Insistendo sulla prima esigenza come condizione per affrontare la seconda, il Baretti affermava implicitamente un sistema politico fondato sul concetto di Stato forte come unità di cittadini e di principe: Machiavelli ripensato attraverso i primi spunti ancora imprecisi di una teoria democratica già corrosa dal riformismo.

Germi rimasti inapprofonditi – come estranea, ignorata e infeconda restava in Piemonte tutta la sostanza del pensiero del Baretti.

Tornava dunque Machiavelli, sebbene imperfetto e tutto limitato dalle esigenze empiriche. Ma un Machiavelli più vero e piú vigoroso recava in sé Vittorio Alfieri, il quale non si accontentò di letteratura né di tecnicismo di governo, ma volle ripensarne l'intima coerenza spirituale. Con questa osservazione non si intende aderire al pregiudizio comune di cui si fa eco il Cian quando dice che il pensiero dell'Alfieri «fu essenzialmente politico»55.

Invero se la natura del pensiero alfieriano fosse esclusivamente politica non si saprebbe che cosa obbiettare alle vivaci conclusioni del Bertana il quale, accettata la premessa, dimostra con pieno rigore l'inconsistenza del pensiero alfieriano, rilevandone l'astrattezza e l'incapacità realistica. (Che valore può avere un pensiero politico non realistico?) Per la stessa via, ma con maggiore genialità il Salvemini dimostrò una tesi analoga a proposito del Mazzini. È il processo della scienza all'utopia.

Tuttavia la soluzione non soddisfa; la gloria dell'Alfieri e del Mazzini non è spenta: resta che ci si chieda se il problema non sia stato posto male, se per avventura la loro originalità non consista affatto nel loro concretismo.

Di Vittorio Alfieri già il Leopardi scrisse che «fu piú filosofo che poeta»56.

L'ammirazione del Baretti per il Machiavelli ha presente il modello del Principe, quella dell'Alfieri non ignora, anzi penetra, confusamente, l'essenza dei Discorsi.

Senza possedere la forte visione sintetica della storia che fu tra noi inaugurata dal Machiavelli, l'Alfieri cerca dunque, come lui, una teorica, non un'arte dei governi. In questo senso, accettando l'osservazione del Leopardi, diciamo che egli non presenta disegni di riformatore, ma speculazioni di filosofo.

Ha ragione il Bertana quando afferma che il pensiero dell'Alfieri manca di base scientifica, che egli «ebbe soprattutto mente ribelle ad ogni studio sistematico», che «la metafisica gli ripugna»57. Ma l'esame astratto e intellettualistico a cui egli si ferma non pare il piú atto a rappresentare il chiaroscuro di pensiero in cui si espresse l'originalità dell'Alfieri. In un secolo nel quale la vitalità dello spirito veniva ridotta a morto schema astratto nell'intellettualismo postcartesiano e nelle varie costruzioni giusnaturalistiche del dogmatismo wolfiano, in un secolo in cui dicendo sistema si diceva sostanzialmente astrazione e generalizzazione di dati empirici, opporsi al sistema per affermare la pienezza della vita individua, irriducibile alle vecchie formule, era opera preziosa di rinnovamento speculativo. Il pensiero di Rousseau mosse gli spiriti e stimolò gli impulsi individuali piú fecondamente che la scientifica precisione ideale dei sensisti. Al mito Rousseau corrisponde in Italia il mito Alfieri.

In Inghilterra una lunga tradizione e una vigorosa esperienza presente di libertà politica erano terreno naturale e propizio per le mirabili speculazioni di G. Locke. In Italia solo la forte individualità dell'astigiano poteva riuscire a mantenere vivo il nascente pensiero del liberalismo immanentistico contro l'implacabile dominio della trascendenza cattolica organizzata in ferrea esperienza conclusiva. Restando entro i limiti esterni del cattolicismo non era possibile andare piú innanzi del Vico, né sottrarsi alla sua solitudine; e d'altra parte costruendo un sistema di pensiero si doveva accettare fatalmente l'influenza costrittiva di un organismo ideale millenario. In queste condizioni l'indeterminatezza era veramente precisa e concreta: la ribellione alfieriana, che ha qualche cosa di immediato e di anarchico, seppe creare un mito libertario da cui il cattolicismo uscì rinnovato e capace di superare se stesso.

Non filosofo piú che poeta (ché anzi la sua filosofia ha forza ed efficacia storica nella virtú del poeta) ma filosofo veramente e non soltanto poeta di idee come vorrebbe intenderlo il Bertana. Egli ha un concetto della libertà rigorosamente metafisico, estraneo ai limiti dell'utilitarismo che gli enciclopedisti non riescono a superare. Né può obbiettarsi che altro è affermare, altro avere coscienza filosofica di ciò che si afferma: poiché, se per coscienza filosofica si intende conquistare un concetto unitario del mondo, capace di inverarsi e chiarirsi a contatto con i nuovi elementi di nuove esperienze, un organismo vitale e fecondo insomma che diventi, per la sua validità, canone di interpretazione e forma mentis – non si può negare che proprio il concetto alfieriano di libertà realizzi questa funzione: esso si pone come la vera realtà trascendentale della storia, il principio metafisico che genera il mondo dell'empiria e della pratica e vi s'inserisce come criterio di ogni valutazione particolare.

3. La gnoseologia.

La metafisica della libertà si fonda, nell'Alfieri, su alcuni espliciti presupposti gnoseologici, coscienti e originali, non mai organizzati in una vera e propria logica e tuttavia rimasti a ispirare ogni sviluppo ideale, come costanti convinzioni. Per questa gnoseologia, immanente e professata, l'Alfieri partecipa in modo originale, nel gran quadro della storia della cultura europea nel Settecento, alla creazione delle correnti di pensiero romantiche.

La logica intellettualistica è tutta negata e superata nelle affermazioni concettuali che qui riassumiamo ed enunciamo e che poi cercheremo di intendere e valutare nel momento storico che rappresentano, e nell'unità dello spirito da cui sorgono.

1. Limiti del sapere umano: negazione della metafisica dell'essere e delle religioni rivelate. – 2. Spontaneità e necessità dell'attività spirituale: lo spirito come conoscere. – 3. Unità dello spirito come unità di giudicare e di sentire. – 4. Carattere creativo del sapere scientifico: limiti dell'astratta attività intellettuale. – 5. Valore pragmatistico del conoscere: necessità dell'azione.

1. L'anima e la divinità sono per l'Alfieri cose che l'uomo non intende e intorno a cui si è lasciata fare un'opinione da altri (Della Tirannide, libro I, cap. VIII). Per altri devesi intendere i tiranni i quali dalla superstizione e totale ignoranza dei popoli traggon partito per ingannarli e impaurirli ottenendone cieca obbedienza. La religione come strumento di tirannide è invero un concetto tradizionale dell'anticlericalismo. Pare tuttavia che l'Alfieri ne intenda con profondità il fondamento psicologico e filosofico perché lo attribuisce non alla forza e alla violenza dei tiranni, ma alla loro astuzia nel conoscere il cuore degli uomini. L'asserzione nel suo valore sillogistico riconduce dunque alla premessa necessaria, qui lasciata sottintesa, che nel cuore degli uomini la religione viva di una certa realtà, corrisponda ad un'esigenza, anche se la soddisfi in modo illusorio. Il concetto è affermato altrove in modo ben piú singolare: Donde un error si svelle, altro sen pianti (L'antireligioneria, satira VIII).

E qui la frase scultoria mirabilmente riproduce il pensiero alfieriano nella sua doppia sfumatura. La religione come sistema, come rivelazione metafisica è un errore, ma il mondo se ne vale e non può farne a meno. False sono le religioni, falsi i dogmi, vera la religione, vero lo spirito religioso. All'esperienza etica, all'esperienza umana, si deve ridurre il criterio di valutazione e di giustificazione: per la logica e per la metafisica la conclusione è, anche nel Misogallo: Indagar non dessi – Di Iddio mai nulla.

Questa duplicità di atteggiamenti caratterizza limpidamente un Alfieri anticattolico e antivoltairiano. La misura e il significato che ha preso per noi il suo antidogmatismo ci consentono di interpretarlo come posizione di critica contro il vecchio mondo medievale. D'altra parte avremo agio di comprendere meglio le esigenze religiose nettamente moderne sentite dall'Alfieri se le riporteremo al valore etico che egli attribuisce, come abbiamo visto, al fatto della religiosità.

2. La negazione stessa della metafisica rivelata reca già implicita in sé l'esigenza di un'altra forma del conoscere a cui l'Alfieri possa credere deliberatamente. Sarebbe ingenuo, tuttavia, attenderci a questo punto da lui un'affermazione panlogistica che non troverebbe terreno spirituale adatto a un adeguato svolgimento.

La sua forte individualità reagisce anzi violentemente alle costrizioni del formulismo razionalistico e cerca di tradurre in valori spirituali le aspirazioni del sentimento. Tornerebbe per questa via il pericolo della metafisica, della metafisica del cuore, della credenza, schiettamente mistica e ineffabile. Ma il ritorno non ha minore importanza del punto di partenza perché ci fa vedere l'Alfieri sollecitato dai motivi speculativi piú elevati del suo tempo, incerto tra una posizione di critica che reca qualcosa di piú profondo che non sia negli enciclopedisti, qualcosa, diciamo la parola, di kantiano; e una posizione di pragmatista che riecheggia, originalmente, Rousseau e Jacobi.

Da questi dissidi non risolti nascono le contraddizioni notate dai critici: eppure in questa perennità di contrasto (tra l'esigenza anarchica e l'esigenza sociale; tra sentimento e ragione) risiede il segreto della sua grandezza libera dalle esclusivistiche intemperanze di due momenti antitetici, le quali documentano una malattia del secolo mentre egli supera la crisi e oscuramente intravvede le soluzioni dell'avvenire.

Questi concetti saranno piú chiari quando avremo spiegato in qual senso si discorra qui di un pragmatismo alfieriano.

Facendo sua una lucida visione del Machiavelli l'Alfieri riconosce nel tiranno un uomo superiore, capace di conquistare il dominio solo in quanto abbia inizialmente maggior capacità intellettiva, ossia sappia penetrare e conoscere le inclinazioni degli uomini (Della Tirannide, libro I, cap. VIII).

Altrove si dà del tiranno altro giudizio: ma la contraddizione è solo apparente. Poiché accanto all'odio sacro l'Alfieri non riesce a soffocare una certa sfumatura di simpatia quando vede il tiranno nel suo sforzo di affermarsi, nel momento in cui crea la propria superiorità. Si spegne questa ammirazione dove la tirannide affermata diventa un'abitudine che la sola violenza basta a mantenere: a siffatto tiranno l'Alfieri oppone lo scrittore, vindice di libertà, in pagine che paiono addirittura contrastare con il suo costante amore per la pratica (Il Principe e le Lettere, libro II, cap. VII), ma di questa incertezza già s'è data una ragione a priori.

La necessità di scrivere per uno sfogo dell'anima «può spingere l'uomo ad essere quasi che un Dio» (Il Principe e le Lettere, libro II, cap. I) ossia scrivere per l'Alfieri è lo stesso che pensare, e pensare è agire. Ne La virtú sconosciuta tale conclusione rimarrebbe dubbiosa. Nella Tirannide è limpida e sicura. Ripugna all'Alfieri, artista, ogni concezione estetizzante dello spirito: sentimento e ragione, pratica e teoria sono le forme dell'umana attività, ma tanto unite e coerenti che insieme prosperano in regime di libertà e insieme si corrompono sotto la protezione del principe. Poiché nel principato si può raggiungere l'eleganza del dire, ma non la sublimità e forza del pensare (Il Principe e le Lettere, libro I, cap. III).

3. Anche all'affermazione alfieriana dell'unità dello spirito non bisogna attribuire un valore tecnico: il problema dell'unità e dei distinti non s'è posto ancora nei termini teoretici e col significato preciso che oggi vi annettiamo: enciclopedisti e cattolici muovono spontaneamente, senza discussione, dall'unità indistinta e immediata del senso o di Dio.

Si tratta di una intuizione che scaturisce direttamente dalla forte individualità dell'Alfieri e da cui egli si sforza di dedurre tutte le conseguenze etiche. L'unità di sentimento e di pensiero, ristabilendo come criterio di valutazione morale la categoria della coerenza, costituisce il presupposto teorico dell'agire secondo una concezione di intolleranza. All'esame intellettualistico che considera lo spirito secondo artificiali divisioni e rigidi casellari sottentra il concetto del giudicare come atto morale, il concetto dell'errore come immoralità.

È vero che l'Alfieri non ha dedotto dalla sua scoperta chiare conclusioni, ma vi sono impliciti tuttavia i presupposti per una nuova etica costruita intorno al concetto d'azione come esperienza interna invece che intorno agli schemi di una precettistica tradizionale.

«Il giudicare e il sentire, sono uno: né senza affetto alcun giudizio sussiste, poiché ogni cosa qualunque, o vista o sentita, deve cagionare nell'uomo o piacere, o dolore, o meraviglia, o sdegno, o invidia, od altro; tal che su la ricevuta impressione si venga ad appoggiare il giudizio; e sarà retto il giudizio degli appassionati pel retto, iniquo al contrario quel dei malnati» (Misogallo, prosa II).

Proposizioni ambigue, che implicano problemi filosofici non adeguatamente risolti: ma attraverso molte incertezze si esprime chiaramente la negazione cosí del sensismo come dell'arido e freddo dogmatismo cattolico. È una passione nuova che postula e intravvede una nuova filosofia. Né è senza importanza che poco prima del passo citato l'Alfieri abbia un accenno ricco di efficacia contro i filosofi, o meglio «quegli impassibili egoisti, che oggidí questo sacro nome si usurpano». Nella negazione c'è un deciso intento filosofico. Nell'entusiasmo poetico s'è introdotto un principio di coscienza riflessa.

4. Sulla questione del sapere scientifico sono importanti i capitoli III e IV del libro III del Principe che il Bertana trascura e fraintende quando accusa l'Alfieri di non aver capita l'importanza delle scienze e di aver negato ad esse ogni efficacia sul pensiero morale e sui destini dell'uomo58. I suoi entusiasmi per il divino e grande Newton, la venerazione per Euclide e Archimede, l'ammirazione per Galileo e Cartesio «dalla civile e religiosa potenza perseguitati e impediti piú assai che protetti» testimoniano decisamente il contrario (Il Principe e le Lettere, libro III, cap. III). Sublime chiama altrove la geometria, d'ogni altra scienza base e radice (ibid., libro II, cap. IV). E tanto lo turba il pensiero dell'immensità delle conoscenze scientifiche (dell'astronomia soprattutto) che gli nasce in cuore un commosso accento di scettica ironia verso le cose terrene, non diverso da quello che ritroveremo in Leopardi: «Cose tutte invero grandiose, e per cui i Romani, credutisi signori del mondo, assai piccioli si troverebbero se potessero ora convincersi co' loro occhi qual menoma parte di questo globo occuparono, e qual minima dell'universo è dimostrato essere questo globo stesso dalla investigazione rettificata della universale armonia dei corpi celesti. Gran pascolo alla insaziabile umana curiosità; la quale pure, per quanto ai fonti della verità si disseti, vede e tocca ogni giorno con mano che, quanto piú si sa, piú ne rimane a sapersi» (Il Principe e le Lettere, libro III, cap. IV).

Accanto a questo poetico entusiasmo troviamo una notevole definizione alfieriana delle scienze che attesta in lui lo sforzo di determinar razionalmente il suo interesse: «Gli arcani e le leggi della natura dei corpi investigate e spiegate per quanto il possa l'intelletto umano». Invece non si parla piú di intelletto quando si definiscono le lettere: «Gli arcani, le leggi e le passioni del cuore umano, sviluppate, commosse e alla piú alta, utile e vera via indirizzate» (Il Principe e le Lettere, libro III, cap. III). Questa antitesi è specialmente importante quando si chiarisca che cosa significhi per Alfieri la parola lettere: il problema è sfuggito al Bertana ignaro di studi speculativi: eppure qui è il segreto per intendere i due concetti enunciati. Tra gli esempi di cultori di lettere l'Alfieri non esita a porre accanto a Omero Platone: piú che a valori artistici egli pensa dunque a valori filosofici che nella sua concezione attivistica necessariamente si traducono in norme d'azione e contano in quanto si inseriscono in una praxis sociale.

Dove il Bertana vede una incomprensione c'è una limitazione cosciente che muove da una chiara gnoseologia: la critica del sapere scientifico è una vera e propria critica dell'intellettualismo.

Della scienza l'Alfieri coglie mirabilmente il duplice limite e l'insuperabile relativismo a cui la conoscenza della natura per lo stesso processo da cui scaturisce è sottoposta.

Il limite del sapere astratto in un sistema dell'unità morale è limpidamente determinato quando l'Alfieri nota che le leggi fisiche non offendono il principato e deduce da questa asserzione la sua teoria dei rapporti tra scienza e governo di principe. Notando il secondo limite l'Alfieri nega l'assolutezza del sapere scientifico; al criterio oggettivo della verità sostituisce il rapporto tra soggetto e oggetto come distinti e diversi, escludenti un termine superiore che li inveri nella propria assolutezza: spunto iniziale di una teoria essenzialmente romantica che ritornerà ancora, rinnovata, nel sistema crociano. Di fronte al dogmatismo scientifico settecentesco il concetto alfieriano riesce a una vigorosa affermazione dell'autonomia e dell'assolutezza del sapere filosofico contro tutte le riduzioni della filosofia a una serie di astrazioni sui dati della scienza.

Nella concezione attivistica dell'Alfieri anche il sapere scientifico conserva tuttavia un suo valore assoluto: occorre meditare perciò diligentemente la sua distinzione tra il momento creativo della scienza e il momento del successivo progredire e diffondersi. Nel qual concetto si può legittimamente scorgere un principio gnoseologico di differenziazione tra il sapere scientifico come risultato, come materia, come congerie di cognizioni e l'atto dello spirito che lo crea. Vittorio Alfieri ha cosí vivo e profondo il senso dell'attività, della spiritualità del creare che sotto tutte le sue oscure intuizioni si avverte una fervida e costante adesione intima alla concretezza del fare, alla realtà dello spirito come esperienza, e questa riesce feconda anche se manca una base scientifica.

Sapere per lui è veramente inventare, creare: e creare non si può senza libertà. Infatti, le «scienze, come ogni altra egregia cosa, ci derivano anch'esse dai Greci, vale a dire da uomini liberi. E pare infatti che al ritrovamento dei principi nascosti e sublimi delle cose, si richiegga un cosí grande sforzo di pensare, che nel capo di un tremante schiavo sí alta e difficile curiosità non sarebbe potuta entrare giammai» (Il Principe e le Lettere, libro II, cap. III).

«Ma il semplice aggiungere alcuna cosa ai già scoperti e dimostrati sistemi e il far progredire la scienza, principalmente nella natura dei corpi, a parte a parte pigliandoli, in tutto soggiace alle vicende annesse al coltivare le verità non offendenti l'assoluto potere, come quelle che in nulla influiscono sopra lo stato politico e in nulla migliorano la proibita scienza del cuore dell'uomo».

La distinzione posta è dunque tra l'intuizione sintetica dell'universo e l'astratta analisi dei dati empirici. Qui l'Alfieri è persino disposto ad ammettere l'utilità del principe in quanto egli aiuti lo scienziato per le «necessarie infinite spese, invenzioni ed esecuzioni costose di macchine, infinite esperienze, sterminati viaggi».

Ma per il poco rigore con cui i due concetti sono sceverati, l'intellettualista (e anche in parte il critico equo) si trova di fronte a contraddizioni infinite appena voglia valutare integralmente questi spunti di teoria. Si può precisare la distinzione e togliere alcune incertezze rendendo piú espliciti i concetti del significato pratico e del significato teoretico della scienza dialetticamente intesi.

La scienza è attività teoretica in quanto è creazione e libertà (libertà di pensiero, superiore alla empiria politica, che si afferma contro gli ostacoli, anche sotto la tirannide: il pensiero dell'Alfieri già nella Virtú Sconosciuta è in antitesi con lo scetticismo del Gori e ha dinanzi con piena chiarezza gli esempi di Cartesio e di Galileo). Il principe aiuta (o può aiutare) non questo processo di creazione, ma il momento pratico in cui la scienza viene organizzata e applicata secondo la sua utilità sociale. Questa seconda affermazione non è senza oscurità e non segue sempre coerentemente la limpida visione speculativa prima raggiunta della scienza come conoscenza creativa. L'Alfieri non ha visto il processo di obbiettivazione per cui la libera creazione spirituale si irrigidisce e si limita in un organismo di risultati schematici per la loro necessaria astrattezza. E cosí dilacerato di dubbi e di intuizioni non rigorose è ancora il capitolo III del Principe tutto animato invero di dialettica drammaticità che riproduce anche nel movimento ritmico e stilistico del periodo il corso di un pensiero torbido e chiuso illuminato a un tratto, per uno sforzo interiore, attraverso stridenti contraddizioni, dalla luce di una verità carpita con entusiasmo e stupore insieme al dubbio e non ancora dominata e svolta.

Mi viene ora osservato che parlando io dei capisetta innovatori nelle scienze, me li conviene in gran parte sottrarre dalle leggi, a cui ho sottoposto le scienze stesse; e chiaramente vedo, che le loro vicende accomunare si debbono a quelle dei letterati; poiché, come filosofi, un cosí splendido loco riempiono degnamente fra essi. Questi pochi innovatori-creatori si debbono dunque in tutto eccettuare da quegli altri tutti, che nelle scienze esatte, dotti soltanto dello scibile, e facendo pure alcuni benché impercettibili passi piú in là del di già saputo, si debbono quindi riputare come le vere ruote dei progressi delle scienze. Questi sono gli scienziati proteggibili e protetti: ed a questi, l'esserlo può sommamente giovare. Ma gli altri, come Euclide, Archimede, Newton, Galileo e Cartesio, interamente corrono la vicenda dei letterati».

Neanche qui il Bertana confesserebbe soddisfatta la candida pretesa di una base scientifica e di una organizzazione sistematica delle idee. Non c'è garanzia di fredda oggettività in questa frammentaria intuizione generata da un violento moto sentimentale: i limiti psicologici suggeriscono di definirla mera fantasia poetica senza filosofica importanza.

Invece l'affermazione del carattere inventivo e creativo della scienza di un secolo di formulismo e di astrattismo basta da sola alla gloria speculativa di un pensatore, anche se l'affermazione non risolve poi, per una necessità che altrove abbiamo chiarita, tutti i problemi suscitati.

Coesistono, è vero, accanto alla scoperta mirabile residui di dogmatismo scientifico, ma talmente lievi e sovrapposti che non turbano la visione generale, e in taluni errori si avverte talvolta fremere quasi un presentimento di verità.

Si ponga mente per esempio quando l'Alfieri parlando dei movimenti dei pianeti dice che «le cagioni di tai moti furono assoggettate a inalterabili leggi dall'ingegno dell'uomo». V'è in questo «inalterabili» qualcosa di rigido che pare in contrasto con l'affermato relativismo della scienza e col carattere creativo del sapere scientifico. Ma a dominare il contrasto ecco l'idea poderosa, profonda quant'è vivida l'immagine, dell'ingegno dell'uomo che titanicamente assoggetta a una legge liberamente creata e indagata i movimenti delle stelle. Immagine cosí forte non poteva scolpire chi non fosse tutto invaso dal pensiero dello spirito come perennità di creazione. Di pari efficacia e di natura identicamente speculativa è il contrasto tra l'entusiasmo per il disinteressato sapere (opera di libertà creativa) e il disprezzo per l'utile empirico che dal sapere può derivare (lusso e arti di raffinatezza).

Ma la sterminata empiria dell'inesauribile sapere scientifico non lascia pace se non si instaura l'impero di una trascendentale unità, che si alimenti, nascendo, dei primi dati naturalistici e venga a purificarsi nella serena e comprensiva assolutezza della metafisica.

«Che se le leggi dei moti dei corpi, scoperte e dimostrate, lusingano pur tanto la superbia dell'uomo, la ignota cagione di esse leggi e la sola terrestre generazione delle piante e degli animali, nascoste entrambe negli arcani d'una profondissima notte, assai piú lo lasciano avvilito e scontento».

Il mero sapere scientifico non può liberare l'uomo da questo pessimismo.

5. La risposta decisiva spetta all'azione e in sede sistematica alla teoria dell'azione.

Ma il pragmatismo dell'Alfieri non è una confusione di elementi mistici, volitivi, sentimentali, psicologistici come la dottrina moderna che va sotto questo nome.

L'attività conoscitiva conclude all'azione; l'azione poi non si intende come esperienza frammentaria, come fatto, ma è l'ultimo grado perfetto e necessario della conoscenza; la conclusione di un organico processo razionale. Si tratta di una interpretazione attivistica della conoscenza e di un'interpretazione razionale dell'attività. Il pragmatismo resta ai suoi primi ingenui e validi motivi, alle prime spontanee e insopprimibili esigenze.

Sorge nello spirito dell'Alfieri come convinzione immediata e quasi impulso di psicologia individuale e solo a poco a poco pervade e informa di sé, attraverso un processo di coscienza concrescente, tutti i momenti della sua riflessione.

Nella «volontà » di Alfieri, uno dei piú discussi e tormentati problemi di psicologia biografica, c'è come il presupposto e il dato primo su cui si elaborerà questa convinzione. Ma non importa a noi accertare i limiti e i risultati della famigerata volontà alfieriana perché il problema biografico si è toccato qui solo in quanto è materia di speculazione filosofica e rivelatore primo degli impulsi originari della riflessione.

La linea di perfetta coerenza dello sviluppo spirituale dell'Alfieri, la feroce intolleranza con cui deduce dalle proprie esperienze gli effetti piú rigidi e piú chiari, lo stato di incomprensione e di solitudine in cui egli deve trovarsi di fronte alla cultura contemporanea, come noi abbiamo rigorosamente dimostrato – dànno argomento allo storico per accettare questa nuova metodologia. L'equivoco delle vecchie indagini non si abbatté per pregiudizi di natura letteraria e di metodologia erudita: invece le fonti valide del pensiero alfieriano si penetrano solo attraverso uno studio misurato e parco degli impulsi che definiscono la sua personalità. La sua cultura non è fatta di libri. E la validità storica delle sue osservazioni non si deve fissare con richiami eruditi, ma con aperte e ingegnose disamine delle sue contraddizioni.

La Vita ci documenta esaurientemente il concetto che qui ci importa: ossia non la sua volontà, ma la volontà di volere.

Il primo sforzo di teoria, il primo momento in cui la riflessione diventa un proposito speculativo si legge nella Virtú Sconosciuta59, un vero piccolo trattato di etica, un saggio di morale eroica.

Il concetto dominante del dialogo è preciso in queste parole di Francesco Gori:

«A ciò ti aggiungea; che ufficio e dovere di uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire; che ogni ben fare essendoci interdetto dai nostri presenti vili Governi, e il virtuoso e bello dire essendo stato cosí degnamente già preoccupato da liberi uomini che d'insegnare il da lor praticato bene aveano assai maggior diritto di noi, temerità pareami il volere dalla feccia nostra presente sorger puro ed illibato d'esempio, e che viltà mi parea lo imprendere a dire ciò che fare da noi non si ardirebbe giammai, ecc.» (La Virtù Sconosciuta, in Scritti politici e filosofici, Paravia, pagine 200-1).

Le conseguenze pratiche di questo pensiero pessimistico (la rinuncia) non sono accettate dall'Alfieri che verso l'amico Gori è in atteggiamento di ammirazione polemica.

Ma attraverso le sfumature della poetica espressione si avvertono qui quattro momenti concettuali che l'Alfieri accetta come agevolmente si può scorgere dal riscontro di altri passi e di altre opere

1) la superiorità del fare sul dire espressa come mera tesi letteraria e quasi conferma della sapienza popolare: in questo primo momento il pragmatismo è poco piú che un'immediata condizione sentimentale benché sia riflessamente espresso;

2) l'idealizzazione trascendentale del risultato empirico, la concezione eroica (übermensch) dell'uomo liberamente operante che ha per termine la vaga lusinga della gloria e per intima realtà «il forte sentire, che per ogni nostra vena e fibra trascorre e a tutti i sensi si affaccia» (ibid., p. 203).

Il superuomo alfieriano ha una realtà etica e concettuale nuova in cui il patriarcalismo dell'eroe greco e romano è direttamente superato nella figurazione di un'infinita e assoluta attività, che trova in sé il proprio fine: e nell'ascesi è ancora piú puro che il martire cristiano da elementi utilitaristici e particolari.

Tuttavia il concetto deve essere altrimenti inverato e ravvivato per generare una nuova etica integrale: il ripensamento si esprime in due sviluppi di razionale ampiezza e di conscia indipendenza;

3) il fare come conoscere: oscura possente intuizione che si sprigiona dalla affermazione fortissima, alfierianamente incisiva «ufficio e dovere d'uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire»;

4) negazione della conoscenza che non è creativa. Così soltanto si può intendere e limitare il pensiero «che de' libri benché pochi sian gli ottimi bastanti pure ve ne sono nel mondo, a chi volesse ben leggerli, per ogni cosa al retto e sublime vivere necessaria imparare» (La Virtú Sconosciuta cit., p. 200). La nostra esegesi di questo pensiero che, accettato grossolanamente alla lettera, sembrerebbe invece bizzarro, è confermata dalla negazione della critica d'arte che l'Alfieri gli fa seguire; e che si deve intendere come cosciente svolgimento del paradosso iniziale: «benché corra adesso questa smania di belle arti, ed alcuni, nulla potendo essere per se stessi, né far del loro, abbiano creata questa nuova arte di chiacchierar sull'altrui; tu sai che io sempre ho reputato esser questa una mera impostura; perché il vero senso del bello si può assai piú facilmente provare che esprimere » (ibid., p. 203).

Dove l'ultima conclusione parrebbe addirittura aderire ad un misticismo del sentimento. Parrebbe – ma in realtà il «provare» è per l'Alfieri (critico egli stesso e, del resto, deferente al Calsabigi) un modo di esprimere, è la ricreazione fantastica contrapposta alla divagazione erudita: la sua polemica s'appunta contro la pedantesca critica acritica che già nel Settecento (nel secolo di Baretti) rappresentava un mondo sopravvissuto – non contro quella moderna critica filosofica che ancora non era nata. E chi pensasse a possibili contestazioni per l'assenza di un preciso linguaggio tecnico dell'Alfieri, rimediti i criteri metodologici già esposti e non dimentichi che nella Virtú Sconosciuta abbiamo la dialettica fusione di due esigenze e l'Alfieri continua ad essere in posizione di polemica verso il Gori, anche se consente con le sue premesse sentimentali pessimistiche e ne esalta l'ardore pragmatista.

Tutto il passo del resto è da esaminarsi in rapporto con la limitazione alfieriana della validità del sapere scientifico (utilitario o astrattamente analitico): ne riesce ancora piú decisamente illuminato il vigoroso concetto del sapere come fare che esclude inesorabilmente il sapere come passatempo, come divulgazione superficiale, erudizione disgregata o ricerca di vantaggio pratico; e per i nuovi chiarimenti è fatto piú preciso il presupposto su cui la polemica si fonda: l'affermazione dell'unità morale.

Nella Tirannide e nel Principe gli sviluppi della dottrina conducono a tre nuove concezioni esplicite che del resto agevolmente si deducono dalla Virtú Sconosciuta. Le posizioni e le antitesi sono troppo inesorabili perché nell'Alfieri non si trova la piú chiara coerenza e la piú netta continuità di pensiero

1. Il concetto del letterato come propagandista (non in senso illuministico, ma rivoluzionario) di libertà: che è il nucleo centrale del Principe e ha una forte espressione di carattere autobiografico nel sonetto conclusivo del Misogallo.

2. La riduzione della scienza della natura, dell'indole e delle passioni umane alla loro validità politica. In caso di rivoluzione gli italiani «che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse storie e nei diversi paesi dello stesso lor secolo la natura, l'indole, i costumi e le passioni degli uomini, quelli solo potranno allora con adeguato senno provvedere a ciò che operar allor si dovrebbe per il meglio; cioè, pel meno male» (Della Tirannide, libro II, cap. VIII). E consiglia a tal fine ai pratici la lettura di Platone.

3. Infine l'approfondimento del concetto del letterato propagandista riesce al concetto del letterato attore, che, se ubbidisce a una possente esigenza autobiografica, non è meno valido teoricamente in quanto presuppone una coscienza dell'unità dello spirito cosí profonda che appena sarà conquistata qualche decennio piú tardi dalla speculazione romantica tedesca. L'affermazione alfieriana, recando con sé una viva esperienza creativa, consente inoltre una valutazione adeguata dei valori individuali e del concetto stesso di individualità.

Una citazione chiarirà la nostra esegesi: «E Bruto e Numa e Romolo stesso erano, sovra ogni altra cosa, conoscitori profondi e scaltri commovitori del cuore umano e delle sue tante passioni; ciò viene a dire che costoro, in altre circostanze trovatisi, sommi scrittori si sarebbero fatti. A pochi uomini concede il destino di poter operare, e di giovar al pubblico in atto pratico col presente lor senno. Quindi, se alcuni di quei pochi a ciò atti, ed a ciò non eletti, si trovano dalle loro circostanze impediti di operare, questi colla lor penna insegnano agli altri ciò ch'essi eseguir non potevano; alle vacillanti pubbliche virtù soccorrono con dilettevoli aiuti; ovvero al vizio già trionfante e in trono muovono essi quella virtuosa guerra di verità, che sola può, smascherandolo, felicemente combatterlo e col tempo distruggerlo. Sono questi, a parer mio, i veri, anzi i soli scrittori; e i più perfetti reputo tra i loro libri quelli che maggiormente un tale effetto producono. Onde dividendo io questa stessa classe di uomini sommamente capaci a commuoverne e guidarne molti altri in letterati attori e in letterati scrittori, osservo che Roma nel fiore e nerbo della sua libertà, moltissimi dei primi ne annovera; e sono gli Orazi, gli Scevoli, gli Emili, gli Attilj e Regoli, e Scipioni e Decj e Catoni; e quei tanti altri insomma, grandissimi tutti, bollenti a gara di amor di virtù, di libertà e di gloria, tre sacre faville, onde si deve comporre ed incendere l'animo di ogni grande, e massimamente quello del vero e sublime scrittore» (Del Principe e delle Lettere, libro III, cap. IV).

La grandezza voluta con pessimistica inflessibilità, l'entusiasmo della disperazione: ecco sopra i motivi tetri della chiusa solitudine diffusa nel dialogo della Virtù Sconosciuta levarsi nel maturo pensiero del vate l'intuizione di un nuovo criterio di teoria umana – nella convinzione della caducità di tutti i dati dell'empiria, nell'eroica rinuncia dell'immanenza l'individuo è ancora eterno nell'atto in cui rende obbiettiva la sua divinità e crea, perennemente rinnovellata nella catarsi dell'assoluto disinteresse, la libertà della storia.

4. Polemica anticattolica.

Abbiamo visto sorgere la filosofia dell'Alfieri dalle intime esperienze del poeta e dell'uomo che rimangono vivissime anche nello sforzo teoretico della riflessione. Abbiamo dimostrato come il vero processo di liberazione dai limiti del suo tempo derivi in lui dal non aver accettato l'esigenza della costruzione sistematica.

Bisogna ora che ricostruiamo la vitale freschezza del suo pensiero nei motivi e nella situazione storica che l'hanno generato: appunto perché frammentario esso può accogliere in ogni istante motivi nuovi di chiarificazione ed esplicarsi piú libero sotto il pungolo di una necessità polemica.

La polemica che occupa il centro dello spirito alfieriano è empiricamente duplice, sostanzialmente una e colpisce contemporaneamente il dogmatismo cattolico e l'assolutismo monarchico.

Occorre distinguere nel pensiero alfieriano la critica al cattolicismo dalla critica alla religione: posta questa legittima e necessaria distinzione, che il Bertana si è scordato, la polemica alfieriana è tutta coerente e chiara; le poche contraddizioni che non si aboliscono per questa via si giustificano come frammentarie digressioni suggerite da motivi artistici: il famoso sonetto «Alto, devoto, mistico, ingegnoso» che muove da alcuni veri e propri concetti religiosi dell'Alfieri, degni di speciale discussione, rappresenta poi nei suoi accenti piú cattolicamente ortodossi il risultato di un episodio di seduzione esercitata da un misticismo estetizzante del culto. E non è problema che qui importi discutere, ossia non rientra in sede di teoria della religione l'atteggiamento pratico attenuato e conciliante che egli assunse durante la rivoluzione francese verso persone e cose del culto: che per reazione all'ottusa antireligioneria gallica egli sia stato tratto a considerare i papi, e insieme i re, quali parapeggio: questo è problema di empirismo storico che si deve discutere solo quando si voglia tessere la cronaca o la biografia esterna dell'Alfieri.

Il documento piú importante del pensiero alfieriano sul cattolicismo è il capitolo VIII del libro I Della Tirannide che nel suo significato centrale racchiude la negazione della vecchia ontologia.

Critica il monoteismo con criteri politici esclusivistici e limitati, ma contemporaneamente affaccia la distinzione tra cattolicismo e cristianesimo, distinzione profondamente romantica e filosoficamente notevole per la sua immediata fecondità ideale; è quasi l'implicito riconoscimento del valore eretico dell'atto che dà vita alla creazione religiosa e nell'Alfieri, contemporaneo agli enciclopedisti e ai catechismi laici, dimostra una singolare inquietudine spirituale e una profonda coscienza dei massimi problemi.

Distingue nella critica del dogma lo spirito dalle forme. Il culto delle immagini, l'eucaristia, ecc. si possono agevolmente svalutare se si prendono arbitrariamente nel loro senso superficiale: ma la loro verità si deve ricercare nell'organismo di cui fanno parte e di cui sono un aspetto e anzi addirittura una mera estrinsecazione: dimostrandole assurde non si dimostra nulla contro il cattolicismo come filosofia, mentre esse rimangono prive di senso quando si sia esaurita definitivamente la critica alle forme ideali del cattolicismo.

I paladini francesi dell'incredulità avevano volte le loro critiche e i loro sarcasmi a l'ingenuità superstiziosa delle credenze popolari: con ciò avevano creduto di stroncare religione e cattolicismo. L'Alfieri aveva accolto nella giovinezza, respirandoli col sensismo ch'era nell'aria, alcuni di siffatti motivi, ma rimase cosí lontano dallo spirito degli enciclopedisti (ritenuti sue fonti dal pregiudizio corrente) che invece dei germi dell'astratta critica intellettualistica e delle sottigliezze razionaliste ha svolto dalle sue premesse una concezione integrale e unitaria della realtà.

La sua critica al cattolicismo significa perciò critica al dogmatismo sterile, che si è sostituito all'esperienza religiosa, condanna della fede diventata convenzionalità, della morale irrigidita nella precettistica, dello spirito falsificato nello schema.

Nel suo ardore libertario la lotta contro il dogmatismo cattolico è lotta contro il Medio Evo, ossia contro una tradizione esausta che è presente solo per soggiogare le menti come un esempio diseducatore di passività.

La sua negazione si rivolge contro la Chiesa, non contro lo spirito religioso e, checché ne sia parso al Berti, muove sostanzialmente da un'intima religiosità, superiore al principio criticato.

Nella storia delle affermazioni teoriche dell'irreducibile contrasto tra la Chiesa e lo Stato nazionale, dal Machiavelli al Vaticano e lo Stato di G. M. Bertini, l'Alfieri si inserisce con piena coscienza attingendo ai motivi di speculazione piú concreti.

Il papa, l'Inquisizione, il purgatorio, la confessione, il celibato ecco le basi antiumane che costituiscono il cattolicismo e che bisogna demolire. Esaminiamo partitamente la dimostrazione alfieriana dell'inaccettabilità di questi concetti e di questi istituti, e per ultima l'indissolubilità del matrimonio che egli combatte, per le ragioni che vedremo, alla stessa stregua, riconducendola alle medesime origini logiche.

Nella negazione del papa è implicita la negazione del dominio temporale, come risulta da questo epigramma:

Sia pace ai frati,
Purché sfratati;

E pace ai preti,
Ma pochi e queti,

Cardinalume
Non tolga lume,

Il maggior prete
Torni alla rete.

Il papa è papa e re
Dessi aborrir per tre.

I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere esservi un uomo «che rappresenti immediatamente Dio; un uomo che non possa errar mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della libertà e il timore, non potendo essere inspirato dalle scomuniche, attesta chiaramente che dove è il pensiero del Pontefice, là è il tiranno, dove vi è dommatismo religioso, là vi sono spade a sostenerlo». Mentre le credenze meramente astratte e prive di pratica influenza (come la Trinità) sono da ritenersi poco nocive anche se irrazionali, «l'autorità illimitata sopra le piú importanti cose, e velata dal sacro ammanto della religione importa molte e notabili conseguenze; tali insomma che ogni popolo, che crede o ammette una tale autorità si rende schiavo per sempre». E per mettere bene in luce l'immoralità della credenza l'Alfieri disegna minutamente il processo antieducativo attraverso cui essa si sviluppa nella sua piena logica. Un popolo sano e libero che accetti la credenza nella infallibile e illimitata autorità del papa «è già interamente disposto a credere in un Tiranno, che con maggiori forze effettive, e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel Papa stesso, lo persuaderà o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche, come già obbedisce al solo Papa nelle religiose».

Il cattolicismo comincia con una rinuncia alla dignità umana e nega e contraddice ogni giusta preparazione all'autonomia dello spirito: ché, se anche la fede venga meno nell'individuo, egli è per questo «tormentato, perseguitato, sforzato da una forza superiore effettiva». Cosí «quella prima generazione d'uomini crederà nel Papa per timore». Ogni sforzo operoso si spegne per ineluttabile logica sotto la costrizione dell'abitudine, ogni spiritualità si irrigidisce. I figli crederanno nel pontefice per «abitudine»; i nipoti per «stupidità». La conclusione del ragionamento appare, attraverso la commozione, impassibile e tragica: fredda verità ineluttabile, angosciosa condanna che stronca ogni velleità. «Ecco in qual guisa un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del Papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo». Ma oggi i piú in Europa ammettono tale autorità senza crederla, e di qui l'Alfieri trae argomento a sperare che non possa essere ormai gran fatto durevole poiché la forza intrinseca di tali vecchi principi è ormai tramontata e si sostengono al presente solo per opera del tiranno.

«Dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante l'inquisizione».

«La inquisizione, quel tribunale sí iniquo di cui basta il nome per far raccapricciare».

«Autorità dei preti e dei frati, vale a dire della classe la piú crudele, la piú sciolta da ogni legame sociale, ma la piú codarda ad un tempo».

Senza pregiudizi di cattolico liberale in anticipo (benché il cattolicismo liberale fosse ormai nell'aria) l'Alfieri afferra la rigida connessione logica e pratica che fa coesistere nell'unità del sistema generale tutti i termini e gli elementi della teoria e della praxis cattolica. La sua critica presuppone la rigorosa coerenza del principio contro cui si esercita. La complicità di inquisizione e tirannide diventa nell'inesorabile polemica alfieriana il nuovo aspetto e l'evidente chiarimento della premessa ideale che aveva rivelato la sostanza dogmatica e tirannica del principio cattolico. La conclusione si esprime ancora una volta nel ritornello «non vi può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo libero».

La critica al concetto di confessione muove apparentemente da premesse di mero buon senso: evita tuttavia la superficialità dell'ateismo francese da salotto e ritrae la sua forza concettuale dal nuovo organismo etico che la determina. La confessione non è da combattersi in sé per le sue incongruenze empiriche: la sua realtà è tutta nel concetto primo di una trascendenza: negandola ci si deve riportare alla negazione centrale. E l'Alfieri la nega infatti in nome di una immanente libertà che riconduce all'interno, alla coscienza dell'individuo il fondamento della morale. Di questa autonomia l'individuo deve sentire e conservare la dignità e la responsabilità deve diventare sacerdote di se stesso: quel popolo che vi rinunci, e si pieghi alla confessione, «non può esser libero né merita d'esserlo».

Echi di settarismo enciclopedistico si trovano nella critica alla dottrina del Purgatorio che l'Alfieri riprova ricordando – non si saprebbe dire se con ironia o con sdegno – la conseguenza pratica che ne scende: «la sterminata ricchezza dei preti, e dalla lor ricchezza la loro connivenza col Tiranno». Tutto ciò «contribuisce non poco ad invilire, impoverire e quindi a rendere schiavi i cattolici popoli». Ma l'Alfieri colpendo insieme confessione e purgatorio – e sia pure con una malizia ingenua e convenzionale – dà ancora una volta prova di sottile penetrazione critica poiché, mentre oppone una critica rispettosa ai principi fondamentali del cristianesimo e non è alieno dall'accettarne la sostanza eterna, si mostra poi inesorabile nell'esame dei dogmi che il cattolicismo vi è andato sovrapponendo non tanto per soddisfare bisogni religiosi, quanto per vincere pratiche battaglie, e coglie tali sovrapposizioni vigorosamente e precisamente. Ora è vero che la distinzione tra cristianesimo e cattolicismo, fatta con lo scopo di accettare il primo per respingere il secondo, non è teoricamente valida; l'Alfieri stesso sa che la logica della trascendenza investe di sé religione e politica e che pertanto non v'è di eterno nel cristianesimo se non la religiosità, l'atteggiamento formale dello spirito mentre caduchi ne sono gli svolgimenti e la precettistica morale dei Vangeli. Tuttavia nell'Alfieri e in tutto il pensiero che prepara il liberalismo nostro questa distinzione si giustifica validamente in quanto soddisfa un'esigenza storica.

L'ultimo motivo alfieriano di critica al cattolicismo nasce da un approfondimento del problema sociale e morale che quasi non era lecito aspettarsi da uno spirito come Vittorio Alfieri pervaso da cosí viva coscienza individualistica che pare rasentare talvolta motivi addirittura anarchici. L'Alfieri contesta la legittimità del celibato dei preti, ma alla sua osservazione (comune ai tempi e anzi tutt'altro che recente) dà il preciso carattere di negazione di ogni egoismo individualistico. Al cattolicismo oppone il cattolico spirito del Vangelo. Al dogma la morale: «dall'essere i preti cattolici sforzatamente perpetui celibi non sogliono mostrarsi né fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e praticare virtuosamente questi tre stati troppo importa il conoscere per esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e di marito».

Contro questa affermazione potrebbe qualche bello spirito, banditore di una precettistica, opporre la vita privata dell'Alfieri: e dire che non è valida la giustificazione teorica da lui offerta del suo celibato, poiché, in sede teorica, un dovere morale si commisura all'attività spirituale di un individuo nella sua assolutezza, non ad una condizione contingente quale è lo stato politico di libertà o di schiavitú del paese.

Tuttavia la contraddizione mettendo in luce quanto intensi fossero nel nostro i motivi di disgregazione sentimentale e le aspirazioni anarchiche, offre una misura valida per intendere l'importanza del suo concetto che scaturisce potente da una elaborazione profondissima. Il momento astrattamente individualistico del liberalismo è superato in una salda coscienza dei valori dell'individuo come individuo sociale. Il termine uomo è inverato nei termini cittadino e padre: fuori della famiglia, intesa non egoisticamente o affettivamente ma come primo nucleo sociale, non v'è moralità perché non v'è organismo.

Insieme con il celibato dei preti l'Alfieri combatte l'indissolubilità del matrimonio, instaurata dal cattolicismo: come egli ricolleghi questa critica al concetto centrale conquistato dianzi, non si vede; e non v'è ragione perché dei danni notati nel matrimonio perpetuo s'abbiano a incolpare, com'egli fa, i tiranni.

Ma, senza tentare una pedantesca giustificazione, basterà avvertire che il radicalismo era nell'aria.

5. Polemica antimonarchica.

Parallela alla negazione del cattolicismo si svolge, come già s'è intravvisto, la critica alla tirannide: anzi vi è tra i due elementi una sostanziale unità.

Checché sostenga di diverso lo Scandura, tra monarchia e tirannide non v'è differenza per il pensatore astigiano. Il costituzionalismo non gli offre garanzia di sorta perché egli non si è mai fermato a studiare con giuridica sottigliezza il problema delle forme di governo.

Sotto lo stimolo del giusnaturalismo egli è tratto a pensare la storia secondo un principio schematicamente dualistico: il trionfo della libertà e, antitetico con esso senza possibili mediazioni, il dominio della tirannide.

Ma se il punto di partenza resta il giusnaturalismo, la statica concezione di Rousseau e l'incapacità sua di comprendere l'organismo sociale è superata dal Nostro in una visione trascendentale che riconduce libertà e tirannide a un principio pragmatistico e a una dinamica volontaristica.

Dove la volontà è autonoma, dove il principio di ogni miglioramento e svolgimento è in noi stessi, quivi esiste libertà; da una stessa giustificazione, da una stessa base morale nascono dunque per l'Alfieri libertà individuale e libertà sociale.

Si trova tirannide contrapposta a libertà dove all'autonomo svolgimento che ha in sé il suo fine e il suo principio si sostituisce e sovrappone una esterna gerarchia che negli uomini veda uno strumento per la soddisfazione di limitati interessi da cui tutti, eccettuato il tiranno, restano esclusi.

Non si attenda a questo punto dall'Alfieri la giustificazione che lo storico può e deve dare della tirannide, esaminando realisticamente le cose. Studiare nel Settecento la questione da un punto di vista storico significava schierarsi già inizialmente coi fautori della tirannide. La forza dell'Alfieri dunque è nella sua debolezza. Rinunciando al realismo politico egli conquista una posizione di realismo filosofico. Il profeta si libera dal suo tempo perché non lo capisce (o meglio non lo capisce da politico): in questo paradosso c'è la definizione piú rigorosa di tutte le torbide divinazioni dei precursori.

L'Alfieri nega la tirannide perché piú forte dell'esigenza sociale freme in lui il represso ardore di una attività individuale, piú forti di tutti i motivi democratici lo animano gli impulsi anarchici e aristocratici della sua esuberanza e della sua concreta coscienza creativa. La sua critica è superiore all'enciclopedismo e al liberalismo sensistico. Benché la sua fraseologia sia ancora sostanzialmente quella dell'utilitarismo, egli tende ad elaborare una concezione precisa della società come necessario organismo ideale, e dello spirito come socialità; e si guarda dal ricader nelle incoerenze dei democratici che per un risultato edonistico erano pronti ad accettare trascendenza e dispotismo.

L'Alfieri fu conscio talvolta dell'astrattezza che caratterizzava la sua critica e allora, benché privo di cultura e di esperienza storica, seppe elevarsi a visioni sintetiche di potenza vichiana. La coscienza dell'inesauribilità dello spirito, in lui limpidamente teorizzata, gli suggerí idee luminose sulla relatività delle cose umane che temperano e arricchiscono nella sua considerazione della storia il rigido sistema iniziale dell'entusiasmo immanentistico.

«È il vero che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua: e che (come già il dissero tanti savi) la libertà pendendo tuttora in licenza degenera finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà» (Della Tirannide, libro I, cap. I).

Al primo semplicismo della concezione dualistica è qui sostituita una lucida visione di concretezza dialettica da cui l'Alfieri si affretta a dedurre una norma di pratico operare: «...ogni uomo buono deve credere e sperare che non sia ormai lontana quella necessaria vicenda per cui sottentrare alfin debba all'universale servaggio una quasi universal libertà» (ibid.). Qui dal mondo metafisico s'è passati a una concreta situazione storica e a questa significazione relativa si devono specificamente commisurare quelle affermazioni che soltanto per maggiore efficacia e quasi per artificio di scrittore si enunciano come se rivestissero un valore assoluto: per non aver posto mente a ciò gli interpreti dell'Alfieri si sono perduti in tanti equivoci e incertezze.

C'è un'altra giustificazione della tirannide, di carattere decisamente metafisico, cui l'Alfieri accenna appena, ma che avrebbe dovuto far meditare i critici frettolosi sulla complessità e sulla feconda inquietudine del suo pensiero. – Nel primo libro del trattato Della Tirannide abbiamo visto il tiranno considerato come colui che sa conoscere gli uomini e perciò valersene. Tutto lo spirito del primo libro Del Principe e delle Lettere anche se s'intende come satira e sarcasmo, è necessariamente fondato su una premessa teoretica che nella tirannide riconosca qualcosa di praticamente e teoricamente valido. E non siamo noi i primi a notare che attraverso le tragedie la figura del tiranno s'impone e opera come realtà ideale da cui l'Alfieri è persino affascinato quando nel tiranno c'è forza e in chi gli soggiace debolezza. Egli voleva per i suoi uomini di libertà la tempra ferrea dei suoi tiranni e sentiva in sé i due eroici furori della libertà e della forza sino a voler impersonare insieme, quando recitava egli stesso il suo Filippo, le due figure antitetiche di Carlo (libertà) e di Filippo (tirannide).

Tuttavia esigenze estetiche e sentimentali sono crudelmente, imperiosamente soffocate dal prevalere di una sola esigenza morale la negazione della tirannide acquista il pathos della negazione dell'apostolo.

Reciso contro ogni dubbio l'Alfieri scultoriamente definisce: «La parola Principe importa: colui che può ciò che vuole e vuole ciò che piú gli piace; né del suo operare rende ragione a persona; né v'è chi dal suo volere il diparta, né chi al suo potere e volere vaglia ad opporsi» (Del Principe e delle Lettere, libro I, cap. II).

«E quindi o questo infrangi legge sia ereditario o sia elettivo, usurpatore o legittimo; buono o tristo; uno o molti; a ogni modo chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare è tiranno» (Della Tirannide, libro I, cap. II).

Le parole in corsivo mostrano a chi parli di fonti del pensiero alfieriano quale abisso vi sia tra queste affermazioni e la dottrina del Montesquieu.

Riprende l'esame delle seduzioni estetiche che su lui aveva esercitato la figura del principe; ogni incertezza è stroncata: si dimostra inesorabilmente che il principe, considerato come conquistatore, come legislatore, come mite governante, è sempre vituperevole e inutile all'umanità. Gli esempi son scelti tra i piú efficaci: implacabili sono le «stroncature» di Alessandro, di Ciro, di Tito.

Conclude: la tirannide è l'antitesi del vivere umano: «se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi che dei simili a Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? Nol credo; poiché i Romani non ridivennero maggiormente romani sotto Tito, né sotto Traiano, né sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio e Nerone» (Il Principe e le Lettere, libro II, cap. VIII).

Dai primi motivi sentimentali ed egoistici la critica s'è trionfalmente ampliata e integrata sino a diventare una decisa affermazione morale: la polemica contro il monarca si trasforma in negazione assoluta del dogmatismo politico: il problema s'arricchisce di un intimo contenuto pedagogico e il liberalismo è ricondotto ai suoi fondamenti filosofici. Gli sviluppi empirici, le parentesi quasi autobiografiche, gli stessi particolari erronei non devono esser esaminati ingenuamente come tali, ma accettati in quanto illuminino ed esprimano con approssimazione simbolica il coerente edificio sistematico della sua divinazione immanentistica.

Anzi la casistica pratica che si deduce immediatamente dalla teoria dimostra, in un secolo di sensismo, l'irreducibile aspirazione a una assolutezza filosofica: non solo si combatte il cattolicismo, ma lo si vuole sostituire integralmente. Con una logica serrata l'Alfieri deriva dalle sue premesse l'esigenza del tirannicidio: il suo immanentismo essendo fortemente legato a motivi di immediatezza spirituale e di ingenuo impulso creativo è naturale che egli contrapponga all'individuo l'individuo, al tiranno la passione del regicida. V'è in questa coerentissima logica astrattismo e inesperienza politica: ma è quell'inesperienza che fonda le nuove esperienze.

E qui è il luogo di intendere e chiarire quel concetto apparentemente contraddittorio e assurdo – che si trova nel Panegirico a Traiano e qua e là in frammenti delle altre opere – che il solo principe degno di rispetto sia quello che dona la libertà ai suoi sudditi rinunciando al dominio. Inteso il concetto grossolanamente si tornerebbe in pieno estetismo umanistico, e alla visione della politica come coscienza e organizzazione di coscienze si sostituirebbe il gesto esterno, si porrebbe come fecondo di conseguenze universali un atto limitato, isolato, scisso dalla storia. Non certo ad una libertà donata aspira l'Alfieri; la sua libertà deve esser frutto di inesausta volontà e di laboriosa iniziativa. Nel Panegirico dunque non v'è né un programma politico, né un ideale: si esprime la crisi di coscienza del tiranno, si mostra in lui il doloroso contrasto tra la sua qualità di tiranno e il pensiero che gli deve nascere in cuore naturalmente appena si senta uomo. Cosí non v'è liberazione per lo spirito del despota fuor che in questo ideale suicidio; la tragedia intima colta dalla fantasia dell'artista è la riprova rigorosa dei motivi di critica teorica.

L'Alfieri enumera tre modi di origine della tirannide:

1) la forza;

2) la frode;

3) la volontà dei sudditi mossi da corruzione; e vede in tutti e tre il prevalere delittuoso di una volontà malefica artificiosamente operante tra individui incapaci e ingenerosi.

Monarchia e dispotismo non si distinguono perché il monarca moderato essendo tale per suo arbitrio è in ciò tiranno e i sudditi, anche se non sono malmenati, sono schiavi. Ricondotto il criterio della distinzione tra tirannide e libertà alla possibilità di sviluppo dell'attività autonoma dei cittadini, la presenza di un dominatore che attinga la sua autorità dall'esterno è di per se stessa, esclusa ogni considerazione sulla benignità o ferocia dei risultati, una limitazione, una diminuzione di spiritualità per chi gli sta di fronte e gli è sottoposto. L'esigenza dell'autorità in un mondo libero si attua per un processo dialettico a cui tutte le forze partecipano, sí che il dominatore serve ad un tempo ed è espressione e simbolo di tutta la realtà. La monarchia assoluta o moderata, asiatica o europea è sempre un insulto a questa legge e la sua benignità non è che un nuovo peccato di ipocrisia. Se c'è in questa critica un torto esso non dipende da altro che dall'arbitrio con cui se ne è pensata l'esegesi. Il processo storico ha dimostrato che la monarchia, essendo realizzazione empirica di un concetto, e perciò sottoposta all'imprevisto della praxis, può rinunciare alla sua iniziale giustificazione teorica senza rinunciare a se stessa. La logica dei concetti non è la logica della pratica. Nella dialettica storica la libertà non esita mentre si afferma a servirsi degli istituti stessi che sono sorti dalla sua antitesi. Il costituzionalismo giuridico ha rivelato nel corso di un secolo le sue eccellenti capacità di mediatore e ha dato le garanzie necessarie nella conciliazione. Questo mondo di realizzazioni particolari e di limiti empirici si sottrae al dominio della profezia. Il profeta è il filosofo dell'iniziativa, della forza che si esprime rivoluzionariamente, il teorico di oscure volontà e di inesauribili impulsi spirituali. Gli elementi del contrasto e della dialettica unità si sottraggono alla coerenza lineare che li ha fatti scaturire e che continua a presiedervi come norma e legge operosa. Lamentare che Vittorio Alfieri non abbia divinato l'unità d'Italia sotto la monarchia costituzionale vuol dire lamentare che la storia non sia finita con Vittorio Alfieri. La storia non ubbidisce ai propositi degli individui, non corrisponde mai ad alcun schema. Ma gli schemi sono il segno delle volontà che vi incalzano, che la creano. Un Alfieri costituzionalista in pieno secolo XVIII avrebbe potuto soltanto documentare un momento di stasi e di interruzione, segnare un esame di coscienza e una rinuncia riformistica. Era il momento eroico dell'azione, l'alba di una catarsi per cui i miti dovevano far scaturire volontà pure e inesorabili, rigide sino al messianismo. Poi sarebbero venuti i legisti a foggiar misure e a costruire formule intellettualistiche. Ma il realismo politico voleva forze e ideali senza cui il momento del relativismo formulistico sarebbe stato arido e decadente. La negazione della monarchia in Vittorio Alfieri è dunque una volontà e perciò non ammette transazioni, è una forza ideale e non una riforma repubblicana.

Liberi i critici di trovare imprecisioni dove l'Alfieri vuole formulare in una parvenza di sistema pratico gli sviluppi della sua teoria.

L'Alfieri si è preso cura nel suo trattato di enumerare quasi diligentemente i sostegni della tirannide: la paura (dell'oppresso e dell'oppressore), la viltà (che instaura il regno dell'adulazione), l'ambizione (viziosa dove vale soltanto a soddisfare private passioni e a procurare turpi sterminate ricchezze), la milizia, la religione, il falso onore (tirannide esclude sincerità: rimaner fedeli al tiranno vuol dire essere in realtà spergiuro e fedifrago), la nobiltà (sorta eroicamente come classe politica ma corrotta e schiava per la permanenza a Corte), il lusso (che inverte e contamina tutti i valori).

Una enumerazione che potrebbe essere continuata e in cui si trovano, è vero, punti di riferimento col Montesquieu ma, forse piú, derivazioni numerose dal semplice senso comune. Il criterio secondo il quale il pensiero alfieriano va giudicato non consiste in una sottile critica di carattere tecnico, ma si deve riportare ancora una volta all'unità sentimentale della passione e della coerenza alfieriana. La negazione della tirannide ha anche in questi sviluppi la sua misura in una originale coscienza etica.

Dove queste affermazioni sembrerebbero implicare una risoluzione di problemi concreti economicamente o politicamente determinati, l'Alfieri non riesce a nascondere la sua fretta e la sua impreparazione. Non nelle sue opinioni economiche consiste la sua grandezza di pensatore politico. Nella sua profezia che è un sistema e un'aspirazione diventati imperativo categorico, i riferimenti all'economia non possono non essere utopistici; e, conscio della loro astrattezza, l'Alfieri vi attribuisce un significato del tutto secondario: dove questi suoi accenni hanno avuto nella storia una conferma non è possibile trovarvi alla radice un'inesorabile volontà che trasformi il caso in profezia e organismo. La negazione del lusso sembra dedotta dalla negazione del principio della disparità eccessiva delle ricchezze: ma, benché il secolo XIX abbia in un certo senso segnato il tramonto delle grandi proprietà feudali, la negazione alfieriana resta tuttavia connessa all'astrattismo dei primi socialisti utopisti. Cosí è tutta casuale l'acutezza apparente della sua critica all'accumulamento dei beni di terra in pochissime persone, benché l'Ottocento sia stato per l'appunto il secolo della piccola proprietà; e non è dipendente da una precisa giustificazione tecnica o da una esperienza economica il fatto ch'egli non si preoccupi invece della disuguaglianza di ricchezze proveniente dall'industria, dal commercio e dalle arti: egli non poteva avere certo dinanzi agli occhi il quadro specifico dell'evoluzione della società borghese; ma in realtà pur muovendo da Rousseau recava in sé i germi dell'assoluto attivismo del liberalismo moderno.

La negazione della milizia poi non può intendersi in alcun modo come anticipazione dell'ideologia pacifista. Invero l'ideale aristocratico e attivistico dell'Alfieri difficilmente gli avrebbe potuto concedere l'adesione a sogni democratici di pace universale: con la sua profezia egli porta l'annuncio di una lotta, non la rinuncia di un ripiegamento. Ogni affermazione di un imperioso dover essere, deve santificare ed esaltare almeno una guerra, che realizzi l'ideale impegnando tutta la personalità: e la milizia ne è strumento necessario. Cosí pensa l'Alfieri e, nonostante i dilettanteschi pregiudizi di ripugnanza alla disciplina militare che si trovano qua e là nella Vita e nelle Satire, è ben conscio del processo di eroica disciplina e dedizione attraverso cui deve attuarsi la redenzione della libertà.

Ma la milizia nella tirannide non è milizia: «non potendosi dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove non c'è patria riesce pur sempre il piú infame di tutti i mestieri: poiché altro non è se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, gli amici e i parenti e il proprio interesse e la vita e l'onore per una causa obbrobriosa ed ingiusta».

6. La morale e la metafisica della libertà.

L'aspirazione dell'Alfieri, antitetica alla rinuncia del Gori – «dalla feccia nostra presente sorger puro ed illibato d'esempio» – è una di quelle posizioni eroiche che riesce agevole demolire ai critici positivisti e intellettualisti, usi a porre schemi e a trovar contraddizioni dove si tratterebbe di interpretare e valutare chiaroscuri di pensiero. È vero che la sua filosofia non liquida, con chiarezza di superatore, i problemi del passato; la sua arte può parere un astratto programma, la sua politica un'intransigenza intemperante. Al passato egli ha opposto immediatamente la sua spontaneità d'individuo, la sua originalità ingenua. Nei momenti piú tragici e incerti dello sviluppo storico, come «quando in corsa ed alle svoltate una slitta minaccia di cader da una parte, ci vuol pure – cosí dice Prezzolini – qualcuno che si sacrifichi, che si sporga tutto fuori dalla parte opposta». Ma la storia nella sua coerenza lineare e nella sua razionalità di conservatrice deve essere ingiusta e quasi parer sconoscente verso queste aspirazioni che pur concorrono potentemente a crearla.

Chi volesse farsi un'idea approssimativa dell'importanza dell'etica alfieriana dovrebbe indagare in quali occasioni e quante volte egli sia parso ed abbia concretamente operato come «esempio» agli uomini d'azione e ai pensatori, e ai moralisti della nuova precettistica che venne in vigore nel Risorgimento e che non è ancor spenta: qui si troverebbe materia per un nuovo problema di critica storica ben degno di meditazione: Alfieri e la storia dei costumi e dei sentimenti.

Ma questo è soltanto un aspetto della morale alfieriana: per esso lo scrittore partecipa concretamente alla formazione spirituale del nuovo popolo, ma soltanto indirettamente alla creazione di una civiltà europea. Sarebbe agevole organizzare in sistema questa nuova precettistica e casistica morale quando si tenesse ben presente che la sua origine e la sua unità consistono nella polemica contro il legalismo etico del cristianesimo giudaico e contro l'utilitarismo teologico. Invece noi non crediamo né alla necessità né alla possibilità, teoreticamente valida, di una casistica morale anche se sappiamo esser dimostrabile la sua insopprimibilità nei limiti relativistici di una illusoria pretesa d'organicità. La casistica che l'Alfieri oppone alle consuetudini etiche del cattolicismo ha la sua validità (come la sua origine) nella psicologia e nella personalità sua. È chiaro dunque che se ne dovrà tener conto solo come di documento d'un intimo pensiero – libero e trascendentale perché legge filosofica di cui quei particolari sono soltanto un'esemplificazione difficilmente sottratta all'arbitrio.

Il centro vero del pensiero alfieriano, che gli dà diritto d'inserirsi nella storia europea del pensiero della libertà – con forza e giustizia ben superiore a quella che ne possano vantare i romantici del primo Sturm und Drang – sta nel suo concetto di volontà. La scuola antropologica ha combattuto una delle sue piú sterili e vuote battaglie quando ha preteso di dimostrare l'inesistenza della volontà alfieriana. Positivisti, livellatori, rigidi democratici, vagheggiatori di dogmi materialmente grossolani e di fisica trasparenza – identificavano la volontà da essi cercata col fanatismo, colla pesantezza, con gli occhi bendati. In Alfieri non si trova questa volontà. Anche il Bertana, quando sostiene che la volontà dell'Alfieri non si traduce mai in azione, pensa alla massiccia coesione intollerante della «Volontà» dei Gesuiti, validi amministratori ed esecutori senza incertezze, senza dissidi. L'intolleranza dell'Alfieri è invece essenzialmente comprensione. La sua volontà è il momento della luce volitiva che balza direttamente da una crisi della volontà perpetuamente riprodotta. Il segreto della sua azione sta nel suo pessimismo che non si può penetrare se non si intende il piccolo testo eroico a cui è affidata la descrizione della sua genesi: il Dialogo della Virtú Sconosciuta. Gori non agisce perché non ha fede, Alfieri «indomita, impetuosa indole» agisce perché non ha una fede. L'ideale non illumina dall'esterno, rimanendo in alto inafferrabile, ma sorge dall'azione, sta nella disperazione stessa con cui accettando l'ineluttabile coscientemente, rinunciando fermamente ad ogni illusione e ad ogni falsità, nata soltanto da debolezza e da egoismo, si ritrova il criterio austero della virtú nel disinteresse della solitudine. Anche la fama è soltanto dolce e utile chimera in quanto possa essere cagione di bell'opera umana (p. 202). Cosí questa volontà di disperazione e di negazione riconquista il suo momento positivo, diventa la base su cui si può costruire ancora, consci della tragedia che il moderno concetto di immanenza impone agli spiriti.

Nel Principe, chiarendo le premesse della Virtú Sconosciuta, l'Alfieri cosí definisce, contrapponendola all'impulso artificiale, l'assoluta individualità del volere che egli chiama impulso naturale: «è questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace, né loco, una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla».

Per chi ha ben compreso il nostro ragionamento, non è possibile trovare in queste espressioni un individualismo anarchico o una mera morale nietzscheana: c'è invece implicita tutta l'attivistica morale moderna.

Non bisogna limitarci alla mera affermazione finale di questo volontarismo: bisogna vedere come esso sorga da un dialettico contrasto, commisurandosi a realistiche premesse etiche. Il principio volitivo è per lui l'affermazione dell'autorità che dà una forma e una coscienza al mondo della libertà.

E la libertà è per l'Alfieri il coefficiente primo della personalità non si è uomini se non si è liberi. Il concetto è indagato nel suo valore teoretico in quanto costituisce la condizione dello sviluppo delle facoltà intellettuali; nel suo valore etico come determinante di tutte le virtú e identico esso stesso con magnanimità, giustizia, purezza; come mito di azione perché scaturigine del pensiero della gloria. Nessuna rigidezza deterministica penetra in questo regno dell'assoluta autonomia: il solo elemento di determinismo è la decisione stessa, ma l'impulso che determina, ossia fa diventare atto la mera potenza, è ancora libertà.

La libertà conquistata attraverso l'utilitarismo riformistico, cara agli enciclopedisti francesi, non ha senso alcuno per l'Alfieri, come non ha senso una libertà politica che non si fondi sulla libertà interiore – intesa questa come forte sentire.

Nel concetto alfieriano insomma c'è una vera e propria affermazione di carattere metafisico.

La libera pratica delle virtú politiche è realizzatrice di libertà costituzionali e sociali in quanto nasce dall'attività operosa e indipendente dei cittadini. Condizione per essere cittadini, per essere liberi è la conoscenza dei propri diritti: ma come per conoscenza si deve intendere, in linguaggio alfieriano, una vera e propria azione, cosí diritto non significa astratta capacità ma volontà ed esplicazione. Il fatto politico include sempre un fatto morale. «La libertà è la sola e vera esistenza di un popolo; poiché di tutte le cose grandi operate dagli uomini la ritroviamo esser fonte».

Questa idea è la metafisica dell'Alfieri: il suo assoluto, il suo Dio. Di qui vedremo nascere la sua religione e la sua politica.

7. La religione.

Di questa unità sistematica l'Alfieri ebbe coscienza e l'affermò quando diede forma concettuale alla sua dottrina della religione. Il credo alfieriano si rivolge a una religione e a un dio «che sotto gravissime pene presenti e future comandino agli uomini di esser liberi». «Comandino» è detto per metafora: non che ci sia chi deve comandare e chi gli sottostà: colla locuzione si indica l'universalità e la necessità di questa credenza che coincide con l'autonomia dei credenti e non contempla nulla di esterno: imporre agli uomini la libertà vorrebbe dire che la libertà è di tutti, è possibilità che basta esser uomini per realizzare. La religiosità alfieriana è il trionfo dei valori interiori. Le religioni costituite e dogmatiche separano tra autorità gerarchica e umiltà di popolo, tra impero e ubbidienza: alla loro base, piú profonda ancora di ogni esperienza mistica, sta un principio utilitario, un calcolo di cui le classi gerarchicamente piú elevate si servono. La religione della libertà esclude interessi e calcoli, esige, come efficacemente scrive l'Alfieri, fanatismo negli iniziatori, e negli iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell'ardore completo per cui non c'è soluzione di continuità tra pensiero e azione. Ne risulta un'unità di apostolato che anticipa i caratteri dell'opera mazziniana. E un po' di mazzinianismo c'è anche nelle premesse teoretiche di questa religiosità; ma è un mazzinianismo senza elementi giansenistici né misticizzanti e gli resta superiore in quanto si esprime in un momento di precursore mentre in Mazzini teorico si avverte qualcosa di sorpassato. In Alfieri c'è, oscuramente, la concezione dialettica del liberalismo. Mazzini soggiace alle incoerenze del poderoso mito di azione che instaura.

Alfieri è un'anima religiosa e mentre propone la sua concezione libertaria sente intensa e profonda vicinanza spirituale con tutte le anime eroiche della religione. Il quinto capitolo dell'ultimo libro del Principe (Dei capisetta religiosi; e dei santi e dei martiri) non è in contraddizione con ciò che altrove l'Alfieri ha affermato in netta polemica contro le religioni positive; anzi dimostra quale senso squisito egli possegga dell'importanza spirituale della religione e del suo valore di sincerità creativa. Come tutti gli spiriti religiosi l'Alfieri ha sentito il fascino della figura di Cristo; e, mentre nella Tirannide esalta l'importanza della prima dottrina cristiana della civiltà, nel Principe si sforza di attribuire a Cristo il significato, che per lui trascende ogni altro, di creatore di politica libertà.

Indipendente da ogni forma di settarismo demagogico, l'Alfieri si assume la difesa dei creatori di religione contro i moderni che li svalutano. Codesti critici gli appaiono i soliti rappresentanti della solita «semifilosofia» che cela nello stile leggiadro superficialità intellettualistica e povertà etica. L'Alfieri distingue tra l'importanza pratica e l'importanza filosofica dei santi e capisetta: in altre parole, tra la forma della loro attività e l'empirico contenuto. Il suo giudizio è severo e limitativo quando li esamina da questo secondo punto di vista; quando invece li considera secondo il primo, frena a stento l'entusiasmo. E osserva che oggi di questi santi si ha scarsa stima solo «perché si giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall'impulso che li movea, e dalla inaudita sublime tempera d'anima di cui doveano essere dotati; abbenché con minor utile politico per l'universale degli uomini l'adoprassero». La distinzione è filosofica, sottile, precisa. Nei moderni contro cui la critica è diretta si ravvisa esplicitamente Voltaire.

«I moderni scrittori invece d'innalzare e insegnare la sublimità pigliandola per tutto dove la trovano, col loro debole sentirla, e col piú debolmente lodarla, affatto la deprimono ed obliar ce la fanno. Ma poiché i piú leggiadri fra essi (fattisi intieramente padroni di un'arma tanto possente quanto è la ingegnosa derisione) hanno pure scelto di migliorare e illuminar l'uomo col farlo ridere, ecc., ecc.».

Dove accanto a una netta ripresa dei già notati motivi antintellettualistici troviamo un notevole punto di riferimento per contestare i risultati dei cercatori di fonti enciclopedistiche e più precisamente voltairiane.

E qui ancora si può finalmente chiarire la distinzione alfieriana tra cattolicismo e cristianesimo. Nel cattolicismo c'è un'organizzazione sistematica di principî, un organismo, costituito in gerarchia: allo sforzo di creazione è succeduto il momento dell'effettuazione pratica che si svolge attraverso transazioni, opportunismi, adattamenti: il sistema si presenta (per un fenomeno illusorio della praxis sociale su cui tuttavia s'imposta la legge stessa di esistenza della politica) definitivo; il principio necessario è una rigida disciplina. Alfieri, iniziatore di una grande civiltà, profeta, al tempo stesso, di una nazione e di un mondo, ha presente la necessità dello sforzo puro dello spirito, dello sviluppo ardimentoso di tutte le iniziative morali; gli è difficile intendere il fenomeno sociale nelle sue apparenze statiche, nei suoi momenti convenzionali; vede le cose mentre si creano, assiste all'affermarsi imperioso e integrale del suo mondo di libertà; per lui l'organizzazione si fonda sull'anarchia come responsabilità dei singoli; ossia l'anarchia non esclude l'organizzazione perché è figlia diretta di motivi liberali, aristocratici e volontaristici. Questi caratteri appunto si possono ritrovare nel cristianesimo che è l'antitesi del cattolicismo in quanto lo prepara; ed è la negazione del dogma perché crea il dogma.

Per noi che siamo fuori del cattolicismo e lo vediamo come un passato in certo senso concluso, il dogma e l'organismo rigido della Chiesa si dimostrano nella loro fecondità matura nettamente superiori all'entusiasmo ingenuo della prima parola cristiana: per l'Alfieri, che vive nel cattolicismo e lo deve superare, rivendicare l'originalità del momento cristiano è come un processo simbolico per affermare un nuovo momento creativo che si sostituisca alla stasi in cui l'antico ardore di originalità religiosa s'è esausto.

Ma il concetto alfieriano non ha soltanto questa importanza di relativismo pratico: ha valore teoretico in quanto coglie il significato della vita religiosa come fervore, come misticismo psicologico: questo infatti è il solo elemento irriducibile (formale) intorno a cui si possa organizzare una teoria della religione e dimostrarne l'universalità. (Il misticismo teoretico e metafisico è proprio solo di quelle religioni che pensano Dio come essere. Né la Riforma s'è liberata da questi residui: perciò il pensiero alfieriano, che prepara la nuova coscienza laica dello Stato italiano, le è nettamente superiore: chi parlerà di una necessità di Riforma in Italia dopo l'Alfieri coltiverà un'illusione e un anacronismo). Se il cattolicismo è squisitamente politico mentre il cristianesimo è la solitudine della teoria e del sentimento morale, il cristianesimo anticattolico dell'Alfieri è un'altra prova della nostra tesi che il suo pensiero sia piú filosofico che politico.

Di qui la simpatia con cui egli guarda agli eretici rappresentanti del pensiero religioso nella piú intensa espressione di libertà. Il concetto che l'eresia sia il vero momento creativo della religione (Loisy) è dunque coscientemente precorso dell'Alfieri. Nasce con lui il solo modernismo italiano valido.

La distinzione tra cristianesimo e cattolicismo trova un nuovo chiarimento nel diverso giudizio che vien dato degli uomini di religione secondo che siano stati espressione eroica di virtú (santi), o diventino strumenti della tirannide (preti). Ecco scultoriamente colta l'antitesi: «Costoro tutti, – e si riferisce ai martiri, – avendo avuto al loro operare lo stessissimo sovrano irresistibile impulso che debbono avere i veri letterati, alle stesse vicende di essi per vie e cagioni diverse soggiacquero. E mi spiego. Costoro finché furono lasciati fare da sé, puri, incalzanti e severi mostraronsi; perseguitati divennero piú luminosi, piú forti e maggiori direi di se stessi; protetti finalmente, accolti, vezzeggiati, arricchiti e saliti in potere, si intiepidirono nel ben fare, divennero meno amatori del vero, e pur anche sotto il sacrosanto velo di una religione ormai da essi scambiata e tradita, asseritori vivi si fecero di politiche e morali falsità» (Del Principe e delle Lettere, cap. cit.). Tradotti i termini alfieriani in termini nostri: identità di religione e di libertà, di religione e di letteratura: l'impulso interiore centro di ogni azione.

La religiosità dell'Alfieri, il suo rispetto per i creatori di religione non vela il suo pensiero quando concludendo deve porre una negazione assoluta poiché nel cristianesimo (e tanto piú nelle altre fedi) c'è latente il principio dogmatico di cui egli ha dato, come s'è visto, la piú formidabile critica nella polemica anticattolica.

La fede che l'Alfieri pensa di instaurare è l'antitesi di tutti i dogmatismi; bisogna che si differenzi dalle altre fedi, le neghi, le limiti. Accanto all'esaltazione del momento religioso dello spirito troviamo perciò un principio sereno e solido di critica delle religioni positive. «Il credere in Dio insomma non nocque a nessun popolo mai; giovò anzi a molti; agli individui di robusto animo non toglie nulla; ai deboli è sollievo ed appoggio» (ibid.). La religione positiva e dogmatica è un'esigenza per gli spiriti deboli, è un principio di sicurezza e di conforto offerto al loro isolamento e, quando non sia politicamente diseducativa e tirannica, quando non spenga gli sforzi individuali, ha una limitata verità nella misura in cui corrisponde a una situazione psicologica.

Cosí nuovamente e acutamente intende l'Alfieri il vecchio principio della religione per il popolo.

Ma per il popolo nuovo che egli vagheggia, per il popolo mosso a virtú da forti scrittori, per il popolo indipendente annunciato nel Principe (libro III, cap. X), principio formatore e direttivo deve essere la religione di libertà. Non piú conforto per i deboli ma sicurezza dei forti, non piú culto di un'attività trascendente, ma attività nostra, non piú fede ma responsabilità. È la religione di una coscienza piú ampia che si sostituisce a una religione rudimentale. Contro il dogma nasce l'autonomia. I termini dell'Alfieri sono cosí precisi che devono togliere ogni dubbio a chi ci ha seguiti sin qui.

«La ragione e il vero sono quei tali conquistatori che per vincere e conquistare durevolmente nessuna arme devono adoperare che le semplici parole. Perciò le religioni diverse e la cieca obbedienza si sono sempre insegnate coll'armi, ma la sana filosofia e i moderati governi coi libri» (Del Principe e delle Lettere, libro II, cap. X).

Il verbo sottinteso nella proposizione dove filosofia fa da soggetto insieme coi moderati governi non è insegnato: ché allora il concetto alfieriano si confonderebbe coi vari sogni di governi illuminati, né la moderazione invocata si può intendere alla stregua dell'ideale di Montesquieu. Nella religione alfieriana iniziativa popolare e azione di classe dirigente si organizzano e si fondono in un'espressione di civiltà integrale. Libri è detto per metafora e vale coscienza. L'originalità dell'Alfieri è nella sostituzione di filosofia a religione; nel pensiero di una filosofia come anima della stessa azione popolare; il popolo – come altrove dirà piú chiaramente – partecipa all'elaborazione della verità anche senza elaborare tecnicamente problemi teoretici; consacra con la sua azione le conquiste della cultura. Questi concetti che riescono a una teoria dello Stato laico e religioso insieme, realtà politica di filosofica libertà, valido a lottare contro la Chiesa – diventeranno i motivi animatori del nucleo originale e sano del pensiero liberale italiano.

Nei luoghi citati è pure risolto indirettamente il problema di Dio. Il concetto di Dio come ideale che informa l'azione umana e ne dirige le aspirazioni, come unità determinante di valori è tutto risolto senza residui nel nuovo concetto di libertà. Del problema metafisico di Dio posto nei suoi statici termini di ontologia l'Alfieri non si cura di dare una soluzione dichiarata. Per lui il problema è evidentemente sorpassato e, se in sede teoretica preferisce una posizione di dubbio ad una affermazione di carattere costruttivo, in sede psicologica e pratica il Dio-ente personale è respinto in modo definitivo.

Non essendo riuscito a trasformare la posizione psicologica in posizione di universalità teoretica, l'Alfieri non ha conquistato con riflessione cosciente l'idea del Dio trascendentale che pure animava con immediatezza di pathos tutti i suoi sforzi speculativi. Ma attraverso il Risorgimento e dopo il Risorgimento la sua efficacia educatrice in sede metafisica deve soprattutto riconoscersi nella riduzione all'assurdo dell'ontologia da lui intrapresa.

8. La politica.

Nel pensiero alfieriano si può trovare e spiegare un proposito politico, anzi addirittura una costruzione politica. Ma perché l'esegesi sia valida occorre tener presenti i limiti da cui sorge questo sviluppo del sistema e della praxis dell'Alfieri. Gli interpreti che al Nostro toccarono in sorte sin qui s'apprestarono al compito loro con illusioni di letterati mal nascoste tra formule giuridiche di costituzionalismo che in loro rimanevano estranee e di cui non avvertivano perciò i limiti, che i giuristi stessi già inizialmente vi stabiliscono. La sicurezza positivistica del Bertana, inquieto soltanto di impartire lezioni di scienza e di precisione tecnica al suo autore, e la sicurezza ancor piú dogmatica degli altri letterati – entusiasti di enumerare pregi e di ritrovare intuizioni di enciclopedica genialità perché teneri della candida concezione che vuol trovare nel genio una rivelazione quantitativa di sottili scoperte – non potevano svelare con precisione un pensiero tutto fatto di chiaroscuri, di lampi improvvisi, di tempestosi fulgori.

Non è seria la pretesa di riferire e commisurare le intuizioni alfieriane ai problemi pratici contingenti. E occorre proprio ripetere che la politica non si riduce ai problemi costituzionali?

Poiché negli scritti politici non riuscivano a trovare il cercato costituzionalismo conservatore, vollero vedere le Commedie come un sistema legislativo; il testamento di Alfieri diventato conservatore. Invece le commedie alfieriane rappresentano un momento di scetticismo, uno scherzo dove coesistono le incertezze piú contraddittorie e dove non è possibile ritrovare un criterio organico di chiarificazione interna. Alfieri non è legislatore e quando ci si prova lo fa per gioco e non riesce a dissimulare il suo estetico disinteresse.

In realtà gnoseologia, morale e religione lo conducono per una linea di coerenza inesorabile ad affrontare centralmente, unicamente, il problema dell'azione. Se tutto nel suo spirito è azione, se tutto si risolve e si sacrifica nella praxis, nell'impulso volitivo, la sua politica dovrà dare una forma sociale a questo impulso, dovrà essere la traduzione obbiettiva della sua religione.

Perciò non programmi, ma leggi di praxis; non la preoccupazione del problemismo tecnico, ma la filosofia, la preparazione della pratica stessa. Ricorre spontaneamente un nome, un insegnamento, e l'Alfieri si affretta a notarlo: Machiavelli. Del resto la tecnica della praxis non si predice, non si teorizza sui libri, ma si deve commisurare all'esigenza di ogni istante per opera di uomini educati a realistica finezza e comprensione. Tutto il capitolo ottavo del libro secondo Della Tirannide è pervaso da questa netta coscienza di relativismo politico. L'Alfieri si rifiuta di precisare maggiormente il suo programma pratico perché, secondo lui, la esperienza storica può indicare soltanto degli indirizzi e delle intenzioni, ma «quegli ordini che convengono ad uno Stato disconvengono spessissimo all'altro», «quelli che bene si adattano al principiare di uno Stato novello, non operano poi abbastanza nel progredire e alle volte anzi nuocciono nel continuare» e «il cangiarli a seconda col cangiarsi degli uomini, dei costumi e dei tempi ella è cosa altrettanto necessaria quanto impossibile a prevedersi e difficilissima ad eseguirsi in tempo». L'insegnamento dei Discorsi sopra la Prima Deca è qui ripreso con vigore e torna una potente figurazione realistica dell'Uomo di Stato.

Ma dello Stato l'Alfieri non poté mai dare un concetto valido e chiaro, non perché il suo pensiero non ne accettasse l'esigenza, ma perché sempre doveva apparirgli come un risultato cui egli s'era professato già inizialmente incompetente. Tuttavia l'idea dello Stato, anche taciuta, pervade i suoi propositi e il suo pensiero come idea definita di un organismo che dà una libera disciplina ai suoi liberi cittadini fondandosi appunto sull'antitesi ideale dell'organismo chiesastico (vedansi gli accenni alla sua ideale Repubblica – mai come in Alfieri la parola ebbe il suo senso etimologico romano – nel secondo libro, capitolo ottavo Della Tirannide).

Il problema centrale era di crearlo, questo Stato, e non ci si poteva baloccare con formule tecniche o con piani fantasiosi: bisognava suscitare delle forze, opporre delle virtú alla tirannide; elaborare idee che diventassero forze.

Con duro travaglio l'Alfieri riesce a superare il suo istinto letterario e a vedere il realismo necessario della nuova posizione. Inizialmente opponeva al tiranno il suicidio o il tirannicidio attraverso la congiura. Sono i due modi dominanti nel sentimento dei suoi personaggi tragici: diventano l'esaltazione di una coerenza rigida e lineare sino al dissolvimento di se medesima. Anche la congiura è eroica solo in quanto è un suicidio dettato dalla disperazione attraverso il quale il protagonista libera la sua libertà in una incontaminata catastrofe (Della Tirannide, libro II, cap. V).

In realtà «benché la piú verace gloria, cioè quella di farsi utile con alte imprese alla patria e ai concittadini non possa aver luogo in chi, nato nella tirannide, è inoperoso per forza civile; nessuno tuttavia può contendere, a chi n'avesse il nobile e ardente desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo. Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altri, riesce nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio».

Ma a rovesciare la tirannide occorre che questa virtú di pochi si faccia spirito animatore di tutti: occorre che tutti sentano la tirannide.

Le forze su cui bisogna edificare sono la Nazione, il Popolo, la Classe politica. Il Bertana s'è affannato con molto impegno a dimostrare che l'idea di patria, di Italia era diffusa e dominante anche prima dell'Alfieri per due secoli almeno. Ciò è pacifico. Bisogna vedere come nell'Alfieri questa idea sia diventata una forza.

L'Alfieri pensa il popolo eternamente rinnovato da un'operosa lotta interiore, da dialettiche dissensioni (Della Tirannide, libro I, cap. VII), un popolo aristocratico, forte, «e una volta per tutte mi spiego, ché io nel dir popolo non intendo mai altro che quella massa di cittadini e contadini piú o meno agiati, che posseggono propri lor fondi o arte, e che hanno moglie e figli e parenti, non mai quella piú numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di nullatenenti della infima plebe. Costoro essendo avvezzi di vivere alla giornata; e ogni qualunque Governo essendo loro indifferente poiché non hanno che perdere; ed essendo massimamente nelle città corrottissimi e scostumati, ecc. . Non altrimenti pensava Carlo Marx il suo popolo rivoluzionario.

Il popolo ha la sua volontà e la sua forma nella classe politica che esso stesso esprime. Il vizio della tirannide «interamente risiede in quei pochi che il popoli ingannano». Anche la libertà deve avere la sua classe politica, strumento e guida alla volontà popolare; e questa appunto non si potrà creare con un'opera di propaganda, ma solo attraverso le forze storiche oscure creatrici di obbiettive realtà. Quasi divinando il processo marxistico di arrovesciamento della praxis, l'Alfieri nota che una volontà di redenzione liberale sorgerà nel popolo per opera stessa delle intollerabili condizioni che la tirannide avrà determinato. S'incontreranno nella loro pura intransigenza due principi, due azioni. La lotta contro la tirannide sarà redentrice perché avrà rinunciato per la sua coerenza ad ogni disgregazione individualistica e ad ogni utilitarismo. La moltitudine «non istigata, non prezzolata, ma per naturale sublime impeto, dalle ricevute ingiurie commossa a sdegno e furore, agisce all'improvviso con entusiasmo, energia e schietto coraggio» (Misogallo, prosa II: Avvenimenti). Contro le formule galliche «libertà, uguaglianza, fratellanza» l'Alfieri vede le cose realisticamente nella loro dinamica di lotta.

Cosi il popolo diventerà nazione. «Nel dir nazione intendo una moltitudine di uomini per ragione di clima, di luogo, di costumi e di lingua fra loro non diversi; ma non mai due Borghetti o Cittaduzze di una stessa Provincia, che per essere gli uni pertinenza ex gr. di Genova, gli altri di Piemonte, stoltamente adastiandosi, fanno coi loro piccoli, inutili ed impolitici sforzi, ridere e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori». Insomma il criterio di nazione va riportato ai suoi fattori storici. Attraverso lo stesso processo dialettico che crea una volontà nel popolo, anche la nazione diventa un fattore insopprimibile di sviluppo e di spiritualità. «Gli odî di una nazione contro l'altra essendo stati pur sempre né altro potendo essere che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti o temuti, non possono perciò esser mai né ingiusti né vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odî soltanto hanno operato quei veri prodigi politici che nelle storie poi tanto si ammirano» (Misogallo, prosa I).

Il bisogno di superare le intemperanze anarchiche che erano state necessarie nella polemica contro la tirannide conduce qui l'Alfieri ad una professione che può parere di nazionalismo. In realtà l'Alfieri parla di nazione pensando a un elemento di dinamica e di sforzo operoso, ma il suo concetto è molto vicino alla teoria dello StatoPotenza.

Per l'esigenza insopprimibile che egli sente di svegliare virtú e di imporre una direzione all'«implacabile sdegno contro l'oppressore», si indugerà anche, nell'Esercitazione a liberar l'Italia dai barbari, ad affrontare in termini di pratica contingenza la determinazione d'un disegno particolare capace di realizzare l'unità dell'Italia «che, – come dice nel Misogallo, prosa I, – la Natura ha sí ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente d'Europa». È noto come egli tentasse di precisare l'effettuazione del sogno secondo un processo che resta genialmente realistico anche se non trovò indulgenza nel Bertana e negli altri critici. Era affermato dall'Alfieri con potenza ben nuova il concetto, che si stava ormai maturando nell'aria ma che solo nel 1849 fu realisticamente ripreso, della fine necessaria del dominio pontificio. L'Italia «divisa in molti Principati e debolissimi tutti, avendone uno nel suo bel centro che sta per finire, e che occupa la miglior parte di essa, non potrà certamente andare a lungo senza riunirsi almeno sotto due soli Principi che, o per matrimoni dappoi, o per conquista, si ridurranno in uno». Questa è la prima rivoluzione: ed io non saprei vedere di quale astrattismo qui vi sia peccato. Questo è piú o meno schematicamente il processo di cui Vittorio Emanuele II è stato protagonista dal 1848 al '70: e forse l'Alfieri avrebbe voluto soltanto maggior coerenza nell'assumere una posizione ideale di fronte al Papato. Cosí si sarebbero realizzate le condizioni materiali e quasi i presupposti obbiettivi perché si suscitasse l'iniziativa popolare la quale nell'Alfieri doveva concludere necessariamente a darsi ordine di repubblica. E qui egli attingeva ancora dalla storia un'altra osservazione di opportunità: «L'Italia ha sempre racchiuso in se stessa (piú per non scordarsene affatto il nome che per goderne i vantaggi) alcune Repubbliche, le quali benché affatto lontane da ogni libertà, avranno però sempre insegnato agli Italiani che esistere pur si può senza Re, cosa di cui la colta ma troppo guasta Francia non ardirà forse mai persuadersi». Ma l'iniziativa non si sveglierà senza i «bollenti animi, che spinti da impulso naturale, la gloria» cercano «nelle altissime imprese» e senza la «giusta e nobile ira dei drittamente rinferociti e illuminati popoli». È insomma la rivoluzione di Mazzini, anzi il mito centrale di azione che ha ispirato tutti i piú profondi tentativi politici in Italia dopo il Settecento.

Questa è la vera profezia dell'Alfieri, il suo pensiero riconquistato nella praxis. Anticipando la rivoluzione francese egli assegnava all'Italia, lucidamente e originalmente, la funzione che nel nuovo ciclo della storia europea ebbe la Francia rivoluzionaria. Solo in queste premesse si può trovare una giustificazione degna e profonda dell'atteggiamento suo di fronte alla rivoluzione francese.

Infantilmente parlarono gli esegeti dove, smaniosi di sorprendere un'effusione o uno slancio alfieriano magari volutamente esagerato, teorizzarono un Alfieri irritato sino alle bizze o al capriccio, attribuendovi cagioni del tutto sentimentali e talvolta addirittura una bassa origine di calcolato utile o di lesi interessi. Il processo della scuola positivista ebbe addirittura le forme e lo spirito di un tentativo, non esente da malizia e ingenerosità, di sorprendere la buona fede e la franchezza dello scrittore della Vita. La dimostrazione di ciò va rimandata in sede di biografia. Ma non era possibile neanche qui rinunciare a porre il criterio secondo cui noi crediamo che la famosa storia dell'usurpazione di libri e carte dell'Alfieri debba ridursi a un fenomeno d'illusione simbolica degli interpreti, favorita da un'incertezza del Nostro.

In realtà nella negazione che l'Alfieri ha opposto alla rivoluzione francese c'è una tragedia personale, ma vi è impegnato tutto il suo spirito; si tratta della sostanza stessa del suo pensiero e della sua azione. Con la meravigliosa lucidità e la perspicacia del creatore che vede, sgomento, la sua creazione stessa in pericolo, egli intuí che nei moti rivoluzionari d'oltralpe si rivelava e si affermava obbiettivamente con chiarezza e ampiezza europea l'immaturità dell'Italia alla divinata funzione storica. Incapace di dominare e di precorrere lo sviluppo mondiale, l'Italia si trovava condannata anche come nazione a non poter trovare la sua armonia interna e la peculiarità della sua iniziativa rivoluzionaria: anche la sua unità sarebbe nata da un artificio, da un'imitazione. Di qui l'intransigenza fiera, l'incomprensione voluta. La storia gli diede ragione anche qui.

Se la conquista napoleonica dell'Italia ebbe un valore d'impulso nell'aspirazione all'unità, essa non fece poi all'ora della soluzione che aumentare l'equivoco e un Risorgimento italiano, anche in proporzioni ridotte, si ebbe solo da una reazione al sensismo e all'Enciclopedia che riaffermò una tradizione specifica e una originalità nazionale.

L'Alfieri combatteva con tanta ferocia perché combatteva contro se stesso, contro le idee che, essendo il suo sangue stesso, gli rinascevano dinanzi diventate insuperabile ostacolo per lui. L'antitesi poteva perciò sembrare un'antitesi personale, sentimentale: era solo piú l'opposizione di due volontà, e le imprecisioni ideali o teoriche dipendevano dall'immediatezza del contrasto. Ma non perciò si dovrà ritenere valida l'interpretazione reazionaria e conservatrice in cui hanno voluto costringere i suoi scatti sino a costruirne un sistema di liberalismo pacifico, nemico di ogni violenza, costituzionale – che è in realtà il sistema della sua antitesi obbiettiva. Egli non si cullò mai in sogni di pacifismo e di idillio sociale. Non lo spaventò la violenza se ad essa avesse dovuto sboccare la realizzazione delle sue idee. La previde. Identificò addirittura iniziativa e originalità con violenza e intolleranza. «E giunge avventuratamente pure quel giorno in cui un popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue, per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia di liberi e virtuosi uomini».

Nel suo realismo egli provò uno schianto alla vista della sua profezia realizzata da estranei; non ebbe piú la forza di una nuova riaffermazione eroica e precisa che lo avrebbe ridotto a un isolamento ideale sublime ma insostenibile, e si ripiegò nella solitudine individuale. Il compito da realizzare non si poneva più a un individuo ma a tutte le nuove generazioni.

APPENDICE Le tragedie come fonte del pensiero politico alfieriano.

La nostra indagine non poteva non prescindere dall'esame delle tragedie alfieriane. E questo non perché noi crediamo ad una rigorosa distinzione di arte e pensiero, di intuizione e di teoria, quale è dogmaticamente applicata dagli ultimi fanatici di quella prima estetica crociana, apparentemente fatta apposta per gli storditi dell'estetismo dilettantesco, che il Croce stesso ha ormai superato definitivamente e a cui attribuisce soltanto il valore di un necessario momento polemico. Ma nelle tragedie di Alfieri, in particolare, noi non possiamo ritrovare un momento di effusione lirica né sorprendere una confessione o un principio di teoria. Le tragedie piú lunghe superano di poco i 1500 versi: il dialogo è sempre travolgente, il soliloquio, in un momento di ansietà intensa, fissa un proposito o un esame di coscienza ma essenzialmente adattati al fatto che si sta per compiere, all'incalzare dell'avvenimento tragico.

In questo senso manca nell'Alfieri la riflessione: o, per essere piú precisi, c'è quella riflessione che è connaturata coll'azione stessa e non la si può astrarre perché è essa stessa sforzo operoso. Percorre la tragedia alfieriana un senso tormentoso della concretezza creante della praxis; ma il poeta lo contempla e domina in una sovrana impersonalità di serena realizzazione nella quale poi consiste di fatto la sua vera individualità che è individualità insostituibile e singolare appunto in quanto è uno spasimo realistico verso il divino, presente. Fissare intellettualisticamente con precisione di esegesi qual sia l'atteggiamento pratico dell'autore di fronte ai suoi fantasmi non sarebbe né saggio né fecondo: qui vive l'obbiettività stessa del mondo alfieriano e vi si deve cercare non l'autobiografia psicologica ma, se cosí si può dire, un'autobiografia cosmica. L'analisi dell'interprete deve mirare a stabilire l'unità e la coerenza di questa travolgente fantasia la quale per la sua natura stessa è fuori della storia empirica, in un ciclo ideale di eroicità.

Fermate questi eroi, portateli nel mondo quotidiano, interrogateli, fateli confessare: e concluderete col Bertana che sono astratti, che il loro pensiero, i loro propositi non sono politicamente realistici. Ma voi avrete ucciso questi fantasmi sovrani riducendoli a uno schema che per essi è menzogna.

Rinunciate invece a questo ultimo residuo veristico che v'induce, ragionando con le creature della poesia (le quali non hanno sesso né passioni né interessi perché sono armonie e concretezze della irrealtà), a portarle nella vita quotidiana e a censurarle o lodarle quasi fossero uomini; riportatele invece al centro e allo spirito che le ha determinate, ubbidendo solo alla sua realtà e spontaneità che è anche la sua assolutezza. Allora le tragedie alfieriane saranno una conferma a posteriori dei principî che noi abbiamo determinato prima nella loro genesi concettuale e il mondo che in esse si agita non sarà che la praxis dell'affermato ideale. Giunti a questo risultato, se il critico pur volesse ad ogni costo cimentarsi in un'opera di astrazione, avrebbe dei modelli di azione, degli esempi di fantasia eroica in quelli che pur s'ostina a chiamar personaggi. Ma tale azione indicherà – come indicava la filosofia alfieriana nei suoi motivi piú originali – la genesi della volontà, la lotta interna, non un ipotetico fine o una determinata linea di azione contingente. Questo processo critico è il solo che possa dare risultati estetici alle premesse politiche. Perseguendoli nel loro valore autonomo avremo la vera unità, riusciremo a conclusioni perfettamente corrispondenti. Valgano come modello di analisi queste considerazioni sul Saul.

La critica non è riuscita a dar ragione del capolavoro dell'Alfieri finché è rimasta alle formule patriottiche o romantiche e vi ha cercato la tragedia dell'odio politico o la tragedia della follia. Invero se l'Alfieri è il poeta dell'intuizione violenta, come approssimativamente lo definisce il Momigliano, o meglio, il profeta del superuomo, l'artista dell'eroico furore, come appare al Croce, gli elementi politici e i romantici impulsi di cieca spontaneità creativa non saranno il contenuto di una tragedia, ma lo spirito e la forma del suo stesso sforzo espressivo e parrà ingenuo ed arbitrario ad ognuno astrarli quali generici motivi di pensiero dalla vivente sintesi estetica.

Meglio s'avvicinava al vero il Sismondi che cercava nel Saul la fatalità non del destino, ma della natura umana e vedeva nel re morente la vittima dei suoi rimorsi (non dei suoi delitti) «aumentati dallo spavento che un'immaginazione nera ha gettato nella sua anima». E indipendentemente dal Sismondi, il Gioberti, con questo giudizio: «Egli è riuscito a dipingerci un tiranno, che sente ripiombare su di se stesso la propria tirannide, che n'è il primo schiavo».

Invero anche qui – nonostante l'opposto giudizio comune che svaluta le autodisamine alfieriane – il segreto della tragedia e del protagonista erano stati colti già dall'Alfieri quando indicava come stato d'animo centrale la «perplessità». Segreto del Saul e di tutta la vita alfieriana, se lo si mette in rapporto con l'altro elemento positivo del suo romanticismo: l'eroicità che ne sorge come forma pura dell'agire e sbocca inesorabilmente, in un processo lineare di solitudine e di coscienza, alla dissoluzione di se medesimo e al crollo di ogni umana debolezza, immolata al mito dell'assoluta libertà interiore, lineare e, per cosí dire, istintiva sino alla cecità.

Se questa è la tragica sostanza spirituale del suo ardore disperato, nessun dubbio che il Saul sia «la piú densa e la piú ricca espressione di quel mondo eroico e tempestoso che gli ribolliva nell'anima, di quella spiritualità gigantesca che fu la sua mira costante e che, sparsa in tutti i suoi volumi, trova la sua rappresentazione in parte riflessa in parte diretta nell'autobiografia, e si delinea qua e là anche nelle tragedie minori, in figurazioni fugaci che si ergono solitarie, come creature di un mondo superiore, in mezzo a un paesaggio freddo e scoglioso». Tuttavia l'aver visto l'unità del mondo alfieriano solo nella creazione dei caratteri induce a un errore di staticità e giustifica illusoriamente l'accusa di monotonia e di calcolo, mossa dalla recente critica estetica. L'individualità alfieriana è una aspirazione ideale fortissima, non un risultato inconcusso; la sua precisa volontà, l'impulso cieco all'azione sono un atto iniziale di coscienza che si dispiega e s'invera poi in una lotta, in un organismo di torbida complessità e di viventi contraddizioni. La sua «anarchia» si nega politicamente e artisticamente in un senso vivo del creare, e in un'esaltazione dell'organica spontaneità della storia. Egli non vive di sole affermazioni, non si tempra solo nell'autocritica del soliloquio: ma della solitudine dà una drammatica espressione; e il tormento ideale rende oggettivo in un contrasto ove le volontà cozzanti trovano la loro catarsi nell'annullamento.

Saul non è il dramma della pazzia, perché non è il dramma dell'autocritica: la perplessità del re è la misura che mette in rapporto il suo chiuso eroismo con la solitudine incompresa del mondo che vive con lui: non diventa dubbio, non genera altra azione che la cosciente rinuncia scelta come sola espressione perfetta della propria coerenza. In questo senso Saul è la tragedia della volontà, che nella solitudine si afferma come dominio, e resta incompresa ed estranea mentre si estrinseca – serenamente vista dal poeta con storica passione – ma incapace di suscitare consensi e di temprarsi in una conciliazione – impenetrabile di fronte ad altre solitudini impenetrabili, perciò vittima di se stessa e tragica perché coerente.

La religiosità di questa umana dissoluzione è nel cozzo degli individui, sacri nella loro chiusa liricità, indomiti nel loro disfrenato uscire da se stessi.

La tragedia esiste a patto che tutti ne siano protagonisti, invasi da quel divino che Achimelech sente in sé, e da cui son fatti «fulmine, turbo, tempesta». Uguali, non si comprendono. Anche amandosi restano estranei. Nel mondo alfieriano non c'è posto che per gli eroi; appena individuati, essi restano soli in mezzo a una folla volgare, evanescente e non espressa. Il problema della comunicazione tra questi giganti è il problema della tragedia alfieriana. Fissi alla coscienza di sé restano indecisi tra lo schema e l'azione. Parve calcolo ai critici quello che è lo spirito alfieriano: l'iniziale aridezza della rigida volontà degli attori, inesorabile sino a dominare e sconvolgere la serenità della fantasia realizzatrice. Di qui l'ineguale validità espressiva del teatro alfieriano, in cui trionfa la lirica nei momenti di sviluppo lineare, ma domina la pausa dell'incomprensione quando i personaggi dovrebbero agire. Saul è il capolavoro, solo perché in questo gran quadro della fantasia alfieriana s'oppone chiaramente volontà a volontà, passione inesorabile a chiusa passione e alla lotta presiede un criterio di armonia e di identità volitiva. Micol, Abner, Achimelech, David, Gionata sono figli di una stessa disperazione che li conduce a dissolversi volontariamente e a rappresentare nella catarsi della loro rinuncia quasi le fasi e gli elementi dell'agitata coscienza di Saul. Tutti restano fedeli al loro fato, temprati d'uno stesso fuoco che s'alimenta della febbre di voler essere divinamente se stessi. Il nuovo criterio dell'eroico alfieriano non è piú nell'aspirazione, ma nel chiuso spasimo della coerenza. Saul a tutti sovrasta e dà la misura della legge tragica per l'intenso fervore della sua volontà, per la serenità che domina nella sua disgregazione, per la perfetta sovrumanità con cui resta fedele a se stesso anche quando nel suo spirito la lotta s'è oggettivata e lo consuma dominando secondo la legge fatale dei cozzanti impulsi inesorabili; la sua pazzia è composta, impassibile perché è insieme disgregazione e consacrazione; è il dissolversi dell'individuo nella sua realtà cosmica. La tragicità alfieriana conquista la sua legge e la sua misura in questa realizzazione mitica di una sovrana solitudine.

Altri scritti sul Risorgimento

LE SCUOLE DI METODO60

1. Dobbiamo ora studiare come alle rinnovate esigenze abbia soddisfatto la generazione di Domenico Berti.

Si ammette universalmente che l'insegnamento pedagogico, trasportando l'interesse della scuola dal contenuto alla forma, dalla materia studiata all'attività dello spirito che studia, sia essenzialmente moderno: che la fondazione della scuola di metodo sia un'affermazione di valore democratico (e intendo la parola non nel significato storico che ha preso, ma nell'etimologico). Si tratta di dimostrare la tesi nella sua espressione di contingenza storica: poiché la dialettica filosofica enunciata, il valore della scuola di metodo, come tale, astrattamente fissato, può soddisfare un bello spirito, vago di ingegnose costruzioni teoriche: la realtà, che si diverte sempre a confondere in antinomie insolubili le costruzioni teoriche, potrebbe in sostanza capovolgere il concetto opponendovi anche un solo elemento empirico. La fecondità e la democratica modernità della scuola di metodo si fonda tutta sul fatto che essa sorga per iniziativa di popolo e sia non promossa, ma imposta al governo.

La dimostrazione di questo fatto si può trovare nelle lettere che dalla provincia giungevano al magistrato della riforma negli anni che hanno preceduto il 1844 e che sono raccolte nell'Archivio di Stato di Torino61.

In Lombardia, sin dal 1786, il Soave aveva fondato sotto Giuseppe II una scuola di metodo, che non era rimasta sola, ma era valsa anzi di esempio fecondo. Questo prova all'evidenza, contro tutti gli storici, che non vi si sono accuratamente fermati, che non la scuola di metodo come tale ha importanza, ma quella singola che avemmo in Piemonte, con quel singolare spirito con cui fu vissuta dagli spiriti del tempo.

2. Abbiamo fatto cenno delle «Letture Popolari» e bisogna porre con esse il «Subalpino» preoccupato fin dal 1837 del problema dell'istruzione. Il Milano scriveva esplicitamente nelle «Letture Popolari» del 1839: «Sarà difficile di avere buoni maestri senza avere buone scuole di metodo». E già nel 1838 il Troya si rivolgeva al magistrato della riforma per ottenere due classi elementari nel collegio di San Francesco da Paola e vi si offriva come maestro, «convinto che non si potessero avere buone scuole elementari fino a che qualcuno mostrasse ai maestri praticamente come tale insegnamento si compartiva». E nel 1840 il magistrato della riforma, avendo ricevuto altre sollecitazioni, aderiva alla proposta del Troya e lo destinava a reggere nel collegio di San Francesco da Paola una delle due scuole istituitevi. Il primo embrione di una scuola di metodo nasceva dunque dalla iniziativa privata; il governo giungeva tardi a legalizzare un fatto idealmente già compiuto, ad assumersi la responsabilità delle azioni di un cittadino sospetto perché non retrivo. È un fatto singolo, limitato d'importanza, ma vale come sintomo di una trasformazione sociale. Si sta imponendo un nuovo problema: dare una forma legale alla rivoluzione.

Nel 1841, l'iniziativa privata a Mondoví chiedeva insistentemente la fondazione di una scuola normale; il Consiglio dell'amministrazione civica votava a questo scopo un impegno finanziario di lire trecento e l'intendente della città, D'Emarese, proponeva al magistrato della riforma un piano concreto di scuola bimestrale, di nuovo genere per i Regi Stati, da fondarvi a titolo di esperimento in quell'anno. Insisteva il D'Emarese sulla necessità d'istituire un centro morale di educazione che non si risolvesse soltanto in esteriore ammaestramento; ricordava le condizioni penose dei maestri che non sanno fare ciò che devono; riduceva la sostanza del problema alla necessità non tanto di aumentare, quanto di migliorare i maestri, dovendosi superare la difficoltà dell'insegnamento «sopratutto di lingua italiana, la quale è piú difficile a sapersi od insegnarsi che volgarmente non si avvisa».

Non sappiamo quali sentimenti dovessero destare queste osservazioni, per le quali il potere provinciale, aiutato dai cittadini, si assumeva il compito di dirigere e di svolgere l'azione culturale dello Stato. Il magistrato della riforma rispose con dubbi, tergiversazioni, obbiezioni: non era possibile trovare un maestro per scuola siffatta; né, ove lo si fosse trovato, era possibile istituire la scuola in Mondoví senza averla fondata prima in Torino.

Un secondo carteggio, conservato parimente nel nostro Archivio e che è anche piú interessante, si svolge sullo stesso argomento nel maggio-giugno 1842 tra Giambattista Michelini e il magistrato della riforma. Ma fu respinto anche il progetto concreto per una scuola di metodo in Cuneo, sebbene il Michelini avesse perfino pensato agli uomini capaci di esercitare quella funzione e vi avesse proposto come assistenti il Troya e il Pelleri62, come direttore e professore di metodo il Parravicini, noto al Ministero piemontese perché sin dal 1832 aveva presentato presso il magistrato della riforma, al conte della Scarena, una proposta ragionata per regolare, secondo i bisogni sociali e uniformemente, le scuole elementari in Piemonte, lavoro che propugnava una migliore preparazione dei maestri e istruzione piú ampia e adatta specialmente ad esercitare un'influenza sugli agricoltori, ma che gli valse un dispaccio di lode e null'altro.

Le lagnanze e i rapporti degli organi provinciali al centro continuano per altri due anni, esempio mirabile di collaborazione del popolo al governo, forma elementarissima di controllo del genere stesso di quello che in uno Stato libero viene esercitato dalla libera stampa63.

3. Frutto di questo intenso lavorio (contrastato occultamente dai Gesuiti), si ebbe, nel 1844, la prima scuola di metodo, approvata dal re il 4 giugno, annunziata il 22 luglio, aperta nell'università di Torino il 26 agosto.

Delle opposizioni dei Gesuiti è cenno nella famosa polemica giobertiana: e l'Aporti, che doveva essere l'insegnante, raccomandato dal Boncompagni, dal Troya, da Roberto d'Azeglio, dal Peyron e dall'Alfieri, vi ebbe ostacoli e noie. Tuttavia i due mesi d'insegnamento ebbero un successo meraviglioso, e tutti i migliori, dal Boncompagni al Rayneri, dal Cappellina al Berti, dal Franchi al Garelli, seguirono il corso con entusiasmo. Scriveva il Rodella nel '69 «Chi l'intese ne parla tuttavia come di cosa religiosa»64.

E non v'è ragione per stupirsi se si pensa che le sole nozioni pedagogiche diffuse in Torino si riducevano a quelle istruzioni ai maestri delle scuole elementari scritte per ispirazione del Troya nel 1840, poco prima che il Troya stesso pubblicasse i suoi libri di lettura per le scuole primarie.

All'Aporti succedettero il Danna e il Rayneri mentre nuove scuole si fondavano a Saluzzo, a Cuneo, a Novara, a Vercelli e poi a Casale, Nizza, Ivrea, Alba, Mondoví, Pinerolo, Alessandria, ecc., dove insegnarono il Berti, il Troya, il Garelli, ecc.

4. La solidità del movimento per le scuole di metodo si connette direttamente con la pubblicazione delle «Letture di Famiglia». Il Valerio nel programma si rivolgeva «a tutti coloro che chiamati dal sublime ufficio di educare, sanno quanto grande benefizio sieno l'educazione e l'istruzione, e come senz'esse gli uomini rovinino in fondo di ogni bruttura e di ogni miseria», e si proponeva di notare «il progredire delle istituzioni che giovano al miglioramento delle classi tutte e particolarmente delle classi povere come sono le scuole infantili, le casse di risparmio, l'insegnamento industriale, l'istruzione agraria», ecc., e dava garanzia dell'ampiezza e serietà del programma annunziando la collaborazione di uomini come R. Lambruschini, M. Cosimo Ridolfi, P. Thouar di Firenze, C. Cantú di Milano, F. Aporti di Cremona, Mittermayer di Eidelberga, Terenzio Mamiani, Barone Degerando di Parigi, Balbo, Boncompagni, Sauli, Sclopis, Paravia di Torino.

Nel '46 il Fecia, con l'aiuto di G. A. Rayneri, del Troya, del Franchi e di altri, venuti agli studi pedagogici per l'entusiasmo che aveva destato Ferrante Aporti, fondò l'«Educatore Primario» che, in accordo con le nuove aspirazioni dei tempi, propugnò come programma essenziale la formazione di scuole elementari e di un gruppo di maestri adeguato per numero e per preparazione.

5. Tutte queste iniziative non facevano dimenticare, nell'entusiasmo immediato dell'azione, i gravi difetti che l'improvvisata attività recava con sé.

L'errore del primo esperimento Aporti consisteva nel doppio scopo attribuito alla scuola di metodo, che avrebbe dovuto servire simultaneamente a quelli che intendevano di sostenere l'esame di professori e a quelli che si volevano perfezionare nell'insegnamento elementare o prendere l'esame di istitutori.

Vi si riparò l'anno seguente fondando accanto ad una scuola superiore di metodo in Torino (che poi divenne la cattedra di pedagogia dell'università) scuole provinciali di metodo con lo scopo di formare i maestri per l'istruzione primaria inferiore (lettere patenti del 1° agosto 1845).

La scuola superiore di metodo dura un anno e comprende quattro corsi che si fanno simultaneamente: il primo del professore di metodo; il secondo di uno degli assistenti che consiste nella ripetizione e nell'esercitazione pratica dei metodi già insegnati; il terzo di applicazione dei principi generali alla grammatica, fatto da un secondo assistente; il quarto di disegno lineare.

Le scuole provinciali durano tre mesi; i corsi sono tre; al posto del disegno lineare s'insegna calligrafia.

Un regio decreto Gioia del 26 marzo 1851 fissò, accanto alle scuole provinciali che dovevano preparare i maestri delle classi elementari inferiori, scuole superiori di preparazione all'istruzione primaria superiore.

Da queste scuole di metodo sono nate, con lo stesso spirito, le scuole normali e la pedagogia universitaria scientifica che deliziò la cultura italiana dopo il Risorgimento65.

Noi che intendiamo negare nella nostra critica la possibilità stessa di un metodo, intellettualisticamente inteso, e del suo insegnamento, non possiamo credere alla scuola normale né alla cattedra di pedagogia.

Ma, come abbiamo mostrato or ora qual significato morale avesse il movimento per la scuola di metodo in Piemonte, dobbiamo vedere i risultati concreti, che dallo spirito vivificatore della scuola si ebbero, per avere poi la spiegazione del fallimento a cui il pregiudizio metodomane ci condusse, appena mancò la sostanza spirituale animatrice.

Nel '46 si avevano 4 scuole autunnali inferiori di metodo, nel '50, 22. Nel '48 si avevano ormai 3829 scuole elementari inferiori, e nel '50, 4248. Nel '48 piú di 2000 maestri erano ecclesiastici e appena 1550 laici; nel '50 i maestri laici erano uguali in numero agli ecclesiastici. Si può calcolare che, nei sei anni dal '46 al '51, 3240 maestri siano stati approvati dalle scuole governative66.

Era una vera e propria classe dirigente creata dal nulla e messa a contatto col popolo. L'interesse che suscitava il giornalismo pedagogico ampliava e consolidava questo fervore.

6. Il lavoro critico, la revisione della validità della scuola di metodo, fu compiuto primamente dal Berti in studi accurati che qui si ripubblicano67.

L'obbiezione piú forte al sistema venuto in vigore in Piemonte fu invece soltanto accennata dal Berti ed espressa poi coscientemente dal Bertini che contestò la validità stessa di una scuola dedicata all'insegnamento metodologico68. Per il Bertini il problema della formazione dei maestri doveva avere soluzione non in una scuola speciale ma nella scuola secondaria, non in un insegnamento distinto, ma nell'incremento stesso della cultura integralmente vissuta e creata.

Questo solo del resto é il significato della pedagogia, intesa come coscienza filosofica e svolgimento riflesso di attività, non come limitata scienza che abbia il suo frammentario oggetto determinato una volta per sempre. Cosí pensa la pedagogia moderna, dopo aver conquistato vigorosamente il concetto immanentistico dell'uomo e dell'attività spirituale come libertà, sviluppo e autocoscienza. Nel concetto moderno il metodo s'identifica col risultato, il processo ha la sua realtà nel fine che è ancora alla sua volta processo.

Una materia s'impara studiandola: il processo educativo si attua nella esaltazione infinitamente cosciente della vita. Concetti ovvi che esprimono sempre piú recisamente e definitivamente l'identità di pedagogia e scienza e l'irrealtà del metodo astratto69.

Pure al di là delle parole, nella scuola di metodo voluta dal Piemonte, amata da Domenico Berti, che fu tra i primi a discuterla e a insegnarvi, v'era un'esigenza profonda e reale: si sentiva il bisogno di una cultura ampia, civile che non fosse soltanto dilettantismo intellettualistico, ma avesse un valore sociale, una capacità di diffondersi e di fecondarsi: per raggiungere tali risultati non si poteva affrontare subito la via lunga e difficile piú vera; la scuola di metodo parve il segreto per riuscire, la si intese come anticipazione di scienza, come mezzo per provvedere a una deficienza. Intanto l'esigenza era sorta e da quel primo errore infinite esperienze stavano per nascere.

Torino, ottobre 1920

DOMENICO BERTI, PEDAGOGISTA,
FILOSOFO E POLITICO
(Spunti di una rivalutazione)70

1. La Signora Cecilia Lostia di Santa Sofia ha creduto che si potesse fare un libro71 sul Berti ignorando ciò ch'egli ha scritto e le poche cose che altri ha scritto di lui; trascurando i problemi di cui è vissuta l'epoca del Berti, saccheggiando largamente certi articoli del Berti che ella ha avuto modo di vedere, non si sa come (poiché si guarda con ogni cura dal dare notizia bibliografica precisa e onesta di ciò che cita); ricorrendo con compiacimento anche piú vivo a qualche volume del Pareto, dell'Allievo e del Miraglia. (Costui scrisse nel 1898 «una monografia» su «la scuola femminile di Berti» [G. Patrito, Torino]: anche questo libro è una compilazione poco intelligente con intere pagine riportate del Berti, del Fecia e di altri; ma v'è maggiore imprudenza poiché a pp. 9-12 quattro facciate intere sono copiate da un articolo del Berti e date come proprie con la solita ipocrita precauzione dei plagiari di presentare poi come citate due proposizioni). Invece questa signora, che si fa qualificare nel frontespizio «direttrice didattica», è riuscita soltanto a metter insieme un povero guazzabuglio per centenario che potrà forse servirle per scopi professionali, ma nel lettore può soltanto provocare disgusto. Io non starò qui a spulciare gl'innumerevoli errori materiali, derivanti da vera e propria ignoranza dei fatti comuni: ne citerò uno per tutti; l'autrice, che pur ha scritto il suo libro per commemorazione, ha sbagliato anche la data di nascita del Berti, ch'è il 12 novembre 1820 e non il 17 settembre, e quella di morte, ch'è il 22 aprile 1896, non il 1897!

2. Dati questi fatti, è agevole pensare che l'autrice non sia penetrata affatto nello spirito piú profondo delle questioni che la vita e l'opera del Berti porta con sé. A pp. 11-14, ella esamina il significato politico del movimento pedagogico piemontese e contrappone lo spirito cristiano di questa pedagogia fondata su «una filosofia ricostruttrice e spiritualistica, com'era quella dei sommi pensatori: Gioberti, Rosmini e Mamiani»72, ispiratrice del moto nazionale italiano, alla sofistica demolitrice del movimento «che condusse la Francia dell'89 alla grande rivoluzione che le diede una libertà instabile all'interno e all'esterno, un'alternativa di grandezza e di sventure che non sembrano ancora terminate».

Chi contesti da una posizione dogmatica cattolica la validità della rivoluzione francese e delle sue esigenze si preclude la via a intendere nella sua sostanza il movimento cristiano del nostro Risorgimento. Del quale si dice a torto che fosse moderato. Che il neoguelfismo fosse rivoluzionario sono splendida prova gli anni 1847-48: esso era sorto contro la Santa Alleanza; romantico nella sua ispirazione coltivava una libertà anche piú completa e ardente che quella francese e per questo la fondava sull'idealismo (un idealismo non molto chiaro, a tinte spiritualistiche) e non sul sensismo.

«L'inanità dei moti del '21» non è dovuta solo all'assenza della «grande massa del popolo», ma soprattutto all'assenza di una concezione ideale: e mancò il popolo perché era mancata questa. Fallito Santarosa, bisognava che altri tentasse di organizzare la classe dirigente che ancora non esisteva: e bisognava muovere dal principio laico, ignorato dal Santarosa (che non si può contrapporre ai moti del '48 e del '59, ed è anzi nella stessa orbita di pensiero). Questo avvisarono pochi pensatori meridionali, primo tra tutti lo Spaventa, e nel Piemonte Luigi Ornato, con poca chiarezza, e G. M. Bertini, con piena coscienza. Ma l'eredità cattolica stava contro ogni movimento liberale chiaro a se stesso nelle sue premesse ideali: la mediazione fra le esigenze cattoliche e il pensiero dell'unità fu il neoguelfismo, che nelle condizioni della nostra storia è veramente un momento necessario della rivoluzione. Il neoguelfismo muore nella resistenza di Mazzini a Roma, nel '49, che scava un abisso tra ortodossismo e liberalismo. Gli succede un cattolicismo liberale antidogmatico e antitemporalista, un realismo cristiano, che è il vero e solo legittimo movimento modernista italiano: questo realismo cristiano è la fede del Berti. La politica scolastica che da questa posizione scaturiva non è affatto opposta allo spirito della rivoluzione francese. Era questa anzi la nostra rivoluzione che, volgendosi in parte tra un equivoco, non poteva essere tutta chiara a se stessa. Sicché il movimento realistico non fu pieno e lasciò le sue esigenze in eredità al positivismo perché le compisse. Ma la grande importanza data all'insegnamento, la larga parte che si volle fare alla scuola primaria è interamente comune alla politica della pedagogia rivoluzionaria (si veda il libro di Codignola, Trevisini, Milano 1919), soprattutto nella fase napoleonica. Del resto lo spirito di tutto il realismo cristiano (vigorosamente criticato dallo Spaventa) è questo: cercare in una posizione eclettica la conciliazione di utilitarismo e rigorismo, scienza e fede, sensismo e spiritualismo, razionalismo e cattolicismo (posizione che è proprio, nel suo assurdo, intimamente modernista): la sua esigenza era infatti di assimilarsi lo spirito della rivoluzione francese, tenendo lontano le esagerazioni giacobine.

Bisogna muovere dalla centrale concezione realistica cristiana per intendere la posizione del Berti, specialissima, nel problema della libertà della scuola, che egli difese con argomenti che erano comuni ai cattolici, ma temperandola con le sue preoccupazioni di liberale.

Ed è pure notevole, e rientra nella visione generale che noi abbiamo del Berti, che proprio egli sia stato tra i piú ardenti sostenitori degli istituti tecnici, nati in tutta fretta in quegli anni, in mezzo al culto della scienza, dell'erudizione, dell'enciclopedia, e ancora oggi malati di quel morbo iniziale. E anche si comprende d'altra parte che il Berti, con tutto il suo liberalismo, fosse ostinato difensore delle facoltà teologiche: egli non è ancora nella posizione dello Spaventa e non è piú in quella del Thouar o del Lambruschini (voglio dire il Lambruschini ufficiale piú noto, ché il suo pensiero intimo è lontano dall'ortodossia).

3. È naturale che l'autrice non riesca con questi modi a intendere la filosofia del Berti. Ella crede che «causa precipua del suo orientamento» e dei suoi studi storici, siano state le «esortazioni» del Rosmini (p. 67)! E del resto a p. 68 cita, senza respingere decisamente, l'idea «che l'aver condotto in moglie una colta e ricca protestante della confessione valdese» abbia potuto «indurre il Berti a fermarsi di preferenza sui filosofi vissuti in Italia ai tempi della Riforma protestante!»

Mentre non era difficile notare che il suo empirismo lo doveva naturalmente portare al Galileo e al Pomponazzi, per ricavarne alimento alla filosofia scientifica di cui egli s'andava facendo promotore in Italia; e al Bruno, al Campanella, al Cremonino, al Valdés lo indirizzava l'amore suo per ogni fatto o questione che offrisse campo a meditare sul dissidio tra scienza e fede. Esigenza assai poco filosofica questa seconda, e la prima di una filosofia superficiale, antesignana della filosofia positivistica.

Del resto il Berti non fu filosofo vero, come non fu storico della filosofia. Nelle sue pretese di far rivivere Galileo nel mondo moderno c'è una posizione assolutamente antistorica che gli impedisce di intendere il pensiero di Galileo e il pensiero moderno (il Berti fu sempre antikantiano perché non afferrò il significato della scoperta di Kant). Il naturalismo di Galileo ha il suo posto nel secolo XVII; ma dopo di lui abbiamo avuto Cartesio, che è veramente la via nuova negatrice del naturalismo: e tornare indietro non si può. Infatti il positivismo, che vuol tornare indietro, riesce a una filosofia come organizzazione delle scienze completamente asistematica ed eclettica, che non fa progredire la scienza e nega la filosofia perché non sa guardare le cose con l'entusiasmo oggettivo e immediato dei pensatori del Risorgimento, i quali veramente avevano fatto del loro naturalismo una concezione, ossia un'unità. L'antistoricismo della mente del Berti non gli lascia intendere neppure il pensiero di Galileo nel problema della scienza di fronte alla Chiesa. Non si può in nessun modo attribuire al nostro scienziato l'idea della separazione tra Stato e Chiesa: Galileo crede invece ancora che la Chiesa sia depositaria della verità, anzi tutto il significato della sua figura nei due processi sta nel dissidio tra il dogmatismo antico che egli professa e il nuovo principio dell'esperienza, che ha scoperto, ma da cui non sa trarre tutte le conseguenze necessarie.

La leggerezza del pensiero del Berti si può anche vedere nell'importanza che egli attribuisce a Copernico, che è scienziato puro, senza un sol principio speculativo. E di Galileo egli studia piuttosto la vita e le dottrine scientifiche che il fecondo e nuovo concetto dell'esperienza. Di Bruno, dopo il volume biografico, non riuscí a esporre, come aveva promesso, le dottrine in un secondo volume. Perché in sostanza verso tutti questi argomenti egli non provava affatto un vero bisogno filosofico.

E per la valutazione del suo pensiero è assai importante il fatto che egli si sia occupato specialmente di filosofi poco ortodossi o che egli considerò tali e studiò come rappresentanti del libero pensiero il suo antidogmatismo, come abbiamo accennato, ha un posto significativo nella storia dell'idea liberale in Italia.

Anche gli studi sul Risorgimento hanno piuttosto carattere erudito che valore propriamente storico: hanno, naturalmente, un significato notevole come preziosa raccolta di documenti che il Berti ebbe agio di scegliere e di pubblicare per l'importanza ufficiale della sua persona e delle varie cariche che tenne. Alcuni poi di questi studi ci offrono modo di addentrarci nella visione che egli ebbe della politica dei suoi tempi: per esempio il suo libro su Cesare Alfieri, che esamina le origini di quel liberalismo moderatore e conservatore da lui sempre professato.

I momenti importanti della sua carriera politica sono due. Il 1850-51 in cui egli, cattolico, si schierò contro l'atteggiamento antinazionale del Vaticano specialmente nella recensione al libro del Farmi sullo Stato Romano (pubblicato nella «Rivista Italiana» del settembre 1850) e nel Parlamento dal Centro Sinistro aiutò la formazione della concentrazione dei partiti intorno al Cavour. Momento importante per il superamento del neoguelfismo a cui il Balbo, per esempio, continuava a stare legato, condannandosi a non intendere piú la storia moderna.

Il secondo momento importante è nel 1881-84 in cui, col Depretis, egli governa il ministero di Agricoltura e Commercio. Il Berti fu il primo iniziatore della cosiddetta legislazione sociale e di questo gli dànno grande lode i suoi biografi con invocazioni ed esclamazioni apocalittiche.

Ma bisogna invece cercare di intendere quale sia il valore storico di quest'opera. Il Berti nell'80, discutendosi la tassa del macinato, passò improvvisamente dalla Destra alla Sinistra. Fatto che determinò naturalmente i piú opposti commenti. Che la tassa del macinato fosse economicamente mal congegnata e dannosa nei metodi di riscossione non v'ha dubbio; ma non v'ha dubbio del pari che l'averla imposta nel momento che poté funzionare fu una delle glorie piú grandi del Sella. Tuttavia qui, fuori delle discussioni tecniche, c'è una questione essenzialmente storica. Non v'è luogo per discorrere di opportunismo politico. Il Berti, combattendo la tassa del macinato e passando alla Sinistra, portava con sé tutto un programma di politica generale. E sia pure che vi fosse molta demagogia nel frasario e nell'impostazione: ma quale era la questione di questa demagogia? che significato assumeva pel Berti? Qui si tratta di valutare tutta la Sinistra, poiché in essa la parte del Berti fu assai importante e caratteristica.

La vecchia mentalità del realismo cattolico si concretava in saggezza pratica. Poste le nuove esigenze, non si pensava piú al cattolicismo, ma al popolo. Bisognava superare l'equivoco del Risorgimento. Costituita l'Italia, il popolo era assente. L'opera della Sinistra dunque doveva proprio essere la democratizzazione della nazione: politica di conservatori intenti ad attirare il popolo nella loro orbita, senza scosse violente, con una politica di concessioni. Era ancora l'equivoco, era la transazione: e il popolo vi si ribellò aderendo a un nuovo mito, il movimento socialista, il mito rivoluzionario.

Ma il Berti, uomo della vecchia Destra, era logico nei suoi atteggiamenti d'avanguardia. Era ancora l'antico Berti cristiano e ammiratore di Bruno e di Galileo.

Nel 1849-50 la transazione si doveva compiere ricorrendo a una politica scolastica ardita, nell'81-84 appigliandosi alla legislazione sociale più democratica. La filosofia del primo momento fu il neoguelfismo col realismo cristiano, suo erede; la concezione riflessa del secondo fu il positivismo. Il liberalismo italiano, lasciando da parte i suoi due piú grandi pensatori, Bertini e Spaventa, si tormentava penosamente in mezzo agli assurdi della sua mancata chiarezza ideale e della fallita rivoluzione pratica.

LA LIBERTÀ D'INSEGNAMENTO
IN PIEMONTE73

La questione dell'organizzazione scolastica presenta tanta complessità ed è cosí intimamente collegata con tutto lo sviluppo spirituale di un popolo che, ove la si voglia integralmente affrontare e adeguatamente risolvere, è necessario risalire a una visione storica nella quale gli elementi e i fattori del problema considerati come espressione pratica di crisi ideali, abbiano la loro luce e un loro chiaro significato. Mentre i politicanti si ostinano a limitare rigidamente il loro esame al lato grettamente amministrativo, spoglio di ogni significato ideale (che vuol poi dire politico) delle cose, è giusto e confortante che un filosofo, Giovanni Gentile, si dia pensiero di far intendere l'essenza storica della realtà politica, studiando con realistica concretezza le polemiche che intorno alla libertà dell'insegnamento, si agitarono in Piemonte settant'anni fa74.

Il Gentile mostra come la questione si venisse agitando in Italia sotto la influenza dei cattolici liberali di Francia (Montalembert, Lacordaire, Lamennais) sin dal 1840 e come già nel 1842 il Lambruschini la ponesse con molta finezza e precisione in questi termini «Non abbandono dell'istruzione da parte dello Stato: anzi l'interesse massimo, dimostrato con la formazione di scuole modello. E poi la piú ampia libertà» (p. 14)

E s'informò in sostanza allo stesso spirito la polemica del '51 tra il Berti e B. Spaventa.

Che il pensiero del Lambruschini e del Berti (anche piú) fosse sotto la diretta influenza del cattolicismo liberale francese è chiaro e incontestabile per chiunque abbia famigliarità coi due scrittori. Ma non è forse inutile integrare le ricerche del Gentile mostrando come in Piemonte si sia venuta sviluppando in modo autonomo sin dalla fine del secolo XVIII una concezione assai chiara sull'argomento.

Giambattista Vasco, economista torinese (1733-96), del quale anche il Pecchio loda la chiarezza e l'evidenza nella trattazione dei problemi, liberista convinto «non tanto per aver letto e ammirato Smith quanto per avere pensato da sé», affermava pochi anni prima della rivoluzione francese che giova «sianvi scuole stabilite dal governo, potendo esse scegliere facilmente i piú dotti professori procacciandoli anche da' lontani paesi e somministrare agli studenti quei comodi che difficilmente si avrebbero in altre scuole particolari, come macchine di fisica, istromenti di matematiche, ecc.». Ma «la concorrenza de' maestri privati coi professori (della scuola pubblica) può essere utilissima sia per costringere questi a non trascurare il loro dovere sia per formare ottimi candidati per le cattedre, quali saranno certamente coloro che con buona riputazione si sono molti anni esercitati ad insegnare nelle scuole particolari (private)». E per regolare questo privato insegnamento fissava due disposizioni: 1) «non permettere ad alcuno di aprire scuole in casa senza una permissione speciale del governo, che non si accorderebbe che a persone dabbene». 2) «Costringere coloro che vogliono insegnare in propria casa a farlo a porte aperte, cosicché possa intervenire alle loro lezioni chiunque voglia, il che sembra un sufficiente ritegno». E «giammai non converrebbe spingere le precauzioni piú oltre» (Delle università e delle arti e mestieri. Dissertazione dì Giambattista Vasco, G. G. Destefanis, Milano 1804, pp. 195, 197).

Proponendo la pubblicità dell'insegnamento, il Vasco non pensava alle difficoltà didattiche del provvedimento (se ne preoccupò invece nel 1876 un altro liberale, assai piú profondo per la sua cultura filosofica: il Bertini, e risolse il problema negandole): fu, questa della pubblicità, idea diffusa e fortunata durante tutto l'Ottocento e meriterebbe certo un maturo esame: ma noi dobbiamo piuttosto concludere in fretta, come si voleva, dalle citazioni fatte, l'originalità assoluta della posizione dei liberali piemontesi nella questione della scuola. E nel 1846, se ci vogliamo avvicinare agli anni della polemica pubblicata dal Gentile, l'Albini, rosminiano in filosofia, ma in politica costituzionalista con tendenze alla statolatria, ossia nettamente diverso dal cattolicismo liberale e anzi, inizialmente, opposto, affermava, in una forma sua, l'idea di libertà corretta dal controllo governativo: «L'istruzione è affare troppo rilevante, perché sia abbandonata al caso o lasciata in balia ai privati. Quindi la necessità delle leggi che vi provveggano dirigendola nel modo piú conforme al bene pubblico. Vengono pertanto a collocarsi sotto questo capo del diritto amministrativo tutte le leggi che compongono il sistema direttivo della pubblica istruzione dalle infime scuole alle piú elevate, tanto di quelle che sono direttamente dipendenti dalla pubblica autorità, quanto di quelle che essendo di costituzione privata sono sottoposte alla sorveglianza del governo» (Enciclopedia del Diritto, Mussano, Torino 1846).

Erano queste certo professioni di fede piuttosto generiche, anticipazioni dottrinali su un problema che appena stava sorgendo. Tutto il sistema d'insegnamento vigente in Piemonte era in realtà nelle mani del governo, rigidamente cattolico, e cattolici erano anche i pochi istituti privati. La concorrenza era un nome.

Ma proprio mentre l'Albini scriveva, nel 1844, si svegliava quel movimento per le scuole di Metodo, da cui sorse poi tutto il giornalismo scolastico dello Stato sardo. Fu un vero Sturm und Drang pedagogico, che ebbe la sua efficacia nella formazione (rapida, affrettata) della classe dirigente che guidò l'esperienza del '48-49.

E proprio dopo la guerra il problema si presentò nella forma piú urgente, imprescindibile. Il nuovo Stato, costituito a democrazia, doveva prendere la sua posizione e la sua responsabilità di fronte ai partiti, doveva affrontare il suo piú grande compito ideale, l'istruzione del popolo, e preparare per questo una classe di maestri.

Date le premesse teoriche che si sono viste nel Vasco, nel Lambruschini e nell'Albini, le polemiche che sorsero sulla libertà d'insegnamento devono essere valutate nel loro sforzo di soddisfare questa pratica esigenza scolastica.

Soltanto cosí sarà possibile darsi ragione della concezione dei due avversari: Bertrando Spaventa e Domenico Berti.

Tutti e due movevano dalla libertà come da dogma: ma la libertà del Berti era quella del cattolico fattosi liberale per influenza dell'economia inglese e dell'esperienza storica degli ultimi sessant'anni; lo Spaventa era il liberale napoletano che aveva raccolta l'eredità del Cuoco e del Colletta e cercava proprio allora di inverare questo suo intimo sentimento di libertà nella filosofia che aveva collocato la libertà al piú alto posto: la filosofia di Hegel. Movendo dal suo concetto di libertà hegeliano e anticattolico lo Spaventa, fissata chiaramente la differenza tra pensiero teorico universale e applicazione politica relativa ai tempi, ammetteva nella sua visione filosofica che l'insegnamento dovesse essere libero per tutti (anzi a p. 81 troviamo addirittura contestato, sempre in linea di principio, allo Stato l'ufficio di educatore: evidentemente lo Spaventa non era giunto ancora a farsi un chiaro concetto speculativo dello Stato, come si fece poi al tempo delle polemiche contro i Gesuiti; e forse egli non era rimasto indifferente all'influenza del pensiero libertario di qualche repubblicano o anarchico d'oltr'Alpi); ma praticamente stava fisso al concetto di insegnamento ufficiale, timoroso della prevalenza cattolica, almeno fino a che non fosse tolta alla Chiesa la posizione di privilegio, in cui la metteva il primo articolo dello Statuto.

Questo pensiero che lo Spaventa difendeva nel 1851, era stato, almeno nelle sue conclusioni, il pensiero del Berti nel '49 (vedi «Rivista Italiana»), quando il giovane professore di Cumiana sotto l'influenza del Brofferio aveva preso nella sua polemica col ministero Alfieri un atteggiamento quasi repubblicano; questo mutamento, che il Gentile non nota, ci può suggerire osservazioni assai importanti. Il Berti attenuando la polemica anticattolica, si avvicinava in sostanza a Cavour e preparava la famosa concentrazione intorno al ministro piemontese, che fu per il Piemonte fecondissima di successi politici. Il Berti aveva compreso dall'esperienza della prima guerra che l'unità d'Italia sarebbe avvenuta soltanto mediante la transazione coi cattolici; perciò verso la scuola cattolica egli non poteva piú avere timori di sorta: anzi secondo lui essa si sarebbe dovuta considerare come fattore primo di nazionalità. Finalmente un terribile problema, come già abbiamo detto, incombeva sul nuovo Stato: l'educazione di tutto il popolo; a compiere questo dovere, secondo il Berti, bisognava che si unissero gli sforzi della nazione intera, senza distinzione di partiti; a questo solo patto era possibile la lotta contro l'analfabetismo: per questo bisognava concedere la libertà d'insegnamento a tutti; la libera concorrenza avrebbe permesso che solo le scuole migliori prendessero sviluppo completo: le scuole limitate, confessionali, non avrebbero avuto mai vita vigorosa; i liberali si sarebbero messi al lavoro a fondare anch'essi scuole private buone, e a dare l'esempio ci si era messo il Berti, con ardore, sin dal '50.

Ma – si poteva obbiettare da parte dello Spaventa (egli invece non obbiettò) – di fronte all'immensità del problema bisogna che da parte del governo venga una parola alta, grande: lasciare la scuola alla libera concorrenza vuol dire condannare le regioni più povere a non avere le scuole, a non combattere l'analfabetismo: vuol dire rendere impossibile l'unità. Bisogna che il nuovo Stato affermi la sua laicità in modo universale; bisogna che s'impegni a dare la scuola a tutti i Comuni.

Questo non fu il pensiero esplicito dello Spaventa, ma diventò a ogni modo il programma del governo. Il quale non s'accontentò di fare, ma volle, e ancora vuole, strafare. Cosí la scuola è giunta allo stato di disorganizzazione e confusione in cui si trova al presente. Oggi, finito il pericolo clericale, o almeno equilibrato (mi si passi la brutta parola) dalla forza del movimento socialista, di fronte agli effetti del monopolio governativo e dell'affollamento delle scuole, la logica dello Spaventa, realizzata in politica concretezza, ci deve condurre alle conclusioni pratiche del Berti.

LA CRISI RIVOLUZIONARIA
DELL'OTTOCENTO IN ITALIA75

1. Della nostra crisi rivoluzionaria non si può dare una ragione praticamente e filosoficamente valida se non si distrugge il mito che si è foggiato intorno al Risorgimento.

Del resto il valore pragmatistico attuale di un tale mito non è piú adeguato alla sua funzione. Il mito, idealizzando una situazione di fatto, si pone come sintesi di aspirazioni per esprimere l'immanenza di un progresso. È lo sviluppo e la razionalità della storia nel suo valore trascendentale, e nella sua capacità di creare un impulso all'azione.

Ma la nostra crisi rivoluzionaria non ha avuto una soluzione integrale e conclusiva. Il problema del nostro Risorgimento: costruire un'unità che fosse unità di popolo, rimane insoluto perché la conquista dell'indipendenza non è stata sentita tanto da diventare vita intima della nazione stessa, non è stata opera faticosa e autonoma di formazione attivamente spontanea.

Accettando la realtà fatta, quale è data dal Risorgimento, noi dobbiamo soddisfare un'esigenza che il Risorgimento non ha appagata e perciò non possiamo esaltare e porre come aspirazione del nostro avvenire quella debolezza che aspramente pesa su di noi e che è nostro compito sforzarci di superare prendendone coscienza.

2. L'essenza dello Stato moderno come Stato – libertà dei cittadini coincide col concetto di rivoluzione, perenne creare di realtà sempre nuova, affermazione autonoma di cittadini indipendenti aventi in se stessi il principio della loro attività e autorità sociale: la rivoluzione coincide dunque col concetto stesso di funzione del popolo.

Ma il nostro Risorgimento non è riuscito a realizzare politicamente questo compito specifico per l'incapacità del popolo a esprimere dal suo seno una classe di governo.

La classe dirigente, nel mondo moderno, ponendosi come negazione di ogni aristocrazia chiusa, di ogni residuo di teocrazia e di trascendenza realizza in sé la funzione del governo fondendo in una sintesi vitale autorità e libertà: gli uomini del nostro Risorgimento non sono giunti a vedere con chiarezza la loro posizione storica; non hanno superato il feudalismo, non hanno fecondato le esigenze che in Italia sorgevano dalla rivoluzione francese. Questo è il significato del fallimento della nostra rivoluzione.

3. Il primo tentativo dopo la rivoluzione francese per fondare una classe dirigente e uno Stato risale al '21. Il '21, preparato da tutto un movimento culturale che si riattacca all'Alfieri e si riassume soprattutto nella vita e negli studi di Luigi Ornato e di Santorre Santarosa, fallisce per un intimo vizio di dilettantismo, per pregiudizi militaristici e per l'immaturità della concezione politica dei dirigenti tormentati nell'insuperabile dissidio che separava la laicità, implicita e necessaria in ogni movimento politico autonomo, e il cattolicismo ancora padrone delle menti.

Per intendere la ineluttabilità di questo dissidio bisogna meditare sul carattere e sulle forme del romanticismo italiano: tale ricerca deve anche spiegarci indirettamente l'originalità e la validità del pensiero del Berti.

4. È stato messo in luce da altri76 l'inevitabile carattere approssimativo di ogni definizione del romanticismo che si esprima in termini psicologici. Un concetto rigoroso del romanticismo che valga ai nostri fini si può dare solo quando si consideri il valore filosofico di quel movimento storico che nascendo in Germania nella fine del secolo XVIII si ritrova poi in tutta Europa nella prima metà dell'Ottocento.

Reazione idealistica, talvolta anzi addirittura spiritualistica, ai sistemi sensisti e intellettualisti, affermazione dei valori storici; e, per opera della conquistata storicità, elaborazione dei concetti di tradizione nazionale, di realismo politico, di progresso e di svolgimento graduale: queste sono le idee o, meglio, le direzioni di pensiero, che possiamo legittimamente chiamare romantiche.

Ma in Italia, mancando una coscienza riflessa e organica tra i promotori stessi del movimento, il romanticismo procede e si viene affermando confusamente senza liberarsi dalle sue implicite contraddizioni.

Si veda il processo attraverso cui un nucleo di pensiero originalmente romantico si viene formando in Piemonte durante la dominazione napoleonica.

Il misogallismo imparato da Alfieri si concreta nell'affermazione del concetto di indipendenza e conduce (oltre le limitatezze del pensiero alfieriano) ad una violenza polemica antisensista, in quanto si vede nel sensismo la caratteristica influenza del mondo francese. Nello stesso modo la scuola di Alfieri, libertario, doveva condurre a rimeditare sul concetto di libertà. E seguendo gli spunti alfieriani, l'idea di libertà veniva purificata dai residui materialistici, con cui l'aveva corrotta la demagogia dell'enciclopedismo, e la si riconduceva alla sua purezza attraverso un rinnovamento spiritualistico.

Tuttavia questo spiritualismo romantico stesso era gravemente viziato dai limiti che ponevano la tradizione cattolica e l'esigenza dell'ortodossismo, implicite in ogni sistema fondato sul principio della teocrazia e della trascendenza.

Lo sforzo piú intenso per spezzare le catene di una tradizione millenaria fu compiuto da Luigi Ornato, il filosofo dei moti del '21, il rappresentante piú ardito della polemica antidogmatica. Una coscienza oscura delle antinomie tra cui si travagliava l'Italia nascente a nazione condusse l'Ornato a una elaborazione dello spiritualismo che prescindendo dalle affermazioni cattoliche realizzasse in un cristianesimo platoneggiante i bisogni religiosi e il fervore anelante a una vita piú intima. Il misticismo ornatiano, culminando nel supremo concetto della libertà, santificava tutti gli ardori spirituali e poneva l'esigenza di una vita religiosa, che si chiarisse e si risolvesse tutta come vita morale e filosofica. Movendo dagli stessi motivi che avevano animata la filosofia di Jacobi, introduceva come elemento di rinnovazione la necessità di una coscienza civile.

Queste idee si dimostrarono nel '21 inadeguate al preciso momento politico e incapaci di dare un contenuto alle aspirazioni del popolo. Poiché nel Santarosa stesso la coscienza filosoficamente determinata dell'Ornato, già s'affievoliva in uno spiritualismo dogmatico e dualistico, e l'espressione dell'esigenza religiosa si confondeva nell'ossequio alla Chiesa.

Né è meraviglia perché il cristianesimo, iniziale ardore di sentimento, momento ideale naturalmente anarchico, eretico, atto che supera tutti i fatti, affermazione violenta di spiritualità contro tutti i dati, non può avere vita e compimento reale se non realizza l'ardore in organismo, se non sostituisce alla purezza astratta dell'aspirazione l'ordine solido della praticità.

Le correnti religiose del romanticismo, non avendo avuto la forza di creare attraverso il primo impulso cristiano una riforma religiosa, furono assorbite dal cattolicismo. Il culto romantico della storia diede un contenuto tradizionale a questi ritorni cattolici. La fecondità rivoluzionaria del pensiero dell'Ornato venne a perdersi nella moderazione dei conservatori. L'uomo nuovo fu Balbo, la nuova religiosità fu neoguelfa, il liberalismo diventò termine inseparabile dal cattolicismo. L'assolutismo riusciva con le armi stesse dei liberali, col loro spiritualismo e colla loro fede, a stroncare ogni movimento di vera rinnovazione.

5. Distrutta la giovane aristocrazia del '21, la nuova aristocrazia è ancora separata dal popolo, è ancora lo strumento di un trascendente governo, espressione di un esterno dominio.

La riscossa del '48 ha soltanto piú le apparenze della rivoluzione: il liberalismo confuso col neoguelfismo ha perduto la coscienza del suo significato ideale. Lo stesso equivoco continua col cattolicismo liberale. L'ossequio alla Chiesa stronca la volontà etica da cui dovrebbe nascere il nuovo Stato. Il pensiero ufficiale del liberalismo, sviluppando le premesse di Santarosa, non quelle dell'Ornato, vede nello Stato e nella Chiesa un dualismo di corpo e spirito, spoglia di ogni significato ideale la funzione dello Stato e lo riduce a mera amministrazione lasciando la cura delle anime alla Chiesa.

La povertà del pensiero degli italiani sullo Stato ha le sue ragioni storiche. Il dilettantismo letterario, che, aveva impedito una riforma religiosa e nello stesso modo un movimento francescano di redenzione autonoma, era sostanzialmente anarchico e antisociale. E siffatta psicologia libertaria poteva accettare per mera inerzia una forza tradizionale come la Chiesa, ma non poteva dare la sua vitalità a creare il nuovo Stato; siccome poi la storia nella sua più vasta dialettica europea superava le contingenti volontà della maggioranza dei cittadini italiani, dello Stato liberale si accettò l'ossatura, il meccanismo, senza vivificarlo dall'interno. Le esperienze del '48 e del '49 aiutarono la formazione della nuova classe dirigente, ma questa dovendo accettare l'equivoco che le stava intorno, ebbe soltanto una funzione di pratica abilità, non fu rivoluzionaria, non creò lo Stato.

Dell'inadeguatezza del pensiero piemontese a prendere coscienza dei problemi veri del Risorgimento fa prova esattamente il Berti, rappresentante del regionalismo piú chiuso e incapace di afferrare il significato dei nuovi valori nazionali.

6. La coscienza implicita di tale immaturità è da ricercarsi nel movimento pedagogico intensissimo che il Berti promosse con il Rayneri, l'Aporti, il Troya, il Valerio, il Boncompagni, e altri in Piemonte prima e dopo il '48. La pratica superava, come valore di coscienza, la limitatezza teoretica. L'educazione popolare sembrava la sola via per cui potesse nascere nel popolo una volontà. Il nuovo Stato doveva adeguarsi alla sua funzione, ma prima di esercitare la funzione doveva creare gli elementi che potessero operare e condizionarlo. Onde la contraddizione implicita del nostro liberalismo che non si può accontentare di esprimere il risultato della dialettica delle forze politiche, ma deve rinunciare all'immanenza per affermare un elemento del processo al disopra degli altri. Il governo erede del cattolicismo ha conservato una funzione etica astratta di egalitarismo democratico. Democratico era il romanticismo nelle sue conseguenze in quanto affermava nel cattolicismo la fede del popolo. Democratico (e non liberale) era il nuovo governo condannato nel suo nascere stesso a una politica di transazioni, di riformismo che avvicinasse il popolo allo Stato. La dialettica del nostro Risorgimento dimenticava le sue origini liberali e si faceva democratica per continuare la teocrazia. Questa volta però penetrava trionfalmente nel mito teocratico l'elemento che lo doveva dissolvere, sostituendogli l'ineluttabilità del progresso moderno. I cattolici si dovettero chiamare liberali; il governo ormai indulgeva al cattolicismo solo per indulgere al popolo. La legge Casati (con tutti i suoi errori tecnici) imponendo allo Stato il compito di vincere l'analfabetismo, costituiva una violenta sovrapposizione di un principio trascendente all'autonomia e all'iniziativa che sorge dal basso, ma poneva le premesse per far entrare nel mondo della nuova coscienza quel popolo che ne era rimasto fuori per un'intima malattia feudale.

7. Dopo il '50 il governo piemontese è un socialismo di Stato: il riformismo si presenta quale necessaria mediazione tra il medioevo cattolico e la modernità liberale.

Come Lassalle, su un terreno di realismo, conduce a Marx, Berti (o per esso Cavour) conduce a Mazzini.

Mazzini e Marx (ove si prescinda dalle espressioni singole che trovano i loro miti) pongono le premesse rivoluzionarie della nuova società e nei due concetti, cosí diversi, di missione nazionale e di lotta di classe elaborano un principio idealistico, o, se meglio piace, volontaristico che fa risiedere la funzione dello Stato nelle libere attività popolari affermantisi attraverso un processo di individuale differenziazione. In questo senso Mazzini e Marx sono i piú grandi liberali del mondo moderno.

Ma dal 1850 al 1914 l'eredità cattolica costringe il nuovo organismo sociale ad affermarsi secondo un'astratta funzione di moralità che corrompe il principio attivistico (liberistico) in una concezione democratica di stanca grettezza utilitaria. Questa è la validità, questo è il compito del riformismo italiano che i nostri socialisti credono di avere inventato e che è sorto invece con le prime polemiche contro i Gesuiti a proposito della scuola popolare (Berti e Gioberti).

Nell'evoluzione sociale dopo il '50, essendo stato introdotto nella vita italiana un elemento di riorganizzazione economica sulla nuova base industriale, alla legislazione scolastica del socialismo di Stato si sostituisce il riformismo economico.

La ricostruzione scolastica, infatti, come rivoluzione morale, aveva potuto creare un embrione di classe dirigente, ma si era dimostrata inadeguata a un'espressione rivoluzionaria che fecondasse tutte le forze individuali. Il primo momento della coscienza popolare doveva essere un momento per eccellenza economico, affermazione elementarissima dell'autonomia e della libertà nella sua forma più egoistica. Chi dubitasse della legittimità del processo formativo qui descritto ricordi che proprio il Berti, rispetto al quale ora si enunciano queste idee, ha successivamente difeso, nei momenti vivi del suo pensiero, il riformismo scolastico e (piú di trent'anni dopo) il riformismo economico.

L'opera della Sinistra continuata dal giolittismo era il coronamento logico della nostra impotenza rivoluzionaria. Era il risultato dialettico di due forze incerte e incapaci di esplicarsi: la teocrazia diventava mito democratico e riformismo, il liberalismo era ridotto a funzione amministrativa e opportunismo. L'equivoco iniziale tra Chiesa e Stato generava l'equivoco tra popolo e governo.

Le forme esterne in cui l'equivoco si mostra sono quelle del socialismo di Stato di Lassalle: e questo infatti fu l'ideale del giolittismo (la monarchia socialista missiroliana). Ma per l'eredità della rivoluzione non riuscita il movimento riformista e socialista italiano non si può svolgere nei quadri di uno Stato a cui il popolo non crede, perché non l'ha creato con il suo sangue. Il socialismo tedesco coincide nel suo valore etico con il significato dello Stato, rappresenta il realizzarsi dell'idea-Stato nella coscienza dei cittadini. La lotta pratica s'è ridotta nei termini dell'economia perché un principio comune già è coessenziale agli spiriti, e dal progresso economico trae esso stesso sviluppo.

In Italia una tradizione che, se non è liberale, è almeno individualistica, si oppone senza rimedio alla vitalità di un sistema che ignori la libera iniziativa e consideri lo Stato come una attività distinta dall'attività dei cittadini.

Il socialismo di Stato, quale noi l'abbiamo seguito nelle sue origini e nel suo sviluppo, è dunque un momento effimero, che rappresenta una transazione e che bisogna superare.

Una volta venuti sul terreno della legislazione sociale la politica diventa un perpetuo ricatto, in cui a eterne concessioni fanno eco eterne domande; senza che s'introduca nella lotta politica un principio di responsabilità e di educazione.

Lo Stato viene corroso da un intimo dissidio tra governo e popolo; un governo senza validità e senza autonomia perché astratto dalle condizioni reali e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, privo di concreta coscienza e di concreta volontà, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all'organizzazione sociale.

Questa contraddizione s'andava proprio chiarendo negli ultimi anni del Berti (che furono perciò necessariamente inattivi) e si esprimeva nel fallimento africano.

Ma poiché la società può vivere di contraddizioni solo a patto di risolverle senza posa, dalle rovine stesse di Adua, per negare il riformismo, l'opportunismo e il socialismo di Stato, nasceva, organizzandosi ad autonoma disciplina, alimentata di elementi marxistici (Lassalle, e Berti con lui, è ormai fallito), ma diretta erede del mazzinianismo esausto, la nuova affermazione rivoluzionaria del popolo.

LA FILOSOFIA DI LUIGI ORNATO E LA CULTURA POLITICA DELL'OTTOCENTO77

Gli storici della rivoluzione francese hanno dimostrato che l'opera rivoluzionaria non fu creazione immediata dei moti che avvennero dopo il 1789, ma, incominciata in pieno Ancien Régime, ebbe essenziale sviluppo e quasi organica vita culturale e politica nel seno stesso della società feudale.

Un movimento culturale in certo senso autonomo, che a torto si suole confondere con il Settecento francese, s'andava formando contemporaneamente nel vecchio Piemonte, ansioso di liberarsi dall'influenza gallica. Ricordo l'Alfieri, il Napione, il Caluso, il Vasco e i suoi colleghi economisti.

Il fermento culturale fu soffocato dal potere regio e i risultati vennero meno soprattutto per l'intima disorganicità del pensiero agitato e per la poca originalità: è molto agevole trovare le fonti di questi bravi piemontesi nelle libere idee della lontana Inghilterra. Ma il movimento fu piú tardi fecondo. Alfieri, riconosciuto come antesignano del liberalismo, apparve maestro di originalità; il suo misogallismo prese coscienza filosofica nella polemica contro il sensismo dell'Enciclopedia. L'affermazione del concetto di libertà si presentò immediatamente in una forma romantica, non ancora tutta chiara a se stessa: la chiarezza e l'esplicazione conclusiva sono in Gioberti, che rappresenta pure il momento culminante di tutta la formazione spirituale italiana, riassumendo in sé il significato filosofico, politico e letterario degli altri romantici, Rosmini, Manzoni, Pellico. I precursori di questa chiarezza, figli immediati di Alfieri, sono l'Ornato, il Santarosa, il Provana, il Balbo.

Ornato è la mediazione speculativa tra Alfieri e Gioberti; Santarosa la mediazione civile: Balbo è il realismo politico che s'impone in un mondo letterario. Movendo da Alfieri egli è già Gioberti. C'è in questa attività lo spirito di uno Sturm und Drang italiano.

Luigi Ornato78 (1787-1842) era venuto giovinetto a Torino dalla nativa Caramagna. Nel 1804 lo troviamo legato in fraterna amicizia con Luigi Provana e con i fratelli Balbo. Di quegli anni, degli ardori e delle speranze che animavano i giovani scrisse, ancora commosso, il Provana in una biografia dell'Ornato che è rimasta inedita. Il tormento del loro cuore era la patria, e l'amor di patria si realizzava nella forma ristretta, quasi regionalistica, dell'odio contro il dominio francese.

Ma questi sentimenti non cercavano rumorosa espressione e volevano invece disciplinarsi in un tentativo ordinato di lavoro.

Ispiratori l'Ornato e il Provana, fondarono, nel 1804, con l'aiuto pratico che offerse Prospero Balbo, l'Accademia dei Concordi79. «Era, – come scrisse poi nella sua Autobiografia Cesare Balbo, primo presidente del giovanile consesso, – una ragazzata di Accademia, che abbracciava le universe cognizioni umane, e che non le avanzò, per vero dire, ma che radicò in noi il gusto di quelle, intrecciato nelle nostre menti colle piú dolci rimembranze dell'adolescenza. Ancora molto si parlava tra noi dell'Italia. Era ragazzata, lo so, ma di quelle che, maturandosi, poi diventano opinioni».

Prospero Balbo aveva raccomandato ai giovani accademici lo studio delle lingue classiche, ma essi vi vollero unire l'esercizio della lingua italiana, base di tutti i lavori e, come affermò Cesare Balbo nel discorso inaugurale, affermazione della loro fiamma nazionale di fronte all'invasione francese.

I loro studi, che ancora ci restano, non hanno valore scientifico. Traduzioni dal latino e pochi lavori di matematica, che l'Ornato aveva suggerito per richiamare gli amici a piú profonda meditazione, ma che non ebbero molta fortuna. Soprattutto versi, molti versi. Lo spirito pratico piemontese reagiva contro se stesso cercando di conquistare ciò che gli era stato sempre precluso: la contemplazione artistica, la limpida espressione della personalità. Alfieri conduceva a Petrarca.

Molte di quelle espressioni poetiche sono addirittura grottesche. Basterebbe citare i versi del Balbo, che pur ne ha dati alcuni saggi alle stampe. Significavano una crisi sociale: al lettore moderno suggeriscono il maligno pensiero che non si può andare contro natura. I versi dell'Ornato, tecnicamente piú perfetti, risentono le rime alfieriane e, qua e là, il Petrarca. E non si creda che al Petrarca si rivolgessero i nostri poetini per il suo significato di poeta dell'italianità: in lui cercavano e ritrovavano la loro debolezza, l'ansia dello spirito critico, la scontentezza di se medesimi, l'incapacità della sempre sospirata azione, insomma quello stato d'animo crepuscolare, quella Sensucht che si ritrova nelle coscienze degli individui di fronte alle grandi crisi sociali: in Petrarca all'aprirsi dell'umanesimo, in Ornato al cominciare della rivoluzione francese. Con che non si vogliono confrontare due individualità, ma si vuol affermare invece precisamente che nel Petrarca l'Ornato potesse trovare qualcosa del suo ideale, del suo temperamento di mistico, delle sue aspirazioni.

I giovani accademici avevano cercato assistenza e difesa nei vecchi. I migliori dell'antica generazione: Napione, Caluso, Prospero Balbo lavoravano coi nuovi costruttori. Non tutto era da abbattere nel mondo passato: anzi già vi si trovava un principio di rinnovamento. Certo il meglio era in quella coesione intima di spiriti giovanili, risoluti a guardare innanzi; in quella comunanza di pensieri che si rinnovellò piú tardi. Eppure nelle origini stesse dell'Accademia stava il vizio insuperabile, il vizio fatale di tutto il nostro Risorgimento: la letteratura. Si parlava di patria, si voleva soffrire per essa: ma l'espressione riusciva al dilettantismo. Lo spirito era nuovo, le forme miserevolmente arcadiche, con i soprannomi d'accademia, le sedute estetizzanti, la retorica, l'apparato convenzionale. Morirono le forme e restò lo spirito. Morí l'Accademia del 1809, restò la coesione degli ideali e delle anime, l'amicizia tra i migliori, centro spirituale fecondo.

All'Ornato, al Provana, al Balbo si uní Santorre Santarosa e ne nacque un vivo sodalizio che fu sprone e guida all'attività. Serietà nuova li animava. Sentirono la vacuità della letteratura sospirata nella fanciullezza. Immolarono gli inutili versi alla memoria dell'Alfieri. Sarebbero stati scrittori, ma per formare le nuove generazioni. Balbo e Santarosa, senza rinunciare, alle tendenze estetiche, sostituirono alla lirica l'ideale del romanzo. E l'opera loro di romantici inconsapevoli doveva essere romanzo storico. Ornato e Provana pensavano a tradurre dal greco, ma il poeta tradotto doveva essere Tirteo, nome di lotta e di vittoria, a cui si ricorreva come a un simbolo. L'Arcadia era ben morta: non le era nata al posto la Poesia, ma si presentavano ormai chiari agli spiriti un compito nuovo ed esigenze spirituali piú profonde.

Che cosa rappresentano questi sforzi nella nostra storia? Trascurati dagli eruditi di professione ci offrono invece la base essenziale per intendere la rivoluzione del '21 e la crisi che seguí e che entrò solo nel '48 nel suo periodo risolutivo80.

La posizione dell'Alfieri nella storia dello spirito italiano era stata sommamente astratta e individualista: vizio comune all'utilitarismo enciclopedista del Montesquieu, del Rousseau, del Voltaire, dai quali l'Alfieri derivò molti elementi per il suo sistema filosofico-politico. Dal sensismo, che corrode e travaglia tutta la speculazione francese e italiana del tardo Settecento, non si può giungere a una giustificazione dei valori sociali: il sensismo, con il particolarismo astratto che gli è implicito, non può consentire la conquista di un vero e proprio centro filosofico che intenda integralmente la realtà dello spirito: invece che fermezza ideale si dànno singolari passioni. Il patriottismo dell'Alfieri era stato piú letterario che civile, piú romano che italiano; nasceva da un'ardente aspirazione poetica e si nutriva dell'odio a tutto ciò che fosse gallico o tedesco. C'era la forma, mancava il contenuto del nuovo mondo. C'era l'emozione, mancava il pensiero: o – che è lo stesso – c'era un pensiero vecchio.

Tutto l'organismo ideale che il movimento tedesco con Kant e i suoi successori veniva creando è estraneo al poeta. Ma privo di Kant il Settecento è privo della sua vera concretezza: in Kant si potenzia il significato della rivoluzione francese, spogliandosi di ciò che è utilitarismo o grettezza di individui.

Il nuovo secolo, l'Ottocento, doveva avere un senso soltanto a questo patto, di prendere coscienza riflessa del moto spirituale da cui era sorto. La rivoluzione tedesca, come la rivoluzione italiana, doveva trovare effettuazione completa in questo superamento e inveramento della rivoluzione francese, che aveva creato per intima necessità, quasi inconsapevolmente, il nuovo Stato, realtà del mondo moderno.

Ma Alfieri restava uomo del suo tempo, piú limitato di quel che non fosse Parini, forse perché poeta piú immediato, di piú incomposto furore. Mentre s'andava preparando il nuovo concetto dello Stato, in irriducibile contrasto con la Chiesa, affermazione di immanenza contro la trascendenza, Alfieri s'era tutto dedicato a teorizzare l'individualismo empirico e, nonostante il suo ateismo, anzi appunto per esso, non riusciva a liberarsi dal vecchio concetto di Dio. La sua teoria dello Stato è un'intuizione anarchica, di quella pessima fra le anarchie che si fonda su presupposti pseudodemocratici ed edonistici. Ora, se tali concetti hanno un significato nella tradizione inglese, non si possono poi trasportare meccanicamente in un mondo diverso, mantenendone immutati i caratteri.

Giova avvertire che nell'Alfieri codesta statica concezione è temprata e ravvivata dall'entusiasmo poetico: sicché nella praxis sociale il suo valore intimo di sforzo e di stimolo a sforzo è ricco di una fecondità piú ampia che non appaia da un esame meramente intellettualistico. L'influenza del suo pensiero trascende l'interna valutazione logica che se ne può dare. Alfieri era il vate, il profeta, non il caposcuola. Ornato e Balbo, pieni l'animo di lui, riescono di fatto a negarlo: Ornato con la sua filosofia mistica; Balbo con la sua concezione di politico moderato. Vogliono dell'Alfieri la fiamma interiore, non la dottrina. L'entusiasmo dell'Alfieri possedeva tanta interiore virtú da ispirare Mazzini; la dottrina aveva il suo posto negli anni 1790-1800, in un'Italia serva alla Francia, perché serva alla propria intemperanza, e perciò soltanto in tentativi frammentari capace di liberarsi. Ispirandosi al primo Alfieri, il pericolo era di restare sotto l'influenza del secondo. Occorreva perciò il massimo vigore di reazione, e questo venne dal cattolicismo. Cattolicismo romantico e idealista preparato, negli spiriti migliori del tempo, a lotta acerba contro ogni sorta di sensismo o di razionalismo sensista. Bisogna distinguere questa reazione ideale dalla reazione politica: non solo non coincidono, ma sono agli antipodi. La reazione cattolica al sensismo si esprime nella grande filosofia rosminiana, nel Manzoni e in tutto il movimento romantico; la Santa Alleanza si fonda nel cattolicismo soltanto per opportunismo di politicanti, ma è intimamente antidealista nel suo programma di ritornare al Settecento, come se la rivoluzione francese non fosse stata: la «Biblioteca Italiana» dell'Acerbi, sensista e classicista, ha l'appoggio del «cattolico» governo d'Austria.

Del movimento spiritualista antifrancese è antesignano Luigi Ornato.

Ora è naturale che l'eredità dell'Alfieri determinasse, come necessaria opposizione all'individualismo poetizzante che restava negli spiriti, un bisogno intenso di associazione, di comunicazione. La società reagiva con le sue forme piú elementari alle pretese anarchiche e particolaristiche.

Si trattava di risolvere un problema pratico. Seguivano al profeta gli apostoli, al vate i realizzatori. Il problema concreto della realizzazione consisteva nella formazione di una classe politica. Problema vivo ancor oggi, poiché la nostra immaturità è precisamente nell'assenza di una aristocrazia che, uscendo dalle viscere stesse del movimento popolare, sia espressione del paese e lo governi.

Con Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele, Vittorio Amedeo, il Piemonte aveva avuto un'aristocrazia militare e un'aristocrazia di corte, ordinata in gerarchia facente capo al re. Era la logica dello Stato feudale.

Con il Settecento si sostituiva definitivamente al feudo la Nazione, la quale non può piú accettare, come valori di governo, Corte e militari. Ai generali succedono gli statisti, gli economisti agli strateghi, all'esercito il popolo.

Ora questi giovani che si raccolgono, studiano insieme, pensano insieme a costruire la patria, sono i veri creatori della rivoluzione in Italia. Nell'incertezza del movimento storico rispecchiano le deficienze che sono di tutti81. Falliscono: ma l'esperienza eroica non si trova soltanto nel successo. Tutti, tranne l'Ornato, provengono dall'aristocrazia del sangue, alla quale è posto ormai il dilemma di essere aristocrazia di popolo o di non essere. La loro prima educazione è stata educazione militare, hanno servito lungo tempo nell'esercito e hanno scritto di problemi militari. Codesto genera in essi una certa incapacità di vedere il mondo nuovo, fatto di pensiero, di cultura, di valori spirituali. Dall'infatuazione letteraria stessa si liberano penosamente. In tutti questi caratteri riconosciamo le ragioni del fallimento del '21. Una specie di cultura politica s'era andata formando durante l'esperienza della dominazione francese, rude contatto con la realtà, distruggitrice di intellettualistiche illusioni, ma dai meschini sforzi poetici a un organico realismo politico la via era lunga. Ci si mise il Balbo risolutamente. A contatto con la Germania, la Francia e la Spagna, temprò la sua realistica visione politica: mancando di una coscienza chiara dei valori letterari e storiografici, subordinò la pseudostoria e la pseudoletteratura dei tempi suoi alla vivente realtà della politica: ne nacquero la Vita di Dante e le Meditazioni storiche. Lo spirito pratico piemontese domava le nuove pseudopoetiche. Balbo è il primo piemontese che, senza diventare letterato, non è più militarista. Fu un Cavour in miniatura e in anticipo. Nel fervore di lavoro degli amici il piano del Balbo aveva coerenza e precisione matematica. Alla vigilia della rivoluzione, diceva il Balbo al Santarosa: – Bisogna aspettare; tra dieci anni il Piemonte sarà governato da Carlo Alberto e noi saremo i suoi ministri. Allora si potrà parlare di libertà.

Il Balbo, senza fede, aveva una posizione realistica che non ignorava l'assenza del popolo dai contrasti ideali d'Italia, e limitava tutto il problema alla formazione della classe dirigente. Realismo a mezzo, di un piemontese che non sapeva che cosa pensare dell'Italia. La sua politica era per questo moderata, in quanto era una posizione di partito di governo82.

Di fronte al Balbo stava il Santarosa83, anima di capitano poeta, incapace di comprendere la realtà, eppure travagliato da velleità di azione politica, sentimentale, mistico, religioso: temperamento idillico che, fuori della sua vita, che è tutta un poema, non ci seppe dare una sola pagina di poesia. Non ostante tutti i suoi propositi di patriota fervente imparò a stento a scrivere l'italiano e lasciò la sola opera sua in francese, senza riuscire a porre termine ai due libri che aveva pensati in italiano: le Lettere siciliane e Le speranze degli italiani. Quasi per reagire al suo astrattismo, che aveva il prestigio dell'ideale, si sforzava di farsi calcolatore preciso dei fatti pratici piú banali, dei casi piú minuti, che, appunto per questo, isolati dalla visione generale, irrimediabilmente gli sfuggivano. Egli sapeva pensare il problema della nostra rivoluzione soltanto nelle proporzioni di una battaglia contro gli austriaci, sminuzzata in innumerevoli scaramucce. Per questa sua mentalità era naturale che Carlo Alberto lo ingannasse, l'esercito gli sfuggisse di mano e la piú meschina sconfitta fosse il coronamento della sua generosità. E neppure nella morte riuscí a liberarsi dalle contraddizioni che lo laceravano: con tutto il suo fervore di italianità, non seppe far di meglio che dare la vita sua inutilmente, disperatamente, in una scaramuccia di greci contro egiziani.

Il contrasto fra il Balbo e il Santarosa metteva al cimento estremo gli spiriti. Il dissidio era tra astrattismo e realismo: i giovani piemontesi furono col Santarosa contro il Balbo.

Cosí il '21, insieme con i fallimenti successivi del grande Santarosa, significava per l'Italia la fine del tentativo piú ardito compiuto per la costituzione di una aristocrazia piemontese. I migliori dovettero andare in esilio. Balbo e Provana, rimasti in patria, furono per molti anni esclusi dalla vita pubblica. La classe dirigente, che avrebbe dovuto mediare tra monarchia e popolo, restò un desiderio. Già nel '21, il Risorgimento era negato come Risorgimento italiano e lo si condannava ad essere il frutto degli abili calcoli e delle transazioni di Cavour: un capolavoro d'arte a cui l'anima italiana sarebbe rimasta estranea.

La debolezza di tutti e due i programmi, il moderato e il rivoluzionario, consisteva nell'assenza di una posizione ideale. L'antinomia irriducibile era tra il cattolicismo, che ancora dominava gli spiriti soffocandoli nel ferreo sistema di un assolutismo teocratico negatore di tutte le libertà, e il carattere anticattolico, perché umano, realistico, immanentistico, del nuovo Stato che si voleva costruire. Bisognava porre il dilemma tra cattolici e liberali: ma, se si fosse posto, gli italiani avrebbero scelto il cattolicismo contro l'unità. Per questo fu così grande l'importanza pratica del movimento neoguelfo, il quale, contro il pensiero dei promotori, conciliando la realtà con un'aspirazione, doveva preparare la liquidazione del mondo della teocrazia. Solo a patto di questo equivoco poteva nascere l'unità. Ma perché l'idea liberale si formasse bisognava giungere in qualunque modo a separare religione e politica, e dare alla politica la sua consacrazione umana nella filosofia, la quale si sarebbe poi, essa, assunta l'impresa di liquidare la trascendenza. Santarosa e Balbo, impigliati tra i termini stessi del dissidio, non potevano venire a nessuna chiara affermazione; per il Balbo stesso è dovere del politico l'ossequio alla religione: lo statista deve essere cattolico.

Ma su questa nuova via, negando Rosmini e Manzoni, si trova Luigi Ornato. Posizione che è fuori della contingenza empirica, perché trova la sua concretezza per entro le leggi ancora ascose della storia. Cattolico (ma in realtà, piú che cattolico, cristiano) contro i sensisti, egli è liberale contro i cattolici.

Che cosa rappresentava il cattolicismo italiano nel principio del secolo XIX? Professava in filosofia un razionalismo intellettualista, palesemente realistico, che risolveva tutti i problemi nell'indifferenza. Diffuso col favore dei governi conservatori, s'era assimilato come l'Aufklärung tedesco i molteplici elementi dell'Enciclopedia e del sensismo. La negazione dell'Aufklärung e del sensismo nei concetti di esperienza e di atto intellettuale è opera in Germania di Kant, in Italia di Galluppi e Rosmini. Ma, mentre Kant supera gli elementi dogmatici del wolfismo, Galluppi e Rosmini (e il Rosmini anche piú rigidamente del Galluppi) restano cattolici e ortodossisti. Lo sforzo comune di Kant e di Rosmini era di sistemare in una teoria che avesse consistenza razionale lo sforzo della filosofia moderna postcartesiana. La loro grande scoperta si chiama nel sistema di Kant unità sintetica originaria e il nostro spirito ne ha coscienza nell'appercezione trascendentale; in Rosmini è la dottrina del sentimento fondamentale. Scoperte che negavano per sempre la logica dell'identità ponendo la nuova esigenza della dialettica, della creazione. Da Kant doveva nascere Hegel, da Rosmini, Gioberti84.

Del criticismo tedesco non s'intese subito l'essenza, e si accettò invece la pretesa intellettualistica di sistemare la realtà in un mondo di idee oggettivamente concepite, pretesa che Kant aveva ereditata dal passato e che non gli aveva permesso, non ostante tutto il suo lavoro demolitivo, di superare il wolfismo. Contro queste degenerazioni di schematico intellettualismo, le quali si scordavano che proprio Kant aveva proclamata la verità dominio della ragion pratica, sorse il misticismo. In Germania Jacobi, in Italia Luigi Ornato. Il merito dell'Ornato è di essere decisamente all'avanguardia del movimento filosofico nazionale e di preparare la reazione antirosminiana (Gioberti e Bertini) ancor prima che sorgesse il Rosmini.

Negando i fantasmi della ragione astratta e le pretese del criticismo, Jacobi e Ornato hanno il merito di riaffermare il problema dell'assoluto come fondamentale problema filosofico, che non si risolve con l'astratta riflessione, ma soltanto con la concreta vitalità di tutto il pensiero, di tutto l'atto spirituale. Il loro torto sta nell'essersi limitati ad affermare la comunicazione tra l'assoluto e lo spirito umano come mera immediatezza che non può avere valore filosofico. E perciò Jacobi apre la via a Hegel, Ornato a Gioberti, perché si affermi sopra quella immediata conoscenza la mediatezza del pensiero. Per Hegel si giunge all'assoluto mediante la dialettica, per Gioberti mediante l'intuito, che afferrando il processo creativo e anche esso riflessione, medietà, triplicità.

Il misticismo di Jacobi e di Ornato è misticismo sentimentale come quello di Pascal, ardore del cuore come il pensiero di Rousseau, il quale tanta efficacia ebbe sui due filosofi. Nel loro sistema non ha posto la scienza, non ha posto il particolare. Si limitano ad affermare come ineffabile la comunicazione tra l'individuo e l'universale. Ma questa comunicazione ha pure la virtú di fare sacro lo spirito umano, di giustificare i valori della morale e della vita. Pertanto salva la libertà e afferma contro il meccanismo l'inesauribilità dello spirito. Cosí pensiamo che debba valutarsi questa posizione mistica postkantiana, della quale già mise in luce l'importanza Giorgio Hegel nei preliminari dell'Enciclopedia: poiché dire mistico è meno che niente se non si significa di qual misticismo si parli. E il misticismo ornatiano non è un ritorno nelle spiritualistiche nebbie medievali, non è il naturalismo platonico, o il dogmatismo del Malebranche; è una forma vigorosa di affermazione dell'universale che viene dopo Kant, non soltanto cronologicamente, ma che ne ha assimilate fortemente le esigenze: alla vigilia del Risorgimento, il suo sforzo centrale tende alla giustificazione dell'attività pratica.

Il pensiero dell'Ornato nacque indipendentemente da Jacobi. Si temprò attraverso Platone e specialmente attraverso Rousseau. Si differenzia ed è superiore a Jacobi per un carattere essenziale: per lo sforzo, che era poi un'esigenza lasciata dal pensatore tedesco, di non separare la filosofia dal resto dell'attività spirituale e farne anzi un centro onde organicamente tutto si avvivasse. Padrone di una cultura scientifica poderosa, non la lasciava dispersa nell'empirismo, ma allo studio della filosofia, come dice il Bertini, allievo suo85, «riferiva tutti gli altri come mezzi al fine». In questo concetto egli s'è lasciato addietro Jacobi, che nella sua affermazione della trascendenza negava la legittimità di ogni proposizione scientifica. Il pensiero della validità conoscitiva delle scienze, espresso in un con l'esigenza dell'unità di tutte le scienze nella filosofia, è germe fecondissimo per l'avvenire della speculazione.

E non è meno vigorosa la proposizione che la filosofia non consista in una «mera speculazione della mente», ma in una «pratica di tutta la vita» e s'identifichi con la «virtú». Questo concetto attinto all'antichità che l'aveva espresso, piú che con vera coscienza riflessa, col fervore di una passione etica (Socrate), è per la prima volta trapiantato nel mondo moderno e introduce nel misticismo sentimentale del Nostro una profonda efficacia di praxis politica.

In teoria egli accetta la logica della scuola scozzese per l'indagine del mondo esterno, da noi percepito immediatamente nella sua oggettività, ma pone al disopra di questa immediata percezione l'intelletto, facoltà dei concetti che cerca di organizzare queste idee sensibili senza però mai trovarne l'espressione ultima, perfetta e assoluta, perché il vero è infinito e come tale inconcepibile ed ineffabile. Vani sono dunque tutti gli sforzi del formulismo per esporre le scienze more geometrico e bisogna giungere ad una affermazione chiaramente teistica, di un Dio liberamente creante! «Persuaso dell'impotenza della logica, – dice ancora il Bertini, – movente da astratte generalità a dar fondamento alle verità soprasensibili, cioè a farle accettare all'intelletto col solo mezzo del meccanismo logico, e ritenendo tuttavia che la filosofia ha per oggetto queste verità, cioè le idee di Dio, della libertà e dell'immortalità dell'anima, egli dava loro un altro fondamento ammettendo nell'uomo la ragione, come cosa ben diversa dalla facoltà del raziocinio, e come immediata percezione del vero e del soprasensibile, cioè di Dio, come ente vivente, libero, intelligente, morale e provvido e dell'anima come principio sostanziale libero, immortale, capace e degno di eterna felicità per via della virtú». E, come il Jacobi, anche l'Ornato non vedeva via di mezzo tra questo teismo e il nullismo.

Sarebbe interessante ed è argomento che riserviamo per altro studio86, esaminare nei frammenti che ci restano dell'Ornato quali forme sia andato assumendo nel suo svolgimento interno questo teismo, che mentre ha la stessa formidabile logica di Jacobi nella negazione di ogni visione spinozistica della natura, presenta una varietà assai piú ampia di elementi. Ma l'idea essenziale della quale a noi si richiede la dimostrazione, perché sta contro l'opinione dei pochi che scrissero dell'Ornato, è l'affermata autonomia e originalità della formazione del suo misticismo.

Testimonianza fondamentale sono, per la prima cosa, le parole di G. M. Bertini: «Fin dal principio delle sue meditazioni gli si era affacciata alla mente l'idea fondamentale della sua filosofia che gli si venne poi rendendo piú chiara, piú precisa e piú certa colla lettura dei filosofi e massimamente di Platone, di Vico, di Malebranche e di Federico Jacobi».

Della testimonianza del Bertini fanno immediatamente fede le lettere rimaste dell'Ornato agli amici degli anni precedenti l'esilio a Parigi: ci sono le premesse spirituali e il primo svolgimento di un'esperienza mistica.

Un bisogno indomabile di azione non mai soddisfatto, il sentimento ognora presente della mancanza di libertà personale staccano a poco a poco l'animo dalla pratica per volgerlo alla contemplazione. Sensibile ad ogni sventura nella finezza del sentimento suo, gli pare di essere straniero tra i suoi concittadini. E smarrisce la visione della realtà e, negando la cultura del suo tempo, ripensa al passato con accenti dolorosi: «Io mi vo' rammaricando entro me stesso e dolendomi della malignità della fortuna la quale ha pur voluto ch'io nascessi al mondo due mila anni troppo tardi, per lo meno».

Sparisce dall'animo suo il desiderio della gloria e viene meno ogni speranza e ogni timore. Disperato, si volge all'amicizia: la coltiva misticamente con un ardore che pare d'amante. Uno stesso amore nutre per i poeti. Processo psicologico attraverso cui evidentemente un'anima di elevato sentire e di indomite passioni deve giungere all'affermazione di un trascendente. Eliminazione di tutti i sentimenti che possono disperdere la facoltà immaginativa; annientamento di ciò che sta alla superficie; un solo pensiero va prevalendo sugli altri, gigante: un pensiero che non è della realtà, ma deve avere tanta forza da superarla tutta per trasportarti in un mondo tuo; e quel mondo, che era l'ideale, fattosi concreto, sta ora in intima comunicazione con il tuo spirito e tu in esso ti disperdi in piena adorazione.

Attraverso questo movimento fantastico si genera il misticismo di Luigi Ornato. Filosofare e fantasticare ancora non si distinguono. Il cuore dà l'emozionalità sua a questo mondo, ma non ancora l'organizza. Assistiamo allo strazio di un'anima, non a un processo di riflessione. «Nessun maggior dolore che l'aver sortito un'anima cui l'operare è un bisogno, e che per necessità non fa nulla».

Si vogliono guardare le cose dall'alto per scordare le delusioni: Rousseau è il signore e l'ispiratore di questo mondo, e Ornato non lo può leggere senza lagrime.

Ora, non appena penetri in questo mondo, con la maturità del ripensamento, un senso di repugnanza alla troppa frammentarietà, non appena si senta il bisogno del metodo, dello studio ordinato, i fremiti passati diventano potenza di concretezza.

L'ardore di azione si teorizza come libera volontà. Il senso panico dell'infinito diventa contemplazione sicura di Dio, da cui si attinge la serenità. La filosofia primordiale del buon senso, dell'istinto, si matura in concezione purissima della morale, come morale innata, che si palesa direttamente nella convivenza con Dio87.

Questa elaborazione filosofica dei primi ingenui palpiti della gioventú reca nelle sue lettere la data del 1818. Il suo autore era Platone.

Ora noi possiamo affermare con perfetta sicurezza che l'Ornato non lesse le opere di Jacobi prima del 1821, primo anno dell'esilio a Parigi. Del resto l'autonomia e la nazionalità del suo pensiero è provato ancora dall'ammirazione che nutrí per il Vico. Al Vico egli, per primo in Piemonte, s'ispirò con serietà e profondità veramente filosofica; non si tratta di mera ammirazione, è reale e deliberato proposito di congiungersi alla sua speculazione. Nel qual proposito non v'è chi non veda di quanto l'Ornato sovrastasse al pensiero dei contemporanei anche se il Vico amato da lui era specialmente il filosofo del De antiquissima Italorum sapientia, impigliato ancora nella vecchia metafisica teistica, affatto inadeguata alle piú lucide intuizioni della Scienza nuova.

Un'idea adeguata dell'importanza di Luigi Ornato ci si può formare soltanto studiando l'influenza sua sugli ambienti intellettuali di Parigi (dal 1821 al 1834) e di Torino (dal 1832 al 1842); l'opera sua scientifica fu molto esigua e non apparve mai alle stampe (ove si eccettui la magistrale traduzione di Marco Aurelio finita e pubblicata postuma da G. Picchioni): dei romantici egli ebbe anche l'infecondità.

A Parigi si valsero dei consigli suoi per la vita e per gli studi il principe della Cisterna, Moffa di Lisio, l'Ugoni, lo Scalvini (anima sorella all'Ornato), il Cousin, che della conoscenza perfetta della lingua greca del Nostro, dovette certo trar partito per la traduzione platonica.

A Torino furono intorno a lui i giovani piú vivi e più appassionati, ed egli severamente e amorosamente li seppe avviare ai profondi studi filosofici, introducendo nella grettezza regionale del pensiero piemontese il soffio di una cultura europea. L'Ornato fu tra i primi italiani che abbiano letto Kant e Jacobi nell'originale tedesco.

Lo studio minuto di queste relazioni intellettuali esula dal campo del presente saggio e va riportato essenzialmente a suo luogo nell'esame delle mentalità che alla sua influenza si formarono. Altra volta si dimostrerà come Gioberti si sia fatta per i suoi consigli una cultura filosofica e da lui sia stato confortato a seguire una via che conduceva nettamente a superare il rosminianismo; come il Bertini sia stato il vero erede del pensiero suo laico e ne abbia svolto da lui l'idea piú originale della speculazione italiana nei rapporti tra Chiesa e Stato; come Berti, Sauli, Cibrario ne venissero incoraggiati agli studi.

La scuola dell'Ornato era avviamento alla società ed esercizio di pratica elaborazione. Alla luce dei suoi concetti filosofici si rischiaravano e prendevano un valore ideale i piccoli problemi agitati dalle menti buone e semplici di quei giovani piemontesi educati all'antica.

Cosí il pensiero dell'Ornato, prima del tramonto, riusciva ad inserirsi nello sviluppo spirituale italiano e a promuovere direttamente il programma del rinnovamento nazionale. L'opera fallita nel '21 si riprendeva proprio durante il governo dei Gesuiti. La sua politica, continuazione ideale del Santarosa, conduce a Lorenzo Valerio e alla Sinistra piemontese.

Il suo vessillo è la democrazia moderata, senza degenerazioni libertarie. C'è nella concezione politica dell'Ornato la saggezza del Balbo, spoglia dei pregiudizi cattolici; la visione storica di Mazzini, temprata alle dottrine costituzionali di Francia, sotto l'influenza di Montesquieu; un liberalismo cosciente che, per l'esperienza d'oltre Alpi, rifiuta decisamente ogni principio grettamente edonistico.

Il suo concetto cristiano antidogmatico, laico, non venne inteso. Ma le altre sue idee furono il vero patrimonio spirituale che restò nelle anime piemontesi dopo il '48.

Torino, dicembre 1920.

LA SCUOLA IN PIEMONTE PRIMA DEL 184488

1. Giovanni Maria Bertini nella introduzione alla sua Relazione sull'istruzione secondaria89 nota, in poche pagine di sintesi storica, il significato della scuola nel trascorrere delle varie civiltà, dalla greca alla moderna. E rintraccia per tutti i tempi i documenti dell'esistenza di una scuola primaria, secondaria e superiore. La critica moderna pensa invece che queste tre istituzioni nel loro significato sostanziale e per la funzione a cui s'adeguano rappresentino tre momenti della storia europea, e corrispondano a tre diverse esigenze.

L'università è creazione specifica della civiltà medievale, giunta dopo il travaglio dell'Alto Medioevo ad esprimere finalmente la sua logica cattolica; la scuola secondaria col suo ideale classico è nata dall'umanesimo; la primaria e la popolare sono creazione della rivoluzione francese; non del primo impeto rivoluzionario disordinatamente empiristico e utilitario (Enciclopedia), ma della maturazione napoleonica, che fu l'effettivo inveramento del processo rivoluzionario90.

E con questo non si dice che non vi sia stata scuola popolare prima della rivoluzione francese, né scuola secondaria prima dell'umanesimo, ma si vuole affermare invece che tutto l'insegnamento medievale aveva come centrale obbiettivo gli studi giuridici e teologici dell'università, vera misura della civiltà del tempo, laddove dal trivio e dal quadrivio non nacque un'organica cultura; che l'umanesimo volle una scuola formativa, umana, letteraria e a questo ideale subordinò (non sacrificò) la specializzazione scientifica; e finalmente che l'Ottocento mirò ad ordinare e consolidare quel momento pedagogico in cui avviene la preparazione e la scelta degli individui che si vogliono indirizzare ad una cultura umana e ad una scientifica specializzazione.

Ma il Piemonte rimase quasi estraneo a questa storia della scuola. Ragioni politiche evidenti che Cesare Balbo spiegò e ribadí nella sua lettera: Del naturale dei Piemontesi, scritta nel 183291, ne dovevano fare un centro militare, non un centro di studi.

2. L'università torinese, fondata soltanto nel 1405 dal principe Ludovico di Acaia, approvata il 27 novembre 1405 dall'antipapa Benedetto XIII, poi nel 1412 dall'imperatore Sigismondo, ebbe vita assai incerta, poverissima di reale attività scientifica, priva addirittura di stabile sede, poiché fu trasportata in periodi successivi a Chieri, a Savigliano, a Mondoví.

Frammentarietà e incertezze che attestano un interesse piuttosto superficiale e inerte. L'università incomincia a vivere di vita attiva con Vittorio Amedeo II che, nel 1729, instaurò le nuove Costituzioni degli studi92. Queste segnano veramente il principio della legislazione scolastica piemontese, sono atto cosciente e posizione esplicita di autorità, esercitata dal governo. Il problema scolastico diventa problema di Stato, le scuole sono sottratte ai Gesuiti; si crea un magistrato della riforma a cui è affidato il reggimento dell'università e, benché si professi il piú devoto ossequio ai principî della Chiesa, si pone l'esigenza di un insegnamento pubblico laico per i laici. Energia e fermezza di principî assai piú che vigore e serietà concreta di studi. Altri miglioramenti si tentarono con le Costituzioni del 1772, ma in realtà una università degna di questo nome si ebbe soltanto dopo gli anni 1847-48. E allora l'università aveva assunto altro significato e rappresentava altre precise esigenze.

La scuola secondaria, ordinata dalle disposizioni del 1772 secondo un meccanico programma, s'era ridotta a scuola preparatoria per gli studi superiori; piú che uno spirito di umanistica latinità vi dominava l'influenza ecclesiastica, aliena da ogni libera cultura letteraria.

E non esisteva affatto la scuola primaria, poiché le Costituzioni del 1772 tenevano appena conto della necessità di istituire scuole per i bambini come avviamento al corso di latinità, al quale pareva che si dovesse richiedere la capacità di scrivere e di leggere in lingua italiana.

Lo spirito che governava tali istituzioni era dunque medievale; popolo e laicità, per chi prescinda dall'effimero atteggiamento di Vittorio Amedeo II, apparivano nomi vuoti; e non era sentito il bisogno di una scuola autonoma per la formazione d'una autonoma classe dirigente. A fornire un'educazione di convenzionalità a una classe militare è giusto che fosse ritenuto sufficiente lo spirito burocratico ereditato dai Gesuiti.

3. Nell'inedia del buon mondo ufficiale piemontese, fuggito con aspra ira da Alfieri e da Baretti, dominio incontrastato del Galateo di monsignor Della Casa, s'immagini ora penetrato lo spirito rivoluzionario dei francesi invasori con le idee pedagogiche dei Diderot e dei Condorcet.

Si manifestò subito un rinnovamento, ma piú nell'intemperanza delle forme che nella saldezza dello spirito animatore. Si crearono scuole primarie e secondarie, ma accanto alle nuove materie – diritti e doveri dell'uomo e del cittadino, elementi di storia delle Repubbliche antiche e moderne93 – rimase la vecchia precettistica e stilistica, e insieme rimasero nell'uso i vecchi nomi: grammatica, umanità retorica.

I rinnovatori piú indiavolati furono i tre membri creati dalla Commissione esecutiva a sostituire il magistrato della riforma, abolito nel 1799 dal governo provvisorio: Brayda, Carlo Botta, Giraud. Nel libro94 dei tre funzionari, che raccoglie l'opera di legislazione scolastica del governo di Jourdan, si giunge con deplorevole leggerezza a esaltare la lingua francese come lingua della verità e a raccomandarne lo studio come di quella che doveva un giorno diventare la lingua materna dei piemontesi. Ma attraverso queste intemperanze si veniva affermando, inconcusso, un concetto sano e fecondo: l'esigenza di una scuola popolare, di un insegnamento elementare libero a tutti.

Ed è curioso notare che anche durante la breve restaurazione monarchica del 1799 prevalse nel pensiero del governo del re il principio che si dovessero stabilire scuole elementari obbligatorie in ogni Comune95. Pare un'ironia a chi ripensi l'ostilità mostrata dopo il 1815 dai governi reazionari verso tutte le forme di educazione del popolo.

Giova ad ogni modo insistere nell'idea che questo tumultuoso rinnovamento venuto di Francia non riuscí ad organizzare i nostri studi e nel 1815 si trovò a non aver instaurato alcun stabile progresso ma creato appena oscuri sentimenti e incerte aspirazioni in pochi spiriti solitari.

4. Accanto alle speranze e agli entusiasmi l'invasione francese aveva fatto nascere nelle menti piú solide e pensose un bisogno di approfondimento e di autonoma cultura: mentre Carlo Botta levava il suo inno alla lingua della verità portata dai conquistatori, Ornato, Provana e i fratelli Balbo fondavano un centro di studi, pensato con fervore alfieriano e messo in atto con spirito veramente troppo arcadico, che doveva avere la sua vitale fiamma organizzatrice nel culto per la lingua italiana, ritemprata nello spirito delle lingue classiche96.

Dal 1814 al 1821, mentre Vittorio Emanuele I richiamava in vigore le istituzioni prerivoluzionarie, e la scuola era lasciata nel piú penoso abbandono, si maturava nella nascosta intimità di pochi giovani l'esperienza morale e culturale che condusse alla rivoluzione del '21. Nell'epistolario tra l'Ornato, il Santarosa e il Provana è la vera storia della cultura piemontese del tempo. Mancano i documenti scolastici ufficiali e nasce l'autodidattismo.

Delle condizioni dell'insegnamento ufficiale è rimasta la relazione di Domenico Ferrero, riformatore di Carmagnola, penosamente preoccupato delle miserande condizioni finanziarie in cui l'amministrazione centrale lasciava gli insegnanti97.

La rivoluzione del '21 costrinse il reazionario governo sabaudo a studiare il problema senza reticenze e senza temporeggiamenti98.

E il regolamento del 23 luglio 1822 impose infatti a carico dei Comuni l'obbligo di stabilire scuole elementari gratuite «per istruire i fanciulli nella lettura, scrittura, dottrina cristiana, e negli elementi di lingua italiana e aritmetica», e stabilí che non si potessero conservare le scuole di latinità nelle città dove non venissero istituite due scuole elementari.

«Se queste commendevolissime disposizioni fossero state messe in pratica, – dice il Berti, – avrebbero potuto iniziare presso di noi l'insegnamento popolare e preparare nel futuro i mezzi di perfezionarlo. Ma richiedevasi a tale intento: 1° una sanzione per quei Comuni che non avrebbero tenuto per obbligatorio il decreto del Governo; 2° che fosse venuto in soccorso, mercè i denari del pubblico erario, a quelli che mancavano dei mezzi opportuni; 3° che avesse pensato a formare abili maestri istituendo scuole pratiche di pedagogia; 4° che avesse provveduto con legge al loro stipendio ed alla loro promozione e giubilazione»99.

Osservazioni assennate che supponevano esistessero nel pensiero dei governanti criteri direttivi di politica scolastica. In realtà, le leggi erano presentate per la costrizione ineluttabile dei tempi e per evitare lo scoppio del movimento rivoluzionario. Della scuola popolare, una volta preparato il palliativo, nessuno si dava pensiero. È notissimo, e pieno di amaro significato, il caso del Troya, destituito nel 1828, perché l'ispettore aveva trovato che si leggevano nella sua scuola poesie e prose classiche che contenevano le parole «Italia» e «libertà».

Né introdussero diverso regime le disposizioni dei regi biglietti del 10 luglio 1827 e 7 agosto 1832, rielaborati poi tutti nella Raccolta dei sovrani provvedimenti del magistrato della riforma (18 ottobre 1834).

5. Del resto, ogni rinnovamento che fosse stato istituito per reale decreto sarebbe rimasto vano nello sviluppo dello spirito nazionale. Bisognava che i movimenti sentimentali, oscuramente incoraggiati nelle masse dalla rivoluzione francese, si svolgessero fino a determinare condizioni di vita ideale nuova.

Uno dei primi sintomi di questa vita nuova s'avverte nelle «Letture Popolari»100 fondate nel 1837 da Lorenzo Valerio con un modesto programma di rinnovamento morale e con l'intento di offrire umili letture utili per le classi meno agiate e meno dotte. Il problema scolastico vi fu trattato da A. Ambrosoli, G. Garzino, B. Milesi Mojon, G. Adorni, G. O. Ferrua, ecc., senza organicità e senza direttive comuni, con piú ardore che chiarezza. E, del resto, tutti i problemi venivano considerati con semplicismo e ingenuità, mancando i collaboratori competenti e i mezzi materiali per un più ampio e serio lavoro. Era però il trionfo del buon senso ed era già un risultato. Nel giornale di Lorenzo Valerio si trova in embrione il giornalismo piemontese del '48: è il primo tentativo in cui si veda un valore di formazione concreto. Ne ebbe coscienza il governo di Torino.

In un numero del marzo 1841, Giambattista Michelini vi pubblicò un articolo intitolato: Di alcuni mezzi di diffondere l'istruzione. Il Michelini vi affrontava il problema nel suo significato politico integrale, mostrando una solidità di pensiero non comune:

Nessun dubbio che una torbida crisi è presente. I tempi nuovi stanno per determinare grande accrescimento del potere popolare e immensa estensione della popolare influenza. E se anche la crisi non dovesse avvertirsi per un pezzo in Piemonte, «sia per la moderata indole del popolo, sia per la gran prevalenza numerica della popolazione agricola sulla manifatturiera», bisognerebbe tuttavia approfittare di questo tempo per la preparazione, per non lasciar perdere vanamente le sanguinose esperienze che toccarono ad altre nazioni. Il problema centrale consiste nella necessità di combattere la centralizzazione. Ma «dove i lumi non sono universalmente diffusi, la centralizzazione è un male necessario». Bisogna dunque alle forze fisiche del popolo aggiungere le forze morali perché il pericolo non sta nella ragione, ma nelle passioni degli uomini, e «quanto piú essi sono illuminati, tanto meno si lasciano dominare dalle passioni». L'istruzione, dunque, favorendo il gusto della lettura e insieme l'abitudine della riflessione, favorisce lo spirito d'ordine. Del resto oggi tutti gli ostacoli che si vorrebbero porre all'istruzione sarebbero vani: il dilemma non è piú tra istruzione e ignoranza, ma tra una istruzione cercata, aiutata e controllata ufficialmente e un'istruzione cercata, tumultuosamente ed erroneamente, dal popolo stesso. «Promuovasi adunque, – conclude il Michelini, – la popolare istruzione dirigendola nel miglior modo che si può affinché non partorisca che buoni effetti, ed appunto i temuti pericoli dimostrano evidentemente che i Governi ed i buoni tutti debbono favorirla per imprimerle un'utile direzione e prevenirne gli abusi che potrebbero nascere, lasciandola in sua balia, il che in alcuni paesi abbiamo visto essere accaduto»101.

Era la prima volta che il problema veniva posto esplicitamente e veniva posto – si noti – da un conservatore in termini di realismo politico, appena un pochino razionalisticamente circonfusi di un'aura illuministica. Il governo rispose sopprimendo il giornale.

L'episodio rappresenta per noi l'ultima vittoria rumorosa del gesuitismo. Gli spiriti sono mutati. Giambattista Michelini, a torto dimenticato, è bene un uomo nuovo. Riassumendo il suo pensiero, noi abbiamo sentito in lui un vigore civile insolito che ci ha fatti indugiare a considerare con amore la sua intima importanza.

6. Con G. Michelini si può giustamente far cominciare un momento nuovo (il momento risolutivo, attivo, fecondo) della storia della scuola.

V. Troya, dodici anni prima destituito perché reo di patriottismo, è ora alla testa del movimento pedagogico; per opera di Boncompagni, di Cavour e di altri valentuomini, si fonda a Torino (1839) la Società per le Scuole Infantili; Lorenzo Valerio fa risorgere, dopo un anno appena, il giornale soppresso, col nuovo titolo «Letture di Famiglia», e vi raccoglie il pensiero del Lambruschini, del Boncompagni, dell'Aporti.

Intorno alle «Letture di Famiglia» sorge il movimento per le scuole di Metodo. Questo è il fatto nuovo, moderno: è un movimento che s'impone dalle province e dalle iniziative autonome; non consiste piú in una disposizione legislativa astratta e meccanica. È il capovolgimento delle consuetudini e delle tradizioni; prima, la scuola popolare era considerata come mero avviamento alla scuola secondaria, era la scuola preparatoria alla formazione di una aristocrazia vivente di convenzionalità e di esteriorità; ora, la realtà si fa dal basso, il nuovo centro è il popolo, il nuovo mondo è la libertà e l'autonomia dell'individuo. Il processo è invertito. La scuola secondaria diventa strumento di educazione popolare. Invece che alla materia, tutta l'attenzione è alla nuova forma: bisogna insegnare il metodo. Il vitale centro dell'organismo scolastico è ancora la scuola secondaria, ma, per la prima volta, essa ha la sua realtà e le sue leggi nelle condizioni sociali e nel progresso della scuola primaria. S'è compreso che soltanto per questa via è possibile liquidare il feudalismo: la nuova classe dirigente deve essere un'aristocrazia, ma un'aristocrazia di popolo; questa formula dà la misura del nuovo significato che avranno ormai la scuola elementare, la scuola classica, la scuola normale e l'università.

CATTANEO102

La cultura italiana dopo il '70 fu cieca e inesorabile contro gli avversari del mito unitario. Condannò all'oblio Ferrari, lasciò nell'oscurità l'Oriani, critico del Risorgimento tutt'altro che acerbo e, non che antiunitario, quasi padre del nazionalismo. Si accontentò del cavourismo che sembrava restasse negli impotenti eredi dello statista piemontese, e vi aggiunse un po' di giobertismo anfibio e un po' di mazzinianismo, che di Mazzini conservava soltanto la retorica.

È naturale che i vincitori siano aspri e feroci quando la loro apparente vittoria dà di fatto ragione agli avversari. Il Risorgimento italiano segnò il trionfo dei partiti moderati e questi dovevano tollerare a stento che si ricordassero anche i soli nomi degli uomini che durante cinquant'anni avevano rappresentato la critica interna del processo storico. La nuova classe dirigente, che succedeva alla raffinata e abilissima burocrazia piemontese, rappresentava i ceti medi e la piccola borghesia intellettualoide del Sud, incapace di sentire e di esprimere da sé un vero e proprio governo di tecnici. Storicamente ed economicamente immatura era l'antitesi delle avanguardie della produzione lombarde e piemontesi in nome delle quali aveva parlato Cattaneo.

Né seppero proseguire il Cattaneo i partiti d'opposizione, infermi d'una stessa malattia, retori e magniloquenti: basti dire che di lui, dopo il suo discepolo garibaldino Alberto Mario, il solo che scrisse di proposito fu Enrico Zanoni, moderatissimo uomo, che pose ogni sua sapienza nel difenderlo dal nome di regionalista e di liberista, cercando di provare esser queste momentanee intemperanze! Il Salvemini invece ha ripreso la parte viva del pensiero storico e politico del Cattaneo e si può dire che a lui si sia ispirato nell'opera sua di direttore dell'«Unità».

Poiché il Cattaneo avversò non l'unità ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale, caratteristica. Il suo regionalismo era anzitutto un problema di stile politico e di modestia e non si può intendere se non lo si mette in relazione con la sua filosofia, con la sua speculazione che, al disopra di ogni critica e di ogni disconoscimento, resta originalissima.

Si è voluto limitare e demolire il pensiero di Carlo Cattaneo con un riferimento bibliografico di fonti: Romagnosi. Si è derisa la sua dottrina indicandone i seguaci nei positivisti.

Tuttavia, non volendo assumere atteggiamenti di vendicatore in ritardo, basterebbe indicare una successione di date per confondere i frettolosi esegeti. Sono del 1836 e del 1844 le considerazioni antirosminiane di Cattaneo; risale al 1839 il suo saggio sul Vico, dove l'idea della psicologia delle menti associate è integralmente espressa, anche se sarà poi ripresa e rielaborata nel '52, nel '57 e negli anni seguenti. Invece il Cours de philosophie positive del Comte, cominciato nel 1830, veniva solo terminato nel 1842; la Politique positive è del 1851-54: se Cattaneo si deve studiare come positivista, il suo pensiero non viene dietro a Comte, ma lo precede; il suo posto non è quello di un divulgatore, ma di un antesignano; il suo posto è nella storia europea a ben maggior diritto che non si possa pensare di Rosmini, il quale tuttavia si affatica intorno ai problemi risolti da Kant e dalla filosofia romantica tedesca. I suoi conti con Romagnosi non sono stati fatti ancora; ma forse si dovrebbero fare piuttosto con Locke e con Vico e con Bacone: Romagnosi sarebbe appena, nella enciclopedica opera di divulgazione, un intermediario.

La sua psicologia delle menti associate fu da alcuno, che ne aveva guardato appena il titolo, definita una confusione di psicologia individuale e di psicologia sociale, comodo semplicismo per non distinguere il vichiano spirito del Cattaneo da Comte. Si accusò il suo realismo di ripetere posizioni sensistiche; il suo storicismo di voler dedurre l'uomo dalle manifestazioni piú attenuate della spiritualità. Questa volta l'accusatore era il Gentile: si direbbe ch'egli si proponesse di negare l'evidenza.

Chi cerchi in Cattaneo una gnoseologia precisa e sistematica terminerà la sua ricerca senza averla ritrovata: ma l'insuccesso, nonché far prova contro il Cattaneo, attesta in questo caso la poca finezza dell'indagatore, che ha confuso il problema di Rosmini col problema del Nostro. Chi cercasse in Hegel il criticista troverebbe il suo scorno nell'invito di buttarsi a nuoto invece di indugiarsi in contemplazioni iniziali. Cattaneo non ha una gnoseologia introduttiva perché ha la sua filosofia della storia; al criticismo rosminiano deve opporre una posizione costruttiva anche a costo di presentarla in forme quasi ingenue; ma sono evitate le ingenuità della vigile esperienza. Se si pensa al Gioberti, contemporaneo del Cattaneo, e assorto in ipocriti teologismi e in inesauribili premesse d'azione, non si può non guardare con franca simpatia al Nostro che, dopo essersi assimilato il criticismo coll'esperienza scientifica, risolse il problema dell'azione operando, e quello della storia facendosi storico, cosí come Hegel coll'atto stesso di filosofare dichiarava di risolvere il problema della filosofia.

Se la storia è imprevedibile non la si può metafisicamente dedurre dal vero primo: in essa sola deve trovarsi il criterio della certezza, anzi la certezza stessa. Nello studio dell'uomo interiore e dell'istoria dell'intelletto si appaga il realismo di Cattaneo. Se anche talvolta pare invocare il dominio del «senso comune» o il «testimonio potente dei sensi», egli ha pur sempre definita «filosofia scienza del pensiero», ma, contro la arbitraria esegesi del Gentile, crede che il pensiero sia da studiarsi nelle menti mature e forti e però nelle storie, nelle lingue, nelle religioni, nelle arti, nelle scienze in cui le forti e mature menti si mostrano e non «nelli informi cenni d'intelligenza, che appena spuntano nei feti e nei bamboli».

A dir le cose con pratica chiarezza, poi che il problema pareva soprattutto di persone e di psicologia, «intendiamo che il filosofo non possa accingersi al suo ministerio se non con ampia preparazione di molto vario sapere».

Si sente il bisogno alla vigilia della rivoluzione di liquidare gli ultimi resti di cartesianesimo: Cattaneo è all'avanguardia della moderna filosofia dell'attività, ansioso ormai di fondare la nuova visione unitaria del mondo. L'identità di storia e di filosofia è poco piú che una convinzione di esperienza; ma la filosofia si riduce concretamente per lui ad una visione metodologica. La speculazione di Cattaneo ricerca piuttosto impreviste esperienze che illusioni di leggi: è spoglia di tecnicismi filosofici, preannuncia orizzonti nuovi.

Ciò che gli viene rimproverato pare a noi la sua genialità vera. Del resto, se la filosofia è storia, perché la filosofia? È la domanda con cui gli immanentisti hanno liquidato la trascendenza: se il mondo è Dio, perché Dio? Perché il sistema una volta che crediamo solo piú al problema? Se la filosofia s'identifica con la storia, non c'è piú filosofia fuor dello svolgimento e della risoluzione dei problemi dell'esperienza attuale. Solo questa osservazione dà ragione delle varietà dei sistemi filosofici attraverso i tempi; ed, escludendo la dogmaticità metafisica, riduce il sistema al suo valore d'esperienza. Sostenere questa posizione senza ricadere nello scetticismo o in una nuova metafisica della identità: ecco, a parer nostro, il problema che la nuova speculazione si deve affacciare. Il merito di Cattaneo non consiste nell'aver risolto il problema, ma nel non averne compromessa la soluzione con la ripresa del vecchio sonno dogmatico. Per questo la sua personalità cela elementi imprevisti, pur nella classica compostezza, e dove altri vorrebbe scorgere una esperienza raccolta e individuale, si scorgono elementi di cosmicità e di solenne conclusione. Di Locke accettò la polemica contro l'innatismo (altro che fermarsi a una posizione dogmatica!), e piú scaltro di Vico, pur avendo la stessa fiducia di lui nello spirito, non pretese di chiudere l'esperienza, seppe lasciare aperto il dramma tra la natura ed il passato e lo spirito che li indaga. L'istintiva prudenza dello storico lo rendeva guardingo verso le piú candide illusioni giusnaturalistiche: alle tenere semplicità del Romagnosi opponeva la superiore consolazione del suo riflesso realismo. Oh, inesauribile ingenuità di chi volle ricordare per il Cattaneo le comtiane categorie sociologiche. Certi errori di psicologia sono più compromettenti delle angustie concettuali. Chi confonderebbe l'austerità del Cattaneo con il goffo ottimismo di Comte? E la vigile storicità del milanese, agile dialettica diplomatica, col pesante umanitarismo parigino?

La fisionomia speculativa del Nostro è tutta un'intenzione: né dal sensismo né dal razionalismo si può dedurre la storia; per la drammaticità della storia egli rinuncia agli schemi piú semplici come ai piú complicati. Non dovete dimenticare che l'ambiente storico di Cattaneo si colloca in pieno tramonto del razionalismo, mentre si è esaurita la polemica ideale tra classici e romantici; non per un caso egli resta estraneo al neoguelfismo, ultimo tentativo di una esasperazione romantica. Anche chi voglia riconoscere validi i quadri storici di B. Spaventa, non può non avvertire in Cattaneo uno sforzo nuovo di liberazione; l'originalità speculativa italiana, dopo tutte le brevi parentesi di misticismo, s'è sempre affermata in un riconoscimento dei piú gelosi valori della personalità. Dove l'ampiezza delle sue aspirazioni potrebbe sembrare enciclopedica, la solidità classica del suo gusto fa ch'egli riduca il sapere in una realtà di potenza. Fa prova della sua finezza l'atteggiamento di antiromantico libero da ogni peccato di sensismo; del suo rigorismo morale l'opposizione più inesorabile verso i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche. Se la forza dinamica del suo pensiero è stata nei primi cinquant'anni del secolo scorso meno esuberante di quella del Mazzini, il suo spirito è meno viziato e meno vaporoso, la sua figura è per gli italiani non letteraloidi piú ricca d'insegnamenti, la sua politica può essere ancor oggi un programma.

Guardò al passato conscio del tramonto compiutosi; senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capí che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. Gli italiani erano usi a parlare della libertà come di cosa da dimostrazioni: Cattaneo offrí l'esempio di un pensiero che si identificava tutto con la libertà e l'autonomia, e ne raccoglieva organicamente le esigenze senza farne risquillare ad ogni istante con ingenua retorica la parola. Eppure per certi spiriti non giova che il tamburo. La libertà di Cattaneo si esprimeva come realismo in etica, come produzione e iniziativa in economia, come creatività liberale in politica, come valorizzazione della esperienza in filosofia, come culto classico dei valori formali e della tradizione liberatrice in arte. Antiromantico, non rinunciò, come non aveva rinunciato Leopardi, ai motivi originali di cultura che i romantici recavano con sé.

Per queste caratteristiche di misura, che sono il segreto della sua vitalità, gli toccaron in sorte i compiti piú ardui e piú ingrati, che a lui poi servirono di disciplina e di temperamento. Solo un filosofo poteva pensare, quando egli lo pensò, il «Politecnico». Ma neanche i filosofi poterono intendere quella sua indipendente disinvoltura e dignità, che con tanta freschezza liberava il cammino da ogni ingombro di schemi.

E lo condannarono alla solitudine e alla impopolarità e diedero, a lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto.

IL PENSIERO E L'OPERA DI
GIOVAN MARIA BERTINI103

1. Nei primi anni del secolo XIX e negli ultimi del XVIII il Piemonte «ebbe cosí gagliardo impulso intellettuale dalle svariate vicende politiche cui andò soggetto che la parte piú eletta della nazione non tardò a rendersi persuasa che la monarchia assoluta né piú rispondeva alla cultura dei tempi né piú era atta a tutelare i molti e complessi interessi della società moderna»104. Questa convinzione in tutta Italia coincise con la dominazione francese. Ma la cultura italiana di quel tempo non si accontentò dell'espressione data dal pensiero francese a quest'idea di libertà. La tradizione italiana era cattolica: volendo approfondire le esigenze del tempo si doveva approfondire il cattolicismo escludendo sensismo e razionalismo enciclopedista perché privi di ogni motivo religioso. La reazione del 1815 fu cattolica per opportunismo di politicanti: nessun bisogno religioso era alimentato nelle Corti d'Europa. Ma nel risorgere universale della religione, la politica dell'assolutismo si affermò cattolica per separare il cattolicismo dalla libertà. Bisognava illudere le plebi. La Santa Alleanza voleva tornare alle condizioni sociali che avevano preceduto la rivoluzione francese; il nuovo romanticismo cattolico invece pensava a creare una vita che fosse adeguata ai nuovi bisogni: non abbandonava la vecchia metafisica, ma la voleva integrata nella presente realtà, creazione genuina della rivoluzione francese. C'era nell'intento una felice contraddizione e ne doveva sorgere non la vecchia metafisica integrata con nuovi elementi, ma una nuova metafisica. Siffatte necessità si chiarirono piú tardi: nel principio del secolo la filosofia si annunciava come ontologia e tale apparve tutto il movimento rosminiano.

L'idea di libertà, spirituale e politica, si veniva preannunciando nella società piemontese. Qui il dissidio tra i governanti e la nuova classe colta scoppiò con speciale violenza, come polemica di pensiero e come lotta pratica nel '21.

I nuovi studiosi tornavano alla storia e la storia insegnava loro la libertà. È interessante studiare l'amicizia che legò in quegli albori di rinnovamento Luigi Ornato, Santorre Santarosa, Luigi Provana e Cesare Balbo105. L'ingenua spontaneità di questo movimento di precursori si svela nelle loro lettere, nelle loro confessioni: tutti i motivi che contribuirono piú tardi alla formazione dei sistemi filosofici del Rosmini e del Gioberti e, in sede politica, del neoguelfismo e del cattolicismo liberale, appaiono qui nella loro immediatezza, quasi a provarci l'autenticità dei motivi religiosi espressi in quest'alba di rinnovamento, e la loro assoluta indipendenza dalla reazione della Santa Alleanza.

Ma tra i quattro amici vi sono differenze profonde che non tardano ad assumere significato di polemica addirittura violenta, come nel 1821, tra il Balbo e il Santarosa. Non è disagevole darne la caratteristica. Il Balbo aveva un senso della realtà per quei tempi non comune, aveva una cultura politica, educazione e abilità diplomatica; era il meno romantico, il meno illuso, il meno poeta; sbocciava nell'ambiente letterario che li aveva visti nascere tutti e quattro come un anacronismo. In verità anche al realismo moderato del Balbo sfuggivano molti elementi realistici: egli rimase l'uomo del neoguelfismo, che del nostro Risorgimento é una pagina sola; dopo il '48 gli sfuggí irrimediabilmente la situazione che conteneva ormai elementi ideali superiori al neoguelfismo. Ma in confronto degli altri il suo senno pratico equilibrato dovette sembrare arido e gretto proprio per la sua superiorità106.

Luigi Ornato107 e Santorre Santarosa108 erano per necessità lontani dall'azione pratica. Agitava la loro crisi il dissidio tra l'azione e contemplazione e faceva inerti i loro sogni: una gran fiamma interna li consumava. Agli occhi nostri valgono per questo: ma la politica loro fallí perché era solo uno sboccio ingenuo di entusiasmo.

Si erano educati allo stesso amore di Vittorio Alfieri: ma ravvivando il pensiero della patria attraverso le crisi dell'esperienza religiosa. Il Santarosa rimase fermo al cattolicismo, con costanti indulgenze verso preoccupazioni mistiche che noi ci accontenteremo di individuare richiamandovi a lato il Savonarola, ispiratore e maestro, capace di soddisfare le sue ambizioni di lettore. Le Speranze degli italiani parrebbero il preludio del Primato e sono ancora l'idillio cui vagheggia l'uomo religioso e il patriota. Il suo pensiero rimane negli orizzonti del dogmatismo ortodosso, il suo patriottismo è l'entusiasmo regionale di un gentiluomo educato in Piemonte sui classici, con qualche residuo di furore guerriero che non gli permette di distinguere tra problema militare e problema politico. Si oppone il Santarosa alla rivoluzione francese, poiché la mentalità settecentesca del soldato piemontese gli impediva di intendere i nuovi valori degli Stati e delle democrazie. Per lui l'opera rivoluzionaria doveva essere compiuta da un principe, lo scopo ne sarebbe stata la Confederazione benedetta dal papa, indipendente dall'Austria. Questi sogni si colorivano di leggende eroiche; talvolta il concetto di libertà rinvigoriva quello di indipendenza, ma concepito sempre in modo astratto ed esterno, senza intendere che la libertà come vera autonomia è conquistata dai popoli e non donata dai principi. Santarosa invece rimpiangeva che nel 1733-34 Carlo Emanuele non fosse riuscito a concludere la Confederazione nazionale. Ma questa non era che la malattia irrimediabile di tutto il Risorgimento.

Santarosa non poteva e non voleva aderire alla concezione liberale attraverso l'esperienza della rivoluzione francese. Di questa i piemontesi non riuscivano a capire il valore storico; né a dimenticare la recente invasione e schiavitú del Piemonte.

Pertanto il liberalismo di Santarosa cerca piú volentieri ispirazione ed elementi alla grande tradizione romantica. Invoca una vita religiosa nella quale anche la filosofia trovi il suo centro e il suo organismo. Religione doveva essere esaltazione di libertà. La reazione al sensismo settecentesco doveva condurre a un approfondimento dei valori spirituali e all'affermazione della storia, della tradizione contro l'Enciclopedia astrattista, individualista e antistorica. Ma storia e tradizione sono nel cristianesimo il solo sistema che possa giustificare i valori dello spirito per menti non ancora mature alla rivoluzione kantiana. Santarosa inizia questo processo, romantico, spiritualista, patriota, ricercatore di storia nazionale. Il suo misticismo dà anima e calore al suo concetto di libertà. Questa in sede politica si afferma come necessità del governo popolare, realizzato in leggi alle quali il governo è sottoposto. Anzi (e qui si anticipa il pensiero neoguelfo) la religione stessa deve essere cattolica e in nome del cattolicismo bisogna compiere la rivoluzione perché il popolo è cattolico. Intuizioni geniali non svolte per la mancanza di un chiaro concetto dello Stato e della laicità.

Uno stesso contrasto del resto domina le idee del Santarosa rispetto al problema politico immediato. Con saggezza precorritrice del Balbo, egli ha visto che il problema centrale d'Italia è l'indipendenza dall'Austria: perciò non si presenta neanche il problema dell'unità, ma sulle orme del Napione vagheggia confederati con gli Stati del centro Napoli e i Savoia. Per raggiungere questi risultati bisognava formare una classe dirigente: opera tormentosa a cui lavorarono con Santorre dal 1815 al 1821 Ornato, Balbo, Provana e altri fervidissimi: opera interrotta dall'esilio e ripresa prima del '48. Fallita un'altra volta e fatta dimenticare dal fenomeno Cavour si ripresentò con la stessa necessità, oggi ancora insoluta, nel momento dell'eredità cavouriana. Il Santarosa vide soltanto da lontano questa esigenza: inteso a scopi piú limitati, con la psicologia di un piemontese del Settecento, burocraticamente e militarescamente prussiano, egli era condannato a concepire la nuova classe di dirigenti come classe di militari.

Per questa intima incertezza e non per le circostanze particolari della sua vita (come parve al Colombo), il pensiero di Santorre Santarosa è stato inferiore alla nobiltà dell'animo suo e, fallito nella pratica, non ha avuto fecondità ideale.

Una piú vigorosa concezione speculativa c'è in Luigi Ornato il quale, giovinetto, faceva sonetti alfieriani e approfondiva gli studi matematici, ma poi cominciò a studiar filosofia sui testi greci e tedeschi e fu filosofo vero. Sotto l'influenza di Rousseau era venuto formando il suo sistema mistico, ricco di motivi platonici: solo piú tardi conobbe nell'esilio, a Parigi, la filosofia di Jacobi e se ne professò discepolo, benché a quella concezione egli fosse giunto da sé, mediatore il sentimentalismo del ginevrino109.

Già nel ricordare questi nomi avvertiamo allargati i limiti della cultura. Platone, Rousseau, Jacobi non sono cattolicismo: il loro misticismo ha fondamenti razionali o sentimentali estranei alla tradizione cattolica. La religione dell'Ornato poi è già filosofia: non contraddice al cattolicismo, ma non ne deriva, né sacrifica gli sviluppi della sua speculazione a esigenze dogmatiche. Vuole che Dio viva nel suo cuore, che di questa comunicazione si alimenti la sua fede: ma verso la Chiesa empirica, le pratiche convenzionali e il rito mostra un atteggiamento talora indifferente, talora risolutamente critico che si può, senza anacronismi, definire modernistico. E infatti l'atteggiamento non andava troppo a genio a Gioberti che il 18 novembre 1841 scriveva al Pinelli: «Né so capire come l'Ornato col suo ingegno e col suo senno, e dopo un soggiorno decenne in Italia possa ancora far buon viso a certi grilli di razionalismo che dovettero entrargli nel capo quando respirava l'aria della Senna, impregnata dai miasmi dei libri tedeschi. Egli dunque vuol divenire il Cousin della penisola? Benché lo scopo non sia molto ambizioso, non gli riuscirà, spero. La patria di Dante, del Buonarroti, del Galileo, del Vico e del Muratori, cioè dei cinque nomi piú grandi d'Italia, nella poesia, nelle arti, nelle scienze naturali, nella filosofia e nella erudizione, non si persuaderà mai che il cattolicismo non possa accordarsi cogli incrementi piú eletti e piú copiosi dell'ingegno umano. Signori ornatisti, se vorrete combattere la fede antica d'Italia, ne resterete a bocca rotta. Ve lo dice un ospite meschino della Beozia belgica. Il quale si duole moltissimo che certe ragioni v'impediscano di scrivere perché egli proverebbe un matto gusto a stampare un libro sui gallo-tedeschi»110.

Qui, sotto l'enfasi, i sistemi polemici del Gioberti sono i piú triti e i piú frettolosi. Ornato non è un eclettico come il Cousin111: il razionalismo teologico del francese parte dal sensualismo e non riesce a liberarsene112; il dualismo del Nostro postula come originaria (per l'idea stessa di un intuito immediato di Dio) l'unità del soggetto con l'assoluto e non è rimasto indifferente alla critica mossa dal Vico al cartesianismo intellettualistico. D'altra parte si domanda che cosa vi sia di «gallo» nella cultura dell'Ornato, alieno dalle filosofie francesi e appena tenero un poco verso il Malebranche, entusiasticamente ammirato dal Gioberti. Bisognerebbe ricordare che l'Ornato fu tra i primi e i piú intelligenti a riprendere il culto della filosofia vichiana; sicché la malignità del Gioberti parrebbe addirittura un mezzo polemico verso chi doveva disdegnare i fantastici rigori del suo nazionalismo filosofico. In realtà l'importanza della speculazione dell'Ornato consiste tutta nei nuovi motivi di libertà che egli reca e che nell'Italia settentrionale hanno il loro senso come motivi polemici contro il dogma rosminiano dominante. In sede politica egli è estraneo alla devozione verso la Chiesa come istituto politico che sarà propria dei neoguelfi: le sue preoccupazioni si elaborano specialmente intorno al concetto di Stato e intorno alla praxis statale che gli italiani dovranno inaugurare. Il suo autore, nell'indagine politica, è Aristotele; ma non gli è estraneo il pensiero democratico di Rousseau che egli ha appreso a leggere dall'Alfieri e che tempera attraverso la conoscenza degli scrittori liberali inglesi113. Non sarebbe dunque giusto neanche qui richiamarci all'ortodossia cattolica. Invece la convinzione centrale è che la politica debba fondarsi sull'attività del popolo governato a libertà. La libertà poi per l'Ornato lealista e tradizionalista non è quella dei francesi, avviamento ad uno Stato atomistico ove «non sono piú ordini o ceti, ma solo individui, cioè a dire atomi umani che si accozzano e separano secondo il rapido variare della fortuna». Propizia al naturale sviluppo di tutti gli elementi dell'umana civiltà è solo «quella forma di reggimento in cui l'aristocrazia, la democrazia e il principato abbiano ciascuno la debita parte»114. Qui non traggano le parole in inganno a far sospettare una mera ripetizione di linguaggio aristotelico poiché anche qui lo spunto originale dell'Ornato è la polemica alfieriana contro le dottrine della reazione. Di quest'opera, di questi pensieri, ci restano frammenti; ma l'influenza del maestro sui giovani piemontesi (d'altronde attestata dal Berti) dovette essere grandissima nel formare quella coscienza politica moderata e laica che fu il punto morto e il punto vivo del nostro Risorgimento115.

2. Erede spirituale dell'Ornato fu Giovanni Maria Bertini, il solo tra i pensatori subalpini che, movendo dalle esigenze religiose dei tempi, giungesse con chiarezza speculativa alla negazione del cattolicismo e all'affermazione della libertà nello Stato laico.

Nato a Pancalieri il 3 agosto 1818, passato a Carmagnola verso il 1827, vi compí fanciullo i primi studi filosofici sotto la guida di Giovanni Antonio Rayneri. Nel 1835 è a Torino, stretto all'Ornato da affettuosa famigliarità di pensiero che si continua nella lontananza attraverso la corrispondenza epistolare e che solo per la morte dell'Ornato s'interrompe il 28 ottobre 1842.

Una differenza radicale opponeva la mente di Luigi Ornato a quella del Rayneri. Fu questa differenza uno degli impulsi piú laboriosi nel giovane discepolo alla meditazione filosofica. Il Rayneri116, sacerdote d'ingegno moderato, lavoratore coscienzioso, diede l'opera sua pratica e speculativa alla scuola piemontese che faticosamente veniva nascendo in quegli anni per l'assiduo sforzo di F. Aporti, di C. Boncompagni, di Vincenzo Troya, del Danna, del Bernardi, del Dapassano, del Garelli e specialmente, in un secondo tempo, del Berti117.

Ebbe il suo momento di celebrità come filosofo della pedagogia e parve l'opera sua sistemazione vigorosa delle dottrine educative del tempo. In realtà il Rayneri fu tra i rosminiani più ossequienti verso il maestro, ma che meno ne penetrarono il centro speculativo. L'opera sua vale per osservazioni frammentarie, per l'acutezza e l'esperienza presente nella soluzione dei piccoli problemi tecnici; mentre il tentativo di organizzazione, che suscitò le meraviglie e le simpatie dell'Allievo, è fallito per la mancanza di un centro speculativo organico che presieda allo sviluppo del sistema. L'autore resta alieno dalle altezze della filosofia; tutto lo sforzo sintetico si riduce ad accennare l'usata antinomia di autorità (educatore) e libertà (educando) che ha la sua risoluzione nella sommissione della libertà all'autorità, dell'educando all'educatore. Concetti ricondotti poi all'idea di Dio, dinanzi alla quale tra educatore e educando v'è assoluta uguaglianza: senonché tale uguaglianza si dovrebbe chiamar piuttosto indifferenza, cosí come l'unità conquistata per questa via è priva di dialettica e di consistenza filosofica, corrispondendo ad una tradizionale posizione di mediocre spiritualismo. Sente il Rayneri i problemi pratici della scuola e si sforza di risolverli sulle orme del Girard e dell'Aporti; ma in teoria s'appaga di una tenue ripetizione dei motivi religiosi del cardinale Gerdil (Malebranche adattato alla scuola ed esposto ad uso della Chiesa), che egli contribuí a rendere popolare in Piemonte118. Al Gerdil è ispirata la sua polemica contro il Rousseau sostenuta con intenti dogmatici. Notevole è dunque la differenza tra questo pensiero ortodosso, sospettoso di fronte al Rousseau e ad ogni specie di razionalismo, e l'entusiasmo con cui l'Ornato accoglie ogni sforzo di libero pensiero: tra i due misticismi sta un abisso, se appena si pensa ai fremiti e alla commozione con cui l'Ornato leggeva il Rousseau, tanto aborrito dal Rayneri. Il contrasto è interessante perché si riproduce nella formazione spirituale del Bertini, che accettò nei primi anni dal Rayneri un dogmatismo spiritualistico, quale unica salvezza che i tempi offrissero contro i pericoli del sensismo: ma avvertì subito l'esigenza di approfondirlo attraverso lo studio dei filosofi, in primo luogo i greci, il Vico e il Rosmini. Rosminiano, ma tra i piú penetranti, fu il Bertini negli anni universitari, e come il Rosmini desideroso di conciliare col cattolicismo il pensiero filosofico.

Ora, a contatto col teismo dell'Ornato, il Bertini non tardò a sentire l'insufficienza della posizione rosminiana e contro di essa i motivi jacobiani (di un Jacobi diligentemente riveduto e accordato con la realtà pratica) dell'Ornato gli dovettero sembrare subito una critica sicura e superiore. Tuttavia il Bertini non abbandonò il pensiero rosminiano e venne invece ripensando i motivi del dissidio con impassibile serenità. Che verso l'Ornato egli rappresentasse un'esigenza razionalistica ci attesta il Parato: «A provare in quanta estimazione l'Ornato fin d'allora avesse il Bertini, citerò questo fatto sovvienmi che io a sedici anni faceva lettura a quel venerabile cieco nel suo modestissimo alloggio in via della Rocca al terzo piano e nel 1841 gli veniva leggendo manoscritti i sunti dell'opera giobertiana Sugli errori del Rosmini che gli stendeva e mandava da Carmagnola il professore Bertini; e ci erano note piuttosto frequenti e tratto tratto l'Ornato passeggiando con passo celere mi arrestava (mi pare ancora di vederlo quasi l'avessi presente) ed esclamava: – Oh, questa volta il Rosmini non si caverà piú... Ha un bel dire il Bertini in suo sostegno... se fosse qui presente gli direi, ecc. –. E talvolta mi dettava anche lettere per il Bertini che a ventitre anni era già all'altezza di disputare con uno dei primi filosofi d'Europa»119.

Invece fa prova dell'influenza esercitata dall'Ornato sul suo pensiero la Necrologia ch'egli ne scrisse nel 1842. Se anche rimaneva cattolico in quegli anni forse con piú rigore che non lo fosse stato l'Ornato, già dal beato sonno dogmatico del buon Rayneri s'era scostato per sempre. Ma non bisogna confondere il problema del Bertini con quello dell'Ornato. Questi gli faceva sentire l'esigenza di abbandonare la posizione critica di Kant per ritrovare nell'unità immediata di Dio e del soggetto, stabilita nell'intuito, la base del sapere. Era l'esigenza da cui mosse Hegel, ma per sostituire la mediazione e la dialettica all'unità immediata120. Invece l'Ornato s'accontenta dell'immediatezza e in logica segue gli scozzesi.

Il problema che si presenta al Bertini è il superamento del misticismo: la sua ontologia si deve costruire psicologicamente: egli non può rinnegare Cartesio, né Locke, né Hume. Senonché la sua indagine, invece di muovere da Kant, si ispira nel suo punto di partenza alla Scienza Nuova. Di qui il movimento quasi tormentoso che si avverte negli sforzi del Bertini per la costruzione della sua nuova logica.

3. Amici e ammiratori del Bertini (Parato, Capello, ecc.) deploravano nel 1876 la sua morte immatura, lamentando ch'essa gli avesse impedito di vincere i suoi dubbi e ritornare cattolico com'era stato nei primi anni. Quest'ingenuo rimpianto si ricorda qui per confutare l'errore che vi si contiene.

L'Idea di una Filosofia della Vita, pubblicata nel 1850, ha potuto giustificare l'attribuzione di un pensiero cattolico al Bertini perché effettivamente in questo primo libro i tormenti e le incertezze riuscivano a conclusioni mistiche e a una difesa del dogma della Trinità contro le dottrine panteiste. Ma lo spirito e l'intonazione di questo primo saggio speculativo si tenterebbe invano di ridurre allo schema cattolico. Se poi risaliamo a certe espressioni frammentarie di critica contenute nelle sue carte giovanili, dobbiamo convincerci che sin dai primi anni le sue esigenze filosofiche lo conducevano a cercare al di là del cattolicismo una fede adeguata al tormento contemporaneo. Per esempio il Bertini non accetta dal Gioberti la spiegazione della dottrina cattolica della rivelazione, perché ne impugna sin dall'inizio l'idea di creazione e di sovrintelligenza, come residuo di limite posto all'attività razionale del pensiero. Infatti in un lucido riassunto della Teorica del sovrannaturale il Bertini, esposto il concetto giobertiano121 che l'espiazione si possa giustificare soltanto con la rivelazione, obbietta: «A questo proposito tuttavia si può osservare che l'idea di Dio inchiude che la conversione deve essere a lui accetta. La ragione stessa poteva insegnarci che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Il Cristianesimo rende poi facile la conversione e la perseveranza, ma non è già necessario che esse siano agevoli: basta che non siano impossibili. D'altronde e nel cristianesimo e fuori di esso è sempre difficilissimo egualmente il discernere se la nostra conversione sia verace o illusoria»122. Concetto che ha il suo riscontro in quest'altra osservazione sulla virtú: «L'idea di Dio esige bensí che la virtú sia possibile, ma non già ch'essa abbia un cotal determinato grado di agevolezza e di universalità». Spunti di una concezione religiosa quasi ascetica che non ammette mediazione tra l'uomo e la divinità perché vuole che la divinità si manifesti nell'uomo come sforzo autonomo di conquista morale. Segue questa affermazione che anticipa in modo decisivo tutta la critica svolta poi dal Bertini maturo: «Io tengo... che non si debba credere finché non si vede l'impossibilità del contrario di ciò che si propone a credere. Poiché finché sussiste la possibilità del contrario sussiste il pericolo di errare. Ora l'errore è un male cosí grande, che la possibilità di esso, anche minima, deve avere una forza massima a rattenerci dall'assentire ogni qualvolta il nostro assenso può essere erroneo. Né dicasi che, anche nel dubitare v'è pericolo di errore, perché chi rettamente dubita non pronuncia nulla sull'oggetto, ma enuncia solamente un fatto psicologico, cioè la propria ignoranza intorno ad un oggetto»123. Questo atteggiamento non si può evidentemente riportare al dogmatismo cattolico e si scosta in modo assai preciso dalla jacobiana filosofia del sentimento e della credenza. Jacobi infatti muove da una premessa agnostica derivata direttamente dalla sua critica alle inadeguate teorie della conoscenza e si limita a teorizzare il bisogno di una metafisica, connaturale allo spirito anche quando si pensi che l'assoluto sia inaccessibile, e il bisogno di una morale obbligatoria necessaria anche se non la si possa fissare razionalmente124. Invece Bertini partendo dallo stesso punto (e separandosi perciò dai razionalisti della ragione meramente soggettiva, scettici e materialisti) non si può accontentare del sapere immediato di Jacobi.

Egli non scorge ancora in questi anni le conseguenze delle sue indagini piú ardite che dovranno portare una rivoluzione nel rigido mondo dell'ortodossia: la moralità rigoristica cui aspira, la purezza religiosa che anima la sua critica, non paga di se stessa, ma assetata di una superiore verità, lo trattengono nei limiti del cattolicismo, anzi di questa permanenza gli fanno quasi un esplicito dovere. Nel travaglio delle sue crisi angosciose egli non scorge fuori del cattolicismo altro che scetticismo; e lo scetticismo, corrispondendo nella sua esperienza psicologica ai momenti di caduta, gli ripugna perché non giustifica la moralità.

Da questa fede incrollabile nella morale, che è stato il sostegno di tutte le sue lotte giovanili, sorgeranno i motivi piú elevati e piú commossi della sua filosofia. Ma già sin d'ora la giustificazione da lui offerta del momento religioso è la parola del filosofo. Egli scorge nella religione quasi una condizione materiale del sapere, un presupposto cronologico, sul quale si esercita la nostra conoscenza e l'accetta solo in quanto ne scorge la necessità logica. Siamo agli antipodi da Gioberti per il quale la rivelazione non è l'immediato da mediare, ma già mediazione che in se stessa ritiene la sua validità e assolutezza.

Gli sviluppi dell'idea qui enunciata si trovano nel primo libro del Bertini: L'idea di una Filosofia della Vita. L'opera, se si accetta la testimonianza del Capello, risale al 1846; e fu pubblicata nel '50 con l'aggiunta di un Saggio storico sui primordi della filosofia greca. Qui nelle conclusioni mistiche c'è la teoria dei suoi bisogni morali assillanti e in un certo senso il sistema delle esigenze intravvedute dall'Ornato. Frettolosamente gli scriveva a tal proposito il Gioberti dall'esilio: «Ho letto con vivo piacere la sua bella opera dettata con gusto e con criterio finissimo. Ella ha fatto bene a premere sull'idea dell'infinito, che è di momento supremo in ogni parte della speculazione»125. Qui è agevole notare l'errore in cui incorreva il Gioberti: mentre la posizione ontologica del Bertini era piú vicina a Cartesio che alla Teorica del sovrannaturale.

Del resto il Bertini stesso non si appaga delle conclusioni a cui ha costretto il suo pensiero nell'Idea. Mentre si proponeva di creare razionalmente una filosofia che giustificasse la vita, egli si trova a non poter conciliare in Dio l'unità con la pluralità e deve concludere affermando l'incomprensibilità di Dio; non riesce a giustificare la creazione divina e lascia quindi senza un sostegno speculativo sicuro la sua deduzione del finito dall'infinito. Termina con un misticismo dolorosamente pessimistico: «Il bene nella sua essenza, il male nella sua origine, la morte nelle sue conseguenze sono tre misteri per cui la filosofia umana mette capo alla rivelazione»126.

Gioverà dunque avvertire senza equivoco che il libro nelle sue conclusioni ci interessa come storici, quale espressione di uno stato d'animo: ma i principi posti condurranno il Bertini ben più innanzi.

4. Nel 1847 il Bertini fu chiamato a reggere la cattedra di storia della filosofia istituita in quel tempo in Torino e vi lesse il 10 novembre una prolusione intitolata: La Filosofia e la sua Storia. Questo scritto (il primo del Bertini dopo le tesi discusse nel '46127), pur non allontanandosi dalla concezione centrale dell'Idea di una Filosofia della Vita ne svolge piú acutamente certi motivi. L'esigenza di studiare la storia della filosofia è affermata come attuazione di un momento filosofico che è già teoretico in quanto è storico. Si proclama la necessità della ricerca, il bisogno di ritornare sui risultati raggiunti, di rivederli sotto la guida dei grandi filosofi. Tale atteggiamento rimarrà il punto vivo, suscitatore di indagini sempre nuove nel pensiero del nostro filosofo. Questa prolusione poi ci interessa fortemente per il pensiero politico che ne risulta.

Non si dimentichi che l'Italia era in pieno neoguelfismo: gli atteggiamenti di Pio IX riconfermavano ogni speranza; religione e patria, supreme aspirazioni degli spiriti piú pensosi del tempo, parevano unite in una realtà ideale sola. Fu neoguelfo allora anche il Bertini, e partecipando della commozione dei tempi esortava i giovani: «Ciascuno di voi può cominciare a rendersi tale quale vorrebbe che tutti fossero per il bene della patria. Ciascuno di voi insomma può cogli studi, cogli esempi e cogli scritti cooperare col divin Pontefice alla gloriosa impresa affidatagli dalla Provvidenza»128. L'effondersi di questa commozione ci pare importante come quella che ci avverte quanto fortemente il Bertini sentisse i motivi del suo tempo e nutrisse visione chiara della realtà: anzi ci permette di attingere una misura per valutare l'ardore degli sforzi ch'egli tentò in seguito per liberarsi dai limiti del suo tempo. Certo elevando il suo inno al pontefice il Bertini non condivide lo stato d'animo diffuso di eccitazione e di confusione. La sua argomentazione è ancora quella del discepolo di Ornato. Il bene della patria non può tenersi disgiunto dal bene della religione, il quale nelle condizioni presenti dipende dal culto della scienza. La politica, la poesia sono tornate all'intimità dello spirito, si sono fatte religiose: ora deve farsi religiosa la filosofia. E tra le religioni la piú profonda è il cristianesimo: se una religione è vera, non vi può esser dubbio, essa è il cristianesimo. Ma il Bertini si propone almeno per un istante la domanda: può esservi una religione vera129? A questa domanda deve rispondere la filosofia, dall'autorità assoluta della quale dipendono dunque sin d'ora (1847) i destini della religione. E se tale autorità sovrana riconosce e giustifica in questo momento la verità religiosa, non ci dovremo meravigliare, una volta che la questione di metodo è risolta, che dieci anni dopo venga pronunciata invece una negazione. La nostra critica deve indicarci solo il processo e i modi del ripensamento.

5. Le speranze fallirono, Pio IX ritirò lo Statuto. Le milizie francesi soffocarono gli ultimi tentativi di libertà in Roma repubblicana.

Il Bertini fu in quei giorni deputato al Parlamento piemontese per il Collegio di Carmagnola (1° febbraio-29 marzo 1849) e parlò il 1° marzo sulla questione romana. Il discorso del neoguelfo di due anni prima trovò gli accenti piú vigorosi nella polemica con Cesare Balbo. Ora non c'interessa se vi fosse in quell'occasione piú realismo nel Balbo o nel Bertini: volere una parola netta in quei giorni, volere che il Piemonte affermasse una visione sua delle cose italiane proprio quando il '48 si era chiuso tragicamente, poteva sembrare temerario. Ma era pur l'unica via di condurre la lotta con dignità, e il Bertini infatti nel suo breve discorso la propose recisamente. Ogni popolo ha diritto all'indipendenza e per questo stesso alla libertà di coscienza. Ora se per questo i diritti del popolo romano vengono a contrastare coi diritti del papa, bisogna negare tali pretesi diritti.

«Il dominio del Papa è in contraddizione con questa libertà e ve lo provo. Il principio di libertà di coscienza non dee valere soltanto per gli individui considerati in relazione collo Stato, ma dee valere eziandio per le nazioni le une rispetto alle altre. A quel modo che ciascun cittadino deve poter vivere nello Stato secondo quella religione che egli tiene per vera, cosí pure ciascun popolo nel gran concilio delle nazioni. Ora se si ammettesse che il Papa, come tale, abbia diritto al dominio temporale e che per conseguenza le altre nazioni cattoliche abbiano il diritto d'imporlo ai romani come sovrano, ne segue che esse avrebbero il diritto d'imporre ai romani la religione cattolica come religione dello Stato poiché certo non può capire in mia mente l'ipotesi di un Papa felicemente regnante sopra un popolo di eretici. Ora io dico che là dove si riconosce una religione qualunque come religione di Stato, ivi non può essere vera e compiuta libertà di coscienza». E al Balbo che parlando in difesa del potere temporale aveva professato il suo rimorso per la colpa giovanile di aver approvato la condotta del primo Napoleone, rispondeva di aver sentito alle sue parole una commozione profonda «e, – aggiungeva, – temetti non forse quando l'età mi avesse imbiancati i capegli avessi anch'io allora a rimproverare a me stesso il voto con cui ora ho deciso di acconsentire alla decadenza di Pio IX». Ma oggi le condizioni sono mutate. Il Bertini è pronto a riconoscere l'utilità del dominio temporale nel Medioevo. Di fronte al carattere e alle condizioni dei barbari, anche l'uomo che personificava in sé le idee di ordine, di giustizia, di pace, doveva necessariamente avere una forza fisica proprio per far trionfare la verità e la giustizia. Ma «l'autorità è tutta fondata sull'opinione degli uomini e si muta col mutarsi di questa opinione». Ora siamo in tempi di idee nuove. Può essere vera l'asserzione del Balbo che l'Italia perderebbe molti beni col diminuire dell'autorità del pontefice. Poniamo però «da una parte questi beni, e dall'altra l'indipendenza, la nazionalità e la libertà, e scegliamo». Né infine è da temere, come temeva il Balbo, l'ineluttabile forza dei papi: «Pio VII lottava contro il dispotismo. Vi era da una parte il principio religioso verso cui gli uomini si sentivano di nuovo attratti da un prepotente bisogno. Dall'altra eravi un uomo col suo egoismo, colle sue tendenze dispotiche, colla sua forza». Ora «abbiamo da una parte il principio dell'indipendenza, della nazionalità, dell'inviolabilità del territorio, della libertà politica, della libertà di coscienza. Dall'altra abbiamo un meschino interesse che cerca di prevalere con intrighi diplomatici e di coonestarsi con una vieta e gesuitica dottrina. Pio IX è divenuto un pretendente; un pretendente di nuova specie senza dubbio e alquanto piú formidabile degli altri, ma destinato a correre la loro stessa sorte e ad ottenere dalle Corti d'Europa ciò che sogliono ottenere i pretendenti: promesse, buone parole e null'altro»130. Sembra una profezia. Senonché gli uomini del tempo furono di altro avviso e al Bertini convenne ritornare ai suoi studi. Votarsi a questi era pure per lui un votarsi alla patria. L'Idea di una Filosofia della Vita era stata scritta «con lo scopo di risparmiare almeno in parte a qualcuno gli errori, le follie e le miserie che a lui guastarono la vita»131. Ora la sua visione si va facendo piú serena e sottentra al pessimismo una rassegnata tristezza. L'ideale che lo ispira è Socrate. Un fascino chiarificatore emana per lui dalla vita dei primi sapienti della Grecia pei quali scienza e pratica, natura e spirito erano una stessa armonia. La moralità greca non è il nostro dovere, obbligo che s'impone dall'esterno; non è «un debito da pagarsi, un obbligo da compiersi... ma piuttosto il concetto di cosa ben fatta, cosa convenevole, azione retta, cioè conforme all'ideale; la doverosità... di tali atti tutta consiste nella loro bellezza morale, nella loro onestà, nella loro lodevolezza intrinseca ed assoluta; ogni azione bella è un dovere, ogni dovere è un'azione bella». Non c'è distinzione tra erogatorio e supererogatorio, tra il precetto e il consiglio. E la bontà è «perfezione di tutto l'uomo e non solo dello spirito né di una sola facoltà dello spirito»132. Ma l'eredità del cristianesimo e del romanticismo non concede siffatte native spontaneità. Faticosamente conquista l'uomo moderno l'unità di vita morale e vita teoretica. Tende alla serenità ellenica, ma il punto di partenza è il tormento di uno spirito cristiano. Tra queste angustie e queste costrizioni il Bertini cerca la sua libertà speculativa nello studio della storia.

6. Con gli scritti del Bertini comincia in Italia lo studio serio della storia della filosofia. Già nella citata prolusione del '47 egli aveva messo in luce il valore teoretico dell'insegnamento della storia della filosofia. E piú esplicitamente nel 1854 affermava che «noi possiamo nella storia dei secoli ravvisare la storia della vita individuale e nella storia dei vari sistemi filosofici riandare le vicende della propria vita individuale». Nella serie dei sistemi «la quale non è una successione fortuita, ma ordinata secondo certe leggi, noi possiamo leggere scritta in vari caratteri la filosofia della storia, l'economia della Provvidenza divina nell'educazione dell'umanità»133. C'era in queste affermazioni il meglio del pensiero di Hegel che il Bertini citava e discuteva attentamente prima dello Spaventa. «L'artefice di tutto questo lavoro (la storia della filosofia) che dura da millenni è l'uno ed unico spirito vivente, la cui essenza è di recare a sua consapevolezza quello che esso è, ed essendo così questo suo essere divenuto oggetto subito elevarsi sopra di esso, e costituirsi in grado superiore. La storia della filosofia mostra nelle filosofie che appariscono diverse una unica filosofia in diversi gradi di svolgimento; mostra altresí che i particolari principî che stavano a fondamento quale di questo, quale di quel sistema, sono altrettanti rami di un medesimo, unico tutto. La filosofia che viene ultima per ordine di tempo è il risultato di tutte le filosofie precedenti, e deve quindi contenere i principi di tutte; essa è perciò, quando però sia veramente una filosofia, la piú sviluppata, la piú ricca, la piú completa»134. Ma piú viva che in Hegel fu sempre nel Bertini la visione della storia. Non tanto per l'obbiettività che in lui loda il Cantoni quanto perché egli effettivamente si sforza di ricreare il processo storico, di compiere la fenomenologia dello spirito, e non si ferma a vuoti e arbitrari schematismi. Egli del resto rimprovera anche piú tardi allo Hegel, come uno degli errori piú gravi, «la pretesa di costruire a priori... il corso della storia umana»135.

In questo approfondimento del concetto della storia il Bertini è un solitario: i filosofi del tempo correvano dietro al fantasma di una filosofia italiana da rinnovare (l'antiquissima italorum sapientia) che si esprimeva o nelle aberrazioni platoniche del Gioberti o nel volgare empirismo di Terenzio Mamiani. Nel Nostro è singolare l'informazione completa dei testi e della critica moderna tedesca.

Già nel '50 era uscito con La Filosofia della Vita un Saggio sui primordi della filosofia greca, del quale cosí giudicava il Gioberti nella lettera citata: «Leggendo il sunto sugoso ch'Ella diede, nella seconda parte, della filosofia greca, mi nacque un pensiero che non posso dissimularle. Questo sunto, diss'io, è come l'unghia del leone, che dimostra il valore dell'artefice. Perché mai questi non ci darebbe una storia distesa dell'antica sapienza ellenica? Non potrebbe cominciare a darci una storia della filosofia pitagorica?» Anzi a quest'opera il Gioberti, che considerava la filosofia pitagorica come «la sintesi piú vasta dell'antichità in opera di filosofia», l'incitava col dirgli che cosí «c'introdurrebbe nell'antica Grecia senza farci uscire d'Italia». Pregiudizi nazionalisti di una mentalità antistorica.

Il valore dell'opera del Bertini è considerevole per i tempi benché non riuscisse piú tardi ad accontentare l'autore che ne diede un rifacimento nel 1869. Il tentativo di sintesi è preparato da una forte cultura, sebbene qua e là turbino la visione dello storico non pochi pregiudizi dogmatici, come sarebbe la preoccupazione di voler rintracciare il teismo in filosofi come Talete e gli altri jonici completamente immersi nel naturalismo.

L'opera si fondava soprattutto sul Ritter e n'ebbe i molti difetti. Tra i piú gravi l'arbitraria distinzione della dottrina jonica in fisico-dinamica e fisico-meccanica, che spezza l'organismo di un pensiero e non ne coglie lo sviluppo reale. Il Bertini riesce a vedere meglio del Ritter la posizione di Anassimene, ma non intende Anassimandro perché ne studia la dottrina come se si trattasse di un panteismo, accettando dal Ritter la dubbia esegesi (confutata poi splendidamente dallo Zeller) che tutte le cose siano da principio non virtualmente, ma in atto, ab aeterno e immutabili. Analoghe incertezze si scorgono nello studio di Senofane del quale è esagerato il teismo. (Il Bertini si fondava naturalmente sul De Xenophane, Zenone et Gorgia da lui attribuito secondo l'opinione tradizionale ad Aristotele: nel '69 accettò invece dallo Zeller le correzioni all'attribuzione e al titolo che è De Melisso, Xenophane et Gorgia).

Confrontando con questa prima la seconda edizione, bisognerà, per spiegarsi il miglioramento, ricordare che al modello del Ritter s'è sostituito lo Zelier. Qui l'esame dei pitagorici è tenuto in giusti limiti e sono respinte le fantasie incoraggiate nel '50 dai frammenti di Filolao del Böckh per i quali i primi pitagorici venivano a confondersi coi neopitagorici; la trattazione poi non comincia arbitrariamente con Talete, ma fa intender prima le premesse psicologiche e storiche della Grecia attraverso Omero, Esiodo, la morale e la cosmogonia popolare. Un senso storico sicuro domina nella costruzione: dagli jonici (natura materiale) agli eleati (puro essere), ai pitagorici (numero); poi da Eraclito (divenire indeterminato) ad Empedocle e agli atomisti (coesistenza della immutabilità del reale e della natura molteplice che diviene) fino ad Anassagora (che nel vecchio pensiero introduce il principio nuovo, il Nous): è colto e seguito con finezza d'analisi tutto il processo dialettico che portò da Talete a Socrate.

Su Socrate abbiamo il suo saggio del 1854 e la traduzione variamente annotata dei Memorabili; ma vi ritornò piú volte e tra i suoi manoscritti vi sono importanti appunti per una nuova edizione dello studio. A proposito di Socrate nacque tra il Bertini e lo Spaventa una polemica assai violenta in cui bisogna riconoscere che il napoletano incorse in alcuni abbagli determinatigli dalla fretta, e si abbandonò a tratti di sdegno alquanto acceso non tanto per errori presunti o veri del Bertini quanto per la sua intolleranza in sede di terminologia hegeliana. Per esempio, l'esegesi del Bertini del concetto di Dio in Socrate, distinto da ogni residuo di metafisica materialistica e inteso piuttosto come uno sviluppo dell'ambiguo principio di Anassagora che si offrirà poi a Platone per la dottrina delle idee e per l'universalità della conoscenza, resta valida anche dopo le critiche dello Spaventa. Per questi studi e per la nuova interpretazione delle idee platoniche il Bertini resta davvero uno degli studiosi piú diligenti del pensiero antico.

Anche i lavori di filosofia moderna, gli studi su Cartesio, Locke, Hume, Kant, e la Storia critica delle prove metafisiche di una realtà sovra-sensibile si possono rileggere oggi come veri modelli.

Per lui, come per l'Erdmann, la filosofia moderna incomincia con Cartesio; si differenzia dalla filosofia greco-romana e medievale perché è critica, mentre quella è dogmatica; si prepara in Italia con Bruno, Telesio, Campanella e Galileo; in Inghilterra con Bacone, attraverso il risorgimento delle scienze che infrangono i vecchi limiti aristotelici, e la liberazione della filosofia dalla teologia. Muore la Scolastica e si torna al libro eterno della natura e della coscienza umana. Ma in Descartes, Malebranche, Spinoza, Leibniz, Wolf, si tratta essenzialmente di critica delle cognizioni e soltanto con Locke, Kant e i postkantiani si fa quistione di critica della stessa facoltà di conoscere. Il Bertini contesta in sede teorica la legittimità del problema critico kantiano, ma riconosce in sede storica che da esso si sono svolte le filosofie di Fichte, Schelling, Hegel, quelle che per lui costituiscono il nuovo dogmatismo, essendo di necessità la filosofia dogmatismo, ossia affermazione, fondato su basi criticamente inconcusse. Da questo punto d'arrivo della storia deve muovere la nuova teoria. La sintesi ricostruita faticosamente dal Bertini storico attraverso l'indagine minuziosa dei problemi laterali riesce dunque a risultati non disformi da quelli attinti quasi contemporaneamente dallo Spaventa con una visione assai piú semplificatrice e approssimativa.

7. Il corso della storia filosofica mentre gli affinava da un lato il suo ideale morale gli faceva sentire piú acuto dall'altro il bisogno di una teoria dello spirito che questo ideale giustificasse razionalmente. Le considerazioni su Socrate del '54 corrispondevano a questo programma e gli ardori del sentimento vi deformavano persino la precisione d'osservazione tanto da consentire il fraintendimento e la frettolosa esecuzione proposta dallo Spaventa.

Tutta la storia poi gli insegnava la decadenza del cattolicismo e il tramonto delle dottrine rivelate: per veder chiaro in questo problema il Bertini si dedica tutto alla critica religiosa.

L'impulso alla sua polemica si può trovare in fatti d'ordine pratico; si tratta di esaminare la moralità della dottrina cattolica nelle sue conseguenze politiche e il Bertini dagli spunti già espressi nel '49 non tarda a conchiudere contestando all'insegnamento della Chiesa ogni virtú educativa e rivendicando alla morale il compito che altri assegnava alla religione. In un'ultima fase la sua critica nega alla religione e alle varie forme di fede ogni credenza, ogni validità conoscitiva, respinge le dottrine rivelate, risolve la religione nella filosofia.

Nel 1861 furono pubblicati in Torino i tre dialoghi: La questione religiosa136 che il Bertini fa svolgere tra un teologo e un filosofo i quali pongono recisamente il dilemma tra cattolicismo ortodosso e filosofia liberale, riducendolo nei suoi fondamenti all'opposizione tra immoralità e moralità; infatti il principio essenziale proposto dal filosofo è la necessità di non mentire a se stessi, di non credere e di non affermare come certa nessuna cosa che non sia tale, e il cattolico antepone invece al principio di veracità l'esigenza assoluta di credere per la salute eterna anche quando non bastino gli argomenti addotti, ossia anche quando si tratti di mentire a se stessi. Alla prima posizione corrisponde in politica il liberalismo, alla seconda l'assolutismo e il potere temporale.

Questo dilemma ritorna nella lettera del Bertini al Passaglia del 1863 dove la teoria dello Stato abbozzata rimarrà, nel 1876, il fondamento del libro Il Vaticano e lo Stato.

Poiché il Passaglia aveva sollevata la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa e andava propugnando sul Mediatore, per ispirazione di Cavour, un regime d'accordo tra i due organismi, il Bertini risale all'esame dei presupposti teoretici del problema, indagando qual sia la vera religione e per conseguenza qual sia il vero Dio. Due opposti sistemi dànno risposte logiche e coerenti a tale questione.

Il sistema cattolico è il sistema del servilismo assoluto: se la salute dell'anima dipende dall'adesione a certe forme e pratiche rivelate e istituite da Dio in modo sovrannaturale, se organo di tale rivelazione è la Chiesa, ne scaturisce senza equivoco che la Chiesa deve organizzarsi in forma di monarcato assoluto. Si può infatti parlare di regime costituzionale per un sovrano terreno, privo di assistenza divina, ma per il pontefice la cosa è diversa: egli realizza l'ideale vagheggiato da Platone: egli, operando per la grazia celeste, non può trasformarsi in tiranno, e perciò non deve essere costretto dalla materialità delle leggi. Le leggi sono rimedio contingente, inevitabile, ai mali politici di uno Stato imperfetto; in una società perfetta, fondata per ispirazione divina, diventano inutili e dannose: nessuna legge vi può essere superiore al papa, alla quale i fedeli abbiano diritto di richiamarlo, perché la Chiesa come società non è i fedeli, non è la moltitudine disgregata degli individui, ma ha la sua forma e il suo ordine nell'autorità assoluta del pontefice che è legge vivente di vita divina. Posto il dogma che tutto deve indirizzarsi alla salvezza dell'anima, la politica viene a dipendere dalla morale, la morale dal dogma. L'infallibilità del papa in morale è infallibilità in politica, per chi guardi l'essenza delle dottrine e non i contorti artifici in cui si cerca di confondere le conclusioni inesorabili. Pertanto non è concepibile accanto ad una Chiesa libera un libero Stato, poiché la Chiesa tende per sua natura a render vana la libertà degli altri.

Bisogna dunque opporre al sistema cattolico ortodossista un sistema ugualmente netto ed organico senza accettare negazioni o compromessi dove questi non si possano comportare. Il liberalismo laico del Bertini a questo punto, nonché professarsi ateo o indifferente, pone quale principio d'azione la religiosità, ma non sente alcun bisogno di fissare la personalità di Dio per dedurne una legge umana. Il Bertini dice che di Dio non importa accertare l'esistenza la vera religione essendo il puro amore della verità congiunto alla pratica della giustizia e della beneficenza, rende omaggio a Dio anche chi nega la sua esistenza, se è convinto di rendere con ciò un omaggio alla verità. Qui è chiaro che il vecchio teismo mistico del '46 è stato definitivamente respinto dal Nostro, e non si può piú neppure parlare come parla il Gentile di teismo filosofico. Qui il teismo è ridotto al senso dell'infinità immanente negli uomini, è l'ideale umano che trascende l'individuo perché si realizza come amore nell'umanità. Nel ricercare la verità, nell'affermare ciò che vi è nell'uomo di piú universale, l'umanità si rende veramente divina. La religione per il Bertini viene a consistere nella «veracità, nel rispetto assoluto della dignità umana, della libertà di coscienza, nella mitezza d'animo, nella compassione operosa verso i miseri». Ma questi sono i valori e i principî in nome dei quali è sorto lo Stato nazionale: dunque lo Stato, sintesi degli ideali moderni, è Chiesa, «è la vera Chiesa della vera religione, del vero Dio». Non indifferente perché nato dal progresso, si batte per il progresso e per la filosofia della libertà che è la sua religione. Qui è evidente come il Bertini resti a mezza strada tra lo Stato liberale e lo Stato etico panteista. Il risultato del concetto del Bertini è che lo «Stato-Chiesa della libertà accoglie nel suo seno tutte le libertà, non è intollerante se non contro l'intolleranza, non perseguita altro che i persecutori». Nella funzione morale dello Stato vien trasferito dal nostro autore il proprio tormento religioso, e pertanto l'idea piú che adeguarsi a un reale principio di organizzazione statale afferma una posizione trascendentale e un'esigenza di lotta intima. Cosí, nei suoi elementi religiosi va intesa la critica della formula libera Chiesa in libero Stato. Lontano dalle aberrazioni nebulose del Vera, il Bertini combatte non Cavour, ma la concezione speculativa che i cavouriani proponevano in difesa della formula. Nessuno può negare l'importanza storica della politica ecclesiastica di Cavour che permetteva l'inserirsi dell'Italia in un equilibrio europeo, trovava un modus vivendi nazionale e internazionale, preparava l'assorbimento dei cattolici nello Stato, offriva agli altri popoli cattolici garanzie che non compromettessero la nostra dignità. Questo programma era nel suo tempo cosí difficile e radicale che l'aver trovato le forze per sostenerlo è una delle prove piú decisive che abbia dato il ministro della sua genialità. Ma l'atteggiamento stesso di conciliazione di Cavour presupponeva il formarsi di una corrente di pensiero che osasse in sede filosofica dar battaglia e sconfiggere coi mezzi della dialettica un'ideologia di cui si veniva in sede politica preparando la liquidazione a lunga scadenza. La critica del Bertini costituiva dunque un'anticipazione della cultura, chiariva le premesse ideali, salvava la dignità della logica dai pericoli dell'intrigo. In altri termini, al rischio della diplomazia doveva corrispondere una difesa preventiva, senza sfumature e senza riserve, di una parte almeno dell'opinione pubblica: se l'eresia veniva a patto col dogma non poteva però lasciar supporre corrotta la propria natura ideale. Soltanto cosí l'equivoco del Passaglia si sarebbe risolto a tutto suo danno, e la rivoluzione italiana avrebbe salvato il suo contenuto.

8. Nel processo del pensiero bertiniano la negazione dello Stato cattolico, platonico, assoluto si deve svolgere sino a diventare negazione del sistema gnoseologico cattolico e del concetto di Dio quale è dato dalla Chiesa. Il corso di questo processo si segue agevolmente dal '60 al '70. Il Bertini tenta di costruire in questo tempo la nuova logica che possa giustificare la sua metafisica.

Nel '66 ripetendo agli allievi la prolusione sulla Storia della Filosofia pronunciata nel '47, ne corregge la sostanza, afferma senza incertezze il proprio razionalismo, evita ogni confessione di teismo, rinuncia all'antico dilemma tra teismo e nullismo e attenua la critica panteistica che dominava nella prima edizione.

Nella Storia critica delle prove metafisiche di una realtà soprasensibile, esposti e discussi accuratamente gli argomenti metafisici da Senofane al Gioberti, si accettano come valide alcune proposizioni non interamente contrarie allo spirito della vecchia metafisica, ma costituenti in un certo senso la mediazione tra la vecchia e la nuova.

Il Bertini respinge il teismo mistico, accettando dal Leibniz il sistema delle monadi come moltitudine infinita di enti pensanti (e perciò esistenti spiritualmente, realmente, assolutamente) capaci di rappresentarsi in qualche modo l'universo e perciò partecipi nell'infinità propria della infinità degli altri. Invece elimina dopo profondo ripensamento i due concetti leibniziani di creazione e di annientamento, ritenendo che provengano «da pregiudizi invincibili o da ripugnanza a mettersi in aperta contraddizione colle credenze comuni troppo rispettabili per un uomo il quale, come Leibniz, recava nella trattazione delle questioni religiose e filosofiche la destrezza del diplomatico, il senso pratico dell'uomo di mondo e nutriva nel fondo dell'anima qualche speranza che la sua filosofia potesse esercitare un'influenza riformatrice sugli uomini del suo tempo».

Ora credo anch'io, col Gentile, che sia arbitraria questa interpretazione di Leibniz e che veramente i concetti di creazione e di annientamento nel sistema leibniziano abbiano l'essenziale funzione di ridurre il mondo all'unità vivente di un Dio operante. Ma qui non è il luogo per interpretare Leibniz, mentre il Bertini vuol sostituire al mondo di Leibniz che è ancora qualcosa di immediato e di naturale il suo mondo di razionalità e di riflessione. Egli è dunque al di là del teismo anche se per ora non ne esclude esplicitamente il concetto: nel suo sistema Dio non sta piú a far nulla. La sua funzione sarebbe di predominare, di comprendere nella sua intelligenza la pluralità infinita delle monadi, ma in questo senso ogni monade è Dio, se realizza, come si è detto, il concetto dell'infinito in sé ed ha la massima realtà in quanto si rappresenta l'universo (che cosa è per il Bertini rappresentarsi se non comprendere nella propria intelligenza?) E allora questo Dio non è affatto predominante, anzi non è Dio se non in quanto è monade.

Tale infatti è il pensiero intimo del Bertini che tende a negare il trascendente e a risolvere in intelligibilità il sovrintelligibile giobertiano (che resta, come disse lo Spaventa, limite insuperabile, finità dello spirito o esplicazione infinita ma non sviluppo di una essenza implicata, sostanza e non soggetto). Cerchiamone gli elementi nella polemica contro il cattolicismo e contro la filosofia della credenza. Nelle Lettere sulla Religione (1870) la conclusione fondamentale è che le proposizioni della gnosi cattolica non ritengono alcuna intrinseca credibilità, poiché la credenza è un'illusione se non si risolve nella coscienza riflessa, e la fede in un sovrintelligibile è una rinuncia dello spirito. Infine nel 1874 troviamo una discussione precisa del concetto di esistenza di Dio e, vincendo le ultime repugnanze sentimentali, il Bertini giunge a una negazione netta. La sua morale può ormai fondarsi su altre basi, anche se per ora non si chiariscono tutte le conseguenze e affiorano qua e là elementi del problema sorpassato, come il dubbio sull'immortalità dell'anima individuale. Ma importa in questo saggio soprattutto l'affermazione netta che per trovare la verità «si debba puramente e semplicemente filosofare» poiché non c'è «nell'uomo altra facoltà del vero che la ragione».

Non v'è dualismo tra fede e scienza, religione e filosofia. Qui il Bertini anticipa e conclude i motivi che saranno ripresi inorganicamente dal modernismo, come nelle Lettere sulla Religione sono anticipati gli elementi della moderna critica biblica. Dopo Gioberti e Lambruschini egli conchiude nel modo piú rigoroso il periodo eroico del modernismo italiano che doveva e poteva nascere solo nel momento in cui la creazione del nuovo Stato apriva la mente ai dualismi più pericolosi e al problema della laicità.

Come nella vita individuale il filosofo ha superato il momento religioso per trovare la sua religione nella sua filosofia, cosí nel corso della storia «la scienza diventerà un giorno la sola religione, la sola legge, la sola consolatrice degli uomini, e adempirà a questi uffici in modo ben piú compiuto, piú efficace e piú costante che non abbiano fatto infino ad ora tutte le religioni positive del mondo». Secondo questi concetti direttivi doveva esser scritto tutto un nuovo corso di filosofia, ma sventuratamente egli riuscí a pubblicarne soltanto l'introduzione, che è tra i suoi scritti piú convinti e commossi. La Logica, edita postuma dal Capello, non presenta invece soverchio interesse perché si limita a una limpida esposizione dei principi aristotelici, e, per i supremi problemi gnoseologici, su cui la logica formale si fonda, l'autore rimanda ai volumi che doveva seguire di psicologia e di metafisica.

Ma, senza fermarsi a rimpiangere e a costruire delle ipotesi, abbiamo sufficienti documenti per rafforzarci nella nostra opinione e non seguire l'errore dei critici che trattarono Bertini da neoplatonico.

Scrive il Nostro nel '74 con storica esattezza: «L'età nostra è dominata insieme da spirito di positivismo e da spirito di libertà: fa d'uopo adunque che le credenze cercate siano positive e liberali a un tempo». Dove è anticipato un mirabile inveramento e una giustificazione storica di tutta la nuova corrente di idee, di fronte alla quale impauriti si condannavano alla solitudine i vecchi spiritualisti. Sin dal 1850 il Bertini aveva professato un suo positivismo, inteso «come spirito di critica e di esattezza scientifica» anche se egli lo chiamava piú gentilmente umanismo: certo non aveva peccato di indulgenza verso la grossolana sicumera del Mamiani e dei suoi discepoli. Ma il suo positivismo non rinunciò mai alla filosofia. Poiché libertà e indipendenza, conquistate con tanto sacrificio sarebbero vane senza «un sistema di cognizioni profonde e ispiratrici di nobili sentimenti». Questo bisogno si soddisfa solo filosofando e non già ripetendo materialmente dottrine filosofiche passate, «senza darci la pena di intenderne il senso e le ragioni». «Quand'anche la vera filosofia già si trovasse al mondo o presso qualche antico o presso alcuno dei nostri contemporanei, noi non potremmo volgerla a beneficio nostro se non coll'appropriarcela intellettualmente, cioè col giungere alla nostra volta a scoprirla e riconoscerla vera filosofando con metodo ed in piena libertà di spirito. Nulla adunque ci può esimere dalla necessità di filosofare. Si tratta soltanto di opporre alle metafisiche dogmatiche e materialistiche una metafisica vera. Poiché Kant ha dimostrato che una metafisica è un bisogno naturale e ineluttabile, e che la ragione umana, per usare le parole del vecchio professore di Könisberg, mossa non da vana curiosità, ma da naturale bisogno, si eleva sempre a tali questioni a cui l'esperienza non può dare alcuna risposta». E la risposta, per il Bertini, deve darla la ragione.

Nel 1871 il Bertini esamina la filosofia di Hegel e vi ritrova il suo stesso bisogno di una metafisica dell'immanenza che abolisca ogni residuo di misticismo. E, benché in questo momento il suo pensiero non abbia la chiarezza che conquisterà nel '74, egli ci dà su Hegel una pagina critica di valore gnoseologico definitivo. È la critica di un italiano cui il cattolicismo ha appreso i valori piú sottili della personalità e le sfumature piú caratteristiche della storia. È una critica che muove dal concreto, contro lo schema, anche se risente troppo i tormenti dell'asceta e un sapore di chiuso caratteristico di chi, soffrendo la sua filosofia, ha conosciuto la morale piuttosto come incubo e coscienza di diminuzione e necessità di affetto che come superiore visione serena.

«Alle formole scolastiche dell'Eghelianismo (sic) sopravvive lo spirito, e questo spirito ve lo esprimo in due proposizioni fondamentali: l'una ontologica, la quale afferma che l'assoluto che è il proprio oggetto della filosofia non è separato dal divino, ma in questo vive e si muove e fuori di questo non sarebbe che una vana astrazione: l'altra proposizione è metodologica ed afferma che alla conoscenza certa dell'assoluto non si arriva di primo slancio per mezzo di una pretesa intuizione intellettuale, come voleva Schelling, ma sí con un metodo dialettico il quale, procedendo da qualche cosa di assolutamente necessario e non movendo un passo innanzi se non per forza di una necessità assoluta, riesca a ripensare in modo concreto e determinato quello che è dato nell'intuito come una astratta universalità.

«Questo spirito egheliano è quello che trapelando nelle dottrine religiose rende noi moderni cosí ripugnanti a quel semiantropomorfismo, per cui si considera Dio come sopra e fuori della vita dell'universo, interveniente di tratto in tratto ad interrompere il corso delle sue leggi con azione sovrannaturale e come rivelantesi ab extrinseco alla mente umana. Questo spirito è pur quello che ci rende alieni da ogni misticismo e non ci lascia prendere interesse se non all'uomo e alle cose umane. All'antico detto del comico – Homo sum; humani nihil a me alienum puto – noi potremmo sostituire quest'altro motto – Homo sum; quicquid non humanum est a me alienum puto –. A questo spirito è pur dovuto il grande interesse che hanno per noi gli studi storici. Ammesso che l'assoluto non si manifesti se non nell'uomo e nello svolgimento storico della coscienza umana, è chiaro che la massima e piú copiosa sorgente di cognizione filosofica è la storia; essa sola ci può far conoscere in modo vivo e pieno quello che vi è nella natura umana, e mostrarci in questa un riflesso della divinità.

«Gli stoici definivano la filosofia, scientia rerum divinarum et humanarum. Noi moderni dovremmo piuttosto dirla, scientia rerum divinarum in rebus humanis.

«Ma se lo spirito della filosofia egheliana vive ancora al presente e, a loro saputa od insaputa, governa le menti di coloro che pensano e cercano il vero negli svariati campi della scienza, il sistema nelle sue varie forme è caduto e la sua pretesa di costrurre a priori il mondo della natura e il corso della storia umana si è chiarita vana e ridicola».

Io confesso che sarei tentato di apporre a questa pagina, una delle piú vigorose che siano state scritte dai filosofi italiani moderni, la stessa data del saggio crociano: Ciò che è vivo e ciò che è morto in Hegel. Piú originale e piú indipendente che lo Spaventa, il Bertini riesce a intendere per primo in Italia il significato centrale di Hegel, senza ripeterlo servilmente, anzi negandone la parte caduca. Allo schematismo che vizia il sistema egheliano egli sostituisce la concretezza di esperienze del suo mondo morale. L'immanenza divina è da lui intesa con piú suggestiva verità umana, con piú complesse, anche se imprecise, risonanze affettive. Inserendosi nella speculazione italiana l'esigenza ch'egli avverte dominante è la determinazione del concetto di individuo e di personalità; perciò, pur fondandosi su una metafisica superiore a Leibniz, ne accetta l'idea di monade e professa come suo ideale l'uomo-Dio, non volontà anarchicamente tesa verso l'assoluto e l'irrazionale, ma martirio di critica che tende alla verità. In questi risultati non sarebbe ingannevole riconoscere un punto di sosta dal quale dovrà proseguire la via maestra della nostra filosofia.

9. Invece il Bertini volle legare il suo testamento alla patria e concludere con un'opera di politica, Il Vaticano e lo Stato, la sua polemica religiosa. Egli raccomanda allo Stato nella lotta contro la Chiesa un'opera che parrebbe troppo superiore ai limiti imprescindibili del liberalismo. Ma saremo piú nel vero e non avremo altra ragione di stupore intendendo quest'ultimo saggio come il libro di morale offerto non allo Stato, ma agli italiani; come quasi contemporaneamente agli italiani capaci di intendere indirizzavano Sonnino e Franchetti la loro parola d'intransigenza e di aspra negazione contro l'ottimismo conciliatorista di Padre Curci. Il Bertini, spirito religioso, può suggerire tutto un programma d'azione per vincere la religione con le sue stesse armi. Basta ch'egli si confessi. Ritornando ai motivi originari, che avevano indicato nell'Ornato l'inizio del processo laico, egli oppone ancora una volta al Sillabo lo spirito del Vangelo, al cattolicismo il cristianesimo. Rinunciando al dogma, salva la morale biblica e lo spirito di sacrificio. Anche l'eresia e il mondo moderno dovrebbero, per il Bertini, parlare il linguaggio dell'amore, e il catechismo laico potrebbe aderire ai moti e alle confidenze piú intime e feconde dello spirito. Purtroppo questo insegnamento eretico e rivoluzionario cadeva a vuoto nell'Italia inguaribilmente neoguelfa.

Torino, febbraio 1923.

RICORDI DI UN REAZIONARIO137

Si può immaginare G. B. Casoni nel secolo XIII incerto tra la tentazione di arruolarsi con Simone di Monfort per far strage di Albigesi e il prudente pensiero di vestir l'abito domenicano, dacché ai Domenicani era stata affidata l'inquisitio hereticae pravitatis. In questo dilemma si riconoscono i suoi limiti e il suo stile. Vissuto nel Risorgimento, con milizie papaline e chiostri inerti se non addirittura semiliberali, volle essere giornalista austriacante per appagare la sua sete di lotta ed ebbe l'animo di un fante crociato. Come giornalista trovò facile fortuna: la sua attività occupa tutto il secolo e non è delle piú umili; amico di Don Margotti, tenuto in considerazione da Thiers, da Montalembert e da Veuillot, prediletto da Pio IX tra gli scrittori laici del cattolicismo, incominciò redattore dell'«Osservatore Bolognese» prima del '59 e fini a dirigere l'«Osservatore Romano» e a procurare, per il suo atteggiamento battagliero, noie ininterrotte e rimostranze feroci della diplomazia internazionale presso la Segreteria vaticana. Ma questo suo essere stato cinquant'anni in campo138, all'avanguardia della reazione, a sperare l'impero di Pio IX e a vederne il tramonto, a consigliare intransigenza a Leone XIII e ad assistere il dogmatismo di Pio X, dà alla sua vita un colore d'avventura e rende singolare la sua esperienza, che dal '48 giunge sino alla preparazione della guerra europea e che egli ci ha voluto descrivere, prima di morire, in un libro di ricordi cui non si saprebbero trovare riscontri per vivacità e originalità. Ma di tanta storia che gli è passata davanti egli non ha voluto vedere che la cronaca, e nella sua fede, cosí sicura che non si indugia neanche a professarsi, ha costantemente rifiutato di prendere interesse a drammi d'idee o a incertezze di passioni che un cattolico autentico deve aver già risolti e giudicati per sempre, tranquillo che il futuro nulla possa aggiungere alla conosciuta rivelazione. Casoni ha fatto del mondo un chiostro da cui anche i fantasmi sognati e le notturne apparizioni tentatrici sono bandite e, assente il dubbio, la lotta conserva una maestà pacifica e inesorabile, e un ordine sistematico di pubblica amministrazione. Le suggestioni della lotta di idee e dei drammi cosmici derivano dalla circostanza totalmente metafisica che l'uomo lottando con gli altri lotti con se stesso e nella vittoria rechi il dono di un attimo di tregua all'autocritica dilaceratrice: invece le confessioni del nostro giornalista austriacante mancano affatto di tali dualismi dialettici e riescono l'elenco riposato di statiche affermazioni. I fatti sono seguiti con la curiosità dell'erudito, e guardati con obbiettiva indulgenza o con bonaria canzonatura anche quando un vero mortale, non cosí metafisicamente convinto di rappresentare la spada terrena dell'idea divina, troverebbe la propria contraddizione e lo scorno della sua debolezza. La narrazione procede costante su uno stesso piano, con palese indifferenza, in un tono tra scettico e dogmatico, e la sola varietà è data da una diplomatica attenzione verso le persone e da una dilettevole copia di aneddoti. Ora con tale sicumera dovrebbe contrastare il tono dimesso del ricordo personale, senonché la piú elementare malizia scopre facilmente l'equivoco per cui il Casoni parla «della sua modesta e umile persona», proprio quando non tralascia il postumo ripicco coi suoi antichi denigratori e nota con bonaria indulgenza e con estrema diligenza i proprii successi e le circostanze in cui eccelle il suo valore quasi se ne compiacesse soltanto per amore della causa. Insomma la vanità umana dello scrittore è piuttosto aiutata e nascosta che dimenticata nella rigidezza del cattolico e la presenza dei motivi dogmatici vi aggiunge anzi un tono secco e ascetico che è piuttosto originale che ingrato. Cosí anche lo stile conferma la struttura psicologica semplice e lineare dell'uomo. Sono gli elementi narrativi che alimentano la monotonia del libro, come il gusto del particolare allieta il freddo dogmatismo del pensatore; le osservazioni psicologiche nascono col tono del sarcasmo e della stroncatura, adeguate secondo un punto di vista di amministrazione e di cronaca; le definizioni risultano palesi, l'aneddoto dato come esemplificazione non disperde il processo quasi sempre dichiarativo del periodare, il tono dell'apologia e della polemica è vivace, senza sottintesi e senza sfumature. L'uomo è tutto di un pezzo, il libro non può avere altri pregi fuor della accuratezza per cui la fotografia riesce incisiva; dove si mettono in scena altre persone manca l'interesse fantastico per una ricostruzione drammatica, ma il ricordo o il dialogo, ingenuamente immediato, non appaiono meno suggestivi.

Si legga questo ritratto di Minghetti che non è meno preciso di quello scritto da Petruccelli Della Gattina ed ha i pregi della passione da cui è dettato

«Se Marco Minghetti fosse sempre stato alla opposizione, e non fosse mai stato ministro, avrebbe davvero immortalato il suo nome, poiché, come ha detto Emilio Castelar, sul banco del deputato si veggono le cose diversamente da quelle che si veggono nello scanno del ministro.

«Colla copia delle sue cognizioni, colla facilità della sua parola, colla gentilezza dei suoi modi, Marco Minghetti, sarebbe stato un capo d'opposizione rispettato e temuto e avrebbe potuto essere non poche volte il padrone della situazione e l'arbitro dei destini di qualche ministero.

«Ma egli volle essere ministro e anche presidente del Consiglio dei ministri. Se sempre dimostrò profondità d'ingegno e vastità di cultura, non si dimostrò fornito di quel tatto pratico e di quel criterio politico, che, piú che l'ingegno e la dottrina, formano i veri uomini di Stato.

«Del resto egli aveva intravveduto la sua potenzialità intellettuale e politica, poiché sarebbesi appagato di essere uomo di consiglio e uomo di cattedra» (pp. 27-28).

Invece la passione non gli fa velo nel giudicare Cantú, per il quale egli ci offre invero un modello di arguzia psicologica e di placida canzonatura:

«Secondo me, Cesare Cantú ha compiuto un lavoro colossale e ardito colla sua Storia Universale per quanto siasi detto che essa non è che un raffazzonamento di fatti e di documenti piú che una ragionata coordinazione degli eventi e delle loro cause.

«Ma bisogna, secondo il mio debole avviso, considerare che egli fu primo nel concepire e nell'effettuare sí ardita impresa, come è da considerare che Cantú cominciò a scrivere troppo presto, cominciò a diciotto anni e quindi non ebbe il tempo di pensare.

«Fu scrittore, ma non fu pensatore» (p. 90).

Ma le pagine piú suggestive del Casoni sono per certo quelle che nel 1907 egli scriveva sulla rivoluzione italiana del Risorgimento. Come il combattente non s'è placato, lo storico non vuol vedere piú in là di ciò che ha giudicato come testimonio e rifiuta un avvenire che non riporti al mondo tramontato. La storia che diverge dalla linea maestra della tradizione pontificia è stratagemma provvisorio di eretici e truffa di diavoli. Casoni non ha bisogno di fare il processo alla rivoluzione, gli basta vederla nel modo piú dilettevole frantumarsi in aneddoti.

Perché caddero i Borboni?

«Il regname delle Due Sicilie dava ogni anno al Papa una chinea in segno di suo vassallaggio e di riconoscimento dell'alta sovranità della Santa Sede sopra il Regno di Napoli.

«Quando Pio IX esulò a Gaeta, e fu accolto con tanto onore dal Re Ferdinando II, questi domandò al Papa di volere liberare il suo regno da tale prestazione.

«— Come si fa a dire di no, – rispose calmo, ma impensierito, Pio IX.

«Il Regno delle Due Sicilie da allora in poi non diede piú la chinea al Papa, e fu libero da ogni subordinazione al medesimo. In cambio dovette però fra breve il Re Ferdinando dare il Regno alla rivoluzione, e perduta la vita per un delitto perdeva il trono pel giovane suo figlio e per l'intera sua famiglia.

«Ciò che è del Papa è di Dio e ciò che non si dà o si toglie al Papa, non si dà o si toglie a Dio» (p. 93).

Qui la morale non è sovrapposta aridamente, ma nasce spontanea coll'aneddoto stesso ed ha tutte le suggestioni dell'ingenuità. Come si spiega il successo dei Mille? C'è anche per questo la favoletta piú convincente:

«L'antico esercito napoletano si sfasciò in breve, parte tradito dai generali e parte sbandato per mancanza di ordini e di duci. A ciò contribuí piú l'oro che il ferro, ossia poterono assai i biglietti di banca piú che l'onore e il giuramento di parecchi capi dell'esercito delle Due Sicilie.

«Fra l'altro si raccontò subito che il generale Lanzo, comandante delle forze borboniche a Palermo, cedé la piazza a Garibaldi per dugentocinquantamila lire, ma si aggiunse ancora, e non fu mai smentito, che i biglietti di banca, dati al generale fedifrago, erano tutti falsi».

Cosí con Garibaldi il Casoni non vuole riconciliarsi a nessun costo e la ferocia con cui lo ricorda a venticinque anni di distanza dalla morte è addirittura drammatica. Non può avere rispetto, non odio per i nemici della Chiesa, e mostra molto piú ragionevolmente e freddamente disprezzo:

«Il grido emesso da Garibaldi Roma o morte fu soffocato ad Aspromonte, e fu per un momento ripetuto prima di Mentana poiché a Mentana l'eroe dei due mondi non si trovò presente al combattimento, come non si trovò a Castelfidardo il generale Cialdini, ad onta che fosse poi chiamato l'eroe di Castelfidardo, pomposo titolo da lui meritato come Garibaldi poteva meritare quello di eroe di Mentana, per avere questi due eroi brillato per la loro assenza dai luoghi della lotta e nell'ora della battaglia» (p. 91).

Del governo italiano tenuto in Bologna dopo il '59 parla cosí:

«I nuovi venuti fecero tosto comprendere quello che era per essi l'abolizione della tirannide papale e l'intronizzazione della libertà liberale.

«Dico libertà liberale, perché essa è ben diversa dalla libertà naturale, essendo che pel liberalismo la libertà è un mezzo. Non è uno scopo, ed è un diritto pei liberali, mentre è una parola pei non liberali. D'altronde era molto tempo che in Bologna non erasi goduta quella libertà che per secoli godettero i vecchi bolognesi, mentre poi era stata fino allora amplissima la libertà di dir male dei preti, del Papa, e del suo governo» (p. 53).

Diremmo che in questi anacronismi si nascondano i piú piacevoli esempi di stile: certo un semplificatore formidabile e dignitoso come Casoni non è sorpresa di tutti i giorni e chi volesse opporgli la propria ironia urterebbe invano contro la sua impassibilità. Del resto nei suoi piani d'azione c'è qualcosa di piú che l'applicazione della morale alla politica: nella lotta contro il nuovo governo ha la sua parte anche la diplomazia:

«Noi vedevamo che con l'astensione dall'azione governativa si sottraeva alla rivoluzione dominante la forza morale e la cooperazione materiale di non pochi milioni di cittadini italiani» (p. 179).

Gioverà chiudere questi cenni di presentazione con un esempio di perfetto ragionamento logico per cui il Casoni ferma decisamente il suo edificio intellettuale e si giustifica quasi commossamente come italiano e come uomo oltreché come cattolico:

«Il non expedit è stato per molto tempo la base d'operazione, come diceva un dotto prelato, del movimento cattolico in Italia, il quale non poteva avere, quasi sto per dire, quella libertà d'azione e quella vastità di espansione, che ha e può dare in altre nazioni e in altri paesi, essendoché, trovandosi in Italia la sede del Papato Romano e il centro della Cattolica Chiesa, non si possono mai disgiungere le condizioni politiche e sociali dell'Italia da quelle del Papato, istituzione mondiale e cosmopolita, che ha diritti, doveri, interessi, ideali e finalità che si stendono pel mondo intero e che hanno per oggetto l'intera umanità.

«Ecco perché noi sostenevamo fin dal principio della nostra resistenza e della nostra lotta che la libertà civile e l'indipendenza politica e l'unità nazionale dell'Italia non poteva essere disgiunta dalla libertà effettiva, dall'indipendenza assoluta e dall'unità morale della Chiesa e del Papato. Ecco perché noi, in base alla storia della Chiesa e dell'Italia fissammo per condizione fondamentale del nostro movimento cattolico italiano questa grande e incontrovertibile verità storica: "Il Papa è non solamente il capo spirituale dell'Italia, ma ne è ben anche il capo politico". Non vi fu mai infatti nessun assetto politico e sociale dell'Italia senza l'intervento del Papa: basta ricordare la grande epoca dei Comuni italiani.

«Questi furono l'opera meravigliosa dei Papi, che fece godere all'Italia quella libertà civile, quella grandezza nazionale e quell'agiatezza economica, che tutte le altre nazioni civili non hanno avuto che dopo parecchi secoli.

«In ciò stava la ragione storica della nostra divisa cattolici e italiani» (p. 182).

Se anche questo pensiero è un sogno, si deve riconoscere che il Casoni rimase fedele e coerente al suo sogno per tutta la vita, inesorabile di fronte ai carbonari come di fronte ai questurini139.

UN PRUSSIANO TRA I BRIGANTI140

Pasquale Turiello è il professore che ha cercato il suo ideale nella caserma. Cosí il suo stile è talora ferrigno, violento, impettito, preoccupato di cose piú che di persone e altrove maestoso, accademico, monotono, pedagogico.

L'ideale del professore Turiello è l'ordine tranquillo e definitivo; la fede di Turiello militare è la rigorosa disciplina. Ai suoi gusti spartani la cultura richiama subito il modello severo e consolante di Roma. Mettete l'uomo nel mondo di Depretis e siamo in pieno dramma.

In uno scrittore fiducioso nei propri studi e nell'importanza delle tradizioni avite i motivi piú drammatici sembrerebbero nascere necessariamente dall'ispirazione letteraria e ripetere il destino dell'isolamento incompreso in mezzo all'ignoranza. Infatti Turiello usa ogni cautela e mette le mani avanti già a partire dal metodo. Scetticismo verso gli atteggiamenti dottrinari. Metodo sperimentale in politica: conoscere e poi provvedere. Il primo volume della sua opera (Governo e governati in Italia) contiene i fatti; il secondo le proposte.

Ma di positivismo sperimentale non c'è che il metodo. Le aspirazioni sono a un rinnovamento nazionale in senso eroico, tradizionale, spiritualistico. La diagnosi dei mali e dei rimedi rivela l'umanista, o diciamo pure l'educatore, con l'idea fissa di riformare i caratteri attraverso la scuola spartanamente intesa come collegio. Conforta il programma con un'osservazione pittoresca di crudele ironia: nelle regioni meridionali la scuola ha l'efficacia educativa che spetta nel Nord all'asprezza del clima e alle difficoltà quotidiane della vita; bisogna che l'Italia impari nel collegio la sua disciplina.

Orizzonti chiusi: nulla di moderno. Crediamo di sapere che l'educazione si svolge fuori della scuola, che la fibra dei popoli si forma nella lotta, nella libertà; Turiello ci oppone una fredda diffidenza pregiudiziale, un cinismo retrivo. Quest'uomo è fuori dallo spirito della rivoluzione francese e del Risorgimento e condanna come dottrinale tutto il secolo XIX colpevole d'aver favorita, migliorando le condizioni della plebe, la demagogia e la decadenza dei costumi (arte immorale, femminismo, vincoli famigliari diminuiti).

Questi spunti, come la filosofia autoritaria che ne deriva, parrebbero di grande attualità e quasi anticipazioni di teorie facilmente riprese quarant'anni dopo come originali: senonché rimanendo in siffatto terreno di analogie il nostro discorso sarebbe tuttavia generico.

La psicologia ci serba sorprese piú seducenti. Bisogna vedere lo scrittore inteso a esprimere un'esperienza tutta sua, vicina, regionale. Turiello napoletano, ma senza nulla di morbido; anzi piuttosto saraceno, tutto felice di accentuare un'antitesi che riesca una frustata per la razza degenere. Talvolta provinciale, con la sicumera, il semplicismo, il gusto per lo schema proprio del giurista: fiducia nelle leggi, disgusto per il popolo e per la sua pigrizia. Questo distacco del pedagogo dai selvaggi del borgo natio si venne facendo con gli anni piú acerbo ed esclusivo.

Col realismo attenuato di un professore di storia vede il Sud travagliato nei suoi vizi borbonici, senza possibilità di salvazione fuori di un regime che stia tra l'austriaco e il prussiano. Del Risorgimento tiene l'effetto: l'organismo statale che ha bisogno di essere rafforzato; l'esercito piemontese è ancora un ideale valido se si deve istituire un dispotismo illuminato. Meglio Cavour che Garibaldi; meglio gli eserciti nazionali che i volontari: il lealismo monarchico aveva sperimentati troppi pericoli nell'avventura del '60. Turiello ha il senso dell'autorità come tutti i solitari, non il senso dell'azione. Vede il monarca, rivestito delle sue attribuzioni: austero e benigno. La politica nasce dall'alto. Le manifestazioni di libertà sono disordine. La pratica borbonica gli suggerisce l'immagine dei custodi per definire la funzione dei governanti. La lotta politica deve essere soppressa dall'amministrazione.

Brigantaggio, camorra, mafia, bagarinaggio sono la realtà osservata dallo scrittore; realtà preliberale, segno di inquietudine e d'individualismo. La sola esperienza di lotta politica nel Sud è data dal contrasto delle clientele. Le divisioni e le battaglie sono feroci intorno alle attribuzioni e alle rivendicazioni di terre comunali. Mentre la plebe si abbandona al brigantaggio, la borghesia, abile nel manovrare gli strumenti offerti dalle istituzioni liberali, si trasforma rapidamente in oligarchia e s'accaparra i vantaggi del governo di Destra come di quello di Sinistra. Il problema meridionale non è dunque nella povertà della terra o nell'ozio degli abitanti: è un problema di governo.

Per il Turiello solo nell'Italia settentrionale possono avere importanza dominante le iniziative individuali, invece nel Sud per lo spirito dei popoli i grandi risultati si conseguono con la prepotente autorità dello Stato e dei suoi rettori: la vita sociale coincide con la legislazione.

Questo palesemente è risolvere il problema negandolo: come se in tutti i tempi l'auto-governo non fosse la migliore scuola dei popoli. L'individualismo e la libertà si guariscono con la libertà e l'individualismo. Invece Turiello si adatta a considerare impropri al clima italiano i governi democratici.

Vuole un socialismo patriarcale, che abbia per caposaldi la scuola e l'esercito, la burocrazia e la beneficenza. Misura del regime la giustizia, non la libertà: questa sostituzione ci dichiara le intenzioni dispotiche e retrive. L'economia di Turiello, messo da parte il liberismo, ignora le esigenze del bilancio e del risparmio, dell'industria e del capitalismo; e riduce il problema meridionale, in omaggio al buon accordo e alla felicità dei cittadini, a un problema di opere pubbliche.

Da queste premesse all'elogio franco e totale della burocrazia il cammino è puramente deduttivo. Qui si svelano gli istinti piú franchi e quasi uno spirito di difesa di classe. I ceti sociali, a cui apparteneva Turiello, portavano alla nuova Italia doti di severità e di lealismo : borghesia borbonica che s'era battuta al Volturno nelle file di Garibaldi, per salvare il Sud dal dittatore e riguadagnarsi un re vero.

Per la borghesia napoletana, cresciuta col senso dell'onore pubblico e privato, con un rispetto religioso per l'impiego, il Piemonte era il vagheggiato ideale prussiano: culto dell'esercito e del pubblico ufficiale. Accettava l'unità come affermazione dell'ordine (fosse pure il carabiniere) contro il brigantaggio del popolino che era diventato strumento e sistema di governo, ultimo ripiego contro le riforme. In queste condizioni di anarchia già si vedeva che la nuova classe dirigente si sarebbe venuta formando parassitariamente, lusingando i ribelli e combattendo le tradizioni, facendo pagare ai conservatori le spese della demagogia. I ceti borghesi napoletani, che in Turiello trovano lo scrittore della loro disperazione, chiedevano al Piemonte una tirannide per difendersi contro avvocati e tribuni che stavano ereditando dai cortigiani il dominio delle folle.

Vige in questi conservatori il concetto della carica pubblica come onore; il disprezzo per le indennità e gli stipendi. Alle pretese dei consigli comunali oppongono fieramente che l'autorità viene dal re. Nel senatore onorano il sacerdote infallibile della grazia regale. La cultura umanistica, col gagliardo disinteresse che la distingue, è ritenuta ancora una preparazione indispensabile al reggimento dei popoli. Alla licenza dei costumi unico rimedio pare il ritorno alla severità e alla concezione classica della giustizia; la pena sia l'affermazione dello Stato; la pena di morte si ristabilisca come segno di forza, di autorità, di austerità.

Da questa passione ci attenderemmo concezioni piú vive: idee più coraggiose. Invece si ripetono le precauzioni del socialismo di stato tedesco, si cercano le nuove classi dirigenti nella selezione dei custodi: predomina il terrore del brigantaggio, la paura delle masse popolari.

In luogo del decentramento, rigido controllo dell'amministrazione centrale sul ceto dei governanti locali, che hanno soverchia autorità. Con argomentazione perfettamente dispotica, che ha avuto la meritata fortuna presso il piú recente dei demagoghi, Turiello protesta che il popolo non chiede e non desidera libertà, ma piuttosto protezione.

Il decentramento istituzionale è invece perfettamente consentaneo all'istinto del nostro popolo, dal quale è nato esemplarmente l'ordinamento della Chiesa, fondato piú sulle divisioni istituzionali che sulle territoriali. Le funzioni specializzate richiedono organismi capaci. La scuola decade se affidata a Comuni e province. La beneficenza retta da istituti locali diventa preda delle clientele: mentre sono i beneficiandi i migliori amministratori delle opere pie costituite in istituzione organica dal voto degli interessati.

Rimedio agli abusi sarà la giustizia amministrativa sotto le due forme di giudici indipendenti dal flutto elettorale e di controlli preventivi delle ingiustizie amministrative ed elettorali. Come trovare questi giudici indipendenti? Con onesta logica di classe Turiello li vede nei giovani laureati in legge, scelti da un consiglio di senatori, posti al nobile e gratuito ufficio di contrastare i sopraffattori locali! Le rigorose analisi dell'osservatore pessimista sono addirittura dimenticate per le consolazioni dei sogni del letterato.

Del Parlamento si constata la decadenza: la possibilità di dare un solenne giuramento senza credervi, l'ostruzionismo, il disprezzo del bene pubblico per il bene degli elettori, l'inguaribile antimilitarismo sono i malanni e il disdoro della nazione. I governi costituzionali si devono liberare dal parlamentarismo, le prerogative sovrane si riprenderanno con vantaggio del popolo. Il reazionario guarda persino senza sospetto l'ipotesi di un Parlamento di competenti. Pur che nuove e legittime gerarchie succedano all'insopportabile democrazia dell'autogoverno.

Pensando al risentimento e alle delusioni dell'orgoglio mancato in chi voleva essere a ogni costo cittadino di una grande nazione, noi ci spieghiamo questa polemica inumana contro il secolo XVIII e XIX. Freme nei documenti che abbiamo considerati l'indomabile febbre patriottica del professore di storia. Solo un letterato poteva ammirare cosí smodatamente nell'abate Vincenzo Gioberti il maggiore politico di Europa!

L'esasperazione, e la cieca fiducia, unite al pessimismo, gli suggerirono profeticamente (quarant'anni prima!) i congegni e le ideologie del perfetto regime paterno degli italiani. Giustizia contro libertà, rappresentanza degli interessi, partito unico ossia nessun partito politico, militarismo e imperialismo in programma, Chiesa cattolica corona allo stato imperiale. Con questi risultati si concorda bene il metodo di lasciare da parte l'economia per pensar solo al carattere e alla scuola spartana. Anche il presidente Mussolini giudica cosí e ha scoperto che la moderna scuola spartana è il circuito di Monza.

Ma Turiello, innocente cafone umanista, serbava un altro stile e un'altra serietà. Possedeva del suo paese una conoscenza meno dilettantesca, più accorata. Credette d'avere trovato il suo uomo in Crispi: s'inebriò di imprese coloniali, rivide Roma in Africa, la terza Italia eroica e guerresca con Barattieri per Scipione. Era uno sport accademico ma con il cuore di Catone, con un tragico fondo di eroico, con la convinzione dolorosa che gl'italiani dovessero ancora soffrire per tornare romani! Seppellendo i programmi Adua salva la passione, e noi possiamo contemplare l'austerità del suo pessimismo cordialmente, come un modello.

IL MISTICISMO DI LUIGI ORNATO141

Luigi Ornato, alfieriano di fronte alla rivoluzione francese, vichiano contro la grettezza della cultura piemontese del suo tempo, amico del Santarosa e del Balbo nel periodo di fermento rivoluzionario e di prerisorgimento, è una delle figure piú caratteristiche di romantico, cresciuto come un frutto fuori stagione in terra allobroga. La fisionomia spirituale di Ornato tra opposte esigenze e tra incertezze dell'alba di un secolo avventuroso come l'Ottocento si può riassumere in questo paradosso: cattolico e cristiano contro i sensisti, liberale contro i cattolici.

Tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, mentre l'Ornato si veniva formando alla vita degli studi, si può dire che quasi tutta l'Europa filosofica stesse subendo il kantismo, un kantismo di cui si esageravano le pretese intellettualistiche come se non fosse stato per l'appunto Kant a demolire il razionalismo dell'Aufklärung e il piú ristretto dogmatismo del wolfismo. Ora contro queste degenerazioni di schematismo intellettualista reagí quel curioso movimento di spiriti e di costumi che fu il misticismo a tinta neoplatonica, preoccupato di trovare addentellati nel Seicento francese, e di cui il massimo rappresentante è il Jacobi. Il merito dell'Ornato è di essere arrivato indipendentemente da Jacobi a questa posizione di avanguardia che preparava la reazione antirosminiana prima che nascesse Rosmini. In questo senso non si comprende la posizione di Gioberti e di G. M. Bertini nel movimento filosofico italiano se non li si ricollega all'insegnamento, che fu su di essi efficacissimo, del misticismo ornatiano.

Negando i fantasmi della ragione astratta e le pretese del criticismo, Jacobi e Ornato hanno il merito di riaffermare il problema filosofico fondamentale che non si risolve con l'astratta riflessione, ma con la vitalità concreta di tutto lo spirito. Il loro torto sta nell'essersi limitati ad affermare la comunicazione tra l'assoluto e lo spirito umano come ineffabile immediatezza che non può avere valore filosofico. Ma questa esigenza sarà soltanto risolta da Hegel.

Il misticismo di Jacobi e di Ornato è misticismo sentimentale, come quello di Pascal, ardore del cuore, come nel Rousseau. Nel loro sistema non ha posto la scienza, non ha posto il particolare. Ma tutto è illuminato e derivato dalla comunicazione tra l'individuo e l'universale. Lo spirito umano ne è fatto sacro, i valori della morale e della vita ne sono giustificati. L'aspirazione centrale mira a rendersi ragione della libertà. Il misticismo ornatiano non è dunque un ritorno alle spiritualistiche nebbie medievali, non è naturalismo platonico né dogmatismo alla Malebranche, è invece una forma vigorosa di affermazione universale che viene dopo Kant non soltanto cronologicamente, ma ne ha assimilato tutte le esigenze; alla vigilia del Risorgimento il suo sforzo centrale tende alla giustificazione dell'attività pratica. Vi si sente una ispirazione direttamente cristiana del primo cristianesimo.

Il pensiero di Ornato nacque indipendentemente da Jacobi. Platone e Rousseau sono i suoi autori. Egli si differenzia dal Jacobi nello sforzo di non separare la filosofia dal resto dell'attività spirituale, e farne anzi un centro onde tutto si avvivi. Padrone di una cultura scientifica poderosa, non la lasciava dispersa nell'empirismo ma allo studio della filosofia, come dice il Bertini, allievo suo, «riferiva tutti gli altri come mezzi al fine». E non è meno vigorosa la sua proposizione che la filosofia non consista in una «mera speculazione della mente» ma in una pratica di tutta la vita e si identifichi con la virtú. Questo concetto attinto all'antichità che l'aveva espresso piú che con vera coscienza riflessa col fervore di una passione etica (Socrate) è per la prima volta trapiantato nel mondo moderno e introduce nel misticismo sentimentale del nostro scrittore una profonda efficacia di praxis politica. In teoria egli accetta la logica della scuola scozzese per l'indagine del mondo esterno da noi percepito immediatamente nella sua oggettività, ma pone al disopra di questa immediata percezione l'intelletto, facoltà dei concetti che cerca di organizzare queste idee sensibili senza però mai trovarne l'espressione ultima, perfetta e assoluta, perché il vero è infinito e come tale inconcepibile ed ineffabile. Vani sono dunque tutti gli sforzi del formulismo per esporre le scienze more geometrico e bisogna giungere ad una affermazione chiaramente teistica, di un Dio liberamente creante! «Persuaso dell'impotenza della logica, – dice ancora il Bertini, – movente da astratte generalità a dar fondamento alle verità soprasensibili, cioè a farle accettare all'intelletto col solo mezzo del meccanismo logico, e ritenendo tuttavia che la filosofia ha per oggetto queste verità, cioè le idee di Dio, della libertà e dell'immortalità dell'anima, egli dava loro un altro fondamento ammettendo nell'uomo la ragione come cosa ben diversa dalla facoltà del raziocinio e come immediata percezione del vero e del soprasensibile, cioè di Dio, come ente vivente, libero, intelligente, morale e provvido e dell'anima come principio sostanziale libero, immortale, capace e degno di eterna felicità per via della virtú». E, come il Jacobi, anche l'Ornato non vedeva via di mezzo tra questo teismo e il nullismo.

Nella sua vita giovanile ci sono le premesse della sua esperienza mistica. Un bisogno indomabile di azione non mai soddisfatto, il sentimento ognora presente della mancanza di libertà personale staccano a poco a poco l'animo suo dalla pratica, cui s'era votato fanciullo con Balbo e Santarosa, per volgerlo alla contemplazione. Sensibile ad ogni sventura nella finezza del sentimento suo, gli pare di essere straniero fra i suoi concittadini. E si allontana dal presente e si vota al passato con accenti dolorosi: «Io mi vo' rammaricando entro me stesso e dolendomi della malignità della fortuna la quale ha pur voluto che io nascessi duemila anni troppo tardi, per lo meno». Sparisce dall'animo suo l'ingenito desiderio della gloria e viene meno ogni speranza e ogni timore. Il suo bisogno disperato di amicizia e di poesia è già la confessione trepida della sua debolezza e della sua rinuncia.

Attraverso questo processo un animo di indomite passioni giunge naturalmente all'affermazione di un trascendente. Eliminazione di tutti i sentimenti che vorrebbero disperdere la facoltà immaginativa, annientando ciò che sta alla superficie: un solo pensiero va prevalendo sugli altri, gigante, un pensiero che non è della realtà, ma deve avere tanta forza da superarla tutta per trasportarti in un mondo tuo: e quel mondo, che era l'ideale, fattosi concreto, sta ora in intima comunicazione con il tuo spirito e tu in esso ti disperdi, quasi in adorazione.

Attraverso questo movimento fantastico si genera il misticismo di Luigi Ornato. Filosofare e fantasticare ancora non si distinguono. Il cuore dà l'emozionalità sua a questo mondo, ma non ancora l'organizza. Assistiamo allo strazio di un'anima, non a un processo di riflessione: «Nessun maggior dolore che d'aver sortito un'anima cui l'operare è un bisogno e che per necessità non fa nulla». Fate che penetri in questo mondo con la maturità del ripensamento un senso di repugnanza alla troppa frammentarietà e subito l'ardore di azione si teorizza come libera volontà; il senso panico dell'infinito diventa contemplazione di Dio da cui si attinge la serenità; la filosofia primordiale del buon senso si matura in concezione purissima della morale come morale innata che si palesa direttamente nella convivenza con Dio.

La vita e il carattere di Luigi Ornato sono totalmente in questa soluzione mistica di un'alba romantica.

IL ROMANTICISMO CRISTIANO DI
DI BREME142

Tutti conoscono Pellico, e piú ancora Di Breme: «C'était un jeune homme d'une taille fort élevée, et fort maigre, souffrant déjà de la maladie de poitrine qui l'a mis au tombeau peu d'années après... Il avait beaucoup de hauteur, d'instruction et de politesse. Sa figure élancée et triste ressemblait à ces statues de marbre blanc que l'on trouve en Italie sur les tombeaux du onzième siècle. Il me semble toujours le voir montant l'immense escalier du vieux palais sombre et magnifique dont son père lui avait laissé l'usage...»

Questo ritratto, scritto da Stendhal, ci offre un Di Breme da leggenda, il cavaliere antico, la figura stilizzata del romantico aristocratico. Ludovico Di Breme fu romantico fra i primi, collaboratore e precursore del «Conciliatore», seguace del Sismondi, di Madame de Staël, di A. G. Schlegel, apostolo delle fortune del Byron in Italia. Ma il suo stile non è quello che Stendhal ci farebbe sospettare; il moralismo la vince sul gusto, l'entusiasmo sul senso dell'arte; piú che un sistema d'estetica si trova un fervore generico di propaganda. Avverti qualcosa di pesante e di pedante, una mancanza di riserbo e una fretta di espressione che non ti aspetteresti dal fine uomo di mondo, dall'amico della Marchionni. Il suo romanticismo riguarda il contenuto ed è un problema di civilizzazione, piú che un'esperienza artistica; presuppone sentimentalismo e polemica pratica. Scarsa novità dottrinaria v'è negli scritti, né si potrebbe propriamente parlare di filosofia: quel che c'interessa nel Di Breme, fuor della sua opera pregevole di volgarizzatore, è il caso di coscienza di un subalpino alle prese con l'arte, e di un piemontese sorpreso all'alba del Risorgimento, mentre è intento a farsi una cultura letteraria.

Ludovico Di Breme ha respirato la stessa atmosfera spirituale che descrivemmo a proposito della giovinezza di Luigi Ornato143 e il suo destino fu anche piú incompiuto e frammentario perché non trovò neanche pace in un forte sistema di misticità filosofico come il traduttore di Marco Aurelio. In fondo la sua filosofia volle sempre essere applicata e nelle sue inquietudini eretiche si sente già la retorica nebulosa e l'oratoria monotona di Gioberti tribuno.

Anzi la sua individualità è proprio in queste debolezze, in questa curiosa e alla fine poi suggestiva mescolanza di letteratura e di politica, di apostolato e di mondanità. E le sue mediocri teorie acquistano un senso nuovo guardate attraverso la luce di un dominante moralismo. «C'est par sa littérature qu'une nation naturalise chez soi le génie et la pensée de tous les temps et de tous les peuples». Il suo romanticismo viveva di questa sete di infinito, di universale, di internazionale. Dai tedeschi ha imparato il concetto di una cultura e di una letteratura mondiale che nasce direttamente dall'anima. «Onore a questa dottrina che pone il focolare delle lettere e delle arti nel centro dell'anima e riconosce nell'intelligenza umana un astro attivo e animatore, il quale presta alla natura incostante assai piú che non ne riceva». E questi accenti egli ha il merito di connettere col riconoscimento esplicito dell'originalità del Vico.

Quando parla della necessità della rigenerazione di tutta la vita italiana Ludovico Di Breme prospetta una concezione chiaramente e integralmente religiosa.

La sua filosofia pratica deve sboccare per necessità in una religione.

Insieme con l'esempio di Ornato egli è un'altra prova che il romanticismo in Italia doveva svolgersi naturalmente toccando i motivi della Riforma, e trasportando in letteratura aspirazioni religiose. Tutto il romanticismo italiano prima di Manzoni fu soprattutto cristiano.

A questa generica religiosità bisogna ridurre il significato dell'idealismo del Di Breme che reagiva contro il razionalismo e il sensismo, ma soprattutto provava insofferenza «contre les bornes étroites de la science».

Con lui – e nonostante l'entusiasmo – ricompare anche il pensiero della tolleranza quasi ad animare la polemica contro le pedanterie delle scuole, contro le ipocrisie o quasi del patriottismo nazionalistico e filisteo, contro le religioni superstiziose e meschine. A Voltaire, in tutti i modi, voleva opporre il Vangelo, non i dogmi.

Questa singolare religiosità – fra il decadente e il protestante – rimarrà affatto caratterizzata una volta detto che il Di Breme definisce l'ateismo il piú antipoetico degli stati d'animo. Bisogna professare un teismo che nasca dai moti spontanei di un animo puro, come disposizione interiore dell'anima. Qui il romanticismo s'identifica col senso intimo della divinità, colle virtú eroiche, con la poesia del cuore. Uno stato d'animo che avevamo esaminato altre volte: religiosità contro religione.

«En nous eschaussant sur des grands mots, nous croyons nous approcher mieux de la Divinité, nous appelons Dieu l'Etre des êtres, le Modérateur Suprême, le Législateur des Mondes, le Dispensateur de l'existence... Eh! sans doute, on ne sauroit jamais reconnoître assez ces attribus divins: mais il est aisé de voir que ce n'en est pas moins par une espèce d'enflure philosophique, et par effet d'une vraie petitesse d'esprit, que nous recourons souvent à ces ambitieuses périphrases et les substituons au simple et adorable nom de Dieu.

«Il est assez prouvé que dans le pur théisme, vertu ne peut guère signifier qu'une conformité des nos actions avec nos penchants, soumise à un calcul plus ou moins prudent. L'homme, lorsqu'il veut statuer des théories morales à sa portée, est reduit à devoir partir de ses inclinations, de ses prédispositions intimes. En ce genre il ne peut imaginer que d'après ce qu'il sent».

Qui si può avvertire il sottile verso per cui dalla religione dell'immediatezza, dalla religione del cuore si passa alla morale e alla politica.

«Chantons la Divinité, mais chantons-la d'amour et dans le charme d'une sincère adoration; préludons par des hymnes d'espérance à ces cantiques de bonheur, dont retentiront un jour les collines éternelles».

Di fronte a tali espansioni l'egoismo diventa le crime essentiellement anti-social.

«La vertu ne se rencontre que sur le chemin de ce renoncement à soi-même qui a pour objet l'utilité generale... le véritable heroïsme ne peut consister que dans le plus haut degré de ce mérite social. C'est donc sur cette échelle qu'il faut mesurer le grand homme».

Ecco come il romanticismo cristiano riesce a una morale della simpatia e della solidarietà in senso attivistico e ottimistico. Il patriottismo ne discende logicamente. «Et la patrie!... créons-nous-en une d'abord pour des moeurs domestiques... la politique respectera un jour cette touchante humanité des coeurs italiens; car la politique n'est puissante que des données sociales que nous lui présentons... Concitoyens! nos destinées sont notre oeuvre».

Queste parole di sapore mazziniano recano la data del 1817. Era il programma della rivoluzione che fallí nel '21144.

LE «MEMORIE» DI CESANA145

La politica dell'Austria, la Restaurazione, è valsa come reazione per educare gli italiani? In questi argomenti le storie usano comportarsi con tranquillo ottimismo: e per poco non fanno nascere il Risorgimento direttamente dal confronto con i metodi dell'Austria. Ma converrebbe guardare il problema da buoni laici, piuttosto ignoranti di miti e di Provvidenza della Storia. L'idea che la tirannide sia educativa ci repugna. La tirannide genera la ribellione romantica o l'umiliazione plebea. Se nel Risorgimento si ebbe altro, si ebbe nonostante la tirannide, per opera di ineluttabili avvenimenti europei che trascinarono anche il nostro popolo verso la vita moderna.

La reazione austriaca ha educato le generazioni che non potevano vincere nel '48. L'Austria di Giuseppe II e i re borbonici avevano avuto virtú di educatori: avevano preparato l'esercito napoleonico, un'aristocrazia militare, specialmente meridionale che l'Italia non aveva piú visto da secoli. Ma la parte migliore di questo esercito trovò la morte in campo o ritornò come straniera sotto la Restaurazione. Il tono della cultura italiana, che nel Settecento aveva un valore europeo, fu rovinato dal disordine degli anni napoleonici: il romanticismo del '21, reazione cristiana a Napoleone, era in arretrato rispetto all'illuminismo lombardo del secolo precedente; fu un prodotto delle avventure 1780-1810, anni in cui non si studia, non si lavora, si vive di imprevisti e di retorica. È questa la generazione dei padri degli eroi del Risorgimento. Una generazione che cominciò sovversiva e finí reazionaria; che fece le sue prime prove in piazza, con demagogia e leggerezza, che in Napoleone apprezzò soprattutto le qualità del capo di tutti gli arrivismi e di tutti gli spostati. Sotto l'Austria questi sindacalisti rivoluzionari trovarono la consolazione di un impiego stabile, adatto ai loro quarant'anni, e si convinsero lentamente, con l'aiuto del bastone croato, ad abbandonare i costumi del parvenu per l'ideale del servitore leale.

Sotto questa descrizione può essere compresa la maggioranza delle classi medie italiane dopo il 1815, gente saggia, che aveva messo testa a partito e non era piú disposta ad ascoltare i richiami dei romantici, delle teste calde come Santorre, Ciro Menotti, Mazzini. Cosí gli idealisti dovettero cercare le vie dell'esilio, vissero da disperati, alla giornata, afflitti dalla miseria e dai sospetti, tagliati fuori dalla vita civile. Spiriti naturalmente destinati a essere classe dirigente, crebbero nell'aria falsa delle congiure, dei progetti nebulosi, lavorando per una patria che non conoscevano, che non potevano studiare realisticamente, di cui si facevano una idealizzazione tanto necessaria quanto imprecisa e pericolosa. Ne risultarono dei poligrafi pieni di entusiasmo: ma tendenziosi nella scienza, inesperti nella politica pratica.

Chi rimase in Italia mandò i suoi figli alla scuola della Restaurazione. Per ragionare su esempi concreti, prendiamo il caso di Giuseppe Augusto Cesana, uno dei fondatori del «Pasquino», del «Fanfulla» e di dieci altri giornali del Risorgimento, il quale nelle Memorie di un giornalista ci ha lasciato un ritratto senza miti delle cose d'Italia dal 1821 al 1871.

Figlio di un moderato, moderato di istinto. Virtú fondamentale in lui: il buon senso. Sotto l'Austria, disposto a sopportare il giogo, ma addestrato dall'abitudine ad usare astuzie per eludere persecuzioni nel caso di qualche scappatella. Un patriottismo che arriva sino a tentare la lettura delle edizioni di Capolago, se la cosa si può far franca. Era logico, per le premesse che si son dette, che i milanesi preferissero sembrare spiritosi piuttosto che eroi e che l'idea di canzonare croati e tedeschi fosse più tentatrice di una congiura. Delle scuole austriache Cesana ci conferma l'idea divulgata da tutti i manuali scolastici. La scienza era in decadenza: dove avrebbe potuto l'Austria trovare dei professori seri? Anche il Piemonte non trova insegnanti prima del '40. E Francesco I aveva esposto ai professori di Pavia il suo programma: «Signori, io non desidero che mi facciate dei dotti, desidero che mi facciate dei buoni sudditi». La cosa piú interessante nella scuola del '21 erano gli scherzi tra studenti o contro i professori. Ecco, in modo assai generico, una forma di resistenza all'Austria. Resistenza inerte che s'accontentava di sfruttare gli eventi:

«Il banco della lode, – narra Cesana, – era verniciato di verde, filettato di bianco e di rosso, colori nazionali, mentre il banco dell'asino era verniciato di nero, filettato di giallo, colori dell'Austria, che già da parecchi anni aveva riacquistato il dominio della Lombardia. Evidentemente quei colori erano un avanzo dimenticato del regno napoleonico; ma l'uso al quale continuavano a servire non costituiva meno una satira atroce per i nuovi padroni».

Ma ogni pensiero di avvenire languiva: la scuola indirizzava agli impieghi, che l'Austria concedeva con una certa larghezza. Anche nell'impiegato lo spirito della caricatura si conservava, ma non era altro che una specie di resistenza passiva alla routine.

«C'erano bensí dei partiti a Milano in lotta fra loro; ma i principî che li tenevano divisi erano le gole dei cantanti e le gambe delle ballerine». Il regime paterno funzionava a dovere, con la bandiera: tutti apolitici. Le plebi rurali costituivano la base del regime; i mendicanti di città ne approfittavano; le classi medie urbane erano una minoranza condannata ad adattarsi finché non potesse contare politicamente di piú.

È chiaro che in queste condizioni non si può parlare di educazione politica. Cesana uscí dalla scuola col temperamento di un osservatore mediocre e incolto, come Pellico era uscito dal carcere stroncato. In queste generazioni, che nel '48 superarono se stesse, la capacità di reazione fu minima: l'Austria aveva umiliata la loro dignità, limitato i loro cervelli.

Portate ora Cesana in esilio a Torino. Fu miracolo se gli riuscí di trovarsi in esilio come in casa sua. Ma, in giornalismo, nessuna cultura economica, nessuna conoscenza dei problemi europei. Si doveva aiutare con la fantasia e con le barzellette. Si ebbe un giornalismo politico in tono di letteratura amena. «Il Fischietto» e «Il Pasquino» furono il modello del genere: un giornalismo di idee e di lotta politica non poteva sorgere; Cavour, Ferrara, De Sanctis tra i giornalisti si trovarono isolati. Invece che in battaglie, l'opinione pubblica era impegnata in scaramucce. Il '49 è in parte il frutto dell'immaturità della critica in un ambiente sospettoso, in cui i partiti vengono a ridursi a sètte, e la paura di spionaggi e di tradimenti è la prova di dubbi interiori non ancora elaborati.

Di questa incultura politica degli uomini che nel 1848 avevano 20, 30, 40 anni sono responsabili la dittatura e i governi paterni. Fabbricarono un'atmosfera a cui gli spiriti indomiti dovettero reagire con le fucilate: reagire con la critica, con la dignità della chiarezza politica nessuno avrebbe potuto. Meno degli altri gli italiani che avevano conosciuto da troppi secoli costrizioni e umiliazioni.

Con questo noviziato di servitú i moderati lombardi (e gli altri italiani con loro) si trovarono nel regno d'Italia come provinciali, non perfettamente convinti né consci di ciò che era successo. Il terreno non era preparato per le riforme: nessuno osava pensare ai grandi problemi dell'unità non ancora compiuta. Il progetto Minghetti sulle regioni, per esempio, fu battuto dall'indifferenza e dall'incultura di uomini che avevano bisogno di esser lasciati tranquillamente a ricordare la passata schiavitú. La neutralità dei romani nel '70 – che non seppero offrire, nemmeno con una dimostrazione contro le guardie del papa, un pretesto all'occupazione italiana – si spiega anch'essa con l'ignoranza e con l'esercizio della schiavitú.

La Destra fotografò questa debolezza: dieci uomini di genio capaci di guidare una rivoluzione come di amministrare lo Stato; gli altri, uomini mediocri, moderati per quietismo, amanti dell'ordine per stanchezza di ricordi giovanili troppo tristi.

Dopo il '70, questa classe politica rassegnò quasi spontaneamente le sue dimissioni. Aveva bisogno di allargare le sue visioni, di liberarsi del ricordo degli austriacanti, di viaggiare. Cesana, ch'era tra i giornalisti piú aperti, andò a vedere le Piramidi d'Egitto. Le descrive in uno degli ultimi capitoli delle sue memorie. La cultura di quegli spiriti non poteva essere che dilettantismo, passatempo.

Ma le colpe spirituali dei cospiratori e degli esuli risalgono ai loro persecutori.

SANTORRE DI SANTAROSA146

La cultura piemontese del primo Ottocento fu all'avanguardia della polemica contro la rivoluzione francese. Prescindendo dalla polemica dei reazionari che deriva direttamente dallo spirito dell'epoca (la Restaurazione), la posizione antifrancese di romantici e progressisti si può giustificare per due ordini di considerazioni.

I romantici capivano che le tradizioni spirituali del paese erano legate al cattolicismo: l'anticattolicismo sensista dei francesi screditava la causa della rivoluzione che per ragioni di opportunità, di adattamento e diciamo pure di razza conveniva fosse cristiana, correzione dall'interno, non distruzione, del cattolicismo.

I progressisti si trovavano sotto Vittorio Emanuele I in piena reazione col ricordo dei bei tempi di Carlo Emanuele III e di Vittorio Amedeo II, principi riformatori, che avevano cercato di fare del Piemonte uno Stato moderno. A questa decadenza non era estraneo un vero esaurimento della Casa regnante (ormai estinta nel suo primo ramo, ridotta a far succedere sul trono per quasi mezzo secolo i nipoti sempre piú indifferenti e apolitici di Carlo Emanuele III) ma la ragione apparente e in realtà l'occasione si attribuiva all'intervento francese, che di una Casa indipendente aveva fatta la schiava dell'Austria.

Santarosa sentí vivacemente questo doppio ordine di motivi alla propria condotta.

Apparteneva a una famiglia di nobiltà recente, nobiltà concessa in premio per servigi al re – il lealismo illuminato era in lui tradizionale. Il mestiere della Corte non aveva ancora corrotto le virtú di iniziativa dei Santarosa; portavano il carattere del Seicento e del Settecento, burocrazia ligia al re perché il re rappresentava lo Stato moderno anche contro la piú antica nobiltà feudale. Si trattava di una vera borghesia che aveva trovato la nobiltà attraverso gli impieghi.

L'ambizione della gloria, il senso delle virtú militari e statali erano nel sangue di questa famiglia che aveva concepito col re il grande sogno di un Piemonte capace di difendere in qualunque caso con le armi la sua indipendenza. Il ritratto che ce ne ha lasciato Cousin è il ritratto del militare piemontese. «Santarosa era sui 40 anni, di media statura, cinque piedi e due pollici circa. Grossa la testa, calva la fronte, labbra e naso fin troppo grandi; portava abitualmente gli occhiali. Nulla d'elegante nei suoi modi; un tono maschio e virile sotto forme del resto squisitamente cortesi. Era tutt'altro che bello ma il suo volto, quando s'animava, ed era sempre animato, aveva qualcosa di cosí appassionato da attrarre. Era soprattutto singolare in lui la forza fisica eccezionale. Né grande, né piccolo, né pingue né magro, era un leone per vigore ed agilità. Per poco che cessasse di contenersi il suo non era piú un camminare, ma un correre a balzi. Aveva muscoli d'acciaio e la sua mano era una morsa in cui serrava i piú robusti. L'ho visto sollevare, quasi senza sforzo, le tavole piú pesanti; era capace di sopportare le piú lunghe fatiche, e sembrava nato per le fatiche di guerra».

Tra le fatiche della guerra era vissuto ancor fanciullo accompagnando il padre nelle campagne del 1792-93 contro la Francia. Nato nel 1783 egli appartiene in modo caratteristico a quelle generazioni che l'esperienza pratica della rivoluzione francese volse a grandi sogni, togliendoli a forza alla loro vita tradizionale, senza lasciar loro il tempo di consolidare queste aspirazioni con forti studi. «Il nostro, – scrisse piú tardi il Santarosa, – è il tempo della cultura parcellare». La Restaurazione ne avrebbe fatto poi dei romantici appassionati e degli spostati.

Un regime provvido avrebbe trovato il modo di valorizzare le energie di questi uomini che certo avevano piú spirito di statisti e di amministratori che di cospiratori. Sindaco di Savigliano a ventiquattro anni, sottoprefetto di Spezia, capitano dei granatieri nella Campagna del '15, poi impiegato del ministero della Guerra, Santarosa sarebbe stato un uomo prezioso per i vecchi Savoia. Il suo lealismo era incondizionato. «L'abdicazione di Vittorio Emanuele, – scriveva egli nel '21, – fu una prima sciagura. Noi tutti lo sentimmo. Io ne piansi lacrime amare: io che alla persona del Sovrano portavo vivissimo affetto e mi pascevo della speranza che divenuto Monarca di otto milioni di Italiani mi perdonerebbe un giorno di avergli recato momentaneo dolore».

Di quest'uomo d'ordine la stupida reazione fece un sovversivo: di questo funzionario distinto che, sposatosi subito dopo la Restaurazione, avrebbe dedicato tutta la sua vita alla cosa pubblica e ad educare dei figli devoti allo Stato, fece un esule e un cavaliere errante.

Invece Santarosa non era neanche un utopista: stile e pensiero in lui si definivano in un liberalismo moderato, lungimirante, concepito come arte di governo.

Non il visionario, non l'uomo di dottrina, ma il cittadino si ribellava al regime poliziesco e alla violenza delle sètte retrive che gli ispiratori di Carlo Emanuele I avevano importato in Piemonte. In Santarosa reagiva contro questo illegalismo dominante il senso della dignità civile.

«Il nostro Governo era pienamente assoluto di diritto e di fatto. Il Piemonte è troppo progredito nella civiltà per potersi a ciò rassegnare, soprattutto dopo l'esperienza fatta dal 1814 in poi dell'impossibilità di avere almeno una buona amministrazione con un tale Governo. Se il Re si limita semplicemente a temperare la Monarchia pura con istituzioni che la ravvicinino al Governo rappresentativo senza però instaurarlo, noi saremo condotti da una tendenza irresistibile a sollecitare sempre istituzioni piú liberali: gli animi non si quieteranno; non si vedrà quanto si è ottenuto, si vedrà solo ciò che resta a conseguire. Non avremo né pace, né riposo, né felicità. Non credo che i miei concittadini abbiano invincibili preferenze per talune forme costituzionali piuttosto che per delle altre: ma sono convinto che occorrano loro delle istituzioni che assicurino la libertà individuale, la eguaglianza dei diritti civili, l'indipendenza dei Tribunali, la responsabilità dei Ministri, la libertà della tribuna e della stampa, guarentigie di tutte le altre.

«Persone eminenti del mio paese giudicano diversamente: non pongo in dubbio la loro buona fede, le accuserò solo di non conoscere le vere condizioni dello spirito pubblico, di non averle studiate, di non averne indagate le vere sorgenti, e di abbandonarsi a illusioni funeste».

Con questo sogno di uomo d'ordine e di Stato, Santarosa operò nel '21. Egli non era un rivoluzionario: se dunque peccò di ingenuità tattica converrà un'altra volta accusarne i tempi.

«Venti volte Santarosa mi protestò, – scrive il Cousin nel ritratto dedicato all'amico, – che i suoi amici e lui non avevano annodati rapporti con le società segrete se non assai tardi, all'ultima estremità, quando era ormai patente che il Governo piemontese né voleva né poteva resistere all'Austria – che un movimento militare sarebbe impotente, se non appoggiato ad un moto civile – pel quale era indispensabile il concorso delle società segrete. Egli deplorava questa necessità, e accusava l'aristocrazia, gli abbienti piemontesi d'aver rovinato il Paese e se stessi, non compiendo il loro dovere, non dando l'allarme al Re su' pericoli del Piemonte, e sforzando cosí i patrioti a ricorrere ad occulte trame. La sua lealtà ripugnava da ogni segretume e senza ch'ei mel dicesse vedevo chiaramente che il suo spirito cavalleresco provava una specie di intima vergogna d'essersi a poco a poco lasciato sospingere a quella estremità. Continuamente mi ripeteva: "Le società segrete sono la peste d'Italia; ma come farne senza, quando non abbiamo pubblicità qualsiasi, nessun mezzo legale di esprimere impunemente le nostre opinioni?" Mi raccontava che per lungo tempo s'era arrestato al pensiero di non partecipare ad alcuna società, di astenersi da ogni azione, e limitarsi a grandi pubblicazioni morali e politiche, capaci di influire sull'opinione pubblica e di rigenerare l'Italia. Era quella, com'egli chiamava, una cospirazione letteraria. Sarebbe riuscita di certo piú utile della levata di scudi del 1821. Il suo sogno era di ricominciare questa cospirazione letteraria in Francia: si consolava pensando di non aver fatto nulla per suo interesse personale, ma d'essersi unicamente preoccupato del suo Paese».

Era naturale che come teorico questo martire dell'assolutismo dovesse riuscire inferiore a se stesso. Aveva trascorsa la giovinezza in campo o nell'amministrazione pubblica, costretto a pochi studi; tagliato fuori dalla grande corrente europea di pensiero, che egli riusciva soltanto a indovinare, come lontana ispiratrice della sua azione. In Francia trovò in Montesquieu il suo autore: ma continuavano a frenarlo pregiudizi teorici di cattolicismo e di moderazione che era facile correggere in pratica, impossibile superare nel tormento della riflessione. Non si può pensare senza commozione agli abbozzi di Santarosa, ai frammenti dei suoi scritti politici, alle notizie di studi e di elaborazione che si hanno dalle sue lettere. Una personalità incompiuta per forza di eventi. Il suo pensiero doveva lottare prima di tutto contro la sua solitudine. Nessuna tradizione lo sorreggeva, gli pesava l'esilio; la mancanza di un'atmosfera di studi, l'impossibilità di ogni controllo e di ogni collaborazione davano al suo spirito le inquietudini dello spostato, dello sradicato.

Esaminando le sue ideologie bisogna tener conto di questo senso del provvisorio. Non era facile per un funzionario piemontese attaccato specialmente al senso del dovere e della dignità passare ai grandi sogni di democrazia europea.

Santarosa continuava a credere che l'opera rivoluzionaria dovesse essere compiuta da un principe, il termine sarebbe stata la Confederazione, benedetta dal papa, indipendente dall'Austria: il suo spirito civile era alfieriano e s'alimentava di leggende eroiche; poneva accanto all'indipendenza il concetto di libertà, ma lo concepiva in modo soltanto giuridico senza giungere a capire che la libertà come vera autonomia è conquistata dai popoli e non donata dai principi; ed egli rimpiangeva che nel 1733-34 Carlo Emanuele non fosse arrivato a concludere la Confederazione nazionale. Quest'assenza del pensiero di Stato, come Stato-popolare, è poi la deficienza di tutto il nostro Risorgimento fallito.

Come tutti i filosofi del romanticismo italiano, il Santarosa afferma con sicurezza che vita non vi può essere senza che sia vita religiosa, e la filosofia stessa deve avere il suo centro e il suo organismo nella religione. E religione doveva essere concretezza di valori ed esaltazione di libertà. Concetti che non si possono intendere se non si vedono nella opposizione, già indicata, al sensismo francese. Qui il Santarosa va oltre l'Alfieri. La reazione alle idee edonistiche e sensistiche del Settecento doveva condurre a un approfondimento dei valori spirituali, e l'affermazione della storia, della tradizione, contro l'enciclopedia astrattista, individualista e antistorica. Solo cosí si sarebbe compiuto il ciclo, ed esplicato tutto il senso ideale implicito nella rivoluzione francese. Ma storia e tradizione si ritrovavano nel cattolicismo, il solo sistema che potesse salvare i valori spirituali per le menti non ancora mature alla rivoluzione kantiana. Santarosa è uno degli iniziatori di questo processo che si chiarirà con la negazione del cattolicismo fatta da un punto di vista religioso. Egli è romantico in tutto il senso del concetto: spiritualista, patriota, ricercatore di storia nazionale. Ma è alla prima fase del romanticismo e perciò incapace di liberarsi delle contraddizioni sentimentali, e di prender coscienza netta delle sue intuizioni, sviluppandole. Resta un precursore. S'impiglia in una forma di necessaria aberrazione mistica, che sarà poi teorizzata dal suo profondissimo amico Luigi Ornato. E il suo misticismo (che è della tempra stessa di quello che avevano affermato Rousseau in Francia e in Germania Jacobi) dà anima e calore al suo concetto di libertà. Questa politicamente si afferma come necessità del governo popolare, realizzato in leggi alle quali il governo è sottoposto. Anzi (e qui è anticipato il pensiero neoguelfo) la religione stessa deve essere cattolica e in nome del cattolicismo bisogna compiere la rivoluzione, perché il popolo è cattolico. E tanto domina la sua mente il concetto semplicistico della identità di religione cattolica e di libertà (vero soltanto nella contingenza e necessario nel 1815 contro la Santa Alleanza), che egli non affronta neppure il problema delle relazioni tra Chiesa e Stato. Non era rimasto in lui il ricordo delle lotte giurisdizionaliste in cui i suoi padri avevano appoggiato il re contro l'invadenza di Roma.

Uno stesso contrasto domina le idee del Santarosa rispetto al problema politico immediato. Con saggezza precorritrice del Balbo (che sarà però ben altrimenti sicuro) egli ha visto che il problema centrale dell'Italia è l'indipendenza dall'Austria: perciò non si pone neanche il problema dell'unità, ma sulle orme del Napione vagheggia confederati con gli Stati del centro Napoli e i Savoia, signori del Nord. Per raggiungere questi risultati bisognava formare una classe dirigente: opera tormentosa a cui lavorarono con Santorre dal 1815 al 1821 Ornato, Balbo, Provana e altri oppositori: l'opera fu interrotta dall'esilio e ripresa poco prima del 1848. Fallita di nuovo, fu fatta dimenticare dal fenomeno Cavour, ma si ripresentò con la stessa necessità, ancora oggi insoluta, per l'eredità cavouriana. Il Santarosa vide soltanto da lontano questo grande problema: la reazione, costringendo la politica nelle posizioni pregiudiziali, facendo rinascere la lotta per le condizioni elementari, restringe per sua natura gli orizzonti spirituali, impone ai cervelli le sue misure, corrompe le idee, stronca le tradizioni. In queste condizioni salvare la propria anima, rimaner fermi alle proprie posizioni, resistere è la sola prova di nobiltà e di superiorità che si chiede alla vittima.

Certo è un'ironia che Santarosa muoia il 9 maggio 1825 per la libertà della Grecia, con perfetta ingenuità: «Sento per la Grecia un amore che ha qualche cosa di augusto: è la patria di Socrate, capisci?». Ma questa ironia della Storia si rivolge contro chi lo tradiva nel '21.

MILANO NAPOLEONICA147

Nel recente saggio dell'amico Raffaele Ciasca sull'Evoluzione economica della Lombardia dagli inizi del secolo XIX al 1850 (Milano 1924, vol. edito dalla Cassa di Risparmio, per il centenario), trovo elementi decisivi per il problema dei rapporti tra capitalismo e libertà.

Consideriamo il primo periodo: l'economia lombarda durante il dominio francese.

Nella Lombardia della fine del Settecento, tutte le riforme che potevano essere compatibili con un governo paternalista di tipo illuminista antifeudale erano state attuate. Liberazione dalla tirannia delle corporazioni d'arti e mestieri, abolizione delle manomorte, scioglimento dei fedecommessi, ecco le grandi riforme della politica giuseppina. Ne risultò un'atmosfera legale favorevole alla proprietà frazionata e mobile. I nuovi capitali della nascente borghesia s'impiegarono nelle terre: le statistiche dànno un notevole afflusso dalla città alla campagna, specialmente verso la pianura del Po.

Nelle città invece, a Bergamo e a Milano, abolita l'oppressione del regime feudale, si assiste a uno sviluppo industriale, notevole specialmente nella manifattura della seta. Ma questo sviluppo è artificiale, dovuto in gran parte alle esenzioni fiscali. Sotto il regime austriaco, che coincideva colle feste e col lusso dell'aristocrazia, uno sviluppo industriale serio non era concepibile per mancanza di capitali, maestranze e commerci mondiali.

L'Austria era ostinata nel protezionismo doganale, necessario per l'equilibrio artificiale e il paternalismo intervenzionista con cui teneva in piedi l'impero già scosso.

La nuova borghesia milanese doveva essere per reazione democratica e doveva tendere a un riordinamento politico della penisola che le aprisse i mercati della intera pianura padana.

Questi interessi nuovi affiorano infatti nel tempo della Repubblica Cisalpina; si complicano però con un altro fenomeno: l'instabilità degli affari, l'atmosfera d'avventura del dopoguerra. È nell'ambiente di libertà e di spregiudicatezza portata dai francesi che si forma, con i caratteristici sistemi che si sono esperimentati in piú alto rilievo nell'Europa del 1919, il primo capitalismo italiano. Capitalismo figlio di libertà. Milano conosce intorno al 1800 gli arricchiti di guerra, i fornitori militari, gli speculatori, i dissipatori di fortune troppo presto raggiunte. Lusso, strepitoso rialzo dei consumi, gioco degli inflazionisti, speculazioni sul cambio tra Milano e le province. Erano i miracoli ignoti dell'aumentata velocità di circolazione del capitale. Il governo francese riscuoteva nel Regno d'Italia 180 milioni di lire annue d'imposte e ne spendeva 145 in Italia per le forniture militari e per la burocrazia. Il regno dei pescicani e degli impiegati; plutocrazia e classi medie!

In questo periodo trionfano uomini nuovi, agili, intraprendenti; la Banca acquista una grande influenza sulla vita sociale; la borghesia sbalza di seggio l'aristocrazia delle feste e delle mode esotiche, impone le nuove mode della Parigi imperiale, si fa maestra di eleganza a tutte le classi sociali, conquista i poteri municipali, compra terre e palazzi dalle famiglie nobili, tagliate fuori dalla vita nuova dai loro pregiudizi e dalla loro educazione. Osti, caffettieri, pasticcieri, pizzicagnoli, s'arricchiscono sul traffico incessante portato dai militari, le modisterie guadagnano sul gusto per il lusso esteso a tutte le classi sociali. Notevole è l'incremento edilizio sia della città sia delle case private: e anche di qui derivano nuovi lavori, nuove imprese, nuove fonti d'arricchimento per i piú audaci e per i piú pronti.

Questo esperimento infernale di nascente capitalismo fu turbato da un gruppo di circostanze connesse con la situazione politica. Il nuovo clima di libertà era fittizio e un capitalismo vigoroso e costruttivo non può svolgersi se la libertà è continuamente alla mercè dell'intervento straniero.

L'industria milanese si trovò sotto la concorrenza minacciosa delle manifatture francesi: era un argomento decisivo per il miglioramento della produzione; ma presa appena questa via si ebbe la nuova politica economica di Napoleone. Il blocco continentale del 1805 portò due conseguenze disastrose. Da una parte alterò l'equilibrio economico generale, determinando un artificiale e provvisorio interesse di dedicarsi a produzioni improprie al nostro clima economico, momentaneamente redditizie per l'allontanamento dell'offerta inglese. Costosissimo diversivo! D'altra parte diede alla Francia una posizione d'assoluto privilegio. I lavori di ferro e di acciaio non si poterono piú esportare nell'Italia francese (Piemonte, Toscana, Romagna, Parma). L'industria della seta fu duramente colpita dalla concorrenza dei sistemi di vendita francesi.

Forte incremento ricevettero le industrie di guerra: ma è da vedere anche qui se l'incremento non venisse a turbare per l'appunto il normale equilibrio della produzione, alterando le iniziative naturali con diversivi incoraggiati dallo Stato.

Da tutti questi fattori di instabilità derivano infatti la depressione dei commerci e i frequenti fallimenti che caratterizzano gli ultimi anni del regno. Se si vuol continuare l'analogia accennata si pensi alla crisi di depressione del 1921 succeduta all'audacia produttiva del 1915-20.

La sola agricoltura risentí i risultati stabili, vantaggiosi, di questa enorme trasformazione di ricchezza. E anche questo fenomeno possiamo intendere meglio se lo guardiamo alla luce delle esperienze rurali della guerra e del dopoguerra, cui ci trovammo ad assistere. Una parte di nuovi ricchi si dedicò a dissodare le terre di recente acquisto, con energia singolare. Canali, risaie, praterie, sostituirono la deficiente agricoltura del feudalesimo ecclesiastico. Risale a questi anni il primo tentativo d'industrializzazione in vasta misura della pianura padana. Si pensa a migliorare il sistema delle acque: la grande proprietà s'impone nelle risaie, i piccoli contadini occupano i pascoli comunali e li sottopongono a cultura con tenacissima audacia. Il risultato di questo breve esperimento liberale è formidabile: dal 1762 al 1814 si trova un aumento reale dell'esportazione agricola lombarda del 50%.

L'opera di due lavoratori indipendenti vale in sede economica come il lavoro di tre servi.