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Piero Gobetti
Risorgimento senza eroi
e altri scritti storici
Indice generale
INDICE
Risorgimento senza eroi
Prefazione
Introduzione
IL PIEMONTE STORICO
Capitolo primo
L'ERESIA DEL RISORGIMENTO
Capitolo secondo
IL PIEMONTE NEL SETTECENTO
1. Il conte Radicati.
2. La politica dei Concordati.
3. Controenciclopedia preventiva.
4. Il «caso» Giannone.
5. Il fallimento dei moderati.
6. Il conte Vasco.
7. Alfieri.
8. Le plebi e l'economia.
9. L'ultimo del vecchio regime.
La filosofia politica di Vittorio Alfieri
Prefazione
1. Alfieri e la critica.
2. Machiavelli e il carattere della filosofia
alfieriana.
3. La gnoseologia.
4. Polemica anticattolica.
5. Polemica antimonarchica.
6. La morale e la metafisica della libertà.
7. La religione.
8. La politica.
APPENDICE Le tragedie come fonte del pensiero politico
alfieriano.
Altri scritti sul Risorgimento
LE SCUOLE DI METODO
DOMENICO BERTI, PEDAGOGISTA,
FILOSOFO E POLITICO
(
Spunti di una rivalutazione)
LA LIBERTÀ D'INSEGNAMENTO
IN PIEMONTE
LA CRISI RIVOLUZIONARIA
DELL'OTTOCENTO IN ITALIA
LA FILOSOFIA DI LUIGI ORNATO E LA CULTURA POLITICA
DELL'OTTOCENTO
LA SCUOLA IN PIEMONTE PRIMA DEL 1844
CATTANEO
IL PENSIERO E L'OPERA DI
GIOVAN MARIA BERTINI
RICORDI DI UN REAZIONARIO
UN PRUSSIANO TRA I BRIGANTI
IL MISTICISMO DI LUIGI ORNATO
IL ROMANTICISMO CRISTIANO DI
DI BREME
LE «MEMORIE» DI CESANA
SANTORRE DI SANTAROSA
MILANO NAPOLEONICA
Prefazione
Mon langage n'était pas celui d'un esclave.
Il Risorgimento italiano è ricordato nei suoi eroi. In questo libro
mi propongo di guardare il Risorgimento contro luce, nelle piú
oscure aspirazioni, nei piú insolubili problemi, nelle piú disperate
speranze: Risorgimento senza eroi.
Il dramma del Risorgimento è nei tormenti della sua preparazione e
della sua mancata preparazione. È materia per quelli che si sono
scelta la parte dei precursori, dei disperati lucidi, dei vinti che
non avranno mai torto perché nel mondo delle idee sanno far
rispettare le distanze anche ai vincitori delle sagre di ottimismo.
La storia è infallibile nel vendicare gli esuli, i profeti
disarmati, le vittime delle allucinazioni collettive. Anzi prima
della storia, questi fanatici della verità, paghi della solitudine,
sanno vendicarsi da sé.
Ho scelto per la mia storia un centro d'osservazione che mi
permettesse di vedere lontano e senza che fosse per ciò troppo
frequentato: il Piemonte. Cosí ho potuto offrire delle indagini
personali, logicamente connesse in modo che il quadro fosse completo
senza che io dovessi riassumere risultati già noti e giudizi
correnti. Dei personaggi e degli episodi piú discussi ho preferito
parlare soltanto per cenni.
L'esposizione non piacerà ai fanatici della storia fatta: essi mi
attribuiranno un umore bisbetico per rimproverarmi lacune
arbitrarie. Ma io non volevo parlare del Risorgimento che essi
volgarizzano dalle loro cattedre di apologia stipendiata del mito
ufficiale. Il mio è il Risorgimento degli eretici, non dei
professionisti.
P. G.
Introduzione
IL PIEMONTE STORICO
Carlo Felice fu l'ultimo re piemontese. Quartogenito di Vittorio
Amedeo III, educato secondo il cerimoniale spagnuolo, ma tenuto
lontano da ogni ambizione regale, poi ultimo sopravvissuto della
famiglia, governò con la maschera di freddezza e il calcolo di
astuzia di una vittima che ha ottenuto la sua rivincita quando non
la sperava piú. L'audacia battagliera dei re del Settecento si
attenua in lui per il ricordo dell'onta subita durante il periodo
napoleonico.
Nell'amletismo di Carlo Alberto c'è tutto il disorientamento della
provincia di fronte all'Europa moderna.
Dal '49 al '65 il Piemonte si sacrificò all'Italia per conquistarla.
Antepose De Sanctis, Spaventa, Mancini, Ferrara a Boncompagni,
Bertini, Balbo, Berti. Cavour conquistò l'Italia, ma gli italiani
dal '48 al '59 avevano conquistato e disindividuato il Piemonte.
Ad unità compiuta il Piemonte si trova privo delle sue
caratteristiche, proprio mentre le altre regioni le hanno
accentuate. Dopo il '61 infatti si assistette a una serie di
reazioni locali e di violento regionalismo, dal brigantaggio alla
polemica federalista, che cercarono e sfruttarono tutte le
tradizioni antiunitarie delle città e delle province. Torino invece
si dovette proporre il compito nuovo, che Milano aveva imparato
sotto l'Austria, di tenere il collegamento tra gli istinti africani
della penisola e la civiltà europea.
Se non si valuta questa crisi, non si spiega lo spirito piemontese
degli ultimi cinquant'anni. Sussiste un'eredità storica di
sentimenti e di istinti non raccolta, quasi disprezzata, che
tuttavia continua a pesare sul presente.
I valori del Piemonte di Carlo Felice erano la burocrazia e la
diplomazia; gli ideali, la vita aulica e cavalleresca. La monarchia
piemontese era stata audace e avara, gretta e avventurosa. Ma nel
vecchio regime il culto della virtú s'era conservato. È innegabile
che questi motivi serbino un fascino sugli animi dei piemontesi
contemporanei, anche se essi non rileggono piú i romanzi di Calandra
che ne sono nostalgicamente pervasi.
Del resto Settecento e Vecchio Regime rammentano caratteri della
terra ancora attuali: il culto della pratica e il disdegno per le
complicazioni psicologiche e romantiche. Il Piemonte ha sempre
risolto i suoi problemi spirituali con una formula rigorosa:
confinare le eresie all'estero (Radicati, Baretti, Alfieri) e
accettare la religione piú facile e convincente: il cattolicismo
inteso come ossequio all'autorità. I tentativi romantici del
principio del secolo scorso non ebbero consensi né tra il popolo né
tra le classi dirigenti.
L'esperimento più interessante in materia religiosa si ha da un
punto di vista strettamente politico: ed è la pratica della
tolleranza di fronte a tutte le fedi cui i principi di Savoia si
mantennero fedeli sin dal Seicento e che sboccò nella grandiosa
politica cavouriana. Ma contro chi volesse affacciare
un'interpretazione protestante di questo fatto – che infatti a primo
aspetto sembra seducente – basterebbe obbiettare il carattere
rigidamente giuridico dell'esperimento: i valdesi furono tollerati,
ma confinati nelle valli piú solitarie! E la legislazione sabauda li
proteggeva e li garantiva, purché non scendessero al piano.
Questo è lo spirito del vecchio Piemonte, scontroso e aspro come le
sue montagne, diffidente e inaccessibile, ma conciliante e tenero
verso le questioni di buon senso. Non era terreno da Riforma o da
ardori religiosi, e infatti Gioberti non vi ebbe mai – se non in
qualche allucinazione tribunizia, durata pochi giorni – la
popolarità che accendeva nel Mezzogiorno. Forse i piemontesi neppure
avrebbero capito le sue formule, se Balbo non si fosse offerto come
interprete scrupolosamente realista e nemico di utopie. Lo spirito
rappresentativo dei tempi e dei costumi era per molti aspetti Solaro
della Margherita. La filosofia importata da Rosmini non trovava
cultori degni di partecipare alla storia europea; la letteratura,
memore di Alfieri soltanto per un residuo di aspirazioni ribelli, si
diffondeva in forme di divulgazione, con tutto lo stento e il
pedagogismo impoetico che si sente nelle opere non dialettali di
Bersezio e nello stesso D'Azeglio.
Questi esempi di fallimento bastarono per distogliere i piemontesi
intelligenti dalla letteratura. La scapigliatura milanese vi trovò
seguaci di gusto come il Cagna, vivente e dimenticato. Il periodo di
fiorimento della letteratura a sfondo locale diede il frutto delle
Novelle e paesi valdostani; ma tutte le manifestazioni finivano per
dipendere dal verismo che Milano diffondeva corrompendolo con le
mediocri aspirazioni romantiche di un piccolo mondo borghese. Il
Piemonte era indifferente a questa letteratura e a questa morale e
riuscí a ironizzarle con stanchezza decadente nell'opera di Gozzano.
Il fallimento dell'eredità alfieriana non poteva essere piú
sconsolante e aveva tutto il sapore di una disfatta di isolamento
locale. Non c'era posto per innovatori. Anche Cena deve portare
lontano il suo idealismo umanitario e inquieto e lasciare il posto
al moralismo piú accomodante di Edmondo De Amicis.
E per condiscendenza naturale si lasciava la letteratura alle
scrittrici come a quelle che potevano parlare piú propriamente un
linguaggio da svagati, con risonanze e imitazioni colte da tutte le
parti in un momento storico di pausa.
Per rinascere il Piemonte cerca altre vie. Dedica il fervore
religioso di cui si era dimenticato dopo le guerre feroci dell'alto
Medioevo a costruirsi un'economia e una vita sociale autonoma.
L'eredità del liberalismo cavouriano è stata per cinquant'anni
abilità amministrativa, spirito di trasformismo, giolittismo. Senza
dubbio nella figura di Giolitti i piemontesi si erano abituati a
sentire l'istinto della razza fatto di fiducia nella forza personale
e di superiorità sulle circostanze.
Ma l'avvenire politico della regione, pur non rinnegando queste
qualità diplomatiche, è altrove. In pochi decenni di lavoro Torino
si è trasformata in un centro di grande iniziativa industriale.
Trent'anni fa era ancora il paese delle piccole e medie intraprese,
di una scarna e debole borghesia. Oggi ha creato la Fiat, un'azienda
internazionale che è stata capace di reggere alla crisi travolgente
del dopo guerra. Si potrebbero tentare analisi e riferimenti storici
piú sottili e cogliere le psicologie nuove che questa vita della
fabbrica viene determinando. Non sarà piú plebe: sarà un
proletariato fedele alla dignità del lavoro e all'umiltà del
sacrificio. Silenzio, precisione, coscienza tesa e presente sono
indispensabili in questo ritmo di vita. Il senso di tolleranza e di
interdipendenza costituirà il fondo severo di questi spiriti nuovi:
e la sofferenza contenuta dovrà alimentare, con l'esasperazione, le
virtú della lotta e l'istinto della difesa politica. Da queste
esperienze nascerà la rivoluzione spirituale di questo popolo
vissuto di rassegnazione e di mediocrità. Nel secolo scorso non
bastò la cultura a svegliarlo. Sarà l'affermazione di un
proletariato umile e trascurato, che vuol diventare democrazia
moderna, l'origine di una cultura e di una civiltà che potranno
trovare qui il loro terreno naturale. È tutto il Piemonte che oggi
lavora utilizzando le virtú pratiche tradizionali per questa
rivoluzione unitaria, per questo Risorgimento. Le glorie di Roma e
le sagre del bel Cinquecento ci commuovono meno di questa umiltà di
lavoratori. E ci sentiamo italiani e europei, e confortiamo i
trepidi dubbi nella nostra pensosa fedeltà a questo Piemonte.
Capitolo primo
L'ERESIA DEL RISORGIMENTO
Il Risorgimento italiano è un frutto originale o segue l'imitazione
francese? Nasce dal tormento teorico del Settecento o è tutto nelle
astuzie diplomatiche dell'Ottocento? Si può parlare di una
filosofia, di una verità che costituisca l'essenza del Risorgimento?
Una risposta a queste domande è data dalle ricerche che verremo qui
esponendo.
Il nostro Risorgimento ha chiesto una sanzione e un contenuto allo
spirito di lotta e di iniziativa del popolo. Solo questa
partecipazione poteva garantire l'esistenza e la circolazione (nel
noto senso paretiano) di classi dirigenti capaci di agire nello
Stato moderno. Tutto il resto è utopia o letteratura.
Nel Settecento la vecchia classe politica, aristocratica ed
ecclesiastica, pareva in Europa pressoché esaurita. In Francia e in
Inghilterra il Terzo Stato era pronto alla successione. Invece in
Italia l'economia arretrata non poteva ancora fondarsi
sull'abbondanza e sulla rapidità di circolazione del capitale
mobile, che sono necessarie per alimentare una borghesia.
Dev'essere l'iniziativa del principe a opporre tra noi le classi
popolari appena sorgenti e immature alle classi dominanti
privilegiate, il cui potere soverchio non garba al sovrano. Questa è
la diagnosi piú definitiva del fenomeno centrale del Settecento:
l'assolutismo illuminato. Ecco perché la lotta contro il feudalismo
è condotta in nome delle prerogative regie e si risolve a favore
dello Stato centralistico attraverso le riforme.
Verri e Beccaria si trovano, col paterno governo austriaco, in una
situazione di leali servitori. Filangieri costruisce nobili piani
giuridici, senza pensare alle rivoluzioni né alle forze popolari né
alla libertà. Il modello è un ideale che sta tra Montesquieu e i
costituzionalisti inglesi e non promuove rivolte contro il passato
in nome di idee nuove o di stile liberale. La mentalità prevalente è
conservatrice, con le preoccupazioni laiche e filantropiche che sono
in favore nelle Corti e sembrano utili al dispotismo. Memori che la
monarchia francese si è alleata alla Sorbonne e alla burocrazia
contro la Chiesa, i nostri riformatori vogliono una moderata
applicazione di illuminismo europeo. Però manca lo stimolo di una
critica repubblicana e rivoluzionaria.
In riassunto la politica settecentesca è fatta su questi dati:
1) una monarchia, che domina tutte le forze sebbene sia in decadenza
nel Sud, e ancora impotente, ma lungimirante e audace nel Piemonte;
2) nobili e grandi ecclesiastici: reazionari, feudali e teocratici
perciò alleati;
3) plebi assenti, escluse dalle poche industrie, condannate al
pauperismo e all'elemosina, clienti delle parrocchie;
4) la classe politica, in scarsa parte proveniente dalla borghesia
dei nuovi ricchi o dei professionisti, nella sostanza formata da
nobili, piú fedeli al principe che al feudalismo, perché educati
secondo tradizioni burocratiche o militari.
Nel Settecento l'iniziativa è del principe; nell'Ottocento passa a
questa nuova classe politica: e perciò solo nell'Ottocento si può
parlare di Risorgimento e di uomini nuovi. Gioverebbe un parallelo
D'Ormea-Cavour. Cortigiano D'Ormea, con gli espedienti dell'intrigo
e la maschera del negoziatore. Cavour temperamento europeo capace
talvolta di fondare la diplomazia sulle risorse della sincerità: lo
sguardo acuto rivolto ai fatti economici, capiti come preparazione
subacquea del fenomeno politico.
Tra D'Ormea e Cavour c'è stata la rivoluzione francese, dalla quale
il nostro Risorgimento non può e non deve prescindere anche se vi
reagí persino col misogallismo.
Alfieri fu il solo italiano che vedesse anche per noi in pieno
Settecento la possibilità di una rivoluzione dal basso in senso
unitario, condotta da aristocrazie repubblicane. Il suo pensiero è
originale e anticipa la rivoluzione francese. Egli è un riformatore:
ma le sue profezie hanno un rigore logico implacabile, mentre i
nostri patrioti furono trasformisti.
Ecco in schema una storia dell'Ottocento.
Mentre le nazioni europee si sono liberate, con le guerre di
religione, da tutte le ideologie dogmatiche, gli italiani non
possono pensare ad una riforma religiosa, impegnati come sono dalle
contingenze a distruggere il dominio territoriale dei pontefici;
volendo essere laici soprattutto nella sostanza, essi si adattarono
a professare un rispetto teorico alla Chiesa, e la attaccarono con
armi politiche invece che sul terreno dogmatico. Cosí il
Risorgimento resta cattolico, complici gli stessi eretici.
La preparazione ideale della lotta politica si esaurisce nel
romanticismo, che oppone il cristianesimo spiritualistico al
cattolicismo reazionario della Santa Alleanza.
Tuttavia questo opportunismo è machiavellico. La Chiesa ha fatto
causa comune cogli assolutismi. Le monarchie, e specialmente la
sabauda, sorprese e compromesse dai primi movimenti del secolo,
hanno ceduto il loro posto di avanguardia e seguono l'equilibrio
generale, retrive e non più progressiste. Le plebi continuano a
vivere intorno ai conventi e agli istituti di beneficenza, tutti
cattolici; e restano cattoliche per istinto, per educazione e per
interesse. L'iniziativa spetta alla nuova classe borghese che attua
con Cavour la politica antifeudale del liberalismo economico, per
potersi dedicare ai traffici, alle industrie e ai risparmi, e
formare la prima ricchezza e il primo capitale circolante in Italia.
Come potrebbe questa classe proclamare una politica anticlericale
fuorché nella questione dello Stato Pontificio? Essa si troverebbe
assolutamente isolata mentre la sua vittoria è subordinata alla
possibilità di trascinare con le astuzie diplomatiche le altre
classi, volenti o no, sulla sua via. Tutte le idee prevalenti nella
penisola son cattoliche o cristiane (Gioberti, Manzoni, Mazzini).
Solo le minoranze politiche, sicure del loro compito storico,
sentono piú forte di tutti il dovere della fedeltà allo Stato e
credono alle nuove esigenze economiche.
Il neoguelfismo è lo stratagemma per cui le masse avverse al
programma nazionale borghese sono indotte a seguire le minoranze. Il
liberalismo laico e moderato per evitare l'isolamento e per non
trovarsi nemiche nello stesso tempo le plebi e la reazione, mette
avanti idee banali e programmi di compromesso.
Cosí questa minoranza borghese riesce a conquistare la monarchia,
sempre incerta, e a servirsi del suo prestigio. Vittorio Emanuele II
crede di allargare i confini del Piemonte e serve al programma di
Cavour che gli trasforma le basi dello Stato, facendo in un regno
costituzionale un governo parlamentare. E gli storici si domandano
ancora come Cavour potesse farsi aiutare dalla borghesia francese!
È ovvio che questa classe politica non possa bandire troppo
apertamente le idee di libertà e di democrazia odiate dalle stesse
plebi borbonicamente retrive. Essa conserva il suffragio ristretto,
addomestica garibaldini e borboni con gli impieghi di Stato,
esercita una generica propaganda patriottica, facendo giuocare
l'equivoco del cattolicismo liberale. Mancavano forze e partiti
ordinati: si supplí con volontari e avventurieri. Il nebuloso
messianismo di Mazzini, l'entusiasmo di Garibaldi, l'enfasi dei
tribuni furono le forze che favorirono un equilibrio provvisorio.
Tutto questo è materia incomposta e vi affiorano i piú profondi vizi
della razza: una direzione si deve a Cavour. Egli è lo spirito
provvidenziale, l'originalità del Risorgimento.
La rivoluzione francese ha le proporzioni di un grande dramma ora
nazionale, ora europeo. È la rivendicazione di masse popolari nuove,
rivolta di popolo condotto da scelte guide borghesi contro classi in
decadenza.
Il Risorgimento italiano invece è la lotta di un uomo e di pochi
isolati contro la cattiva letteratura di un popolo dominato dalla
miseria. La storia civile della penisola pare talvolta il soliloquio
di Cavour, che da una materia ancora informe in dieci anni di
diplomazia cerca di trarre gli elementi della vita economica moderna
e i quadri dello Stato laico. In realtà, specialmente quando è solo,
Cavour ubbidisce a una segreta voce della storia e ad un oscuro
destino della razza, che sembra annunciarsi durante tutto il
Settecento in misteriosi profeti disarmati, sorpresi dalle tenebre,
appena indovinano la luce.
Capitolo secondo
IL PIEMONTE NEL SETTECENTO
1. Il conte Radicati.
La vita. Nel Settecento «i Piemontesi godevano di un dolce riposo e
di una libertà pressoché grande come quella dei fortunati popoli
della Gran Bretagna. Infatti i preti che parteggiavano per la Corte
di Roma non avevano potenza né credito e quelli che favorivano la
nostra Corte erano buone persone che odiavano a morte la gerarchia
ecclesiastica, non potendo sperare nella loro carriera un vescovado
o una ricca prebenda. Queste ottime persone predicavano sempre ed in
ogni luogo a favore del sovrano ed era loro concesso valersi del suo
favore per difendere la buona causa. Ed io, che ero fedele ed
affezionatissimo al mio sovrano, la difesi cosí bene che gli
ecclesiastici partigiani della Corte di Roma mi onorarono col titolo
di eretico perché, dicevano, io protestavo continuamente contro i
vizi e gli abusi del nostro clero. E insomma feci il mio dovere cosí
compiutamente che fui citato tre volte dinanzi all'inquisitore per
imputazioni che mi restarono sempre sconosciute; ma io me ne
vendicavo allegramente non andandoci. Cosí mi condannarono in
contumacia, attendendo tempo piú favorevole per seguire la crudele
sentenza di questo tribunale»1.
Veramente la politica ecclesiastica fu per il Piemonte del
Settecento la prima esperienza di una volontà statale moderna. Nelle
vicende di Vittorio Amedeo II, impegnato dal 1686 al 1727
ininterrottamente in lotte religiose e in conflitti di giurisdizione
con vescovi e arcivescovi del suo territorio, si scorgono tentativi
di una politica laica. Le lotte religiose erano allora piuttosto
contrasti di piccoli interessi, non sostenuti né da ideali politici
inesorabili, né da limpide visioni giuridiche; ma in questi
argomenti l'umile pratica viene sempre prima delle idee. E ci
troviamo, a secoli di distanza, a riconoscere difensori di laicità,
trascinati da una logica superiore alla loro grettezza, anche certi
buoni duchi di Savoia, voraci goditori di badie, astuti nel
contenderle alle decisioni ecclesiastiche per attribuirle a bastardi
e a favorite. Invece che di una lotta per le investiture si tratta
della piccola astuzia del duca che nutre ambizioni regali. Non si
deve dar torto al marchese D'Ormea di aver lavorato in queste
situazioni «religiose» da buon diplomatico, senza risparmiare
ipocrisie e tranelli, come se la questione fosse tutta di bilancio e
di equilibrio internazionale.
Ma sembra qualcosa piú che una curiosità storica ricordare che alla
Corte di Savoia vi fu in quegli anni accanto ai diplomatici il
teorico, accanto ai riformisti il riformatore, pronto a dare un
contenuto dottrinale alla battaglia pratica, gridando la sua
protesta.
Curiosa figura di canzonatore dell'Inquisizione, il conte Adalberto
Radicati, e non sapresti dire se piú bizzarro nella vita o più
originale negli studi!
Si nota in quest'uomo lo spirito di una nobiltà antica e inquieta,
capace non tanto di teorie quanto di fortissime reazioni critiche a
idee dominanti, inetto a soddisfare la passione innata verso la
politica per il desiderio sempre teso di avventure; cervello
anarchico e aspirazioni autoritarie, imprigionate nel lealismo piú
entusiastico. Nella vita piemontese fu il primo nobile
clamorosamente ribelle allo spirito di casta dei nobili.
L'aristocrazia rispose mettendolo al bando. Nonostante le sue
ambizioni di vita di Corte a vent'anni era già solo, perseguitato
dalla fama di intrattabile, nemico di tutti. Per l'odio altrui la
sua bizzarria s'irrobustiva. Lasciato solo, rinnegato, il suo
spirito di contraddizione parve piú acuto, piú implacabile. Perciò
interessano singolarmente la sua formazione mentale e il suo
coraggio.
La ragion di Stato gli ispirava un odio anticlericale furente e
Vittorio Amedeo ne traeva partito negli anni in cui la lotta con la
Corte di Roma era più accesa.
Chiamano un giorno d'urgenza il conte alla Reggia. «J'y allai un peu
inquiet», e vi trova in anticamera il procuratore fiscale e il
grande inquisitore che attendevano seduti vicino al fuoco: «il n'y
manquoit que le bourreau et mon affaire étoit faite». Ma il principe
«d'une maniere fort affable et gracieuse» gli conferma la sua
fiducia benché contro il conte sia stata presentata proprio in quel
momento accusa di ateismo. «C'étoit la méthode ordinaire du Clergé
de décrier par le nom odieux d'athée, tous ceux qui ne veulent pas
s'en laisser imposer en matière de foi».
« – Connoissez-vous, – me dit-il, – les droits des rois et de
l'Eglise? – Je lui repartis humblement que j'en avois fait ma
particulière étude depuis plusieurs années». E gli presenta la sua
tesi radicalissima: non si deve permettere ai sudditi di riconoscere
altro diritto che quello del loro sovrano.
« – Que deviendroit donc l'autorité de l'Eglise, – me repliqua ce
roi, – si le prince suivoit cette maxime? – Elle deviendroit, Sire,
– lui répondis-je, – une chimère telle qu'elle est». E del resto:
«Bien loin d'être divine, l'autorité du Pape, je puis prouver a
Votre Majesté qu'elle est entièrement contraire à l'esprit de
l'Evangile». Alla fine del colloquio, il principe pensa di
utilizzare queste nuove dottrine e gli dà incarico di scriverne un
libro. «Je me chargeai avec un plaisir extrême de cette commission,
me flattant de pouvoir un jour délivrer ma patrie du cruel joug des
ecclésiastiques»2.
Vittorio Amedeo II, re di maschia prepotenza e di ingegno
implacabilmente autoritario, era il solo piemontese del tempo che
potesse capire questo suo suddito: Radicati nella sua sicurezza di
visionario non seppe accorgersi che il re diplomatico lo capiva
senza rinunciare a tradirlo.
Già con le sue idee fisse il conte doveva apparire ai contemporanei
un tipo di stravagante, di inconsulto nemico del quieto vivere,
meritevole di tutte le persecuzioni. Ebbe inimicizia giurata dai
parenti. Chi piú lo praticava da vicino piú si esasperava della sua
spregiudicatezza. Egli portava il suo singolare senso di
inopportunità negli stessi affari domestici. Il suo primo matrimonio
si risolve in pettegolezzi e scandali; «due inique femine» sono per
lui la moglie e la suocera. Muore la moglie, lo accusano di
veneficio e si può salvare a stento allegando il consulto del medico
Cicognini. Piú tardi durante una peregrinazione in Francia risolve
di unirsi ad una persona che per raggione e per affetto tutta
dipendesse dai miei voleri» e porta la seconda moglie, non nobile, a
Passerano, urtando i piú rigorosi misoneismi. Quivi contraddice
clamorosamente ai nobili del suo consortile, in lotta fiera con la
plebe, predicando che «in un governo monarchico e assoluto il nobile
come il plebeo sono parimenti sudditi del principe, dimodoché il
principe deve rendere giustizia eguale al ricco come al povero, al
nobile et al contadino per farsi temere ed amare ugualmente da tutti
e potere cosí facendo mantenere sempre la sua autorità assoluta»3.
Nel tempo di queste polemiche e delle seconde nozze, non aveva
ancora passati i ventitré anni. Precoce come Vittorio Amedeo II.
Cerca nuovi nemici a Torino dimostrando ai cattolici che «la
superstiziosa venerazione e il troppo rispetto che essi avevano per
il vescovo di Roma loro facevano dimenticare quello che
legittimamente devono al loro principe». Anche secondo Cristo «tutti
i regni, tutte le province et insomma tutta la terra con le sue
ricchezze doveva essere comandata e ordinata e posseduta da
monarchi, principi o repubbliche, da tutti quelli che hanno il
maneggio del civile governo, che a loro appartiene lo stabilimento
delle leggi e di farle osservare dai popoli non solamente laici, ma
anche ecclesiastici».
Di qui minacce dell'inquisitore: vane perché egli potrebbe essere
arrestato soltanto se capitasse nel convento dei Domenicani dove è
posto il Tribunale dell'Inquisizione «di che venni avvertito,
dimodoché non capitai piú in quella Chiesa e quindi certamente
perdetti la protezione del gran Domenico e dei suoi discepoli». Gli
arrestano i Domenicani un cameriere «il quale ogni mattina udiva due
o tre Messe et pareva che si nutrisse di Avemaria e di Paternoster
perché sempre li aveva tra i denti et era delle compagnie fradelato
e arolato». Ma sperano invano che, venendo al convento per averne
spiegazione, egli cada nel tranello.
Tuttavia solo per l'ultima insidia di questa diuturna battaglia
mossagli da preti e frati gli pare di poter conoscere «la frode e
l'impossibilità che vi è di potersi fidare a coloro che militano
sotto le insegne de' frati che sono la cintola di sant'Agostino, la
corda di san Francesco e il rosario di san Domenico e un'infinità
d'altre bande dette Compagnie, tutte inventate e stabilite per cavar
denari e la divozione del popolo ignorante e superstizioso». Solo il
favore del re lo salva contro l'accusa che gli fanno gli
ecclesiastici «fra i quali vi era la stessa mia sorella monaca in
Santa Chiara di Chieri», di maltrattare la figlia e trascurarne
l'educazione. Non era vero e soltanto «non era ancora stata a
confessarsi, ma ne dilungavo il tempo espressamente per mantenerla
in quello stato innocente che fu ritrovata dal ministro di Sua
Maestà quando gliela consegnai; perché sapevo che la Confessione è
lo scoglio contro del quale fa sempre naufragio l'innocenza delle
tenere verginelle; imperocché non sapendo esse che dire è di dovere
che il confessore le interroghi e alle interrogazioni imprudenti e
ai quesiti disonesti e lascivi talvolta ignorantemente e ben spesso
maliziosamente fatti dai confessori egli è certissimo che per queste
sante strade di penitenza il vizio e la malizia s'insinuano nei
cuori innocenti».
Fu la sua ultima vittoria contro le persecuzioni4. Il marchese
D'Ormea stava preparando il concordato con la Corte di Roma, la
tregua era imminente. «Je pensais donc à me mettre à l'abri de
l'orage qui me menaçoit et pour cet effet je me refugeai en
Angleterre» (1726). Gli furono confiscati i beni (1729), poiché non
gli si poteva apprestare il rogo. I contemporanei rimasero incerti
se chiamarlo ateo o protestante o razionalista. Quale scandalo
lasciasse dietro di sé si scorge in certi Riflessi politico-morali
sopra il Manifesto del Conte Adalberto Ignazio Radicati di
Passerano, scritti probabilmente da un nobile del suo stesso casato,
conservatore e rispettoso di tutti i pregiudizi correnti, il quale
giudica la sua opera «solenne ragazzata d'un cervello capriccioso e
giovinastro, vano, bizzarro e torbido». Anche il Blondel scrive:
«Era un pazzo, un empio dichiarato, ateo in fondo»5.
I casi della sua vita lasciano indecisi anche noi se le sue fossero
convinzioni meditate o accese improvvisazioni. C'è in lui qualcosa
di troppo avventuroso. Vediamo dunque quello che ci dicono le sue
opere.
L'opera. «Au Serenissime et très puissant Prince Don Carlos Roi de
Sicile, héritier présomptif du Grand Duché de Toscane, Duc de Parme
et de Plaisance, etc., etc.» è dedicata per disperazione l'opera
compiuta da Adalberto Radicati, dopo che egli aveva tentato invano
di presentarla a Vittorio Amedeo II e a Carlo Emanuele III: la
stampò in Olanda, seconda patria di Locke e di Bayle: fioriva nella
libera Olanda l'arminianismo che aveva ereditato dai sociniani
l'idea di tolleranza6.
Già dalla dedica puoi arguire il carattere del libro nel quale
cercheresti invano lo stile teorico e le intuizioni metafisiche e
critiche predominanti negli scrittori inglesi degli stessi
argomenti. E del resto i Discours moraux, historiques et politiques,
fanno parte di una raccolta tipicamente settecentesca a cui il
Radicati ha dato il titolo quasi modesto e quasi malizioso di
Recueil de pièces curieuses sur les matières les plus intéressantes.
Chi volesse ricostruire dai dialoghi di Radicati un edificio logico,
compiuto, non comprenderebbe i veri pregi di un'opera che è tutta
scritta sotto l'incalzante necessità polemica, tra un'alternativa di
vita o di morte. Il teorico è sacrificato al combattente.
Peraltro la stessa cultura del Radicati ci può trarre in inganno. È
il primo italiano che abbia familiari scrittori come Toland,
Collins, Algernon Sydney, Bayle, Voltaire. La prontezza e la vastità
delle sue letture sono talvolta impressionanti. Soltanto sette anni
dopo che Gionata Swift aveva pubblicato la sua celebre Modesta
proposta, Radicati ne stampava, in Olanda, una traduzione francese
in uno stile impeccabilmente ironico, bene intonato a tutto il
Recueil. Scelta e traduzione ci dicono il suo gusto per gli
scrittori piccanti e per la fronda democratica.
Nato intorno al 1690, morto nel 1737, è il primo illuminista della
penisola7. Giannone, Verri, Beccaria sono anticipati. La sua
passione vive nell'atmosfera europea del libero pensiero. Sulle orme
di Locke indovina Rousseau, parlando di stato di natura e di governo
del popolo. Teorizza i governi costituzionali; riconosce
l'eguaglianza pratica delle varie forme statali (monarchia,
aristocrazia, democrazia), quando siano liberamente accettate e si
fondino sulle leggi (Discours, X, pp. 184-86). La laicità è un
risultato chiaro e definitivo del suo pensiero.
Tuttavia anche nelle piú acute disquisizioni teoriche c'è sempre un
fondo di dilettantismo. Si trovano proposizioni rigorosamente
moderne, ma non si vince il dubbio che le parole corrano oltre le
intenzioni, che la sua cultura resti vaga e indipendente dal suo
istinto e dal suo carattere. Per credergli vorremmo la costanza,
come prova di convinzioni meditate e troviamo invece segni di
mutevole esotismo. Non saremo lontani dal vero concludendo questa
circoscrizione dei suoi limiti di pensatore col segnalare come
enciclopedista piuttosto la sua curiosità che il suo pensiero. La
categoria del romanticismo, o del protoromanticismo di cui parla
Croce per l'Alfieri, aderisce meglio a questo spirito di avventura.
Cosí resterebbero senz'altro definiti certi suoi spunti di
cristianesimo ostile ai dogmi e alle intransigenze del cattolicismo,
vago cristianesimo che ricorre, durante tutto il Risorgimento, nei
nemici dell'ortodossia.
«Se Gesú Cristo ha comandato l'umiltà e la carità ed è stato umile e
caritatevole, se gli Apostoli hanno insegnato le dottrine di Gesú
Cristo e imitato il suo esempio; e i primi cristiani durante
duecento anni sono stati gli imitatori degli Apostoli, noi dobbiamo
credere positivamente che le dottrine insegnate in seguito –
assolutamente opposte a quelle di Gesú Cristo, degli Apostoli e dei
primi cristiani – e i costumi dei moderni cristiani cosí lontani da
quelli di Gesú Cristo e dei suoi primi discepoli; dobbiamo credere
positivamente, dico, che non siano piú le stesse dottrine né gli
stessi costumi, né in una parola gli stessi cristiani: quelli furono
umili e questi sono ambiziosi. Quelli furono caritatevoli e
disprezzarono le ricchezze, questi perversi e vendicativi. Dunque
bisogna chiamarli nemici di Gesú Cristo e delle sue leggi e non suoi
discepoli.
«Poiché Gesú Cristo non ha comandato nulla che sia contrario alla
giustizia e alla virtú, ma ha stabilito savie leggi e se tutti le
avessero osservate gli uomini vivrebbero pacificamente e sarebbero
felici. Ma per loro estrema sventura essi non osservarono piú le
dolci leggi di Gesú Cristo, bensí quelle dei preti suoi nemici,
leggi crudeli ed inique, che privano gli uomini della libertà data
loro dalla natura e da Cristo e li rendono miseri schiavi delle loro
ambizioni» (Discours, II, pp. 36-37)
Questa opposizione del cristianesimo al cattolicismo potrebbe
introdurci nello specifico terreno della Riforma, ma Radicati, dopo
la satira o il motto di spirito, non osa darci svolgimenti teorici.
Sfiora le piú scottanti questioni senza affrontarne né vederne i
pericoli. La sua indulgenza ai motivi voltairiani di stile è un
segno non dubbio di spirito d'avventura.
Per trovare un terreno piú solido e un interesse organicamente
centrale dobbiamo passare all'esame del diplomatico nel quale si
trovano per l'appunto i limiti della sua curiosità di sapere. Lo
spirito quasi dilettantesco dell'indagine si risolve in eclettismo e
in scetticismo verso le teorie. Senonché proprio in questa
indifferenza c'è l'astuzia del politico che abbandona le questioni
di principio per risolverle nel mondo dei fatti. Tradizione sabauda
che lo stesso Cavour riprenderà in grande stile.
In Radicati, come in tutti i preparatori del Risorgimento, le
ideologie restano precise finché si appoggiano allo Stato e al re
l'interesse teorico, l'eresia, la Riforma, non suscitano energie
pratiche.
Il pensiero di Radicati è tutto percorso da motivi eretici, ma nel
momento in cui egli potrebbe pensare ad una Riforma, le ragioni
politiche e la precisa intuizione delle condizioni sociali
piemontesi lo volgono al piú cauto concetto di un cattolicismo
schiavo del principe. La ragione di Stato è assolutamente dominante;
il libero esame serve al polemista come strumento per un fine
politico. A quale professione di fede egli volesse poi giungere con
questa pregiudiziale di libertà, non ci riesce di precisare. Anzi il
segno della natura eretica del suo pensiero sarebbe appunto in
questa rinunzia alle preoccupazioni di salvezza metafisica. In
realtà la lotta contro il potere temporale è la chiave di volta di
tutte le sue affermazioni. La libertà religiosa, la difesa della
tolleranza, la lotta contro la superstizione vi si connettono come
ideali di migliori costumi e di serietà etica.
Seguendo il metodo indicato, egli fa risalire a Gesú Cristo il
concetto di un libero pensiero nemico dell'ortodossia dogmatica e a
proposito della parabola del Samaritano osserva: «Sembra che con
questa parabola Gesú Cristo abbia voluto dichiararci che la maggior
parte dei preti furono sempre privi di carità; e ci sarebbe pure da
notare che, mentre i Giudei consideravano i Samaritani come
increduli, perché non ammettevano il Pentateuco, Gesú Cristo in
questa parabola loda il Samaritano e biasima i preti giudei; come in
un'altra giustifica il pubblicano e condanna il fariseo. Da questo
paragone vergognosissimo per i dottori della legge e per i preti
giudei, e assai glorioso per gli increduli e i peccatori, come i
Samaritani e i Pubblicani, sembra che Gesú Cristo abbia voluto farci
capire che questi uomini, detti comunemente deisti o atei, i quali
non hanno lo spirito guastato e pervertito dalla superstizione, sono
piú ricchi di carità e infinitamente migliori di quelli corrotti dai
vizi e dalle crudeltà ispirate dalle superstizioni8. Io dico deisti
e atei perché questi due nomi sono sinonimi: il nome di atei infatti
è dato abusivamente a quelli che negano le tradizioni, quasi non ci
fosse modo di riconoscere una divinità senza accettare come verità
santissima le piú assurde ed esecrabili menzogne umane come quelle
di Zoroastro, Maometto, ecc., e di tanti altri non meno assurdi e
grossolani che hanno avvelenato lo spirito degli uomini dando loro
idee ridicole, stravaganti ed empie di Dio e rendendoli piú perversi
e feroci di tutti gli animali. Ma è falso che i deisti siano atei
perché tutti quelli cosí chiamati dal popolino e dai maldicenti
ammettono una causa prima sotto vari nomi: Dio, natura, principio
eterno, movimento e anima universale; tali furono Democrito,
Epicuro, Luciano, Socrate, Anassagora, Seneca, Hobbes, Spinoza,
Vanini, Bayle, e generalmente tutti quelli che si chiamano atei
speculativi; nessuno ha mai negato una causa prima, né può negarla,
se non sia sciocco o insensato. Perciò dobbiamo dire che la parola
ateo significa deista, altrimenti non significherebbe nulla; perché
non c'è al mondo gente di questa specie, come credono gli ignoranti
o come vogliono far credere i preti quando colpiscono con questo
nome odioso, per esporli al furore insensato del popolo, quelli che
svelano le loro imposture» (Discours, I, pp. 23-25)
Non è facile trovare nel primo Settecento una pagina di critica al
cattolicismo ispirata a una cosí precisa concezione critica. Contro
le grettezze dell'ortodossia Radicati sente la superiorità generosa
del libero pensatore. Nel ritratto che egli ne traccia c'è
dell'autobiografia o almeno torna il ricordo delle sue dure
battaglie. E nelle ultime conseguenze filosofiche queste
proposizioni sembrerebbero addirittura affermare il valore della
religiosità contro le religioni positive, dominate da esigenze
pratiche non sempre purissime. In realtà poi, in tutta la polemica
contro la Chiesa attuale, il Radicati argomenta da perfetto
cristiano che all'avarizia degli ecclesiastici oppone lo spirito del
Vangelo e dei primi fedeli. Tracciando la storia della decadenza del
cattolicismo, si direbbe che abbia innanzi un grande sogno di
democrazia evangelica e patriarcale. Cosí in un altro scritto, finta
traduzione da Lucio Sempronio, Nazarenus et Lycurgos mis en
parallèle, balena il concetto del Nazareno fondatore di perfetta
democrazia.
«La costruzione dei tempii e la nomina dei Vescovi sono l'origine di
tutti i mali che ha sofferto la religione cristiana; perché la
superstizione dei fedeli arricchí i tempii e rese ambiziosi i
Vescovi che ne avevano cura» (Discours, IV, p. 6r). «Questo fu per
due provvedimenti che gli Apostoli presero secondo un giusto
disegno, senza pensare alle cattive conseguenze che se ne sarebbero
avute. Il primo fu di lasciare i Vescovi per tutta la vita nel loro
ufficio; il secondo di destinare i religiosi all'amministrazione del
potere temporale. Infatti, per quanto i Vescovi non avessero alcuna
autorità sui fedeli, tuttavia essi ne erano rispettati tanto che li
rendevano in qualche modo loro dipendenti, almeno per le cose
spirituali e questa dipendenza, se fu insufficiente nei primi tempi
a suscitare l'ambizione dei buoni Vescovi dotati di quasi tutte le
virtú cristiane, accrescendosi doveva inevitabilmente convertirsi in
obbedienza; abituare a poco a poco i Vescovi a comandare, i fedeli a
obbedire; e cosí insensibilmente rendere i Vescovi signori e padroni
dei fedeli come è successo alla fine» (ibid., pp. 62-63).
«Gli uomini essendo portati naturalmente a soddisfare i loro
istinti, era certo che i religiosi i quali ne avevano tutti i mezzi,
dovessero finalmente cedere a questa tentazione continua di
impadronirsi dei beni comuni per accontentare le loro cupidigie. Per
questo gli Apostoli non avevano voluto esercitare il potere
temporale, perché temevano di essere sedotti dalle ricchezze troppo
vicine; tanto piú che essi avevano davanti agli occhi il triste
esempio di Giuda loro confratello, il quale incaricato da Gesú
Cristo di ricevere le elemosine, diventò cosí avido del danaro da
biasimare la sorella di Lazzaro perché non aveva venduto l'unguento
che aveva servito per la testa e per i piedi di Gesú Cristo; mentre
avrebbe potuto distribuirne il ricavo ai poveri. Non già che gli
stesse tanto a cuore il loro interesse, come molto bene nota
l'Evangelista, ma disse ciò perché era estremamente avaro e
desiderava che Maria, venduto l'unguento, ne presentasse a Gesú
Cristo il prezzo, perché egli l'avrebbe ricevuto come suo
tesoriere... Questo esecrabile attaccamento alle ricchezze che portò
l'Apostolo al piú orribile dei delitti, produsse in seguito la
corruzione dei suoi successori9, ossia di quelli a cui furono
confidati i beni dei fedeli perché si distribuissero a ciascuno
secondo i suoi bisogni. Ma il piú grave è che gli Apostoli
istituirono i Diaconi affinché i Ministri del Vangelo non si
occupassero mai delle cose di questo mondo e tuttavia presto i
Vescovi hanno abbandonato lo spirituale per dedicarsi al temporale.
Ed ecco come. Dopo la morte di Gesú Cristo, gli Apostoli
continuarono ad essere nella Chiesa di Gerusalemme i depositari del
denaro dei fedeli e il fondo era costituito dalle offerte dei nuovi
convertiti. Sicché i beni della Chiesa non erano in alcun modo
distinti da quelli di ciascun fedele, come si può vedere ancora in
taluni conventi di monaci dove si continuano ad osservare questi
comandamenti. Nei primi tempi i cristiani destinavano con gran
fervore i loro beni alle elemosine per il pregiudizio diffuso che il
mondo era prossimo alla fine: cosí le offerte crescevano di giorno
in giorno. E il gran precetto di Gesú Cristo che non ammetteva la
proprietà dei beni fu seguito nella Chiesa di Gerusalemme, ma non
nelle altre; anzi non fu conservato a lungo neanche in quella di
Gerusalemme» (Discours, IV, p. 65).
«Diventate ricche le Chiese, i preti cominciarono a vivere piú
comodamente e taluni, non contentandosi del vitto quotidiano che si
riceveva in comune nella Chiesa, vollero separarsene e avere la loro
parte in denaro sonante. Il disordine non si arrestò qui: i Vescovi
divennero ambiziosi, disprezzarono e abbandonarono i poveri,
appropriandosi ciò che era loro dovuto, usurparono i beni del
pubblico e cercarono tutti i mezzi per accrescerli, infine cessarono
di insegnare la dottrina di Gesú Cristo per applicarsi a soddisfare
la loro avarizia. Si nominarono Diaconi e ricevettero essi stessi le
offerte dei fedeli, delle quali si appropriavano lasciando ai
Diaconi e agli altri preti la cura di predicare il Vangelo» (ibid.,
p. 67)
«I cristiani non avrebbero mai dovuto distinguere quegli che doveva
predicare il Vangelo con questo nome vano di Vescovo, ma avrebbero
dovuto chiamarsi tutti fratelli per obbedire al precetto di Gesú
Cristo, il quale, sapendo i cattivi effetti di siffatte distinzioni
e pensando di stabilire una perfetta democrazia, comandò
espressamente ai discepoli di non lasciarsi chiamare mai dottori e
maestri; ma che il primo tra loro fosse il servitore degli altri.
Egli sapeva che questi titoli li avrebbero elevati al disopra degli
altri uomini, e questo non deve essere permesso in un governo
popolare nel quale tutti devono essere uguali» (Discours, IV, p.
68).
La diagnosi dei mali presenti della religione cattolica è condotta
qui come semplice storia della corruzione della Chiesa, ridotta
tendenziosamente a una storia di artifizi e di menzogne. Una storia,
a dire il vero, un po' semplicista. In questo processo affiorano
motivi protestanti e razionalisti. Per esempio, si consiglia di
leggere la Scrittura, guardandosi dai commenti dei preti (Discours,
I, p. 26). Si stigmatizza la disonestà del celibato dei preti, che è
servito soltanto ad accumulare ricchezze (Discours, VIII, p. 155).
Si denuncia l'assurdità etica del compelle intrari, derivato da una
falsa interpretazione di Luca (Discours, IV, pp. 71-73). La
Confessione, il Purgatorio, le Messe e le Indulgenze, i Monaci, le
Compagnie religiose, sono tutti pericoli per la laicità dello Stato
(Discours, VIII, p. 147). Anzi, in questi casi la religione
cattolica diventa addirittura un pericolo per l'ordine sociale. «È
chiaro che la vera religione ha lo scopo di obbligare gli uomini a
reggere le inclinazioni del loro spirito con moderazione e i
desideri del corpo con temperanza. Chi agisce contro queste grandi
leggi, disonorando Dio deliberatamente, odiando il proprio fratello,
o corrompendo se stesso, è un ipocrita e un falso cristiano, perché
fa cose contrarie alle regole e repugnanti ai dogmi della sua
religione oppure falsa e corrotta è la sua stessa religione se egli
ne osserva i principi. E la religione cattolica romana è una
religione falsa e corrotta perché essa disonora Dio, mescolando
l'idolatria col culto divino e incoraggia gli uomini a corrompersi
fra loro, favorendo le tendenze e abitudini viziose; permette
inoltre di conciliare per mezzo di molteplici riti superstiziosi una
vita cattiva con la speranza della salvezza eterna» (Discours, III,
pp. 38-39).
Questa è l'affermazione teorica piú arrischiata dell'eresia di
Radicati. Dopo questa parentesi pregiudizialmente anticattolica,
egli si affretta a tornare alle sue argomentazioni pacatamente
politiche, si preoccupa di combattere questi vizi nel momento in cui
diventano pericoli sociali. Al sovrano appartiene l'autorità sia
sacra che civile. Egli deve correggere la vita degli ecclesiastici
ormai nemici dello spirito del Vangelo. A questo fine non vi è che
un mezzo: togliere le ricchezze agli ecclesiastici, non consentire
alla Chiesa libertà né immunità, limitare lo stesso potere
pontificio.
Il liberalismo di Radicati era cosí posticcio che egli conclude
tutta la sua battaglia in un programma statolatra. Qui egli è
soltanto uomo del Settecento preoccupato di dare in mano al principe
lo Stato forte, di abolire i privilegi e le iniziative che al
principe si oppongono e creano dualità di potere, conservando
funzioni giuridiche ed economiche alla Chiesa, ai Comuni, ai
feudatari. Questi poteri limitanti l'autorità del principe essendo
specialmente forti negli ecclesiastici, il Radicati presenta un
programma laico. Ma anche di fronte ai Comuni è pronto a proporre
consigli illiberali (Discours, IX). Intanto, per far prevalere i
suoi disegni, abilmente suggerisce ai principi cattolici di
appoggiarsi nella lotta contro la Chiesa ai sovrani protestanti. E
il fine dichiarato è di avere un cattolicismo sottomesso alle
esigenze di Stato. Anzi, con evidente contraddizione, ricade a
parlare di religione «dominante» (Discours, XI, p. 218). Siamo nei
limiti specifici del giurisdizionalismo. E del resto il Settecento è
destinato ad avere nel giuseppinismo il suo esperimento piú tipico
di politica ecclesiastica.
Il Radicati proclama dunque che dovrà essere il principe a disporre
di vescovadi, parrocchie e abbazie, investendone chi gli piaccia; il
numero dei monaci e dei preti dovrà essere pregiudizialmente
fissato, salvo a essere diminuito man mano; i beni ecclesiastici
diventeranno proprietà dello Stato che li assegnerà ai nobili e ai
Comuni, abolendo l'esenzione dalle imposte: sarà tolto ai preti ogni
potere né si consentirà loro di celebrare Messe a pagamento, sotto
pena di condanna per simonia. Proibizione ai Gesuiti di tenere
scuole; abolizione dell'Inquisizione, abolizione delle confraternite
e delle feste religiose. Della confessione il principe si servirà,
disciplinandola, come di una specie di istituto di propaganda tra i
sudditi; penserà il principe a mantenere i poveri a spese dello
Stato con i beni tolti alla Chiesa e a istituire scuole decorose
(Discours, XII, pp. 122 sgg.).
Lo spirito di questa lotta era di attualità, e Vittorio Amedeo II
difese contro il pontefice alcune delle riforme proposte dal
Radicati. La lotta contro i Gesuiti e contro l'Inquisizione favoriva
le correnti piú radicali di politica ecclesiastica che il conte di
Passerano riprendeva per primo dopo Machiavelli. Ma perché questo
sogno avesse un effetto era necessario che si formasse uno Stato
nazionale. Adalberto Radicati giunse a questa intuizione,
dimostrando nella dedica al re di Napoli che l'unità d'Italia, dopo
la caduta dell'Impero romano, era stata impedita dalla politica del
Vaticano. Cosí tutte le sue speculazioni ideali si possono
ricondurre a una fondamentale passione politica. Per le sue
convinzioni di leale servitore del principe, che a venti anni egli
aveva già ferme nel suo spirito, s'indusse a combattere nei piú
difficili campi dell'esegesi religiosa. Non bisogna dimenticare che
egli si trovò ad assistere, ancora giovinetto, agli esempi di
fedeltà monarchica dei valdesi: quest'esperienza non si cancellò piú
dal suo animo. Costretto a filosofare, benché non sempre tra i
concetti si trovasse a suo agio, si aiutò col suo gusto verso tutte
le novità per combattere il passato. In questa passione per il nuovo
della sua mente aperta c'è un presagio di mutamenti, un bisogno di
esperienze che ci dànno lo spirito del secolo.
Invece la politica ecclesiastica di Vittorio Amedeo II e del suo
successore aveva i limiti inesorabili in una situazione di
diplomazia internazionale. E la cultura piemontese era-rimasta
cattolica.
2. La politica dei Concordati.
L'opera dei principi sabaudi nei conflitti di giurisdizione con la
Chiesa durante il Settecento è di carattere essenzialmente politico,
senza pretese religiose e senza intransigenze rivoluzionarie. Gli
storici, da Oriani a Ruffini10, li accusano, non ingiustamente, di
troppa moderazione. Su Vittorio Amedeo II pesa la colpa dell'esilio
del conte Radicati, su Carlo Emanuele III il proditorio arresto di
Giannone. Ma, a guardare le cose spregiudicatamente, è proprio il
caso dei carnefici che cospirano con le vittime. Nella Casa sabauda,
sino alla fine del Seicento, la sottomissione alla Chiesa era stata
tradizionale. Nel tempo delle reggenze delle due Madame Reali, i
Gesuiti erano i padroni incontrollati. Se si confronta con queste
secolari dedizioni, la politica di Vittorio Amedeo II è un
coraggioso preludio di laicità. Infatti, per una lotta religiosa
aperta mancava il fondamento indispensabile di una coscienza
nazionale: Vittorio Amedeo II, garantendo l'indipendenza dello Stato
dalle pretese del Vaticano, cominciava a lavorare per le premesse
indispensabili.
I principi di Savoia guardano dunque all'avvenire, con moderazione e
tenendo conto della immaturità delle condizioni oggettive seguono il
secolo nella lotta contro i Gesuiti; sono i primi a togliere loro le
scuole. La tendenza del primo re è di deprimere i sovrani poteri dei
nobili e degli ecclesiastici per stabilire l'unità e l'organicità
dello Stato; le parvenze democratiche servono all'assolutismo. Ma
nella società del Settecento soltanto l'assolutismo riusciva ad
operare in una direzione laica: cominciavano i tiranni il lavoro per
la rivoluzione.
Senonché, una volta rassegnati a ignorare la libertà e a non
proclamare apertamente il principio della tolleranza, non dovremo
stupirci di vedere poi il re scendere ai ripieghi dei Concordati i
quali, per la contraddizione in termini che significavano
(patteggiamenti tra idee irriducibili), lasciavano in discussione la
stessa autorità statale. E due secoli di esperienza ebbero un valore
laico non tanto per i risultati di volta in volta raggiunti, quanto
perché acuirono le menti e le attenzioni; abituarono i diplomatici a
resistere al Vaticano, senza stancarsi di proporgli riforme che
miravano nelle ultime conseguenze a seppellire il potere temporale.
Si trattava di preparare gli uomini, i combattenti: intanto si
sarebbero maturati i programmi e le idee.
L'equivoco contro cui si trovarono a lottare i principi di Savoia
era una tradizione di ossequio al pontefice e di rapporti
inguaribilmente ispirati all'idillio tra le due autorità. Papa
Niccolò V aveva concesso nel 1451, quando Amedeo IV rinunciò alla
tiara, il famoso indulto11 che attribuiva ai duchi l'autorità di
dare riconoscimento ai dignitari ecclesiastici del proprio Stato. Ma
la prerogativa rimase sulla carta e il Vaticano continuò a contare
sull'ossequio più devoto della Casa sabauda che a Roma veniva citata
a modello di conciliazione e di fedeltà.
A Vittorio Amedeo spetta la responsabilità di aver capovolto la
situazione; ma il secolo XV che lo precedette non vi fu del tutto
estraneo. Anzitutto il duca si trovò a dover risolvere in contrasto
col dogmatismo cattolico di Luigi XIV la questione delle valli
valdesi, esperimentate fedelissime ai sabaudi in tutte le guerre;
era un argomento decisivo per una politica di tolleranza. Inoltre la
dominazione francese aveva portato in Piemonte i liberi usi della
Chiesa gallicana contro i feudatari ecclesiastici. L'istituto
dell'appel comme d'abus, diretto a consolidare l'autorità sovrana
contro le invadenze della giurisdizione ecclesiastica, era stato
importato a Torino sin dal tempo di Francesco I, ed Emanuele
Filiberto aveva cercato di mantenerlo e regolarlo. Con l'occupazione
di Pinerolo Vittorio Amedeo II si trovò dunque ad avere l'esempio di
tutto un sistema di difesa contro le usurpazioni teocratiche e fece
un'altra esperienza di carattere liberale nel tempo che tenne la
Sicilia dove accanita era la lotta contro la Curia romana per
mantenere la franchigia del tribunale della monarchia «validissimo
riparo, – dice il Boggio, – contro ogni eccesso teocratico o interno
od esterno». I propositi laici si rafforzavano insieme con la
liberazione dal provincialismo. Del resto opinioni recisamente
laiche professa Vittorio Amedeo II già nel suo Mémoire pour le
gouvernement de mon Etat12: «Il Papa mi contende quella specie di
nomine ai grandi Benefici che i suoi antecessori hanno conceduto ai
miei antenati, e con piú Bolle raffermato. A nulla mi serve il
tenere un ministro in Roma se non ricevo altro che ripulse; che anzi
dovrei desiderare di non avere in casa alcun Nunzio. Cosí avrei
forse modo di contenere in certi limiti l'immunità ecclesiastica».
Non è senza interesse notare come la rivolta contro la Chiesa
cattolica coincidesse con le prime timide manifestazioni di
carattere democratico. È nelle assemblee rappresentative che si
parlò anche in Piemonte la prima volta di anticlericalismo, per
opera ed ispirazione del Terzo Stato. Si domandava una refformation
des abbuz et excetz immoderez ecclesiastiques, tant des prelatz que
inferieurs, si protestava contro le ingiustizie quilz se commectent
en le stat ecclesiastique en abusant de leurs pretendus
privileges13. In questi lamenti si avverte come un presentimento
delle positive proposte del Radicati, rimaste di attualità in tutto
il secolo.
Era piú facile ottenere lusingando che minacciando. Il riserbo dei
governanti piemontesi corrispondeva ad una profonda ragione di Stato
e ad una specifica esigenza di espansione che consigliava una
politica di dignità verso il Vaticano, ma voleva che non si
cercassero nuovi nemici. Nella situazione italiana il papa
conservava una grande autorità: solo Venezia teneva fede alla sua
secolare tradizione di indipendenza e di laicità. Genova era
sottomessa. Toscana e Lombardia ossequenti finché non si inaugurò
coi Lorena e con l'imperatore Giuseppe la nuova politica
giurisdizionalista. Parma ebbe soltanto col Du Tillot una breve
parentesi anticlericale. A Napoli fioriva il movimento
anticurialista e se ne servirono Tanucci e Caracciolo, guardandosi
dalle estreme conseguenze che dalle premesse aveva derivate Pietro
Giannone.
Il marchese Ferrero d'Ormea fu in Piemonte il diplomatico di questa
situazione e dalla sua sottile e ambigua politica nacquero gli
equivoci effetti dei Concordati. Il marchese d'Ormea era meno
anticlericale del re. Tra i contemporanei anzi ebbe credito la
leggenda delle sue aspirazioni al cardinalato14: certo era
sinceramente religioso15 e dalle ambizioni ecclesiastiche doveva
trattenerlo soltanto la sua inguaribile passione per la politica e
per il maneggio degli affari piemontesi che erano tutti in sua mano.
Rimase sulla breccia sino all'ultima vecchiaia ed è caratteristica
di un politico di razza la preoccupazione di trovarsi un successore,
che assillò i suoi ultimi anni16. Duro, altero, astuto e
autoritario, non ebbe le qualità di grande statista del Du Tillot o
del Tanucci, iniziatori e creatori di nuovi orizzonti politici; la
sua iniziativa rimane dominata dall'audacia di Vittorio Amedeo II
che fu in qualche modo il suo maestro: e solo D'Ormea infatti capí e
raccolse l'eredità del primo re guidando le troppo pacifiche astuzie
di Carlo Emanuele III. Un'idea precisa delle sue doti ci possiamo
formare leggendo il ritratto che ce ne ha lasciato l'ambasciatore
veneto: «Soggetto che sotto il Regno presente ha tutta intiera la
direzione del Governo e la fiducia di S. M.; esplicato alla
giurisprudenza e fattivi progressi non volgari, ottenne prima la
giudicatura di Carmagnola, poscia l'Intendenza di Susa; in siffatti
uffizi mostrato avendo quale fosse la prontezza del suo spirito, il
re Vittorio lo fece Generale delle Finanze, nel quale carico datosi
vieppiú a conoscere, ebbe commissione di passare a Roma, dove
maneggiò con mirabile facilità il Concordato sulle controversie
pendenti da gran tempo fra li Duchi di Savoia e la Santa Sede. In
rimunerazione fu promosso a Primo Segretario degli Affari Interni, e
quindi, in tempo dell'abdicazione di Vittorio Amedeo, il re Carlo lo
ascrisse nell'Ordine dell'Annunziata, e lo incaricò degli Affari
Esterni, addossando con raro esempio le due Segreterie a un uomo
solo; finalmente nel 1742 lo alleggerí del primo carico, dichiarollo
gran Cancelliere di toga e spada, cosa non piú veduta in Torino»17.
Nella pratica degli affari ordinari era impareggiabile. Mandato a
Roma per trattare con la Curia le questioni piú urgenti, vince con
le astuzie del commediante, piú che con le risorse della dottrina.
«Davasi a divedere delle religiose pratiche osservantissimo e
solendo il Papa di buon mattino dir Messa in una Chiesa poco
frequentata, ginocchione gli si parava innanzi, tutto assorto nella
preghiera, un grosso rosario snocciolando...»18. E seppe sfruttare
mirabilmente lo spirito di conciliazione del cardinale Lambertini
diventato papa alla morte di Benedetto XIII.
Con piú austerità, contando unicamente sul prestigio della
disciplina, teneva a freno negli stessi anni gli spiriti ribelli
della nobiltà il ministro della Guerra Bogino, che piú tardi ebbe la
sua parte nella politica dell'abolizione delle manomorte. Ma Bogino
trovava una situazione migliore e lo spirito di maggior
conciliazione portato nei dissidi da re Carlo Emanuele III serviva
piuttosto a consolidare i risultati, riconfermando concordati già
raggiunti contro le nuove velleità controffensive della Curia, che a
continuare il processo, se si eccettua la faccenda della Nunziatura.
La politica del padre fu creativa e battagliera in anni difficili,
nei quali pochi principi pensavano a scuotere la dominante influenza
del Vaticano; il figlio, mentre le riforme fervevano in tutta
Europa, seguí mediocremente, in tutti i campi, le orme del primo re.
Che cosa rappresentano i Concordati? Come se ne valse lo Stato
piemontese?
Le materie regolate riguardavano essenzialmente questioni di
sovranità civile, non mai di riforme ecclesiastiche interne. Con tre
Concordati (1726-1727-1742) si cercò di far riconoscere al re di
Sardegna il diritto di proporre alla Santa Sede i candidati ai
benefizi concistoriali (vescovi e abati). Ma la questione rimase
aperta fino al 1791. Questo diritto di intenzione e di consentimento
era un caratteristico provvedimento di giurisdizionalismo che ci
ricorda le proclamazioni intransigenti del Radicati e ci mostra il
re deciso ad avere sorveglianza sugli affari ecclesiastici, secondo
il concetto, ormai prevalente in Europa, della Chiesa nazionale.
Coi Concordati del 1727 e 1741 e con un altro del 1749 il re
affermava invece un suo preciso diritto di sovranità contro la
giurisdizione che vescovi stranieri potessero esercitare sopra
frazioni di territori staccati dalle loro diocesi e incorporati
negli Stati di Sardegna. Era un caso specifico in cui dal conflitto
di potere tra l'autorità ecclesiastica e l'autorità laica nasceva
una vera e propria difficoltà di politica estera: il re ottenne che
in queste frazioni il vescovo straniero dovesse farsi rappresentare
da un suo vicario. Si affermava un principio nazionale contro il
cattolicismo internazionale.
Nella questione dei tributi, del Foro e del diritto di asilo tornava
ad essere in causa il principio dell'unità di sovranità. Queste
materie rimasero in discussione dal '27 al '92, ma il diritto dei
principi veniva di anno in anno prevalendo. Lo Stato cercava di
liquidare le resistenze antistatali, anarchiche del feudalismo
ecclesiastico. Non poteva conciliarsi con l'esistenza di una
giustizia laica, esercitata da organi statali, la persistenza del
diritto di asilo, vestigio di una vecchia autorità in contrasto con
quella dello Stato, su un terreno in cui lo Stato non poteva
accettare limitazioni. Poiché il governo piemontese non aveva la
forza di abolire i privilegi del Foro ecclesiastico si accontentò di
limitarli (1727-42).
Finalmente i provvedimenti contro l'immunità e le esenzioni dei
benefici ecclesiastici erano necessari e improrogabili se si pensa
alle difficoltà del bilancio piemontese dissanguato dalle guerre. Il
regno di Vittorio Amedeo II è per questo aspetto una lotta senza
tregua contro le resistenze tributarie dei suoi sudditi. Il
Concordato del marzo 1727 e quello del 1728 autorizzavano Vittorio
Amedeo II ad esigere tributi dai beni che la Chiesa avesse
acquistati dopo il 1619; e nel 1783 Vittorio Amedeo III e Pio VI
convenivano di assoggettare a tributi nella misura di due terzi
anche i beni acquistati prima del 1619.
Eccoci giunti non soltanto per la cronologia alla rivoluzione
francese; il re di Sardegna mira a farsi riconoscere il diritto
dell'exequatur sui provvedimenti ecclesiastici; limita la
concessione del braccio secolare. È vero che la Chiesa attribuisce a
queste riforme il carattere di sue concessioni sovrane. Ma ciò che
si concede in questa direzione non si riprende. Lo spirito della
lotta contro il feudalismo può far agire tutte le sue risorse.
A questo punto i sovrani si armano perché intravvedono nella Chiesa
una difesa contro il pericolo di novità; il debole Vittorio Amedeo
III si lega apertamente alla reazione; l'iniziativa passa ai popoli,
le riforme sboccano nelle rivoluzioni. Resta a sapere come il
Piemonte fosse preparato a questo passo.
3. Controenciclopedia preventiva.
Se sono vere le premesse sin qui esposte, anche il Piemonte ci offre
un esempio, assai guardingo e lontano dalle estreme antitesi, del
dissidio del secolo tra scienza e fede, critica e dogma, tolleranza
e fanatismo, liberalismo e clericalismo.
La lotta contro la Chiesa è condotta dalle eresie intellettuali
laiche, ma queste, nella tendenza alla Riforma, trovano un limite
nei principi a cui si devono alleare, i quali si fermano alle
riforme e sono interessati all'indipendenza soltanto per arte di
governo ossia per le loro lontane aspirazioni assolutiste.
Così sin dal Settecento si delinea l'equivoco della nostra
rivoluzione nazionale. Il liberalismo non può identificarsi con la
democrazia per la mancata preparazione religiosa. Invece di allearsi
alle masse si fa complice delle monarchie. L'iniziativa liberale
spetta ai governi, i soli che abbiano attitudini a mobilitare le
forze necessarie per il trionfo delle idee pensate in solitudine
dalle nuove aristocrazie laiche. Naturalmente queste idee trionfano,
ma sono tradite dai nuovi alleati. Le masse cattoliche rimangono
estranee alla lotta politica perché la Chiesa si è alleata
all'assolutismo e tutti i tentativi di democrazia cristiana sono
destinati a fallire. Anzi si ha il fenomeno di plebi recisamente
antiliberali perché addomesticate dalla politica di filantropia
della Chiesa la quale per far prevalere il suo socialismo
reazionario conta soprattutto su turbe di parassiti. Bisogna
aspettare il movimento operaio per avere in Italia iniziative
autonome di masse popolari, che possano condurre la rivoluzione
liberale alle sue ultime conseguenze.
Intanto nel Settecento è logico che la Chiesa si dedichi con
identica cura alle due cause: conservazione politica antiliberale e
conservazione ideale antilluminista. In Piemonte contro i timidi
tentativi di libero pensiero e contro gli atteggiamenti laici del
sovrano, la cultura cattolica fa il suo esame di coscienza, si
organizza secondo le sue tendenze clericali, combatte l'eresia con
armi filosofiche e si sforza, indulgendo all'eclettismo, di
guadagnare la ragione alla causa della fede.
Abbiamo la controenciclopedia preventiva.
Dal punto di vista delle classi politiche possiamo dare questa
diagnosi del fenomeno. Il re mira all'indipendenza e all'unità di
giurisdizione e si trova a combattere contro gli interessi creati
delle vecchie classi dirigenti, ossia contro i privilegi di nobili
ed ecclesiastici. La nuova élite, che gli è indispensabile per
questa politica, viene reclutata nel modo seguente: 1° una minoranza
dell'aristocrazia che abbandona la solidarietà di classe o per
devozione al sovrano o per istinto politico o per simpatia
coll'illuminismo o per ambizione di cariche; 2° i nuovi dirigenti
del ceto umile (non ancora borghese) che si sta elevando. Nel
Piemonte del Settecento non c'è una borghesia in senso economico.
Sembra formarsi invece un ceto medio di avvocati e medici, figli di
contadini, che si affrettano, appena arricchiti, ad acquistare un
titolo di nobiltà. Nell'aiutare questa nuova nobiltà ad affermarsi
si nota l'astuzia di governo dei principi sabaudi: parecchi ministri
provengono da questo ceto: nel Seicento il Trucchi, che i nobili
odiavano e chiamavano turco, il Bogino nel Settecento. Quasi tutti
si formavano, sotto il controllo governativo, nel Collegio delle
Province19 che fu l'istituto tipo della ragione di Stato. Queste
minoranze intellettuali, appena si libereranno dalle tradizioni di
ossequio e di servilità, andranno oltre il gretto piano assolutista
del re e continueranno la rivoluzione per conto proprio. Purtroppo
questo ceto nel Settecento sembra appena annunciarsi e non si può
consolidare, come vedremo, né durante la rivoluzione francese, né
tra le difficoltà della seguente reazione. Tendono, ma non sempre
riescono, a far calcolo sulle masse per isolare le vecchie classi
nobili ed ecclesiastiche decise a difendere le posizioni passate.
Nel cardinale Sigismondo Gerdil, savoiardo, di Samoens, il quale
nella sua lunga vita (23 giugno 1718-12 agosto 1802) giunse, si può
dire, alle porte del pontificato, proprio negli anni in cui la
Chiesa faceva appello a tutte le sue risorse per resistere alla
rivoluzione francese20, possiamo vedere un esempio di stile e di
cultura ecclesiastica perfettamente retrivi. L'Histoire des
variations des églises protestantes del Bossuet fu la sua prima
lettura. Il suo compito di polemista contro tutte le eresie sembra
segnato sin da allora. Intorno al Gerdil si viene raccogliendo tutto
l'ortodossismo non soltanto piemontese, ma europeo del secolo XVIII.
Il motto è: Malebranche contro Rousseau. Per il metodo, Cartesio
contro Locke. Il cartesianismo di Gerdil però è assai guardingo.
Cartesio è per lui quello che ha diviso «ce qui appartient au corps
d'aver ce qui appartient à l'esprit». Insomma dovendo lottare contro
il vago spiritualismo rousseauiano si direbbe che egli chieda a
Cartesio le solide qualità conservatrici e statiche del dualismo
cristiano. Dove Cartesio si avventura in pieno razionalismo, Gerdil
si appiglia ai metodi piú ortodossi della filosofia eclettica.
Ontologista, non rifiuta lo sperimentalismo. Ha in pregio la cultura
matematica e fisica.
Ma le vere astuzie istintive del Gerdil si possono scorgere
nell'indirizzo della sua polemica pratica. È uno dei polemisti
cristiani piú pacati, metodici, inesorabili, instancabili. Nella
polemica l'intransigenza è nascosta e appare invece un tatto
singolare. Teologo, egli non disprezza la filosofia21, ma nega agli
eretici dignità di filosofi. La ragione ha la sua validità anche nei
regni della teocrazia se serve a convincere del vero quelli che non
hanno fede e ad avviare i filosofi alle imprese apologetiche. La
speculazione sarebbe un mezzo di controllo piú che un mezzo di
scoperta. L'amore per la verità del nostro teologo è prudente amore
per le verità fatte. In lui le preoccupazioni di chiarezza
prevalgono sopra i tentativi di profondità. Raccomanda con
scrupolosa onestà la precisione del linguaggio e invece di
individuare l'originalità di Locke o di Spinoza, rimprovera loro di
usare con troppa ambiguità i termini fondamentali di sostanza,
essenza, ecc. (Introduzione allo studio della religione, vol. I, p.
209). Cito la ristampa che sta nei primi due volumi delle Opere
scelte (Milano 1836): «La sola evidenza può muovere l'animo ad un
consentimento necessario» (ibid., I, p. 29). L'evidenza immediata ci
fa intendere le idee semplici. Nell'esame delle idee composte
bisogna procedere con metodo matematico per riconoscervi le idee
semplici che entrano nella composizione.
Qui Gerdil è in assoluta antitesi con tutte le inquietudini del
secolo. Il suo cattolicismo è di buon stampo antico e rifiuta ogni
compromesso con la religione del sentimento e col cristianesimo
romantico. Il suo ottimismo e la sua fiducia escludono queste
avventure per proporre ai popoli molto piú semplicemente
l'osservanza delle verità rivelate e l'ossequio alle autorità
costituite. Nessun entusiasmo mistico, ma pacifico cattolicismo,
arte del governo delle menti e delle volontà: culto abilmente
lungimirante dei risultati pratici contro i meri tentativi e le
illusorie speranze. Non piú santi: la religione ha bisogno di
diplomatici.
Il cardinale Gerdil non si compiace di parole grosse o di
professioni di fede intransigenti: pur di restare fermo nelle
questioni di sostanza egli non è alieno, per ossequio al buon senso
e talvolta addirittura al senso comune, dall'ostentare un cristiano
costume di tolleranza e di conciliazione. Concede che la libertà di
pensare non debba essere esclusa, ma soltanto regolata dalla
religione. Considerate la debolezza del nostro intelletto! Esso ci
può far conoscere il soggetto e il predicato; ma come affermare o
negare se non c'è un criterio di fede, o, diciamo pure, un'autorità
superiore?
Ed ecco che la vera libertà non è licenza, non può escludere
l'autorità. Argomentazione garbata, a cui soltanto l'estrema logica
del libero esame potrebbe rispondere che si è ripetuta in tutti i
savi e paterni regimi dispotici.
Del resto, aggiunge il Gerdil, quasi atteggiandosi alla sua volta ad
illuminista, la libertà di pensiero non è necessaria per la
perfezione delle scienze (Introduzione, vol. I, p. 64). E nota
ironicamente la superficialità filosofica dominante nei cosiddetti
secoli colti, caratterizzati sempre da una vera decadenza del buon
gusto. I secoli colti sono per l'appunto quelli che vengono dopo i
tempi in cui vissero gli uomini sommi (Introduzione, I, p. 53).
La scienza progredisce soltanto nel rispetto alla religione; con la
presuntuosa brama di tutto sapere progredirà una impaziente cultura,
non la scienza. Bisogna sapersi fermare al momento giusto, tener
sospeso il giudizio: la morale del buon cattolico si deve fondare su
uno spirito di moderazione. Contro Locke e Rousseau bisogna dunque
opporre questo abito mentale di fiducia e la tradizione, accettata
come conservatrice. Perciò Gerdil non scrive una critica, ma una
introduzione allo studio della religione, dove persino i filosofi
antichi sono studiati tenendo come criterio direttivo il loro sforzo
di conquistare il pensiero di Dio mediante la ragione.
Nella storia della teologia il Gerdil ha un posto notevole per il
rigore con cui seppe riassumere le prove dell'esistenza di Dio
integrandole con due nuove dimostrazioni, l'una desunta dalla
contraddizione che nulla esista; l'altra dall'idea dello stato
intelligibile di tutto ciò che è possibile22. Ma i suoi argomenti
apologetici tendono prevalentemente a dimostrare l'utilità della
religione per mezzo di considerazioni di ordine morale e sociale.
Specialmente nell'Anti-Emile si vede questo carattere essenziale
della filosofia del Gerdil, intesa come filosofia e pedagogia del
perfetto suddito. Bisogna combattere Rousseau fondando un sistema di
idee conformi alla pace delle famiglie, alla tranquillità degli
Stati, al vantaggio dell'umanità. L'ordine costituito è una
necessità e obbedire è atto giusto davanti a Dio. Talvolta nel buon
senso di queste argomentazioni ci sembra di vedere addirittura
l'istinto del reazionario e la difesa del conservatore. L'apologista
non si nasconde che il cattolicismo deve finire per coincidere con
l'utilità; e fonda il diritto della società verso i sudditi sulla
stessa base religiosa dell'ubbidienza richiesta ai figli verso i
padri. La società è implicita nell'idea di Provvidenza. Nel concetto
di uomo c'è il concetto di suddito. Non dalla politica dunque
dipende la religione: Gerdil rifiuta recisamente questo
machiavellico luogo comune del dispotismo e dimostra che si devono
cercare nella religione le basi dei valori sociali (Introduzione,
vol. I, pp. 237-47)
Una mentalità conservatrice si scorge nel Gerdil anche se si
esaminano i limiti della sua cultura: base umanistica su cui si
fonda un edificio rigidamente teologico; disprezzo per la cultura
del secolo; critica del dominante indirizzo europeo d'informazione;
aridità scientifica e persino nel pacato e pedantesco tono
ragionatore un ossequio scolastico al fatto compiuto: è l'uomo
caratteristico della controenciclopedia.
Tuttavia non si può non considerare con grande rispetto la passione
sistematica che anima tutto l'edificio organico dei venti volumi
delle sue opere. In questo amore dell'unità si deve riconoscere un
vero filosofo. Mirabili sono le sue doti di chiarificatore. Le
pagine in cui egli si oppone con l'acuto buon senso di pedagogista
contro i presuntuosi della cultura sono ancora vive e convincenti, e
nella sua bella lotta contro le superstizioni si vede un'onestà
intellettuale esemplare.
Ma se Gerdil era un filosofo, filosofi non furono i suoi discepoli.
La sua influenza serví soprattutto in un periodo di reazione ad
addormentare lo spirito d'iniziativa.
Le classi nobili ebbero il loro predicatore di cattolica moderazione
nel conte Benvenuto Robbio di San Raffaele da Chieri, allievo del
Gerdil; poeta, uomo pio, fondatore dell'Istituto delle Conversazioni
letterarie, nemico fierissimo di Voltaire, contro il quale scrisse
le Lettere del Dottore Trialevo23. Nel Robbio ci sono le
preoccupazioni del cortigiano che ricerca per dilettantismo le piú
varie cognizioni, dalla musica alla poesia di Camões e di Pope. È
singolare il suo interesse per la storia. Tuttavia egli ci appare
misoneista come i contemporanei, in quei suoi curiosi scritti
antifemministi e nelle sue preoccupazioni di educare i nobili.
L'educazione disinteressata, ossia l'educazione priva di un
interesse centrale: viaggi di piacere; culto della gentilezza e
dell'onestà. In quanto alla religione: «La esatta idea della
religione consiste nel non aggiungere né togliere nemmanco un apice
ai misteri e ai precetti che ella c'impone di credere e d'osservare;
nel non confondere ciò che è mera opinione e cade in contesa, con
ciò che è infallibile e non disputabile».
Con questa esigenza di ortodossismo non ci stupiremo che il nostro
conte finisse per appartarsi modestamente dalle preoccupazioni
statali e nazionali, e, con la rivoluzione francese dinanzi agli
occhi, continuasse a notare con arguto gusto di provinciale che la
divisione d'Italia in vari governi cospirava a dare splendore alle
metropoli.
In un'Europa che preparava la rivoluzione liberale, clericalismo e
feudalismo sognavano un 'Italia sotto tutela, docile alle numerose
Corti, sottomessa al vescovo e alla buona morale antica.
4. Il «caso» Giannone.
L'ambiguità della politica piemontese, l'influenza ecclesiastica
tenacemente contrastata, ma ancora dominante, il filisteismo della
cultura ufficiale, ci illuminano senza equivoco le persecuzioni
inflitte dal governo piemontese all'avvocato napoletano Pietro
Giannone.
Nella storia del caso Giannone possiamo vedere la vita piemontese
della prima metà del Settecento in rapporto con tutta la vita
italiana. Sul significato dell'opera di Pietro Giannone i giudizi
sono ancora discordi. Ma per noi il suo pensiero apparirà chiaro se
appena avremo l'accortezza di metterlo a confronto con la figura del
conte Radicati. Due uomini, due culture. Ma una stessa battaglia.
Radicati, piemontese e nobile, ha le fissazioni dell'uomo di Corte,
intransigente per istinto e per eleganza. Pietro Giannone,
napoletano, plebeo, meraviglia i contemporanei per la vastità della
sua cultura, ma resta come legato dal suo sapere che lo condanna
alla solitudine in ambienti su cui non agisce un'opinione pubblica:
è uno degli uomini piú rappresentativi del secolo, ammirato in tutta
Europa e in Italia, e sembra un intellettuale senza radici nella
realtà. Radicati è stato educato a Corte, è stato in esilio in
Inghilterra, in un popolo libero e moderno; Giannone ha studiato
filosofia scolastica e ha sperimentato a Vienna il cosmopolitismo
erudito dei borghesi servitori del re. Il primo scrive le sue eresie
in un francese elegante e nervoso; il secondo elabora le sue
considerazioni giuridiche in un italiano accademico.
Neanche in Pietro Giannone il concetto di una rivoluzione italiana
religiosa e morale giunge alle ultime conseguenze ideali. La
preoccupazione dell'autorità, i pregiudizi del dispotismo restano
fondamentali. Senti il suddito che vuol giustificare e legittimare
la sua sottomissione. Pietro Giannone è l'uomo della cattedra, il
giurista ghibellino. Le tradizioni napoletane vivono in lui. A
Napoli la Corte ha promosso tentativi di scienza laica: non accade
perciò che i pensatori vi si manifestino, come in Piemonte, quasi
anarchici episodi di sovvertimento e di ribellione. Anche Metastasio
parla dell'ardente falange vaticana di Napoli.
La situazione politica di Napoli si può ancora riassumere in una
metafora, ricordando la lotta di guelfi e ghibellini. Napoli era uno
Stato, poteva manifestare pretese sovrane. E le affermazioni dello
Stato si incontravano con le tradizioni di ossequio al Vaticano. In
questo ambiente Giannone studia il problema delle origini del
diritto della Chiesa e conclude, dopo una poderosa indagine in cui
il diritto è visto per la prima volta, genialmente, generarsi
attraverso la storia, con una rivendicazione dell'indipendenza di
Napoli dal pontefice.
Ma il governo di Napoli non fu piú coerente né piú coraggioso verso
Giannone, di quel che non fosse stato Vittorio Amedeo II verso
Radicati. La Storia civile del Regno di Napoli venne approvata dalla
prima revisione laica, ma egli fu lasciato senza difesa quando
gl'intrighi della Curia lo cacciarono da Napoli a furore di popolo.
Le esitanze della diplomazia e l'ignoranza popolare limitavano in
tutta Italia, senza eccezioni, gli ardori di protesta e di lotta
anticlericale. Per Giannone bastò che la Curia diffondesse il
sospetto che egli negasse il miracolo di san Gennaro!
Da Napoli a Venezia, a Vienna, a Milano, a Ginevra Giannone non
trova risonanze né forze che lo difendano dai Gesuiti. Le sue
peregrinazioni hanno una pausa di tregua soltanto presso
l'imperatore.
A Vienna i primi studi giuridici si maturano in riflessioni
filosofiche. Ne risulta il Triregno, opera incompiuta che ci dà un
saggio della sua maturità. Nel Triregno Giannone coglie una specie
di storia concettuale dell'umanità, dall'ideale di regno terreno che
domina col paganesimo al regno celeste instaurato dal cristianesimo
e corrotto poi nel presente regno papale, che è sovvertimento pagano
dei primi ideali cristiani. Qui la critica dello storico investe
tutto il dualismo cattolico in nome di una ideologia protestante. Si
contesta alla Chiesa la potenza terrena; la critica dogmatica che
ritornerà nell'Alfieri, svela tutti gli equivoci del concetto del
Purgatorio. La Chiesa è riuscita ad instaurare il suo dominio
assoluto, falsando la prima concezione cristiana che fa coincidere
il regno celeste con la resurrezione dei corpi. Il dualismo
cattolico di corpo e spirito, anticipando la vita eterna, parla
arbitrariamente di una visione beatifica delle anime subito dopo la
morte e usurpa in terra le funzioni di salvatrice delle anime.
Nel Triregno insomma, come altri ha scritto, efficacemente24,
l'anticuriale della Storia civile diventa anticlericale. La critica
giuridica del Sud viene a coincidere con la passione politica del
Nord. Il Giannone è la riprova scientifica della tesi di Radicati.
Tutte le correnti laiche del Risorgimento si manifestano opponendo
il cristianesimo al cattolicismo.
Anche l'eresia di Giannone, invece di affacciarsi nel campo sociale
ad agitare un ideale di libertà e di riforma popolare, resta
giuridica e diplomatica. Egli è pronto a professare ossequio alla
Chiesa nel campo spirituale. Ma i limiti tra laicità ed eresia
restano indistinti come nel Radicati. La rivolta è nell'aria e le
ideologie devono rimanere in un campo vago di critica senza
compromettersi in progetti.
Il re di Sardegna aveva interessi presenti troppo precisi per poter
cercare se questi fossero davvero i suoi ideali servitori. La
cultura era ancora una merce sospetta. Per migliorare il Concordato
che si stava trattando con la Curia il marchese d'Ormea non esita a
promettere al cardinale Albani il sacrificio di Giannone. Con losco
inganno l'avvocato napoletano è invitato da Ginevra in casa di un
doganiere piemontese, certo Gastaldi, che lo fa arrestare, d'accordo
con la polizia piemontese. Il misfatto non suscita scandalo perché
l'opinione comune e i costumi pubblici ritengono che i delitti di
Stato si debbano punire e non rivelare. D'Ormea avrebbe voluto
consegnarlo al pontefice, abbandonarlo al rogo. Lo zelo dei
servitori è sempre intransigente. Prevalse il senso della regalità
del re che volle essere complice, ma sovrano. Invece del rogo
Giannone ebbe dodici anni di carcere e la tomba nella prigionia. Il
re di Sardegna, servendo il pontefice, infliggeva un doppio
oltraggio al difensore della laicità. «Quello che mi dava pena, –
scrive il Giannone nella Vita, – era d'aver da lui inteso che
m'arrestavano per ordine non meno del Re che del Papa: cosa che io
non poteva comprendere sapendo che, nella Savoia, il Re solo comanda
e non il Papa».
Il 4 aprile 1730 fu indotto a pubblica abiura. L'esame delle cause e
dei modi per cui questa avvenne ci porta ad escludere nell'avvocato
napoletano ogni senso di viltà. È la sottomissione dogmatica
spirituale del cristiano, accompagnata dalla speranza di libertà del
laico, con la riserva mentale del giurista che conosce la nullità di
ciò che si compie sotto imposizione.
Nei dodici anni del suo supplizio non rinunciò all'eresia del
Triregno25. La confermò con nuove opere in cui parla il sarcasmo
quando non può parlare la libera critica. Conservò l'idea fissa che
il re di Sardegna dovesse capire la coincidenza tra gli interessi di
Stato e la sua critica protestante. Morí il 17 febbraio 1748. L'anno
dopo nasce Alfieri.
5. Il fallimento dei moderati.
Nella seconda metà del Settecento i riformatori e gli illuministi,
in tutta Italia, non sono piú martiri isolati, sono gruppi di
studiosi e di sognatori che nelle varie capitali s'intendono,
collaborano, cercano corrispondenti dalle piú importanti metropoli
europee, seguono un indirizzo critico comune. All'avanguardia, come
si sa, stanno Milano e Napoli.
A Torino si era diffidenti verso le idee francesi. Perciò
l'illuminismo vi prende un tono piú moderato, che un governo
intelligente avrebbe saputo valorizzare rafforzando la classe
politica con questi elementi, meno esperti di burocrazia e piú delle
cose nuove. Carlo Emanuele e Vittorio Amedeo III proibirono
l'esperimento, videro un sovversivo in chiunque sapesse scrivere, lo
confinarono. Essi preparavano l'atmosfera spirituale dell'Italia
della Restaurazione, che non ebbe moderati né uomini d'ordine, ma
sovversivi o austriacanti.
A Torino non si formò «Il Caffè» né «La Frusta Letteraria» si formò
tardi persino la loggia massonica. Perseguitati dalla Corte i
«riformatori» emigrarono, furono vinti dagli ostacoli e dal
sospetto, e non riuscirono a risolversi tra la scienza e la
rivoluzione. Denina, nato per essere storico di Corte, finí in
Prussia; Baretti, retrivo brontolone di temperamento, in
Inghilterra; Dalmazzo Vasco, reo di aver tradotto Montesquieu e di
pensare ad un regime costituzionale, fu seppellito in carcere. Ugo
Botton di Castellamonte, fautore della necessità della divisione dei
poteri, dovette aspettare l'invasione francese per far fortuna, come
furono i francesi a salvare dalle persecuzioni l'innocentissimo
Botta; Giov. Battista Vasco, onorato in tutta Europa per le sue
monografie economiche, modelli di inchieste pratiche e di
discussioni logiche, lasciò Torino per Milano; Solera non poté
pubblicare il suo progetto per una Banca di agricoltura.
In tutti questi episodi si ebbe l'intervento personale del re.
Stampando il suo Essai sur les valeurs durante la dominazione
napoleonica26 il Solera racconta cosí le sue vicende. Un amico
«croyant découvrir dans mon essai une vraie pierre philosophale en
parla ouvertement d'une manière si avantageuse que la notice en
parvint à la cidevant Cour. Feu Victor Amédée en fut informé, et
m'en fit demander une première copie en 1786. Quelque temps après il
m'en demanda une seconde pour être, – m'a-t-il dit, – communiquée à
ses ministres. Je la lui portai pareillement. Il paraissait si
enthousiasmé de mes idées que je crus d'autant mieux qu'elles
allaient être adoptées, qu'il me chargea de travailler à la
rédaction de l'édit portant l'établissement de la Banque nationale
d'agriculture; et lorsque le la lui remis il me fixa le jour oú je
devais revenir, à fin de statuer définitivement sur quelques
articles de détail relatif au mode d'exécution. Je m'y rends: on me
fait entrer et je trouve feu Victor avec son contrôleur général des
finances. Celui-ci avec un ton de gravité et d'importance, qui à la
Cour comme ailleurs masque souvent la nullité, débuta par l'éloge de
ce qu'il appelait mes talents, et finit par une réprobation si
entière, si absolue de mon ouvrage, que Victor, incapable d'avoir
une opinion à lui, se rangeant docilement à celle de son ministre,
m'en défendit sévèrement l'impression».
L'abate Denina non poté pubblicare in Torino un'opera anche piú
innocente: tre libri, Dell'impiego delle persone27, in cui si
consigliavano le occupazioni piú adatte per i vari ceti sociali, non
esclusi gli Ordini monastici. Indottosi il Denina a pubblicare
l'opera in Toscana, Vittorio Amedeo III lo destituiva dalla cattedra
di eloquenza e lo condannava a sei mesi d'arresto nel seminario di
Vercelli. Il governo non puniva un sovversivo, anzi un fedelissimo
servitore del re, nemico di ogni avanguardia e di ogni convinzione
accentuata. Denina non ha passione politica; non sente le
inquietudini del Settecento, non nutre desiderio di novità; è un
abate, non un laico, un amico delle gerarchie costituite, non un
liberale. Temendo rivolgimenti sociali, sentendo annunciare tempi
torbidi, Denina, eclettico e tollerante, raccomanda la causa
dell'incivilimento. Vuole protetti i mestieri e le arti. Eliminati i
pigri perché sia eliminata una delle cause della scontentezza delle
plebi. Pensa che la società abbia piú bisogno di lavoratori che di
soldati: parla da pacifista d'istinto. Un governo che crede
pericoloso l'abate Denina ha perduto ogni fiducia nelle colonne
della società.
Maggiori diffidenze si rivolgono al Baretti, spirito piú agile e piú
audace del Denina. Nella «Frusta Letteraria» infatti lo storico de
le Rivoluzioni è piuttosto maltrattato: erano due temperamenti
inconciliabili. Dal governo piemontese e personalmente dal re,
Baretti era giudicato «un homme qui a la cervelle un peu timbrée»,
una « tête folle et dérangée». Forse odiavano in lui anche
l'anglomane.
Invece incorreggibilmente piemontese rimane il Baretti dopo tanti
anni di noviziato europeo e preromantico.
Hanno scritto che la sua critica manca di idee nuove e di senso
storico e che non vi si trova altro che il buon senso e la sveltezza
dell'uomo chiuso nel suo tempo. E certo nulla è piú falso della fama
di rivoluzionario e rinnovatore con cui il Baretti è passato nei
manuali di storia letteraria e nell'opinione comune. Ora tutti
ammettono che in questa leggenda l'influenza di Johnson entri per
buona parte, ma sarebbe meglio spiegarci l'equivoco con quel curioso
temperamento barettiano, pronto ad esaltarsi per nulla, quasi in
odio alla tradizionale pacatezza dei conterranei e capacissimo di
trasformare uno scatto di rabbia in una finzione di guerra d'idee.
Ma l'ideale di questo burbero enfatico e litigioso era l'ideale e
l'egoismo di tutti gli «uomini nuovi»: conservare le posizioni
raggiunte, far riconoscere ad ogni costo le abitudini faticosamente
acquistate di cultura, di educazione e di buon gusto. Se si pensa al
Baretti giovane, prima del '5028 leggero, semiarcade, poetino
petulante e inconcludente, pronto alla caccia del guadagno, amante
delle buone compagnie, adulatore, presuntuoso, si capisce che egli
dovesse tenere assai, dopo il 1760, a predicare contro i letterati
che la fisica e la metafisica «si sbrigano molto piú presto nel
rendere uomo l'uomo» e che facendo prevalere la sua sapienza di
latino e di greco, citasse «Grozio e Puffendorfio».
In un quadro dei costumi piemontesi e degli sforzi dell'Italia per
conquistarsi una maturità europea il ritratto del Baretti è
essenziale. Il suo spirito pratico e utilitario sembra
caratterizzare la repugnanza della penisola a ogni sogno di
ribellione e di liberazione. L'educazione inglese gli fece capire
Shakespeare; non lo corresse dalla sua ostinazione di montanaro
retrivo, irascibile e scettico, e perciò, sotto il furore, incapace
di una posizione di solitudine e di moralismo intransigente.
La morale del Baretti è la morale conciliante del gaudente e del
conservatore soddisfatto che difende i buoni costumi.
In Inghilterra la sua galanteria di ospite e l'ammirazione per
talune forme del regime parlamentare non gli impedirono di concepire
l'odio piú arrabbiato contro la Riforma della quale il suo spirito
superficiale di cattolico non poteva vedere il significato
fondamentale. Sono noti la sua invettiva contro il maledetto
calvinismo e l'odio verso i cromwellisti ai quali rimprovera «quella
malvagia antipatia che chiunque è infetto di calvinismo sempre nutre
verso il Governo monarchico e verso tutte le religioni episcopali».
Una condanna analoga scaglia contro l'Enciclopedia: «Alcuni
saputelli moderni di cortissima vista, ma di larghissima
presunzione, vanno spargendo una loro poverissima dottrina e
vorrebbero pure persuadere altrui che, se gli uomini fossero
abbandonati alla semplice guida della loro naturale ragione,
facilmente sarebbero migliori di quello che sono». Alla scuola di
Rousseau egli non oppone un'esigenza storica ma la necessità di
rispettare i sacri libri e gli antichi scrittori greci e latini, che
sono stati e sono tuttavia e saranno sempre i fonti piú limpidi
dell'umano sapere.
Professa costumi umanistici e cortigiani: critica e non capisce la
libertà inglese.
«Ci vuol altro che il vostro sapere per fabbricare leggi che
difendano il povero dal ricco, il debole dal forte».
«Noi siamo dei bei gonzi a credere che la libertà di cui la nazione
inglese mena tanto vanto renda quel popolo il piú dovizioso, il piú
gioioso, il piú avventuroso di tutti i popoli».
Teme che la libertà distrugga l'ordine e vi oppone come tutti i
reazionari l'esigenza di un governo giusto. Al pauperismo vorrebbe
riparare con la beneficenza pubblica, arte sopraffina, insegnata già
dal dispotismo orientale e dai conventi cattolici, per corrompere le
plebi. Dei suoi studi economici, fatti per seguire la moda
settecentesca, non gli rimase che la mania del progettismo29.
Il nostro ritratto si può completare con una definizione: Baretti
gesuita.
Nella corrispondenza del conte Finocchietti di Napoli si legge una
lettera importante di un informatore veneziano30: «Conviene sapersi
che questo buon uomo del signor abate Baretta è piemontese e che
nella sua patria male potendo capire per la lingua oltremodo
mordace, ad altri paesi i passi rivolse, finché giunse in
Inghilterra, dove stette alcuni anni vivendo da moderno letterato,
donde poi ritornò in Italia e parea fissato in Milano, quando sbucò
fuori e con possente commendatizia del reverendissimo padre
Giustiniani gesuita al fratello, perché è appunto uno dei revisori
dello Studio di Padova, comparve in Venezia... Vuole il giudizio
della maggior parte che questo Aristarco sia stato dunque chiamato e
messo dalla Compagnia, impegnata di assisterlo ove si trattasse di
ragionare sopra cose teologiche, per aver quindi motivo di prender
con l'altrui maschera la difesa di quanto è stato scritto contro di
lei e farlo in modo che quasi necessariamente passi per le mani di
tutti come succede di tali sorte di fogli. Ma perché poi non avrebbe
potuto con isfacciataggine, siccome fa, rintuzzare queste opere
antigesuitiche, ove trattato si fosse unicamente di una savia
critica, utile e moderata, questi buoni Padri lo indussero a
sfoderare a bella prima il flagello contro quoscumque acciò che
quindi non si potesse rilevare poi la differenza e fosse dal suo
costume autorizzato quel che avesse detto contro gli scrittori
nemici dei Gesuiti: oh infelice astuzia, griderebbe S. Agostino!»
In questa storia non si è mai visto troppo chiaro e gli argomenti
per comprovare qualche complicità tra la «Frusta Letteraria» e i
Gesuiti, checché protestasse poi il Baretti, non sono tutti
infondati. Né avremo ragione di stupirne noi dopoché il pensiero del
Baretti ci si è rivelato caratteristicamente reazionario e tutto
inteso a cogliere nel cattolicismo un valore politico di strumento
d'ordine e di regno.
L'amicizia del Baretti per la Chiesa fu costante ed è curioso notare
come critiche e progetti di riordinamento pratico dell'edificio
ecclesiastico egli rivolgesse talvolta contro i frati, non mai
contro i preti. Nello Scritto mandato dal Baretti da Londra a S. A.
R. il Duca di Savoia circa a varie operazioni da farsi nel principio
del suo futuro regno, l'autore si preoccupa dell'accrescimento del
numero dei frati, ma si guarda dal riferire il suo discorso alla
questione centrale dell'invadenza del potere ecclesiastico
«Questi frati, se io non erro, oltrepassano nel nostro paese il
numero di dodicimila. A provvedere di tutto il necessario una tanto
sterminata turba, calcolando che ciascun frate costi solo ventidue
soldi e mezzo al giorno, si richiede una somma la quale ascende a
quattro milioni e mezzo l'anno circumcirca e siccome le Riverenze
Loro non lavorano la terra né esercitano alcun lucroso mestiere non
occorre darsi l'incomodo di provare che non guadagnano una lira
l'anno allo Stato: cosicché considerati politicamente, riescono un
peso morto addosso allo Stato medesimo, abbisognando a forza che i
quattro milioni e mezzo sieno interamente frutto della fatica dei
nostri agricoltori e dei nostri operai, direttamente o
indirettamente. Il lungo costume e l'invecchiata superstizione del
nostro popolo spensieratamente frataio, fa sí che esso non senta
punto la gravezza di quel peso, il quale si è andato aumentando
tacitamente di secolo in secolo; e forse per la medesima ragione il
nostro Governo non si è mai voluto avvedere di un tanto politico
disordine, e della perdita successiva fatta di migliaia di sudditi,
che sarebbero pur nati di legittimo matrimonio, se le porte dei
conventi non si fossero sempre tenute spalancatissime a tante anime
di mosca, a tanti inesperti, a tanti sassi, e a tanti nemici del
troppo lavoro»31.
Se chiedete al Baretti un rimedio vi dirà che i frati devono per
l'avvenire rendersi utili e cominciare con lo studiare greco e
latino. Siamo all'antitesi del pensiero riformatore di Radicati e di
Alfieri. Non la mondanità dei costumi e l'allontanarsi dai precetti
evangelici si rimproverano al clero, ma la sua scarsa utilità
mondana, il poco spirito pratico! I preti invece son simbolo di
ordine: quadri perfetti per lo Stato conservatore. Le lettere
dall'Inghilterra di Baretti sono il testamento politico del
piemontese che incomincia a sentire i pericoli e la paura
dell'eresia e della rivoluzione.
6. Il conte Vasco.
L'enciclopedista per eccellenza, il riformatore, il Verri
piemontese, è il conte Francesco Dalmazzo Vasco. I suoi manoscritti
trattano di imposte, di codice criminale, di progetti
costituzionali, di filosofia, della Corsica: stampati occuperebbero
20 volumi in-folio. È lo spirito di Radicati di fronte alla
rivoluzione francese; un inquieto interesse portato su tutti i
problemi, su tutti i mutamenti, su tutte le novità; una cultura di
prima mano, europea; una curiosità schietta di storico, di
innamorato del vero.
Come Radicati e come Giannone seppe rinunciare per le idee agli
onori e alla vita tranquilla. Imprigionato due volte morí in
carcere; e il suo nome resta una testimonianza dura contro la
decadenza spagnolesca del regno di Vittorio Amedeo III.
Nel primo arresto c'è lo stile del conte Bogino, suo «mortale
nemico»; poiché finsero una faccenda di disciplina amministrativa
per mascherare una persecuzione contro la libertà di coscienza di un
suddito.
«Il re Carlo Emanuele aveva fissato l'apparente castigo a pochi mesi
d'arresto; ma quando uno sdrucciola cosí, par che vi sia
l'indulgenza plenaria a dargli tanti urti che bastino per farlo
rovinare onde, non sapendo i miei nemici cosa altro affibbiarmi,
diedero mano al solito pretesto non ha religione e fecero credere al
Re che io fossi un eretico, un ateo. Difatti S. M. Carlo Emanuele
deputò il signor teologo Tonso, canonico alla cattedrale d'Ivrea,
per venirmi a convertire; il quale, quando mi ebbe parlato, ebbe a
meravigliarsi d'aver avuto una simile commissione. Io, essendo in
castello, per occuparmi mi posi a tradurre in italiano lo Spirito
delle leggi di Montesquieu con note, colle quali dava una sana
interpretazione a quei passi ch'erano equivoci, e confutava quelli
che non si potevano sanamente interpretare. Era ormai al fine il mio
lavoro quando un mattino mentr'era in cappella mi fu, d'ordine
regio, preso il manoscritto. S. M. lo fece esaminare da un teologo
(non so chi sia né mi curai di saperlo, perché non potrò mai stimare
un uomo simile) il quale riferí che, a dire il vero, non vi era
alcuna eresia, ma si vedeva quello spirito di libertinaggio, che
nuoce adesso cotanto alla Chiesa. In tutto ciò che ho scritto dopo
che sono al mondo, ho sempre predicata la virtú e declamato contro
il vizio, perché, sebbene purtroppo non abbia io esercitato la
virtú, l'ho però sempre amata, e sono sempre stato persuaso che ella
è necessarissima ad ogni individuo, ma altresí al bene generale. Se
questo è spirito di libertinaggio, lo dica chi ha senso. In seguito
a tale assurda relazione, S. M. ha creduto che fosse opportuno di
continuare la mia detenzione per convertirmi. Questo e non l'affare
di Corsica è stato il motivo poi, per cui Vittorio Amedeo salito al
trono mi ricusò per dodici anni e di sentirmi e di permettermi di
portarmi a Torino (con mio danno gravissimo di piú di centomila
lire). Io ho sempre creduto che i miei nemici lo tenessero in
inganno: cosa ne abbia a pensare adesso, nol so»32.
Delle teorie di Dalmazzo Vasco sono interessanti i luoghi che
chiariscono il suo giusnaturalismo. Egli si appella a san Tommaso e
cita il De Regimine principum come testo fondamentale della sua fede
«monarchica» e «democratica»: prima del secondo arresto non era
dunque né eretico né rivoluzionario. Invece dominava in lui il
sentimento preciso dei diritti individuali e dell'insopprimibile
dignità personale, confortata da evidenti letture francesi.
Il desiderio della libertà è nato con l'uomo. Vi sono diritti
fondamentali che neanche la legge può contestare. Per esempio: «I
pensieri non sono sottoposti alla giurisdizione degli uomini». «Ogni
uomo ha il diritto di essere creduto innocente finché non è convinto
di avere commesso un delitto» : questo è un principio non solo
legale, ma naturale. I governi, nei quali sia legge il capriccio del
principe sono privi di garanzie civili, sono governi tirannici. Cosí
in diritto pubblico non il principe, ma apposite assemblee
rappresentative devono fissare le imposte33. A proposito di diritto
famigliare, Vasco vuole che la patria potestà sia limitata
all'educazione dei figli; e non accetta il divorzio, ma chiede che
si renda facile la separazione legale34.
Tutti questi non sono concepiti come piani astratti perché Vasco sa
bene che è «impossibile immaginare un piano che sia conveniente ad
ogni qualunque popolo». Sono resistenze e tentativi di conciliazione
davanti allo spirito ormai trionfante della rivoluzione. Vorrebbero
correggere i difetti, evitare le posizioni estreme.
Con l'animo di un moderato in cerca di utili riforme scrisse il
Saggio politico intorno ad una forma di Governo legittimo e moderato
da leggi fondamentali. Era un piano di temperamento per riconciliare
la Casa regnante di Francia colla nazione, dunque il piano di un
conservatore che credeva prudente evitare l'avventura di una
controrivoluzione. Lo incolparono di voler dare consulti ad una
potenza estera e di avere in animo la stampa del libro fuori dello
Stato. Era il processo alle intenzioni contro lui che scriveva: «Dio
ha riserbato a sé il giudicare i pensieri ed il scrutare i cuori;
gli uomini sono giudici delle azioni, non dei pensieri».
Vittorio Amedeo III dispose che fosse «tradotto nel Castello di Ceva
ed ivi trattenuto senza limitazione di tempo, senza colloquio e
colla massima cautela, onde non gli sia permesso di aver carta,
penna e calamaio» (22 agosto 1792). Credettero di piegarlo colle
persecuzioni: ne fecero un uomo nuovo. Quando fu trasportato da Ceva
a Casale e poi a Ivrea, chi lo vide lo trovò invecchiato, pallido,
macilento, con barba lunga e irsuta, e colle gambe infilzate in un
paio di stivali di piombo35. Ma lo spirito era vivo. La sua difesa,
scritta in carcere, è un testamento che segue una logica dritta ed
audace. Il suo linguaggio è aperto e senza riguardi: «Un principe
che si mostra offeso che si declami contro un tiranno crudele e
cattivo, non si fa egli grandissimo torto? Nessun uomo onesto si
mostrerà offeso che si promulghi una pena gravissima agli assassini
ed ai ladri».
«Il fatto si è che si teme l'esempio della Francia». Questo esempio
ha ormai mutato le cose, ha reso impossibile governare senza
«giustizia e carità». Dichiarando che «l'unica causa delle
rivoluzioni sono le ingiustizie e le oppressioni» sembra che egli
pronunci un'intimazione e che annunci la fine del vecchio regime.
Morí in carcere il 12 agosto 1794. Sappiamo da un compagno di pena
che negli ultimi anni non cessò di vagheggiare disegni di
insurrezioni, che mandava a uomini fidi nel suo paese. Era nato a
Mondoví, terra storica delle ribellioni piemontesi, straziata da
Vittorio Amedeo II col ferro e col fuoco.
7. Alfieri.
Tra leali e fedeli servitori del re, tra laici moderati e giuristi
dello Stato costituzionale, Vittorio Alfieri è il primo uomo nuovo,
anche quando il suo tono e il suo stile si compiacciono di arcaismi,
ora romanamente eroici, ora aristocraticamente anarchici.
La passione dominante di Vittorio Alfieri è risolutamente moderna;
dall'angusto illuminismo del Settecento la sua volontà tende a
un'affermazione romantica e individualista. È figlio caratteristico
del suo tempo per la sua inquietudine avventurosa e per la disperata
necessità di polemica contro le autorità costituite, i dogmi fatti,
le tirannie religiose e politiche.
Ci ha lasciato il piú generoso esempio di resistenza intellettuale
attiva contro le oppressioni politiche, resistenza dell'individuo
solo che non è vinto già per il fatto di sentirsi spiritualmente piú
alto del tiranno. Tre generazioni si educarono in Italia sulla sua
opera; e ancora per noi rappresenta la morale intransigente
dell'uomo libero in tempo di schiavitú.
La ribellione contro i contemporanei si esprime nell'ostinato
disprezzo in cui egli tiene la cultura ufficiale e i modelli piú
divulgati di stile e di pensiero.
Anche i critici piú eruditi sono attoniti di stupore per l'ignoranza
dell'Alfieri. Essi non possono vedere che si tratta di un'ignoranza
ricca di una scienza nuova e concludono indagini con terribili atti
di accusa contro il loro autore. Alfieri sarebbe un superficiale, un
egoista insopportabile che avrebbe per le idee l'interesse che porta
alle avventure di viaggio e d'amore. Appena riconoscono un poco
l'artista e il patriota.
La genuina atmosfera storica di Alfieri non è nel rigido ambiente
tradizionale italiano, ma nel fervore spirituale europeo che con la
libera critica prepara il culto dell'individualismo e le lotte per
la libertà. Il violento rilievo della personalità alfieriana fa
pensare piuttosto alle tragiche figure della rivoluzione che alla
pacifica calma dell'illusionismo riformatore. I suoi accenti
libertari ricordano Stirner e Nietzsche.
Alfieri non fu piú filosofo che poeta come scrisse Leopardi, ma fu
filosofo e non mero letterato anche quando lo hanno tenuto lontano
dal rigore metafisico, perché la sua vita e le sue battaglie
presentano una inesorabile e continua coerenza, fondata su una
esclusiva passione per la libertà che rimane il concetto centrale
della sua polemica contro la tirannide e contro il cattolicismo, e
la base positiva della sua morale eroica.
Anticattolico l'Alfieri fu per istinto. Comune con i pensatori del
Settecento la repugnanza verso il dogmatismo e il formalismo della
religione dominante. Il papa è complice del tiranno: l'inquisizione,
il purgatorio, la confessione, il celibato, sono gli espedienti con
cui si impedisce il libero pensiero. Il dominio temporale contrasta
con la dignità dei popoli. I popoli soltanto per ignoranza e per
timore possono credere esservi un uomo «che rappresenti
immediatamente Dio; un uomo che non possa errare mai; ora
l'ignoranza è l'antitesi della libertà, e il timore, non potendo
essere ispirato dalle scomuniche, attesta chiaramente che dove è il
pensiero del pontefice, là è il tiranno; dove vi è dogmatismo
religioso, là vi sono spade a sostenerlo». «L'autorità illimitata
sopra le piú importanti cose e velata dal sacro ammanto della
religione importa molte e notabili conseguenze: tali insomma che
ogni popolo che crede e ammette una tale autorità si rende schiavo
per sempre». Un popolo sano e libero che accetti la credenza della
infallibile e illimitata autorità del papa «è già interamente
disposto a credere in un tiranno, che, con maggiori forze effettive
e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel papa stesso, lo
persuaderà e sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche
come già obbedisce al solo papa nelle religiose». «Non vi può dunque
essere ad un tempo stesso un popolo cattolico veramente e un popolo
libero».
L'anticattolicismo dell'Alfieri ha le stesse aspirazioni laiche di
tutta la critica del Settecento. Invece sono assolutamente nuovi i
motivi politici positivi che egli accenna.
«La libertà è la sola e vera esistenza di un popolo; poiché di tutte
le cose grandi operate dagli uomini la ritroviamo essere fonte». Qui
gli istinti ribelli di Alfieri rivelano una chiarezza critica e
religiosa; e la polemica contro il cattolicismo invece di risolversi
nello scetticismo dei giacobini miscredenti invoca una religiosità
piú spirituale, una morale eroica che guidi la vita e l'azione degli
uomini e dei popoli.
Il credo alfieriano insomma, si rivolge a una religione e a un Dio
«che sotto gravissime pene presenti e future comandino agli uomini
di essere liberi».
La sua politica è un ideale di liberazione e un imperativo di lotta:
chi gli chiederà di esporre un piano di Stato futuro e di decidersi
tra le diverse forme costituzionali mostrerà di non aver inteso la
sua posizione storica.
La sua volontà di combattente non può anticipare i risultati. Esige
dal popolo – non piú plebe – spirito di sacrificio, che sia prova di
attitudini rivoluzionarie. L'Italia non sarà libera senza i
«bollenti animi che, spinti da impulso naturale, cercano gloria
nelle altissime imprese», senza la «giusta e nobile ira dei
drittamente inferociti e illuminati popoli».
Ecco la morale della rivoluzione. «Giunge avventuratamente pure quel
giorno in cui un popolo oppresso e avvilito, fattosi libero, felice
e potente, benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue
per cui da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti
individui se n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed
egregia di liberi e virtuosi uomini». Lotta di libertà contro
tirannide: lotta religiosa. Qui l'etica è alla base della politica.
Non si è uomini se non si è liberi. Non si tratta di conquistare la
libertà per mezzo delle riforme o attraverso l'utilitarismo dei
moderati e dei filantropi; la libertà di politica di Alfieri nasce
dalla libertà interiore, intesa come forte sentire.
Quest'idea è il programma politico di Alfieri, annuncio di una
rivoluzione che ancora si attende nella storia italiana, ed è anche
la sua metafisica, il suo assoluto, il suo Dio.
Ma è una posizione senza eredi.
8. Le plebi e l'economia.
La critica dei piemontesi «europei» si accompagna con un destino di
solitudine. Essi sanno di non essere realisti in senso gretto, non
hanno bisogno delle consolazioni dell'ottimismo, non si illudono
sulle risonanze del loro pensiero e del loro esempio.
Ma nessuno di questi annunciatori ebbe la visione delle condizioni
sociali delle plebi alle quali parlava. Lo stesso G. B. Vasco, uno
degli economisti piú originali del secolo, tolse i toni piú
squallidi dalla sua descrizione della società piemontese del
Settecento. Gli storici esitano giustamente di fronte alle visioni
complessive di una società sotterranea; sentono di non poter
decifrare il linguaggio e la psicologia degli strati inferiori
dell'umanità; e veramente tutte le intuizioni sembrano fallaci
quando si vorrebbe intendere la vita di un secolo nei destini
anonimi delle plebi diseredate. Ma il dramma di queste sofferenze,
l'istinto ribelle delle plebi di Mondoví, messe a ferro e a fuoco
per la loro resistenza a una tassa iniqua; la cupa rassegnazione dei
contadini delle valli alpine e della contea di Nizza, condannati
alla fame e a un lavoro senza redenzione, capaci di tutti gli
eroismi e di tutte le sopportazioni durante secoli di guerre, che
non avevano alcun senso per la loro vita, gratuite e infernali come
la peste, l'inutilità di questo dolore per chi lo soffre è uno degli
aspetti essenziali della preparazione del Risorgimento. Certo per un
oscuro spirito di vendetta le plebi mettono oggi la leggenda di
Pietro Micca (un nome alle loro sofferenze) molto al disopra della
statua aulica di Vittorio Amedeo II. E il mito di Pietro Micca,
comunque lo deformi il pedagogismo ufficiale delle scuole, è
un'affermazione sovversiva, è nato dallo spirito della lotta di
classe.
L'agricoltura. Il Piemonte è un paese naturalmente povero, montuoso,
senza facili comunicazioni col mare, senza vie commerciali, rovinato
dalle guerre, dai tributi, dai privilegi ecclesiastici e feudali.
Fino al Cinquecento la coltura della vite è la piú ricca risorsa
dell'agricoltura. Emanuele Filiberto introduce il gelso. Ma ancora
nel Seicento metà delle terre sono fortemente incolte; altre sono
minacciate dall'imperfetta sistemazione idrografica; Cuneo e Asti
sono le meglio coltivate, ma poco se ne ricava oltre il grano
sufficiente per il consumo locale, il vino e l'olio. Nel Settecento
le condizioni migliorano; le terre incolte sono ridotte da metà a un
quarto; nelle valli alpine i contadini conquistano lentamente e
duramente alla montagna ogni metro quadrato di terra coltivabile.
Tuttavia il suolo è povero, gli uomini tendono all'emigrazione, non
esiste capitale mobile, se non presso gli ebrei che praticano un
tasso di interesse oscillante tra il 50 e l'84%.
In quanto al regime della proprietà esiste un certo equilibrio tra
piccoli, medi e grandi proprietari, perché anche i nobili soffrono
delle condizioni generali di miseria, e povera è la Corte se si
pensa che soltanto con Carlo Emanuele II e con le sue Madame Reali
poté sorgere a Torino la grande architettura. Ma il patriziato
possiede generalmente le terre migliori della pianura mentre i
piccoli proprietari sono condannati alle piú difficili coltivazioni
dei terreni collinosi e montuosi36.
Conduzione e coltura sono frazionate: fiorisce la mezzadria, tipico
regime di un'agricoltura che non consente speculazioni industriali e
non permette larghezze né al proprietario né al coltivatore; e nella
mezzadria il paternalismo dei rapporti quasi famigliari tra le due
classi è indispensabile per non abolire del tutto la rendita. Le
vecchie classi di proprietari venivano tuttavia rapidamente
esaurendosi: ma la mancanza di iniziativa nei coloni non consentí la
grande trasformazione della proprietà che si ebbe in Francia. I
prodotti di cui i coloni si trovavano a disporre dopo il raccolto
erano cosí modesti per la scarsa fertilità del suolo e gli angusti
confini del loro campo, che l'aumento dei prezzi verificatosi
durante il regno di Vittorio Amedeo III non ebbe effetti benefici
sulle loro condizioni.
Anzi la crisi preparò il tramonto della mezzadria. Mentre i prodotti
rincaravano, le mercedi restavano stazionarie per la gran turba di
nullatenenti, che le Opere pie non bastavano piú a nutrire. Ecco una
situazione simile a quella in cui Ricardo troverà, in Inghilterra,
le prove della sua teoria della rendita. Anche in Piemonte, in mezzo
all'assenteismo dei vecchi nobili si forma una nuova classe di
fittavoli che introducono i progressi della tecnica agraria e
specialmente operano nelle condizioni adatte per avvantaggiarsi
dell'aumento della rendita.
La sostituzione della grande affittanza schiavista alla mezzadria
rompe il sistema paternalistico di protezionismo, filantropia e pace
sociale inaugurato da Vittorio Amedeo III, e durato tutto il periodo
della rivoluzione francese. In questi anni, braccianti e servi sono
i protagonisti degli episodi di scontentezza e i fittavoli
costituiscono la schiera prudente dei fiancheggiatori della
rivoluzione francese. Ma da questa classe di profittatori del
giacobinismo non si possono ricavare quadri politici seri.
Pochi decenni prima G. B. Vasco aveva scritto il suo opuscolo su La
felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie37,
quasi un presentimento di tempi torbidi, candida difesa della
piccola proprietà, del conservatore illuminato. Ma le classi
dominanti non erano illuminate e l'avventura della restaurazione
consacrava la loro decadenza.
L'industria. Al movimento dei «riformatori» mancavano il sostegno e
l'esperienza di un movimento industriale. Il colbertismo di Vittorio
Amedeo II fece sorgere le prime manifatture di tessuti, ma Vasco,
nel suo mirabile saggio Del setificio, dimostrò l'inutilità di
questi dazi doganali. «Pensano alcuni e forse non hanno tutto il
torto che il Governo non debba accordare alcuna protezione fuori
quella che consiste in propagare i lumi e togliere gli ostacoli».
«Le manifatture opportune si stabiliranno e prospereranno da sé
senza che se ne mischi il Governo». «Quelle le quali si sostengono a
forza di favori, di divieti, di provvedimenti... sono di sua natura
poco convenienti al paese perché danneggiano l'agricoltura o qualche
commercio piú naturale»38.
Il tenore di vita frugalissimo del Piemonte del Settecento
consentiva di chiudere in attivo la bilancia commerciale: ma le
esportazioni erano costituite per tre quarti dalla seta.
Ora il Vasco dimostra che la manifattura della seta entra nella
somma totale per meno di un centesimo. «Il profitto della riduzione
dei bozzoli in seta devesi attribuire alla legge che vieta l'uscita
dei bozzoli»39. Infatti le manifatture straniere non sono inferiori
alle nostre. Anzi, la nostra torcitura è piú spesso disuguale e se
gl'intraprenditori avessero piú forte senso industriale, facilmente
potrebbero essere diminuiti nei nostri filatoi il consumo della
forza motrice e lo sciupío della materia. Il nostro setificio non è
dunque un'industria sana; esso si regge sul fatto che noi abbiamo
bozzoli di nerbo migliore.
Ma un'industria sarà sempre impossibile in Piemonte finché durerà il
regime delle Corporazioni. Nel saggio Delle Università delle arti e
mestieri, che Vasco afferma di aver scritto in omaggio a Turgot e a
Smith, questa proposizione è data come il fondamentale problema
economico del secolo.
Egli intravvede l'economia del mondo moderno, le leggi della vita
industriale, il mercato mondiale, l'azione suscitatrice delle
concorrenze, il trionfo della libertà e dell'iniziativa, la rovina
del nazionalismo economico.
«Sarebbe assai malaccorto colui che volesse fabbricare le sue
scarpe, la tela per le sue camicie, il panno per il suo vestito,
ecc. invece di occuparsi tutto di un'arte, dal cui provento ritrar
potesse onde comprare tutto ciò che gli abbisogna. La stessa cosa
per il Governo che senza invidiare tutti i prodotti e tutte le
manifatture straniere deve occuparsi di quelle che piú convengono
alle sue circostanze»40.
Sono inutili tutti i controlli di Stato e le garanzie
burocratiche:«I veri e naturali ispettori di tutte le fabbriche sono
i consumatori ». Lo Stato non può che spandere la maggior copia
possibile di lumi perché siano piú facili e più comuni i mezzi per
discernere le merci buone dalle difettose. Ma in quanto ai tirocini,
agli esami, ai regolamenti delle maestranze «non contribuiscono per
modo alcuno alla perfezione dei manufatti, poiché l'impresario
troverà il suo interesse a valersi di chi gli renda un lavoro fatto
a suo genio e non impiegherà mai le persone a ciò fare incapaci»41.
Il regime delle Corporazioni è causa prima di crisi e di
disoccupazione. Correlativi ai divieti e ai provvedimenti
restrittivi diventano indispensabili per conservare un equilibrio
sociale artificioso i sussidi della beneficenza. E in Piemonte le
abbondanti elemosine pubbliche e private già troppo invitano la
plebe alla mendicità e all'ozio.
«Un homme n'est pas pauvre parce qu'il n'a rien, mais parce qu'il ne
travaille pas», dice Montesquieu. Il pauperismo in Piemonte era la
garanzia del vecchio regime: chi vive di elemosina non potrà
partecipare alla lotta politica; una libera classe lavoratrice non
avrà cittadinanza su questa terra neanche nell'Ottocento: lo Stato
rimarrà un congegno amministrativo in mano di pochi privilegiati. Il
Risorgimento non sarà popolare dove non esiste un proletariato.
L'emigrazione. L'emigrazione è la sola ricchezza dei poveri. I
piemontesi fedeli alle loro montagne non partecipano in forte misura
all'emigrazione permanente: nel 1734 questa si valuta di 5958 anime
su 496390 abitanti, nel Piemonte propriamente detto. L'emigrazione
temporanea invece comprende in certe province metà della
popolazione. Gli operai qualificati del Biellese (muratori), di Susa
(cardatori), di Altare (vetro), ricavano in questo modo dall'estero
un salario provvidenziale per l'economia piemontese. Solo
l'emigrazione può evitare le crisi in un paese che ha eccesso di
popolazione e scarsità di industrie42. Lo stesso governo
paternalista fu costretto dalla violenza delle cose ad abolire quasi
tutti i divieti di emigrazione.
Ma le turbe piú numerose dell'emigrazione temporanea erano di gente
umile e misera senza parte né arte, stretti dalla disperazione,
stanchi di durare alla fame: e in terre nuove dovevano cercare pietà
piuttosto che lavoro. Dalla Savoia e dalla valle d'Aosta giungevano
a Parigi spazzacamini e lustrascarpe e i piú poveri del Nizzardo si
avventuravano talvolta sino a Londra «procurandosi il vitto
coll'esibizione di varie curiosità, come lanterne magiche, mondi
nuovi, marmotte e simili, e i piccoli mendicando». Anche oggi
qualcosa di questa desolazione si vede in Saffron Hill.
9. L'ultimo del vecchio regime.
Rancori e tormenti rimanevano oscuri e sotterranei e nelle apparenze
il regno di Carlo Emanuele III e del suo successore, dopo la pace di
Aquisgrana, era un modello di governo ordinato, pacifico, equo. I
politici piú realisti, di fronte all'ipotesi di un grande
sovvertimento provocato dalla stanchezza delle masse popolari,
credevano di capire che il rimedio piú sicuro fosse l'equilibrio
garantito dal vecchio regime. Il calcolo non era esatto neppure in
Piemonte, dove il colbertismo, fallito nell'industria, non riusciva
a impedire una grande trasformazione nel regime della proprietà
agraria. Senza dire che il vecchio regime era sconfitto in Europa.
L'ultimo dei realisti moderati che accettarono le critiche dei
giovani senza rinnegare i vecchi fu il conte Gian Francesco Galeani
Napione di Cocconato Passerano. Nato nel 1748 poté assistere sino al
1830 al contrasto di due mondi. Conservatore sotto tutti i regimi
non si trovò a disagio né col principato sabaudo del Settecento, né
con Napoleone, né con la Restaurazione. In lui si rivelano gli
istinti di adattamento e le qualità anche meno belle del
politicantismo italiano. In pieno risveglio enciclopedista rimane
eclettico. Tra i tribuni e i demagoghi conserva lo stile impeccabile
del gentiluomo piemontese arido e pedante; anche se non resiste a
Napoleone, conserva le sue virtú di nobile servitore fedele.
Sorprendiamo il turbamento che i compiti nuovi di economia moderna e
di politica internazionale portano nel tradizionale buon senso
piemontese. Il Napione riusciva a salvarsi guardando i fatti da buon
diplomatico, libero da ogni crisi spirituale. La politica discerne,
pesa e classifica i valori dove la cultura lascerebbe sfumature. Le
soluzioni proposte dal Napione ai problemi del suo tempo sono
caratteristiche del piemontese lontano dalla metafisica e dal
romanticismo: buon cattolico, mette lo Stato al disopra della
religione, e in politica pregia piú i diplomatici che i letterati o
gli strateghi. Data questa fermezza amministrativa, anche i problemi
piú lontani diventano problemi di ordine naturale e resta sempre un
modello di genialità il progetto che l'onesto e mediocre Napione
presentò per una Confederazione nazionale che riconoscesse suo capo
il pontefice, e specialmente servisse agli interessi piemontesi
nella difesa contro la Francia. L'astuzia del leale servitore del re
preveniva addirittura i sogni neoguelfi.
La distinzione è questa: che il neoguelfismo contava sulle
corruzioni delle plebi e si risolveva in una demagogia di schiavi;
il piano strategico di Napione invece si fondava su una candida
astuzia laica e reazionaria. E solo con questi ripieghi il Piemonte
poteva continuare la sua politica e destreggiarsi senza
compromettersi, tra le esigenze e le pretese della Chiesa e la
rivoluzione alle porte.
Il conte Napione era così preoccupato della piega che prendevano le
cose che si indusse subito ad abbandonare la letteratura per
l'economia e la politica ed è curioso rivedere anche nei suoi studi
economici la stessa cautela ordinata e sapiente che non crede
all'irreparabile e si ostina a suggerire i rimedi. I rimedi di
Napione al pauperismo erano di natura utilitaria e riformista; egli
sperava colla politica sociale di seppellire le crisi e di
continuare a conciliare l'aristocrazia latifondista e gli
affittuari, gli affittuari e i proletari. Non poteva credere che la
crisi agraria nascondesse i problemi dello Stato moderno e una
rivoluzione di idee.
C'è una parola che definisce insieme i suoi orizzonti spirituali e
la sua pacifica longevità: tolleranza. Con l'idea di tolleranza
l'antico regime si confessava indulgente verso gli uomini nuovi, e i
conservatori in Italia riuscivano con la tolleranza ad evitare i
dilemmi e le lotte religiose e politiche. Concessioni del cattolico
al libero esame per allontanare la rivoluzione.
Le idee del Napione sulla religione sono per questo aspetto piú
significative che singolari e l'eresia è sempre nascosta dalla
prudenza del politico.
Ecco, per esempio, il frammento di un progetto del Napione per la
pace con le potenze barbaresche, contro le crociate:
«Si ponga soltanto in considerazione, primieramente che nello stesso
secolo XIII, secolo in cui il genio delle Crociate bandite contro
gli Infedeli aveva invaso la mente di tutti, uno dei piú grandi
uomini che aveva avuto la Chiesa di Dio [san Tommaso], fu di
sentimento che permesso non fosse in alcun modo di muover guerra
agl'Infedeli per far loro abbracciare la vera credenza... In secondo
luogo, che qualunque siano gli stabilimenti fattisi e gli obblighi
assuntisi da Sovrani e da Corpi nei secoli delle Crociate e della
Cavalleria, o nel farli si ebbero presenti i dettami della Religione
depurata dal fanatismo, ed in tal caso non potranno mai persuadere e
tanto meno obbligare a dover essere sempre in stato di guerra cogli
Infedeli, o non si ebbe verun riguardo a tali ammaestramenti, ed
allora contro la verità non essendo di veruna forza la prescrizione,
non si dovrebbe fare il minimo caso dei nostri piú zelanti che
illuminati maggiori».
«Non sono gli Infedeli, ma l'Infedeltà che procurar si vuole di
distruggere. E si è offendere la religione medesima il trarre da una
pietà male intesa motivi d'indecisione e d'incertezza, travedere da
per tutto le apparenze del male, ed opporre incessantemente un
fantasma di Religione alle imprese piú giuste od alle massime di
Stato piú fondamentali».
La rivoluzione francese non si fermerà piú né alla laicità, né al
liberalismo, né all'idea della Confederazione nazionale.
Con la sconfitta di tutti i riformatori cade l'ultimo programma
italiano. Alfieri e l'alfieriano spirito di Foscolo sembrano fuori
della realtà e a quelli che credono di inserirsi nella storia, ai
fiancheggiatori di Napione non rimane che il facile sogno di una
Costituzione francese.
Nelle memorie presentate al celebre concorso lombardo del 1796:
Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, si
potrebbero cercare i documenti del tramonto delle tradizioni
spirituali italiane43.
La filosofia politica di Vittorio Alfieri
Alla mia Ada
Questo saggio, che costituisce la tesi di laurea in filosofia del
diritto, sostenuta da Piero Gobetti all'Università di Torino nel
giugno 1922 (relatore il professor Gioele Solari) ottenendo la
votazione di 110 e lode e dignità di stampa, venne stampato
dall'autore stesso, nelle sue edizioni, in volume, nel 1923.
Ripubblicato in Risorgimento senza eroi cit., pp. 157-246. Tutte le
note sono dell'autore.
Prefazione
Questo saggio sull'originalità della filosofia politica di Vittorio
Alfieri è la prima parte di una serie di studi sulla genesi
filosofica del Risorgimento in Piemonte. Alcuni di questi studi già
ho compiuti e presentati in altra sede; essi indicano la direzione e
il punto d'arrivo delle mie ricerche, ma saranno tutti rifusi in uno
studio piú comprensivo e sistematico. Penso che si possa ritrovare
una corrente di pensiero, autoctona e ininterrotta, assai piú
indipendente che di solito non si creda dall'influenza e dalle
sovrapposizioni straniere – la quale nasconde le sue origini
nell'oscuro principio del Settecento, rianimata e suscitata, sia
pure indirettamente, da una serie di principi intelligenti e degni
iniziatori di un mondo che i loro successori non seppero continuare;
e poi trova espressione in G. Baretti, in V. Alfieri, in L. Ornato,
in V. Gioberti, in G. B. Bertini.
Dai loro interessi speculativi questi furono tratti a vagheggiare un
Risorgimento e un liberalismo che ben si può dire originale, e in
cui si trovano le premesse della nuova cultura politica italiana.
Anche se comunemente meno noti e piú fraintesi, essi non hanno certo
minor importanza della corrente hegeliana di Napoli: meno felici e
meno significativi di questi solo perché non trovarono nella cultura
degli ultimi venti anni continuatori e interpreti parimenti
profondi.
Di Vittorio Alfieri in particolare troppo si è detto – da chi lo
salutava anarchico a chi lo voleva monarchico costituzionalista –,
ma chi scrive spera di averlo studiato in modo non consueto si da
giustificare almeno l'opportunità delle nuove indagini che per la
prima volta ricostruiscono il pensiero filosofico suo e lo
determinano nella storia dello spirito europeo e italiano facendone
scaturire, con la sistematica coerenza che egli voleva, la religione
e la politica.
1. Alfieri e la critica.
Per capire l'Alfieri e valutare i critici dell'opera sua con animo
deliberato a far nostri i loro risultati e a superarli, bisogna
risalire al De Sanctis. Invero la critica desanctisiana sull'Alfieri
è stata fraintesa e negletta e se ne può cogliere il giusto valore
solo dando un organismo sistematico alle frammentarie espressioni in
cui s'è manifestata.
Dei tre scritti che il De Sanctis dedicò all'Alfieri il primo44
afferra e spiega il concetto dell'unità di passione in cui arte
tragica e temperamento individuale coincidono con una coerenza che è
perfetta nel Saul e in alcuni motivi di vita pratica dell'autore; il
secondo45 segna un vigoroso approfondimento della formula estetica
iniziale che imperiosamente si amplia a diventare canone di
interpretazione storica e morale, sí che, venuti a coincidere il
mondo del critico e il mondo del poeta, il momento dell'esegesi è
fatto d'un subito centro intenso di polemica vitale e Alfieri e De
Sanctis combattono insieme, difensori dell'immanentismo moderno
contro il dogmatico «Proudhon della reazione»46, dell'onestà
letteraria contro la superficialità, l'esprit, l'insolenza sterile
di Giulio Janin47; il terzo48 pone con forte sintesi storica la
figura di Vittorio Alfieri nel fervore di rinnovamento civile e
morale dell'Italia settecentesca. In questo terzo momento di
completa maturità riflessiva sono inverati i due primi (l'uno troppo
esclusivamente letterario, l'altro ancora vibrante di motivi
nobilmente pratici che sarebbe difficile ridurre sotto una rigorosa
determinazione concettuale): e la nuova spiegazione desanctisiana
del problema Alfieri appare piú ricca e piú capace di sviluppo.
Scrivendo di Alfieri durante il Risorgimento il De Sanctis doveva
rimanere necessariamente compreso entro quei limiti che costituivano
pure in sostanza la sua originalità: come per il Foscolo49, anche
per l'astigiano egli era portato a trascurare il puro problema
estetico per dedicarsi tutto alla interpretazione e all'esaltazione
del pensiero patriottico e morale. Ma è un errore esegetico che dà
piú completo sfolgorio di luce e di chiarezza che venti citazioni
precise.
Mentre da un lato l'affermata identità di stile aspro e di ardente
solitaria passione diventa la formula intorno a cui dovrà lavorare
la critica estetica contemporanea, dall'altro il concetto di un
pensiero alfieriano (che è insieme azione) patriottico e morale apre
la via ad indagare e chiarire i motivi romantici dell'individualismo
alfieriano che dànno la misura della sua coscienza filosofica e
politica due compiti precisi che l'esegesi positivistica dimenticò
in vane ricerche antropologiche, o in limitate documentazioni
erudite.
Solo il Croce50 in una serie di brevi scritti ha svolto con qualche
novità il concetto desanctisiano dell'unità dello spirito e della
passione di Vittorio Alfieri, riuscendo a mostrare come il suo
ardore pratico oratorio abbia, rispetto ai risultati estetici,
considerevoli limiti in se medesimo, e tuttavia l'eloquenza lasci
spesso libera via alla concretezza poetica. Per chiarire la
psicologia dell'Alfieri poi il Croce è ricorso all'efficace
definizione di protoromantico che determina secondo un valore nuovo
il concetto di superuomo vivo come aspirazione nella Vita, reale di
artistica realtà nelle dominatrici figure delle piú riuscite
tragedie. Seguendo queste premesse, ottimi criteri ha suggerito il
Croce per l'intelligenza estetica dei «vigorosi sonetti», del
Misogallo e delle Satire a cui singolarmente lo avvicina il suo
gusto squisito per il piccolo frammento perfetto, mentre l'esame
delle tragedie è turbato dall'introduzione di un giudizio («troppo
analizzato e calcolato») ingiustificatissimo per la Mirra e non
coerente (o almeno non chiaro) col ritratto disegnato prima dello
scrittore. Gli spunti crociani di critica estetica attendono dunque
di essere integrati.
Piú inascoltata è rimasta la prima esigenza. È progredito il lavoro
preparatorio; e, attraverso le ricerche di erudizione, sono
migliorate, per dir cosí, le condizioni psicologiche e materiali in
cui si trova il critico dell'Alfieri. I lavori del Masi, del
Mestica, dello Scandura sulla politica alfieriana si sono fermati a
considerazioni esteriori e frammentarie51. Contributi notevolissimi,
essenziali, hanno recato il Bertana all'indagine biografica, il Masi
allo studio storico dei tempi, il Farinelli e il Porena, per vie
indipendenti e diverse da quelle percorse dal Croce, all'esame
estetico, il Mazzatinti alla raccolta dell'epistolario e alla
bibliografia, rifatta poi dal Bustico, ma lo spirito di Vittorio
Alfieri pensatore e poeta è sfuggito a questi sottili indagatori52.
La ragione di tale infecondità critica è nel metodo: non si può
intendere uno scrittore restando nei limiti della filologia; l'unità
dell'individuo si ritrova solo filosoficamente attraverso l'unità
della storia. La visione del De Sanctis è ancora la piú matura
perché si concreta dentro una storia dello spirito italiano. Ma la
cultura positivista, che dimenticò addirittura il Vico e si ridusse
negli ultimi anni agli studi antropologici sul genio invece di
rivivere le opere dei grandi spiriti, volle vedere nel Settecento
italiano soltanto l'effetto di due lavori negativi: i giochi poetici
dell'Arcadia e l'importazione e imitazione delle idee francesi. Già
il Boncompagni53 aveva superato questo gretto pregiudizio
antistorico quando studiava nell'Alfieri e nel Botta gli antesignani
del liberalismo piemontese; i nostri critici invece, preoccupati di
lasciare da parte le idee per rincorrere i fatti, ignorando il
pensiero del Settecento, si ritrovavano poi di fronte il fenomeno
del Risorgimento senza poterne intendere le ragioni profonde: e
coerentemente con questa impotenza la storia dell'Ottocento era
vista nel suo mero aspetto esteriore (dati biografici, battaglie,
atti della diplomazia) o, al piú, come tradizione eroica senza che i
dati e i documenti venissero a prendere valore in un organismo di
pensiero e di coscienza, senza che l'eroico venisse inteso come
concreta azione di uno spirito per un concreto ideale.
Insomma non si intende l'Alfieri se non si determina il rapporto che
lo lega alla tradizione Machiavelli-Vico-Gioberti. Il positivismo
ignora questa tradizione.
La necessità di determinare tale rapporto apparirà piú chiara quando
il nostro studio sarà compiuto: poiché è appunto uno degli intenti
nuovi del presente lavoro. Che l'Alfieri professasse, con piú
ardente calore libertario, la stessa concezione attivistica della
storia che si trova in Machiavelli è risaputo; né alcuno ha messo
mai in dubbio l'importanza dei legami di cui il Gioberti
coscientemente volle avvincersi all'opera e alla profezia
alfieriana. Dubbio può sembrare invece il discorrere di un Alfieri
legato idealmente al Vico. Pare assodato che l'Alfieri non abbia
letto mai il filosofo napoletano, e del resto tra il pensiero
storicistico e le preoccupazioni metafisiche del Vico e l'esasperato
individualismo e antintellettualismo alfieriano ognuno sarebbe
tratto a vedere piuttosto antitesi ed esclusione che coincidenza e
vicinanza. A queste obbiezioni si risponde che il nostro discorso
mira a cogliere le fasi ideali della formazione dello spirito
italiano e le tappe che si segnano acquistano perciò valore di
simbolo e significato trascendentale di natura diversa dall'esegesi
della personalità empirica.
Le recenti ricerche storiche e filosofiche hanno singolarmente
aiutato e preparato un'indagine integrale che spieghi la figura
dell'Alfieri nella storia dello spirito italiano.
Una mente sintetica che si riproponesse oggi il compito dell'Oriani
potrebbe dare tutta una nuova visione dell'originalità italiana nel
Settecento.
E poiché la coscienza nazionale nasce operosamente in Piemonte
bisogna pure interpretare la funzione filosofica del Piemonte,
sinora dimenticata, nella creazione della nuova realtà ideale
italiana; bisogna vedere come il vecchio Piemonte burocratico e
militare abbia inteso le esigenze culturali che l'imminente
rivoluzione gli metteva innanzi. Volendo anticipare alcuni
risultati, osserveremo che nello sforzo di soddisfare queste
esigenze il pensiero piemontese, pur rimanendo singolarmente
aderente alla realtà empirica e alieno da astrattezze metafisiche,
diventa pensiero italiano e la critica al dogmatismo elaborata nel
Settecento si realizza positivamente nella dottrina dell'immanenza e
della libertà.
2. Machiavelli e il carattere della filosofia alfieriana.
Giuseppe Baretti fu il restauratore del culto di Machiavelli in
Piemonte. Prescindendo da giudizi e spunti letterari, qualcosa di
veramente machiavellico v'è nello Scritto mandato dal Baretti da
Londra a S. A. R. il Duca di Savoia circa a varie operazioni da
farsi nel principio del suo futuro regno54. Consigli di
cinquecentesca abilità ringiovaniti dalla fresca esperienza della
vita e della cultura inglese. Il nostro scrittore è guidato da due
preoccupazioni: la necessità di rafforzare lo Stato all'interno
attraverso una libera politica di riforme popolari e di
provvedimenti che limitino a poco a poco la soverchia potenza
ecclesiastica; e il progetto di un'abilissima politica estera
tendente all'occupazione della Repubblica di Genova. Insistendo
sulla prima esigenza come condizione per affrontare la seconda, il
Baretti affermava implicitamente un sistema politico fondato sul
concetto di Stato forte come unità di cittadini e di principe:
Machiavelli ripensato attraverso i primi spunti ancora imprecisi di
una teoria democratica già corrosa dal riformismo.
Germi rimasti inapprofonditi – come estranea, ignorata e infeconda
restava in Piemonte tutta la sostanza del pensiero del Baretti.
Tornava dunque Machiavelli, sebbene imperfetto e tutto limitato
dalle esigenze empiriche. Ma un Machiavelli più vero e piú vigoroso
recava in sé Vittorio Alfieri, il quale non si accontentò di
letteratura né di tecnicismo di governo, ma volle ripensarne
l'intima coerenza spirituale. Con questa osservazione non si intende
aderire al pregiudizio comune di cui si fa eco il Cian quando dice
che il pensiero dell'Alfieri «fu essenzialmente politico»55.
Invero se la natura del pensiero alfieriano fosse esclusivamente
politica non si saprebbe che cosa obbiettare alle vivaci conclusioni
del Bertana il quale, accettata la premessa, dimostra con pieno
rigore l'inconsistenza del pensiero alfieriano, rilevandone
l'astrattezza e l'incapacità realistica. (Che valore può avere un
pensiero politico non realistico?) Per la stessa via, ma con
maggiore genialità il Salvemini dimostrò una tesi analoga a
proposito del Mazzini. È il processo della scienza all'utopia.
Tuttavia la soluzione non soddisfa; la gloria dell'Alfieri e del
Mazzini non è spenta: resta che ci si chieda se il problema non sia
stato posto male, se per avventura la loro originalità non consista
affatto nel loro concretismo.
Di Vittorio Alfieri già il Leopardi scrisse che «fu piú filosofo che
poeta»56.
L'ammirazione del Baretti per il Machiavelli ha presente il modello
del Principe, quella dell'Alfieri non ignora, anzi penetra,
confusamente, l'essenza dei Discorsi.
Senza possedere la forte visione sintetica della storia che fu tra
noi inaugurata dal Machiavelli, l'Alfieri cerca dunque, come lui,
una teorica, non un'arte dei governi. In questo senso, accettando
l'osservazione del Leopardi, diciamo che egli non presenta disegni
di riformatore, ma speculazioni di filosofo.
Ha ragione il Bertana quando afferma che il pensiero dell'Alfieri
manca di base scientifica, che egli «ebbe soprattutto mente ribelle
ad ogni studio sistematico», che «la metafisica gli ripugna»57. Ma
l'esame astratto e intellettualistico a cui egli si ferma non pare
il piú atto a rappresentare il chiaroscuro di pensiero in cui si
espresse l'originalità dell'Alfieri. In un secolo nel quale la
vitalità dello spirito veniva ridotta a morto schema astratto
nell'intellettualismo postcartesiano e nelle varie costruzioni
giusnaturalistiche del dogmatismo wolfiano, in un secolo in cui
dicendo sistema si diceva sostanzialmente astrazione e
generalizzazione di dati empirici, opporsi al sistema per affermare
la pienezza della vita individua, irriducibile alle vecchie formule,
era opera preziosa di rinnovamento speculativo. Il pensiero di
Rousseau mosse gli spiriti e stimolò gli impulsi individuali piú
fecondamente che la scientifica precisione ideale dei sensisti. Al
mito Rousseau corrisponde in Italia il mito Alfieri.
In Inghilterra una lunga tradizione e una vigorosa esperienza
presente di libertà politica erano terreno naturale e propizio per
le mirabili speculazioni di G. Locke. In Italia solo la forte
individualità dell'astigiano poteva riuscire a mantenere vivo il
nascente pensiero del liberalismo immanentistico contro
l'implacabile dominio della trascendenza cattolica organizzata in
ferrea esperienza conclusiva. Restando entro i limiti esterni del
cattolicismo non era possibile andare piú innanzi del Vico, né
sottrarsi alla sua solitudine; e d'altra parte costruendo un sistema
di pensiero si doveva accettare fatalmente l'influenza costrittiva
di un organismo ideale millenario. In queste condizioni
l'indeterminatezza era veramente precisa e concreta: la ribellione
alfieriana, che ha qualche cosa di immediato e di anarchico, seppe
creare un mito libertario da cui il cattolicismo uscì rinnovato e
capace di superare se stesso.
Non filosofo piú che poeta (ché anzi la sua filosofia ha forza ed
efficacia storica nella virtú del poeta) ma filosofo veramente e non
soltanto poeta di idee come vorrebbe intenderlo il Bertana. Egli ha
un concetto della libertà rigorosamente metafisico, estraneo ai
limiti dell'utilitarismo che gli enciclopedisti non riescono a
superare. Né può obbiettarsi che altro è affermare, altro avere
coscienza filosofica di ciò che si afferma: poiché, se per coscienza
filosofica si intende conquistare un concetto unitario del mondo,
capace di inverarsi e chiarirsi a contatto con i nuovi elementi di
nuove esperienze, un organismo vitale e fecondo insomma che diventi,
per la sua validità, canone di interpretazione e forma mentis – non
si può negare che proprio il concetto alfieriano di libertà realizzi
questa funzione: esso si pone come la vera realtà trascendentale
della storia, il principio metafisico che genera il mondo
dell'empiria e della pratica e vi s'inserisce come criterio di ogni
valutazione particolare.
3. La gnoseologia.
La metafisica della libertà si fonda, nell'Alfieri, su alcuni
espliciti presupposti gnoseologici, coscienti e originali, non mai
organizzati in una vera e propria logica e tuttavia rimasti a
ispirare ogni sviluppo ideale, come costanti convinzioni. Per questa
gnoseologia, immanente e professata, l'Alfieri partecipa in modo
originale, nel gran quadro della storia della cultura europea nel
Settecento, alla creazione delle correnti di pensiero romantiche.
La logica intellettualistica è tutta negata e superata nelle
affermazioni concettuali che qui riassumiamo ed enunciamo e che poi
cercheremo di intendere e valutare nel momento storico che
rappresentano, e nell'unità dello spirito da cui sorgono.
1. Limiti del sapere umano: negazione della metafisica dell'essere e
delle religioni rivelate. – 2. Spontaneità e necessità dell'attività
spirituale: lo spirito come conoscere. – 3. Unità dello spirito come
unità di giudicare e di sentire. – 4. Carattere creativo del sapere
scientifico: limiti dell'astratta attività intellettuale. – 5.
Valore pragmatistico del conoscere: necessità dell'azione.
1. L'anima e la divinità sono per l'Alfieri cose che l'uomo non
intende e intorno a cui si è lasciata fare un'opinione da altri
(Della Tirannide, libro I, cap. VIII). Per altri devesi intendere i
tiranni i quali dalla superstizione e totale ignoranza dei popoli
traggon partito per ingannarli e impaurirli ottenendone cieca
obbedienza. La religione come strumento di tirannide è invero un
concetto tradizionale dell'anticlericalismo. Pare tuttavia che
l'Alfieri ne intenda con profondità il fondamento psicologico e
filosofico perché lo attribuisce non alla forza e alla violenza dei
tiranni, ma alla loro astuzia nel conoscere il cuore degli uomini.
L'asserzione nel suo valore sillogistico riconduce dunque alla
premessa necessaria, qui lasciata sottintesa, che nel cuore degli
uomini la religione viva di una certa realtà, corrisponda ad
un'esigenza, anche se la soddisfi in modo illusorio. Il concetto è
affermato altrove in modo ben piú singolare: Donde un error si
svelle, altro sen pianti (L'antireligioneria, satira VIII).
E qui la frase scultoria mirabilmente riproduce il pensiero
alfieriano nella sua doppia sfumatura. La religione come sistema,
come rivelazione metafisica è un errore, ma il mondo se ne vale e
non può farne a meno. False sono le religioni, falsi i dogmi, vera
la religione, vero lo spirito religioso. All'esperienza etica,
all'esperienza umana, si deve ridurre il criterio di valutazione e
di giustificazione: per la logica e per la metafisica la conclusione
è, anche nel Misogallo: Indagar non dessi – Di Iddio mai nulla.
Questa duplicità di atteggiamenti caratterizza limpidamente un
Alfieri anticattolico e antivoltairiano. La misura e il significato
che ha preso per noi il suo antidogmatismo ci consentono di
interpretarlo come posizione di critica contro il vecchio mondo
medievale. D'altra parte avremo agio di comprendere meglio le
esigenze religiose nettamente moderne sentite dall'Alfieri se le
riporteremo al valore etico che egli attribuisce, come abbiamo
visto, al fatto della religiosità.
2. La negazione stessa della metafisica rivelata reca già implicita
in sé l'esigenza di un'altra forma del conoscere a cui l'Alfieri
possa credere deliberatamente. Sarebbe ingenuo, tuttavia, attenderci
a questo punto da lui un'affermazione panlogistica che non
troverebbe terreno spirituale adatto a un adeguato svolgimento.
La sua forte individualità reagisce anzi violentemente alle
costrizioni del formulismo razionalistico e cerca di tradurre in
valori spirituali le aspirazioni del sentimento. Tornerebbe per
questa via il pericolo della metafisica, della metafisica del cuore,
della credenza, schiettamente mistica e ineffabile. Ma il ritorno
non ha minore importanza del punto di partenza perché ci fa vedere
l'Alfieri sollecitato dai motivi speculativi piú elevati del suo
tempo, incerto tra una posizione di critica che reca qualcosa di piú
profondo che non sia negli enciclopedisti, qualcosa, diciamo la
parola, di kantiano; e una posizione di pragmatista che riecheggia,
originalmente, Rousseau e Jacobi.
Da questi dissidi non risolti nascono le contraddizioni notate dai
critici: eppure in questa perennità di contrasto (tra l'esigenza
anarchica e l'esigenza sociale; tra sentimento e ragione) risiede il
segreto della sua grandezza libera dalle esclusivistiche
intemperanze di due momenti antitetici, le quali documentano una
malattia del secolo mentre egli supera la crisi e oscuramente
intravvede le soluzioni dell'avvenire.
Questi concetti saranno piú chiari quando avremo spiegato in qual
senso si discorra qui di un pragmatismo alfieriano.
Facendo sua una lucida visione del Machiavelli l'Alfieri riconosce
nel tiranno un uomo superiore, capace di conquistare il dominio solo
in quanto abbia inizialmente maggior capacità intellettiva, ossia
sappia penetrare e conoscere le inclinazioni degli uomini (Della
Tirannide, libro I, cap. VIII).
Altrove si dà del tiranno altro giudizio: ma la contraddizione è
solo apparente. Poiché accanto all'odio sacro l'Alfieri non riesce a
soffocare una certa sfumatura di simpatia quando vede il tiranno nel
suo sforzo di affermarsi, nel momento in cui crea la propria
superiorità. Si spegne questa ammirazione dove la tirannide
affermata diventa un'abitudine che la sola violenza basta a
mantenere: a siffatto tiranno l'Alfieri oppone lo scrittore, vindice
di libertà, in pagine che paiono addirittura contrastare con il suo
costante amore per la pratica (Il Principe e le Lettere, libro II,
cap. VII), ma di questa incertezza già s'è data una ragione a
priori.
La necessità di scrivere per uno sfogo dell'anima «può spingere
l'uomo ad essere quasi che un Dio» (Il Principe e le Lettere, libro
II, cap. I) ossia scrivere per l'Alfieri è lo stesso che pensare, e
pensare è agire. Ne La virtú sconosciuta tale conclusione rimarrebbe
dubbiosa. Nella Tirannide è limpida e sicura. Ripugna all'Alfieri,
artista, ogni concezione estetizzante dello spirito: sentimento e
ragione, pratica e teoria sono le forme dell'umana attività, ma
tanto unite e coerenti che insieme prosperano in regime di libertà e
insieme si corrompono sotto la protezione del principe. Poiché nel
principato si può raggiungere l'eleganza del dire, ma non la
sublimità e forza del pensare (Il Principe e le Lettere, libro I,
cap. III).
3. Anche all'affermazione alfieriana dell'unità dello spirito non
bisogna attribuire un valore tecnico: il problema dell'unità e dei
distinti non s'è posto ancora nei termini teoretici e col
significato preciso che oggi vi annettiamo: enciclopedisti e
cattolici muovono spontaneamente, senza discussione, dall'unità
indistinta e immediata del senso o di Dio.
Si tratta di una intuizione che scaturisce direttamente dalla forte
individualità dell'Alfieri e da cui egli si sforza di dedurre tutte
le conseguenze etiche. L'unità di sentimento e di pensiero,
ristabilendo come criterio di valutazione morale la categoria della
coerenza, costituisce il presupposto teorico dell'agire secondo una
concezione di intolleranza. All'esame intellettualistico che
considera lo spirito secondo artificiali divisioni e rigidi
casellari sottentra il concetto del giudicare come atto morale, il
concetto dell'errore come immoralità.
È vero che l'Alfieri non ha dedotto dalla sua scoperta chiare
conclusioni, ma vi sono impliciti tuttavia i presupposti per una
nuova etica costruita intorno al concetto d'azione come esperienza
interna invece che intorno agli schemi di una precettistica
tradizionale.
«Il giudicare e il sentire, sono uno: né senza affetto alcun
giudizio sussiste, poiché ogni cosa qualunque, o vista o sentita,
deve cagionare nell'uomo o piacere, o dolore, o meraviglia, o
sdegno, o invidia, od altro; tal che su la ricevuta impressione si
venga ad appoggiare il giudizio; e sarà retto il giudizio degli
appassionati pel retto, iniquo al contrario quel dei malnati»
(Misogallo, prosa II).
Proposizioni ambigue, che implicano problemi filosofici non
adeguatamente risolti: ma attraverso molte incertezze si esprime
chiaramente la negazione cosí del sensismo come dell'arido e freddo
dogmatismo cattolico. È una passione nuova che postula e intravvede
una nuova filosofia. Né è senza importanza che poco prima del passo
citato l'Alfieri abbia un accenno ricco di efficacia contro i
filosofi, o meglio «quegli impassibili egoisti, che oggidí questo
sacro nome si usurpano». Nella negazione c'è un deciso intento
filosofico. Nell'entusiasmo poetico s'è introdotto un principio di
coscienza riflessa.
4. Sulla questione del sapere scientifico sono importanti i capitoli
III e IV del libro III del Principe che il Bertana trascura e
fraintende quando accusa l'Alfieri di non aver capita l'importanza
delle scienze e di aver negato ad esse ogni efficacia sul pensiero
morale e sui destini dell'uomo58. I suoi entusiasmi per il divino e
grande Newton, la venerazione per Euclide e Archimede, l'ammirazione
per Galileo e Cartesio «dalla civile e religiosa potenza
perseguitati e impediti piú assai che protetti» testimoniano
decisamente il contrario (Il Principe e le Lettere, libro III, cap.
III). Sublime chiama altrove la geometria, d'ogni altra scienza base
e radice (ibid., libro II, cap. IV). E tanto lo turba il pensiero
dell'immensità delle conoscenze scientifiche (dell'astronomia
soprattutto) che gli nasce in cuore un commosso accento di scettica
ironia verso le cose terrene, non diverso da quello che ritroveremo
in Leopardi: «Cose tutte invero grandiose, e per cui i Romani,
credutisi signori del mondo, assai piccioli si troverebbero se
potessero ora convincersi co' loro occhi qual menoma parte di questo
globo occuparono, e qual minima dell'universo è dimostrato essere
questo globo stesso dalla investigazione rettificata della
universale armonia dei corpi celesti. Gran pascolo alla insaziabile
umana curiosità; la quale pure, per quanto ai fonti della verità si
disseti, vede e tocca ogni giorno con mano che, quanto piú si sa,
piú ne rimane a sapersi» (Il Principe e le Lettere, libro III, cap.
IV).
Accanto a questo poetico entusiasmo troviamo una notevole
definizione alfieriana delle scienze che attesta in lui lo sforzo di
determinar razionalmente il suo interesse: «Gli arcani e le leggi
della natura dei corpi investigate e spiegate per quanto il possa
l'intelletto umano». Invece non si parla piú di intelletto quando si
definiscono le lettere: «Gli arcani, le leggi e le passioni del
cuore umano, sviluppate, commosse e alla piú alta, utile e vera via
indirizzate» (Il Principe e le Lettere, libro III, cap. III). Questa
antitesi è specialmente importante quando si chiarisca che cosa
significhi per Alfieri la parola lettere: il problema è sfuggito al
Bertana ignaro di studi speculativi: eppure qui è il segreto per
intendere i due concetti enunciati. Tra gli esempi di cultori di
lettere l'Alfieri non esita a porre accanto a Omero Platone: piú che
a valori artistici egli pensa dunque a valori filosofici che nella
sua concezione attivistica necessariamente si traducono in norme
d'azione e contano in quanto si inseriscono in una praxis sociale.
Dove il Bertana vede una incomprensione c'è una limitazione
cosciente che muove da una chiara gnoseologia: la critica del sapere
scientifico è una vera e propria critica dell'intellettualismo.
Della scienza l'Alfieri coglie mirabilmente il duplice limite e
l'insuperabile relativismo a cui la conoscenza della natura per lo
stesso processo da cui scaturisce è sottoposta.
Il limite del sapere astratto in un sistema dell'unità morale è
limpidamente determinato quando l'Alfieri nota che le leggi fisiche
non offendono il principato e deduce da questa asserzione la sua
teoria dei rapporti tra scienza e governo di principe. Notando il
secondo limite l'Alfieri nega l'assolutezza del sapere scientifico;
al criterio oggettivo della verità sostituisce il rapporto tra
soggetto e oggetto come distinti e diversi, escludenti un termine
superiore che li inveri nella propria assolutezza: spunto iniziale
di una teoria essenzialmente romantica che ritornerà ancora,
rinnovata, nel sistema crociano. Di fronte al dogmatismo scientifico
settecentesco il concetto alfieriano riesce a una vigorosa
affermazione dell'autonomia e dell'assolutezza del sapere filosofico
contro tutte le riduzioni della filosofia a una serie di astrazioni
sui dati della scienza.
Nella concezione attivistica dell'Alfieri anche il sapere
scientifico conserva tuttavia un suo valore assoluto: occorre
meditare perciò diligentemente la sua distinzione tra il momento
creativo della scienza e il momento del successivo progredire e
diffondersi. Nel qual concetto si può legittimamente scorgere un
principio gnoseologico di differenziazione tra il sapere scientifico
come risultato, come materia, come congerie di cognizioni e l'atto
dello spirito che lo crea. Vittorio Alfieri ha cosí vivo e profondo
il senso dell'attività, della spiritualità del creare che sotto
tutte le sue oscure intuizioni si avverte una fervida e costante
adesione intima alla concretezza del fare, alla realtà dello spirito
come esperienza, e questa riesce feconda anche se manca una base
scientifica.
Sapere per lui è veramente inventare, creare: e creare non si può
senza libertà. Infatti, le «scienze, come ogni altra egregia cosa,
ci derivano anch'esse dai Greci, vale a dire da uomini liberi. E
pare infatti che al ritrovamento dei principi nascosti e sublimi
delle cose, si richiegga un cosí grande sforzo di pensare, che nel
capo di un tremante schiavo sí alta e difficile curiosità non
sarebbe potuta entrare giammai» (Il Principe e le Lettere, libro II,
cap. III).
«Ma il semplice aggiungere alcuna cosa ai già scoperti e dimostrati
sistemi e il far progredire la scienza, principalmente nella natura
dei corpi, a parte a parte pigliandoli, in tutto soggiace alle
vicende annesse al coltivare le verità non offendenti l'assoluto
potere, come quelle che in nulla influiscono sopra lo stato politico
e in nulla migliorano la proibita scienza del cuore dell'uomo».
La distinzione posta è dunque tra l'intuizione sintetica
dell'universo e l'astratta analisi dei dati empirici. Qui l'Alfieri
è persino disposto ad ammettere l'utilità del principe in quanto
egli aiuti lo scienziato per le «necessarie infinite spese,
invenzioni ed esecuzioni costose di macchine, infinite esperienze,
sterminati viaggi».
Ma per il poco rigore con cui i due concetti sono sceverati,
l'intellettualista (e anche in parte il critico equo) si trova di
fronte a contraddizioni infinite appena voglia valutare
integralmente questi spunti di teoria. Si può precisare la
distinzione e togliere alcune incertezze rendendo piú espliciti i
concetti del significato pratico e del significato teoretico della
scienza dialetticamente intesi.
La scienza è attività teoretica in quanto è creazione e libertà
(libertà di pensiero, superiore alla empiria politica, che si
afferma contro gli ostacoli, anche sotto la tirannide: il pensiero
dell'Alfieri già nella Virtú Sconosciuta è in antitesi con lo
scetticismo del Gori e ha dinanzi con piena chiarezza gli esempi di
Cartesio e di Galileo). Il principe aiuta (o può aiutare) non questo
processo di creazione, ma il momento pratico in cui la scienza viene
organizzata e applicata secondo la sua utilità sociale. Questa
seconda affermazione non è senza oscurità e non segue sempre
coerentemente la limpida visione speculativa prima raggiunta della
scienza come conoscenza creativa. L'Alfieri non ha visto il processo
di obbiettivazione per cui la libera creazione spirituale si
irrigidisce e si limita in un organismo di risultati schematici per
la loro necessaria astrattezza. E cosí dilacerato di dubbi e di
intuizioni non rigorose è ancora il capitolo III del Principe tutto
animato invero di dialettica drammaticità che riproduce anche nel
movimento ritmico e stilistico del periodo il corso di un pensiero
torbido e chiuso illuminato a un tratto, per uno sforzo interiore,
attraverso stridenti contraddizioni, dalla luce di una verità
carpita con entusiasmo e stupore insieme al dubbio e non ancora
dominata e svolta.
Mi viene ora osservato che parlando io dei capisetta innovatori
nelle scienze, me li conviene in gran parte sottrarre dalle leggi, a
cui ho sottoposto le scienze stesse; e chiaramente vedo, che le loro
vicende accomunare si debbono a quelle dei letterati; poiché, come
filosofi, un cosí splendido loco riempiono degnamente fra essi.
Questi pochi innovatori-creatori si debbono dunque in tutto
eccettuare da quegli altri tutti, che nelle scienze esatte, dotti
soltanto dello scibile, e facendo pure alcuni benché impercettibili
passi piú in là del di già saputo, si debbono quindi riputare come
le vere ruote dei progressi delle scienze. Questi sono gli
scienziati proteggibili e protetti: ed a questi, l'esserlo può
sommamente giovare. Ma gli altri, come Euclide, Archimede, Newton,
Galileo e Cartesio, interamente corrono la vicenda dei letterati».
Neanche qui il Bertana confesserebbe soddisfatta la candida pretesa
di una base scientifica e di una organizzazione sistematica delle
idee. Non c'è garanzia di fredda oggettività in questa frammentaria
intuizione generata da un violento moto sentimentale: i limiti
psicologici suggeriscono di definirla mera fantasia poetica senza
filosofica importanza.
Invece l'affermazione del carattere inventivo e creativo della
scienza di un secolo di formulismo e di astrattismo basta da sola
alla gloria speculativa di un pensatore, anche se l'affermazione non
risolve poi, per una necessità che altrove abbiamo chiarita, tutti i
problemi suscitati.
Coesistono, è vero, accanto alla scoperta mirabile residui di
dogmatismo scientifico, ma talmente lievi e sovrapposti che non
turbano la visione generale, e in taluni errori si avverte talvolta
fremere quasi un presentimento di verità.
Si ponga mente per esempio quando l'Alfieri parlando dei movimenti
dei pianeti dice che «le cagioni di tai moti furono assoggettate a
inalterabili leggi dall'ingegno dell'uomo». V'è in questo
«inalterabili» qualcosa di rigido che pare in contrasto con
l'affermato relativismo della scienza e col carattere creativo del
sapere scientifico. Ma a dominare il contrasto ecco l'idea poderosa,
profonda quant'è vivida l'immagine, dell'ingegno dell'uomo che
titanicamente assoggetta a una legge liberamente creata e indagata i
movimenti delle stelle. Immagine cosí forte non poteva scolpire chi
non fosse tutto invaso dal pensiero dello spirito come perennità di
creazione. Di pari efficacia e di natura identicamente speculativa è
il contrasto tra l'entusiasmo per il disinteressato sapere (opera di
libertà creativa) e il disprezzo per l'utile empirico che dal sapere
può derivare (lusso e arti di raffinatezza).
Ma la sterminata empiria dell'inesauribile sapere scientifico non
lascia pace se non si instaura l'impero di una trascendentale unità,
che si alimenti, nascendo, dei primi dati naturalistici e venga a
purificarsi nella serena e comprensiva assolutezza della metafisica.
«Che se le leggi dei moti dei corpi, scoperte e dimostrate,
lusingano pur tanto la superbia dell'uomo, la ignota cagione di esse
leggi e la sola terrestre generazione delle piante e degli animali,
nascoste entrambe negli arcani d'una profondissima notte, assai piú
lo lasciano avvilito e scontento».
Il mero sapere scientifico non può liberare l'uomo da questo
pessimismo.
5. La risposta decisiva spetta all'azione e in sede sistematica alla
teoria dell'azione.
Ma il pragmatismo dell'Alfieri non è una confusione di elementi
mistici, volitivi, sentimentali, psicologistici come la dottrina
moderna che va sotto questo nome.
L'attività conoscitiva conclude all'azione; l'azione poi non si
intende come esperienza frammentaria, come fatto, ma è l'ultimo
grado perfetto e necessario della conoscenza; la conclusione di un
organico processo razionale. Si tratta di una interpretazione
attivistica della conoscenza e di un'interpretazione razionale
dell'attività. Il pragmatismo resta ai suoi primi ingenui e validi
motivi, alle prime spontanee e insopprimibili esigenze.
Sorge nello spirito dell'Alfieri come convinzione immediata e quasi
impulso di psicologia individuale e solo a poco a poco pervade e
informa di sé, attraverso un processo di coscienza concrescente,
tutti i momenti della sua riflessione.
Nella «volontà » di Alfieri, uno dei piú discussi e tormentati
problemi di psicologia biografica, c'è come il presupposto e il dato
primo su cui si elaborerà questa convinzione. Ma non importa a noi
accertare i limiti e i risultati della famigerata volontà alfieriana
perché il problema biografico si è toccato qui solo in quanto è
materia di speculazione filosofica e rivelatore primo degli impulsi
originari della riflessione.
La linea di perfetta coerenza dello sviluppo spirituale
dell'Alfieri, la feroce intolleranza con cui deduce dalle proprie
esperienze gli effetti piú rigidi e piú chiari, lo stato di
incomprensione e di solitudine in cui egli deve trovarsi di fronte
alla cultura contemporanea, come noi abbiamo rigorosamente
dimostrato – dànno argomento allo storico per accettare questa nuova
metodologia. L'equivoco delle vecchie indagini non si abbatté per
pregiudizi di natura letteraria e di metodologia erudita: invece le
fonti valide del pensiero alfieriano si penetrano solo attraverso
uno studio misurato e parco degli impulsi che definiscono la sua
personalità. La sua cultura non è fatta di libri. E la validità
storica delle sue osservazioni non si deve fissare con richiami
eruditi, ma con aperte e ingegnose disamine delle sue
contraddizioni.
La Vita ci documenta esaurientemente il concetto che qui ci importa:
ossia non la sua volontà, ma la volontà di volere.
Il primo sforzo di teoria, il primo momento in cui la riflessione
diventa un proposito speculativo si legge nella Virtú Sconosciuta59,
un vero piccolo trattato di etica, un saggio di morale eroica.
Il concetto dominante del dialogo è preciso in queste parole di
Francesco Gori:
«A ciò ti aggiungea; che ufficio e dovere di uomo altamente pensante
egli era ben altrimenti il fare che il dire; che ogni ben fare
essendoci interdetto dai nostri presenti vili Governi, e il virtuoso
e bello dire essendo stato cosí degnamente già preoccupato da liberi
uomini che d'insegnare il da lor praticato bene aveano assai maggior
diritto di noi, temerità pareami il volere dalla feccia nostra
presente sorger puro ed illibato d'esempio, e che viltà mi parea lo
imprendere a dire ciò che fare da noi non si ardirebbe giammai,
ecc.» (La Virtù Sconosciuta, in Scritti politici e filosofici,
Paravia, pagine 200-1).
Le conseguenze pratiche di questo pensiero pessimistico (la
rinuncia) non sono accettate dall'Alfieri che verso l'amico Gori è
in atteggiamento di ammirazione polemica.
Ma attraverso le sfumature della poetica espressione si avvertono
qui quattro momenti concettuali che l'Alfieri accetta come
agevolmente si può scorgere dal riscontro di altri passi e di altre
opere
1) la superiorità del fare sul dire espressa come mera tesi
letteraria e quasi conferma della sapienza popolare: in questo primo
momento il pragmatismo è poco piú che un'immediata condizione
sentimentale benché sia riflessamente espresso;
2) l'idealizzazione trascendentale del risultato empirico, la
concezione eroica (übermensch) dell'uomo liberamente operante che ha
per termine la vaga lusinga della gloria e per intima realtà «il
forte sentire, che per ogni nostra vena e fibra trascorre e a tutti
i sensi si affaccia» (ibid., p. 203).
Il superuomo alfieriano ha una realtà etica e concettuale nuova in
cui il patriarcalismo dell'eroe greco e romano è direttamente
superato nella figurazione di un'infinita e assoluta attività, che
trova in sé il proprio fine: e nell'ascesi è ancora piú puro che il
martire cristiano da elementi utilitaristici e particolari.
Tuttavia il concetto deve essere altrimenti inverato e ravvivato per
generare una nuova etica integrale: il ripensamento si esprime in
due sviluppi di razionale ampiezza e di conscia indipendenza;
3) il fare come conoscere: oscura possente intuizione che si
sprigiona dalla affermazione fortissima, alfierianamente incisiva
«ufficio e dovere d'uomo altamente pensante egli era ben altrimenti
il fare che il dire»;
4) negazione della conoscenza che non è creativa. Così soltanto si
può intendere e limitare il pensiero «che de' libri benché pochi
sian gli ottimi bastanti pure ve ne sono nel mondo, a chi volesse
ben leggerli, per ogni cosa al retto e sublime vivere necessaria
imparare» (La Virtú Sconosciuta cit., p. 200). La nostra esegesi di
questo pensiero che, accettato grossolanamente alla lettera,
sembrerebbe invece bizzarro, è confermata dalla negazione della
critica d'arte che l'Alfieri gli fa seguire; e che si deve intendere
come cosciente svolgimento del paradosso iniziale: «benché corra
adesso questa smania di belle arti, ed alcuni, nulla potendo essere
per se stessi, né far del loro, abbiano creata questa nuova arte di
chiacchierar sull'altrui; tu sai che io sempre ho reputato esser
questa una mera impostura; perché il vero senso del bello si può
assai piú facilmente provare che esprimere » (ibid., p. 203).
Dove l'ultima conclusione parrebbe addirittura aderire ad un
misticismo del sentimento. Parrebbe – ma in realtà il «provare» è
per l'Alfieri (critico egli stesso e, del resto, deferente al
Calsabigi) un modo di esprimere, è la ricreazione fantastica
contrapposta alla divagazione erudita: la sua polemica s'appunta
contro la pedantesca critica acritica che già nel Settecento (nel
secolo di Baretti) rappresentava un mondo sopravvissuto – non contro
quella moderna critica filosofica che ancora non era nata. E chi
pensasse a possibili contestazioni per l'assenza di un preciso
linguaggio tecnico dell'Alfieri, rimediti i criteri metodologici già
esposti e non dimentichi che nella Virtú Sconosciuta abbiamo la
dialettica fusione di due esigenze e l'Alfieri continua ad essere in
posizione di polemica verso il Gori, anche se consente con le sue
premesse sentimentali pessimistiche e ne esalta l'ardore
pragmatista.
Tutto il passo del resto è da esaminarsi in rapporto con la
limitazione alfieriana della validità del sapere scientifico
(utilitario o astrattamente analitico): ne riesce ancora piú
decisamente illuminato il vigoroso concetto del sapere come fare che
esclude inesorabilmente il sapere come passatempo, come divulgazione
superficiale, erudizione disgregata o ricerca di vantaggio pratico;
e per i nuovi chiarimenti è fatto piú preciso il presupposto su cui
la polemica si fonda: l'affermazione dell'unità morale.
Nella Tirannide e nel Principe gli sviluppi della dottrina conducono
a tre nuove concezioni esplicite che del resto agevolmente si
deducono dalla Virtú Sconosciuta. Le posizioni e le antitesi sono
troppo inesorabili perché nell'Alfieri non si trova la piú chiara
coerenza e la piú netta continuità di pensiero
1. Il concetto del letterato come propagandista (non in senso
illuministico, ma rivoluzionario) di libertà: che è il nucleo
centrale del Principe e ha una forte espressione di carattere
autobiografico nel sonetto conclusivo del Misogallo.
2. La riduzione della scienza della natura, dell'indole e delle
passioni umane alla loro validità politica. In caso di rivoluzione
gli italiani «che avran meglio studiato e conosciuto nelle diverse
storie e nei diversi paesi dello stesso lor secolo la natura,
l'indole, i costumi e le passioni degli uomini, quelli solo potranno
allora con adeguato senno provvedere a ciò che operar allor si
dovrebbe per il meglio; cioè, pel meno male» (Della Tirannide, libro
II, cap. VIII). E consiglia a tal fine ai pratici la lettura di
Platone.
3. Infine l'approfondimento del concetto del letterato propagandista
riesce al concetto del letterato attore, che, se ubbidisce a una
possente esigenza autobiografica, non è meno valido teoricamente in
quanto presuppone una coscienza dell'unità dello spirito cosí
profonda che appena sarà conquistata qualche decennio piú tardi
dalla speculazione romantica tedesca. L'affermazione alfieriana,
recando con sé una viva esperienza creativa, consente inoltre una
valutazione adeguata dei valori individuali e del concetto stesso di
individualità.
Una citazione chiarirà la nostra esegesi: «E Bruto e Numa e Romolo
stesso erano, sovra ogni altra cosa, conoscitori profondi e scaltri
commovitori del cuore umano e delle sue tante passioni; ciò viene a
dire che costoro, in altre circostanze trovatisi, sommi scrittori si
sarebbero fatti. A pochi uomini concede il destino di poter operare,
e di giovar al pubblico in atto pratico col presente lor senno.
Quindi, se alcuni di quei pochi a ciò atti, ed a ciò non eletti, si
trovano dalle loro circostanze impediti di operare, questi colla lor
penna insegnano agli altri ciò ch'essi eseguir non potevano; alle
vacillanti pubbliche virtù soccorrono con dilettevoli aiuti; ovvero
al vizio già trionfante e in trono muovono essi quella virtuosa
guerra di verità, che sola può, smascherandolo, felicemente
combatterlo e col tempo distruggerlo. Sono questi, a parer mio, i
veri, anzi i soli scrittori; e i più perfetti reputo tra i loro
libri quelli che maggiormente un tale effetto producono. Onde
dividendo io questa stessa classe di uomini sommamente capaci a
commuoverne e guidarne molti altri in letterati attori e in
letterati scrittori, osservo che Roma nel fiore e nerbo della sua
libertà, moltissimi dei primi ne annovera; e sono gli Orazi, gli
Scevoli, gli Emili, gli Attilj e Regoli, e Scipioni e Decj e Catoni;
e quei tanti altri insomma, grandissimi tutti, bollenti a gara di
amor di virtù, di libertà e di gloria, tre sacre faville, onde si
deve comporre ed incendere l'animo di ogni grande, e massimamente
quello del vero e sublime scrittore» (Del Principe e delle Lettere,
libro III, cap. IV).
La grandezza voluta con pessimistica inflessibilità, l'entusiasmo
della disperazione: ecco sopra i motivi tetri della chiusa
solitudine diffusa nel dialogo della Virtù Sconosciuta levarsi nel
maturo pensiero del vate l'intuizione di un nuovo criterio di teoria
umana – nella convinzione della caducità di tutti i dati
dell'empiria, nell'eroica rinuncia dell'immanenza l'individuo è
ancora eterno nell'atto in cui rende obbiettiva la sua divinità e
crea, perennemente rinnovellata nella catarsi dell'assoluto
disinteresse, la libertà della storia.
4. Polemica anticattolica.
Abbiamo visto sorgere la filosofia dell'Alfieri dalle intime
esperienze del poeta e dell'uomo che rimangono vivissime anche nello
sforzo teoretico della riflessione. Abbiamo dimostrato come il vero
processo di liberazione dai limiti del suo tempo derivi in lui dal
non aver accettato l'esigenza della costruzione sistematica.
Bisogna ora che ricostruiamo la vitale freschezza del suo pensiero
nei motivi e nella situazione storica che l'hanno generato: appunto
perché frammentario esso può accogliere in ogni istante motivi nuovi
di chiarificazione ed esplicarsi piú libero sotto il pungolo di una
necessità polemica.
La polemica che occupa il centro dello spirito alfieriano è
empiricamente duplice, sostanzialmente una e colpisce
contemporaneamente il dogmatismo cattolico e l'assolutismo
monarchico.
Occorre distinguere nel pensiero alfieriano la critica al
cattolicismo dalla critica alla religione: posta questa legittima e
necessaria distinzione, che il Bertana si è scordato, la polemica
alfieriana è tutta coerente e chiara; le poche contraddizioni che
non si aboliscono per questa via si giustificano come frammentarie
digressioni suggerite da motivi artistici: il famoso sonetto «Alto,
devoto, mistico, ingegnoso» che muove da alcuni veri e propri
concetti religiosi dell'Alfieri, degni di speciale discussione,
rappresenta poi nei suoi accenti piú cattolicamente ortodossi il
risultato di un episodio di seduzione esercitata da un misticismo
estetizzante del culto. E non è problema che qui importi discutere,
ossia non rientra in sede di teoria della religione l'atteggiamento
pratico attenuato e conciliante che egli assunse durante la
rivoluzione francese verso persone e cose del culto: che per
reazione all'ottusa antireligioneria gallica egli sia stato tratto a
considerare i papi, e insieme i re, quali parapeggio: questo è
problema di empirismo storico che si deve discutere solo quando si
voglia tessere la cronaca o la biografia esterna dell'Alfieri.
Il documento piú importante del pensiero alfieriano sul cattolicismo
è il capitolo VIII del libro I Della Tirannide che nel suo
significato centrale racchiude la negazione della vecchia ontologia.
Critica il monoteismo con criteri politici esclusivistici e
limitati, ma contemporaneamente affaccia la distinzione tra
cattolicismo e cristianesimo, distinzione profondamente romantica e
filosoficamente notevole per la sua immediata fecondità ideale; è
quasi l'implicito riconoscimento del valore eretico dell'atto che dà
vita alla creazione religiosa e nell'Alfieri, contemporaneo agli
enciclopedisti e ai catechismi laici, dimostra una singolare
inquietudine spirituale e una profonda coscienza dei massimi
problemi.
Distingue nella critica del dogma lo spirito dalle forme. Il culto
delle immagini, l'eucaristia, ecc. si possono agevolmente svalutare
se si prendono arbitrariamente nel loro senso superficiale: ma la
loro verità si deve ricercare nell'organismo di cui fanno parte e di
cui sono un aspetto e anzi addirittura una mera estrinsecazione:
dimostrandole assurde non si dimostra nulla contro il cattolicismo
come filosofia, mentre esse rimangono prive di senso quando si sia
esaurita definitivamente la critica alle forme ideali del
cattolicismo.
I paladini francesi dell'incredulità avevano volte le loro critiche
e i loro sarcasmi a l'ingenuità superstiziosa delle credenze
popolari: con ciò avevano creduto di stroncare religione e
cattolicismo. L'Alfieri aveva accolto nella giovinezza, respirandoli
col sensismo ch'era nell'aria, alcuni di siffatti motivi, ma rimase
cosí lontano dallo spirito degli enciclopedisti (ritenuti sue fonti
dal pregiudizio corrente) che invece dei germi dell'astratta critica
intellettualistica e delle sottigliezze razionaliste ha svolto dalle
sue premesse una concezione integrale e unitaria della realtà.
La sua critica al cattolicismo significa perciò critica al
dogmatismo sterile, che si è sostituito all'esperienza religiosa,
condanna della fede diventata convenzionalità, della morale
irrigidita nella precettistica, dello spirito falsificato nello
schema.
Nel suo ardore libertario la lotta contro il dogmatismo cattolico è
lotta contro il Medio Evo, ossia contro una tradizione esausta che è
presente solo per soggiogare le menti come un esempio diseducatore
di passività.
La sua negazione si rivolge contro la Chiesa, non contro lo spirito
religioso e, checché ne sia parso al Berti, muove sostanzialmente da
un'intima religiosità, superiore al principio criticato.
Nella storia delle affermazioni teoriche dell'irreducibile contrasto
tra la Chiesa e lo Stato nazionale, dal Machiavelli al Vaticano e lo
Stato di G. M. Bertini, l'Alfieri si inserisce con piena coscienza
attingendo ai motivi di speculazione piú concreti.
Il papa, l'Inquisizione, il purgatorio, la confessione, il celibato
ecco le basi antiumane che costituiscono il cattolicismo e che
bisogna demolire. Esaminiamo partitamente la dimostrazione
alfieriana dell'inaccettabilità di questi concetti e di questi
istituti, e per ultima l'indissolubilità del matrimonio che egli
combatte, per le ragioni che vedremo, alla stessa stregua,
riconducendola alle medesime origini logiche.
Nella negazione del papa è implicita la negazione del dominio
temporale, come risulta da questo epigramma:
Sia pace ai frati,
Purché sfratati;
E pace ai preti,
Ma pochi e queti,
Cardinalume
Non tolga lume,
Il maggior prete
Torni alla rete.
Il papa è papa e re
Dessi aborrir per tre.
I popoli soltanto per ignoranza e per timore possono credere esservi
un uomo «che rappresenti immediatamente Dio; un uomo che non possa
errar mai; ora l'ignoranza è l'antitesi della libertà e il timore,
non potendo essere inspirato dalle scomuniche, attesta chiaramente
che dove è il pensiero del Pontefice, là è il tiranno, dove vi è
dommatismo religioso, là vi sono spade a sostenerlo». Mentre le
credenze meramente astratte e prive di pratica influenza (come la
Trinità) sono da ritenersi poco nocive anche se irrazionali,
«l'autorità illimitata sopra le piú importanti cose, e velata dal
sacro ammanto della religione importa molte e notabili conseguenze;
tali insomma che ogni popolo, che crede o ammette una tale autorità
si rende schiavo per sempre». E per mettere bene in luce
l'immoralità della credenza l'Alfieri disegna minutamente il
processo antieducativo attraverso cui essa si sviluppa nella sua
piena logica. Un popolo sano e libero che accetti la credenza nella
infallibile e illimitata autorità del papa «è già interamente
disposto a credere in un Tiranno, che con maggiori forze effettive,
e avvalorate dal suffragio e scomuniche di quel Papa stesso, lo
persuaderà o sforzerà ad obbedire a lui solo nelle cose politiche,
come già obbedisce al solo Papa nelle religiose».
Il cattolicismo comincia con una rinuncia alla dignità umana e nega
e contraddice ogni giusta preparazione all'autonomia dello spirito:
ché, se anche la fede venga meno nell'individuo, egli è per questo
«tormentato, perseguitato, sforzato da una forza superiore
effettiva». Cosí «quella prima generazione d'uomini crederà nel Papa
per timore». Ogni sforzo operoso si spegne per ineluttabile logica
sotto la costrizione dell'abitudine, ogni spiritualità si
irrigidisce. I figli crederanno nel pontefice per «abitudine»; i
nipoti per «stupidità». La conclusione del ragionamento appare,
attraverso la commozione, impassibile e tragica: fredda verità
ineluttabile, angosciosa condanna che stronca ogni velleità. «Ecco
in qual guisa un popolo che rimane cattolico deve necessariamente,
per via del Papa e della inquisizione, divenire ignorantissimo,
servissimo e stupidissimo». Ma oggi i piú in Europa ammettono tale
autorità senza crederla, e di qui l'Alfieri trae argomento a sperare
che non possa essere ormai gran fatto durevole poiché la forza
intrinseca di tali vecchi principi è ormai tramontata e si
sostengono al presente solo per opera del tiranno.
«Dove ci è cattolicismo, vi è o vi può essere ad ogni istante
l'inquisizione».
«La inquisizione, quel tribunale sí iniquo di cui basta il nome per
far raccapricciare».
«Autorità dei preti e dei frati, vale a dire della classe la piú
crudele, la piú sciolta da ogni legame sociale, ma la piú codarda ad
un tempo».
Senza pregiudizi di cattolico liberale in anticipo (benché il
cattolicismo liberale fosse ormai nell'aria) l'Alfieri afferra la
rigida connessione logica e pratica che fa coesistere nell'unità del
sistema generale tutti i termini e gli elementi della teoria e della
praxis cattolica. La sua critica presuppone la rigorosa coerenza del
principio contro cui si esercita. La complicità di inquisizione e
tirannide diventa nell'inesorabile polemica alfieriana il nuovo
aspetto e l'evidente chiarimento della premessa ideale che aveva
rivelato la sostanza dogmatica e tirannica del principio cattolico.
La conclusione si esprime ancora una volta nel ritornello «non vi
può dunque essere a un tempo stesso un popolo cattolico veramente e
un popolo libero».
La critica al concetto di confessione muove apparentemente da
premesse di mero buon senso: evita tuttavia la superficialità
dell'ateismo francese da salotto e ritrae la sua forza concettuale
dal nuovo organismo etico che la determina. La confessione non è da
combattersi in sé per le sue incongruenze empiriche: la sua realtà è
tutta nel concetto primo di una trascendenza: negandola ci si deve
riportare alla negazione centrale. E l'Alfieri la nega infatti in
nome di una immanente libertà che riconduce all'interno, alla
coscienza dell'individuo il fondamento della morale. Di questa
autonomia l'individuo deve sentire e conservare la dignità e la
responsabilità deve diventare sacerdote di se stesso: quel popolo
che vi rinunci, e si pieghi alla confessione, «non può esser libero
né merita d'esserlo».
Echi di settarismo enciclopedistico si trovano nella critica alla
dottrina del Purgatorio che l'Alfieri riprova ricordando – non si
saprebbe dire se con ironia o con sdegno – la conseguenza pratica
che ne scende: «la sterminata ricchezza dei preti, e dalla lor
ricchezza la loro connivenza col Tiranno». Tutto ciò «contribuisce
non poco ad invilire, impoverire e quindi a rendere schiavi i
cattolici popoli». Ma l'Alfieri colpendo insieme confessione e
purgatorio – e sia pure con una malizia ingenua e convenzionale – dà
ancora una volta prova di sottile penetrazione critica poiché,
mentre oppone una critica rispettosa ai principi fondamentali del
cristianesimo e non è alieno dall'accettarne la sostanza eterna, si
mostra poi inesorabile nell'esame dei dogmi che il cattolicismo vi è
andato sovrapponendo non tanto per soddisfare bisogni religiosi,
quanto per vincere pratiche battaglie, e coglie tali sovrapposizioni
vigorosamente e precisamente. Ora è vero che la distinzione tra
cristianesimo e cattolicismo, fatta con lo scopo di accettare il
primo per respingere il secondo, non è teoricamente valida;
l'Alfieri stesso sa che la logica della trascendenza investe di sé
religione e politica e che pertanto non v'è di eterno nel
cristianesimo se non la religiosità, l'atteggiamento formale dello
spirito mentre caduchi ne sono gli svolgimenti e la precettistica
morale dei Vangeli. Tuttavia nell'Alfieri e in tutto il pensiero che
prepara il liberalismo nostro questa distinzione si giustifica
validamente in quanto soddisfa un'esigenza storica.
L'ultimo motivo alfieriano di critica al cattolicismo nasce da un
approfondimento del problema sociale e morale che quasi non era
lecito aspettarsi da uno spirito come Vittorio Alfieri pervaso da
cosí viva coscienza individualistica che pare rasentare talvolta
motivi addirittura anarchici. L'Alfieri contesta la legittimità del
celibato dei preti, ma alla sua osservazione (comune ai tempi e anzi
tutt'altro che recente) dà il preciso carattere di negazione di ogni
egoismo individualistico. Al cattolicismo oppone il cattolico
spirito del Vangelo. Al dogma la morale: «dall'essere i preti
cattolici sforzatamente perpetui celibi non sogliono mostrarsi né
fratelli, né figli, né cittadini; che per conoscere e praticare
virtuosamente questi tre stati troppo importa il conoscere per
esperienza l'appassionatissimo umano stato di padre e di marito».
Contro questa affermazione potrebbe qualche bello spirito, banditore
di una precettistica, opporre la vita privata dell'Alfieri: e dire
che non è valida la giustificazione teorica da lui offerta del suo
celibato, poiché, in sede teorica, un dovere morale si commisura
all'attività spirituale di un individuo nella sua assolutezza, non
ad una condizione contingente quale è lo stato politico di libertà o
di schiavitú del paese.
Tuttavia la contraddizione mettendo in luce quanto intensi fossero
nel nostro i motivi di disgregazione sentimentale e le aspirazioni
anarchiche, offre una misura valida per intendere l'importanza del
suo concetto che scaturisce potente da una elaborazione
profondissima. Il momento astrattamente individualistico del
liberalismo è superato in una salda coscienza dei valori
dell'individuo come individuo sociale. Il termine uomo è inverato
nei termini cittadino e padre: fuori della famiglia, intesa non
egoisticamente o affettivamente ma come primo nucleo sociale, non
v'è moralità perché non v'è organismo.
Insieme con il celibato dei preti l'Alfieri combatte
l'indissolubilità del matrimonio, instaurata dal cattolicismo: come
egli ricolleghi questa critica al concetto centrale conquistato
dianzi, non si vede; e non v'è ragione perché dei danni notati nel
matrimonio perpetuo s'abbiano a incolpare, com'egli fa, i tiranni.
Ma, senza tentare una pedantesca giustificazione, basterà avvertire
che il radicalismo era nell'aria.
5. Polemica antimonarchica.
Parallela alla negazione del cattolicismo si svolge, come già s'è
intravvisto, la critica alla tirannide: anzi vi è tra i due elementi
una sostanziale unità.
Checché sostenga di diverso lo Scandura, tra monarchia e tirannide
non v'è differenza per il pensatore astigiano. Il costituzionalismo
non gli offre garanzia di sorta perché egli non si è mai fermato a
studiare con giuridica sottigliezza il problema delle forme di
governo.
Sotto lo stimolo del giusnaturalismo egli è tratto a pensare la
storia secondo un principio schematicamente dualistico: il trionfo
della libertà e, antitetico con esso senza possibili mediazioni, il
dominio della tirannide.
Ma se il punto di partenza resta il giusnaturalismo, la statica
concezione di Rousseau e l'incapacità sua di comprendere l'organismo
sociale è superata dal Nostro in una visione trascendentale che
riconduce libertà e tirannide a un principio pragmatistico e a una
dinamica volontaristica.
Dove la volontà è autonoma, dove il principio di ogni miglioramento
e svolgimento è in noi stessi, quivi esiste libertà; da una stessa
giustificazione, da una stessa base morale nascono dunque per
l'Alfieri libertà individuale e libertà sociale.
Si trova tirannide contrapposta a libertà dove all'autonomo
svolgimento che ha in sé il suo fine e il suo principio si
sostituisce e sovrappone una esterna gerarchia che negli uomini veda
uno strumento per la soddisfazione di limitati interessi da cui
tutti, eccettuato il tiranno, restano esclusi.
Non si attenda a questo punto dall'Alfieri la giustificazione che lo
storico può e deve dare della tirannide, esaminando realisticamente
le cose. Studiare nel Settecento la questione da un punto di vista
storico significava schierarsi già inizialmente coi fautori della
tirannide. La forza dell'Alfieri dunque è nella sua debolezza.
Rinunciando al realismo politico egli conquista una posizione di
realismo filosofico. Il profeta si libera dal suo tempo perché non
lo capisce (o meglio non lo capisce da politico): in questo
paradosso c'è la definizione piú rigorosa di tutte le torbide
divinazioni dei precursori.
L'Alfieri nega la tirannide perché piú forte dell'esigenza sociale
freme in lui il represso ardore di una attività individuale, piú
forti di tutti i motivi democratici lo animano gli impulsi anarchici
e aristocratici della sua esuberanza e della sua concreta coscienza
creativa. La sua critica è superiore all'enciclopedismo e al
liberalismo sensistico. Benché la sua fraseologia sia ancora
sostanzialmente quella dell'utilitarismo, egli tende ad elaborare
una concezione precisa della società come necessario organismo
ideale, e dello spirito come socialità; e si guarda dal ricader
nelle incoerenze dei democratici che per un risultato edonistico
erano pronti ad accettare trascendenza e dispotismo.
L'Alfieri fu conscio talvolta dell'astrattezza che caratterizzava la
sua critica e allora, benché privo di cultura e di esperienza
storica, seppe elevarsi a visioni sintetiche di potenza vichiana. La
coscienza dell'inesauribilità dello spirito, in lui limpidamente
teorizzata, gli suggerí idee luminose sulla relatività delle cose
umane che temperano e arricchiscono nella sua considerazione della
storia il rigido sistema iniziale dell'entusiasmo immanentistico.
«È il vero che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e
perpetua: e che (come già il dissero tanti savi) la libertà pendendo
tuttora in licenza degenera finalmente in servaggio; come il regnar
d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente
dovrebbe in libertà» (Della Tirannide, libro I, cap. I).
Al primo semplicismo della concezione dualistica è qui sostituita
una lucida visione di concretezza dialettica da cui l'Alfieri si
affretta a dedurre una norma di pratico operare: «...ogni uomo buono
deve credere e sperare che non sia ormai lontana quella necessaria
vicenda per cui sottentrare alfin debba all'universale servaggio una
quasi universal libertà» (ibid.). Qui dal mondo metafisico s'è
passati a una concreta situazione storica e a questa significazione
relativa si devono specificamente commisurare quelle affermazioni
che soltanto per maggiore efficacia e quasi per artificio di
scrittore si enunciano come se rivestissero un valore assoluto: per
non aver posto mente a ciò gli interpreti dell'Alfieri si sono
perduti in tanti equivoci e incertezze.
C'è un'altra giustificazione della tirannide, di carattere
decisamente metafisico, cui l'Alfieri accenna appena, ma che avrebbe
dovuto far meditare i critici frettolosi sulla complessità e sulla
feconda inquietudine del suo pensiero. – Nel primo libro del
trattato Della Tirannide abbiamo visto il tiranno considerato come
colui che sa conoscere gli uomini e perciò valersene. Tutto lo
spirito del primo libro Del Principe e delle Lettere anche se
s'intende come satira e sarcasmo, è necessariamente fondato su una
premessa teoretica che nella tirannide riconosca qualcosa di
praticamente e teoricamente valido. E non siamo noi i primi a notare
che attraverso le tragedie la figura del tiranno s'impone e opera
come realtà ideale da cui l'Alfieri è persino affascinato quando nel
tiranno c'è forza e in chi gli soggiace debolezza. Egli voleva per i
suoi uomini di libertà la tempra ferrea dei suoi tiranni e sentiva
in sé i due eroici furori della libertà e della forza sino a voler
impersonare insieme, quando recitava egli stesso il suo Filippo, le
due figure antitetiche di Carlo (libertà) e di Filippo (tirannide).
Tuttavia esigenze estetiche e sentimentali sono crudelmente,
imperiosamente soffocate dal prevalere di una sola esigenza morale
la negazione della tirannide acquista il pathos della negazione
dell'apostolo.
Reciso contro ogni dubbio l'Alfieri scultoriamente definisce: «La
parola Principe importa: colui che può ciò che vuole e vuole ciò che
piú gli piace; né del suo operare rende ragione a persona; né v'è
chi dal suo volere il diparta, né chi al suo potere e volere vaglia
ad opporsi» (Del Principe e delle Lettere, libro I, cap. II).
«E quindi o questo infrangi legge sia ereditario o sia elettivo,
usurpatore o legittimo; buono o tristo; uno o molti; a ogni modo
chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare è tiranno»
(Della Tirannide, libro I, cap. II).
Le parole in corsivo mostrano a chi parli di fonti del pensiero
alfieriano quale abisso vi sia tra queste affermazioni e la dottrina
del Montesquieu.
Riprende l'esame delle seduzioni estetiche che su lui aveva
esercitato la figura del principe; ogni incertezza è stroncata: si
dimostra inesorabilmente che il principe, considerato come
conquistatore, come legislatore, come mite governante, è sempre
vituperevole e inutile all'umanità. Gli esempi son scelti tra i piú
efficaci: implacabili sono le «stroncature» di Alessandro, di Ciro,
di Tito.
Conclude: la tirannide è l'antitesi del vivere umano: «se anco da
noi tutti non si dovesse aver mai altri principi che dei simili a
Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? Nol credo;
poiché i Romani non ridivennero maggiormente romani sotto Tito, né
sotto Traiano, né sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto
Augusto, Tiberio e Nerone» (Il Principe e le Lettere, libro II, cap.
VIII).
Dai primi motivi sentimentali ed egoistici la critica s'è
trionfalmente ampliata e integrata sino a diventare una decisa
affermazione morale: la polemica contro il monarca si trasforma in
negazione assoluta del dogmatismo politico: il problema
s'arricchisce di un intimo contenuto pedagogico e il liberalismo è
ricondotto ai suoi fondamenti filosofici. Gli sviluppi empirici, le
parentesi quasi autobiografiche, gli stessi particolari erronei non
devono esser esaminati ingenuamente come tali, ma accettati in
quanto illuminino ed esprimano con approssimazione simbolica il
coerente edificio sistematico della sua divinazione immanentistica.
Anzi la casistica pratica che si deduce immediatamente dalla teoria
dimostra, in un secolo di sensismo, l'irreducibile aspirazione a una
assolutezza filosofica: non solo si combatte il cattolicismo, ma lo
si vuole sostituire integralmente. Con una logica serrata l'Alfieri
deriva dalle sue premesse l'esigenza del tirannicidio: il suo
immanentismo essendo fortemente legato a motivi di immediatezza
spirituale e di ingenuo impulso creativo è naturale che egli
contrapponga all'individuo l'individuo, al tiranno la passione del
regicida. V'è in questa coerentissima logica astrattismo e
inesperienza politica: ma è quell'inesperienza che fonda le nuove
esperienze.
E qui è il luogo di intendere e chiarire quel concetto
apparentemente contraddittorio e assurdo – che si trova nel
Panegirico a Traiano e qua e là in frammenti delle altre opere – che
il solo principe degno di rispetto sia quello che dona la libertà ai
suoi sudditi rinunciando al dominio. Inteso il concetto
grossolanamente si tornerebbe in pieno estetismo umanistico, e alla
visione della politica come coscienza e organizzazione di coscienze
si sostituirebbe il gesto esterno, si porrebbe come fecondo di
conseguenze universali un atto limitato, isolato, scisso dalla
storia. Non certo ad una libertà donata aspira l'Alfieri; la sua
libertà deve esser frutto di inesausta volontà e di laboriosa
iniziativa. Nel Panegirico dunque non v'è né un programma politico,
né un ideale: si esprime la crisi di coscienza del tiranno, si
mostra in lui il doloroso contrasto tra la sua qualità di tiranno e
il pensiero che gli deve nascere in cuore naturalmente appena si
senta uomo. Cosí non v'è liberazione per lo spirito del despota fuor
che in questo ideale suicidio; la tragedia intima colta dalla
fantasia dell'artista è la riprova rigorosa dei motivi di critica
teorica.
L'Alfieri enumera tre modi di origine della tirannide:
1) la forza;
2) la frode;
3) la volontà dei sudditi mossi da corruzione; e vede in tutti e tre
il prevalere delittuoso di una volontà malefica artificiosamente
operante tra individui incapaci e ingenerosi.
Monarchia e dispotismo non si distinguono perché il monarca moderato
essendo tale per suo arbitrio è in ciò tiranno e i sudditi, anche se
non sono malmenati, sono schiavi. Ricondotto il criterio della
distinzione tra tirannide e libertà alla possibilità di sviluppo
dell'attività autonoma dei cittadini, la presenza di un dominatore
che attinga la sua autorità dall'esterno è di per se stessa, esclusa
ogni considerazione sulla benignità o ferocia dei risultati, una
limitazione, una diminuzione di spiritualità per chi gli sta di
fronte e gli è sottoposto. L'esigenza dell'autorità in un mondo
libero si attua per un processo dialettico a cui tutte le forze
partecipano, sí che il dominatore serve ad un tempo ed è espressione
e simbolo di tutta la realtà. La monarchia assoluta o moderata,
asiatica o europea è sempre un insulto a questa legge e la sua
benignità non è che un nuovo peccato di ipocrisia. Se c'è in questa
critica un torto esso non dipende da altro che dall'arbitrio con cui
se ne è pensata l'esegesi. Il processo storico ha dimostrato che la
monarchia, essendo realizzazione empirica di un concetto, e perciò
sottoposta all'imprevisto della praxis, può rinunciare alla sua
iniziale giustificazione teorica senza rinunciare a se stessa. La
logica dei concetti non è la logica della pratica. Nella dialettica
storica la libertà non esita mentre si afferma a servirsi degli
istituti stessi che sono sorti dalla sua antitesi. Il
costituzionalismo giuridico ha rivelato nel corso di un secolo le
sue eccellenti capacità di mediatore e ha dato le garanzie
necessarie nella conciliazione. Questo mondo di realizzazioni
particolari e di limiti empirici si sottrae al dominio della
profezia. Il profeta è il filosofo dell'iniziativa, della forza che
si esprime rivoluzionariamente, il teorico di oscure volontà e di
inesauribili impulsi spirituali. Gli elementi del contrasto e della
dialettica unità si sottraggono alla coerenza lineare che li ha
fatti scaturire e che continua a presiedervi come norma e legge
operosa. Lamentare che Vittorio Alfieri non abbia divinato l'unità
d'Italia sotto la monarchia costituzionale vuol dire lamentare che
la storia non sia finita con Vittorio Alfieri. La storia non
ubbidisce ai propositi degli individui, non corrisponde mai ad alcun
schema. Ma gli schemi sono il segno delle volontà che vi incalzano,
che la creano. Un Alfieri costituzionalista in pieno secolo XVIII
avrebbe potuto soltanto documentare un momento di stasi e di
interruzione, segnare un esame di coscienza e una rinuncia
riformistica. Era il momento eroico dell'azione, l'alba di una
catarsi per cui i miti dovevano far scaturire volontà pure e
inesorabili, rigide sino al messianismo. Poi sarebbero venuti i
legisti a foggiar misure e a costruire formule intellettualistiche.
Ma il realismo politico voleva forze e ideali senza cui il momento
del relativismo formulistico sarebbe stato arido e decadente. La
negazione della monarchia in Vittorio Alfieri è dunque una volontà e
perciò non ammette transazioni, è una forza ideale e non una riforma
repubblicana.
Liberi i critici di trovare imprecisioni dove l'Alfieri vuole
formulare in una parvenza di sistema pratico gli sviluppi della sua
teoria.
L'Alfieri si è preso cura nel suo trattato di enumerare quasi
diligentemente i sostegni della tirannide: la paura (dell'oppresso e
dell'oppressore), la viltà (che instaura il regno dell'adulazione),
l'ambizione (viziosa dove vale soltanto a soddisfare private
passioni e a procurare turpi sterminate ricchezze), la milizia, la
religione, il falso onore (tirannide esclude sincerità: rimaner
fedeli al tiranno vuol dire essere in realtà spergiuro e fedifrago),
la nobiltà (sorta eroicamente come classe politica ma corrotta e
schiava per la permanenza a Corte), il lusso (che inverte e
contamina tutti i valori).
Una enumerazione che potrebbe essere continuata e in cui si trovano,
è vero, punti di riferimento col Montesquieu ma, forse piú,
derivazioni numerose dal semplice senso comune. Il criterio secondo
il quale il pensiero alfieriano va giudicato non consiste in una
sottile critica di carattere tecnico, ma si deve riportare ancora
una volta all'unità sentimentale della passione e della coerenza
alfieriana. La negazione della tirannide ha anche in questi sviluppi
la sua misura in una originale coscienza etica.
Dove queste affermazioni sembrerebbero implicare una risoluzione di
problemi concreti economicamente o politicamente determinati,
l'Alfieri non riesce a nascondere la sua fretta e la sua
impreparazione. Non nelle sue opinioni economiche consiste la sua
grandezza di pensatore politico. Nella sua profezia che è un sistema
e un'aspirazione diventati imperativo categorico, i riferimenti
all'economia non possono non essere utopistici; e, conscio della
loro astrattezza, l'Alfieri vi attribuisce un significato del tutto
secondario: dove questi suoi accenni hanno avuto nella storia una
conferma non è possibile trovarvi alla radice un'inesorabile volontà
che trasformi il caso in profezia e organismo. La negazione del
lusso sembra dedotta dalla negazione del principio della disparità
eccessiva delle ricchezze: ma, benché il secolo XIX abbia in un
certo senso segnato il tramonto delle grandi proprietà feudali, la
negazione alfieriana resta tuttavia connessa all'astrattismo dei
primi socialisti utopisti. Cosí è tutta casuale l'acutezza apparente
della sua critica all'accumulamento dei beni di terra in pochissime
persone, benché l'Ottocento sia stato per l'appunto il secolo della
piccola proprietà; e non è dipendente da una precisa giustificazione
tecnica o da una esperienza economica il fatto ch'egli non si
preoccupi invece della disuguaglianza di ricchezze proveniente
dall'industria, dal commercio e dalle arti: egli non poteva avere
certo dinanzi agli occhi il quadro specifico dell'evoluzione della
società borghese; ma in realtà pur muovendo da Rousseau recava in sé
i germi dell'assoluto attivismo del liberalismo moderno.
La negazione della milizia poi non può intendersi in alcun modo come
anticipazione dell'ideologia pacifista. Invero l'ideale
aristocratico e attivistico dell'Alfieri difficilmente gli avrebbe
potuto concedere l'adesione a sogni democratici di pace universale:
con la sua profezia egli porta l'annuncio di una lotta, non la
rinuncia di un ripiegamento. Ogni affermazione di un imperioso dover
essere, deve santificare ed esaltare almeno una guerra, che realizzi
l'ideale impegnando tutta la personalità: e la milizia ne è
strumento necessario. Cosí pensa l'Alfieri e, nonostante i
dilettanteschi pregiudizi di ripugnanza alla disciplina militare che
si trovano qua e là nella Vita e nelle Satire, è ben conscio del
processo di eroica disciplina e dedizione attraverso cui deve
attuarsi la redenzione della libertà.
Ma la milizia nella tirannide non è milizia: «non potendosi dir
patria là dove non ci è libertà e sicurezza, il portar l'armi dove
non c'è patria riesce pur sempre il piú infame di tutti i mestieri:
poiché altro non è se non vendere a vilissimo prezzo la propria
volontà, gli amici e i parenti e il proprio interesse e la vita e
l'onore per una causa obbrobriosa ed ingiusta».
6. La morale e la metafisica della libertà.
L'aspirazione dell'Alfieri, antitetica alla rinuncia del Gori –
«dalla feccia nostra presente sorger puro ed illibato d'esempio» – è
una di quelle posizioni eroiche che riesce agevole demolire ai
critici positivisti e intellettualisti, usi a porre schemi e a
trovar contraddizioni dove si tratterebbe di interpretare e valutare
chiaroscuri di pensiero. È vero che la sua filosofia non liquida,
con chiarezza di superatore, i problemi del passato; la sua arte può
parere un astratto programma, la sua politica un'intransigenza
intemperante. Al passato egli ha opposto immediatamente la sua
spontaneità d'individuo, la sua originalità ingenua. Nei momenti piú
tragici e incerti dello sviluppo storico, come «quando in corsa ed
alle svoltate una slitta minaccia di cader da una parte, ci vuol
pure – cosí dice Prezzolini – qualcuno che si sacrifichi, che si
sporga tutto fuori dalla parte opposta». Ma la storia nella sua
coerenza lineare e nella sua razionalità di conservatrice deve
essere ingiusta e quasi parer sconoscente verso queste aspirazioni
che pur concorrono potentemente a crearla.
Chi volesse farsi un'idea approssimativa dell'importanza dell'etica
alfieriana dovrebbe indagare in quali occasioni e quante volte egli
sia parso ed abbia concretamente operato come «esempio» agli uomini
d'azione e ai pensatori, e ai moralisti della nuova precettistica
che venne in vigore nel Risorgimento e che non è ancor spenta: qui
si troverebbe materia per un nuovo problema di critica storica ben
degno di meditazione: Alfieri e la storia dei costumi e dei
sentimenti.
Ma questo è soltanto un aspetto della morale alfieriana: per esso lo
scrittore partecipa concretamente alla formazione spirituale del
nuovo popolo, ma soltanto indirettamente alla creazione di una
civiltà europea. Sarebbe agevole organizzare in sistema questa nuova
precettistica e casistica morale quando si tenesse ben presente che
la sua origine e la sua unità consistono nella polemica contro il
legalismo etico del cristianesimo giudaico e contro l'utilitarismo
teologico. Invece noi non crediamo né alla necessità né alla
possibilità, teoreticamente valida, di una casistica morale anche se
sappiamo esser dimostrabile la sua insopprimibilità nei limiti
relativistici di una illusoria pretesa d'organicità. La casistica
che l'Alfieri oppone alle consuetudini etiche del cattolicismo ha la
sua validità (come la sua origine) nella psicologia e nella
personalità sua. È chiaro dunque che se ne dovrà tener conto solo
come di documento d'un intimo pensiero – libero e trascendentale
perché legge filosofica di cui quei particolari sono soltanto
un'esemplificazione difficilmente sottratta all'arbitrio.
Il centro vero del pensiero alfieriano, che gli dà diritto
d'inserirsi nella storia europea del pensiero della libertà – con
forza e giustizia ben superiore a quella che ne possano vantare i
romantici del primo Sturm und Drang – sta nel suo concetto di
volontà. La scuola antropologica ha combattuto una delle sue piú
sterili e vuote battaglie quando ha preteso di dimostrare
l'inesistenza della volontà alfieriana. Positivisti, livellatori,
rigidi democratici, vagheggiatori di dogmi materialmente grossolani
e di fisica trasparenza – identificavano la volontà da essi cercata
col fanatismo, colla pesantezza, con gli occhi bendati. In Alfieri
non si trova questa volontà. Anche il Bertana, quando sostiene che
la volontà dell'Alfieri non si traduce mai in azione, pensa alla
massiccia coesione intollerante della «Volontà» dei Gesuiti, validi
amministratori ed esecutori senza incertezze, senza dissidi.
L'intolleranza dell'Alfieri è invece essenzialmente comprensione. La
sua volontà è il momento della luce volitiva che balza direttamente
da una crisi della volontà perpetuamente riprodotta. Il segreto
della sua azione sta nel suo pessimismo che non si può penetrare se
non si intende il piccolo testo eroico a cui è affidata la
descrizione della sua genesi: il Dialogo della Virtú Sconosciuta.
Gori non agisce perché non ha fede, Alfieri «indomita, impetuosa
indole» agisce perché non ha una fede. L'ideale non illumina
dall'esterno, rimanendo in alto inafferrabile, ma sorge dall'azione,
sta nella disperazione stessa con cui accettando l'ineluttabile
coscientemente, rinunciando fermamente ad ogni illusione e ad ogni
falsità, nata soltanto da debolezza e da egoismo, si ritrova il
criterio austero della virtú nel disinteresse della solitudine.
Anche la fama è soltanto dolce e utile chimera in quanto possa
essere cagione di bell'opera umana (p. 202). Cosí questa volontà di
disperazione e di negazione riconquista il suo momento positivo,
diventa la base su cui si può costruire ancora, consci della
tragedia che il moderno concetto di immanenza impone agli spiriti.
Nel Principe, chiarendo le premesse della Virtú Sconosciuta,
l'Alfieri cosí definisce, contrapponendola all'impulso artificiale,
l'assoluta individualità del volere che egli chiama impulso
naturale: «è questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui
non si trova mai pace, né loco, una sete insaziabile di ben fare e
di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto e tutto il da farsi,
senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta
voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser
nulla».
Per chi ha ben compreso il nostro ragionamento, non è possibile
trovare in queste espressioni un individualismo anarchico o una mera
morale nietzscheana: c'è invece implicita tutta l'attivistica morale
moderna.
Non bisogna limitarci alla mera affermazione finale di questo
volontarismo: bisogna vedere come esso sorga da un dialettico
contrasto, commisurandosi a realistiche premesse etiche. Il
principio volitivo è per lui l'affermazione dell'autorità che dà una
forma e una coscienza al mondo della libertà.
E la libertà è per l'Alfieri il coefficiente primo della personalità
non si è uomini se non si è liberi. Il concetto è indagato nel suo
valore teoretico in quanto costituisce la condizione dello sviluppo
delle facoltà intellettuali; nel suo valore etico come determinante
di tutte le virtú e identico esso stesso con magnanimità, giustizia,
purezza; come mito di azione perché scaturigine del pensiero della
gloria. Nessuna rigidezza deterministica penetra in questo regno
dell'assoluta autonomia: il solo elemento di determinismo è la
decisione stessa, ma l'impulso che determina, ossia fa diventare
atto la mera potenza, è ancora libertà.
La libertà conquistata attraverso l'utilitarismo riformistico, cara
agli enciclopedisti francesi, non ha senso alcuno per l'Alfieri,
come non ha senso una libertà politica che non si fondi sulla
libertà interiore – intesa questa come forte sentire.
Nel concetto alfieriano insomma c'è una vera e propria affermazione
di carattere metafisico.
La libera pratica delle virtú politiche è realizzatrice di libertà
costituzionali e sociali in quanto nasce dall'attività operosa e
indipendente dei cittadini. Condizione per essere cittadini, per
essere liberi è la conoscenza dei propri diritti: ma come per
conoscenza si deve intendere, in linguaggio alfieriano, una vera e
propria azione, cosí diritto non significa astratta capacità ma
volontà ed esplicazione. Il fatto politico include sempre un fatto
morale. «La libertà è la sola e vera esistenza di un popolo; poiché
di tutte le cose grandi operate dagli uomini la ritroviamo esser
fonte».
Questa idea è la metafisica dell'Alfieri: il suo assoluto, il suo
Dio. Di qui vedremo nascere la sua religione e la sua politica.
7. La religione.
Di questa unità sistematica l'Alfieri ebbe coscienza e l'affermò
quando diede forma concettuale alla sua dottrina della religione. Il
credo alfieriano si rivolge a una religione e a un dio «che sotto
gravissime pene presenti e future comandino agli uomini di esser
liberi». «Comandino» è detto per metafora: non che ci sia chi deve
comandare e chi gli sottostà: colla locuzione si indica
l'universalità e la necessità di questa credenza che coincide con
l'autonomia dei credenti e non contempla nulla di esterno: imporre
agli uomini la libertà vorrebbe dire che la libertà è di tutti, è
possibilità che basta esser uomini per realizzare. La religiosità
alfieriana è il trionfo dei valori interiori. Le religioni
costituite e dogmatiche separano tra autorità gerarchica e umiltà di
popolo, tra impero e ubbidienza: alla loro base, piú profonda ancora
di ogni esperienza mistica, sta un principio utilitario, un calcolo
di cui le classi gerarchicamente piú elevate si servono. La
religione della libertà esclude interessi e calcoli, esige, come
efficacemente scrive l'Alfieri, fanatismo negli iniziatori, e negli
iniziati entusiasmo di sincerità, in tutti quell'ardore completo per
cui non c'è soluzione di continuità tra pensiero e azione. Ne
risulta un'unità di apostolato che anticipa i caratteri dell'opera
mazziniana. E un po' di mazzinianismo c'è anche nelle premesse
teoretiche di questa religiosità; ma è un mazzinianismo senza
elementi giansenistici né misticizzanti e gli resta superiore in
quanto si esprime in un momento di precursore mentre in Mazzini
teorico si avverte qualcosa di sorpassato. In Alfieri c'è,
oscuramente, la concezione dialettica del liberalismo. Mazzini
soggiace alle incoerenze del poderoso mito di azione che instaura.
Alfieri è un'anima religiosa e mentre propone la sua concezione
libertaria sente intensa e profonda vicinanza spirituale con tutte
le anime eroiche della religione. Il quinto capitolo dell'ultimo
libro del Principe (Dei capisetta religiosi; e dei santi e dei
martiri) non è in contraddizione con ciò che altrove l'Alfieri ha
affermato in netta polemica contro le religioni positive; anzi
dimostra quale senso squisito egli possegga dell'importanza
spirituale della religione e del suo valore di sincerità creativa.
Come tutti gli spiriti religiosi l'Alfieri ha sentito il fascino
della figura di Cristo; e, mentre nella Tirannide esalta
l'importanza della prima dottrina cristiana della civiltà, nel
Principe si sforza di attribuire a Cristo il significato, che per
lui trascende ogni altro, di creatore di politica libertà.
Indipendente da ogni forma di settarismo demagogico, l'Alfieri si
assume la difesa dei creatori di religione contro i moderni che li
svalutano. Codesti critici gli appaiono i soliti rappresentanti
della solita «semifilosofia» che cela nello stile leggiadro
superficialità intellettualistica e povertà etica. L'Alfieri
distingue tra l'importanza pratica e l'importanza filosofica dei
santi e capisetta: in altre parole, tra la forma della loro attività
e l'empirico contenuto. Il suo giudizio è severo e limitativo quando
li esamina da questo secondo punto di vista; quando invece li
considera secondo il primo, frena a stento l'entusiasmo. E osserva
che oggi di questi santi si ha scarsa stima solo «perché si
giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall'impulso che li
movea, e dalla inaudita sublime tempera d'anima di cui doveano
essere dotati; abbenché con minor utile politico per l'universale
degli uomini l'adoprassero». La distinzione è filosofica, sottile,
precisa. Nei moderni contro cui la critica è diretta si ravvisa
esplicitamente Voltaire.
«I moderni scrittori invece d'innalzare e insegnare la sublimità
pigliandola per tutto dove la trovano, col loro debole sentirla, e
col piú debolmente lodarla, affatto la deprimono ed obliar ce la
fanno. Ma poiché i piú leggiadri fra essi (fattisi intieramente
padroni di un'arma tanto possente quanto è la ingegnosa derisione)
hanno pure scelto di migliorare e illuminar l'uomo col farlo ridere,
ecc., ecc.».
Dove accanto a una netta ripresa dei già notati motivi
antintellettualistici troviamo un notevole punto di riferimento per
contestare i risultati dei cercatori di fonti enciclopedistiche e
più precisamente voltairiane.
E qui ancora si può finalmente chiarire la distinzione alfieriana
tra cattolicismo e cristianesimo. Nel cattolicismo c'è
un'organizzazione sistematica di principî, un organismo, costituito
in gerarchia: allo sforzo di creazione è succeduto il momento
dell'effettuazione pratica che si svolge attraverso transazioni,
opportunismi, adattamenti: il sistema si presenta (per un fenomeno
illusorio della praxis sociale su cui tuttavia s'imposta la legge
stessa di esistenza della politica) definitivo; il principio
necessario è una rigida disciplina. Alfieri, iniziatore di una
grande civiltà, profeta, al tempo stesso, di una nazione e di un
mondo, ha presente la necessità dello sforzo puro dello spirito,
dello sviluppo ardimentoso di tutte le iniziative morali; gli è
difficile intendere il fenomeno sociale nelle sue apparenze
statiche, nei suoi momenti convenzionali; vede le cose mentre si
creano, assiste all'affermarsi imperioso e integrale del suo mondo
di libertà; per lui l'organizzazione si fonda sull'anarchia come
responsabilità dei singoli; ossia l'anarchia non esclude
l'organizzazione perché è figlia diretta di motivi liberali,
aristocratici e volontaristici. Questi caratteri appunto si possono
ritrovare nel cristianesimo che è l'antitesi del cattolicismo in
quanto lo prepara; ed è la negazione del dogma perché crea il dogma.
Per noi che siamo fuori del cattolicismo e lo vediamo come un
passato in certo senso concluso, il dogma e l'organismo rigido della
Chiesa si dimostrano nella loro fecondità matura nettamente
superiori all'entusiasmo ingenuo della prima parola cristiana: per
l'Alfieri, che vive nel cattolicismo e lo deve superare, rivendicare
l'originalità del momento cristiano è come un processo simbolico per
affermare un nuovo momento creativo che si sostituisca alla stasi in
cui l'antico ardore di originalità religiosa s'è esausto.
Ma il concetto alfieriano non ha soltanto questa importanza di
relativismo pratico: ha valore teoretico in quanto coglie il
significato della vita religiosa come fervore, come misticismo
psicologico: questo infatti è il solo elemento irriducibile
(formale) intorno a cui si possa organizzare una teoria della
religione e dimostrarne l'universalità. (Il misticismo teoretico e
metafisico è proprio solo di quelle religioni che pensano Dio come
essere. Né la Riforma s'è liberata da questi residui: perciò il
pensiero alfieriano, che prepara la nuova coscienza laica dello
Stato italiano, le è nettamente superiore: chi parlerà di una
necessità di Riforma in Italia dopo l'Alfieri coltiverà un'illusione
e un anacronismo). Se il cattolicismo è squisitamente politico
mentre il cristianesimo è la solitudine della teoria e del
sentimento morale, il cristianesimo anticattolico dell'Alfieri è
un'altra prova della nostra tesi che il suo pensiero sia piú
filosofico che politico.
Di qui la simpatia con cui egli guarda agli eretici rappresentanti
del pensiero religioso nella piú intensa espressione di libertà. Il
concetto che l'eresia sia il vero momento creativo della religione
(Loisy) è dunque coscientemente precorso dell'Alfieri. Nasce con lui
il solo modernismo italiano valido.
La distinzione tra cristianesimo e cattolicismo trova un nuovo
chiarimento nel diverso giudizio che vien dato degli uomini di
religione secondo che siano stati espressione eroica di virtú
(santi), o diventino strumenti della tirannide (preti). Ecco
scultoriamente colta l'antitesi: «Costoro tutti, – e si riferisce ai
martiri, – avendo avuto al loro operare lo stessissimo sovrano
irresistibile impulso che debbono avere i veri letterati, alle
stesse vicende di essi per vie e cagioni diverse soggiacquero. E mi
spiego. Costoro finché furono lasciati fare da sé, puri, incalzanti
e severi mostraronsi; perseguitati divennero piú luminosi, piú forti
e maggiori direi di se stessi; protetti finalmente, accolti,
vezzeggiati, arricchiti e saliti in potere, si intiepidirono nel ben
fare, divennero meno amatori del vero, e pur anche sotto il
sacrosanto velo di una religione ormai da essi scambiata e tradita,
asseritori vivi si fecero di politiche e morali falsità» (Del
Principe e delle Lettere, cap. cit.). Tradotti i termini alfieriani
in termini nostri: identità di religione e di libertà, di religione
e di letteratura: l'impulso interiore centro di ogni azione.
La religiosità dell'Alfieri, il suo rispetto per i creatori di
religione non vela il suo pensiero quando concludendo deve porre una
negazione assoluta poiché nel cristianesimo (e tanto piú nelle altre
fedi) c'è latente il principio dogmatico di cui egli ha dato, come
s'è visto, la piú formidabile critica nella polemica anticattolica.
La fede che l'Alfieri pensa di instaurare è l'antitesi di tutti i
dogmatismi; bisogna che si differenzi dalle altre fedi, le neghi, le
limiti. Accanto all'esaltazione del momento religioso dello spirito
troviamo perciò un principio sereno e solido di critica delle
religioni positive. «Il credere in Dio insomma non nocque a nessun
popolo mai; giovò anzi a molti; agli individui di robusto animo non
toglie nulla; ai deboli è sollievo ed appoggio» (ibid.). La
religione positiva e dogmatica è un'esigenza per gli spiriti deboli,
è un principio di sicurezza e di conforto offerto al loro isolamento
e, quando non sia politicamente diseducativa e tirannica, quando non
spenga gli sforzi individuali, ha una limitata verità nella misura
in cui corrisponde a una situazione psicologica.
Cosí nuovamente e acutamente intende l'Alfieri il vecchio principio
della religione per il popolo.
Ma per il popolo nuovo che egli vagheggia, per il popolo mosso a
virtú da forti scrittori, per il popolo indipendente annunciato nel
Principe (libro III, cap. X), principio formatore e direttivo deve
essere la religione di libertà. Non piú conforto per i deboli ma
sicurezza dei forti, non piú culto di un'attività trascendente, ma
attività nostra, non piú fede ma responsabilità. È la religione di
una coscienza piú ampia che si sostituisce a una religione
rudimentale. Contro il dogma nasce l'autonomia. I termini
dell'Alfieri sono cosí precisi che devono togliere ogni dubbio a chi
ci ha seguiti sin qui.
«La ragione e il vero sono quei tali conquistatori che per vincere e
conquistare durevolmente nessuna arme devono adoperare che le
semplici parole. Perciò le religioni diverse e la cieca obbedienza
si sono sempre insegnate coll'armi, ma la sana filosofia e i
moderati governi coi libri» (Del Principe e delle Lettere, libro II,
cap. X).
Il verbo sottinteso nella proposizione dove filosofia fa da soggetto
insieme coi moderati governi non è insegnato: ché allora il concetto
alfieriano si confonderebbe coi vari sogni di governi illuminati, né
la moderazione invocata si può intendere alla stregua dell'ideale di
Montesquieu. Nella religione alfieriana iniziativa popolare e azione
di classe dirigente si organizzano e si fondono in un'espressione di
civiltà integrale. Libri è detto per metafora e vale coscienza.
L'originalità dell'Alfieri è nella sostituzione di filosofia a
religione; nel pensiero di una filosofia come anima della stessa
azione popolare; il popolo – come altrove dirà piú chiaramente –
partecipa all'elaborazione della verità anche senza elaborare
tecnicamente problemi teoretici; consacra con la sua azione le
conquiste della cultura. Questi concetti che riescono a una teoria
dello Stato laico e religioso insieme, realtà politica di filosofica
libertà, valido a lottare contro la Chiesa – diventeranno i motivi
animatori del nucleo originale e sano del pensiero liberale
italiano.
Nei luoghi citati è pure risolto indirettamente il problema di Dio.
Il concetto di Dio come ideale che informa l'azione umana e ne
dirige le aspirazioni, come unità determinante di valori è tutto
risolto senza residui nel nuovo concetto di libertà. Del problema
metafisico di Dio posto nei suoi statici termini di ontologia
l'Alfieri non si cura di dare una soluzione dichiarata. Per lui il
problema è evidentemente sorpassato e, se in sede teoretica
preferisce una posizione di dubbio ad una affermazione di carattere
costruttivo, in sede psicologica e pratica il Dio-ente personale è
respinto in modo definitivo.
Non essendo riuscito a trasformare la posizione psicologica in
posizione di universalità teoretica, l'Alfieri non ha conquistato
con riflessione cosciente l'idea del Dio trascendentale che pure
animava con immediatezza di pathos tutti i suoi sforzi speculativi.
Ma attraverso il Risorgimento e dopo il Risorgimento la sua
efficacia educatrice in sede metafisica deve soprattutto
riconoscersi nella riduzione all'assurdo dell'ontologia da lui
intrapresa.
8. La politica.
Nel pensiero alfieriano si può trovare e spiegare un proposito
politico, anzi addirittura una costruzione politica. Ma perché
l'esegesi sia valida occorre tener presenti i limiti da cui sorge
questo sviluppo del sistema e della praxis dell'Alfieri. Gli
interpreti che al Nostro toccarono in sorte sin qui s'apprestarono
al compito loro con illusioni di letterati mal nascoste tra formule
giuridiche di costituzionalismo che in loro rimanevano estranee e di
cui non avvertivano perciò i limiti, che i giuristi stessi già
inizialmente vi stabiliscono. La sicurezza positivistica del
Bertana, inquieto soltanto di impartire lezioni di scienza e di
precisione tecnica al suo autore, e la sicurezza ancor piú dogmatica
degli altri letterati – entusiasti di enumerare pregi e di ritrovare
intuizioni di enciclopedica genialità perché teneri della candida
concezione che vuol trovare nel genio una rivelazione quantitativa
di sottili scoperte – non potevano svelare con precisione un
pensiero tutto fatto di chiaroscuri, di lampi improvvisi, di
tempestosi fulgori.
Non è seria la pretesa di riferire e commisurare le intuizioni
alfieriane ai problemi pratici contingenti. E occorre proprio
ripetere che la politica non si riduce ai problemi costituzionali?
Poiché negli scritti politici non riuscivano a trovare il cercato
costituzionalismo conservatore, vollero vedere le Commedie come un
sistema legislativo; il testamento di Alfieri diventato
conservatore. Invece le commedie alfieriane rappresentano un momento
di scetticismo, uno scherzo dove coesistono le incertezze piú
contraddittorie e dove non è possibile ritrovare un criterio
organico di chiarificazione interna. Alfieri non è legislatore e
quando ci si prova lo fa per gioco e non riesce a dissimulare il suo
estetico disinteresse.
In realtà gnoseologia, morale e religione lo conducono per una linea
di coerenza inesorabile ad affrontare centralmente, unicamente, il
problema dell'azione. Se tutto nel suo spirito è azione, se tutto si
risolve e si sacrifica nella praxis, nell'impulso volitivo, la sua
politica dovrà dare una forma sociale a questo impulso, dovrà essere
la traduzione obbiettiva della sua religione.
Perciò non programmi, ma leggi di praxis; non la preoccupazione del
problemismo tecnico, ma la filosofia, la preparazione della pratica
stessa. Ricorre spontaneamente un nome, un insegnamento, e l'Alfieri
si affretta a notarlo: Machiavelli. Del resto la tecnica della
praxis non si predice, non si teorizza sui libri, ma si deve
commisurare all'esigenza di ogni istante per opera di uomini educati
a realistica finezza e comprensione. Tutto il capitolo ottavo del
libro secondo Della Tirannide è pervaso da questa netta coscienza di
relativismo politico. L'Alfieri si rifiuta di precisare maggiormente
il suo programma pratico perché, secondo lui, la esperienza storica
può indicare soltanto degli indirizzi e delle intenzioni, ma «quegli
ordini che convengono ad uno Stato disconvengono spessissimo
all'altro», «quelli che bene si adattano al principiare di uno Stato
novello, non operano poi abbastanza nel progredire e alle volte anzi
nuocciono nel continuare» e «il cangiarli a seconda col cangiarsi
degli uomini, dei costumi e dei tempi ella è cosa altrettanto
necessaria quanto impossibile a prevedersi e difficilissima ad
eseguirsi in tempo». L'insegnamento dei Discorsi sopra la Prima Deca
è qui ripreso con vigore e torna una potente figurazione realistica
dell'Uomo di Stato.
Ma dello Stato l'Alfieri non poté mai dare un concetto valido e
chiaro, non perché il suo pensiero non ne accettasse l'esigenza, ma
perché sempre doveva apparirgli come un risultato cui egli s'era
professato già inizialmente incompetente. Tuttavia l'idea dello
Stato, anche taciuta, pervade i suoi propositi e il suo pensiero
come idea definita di un organismo che dà una libera disciplina ai
suoi liberi cittadini fondandosi appunto sull'antitesi ideale
dell'organismo chiesastico (vedansi gli accenni alla sua ideale
Repubblica – mai come in Alfieri la parola ebbe il suo senso
etimologico romano – nel secondo libro, capitolo ottavo Della
Tirannide).
Il problema centrale era di crearlo, questo Stato, e non ci si
poteva baloccare con formule tecniche o con piani fantasiosi:
bisognava suscitare delle forze, opporre delle virtú alla tirannide;
elaborare idee che diventassero forze.
Con duro travaglio l'Alfieri riesce a superare il suo istinto
letterario e a vedere il realismo necessario della nuova posizione.
Inizialmente opponeva al tiranno il suicidio o il tirannicidio
attraverso la congiura. Sono i due modi dominanti nel sentimento dei
suoi personaggi tragici: diventano l'esaltazione di una coerenza
rigida e lineare sino al dissolvimento di se medesima. Anche la
congiura è eroica solo in quanto è un suicidio dettato dalla
disperazione attraverso il quale il protagonista libera la sua
libertà in una incontaminata catastrofe (Della Tirannide, libro II,
cap. V).
In realtà «benché la piú verace gloria, cioè quella di farsi utile
con alte imprese alla patria e ai concittadini non possa aver luogo
in chi, nato nella tirannide, è inoperoso per forza civile; nessuno
tuttavia può contendere, a chi n'avesse il nobile e ardente
desiderio, la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo.
Questa gloria, quantunque ella paia inutile ad altri, riesce
nondimeno utilissima sempre, per mezzo del sublime esempio».
Ma a rovesciare la tirannide occorre che questa virtú di pochi si
faccia spirito animatore di tutti: occorre che tutti sentano la
tirannide.
Le forze su cui bisogna edificare sono la Nazione, il Popolo, la
Classe politica. Il Bertana s'è affannato con molto impegno a
dimostrare che l'idea di patria, di Italia era diffusa e dominante
anche prima dell'Alfieri per due secoli almeno. Ciò è pacifico.
Bisogna vedere come nell'Alfieri questa idea sia diventata una
forza.
L'Alfieri pensa il popolo eternamente rinnovato da un'operosa lotta
interiore, da dialettiche dissensioni (Della Tirannide, libro I,
cap. VII), un popolo aristocratico, forte, «e una volta per tutte mi
spiego, ché io nel dir popolo non intendo mai altro che quella massa
di cittadini e contadini piú o meno agiati, che posseggono propri
lor fondi o arte, e che hanno moglie e figli e parenti, non mai
quella piú numerosa forse, ma tanto meno apprezzabile classe di
nullatenenti della infima plebe. Costoro essendo avvezzi di vivere
alla giornata; e ogni qualunque Governo essendo loro indifferente
poiché non hanno che perdere; ed essendo massimamente nelle città
corrottissimi e scostumati, ecc. . Non altrimenti pensava Carlo Marx
il suo popolo rivoluzionario.
Il popolo ha la sua volontà e la sua forma nella classe politica che
esso stesso esprime. Il vizio della tirannide «interamente risiede
in quei pochi che il popoli ingannano». Anche la libertà deve avere
la sua classe politica, strumento e guida alla volontà popolare; e
questa appunto non si potrà creare con un'opera di propaganda, ma
solo attraverso le forze storiche oscure creatrici di obbiettive
realtà. Quasi divinando il processo marxistico di arrovesciamento
della praxis, l'Alfieri nota che una volontà di redenzione liberale
sorgerà nel popolo per opera stessa delle intollerabili condizioni
che la tirannide avrà determinato. S'incontreranno nella loro pura
intransigenza due principi, due azioni. La lotta contro la tirannide
sarà redentrice perché avrà rinunciato per la sua coerenza ad ogni
disgregazione individualistica e ad ogni utilitarismo. La
moltitudine «non istigata, non prezzolata, ma per naturale sublime
impeto, dalle ricevute ingiurie commossa a sdegno e furore, agisce
all'improvviso con entusiasmo, energia e schietto coraggio»
(Misogallo, prosa II: Avvenimenti). Contro le formule galliche
«libertà, uguaglianza, fratellanza» l'Alfieri vede le cose
realisticamente nella loro dinamica di lotta.
Cosi il popolo diventerà nazione. «Nel dir nazione intendo una
moltitudine di uomini per ragione di clima, di luogo, di costumi e
di lingua fra loro non diversi; ma non mai due Borghetti o
Cittaduzze di una stessa Provincia, che per essere gli uni
pertinenza ex gr. di Genova, gli altri di Piemonte, stoltamente
adastiandosi, fanno coi loro piccoli, inutili ed impolitici sforzi,
ridere e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori». Insomma
il criterio di nazione va riportato ai suoi fattori storici.
Attraverso lo stesso processo dialettico che crea una volontà nel
popolo, anche la nazione diventa un fattore insopprimibile di
sviluppo e di spiritualità. «Gli odî di una nazione contro l'altra
essendo stati pur sempre né altro potendo essere che il necessario
frutto dei danni vicendevolmente ricevuti o temuti, non possono
perciò esser mai né ingiusti né vili. Parte anzi preziosissima del
paterno retaggio, questi odî soltanto hanno operato quei veri
prodigi politici che nelle storie poi tanto si ammirano» (Misogallo,
prosa I).
Il bisogno di superare le intemperanze anarchiche che erano state
necessarie nella polemica contro la tirannide conduce qui l'Alfieri
ad una professione che può parere di nazionalismo. In realtà
l'Alfieri parla di nazione pensando a un elemento di dinamica e di
sforzo operoso, ma il suo concetto è molto vicino alla teoria dello
StatoPotenza.
Per l'esigenza insopprimibile che egli sente di svegliare virtú e di
imporre una direzione all'«implacabile sdegno contro l'oppressore»,
si indugerà anche, nell'Esercitazione a liberar l'Italia dai
barbari, ad affrontare in termini di pratica contingenza la
determinazione d'un disegno particolare capace di realizzare l'unità
dell'Italia «che, – come dice nel Misogallo, prosa I, – la Natura ha
sí ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal
rimanente d'Europa». È noto come egli tentasse di precisare
l'effettuazione del sogno secondo un processo che resta genialmente
realistico anche se non trovò indulgenza nel Bertana e negli altri
critici. Era affermato dall'Alfieri con potenza ben nuova il
concetto, che si stava ormai maturando nell'aria ma che solo nel
1849 fu realisticamente ripreso, della fine necessaria del dominio
pontificio. L'Italia «divisa in molti Principati e debolissimi
tutti, avendone uno nel suo bel centro che sta per finire, e che
occupa la miglior parte di essa, non potrà certamente andare a lungo
senza riunirsi almeno sotto due soli Principi che, o per matrimoni
dappoi, o per conquista, si ridurranno in uno». Questa è la prima
rivoluzione: ed io non saprei vedere di quale astrattismo qui vi sia
peccato. Questo è piú o meno schematicamente il processo di cui
Vittorio Emanuele II è stato protagonista dal 1848 al '70: e forse
l'Alfieri avrebbe voluto soltanto maggior coerenza nell'assumere una
posizione ideale di fronte al Papato. Cosí si sarebbero realizzate
le condizioni materiali e quasi i presupposti obbiettivi perché si
suscitasse l'iniziativa popolare la quale nell'Alfieri doveva
concludere necessariamente a darsi ordine di repubblica. E qui egli
attingeva ancora dalla storia un'altra osservazione di opportunità:
«L'Italia ha sempre racchiuso in se stessa (piú per non scordarsene
affatto il nome che per goderne i vantaggi) alcune Repubbliche, le
quali benché affatto lontane da ogni libertà, avranno però sempre
insegnato agli Italiani che esistere pur si può senza Re, cosa di
cui la colta ma troppo guasta Francia non ardirà forse mai
persuadersi». Ma l'iniziativa non si sveglierà senza i «bollenti
animi, che spinti da impulso naturale, la gloria» cercano «nelle
altissime imprese» e senza la «giusta e nobile ira dei drittamente
rinferociti e illuminati popoli». È insomma la rivoluzione di
Mazzini, anzi il mito centrale di azione che ha ispirato tutti i piú
profondi tentativi politici in Italia dopo il Settecento.
Questa è la vera profezia dell'Alfieri, il suo pensiero
riconquistato nella praxis. Anticipando la rivoluzione francese egli
assegnava all'Italia, lucidamente e originalmente, la funzione che
nel nuovo ciclo della storia europea ebbe la Francia rivoluzionaria.
Solo in queste premesse si può trovare una giustificazione degna e
profonda dell'atteggiamento suo di fronte alla rivoluzione francese.
Infantilmente parlarono gli esegeti dove, smaniosi di sorprendere
un'effusione o uno slancio alfieriano magari volutamente esagerato,
teorizzarono un Alfieri irritato sino alle bizze o al capriccio,
attribuendovi cagioni del tutto sentimentali e talvolta addirittura
una bassa origine di calcolato utile o di lesi interessi. Il
processo della scuola positivista ebbe addirittura le forme e lo
spirito di un tentativo, non esente da malizia e ingenerosità, di
sorprendere la buona fede e la franchezza dello scrittore della
Vita. La dimostrazione di ciò va rimandata in sede di biografia. Ma
non era possibile neanche qui rinunciare a porre il criterio secondo
cui noi crediamo che la famosa storia dell'usurpazione di libri e
carte dell'Alfieri debba ridursi a un fenomeno d'illusione simbolica
degli interpreti, favorita da un'incertezza del Nostro.
In realtà nella negazione che l'Alfieri ha opposto alla rivoluzione
francese c'è una tragedia personale, ma vi è impegnato tutto il suo
spirito; si tratta della sostanza stessa del suo pensiero e della
sua azione. Con la meravigliosa lucidità e la perspicacia del
creatore che vede, sgomento, la sua creazione stessa in pericolo,
egli intuí che nei moti rivoluzionari d'oltralpe si rivelava e si
affermava obbiettivamente con chiarezza e ampiezza europea
l'immaturità dell'Italia alla divinata funzione storica. Incapace di
dominare e di precorrere lo sviluppo mondiale, l'Italia si trovava
condannata anche come nazione a non poter trovare la sua armonia
interna e la peculiarità della sua iniziativa rivoluzionaria: anche
la sua unità sarebbe nata da un artificio, da un'imitazione. Di qui
l'intransigenza fiera, l'incomprensione voluta. La storia gli diede
ragione anche qui.
Se la conquista napoleonica dell'Italia ebbe un valore d'impulso
nell'aspirazione all'unità, essa non fece poi all'ora della
soluzione che aumentare l'equivoco e un Risorgimento italiano, anche
in proporzioni ridotte, si ebbe solo da una reazione al sensismo e
all'Enciclopedia che riaffermò una tradizione specifica e una
originalità nazionale.
L'Alfieri combatteva con tanta ferocia perché combatteva contro se
stesso, contro le idee che, essendo il suo sangue stesso, gli
rinascevano dinanzi diventate insuperabile ostacolo per lui.
L'antitesi poteva perciò sembrare un'antitesi personale,
sentimentale: era solo piú l'opposizione di due volontà, e le
imprecisioni ideali o teoriche dipendevano dall'immediatezza del
contrasto. Ma non perciò si dovrà ritenere valida l'interpretazione
reazionaria e conservatrice in cui hanno voluto costringere i suoi
scatti sino a costruirne un sistema di liberalismo pacifico, nemico
di ogni violenza, costituzionale – che è in realtà il sistema della
sua antitesi obbiettiva. Egli non si cullò mai in sogni di pacifismo
e di idillio sociale. Non lo spaventò la violenza se ad essa avesse
dovuto sboccare la realizzazione delle sue idee. La previde.
Identificò addirittura iniziativa e originalità con violenza e
intolleranza. «E giunge avventuratamente pure quel giorno in cui un
popolo, già oppresso e avvilito, fattosi libero, felice e potente,
benedice poi quelle stragi, quelle violenze e quel sangue, per cui
da molte obbrobriose generazioni di servi e corrotti individui se
n'è venuta a procrear finalmente una illustre ed egregia di liberi e
virtuosi uomini».
Nel suo realismo egli provò uno schianto alla vista della sua
profezia realizzata da estranei; non ebbe piú la forza di una nuova
riaffermazione eroica e precisa che lo avrebbe ridotto a un
isolamento ideale sublime ma insostenibile, e si ripiegò nella
solitudine individuale. Il compito da realizzare non si poneva più a
un individuo ma a tutte le nuove generazioni.
APPENDICE Le tragedie come fonte del pensiero politico alfieriano.
La nostra indagine non poteva non prescindere dall'esame delle
tragedie alfieriane. E questo non perché noi crediamo ad una
rigorosa distinzione di arte e pensiero, di intuizione e di teoria,
quale è dogmaticamente applicata dagli ultimi fanatici di quella
prima estetica crociana, apparentemente fatta apposta per gli
storditi dell'estetismo dilettantesco, che il Croce stesso ha ormai
superato definitivamente e a cui attribuisce soltanto il valore di
un necessario momento polemico. Ma nelle tragedie di Alfieri, in
particolare, noi non possiamo ritrovare un momento di effusione
lirica né sorprendere una confessione o un principio di teoria. Le
tragedie piú lunghe superano di poco i 1500 versi: il dialogo è
sempre travolgente, il soliloquio, in un momento di ansietà intensa,
fissa un proposito o un esame di coscienza ma essenzialmente
adattati al fatto che si sta per compiere, all'incalzare
dell'avvenimento tragico.
In questo senso manca nell'Alfieri la riflessione: o, per essere piú
precisi, c'è quella riflessione che è connaturata coll'azione stessa
e non la si può astrarre perché è essa stessa sforzo operoso.
Percorre la tragedia alfieriana un senso tormentoso della
concretezza creante della praxis; ma il poeta lo contempla e domina
in una sovrana impersonalità di serena realizzazione nella quale poi
consiste di fatto la sua vera individualità che è individualità
insostituibile e singolare appunto in quanto è uno spasimo
realistico verso il divino, presente. Fissare
intellettualisticamente con precisione di esegesi qual sia
l'atteggiamento pratico dell'autore di fronte ai suoi fantasmi non
sarebbe né saggio né fecondo: qui vive l'obbiettività stessa del
mondo alfieriano e vi si deve cercare non l'autobiografia
psicologica ma, se cosí si può dire, un'autobiografia cosmica.
L'analisi dell'interprete deve mirare a stabilire l'unità e la
coerenza di questa travolgente fantasia la quale per la sua natura
stessa è fuori della storia empirica, in un ciclo ideale di
eroicità.
Fermate questi eroi, portateli nel mondo quotidiano, interrogateli,
fateli confessare: e concluderete col Bertana che sono astratti, che
il loro pensiero, i loro propositi non sono politicamente
realistici. Ma voi avrete ucciso questi fantasmi sovrani riducendoli
a uno schema che per essi è menzogna.
Rinunciate invece a questo ultimo residuo veristico che v'induce,
ragionando con le creature della poesia (le quali non hanno sesso né
passioni né interessi perché sono armonie e concretezze della
irrealtà), a portarle nella vita quotidiana e a censurarle o lodarle
quasi fossero uomini; riportatele invece al centro e allo spirito
che le ha determinate, ubbidendo solo alla sua realtà e spontaneità
che è anche la sua assolutezza. Allora le tragedie alfieriane
saranno una conferma a posteriori dei principî che noi abbiamo
determinato prima nella loro genesi concettuale e il mondo che in
esse si agita non sarà che la praxis dell'affermato ideale. Giunti a
questo risultato, se il critico pur volesse ad ogni costo cimentarsi
in un'opera di astrazione, avrebbe dei modelli di azione, degli
esempi di fantasia eroica in quelli che pur s'ostina a chiamar
personaggi. Ma tale azione indicherà – come indicava la filosofia
alfieriana nei suoi motivi piú originali – la genesi della volontà,
la lotta interna, non un ipotetico fine o una determinata linea di
azione contingente. Questo processo critico è il solo che possa dare
risultati estetici alle premesse politiche. Perseguendoli nel loro
valore autonomo avremo la vera unità, riusciremo a conclusioni
perfettamente corrispondenti. Valgano come modello di analisi queste
considerazioni sul Saul.
La critica non è riuscita a dar ragione del capolavoro dell'Alfieri
finché è rimasta alle formule patriottiche o romantiche e vi ha
cercato la tragedia dell'odio politico o la tragedia della follia.
Invero se l'Alfieri è il poeta dell'intuizione violenta, come
approssimativamente lo definisce il Momigliano, o meglio, il profeta
del superuomo, l'artista dell'eroico furore, come appare al Croce,
gli elementi politici e i romantici impulsi di cieca spontaneità
creativa non saranno il contenuto di una tragedia, ma lo spirito e
la forma del suo stesso sforzo espressivo e parrà ingenuo ed
arbitrario ad ognuno astrarli quali generici motivi di pensiero
dalla vivente sintesi estetica.
Meglio s'avvicinava al vero il Sismondi che cercava nel Saul la
fatalità non del destino, ma della natura umana e vedeva nel re
morente la vittima dei suoi rimorsi (non dei suoi delitti)
«aumentati dallo spavento che un'immaginazione nera ha gettato nella
sua anima». E indipendentemente dal Sismondi, il Gioberti, con
questo giudizio: «Egli è riuscito a dipingerci un tiranno, che sente
ripiombare su di se stesso la propria tirannide, che n'è il primo
schiavo».
Invero anche qui – nonostante l'opposto giudizio comune che svaluta
le autodisamine alfieriane – il segreto della tragedia e del
protagonista erano stati colti già dall'Alfieri quando indicava come
stato d'animo centrale la «perplessità». Segreto del Saul e di tutta
la vita alfieriana, se lo si mette in rapporto con l'altro elemento
positivo del suo romanticismo: l'eroicità che ne sorge come forma
pura dell'agire e sbocca inesorabilmente, in un processo lineare di
solitudine e di coscienza, alla dissoluzione di se medesimo e al
crollo di ogni umana debolezza, immolata al mito dell'assoluta
libertà interiore, lineare e, per cosí dire, istintiva sino alla
cecità.
Se questa è la tragica sostanza spirituale del suo ardore disperato,
nessun dubbio che il Saul sia «la piú densa e la piú ricca
espressione di quel mondo eroico e tempestoso che gli ribolliva
nell'anima, di quella spiritualità gigantesca che fu la sua mira
costante e che, sparsa in tutti i suoi volumi, trova la sua
rappresentazione in parte riflessa in parte diretta
nell'autobiografia, e si delinea qua e là anche nelle tragedie
minori, in figurazioni fugaci che si ergono solitarie, come creature
di un mondo superiore, in mezzo a un paesaggio freddo e scoglioso».
Tuttavia l'aver visto l'unità del mondo alfieriano solo nella
creazione dei caratteri induce a un errore di staticità e giustifica
illusoriamente l'accusa di monotonia e di calcolo, mossa dalla
recente critica estetica. L'individualità alfieriana è una
aspirazione ideale fortissima, non un risultato inconcusso; la sua
precisa volontà, l'impulso cieco all'azione sono un atto iniziale di
coscienza che si dispiega e s'invera poi in una lotta, in un
organismo di torbida complessità e di viventi contraddizioni. La sua
«anarchia» si nega politicamente e artisticamente in un senso vivo
del creare, e in un'esaltazione dell'organica spontaneità della
storia. Egli non vive di sole affermazioni, non si tempra solo
nell'autocritica del soliloquio: ma della solitudine dà una
drammatica espressione; e il tormento ideale rende oggettivo in un
contrasto ove le volontà cozzanti trovano la loro catarsi
nell'annullamento.
Saul non è il dramma della pazzia, perché non è il dramma
dell'autocritica: la perplessità del re è la misura che mette in
rapporto il suo chiuso eroismo con la solitudine incompresa del
mondo che vive con lui: non diventa dubbio, non genera altra azione
che la cosciente rinuncia scelta come sola espressione perfetta
della propria coerenza. In questo senso Saul è la tragedia della
volontà, che nella solitudine si afferma come dominio, e resta
incompresa ed estranea mentre si estrinseca – serenamente vista dal
poeta con storica passione – ma incapace di suscitare consensi e di
temprarsi in una conciliazione – impenetrabile di fronte ad altre
solitudini impenetrabili, perciò vittima di se stessa e tragica
perché coerente.
La religiosità di questa umana dissoluzione è nel cozzo degli
individui, sacri nella loro chiusa liricità, indomiti nel loro
disfrenato uscire da se stessi.
La tragedia esiste a patto che tutti ne siano protagonisti, invasi
da quel divino che Achimelech sente in sé, e da cui son fatti
«fulmine, turbo, tempesta». Uguali, non si comprendono. Anche
amandosi restano estranei. Nel mondo alfieriano non c'è posto che
per gli eroi; appena individuati, essi restano soli in mezzo a una
folla volgare, evanescente e non espressa. Il problema della
comunicazione tra questi giganti è il problema della tragedia
alfieriana. Fissi alla coscienza di sé restano indecisi tra lo
schema e l'azione. Parve calcolo ai critici quello che è lo spirito
alfieriano: l'iniziale aridezza della rigida volontà degli attori,
inesorabile sino a dominare e sconvolgere la serenità della fantasia
realizzatrice. Di qui l'ineguale validità espressiva del teatro
alfieriano, in cui trionfa la lirica nei momenti di sviluppo
lineare, ma domina la pausa dell'incomprensione quando i personaggi
dovrebbero agire. Saul è il capolavoro, solo perché in questo gran
quadro della fantasia alfieriana s'oppone chiaramente volontà a
volontà, passione inesorabile a chiusa passione e alla lotta
presiede un criterio di armonia e di identità volitiva. Micol,
Abner, Achimelech, David, Gionata sono figli di una stessa
disperazione che li conduce a dissolversi volontariamente e a
rappresentare nella catarsi della loro rinuncia quasi le fasi e gli
elementi dell'agitata coscienza di Saul. Tutti restano fedeli al
loro fato, temprati d'uno stesso fuoco che s'alimenta della febbre
di voler essere divinamente se stessi. Il nuovo criterio dell'eroico
alfieriano non è piú nell'aspirazione, ma nel chiuso spasimo della
coerenza. Saul a tutti sovrasta e dà la misura della legge tragica
per l'intenso fervore della sua volontà, per la serenità che domina
nella sua disgregazione, per la perfetta sovrumanità con cui resta
fedele a se stesso anche quando nel suo spirito la lotta s'è
oggettivata e lo consuma dominando secondo la legge fatale dei
cozzanti impulsi inesorabili; la sua pazzia è composta, impassibile
perché è insieme disgregazione e consacrazione; è il dissolversi
dell'individuo nella sua realtà cosmica. La tragicità alfieriana
conquista la sua legge e la sua misura in questa realizzazione
mitica di una sovrana solitudine.
Altri scritti sul Risorgimento
LE SCUOLE DI METODO60
1. Dobbiamo ora studiare come alle rinnovate esigenze abbia
soddisfatto la generazione di Domenico Berti.
Si ammette universalmente che l'insegnamento pedagogico,
trasportando l'interesse della scuola dal contenuto alla forma,
dalla materia studiata all'attività dello spirito che studia, sia
essenzialmente moderno: che la fondazione della scuola di metodo sia
un'affermazione di valore democratico (e intendo la parola non nel
significato storico che ha preso, ma nell'etimologico). Si tratta di
dimostrare la tesi nella sua espressione di contingenza storica:
poiché la dialettica filosofica enunciata, il valore della scuola di
metodo, come tale, astrattamente fissato, può soddisfare un bello
spirito, vago di ingegnose costruzioni teoriche: la realtà, che si
diverte sempre a confondere in antinomie insolubili le costruzioni
teoriche, potrebbe in sostanza capovolgere il concetto opponendovi
anche un solo elemento empirico. La fecondità e la democratica
modernità della scuola di metodo si fonda tutta sul fatto che essa
sorga per iniziativa di popolo e sia non promossa, ma imposta al
governo.
La dimostrazione di questo fatto si può trovare nelle lettere che
dalla provincia giungevano al magistrato della riforma negli anni
che hanno preceduto il 1844 e che sono raccolte nell'Archivio di
Stato di Torino61.
In Lombardia, sin dal 1786, il Soave aveva fondato sotto Giuseppe II
una scuola di metodo, che non era rimasta sola, ma era valsa anzi di
esempio fecondo. Questo prova all'evidenza, contro tutti gli
storici, che non vi si sono accuratamente fermati, che non la scuola
di metodo come tale ha importanza, ma quella singola che avemmo in
Piemonte, con quel singolare spirito con cui fu vissuta dagli
spiriti del tempo.
2. Abbiamo fatto cenno delle «Letture Popolari» e bisogna porre con
esse il «Subalpino» preoccupato fin dal 1837 del problema
dell'istruzione. Il Milano scriveva esplicitamente nelle «Letture
Popolari» del 1839: «Sarà difficile di avere buoni maestri senza
avere buone scuole di metodo». E già nel 1838 il Troya si rivolgeva
al magistrato della riforma per ottenere due classi elementari nel
collegio di San Francesco da Paola e vi si offriva come maestro,
«convinto che non si potessero avere buone scuole elementari fino a
che qualcuno mostrasse ai maestri praticamente come tale
insegnamento si compartiva». E nel 1840 il magistrato della riforma,
avendo ricevuto altre sollecitazioni, aderiva alla proposta del
Troya e lo destinava a reggere nel collegio di San Francesco da
Paola una delle due scuole istituitevi. Il primo embrione di una
scuola di metodo nasceva dunque dalla iniziativa privata; il governo
giungeva tardi a legalizzare un fatto idealmente già compiuto, ad
assumersi la responsabilità delle azioni di un cittadino sospetto
perché non retrivo. È un fatto singolo, limitato d'importanza, ma
vale come sintomo di una trasformazione sociale. Si sta imponendo un
nuovo problema: dare una forma legale alla rivoluzione.
Nel 1841, l'iniziativa privata a Mondoví chiedeva insistentemente la
fondazione di una scuola normale; il Consiglio dell'amministrazione
civica votava a questo scopo un impegno finanziario di lire trecento
e l'intendente della città, D'Emarese, proponeva al magistrato della
riforma un piano concreto di scuola bimestrale, di nuovo genere per
i Regi Stati, da fondarvi a titolo di esperimento in quell'anno.
Insisteva il D'Emarese sulla necessità d'istituire un centro morale
di educazione che non si risolvesse soltanto in esteriore
ammaestramento; ricordava le condizioni penose dei maestri che non
sanno fare ciò che devono; riduceva la sostanza del problema alla
necessità non tanto di aumentare, quanto di migliorare i maestri,
dovendosi superare la difficoltà dell'insegnamento «sopratutto di
lingua italiana, la quale è piú difficile a sapersi od insegnarsi
che volgarmente non si avvisa».
Non sappiamo quali sentimenti dovessero destare queste osservazioni,
per le quali il potere provinciale, aiutato dai cittadini, si
assumeva il compito di dirigere e di svolgere l'azione culturale
dello Stato. Il magistrato della riforma rispose con dubbi,
tergiversazioni, obbiezioni: non era possibile trovare un maestro
per scuola siffatta; né, ove lo si fosse trovato, era possibile
istituire la scuola in Mondoví senza averla fondata prima in Torino.
Un secondo carteggio, conservato parimente nel nostro Archivio e che
è anche piú interessante, si svolge sullo stesso argomento nel
maggio-giugno 1842 tra Giambattista Michelini e il magistrato della
riforma. Ma fu respinto anche il progetto concreto per una scuola di
metodo in Cuneo, sebbene il Michelini avesse perfino pensato agli
uomini capaci di esercitare quella funzione e vi avesse proposto
come assistenti il Troya e il Pelleri62, come direttore e professore
di metodo il Parravicini, noto al Ministero piemontese perché sin
dal 1832 aveva presentato presso il magistrato della riforma, al
conte della Scarena, una proposta ragionata per regolare, secondo i
bisogni sociali e uniformemente, le scuole elementari in Piemonte,
lavoro che propugnava una migliore preparazione dei maestri e
istruzione piú ampia e adatta specialmente ad esercitare
un'influenza sugli agricoltori, ma che gli valse un dispaccio di
lode e null'altro.
Le lagnanze e i rapporti degli organi provinciali al centro
continuano per altri due anni, esempio mirabile di collaborazione
del popolo al governo, forma elementarissima di controllo del genere
stesso di quello che in uno Stato libero viene esercitato dalla
libera stampa63.
3. Frutto di questo intenso lavorio (contrastato occultamente dai
Gesuiti), si ebbe, nel 1844, la prima scuola di metodo, approvata
dal re il 4 giugno, annunziata il 22 luglio, aperta nell'università
di Torino il 26 agosto.
Delle opposizioni dei Gesuiti è cenno nella famosa polemica
giobertiana: e l'Aporti, che doveva essere l'insegnante,
raccomandato dal Boncompagni, dal Troya, da Roberto d'Azeglio, dal
Peyron e dall'Alfieri, vi ebbe ostacoli e noie. Tuttavia i due mesi
d'insegnamento ebbero un successo meraviglioso, e tutti i migliori,
dal Boncompagni al Rayneri, dal Cappellina al Berti, dal Franchi al
Garelli, seguirono il corso con entusiasmo. Scriveva il Rodella nel
'69 «Chi l'intese ne parla tuttavia come di cosa religiosa»64.
E non v'è ragione per stupirsi se si pensa che le sole nozioni
pedagogiche diffuse in Torino si riducevano a quelle istruzioni ai
maestri delle scuole elementari scritte per ispirazione del Troya
nel 1840, poco prima che il Troya stesso pubblicasse i suoi libri di
lettura per le scuole primarie.
All'Aporti succedettero il Danna e il Rayneri mentre nuove scuole si
fondavano a Saluzzo, a Cuneo, a Novara, a Vercelli e poi a Casale,
Nizza, Ivrea, Alba, Mondoví, Pinerolo, Alessandria, ecc., dove
insegnarono il Berti, il Troya, il Garelli, ecc.
4. La solidità del movimento per le scuole di metodo si connette
direttamente con la pubblicazione delle «Letture di Famiglia». Il
Valerio nel programma si rivolgeva «a tutti coloro che chiamati dal
sublime ufficio di educare, sanno quanto grande benefizio sieno
l'educazione e l'istruzione, e come senz'esse gli uomini rovinino in
fondo di ogni bruttura e di ogni miseria», e si proponeva di notare
«il progredire delle istituzioni che giovano al miglioramento delle
classi tutte e particolarmente delle classi povere come sono le
scuole infantili, le casse di risparmio, l'insegnamento industriale,
l'istruzione agraria», ecc., e dava garanzia dell'ampiezza e serietà
del programma annunziando la collaborazione di uomini come R.
Lambruschini, M. Cosimo Ridolfi, P. Thouar di Firenze, C. Cantú di
Milano, F. Aporti di Cremona, Mittermayer di Eidelberga, Terenzio
Mamiani, Barone Degerando di Parigi, Balbo, Boncompagni, Sauli,
Sclopis, Paravia di Torino.
Nel '46 il Fecia, con l'aiuto di G. A. Rayneri, del Troya, del
Franchi e di altri, venuti agli studi pedagogici per l'entusiasmo
che aveva destato Ferrante Aporti, fondò l'«Educatore Primario» che,
in accordo con le nuove aspirazioni dei tempi, propugnò come
programma essenziale la formazione di scuole elementari e di un
gruppo di maestri adeguato per numero e per preparazione.
5. Tutte queste iniziative non facevano dimenticare, nell'entusiasmo
immediato dell'azione, i gravi difetti che l'improvvisata attività
recava con sé.
L'errore del primo esperimento Aporti consisteva nel doppio scopo
attribuito alla scuola di metodo, che avrebbe dovuto servire
simultaneamente a quelli che intendevano di sostenere l'esame di
professori e a quelli che si volevano perfezionare nell'insegnamento
elementare o prendere l'esame di istitutori.
Vi si riparò l'anno seguente fondando accanto ad una scuola
superiore di metodo in Torino (che poi divenne la cattedra di
pedagogia dell'università) scuole provinciali di metodo con lo scopo
di formare i maestri per l'istruzione primaria inferiore (lettere
patenti del 1° agosto 1845).
La scuola superiore di metodo dura un anno e comprende quattro corsi
che si fanno simultaneamente: il primo del professore di metodo; il
secondo di uno degli assistenti che consiste nella ripetizione e
nell'esercitazione pratica dei metodi già insegnati; il terzo di
applicazione dei principi generali alla grammatica, fatto da un
secondo assistente; il quarto di disegno lineare.
Le scuole provinciali durano tre mesi; i corsi sono tre; al posto
del disegno lineare s'insegna calligrafia.
Un regio decreto Gioia del 26 marzo 1851 fissò, accanto alle scuole
provinciali che dovevano preparare i maestri delle classi elementari
inferiori, scuole superiori di preparazione all'istruzione primaria
superiore.
Da queste scuole di metodo sono nate, con lo stesso spirito, le
scuole normali e la pedagogia universitaria scientifica che deliziò
la cultura italiana dopo il Risorgimento65.
Noi che intendiamo negare nella nostra critica la possibilità stessa
di un metodo, intellettualisticamente inteso, e del suo
insegnamento, non possiamo credere alla scuola normale né alla
cattedra di pedagogia.
Ma, come abbiamo mostrato or ora qual significato morale avesse il
movimento per la scuola di metodo in Piemonte, dobbiamo vedere i
risultati concreti, che dallo spirito vivificatore della scuola si
ebbero, per avere poi la spiegazione del fallimento a cui il
pregiudizio metodomane ci condusse, appena mancò la sostanza
spirituale animatrice.
Nel '46 si avevano 4 scuole autunnali inferiori di metodo, nel '50,
22. Nel '48 si avevano ormai 3829 scuole elementari inferiori, e nel
'50, 4248. Nel '48 piú di 2000 maestri erano ecclesiastici e appena
1550 laici; nel '50 i maestri laici erano uguali in numero agli
ecclesiastici. Si può calcolare che, nei sei anni dal '46 al '51,
3240 maestri siano stati approvati dalle scuole governative66.
Era una vera e propria classe dirigente creata dal nulla e messa a
contatto col popolo. L'interesse che suscitava il giornalismo
pedagogico ampliava e consolidava questo fervore.
6. Il lavoro critico, la revisione della validità della scuola di
metodo, fu compiuto primamente dal Berti in studi accurati che qui
si ripubblicano67.
L'obbiezione piú forte al sistema venuto in vigore in Piemonte fu
invece soltanto accennata dal Berti ed espressa poi coscientemente
dal Bertini che contestò la validità stessa di una scuola dedicata
all'insegnamento metodologico68. Per il Bertini il problema della
formazione dei maestri doveva avere soluzione non in una scuola
speciale ma nella scuola secondaria, non in un insegnamento
distinto, ma nell'incremento stesso della cultura integralmente
vissuta e creata.
Questo solo del resto é il significato della pedagogia, intesa come
coscienza filosofica e svolgimento riflesso di attività, non come
limitata scienza che abbia il suo frammentario oggetto determinato
una volta per sempre. Cosí pensa la pedagogia moderna, dopo aver
conquistato vigorosamente il concetto immanentistico dell'uomo e
dell'attività spirituale come libertà, sviluppo e autocoscienza. Nel
concetto moderno il metodo s'identifica col risultato, il processo
ha la sua realtà nel fine che è ancora alla sua volta processo.
Una materia s'impara studiandola: il processo educativo si attua
nella esaltazione infinitamente cosciente della vita. Concetti ovvi
che esprimono sempre piú recisamente e definitivamente l'identità di
pedagogia e scienza e l'irrealtà del metodo astratto69.
Pure al di là delle parole, nella scuola di metodo voluta dal
Piemonte, amata da Domenico Berti, che fu tra i primi a discuterla e
a insegnarvi, v'era un'esigenza profonda e reale: si sentiva il
bisogno di una cultura ampia, civile che non fosse soltanto
dilettantismo intellettualistico, ma avesse un valore sociale, una
capacità di diffondersi e di fecondarsi: per raggiungere tali
risultati non si poteva affrontare subito la via lunga e difficile
piú vera; la scuola di metodo parve il segreto per riuscire, la si
intese come anticipazione di scienza, come mezzo per provvedere a
una deficienza. Intanto l'esigenza era sorta e da quel primo errore
infinite esperienze stavano per nascere.
Torino, ottobre 1920
DOMENICO BERTI, PEDAGOGISTA,
FILOSOFO E POLITICO
(Spunti di una
rivalutazione)70
1. La Signora Cecilia Lostia di Santa Sofia ha creduto che si
potesse fare un libro71 sul Berti ignorando ciò ch'egli ha scritto e
le poche cose che altri ha scritto di lui; trascurando i problemi di
cui è vissuta l'epoca del Berti, saccheggiando largamente certi
articoli del Berti che ella ha avuto modo di vedere, non si sa come
(poiché si guarda con ogni cura dal dare notizia bibliografica
precisa e onesta di ciò che cita); ricorrendo con compiacimento
anche piú vivo a qualche volume del Pareto, dell'Allievo e del
Miraglia. (Costui scrisse nel 1898 «una monografia» su «la scuola
femminile di Berti» [G. Patrito, Torino]: anche questo libro è una
compilazione poco intelligente con intere pagine riportate del
Berti, del Fecia e di altri; ma v'è maggiore imprudenza poiché a pp.
9-12 quattro facciate intere sono copiate da un articolo del Berti e
date come proprie con la solita ipocrita precauzione dei plagiari di
presentare poi come citate due proposizioni). Invece questa signora,
che si fa qualificare nel frontespizio «direttrice didattica», è
riuscita soltanto a metter insieme un povero guazzabuglio per
centenario che potrà forse servirle per scopi professionali, ma nel
lettore può soltanto provocare disgusto. Io non starò qui a
spulciare gl'innumerevoli errori materiali, derivanti da vera e
propria ignoranza dei fatti comuni: ne citerò uno per tutti;
l'autrice, che pur ha scritto il suo libro per commemorazione, ha
sbagliato anche la data di nascita del Berti, ch'è il 12 novembre
1820 e non il 17 settembre, e quella di morte, ch'è il 22 aprile
1896, non il 1897!
2. Dati questi fatti, è agevole pensare che l'autrice non sia
penetrata affatto nello spirito piú profondo delle questioni che la
vita e l'opera del Berti porta con sé. A pp. 11-14, ella esamina il
significato politico del movimento pedagogico piemontese e
contrappone lo spirito cristiano di questa pedagogia fondata su «una
filosofia ricostruttrice e spiritualistica, com'era quella dei sommi
pensatori: Gioberti, Rosmini e Mamiani»72, ispiratrice del moto
nazionale italiano, alla sofistica demolitrice del movimento «che
condusse la Francia dell'89 alla grande rivoluzione che le diede una
libertà instabile all'interno e all'esterno, un'alternativa di
grandezza e di sventure che non sembrano ancora terminate».
Chi contesti da una posizione dogmatica cattolica la validità della
rivoluzione francese e delle sue esigenze si preclude la via a
intendere nella sua sostanza il movimento cristiano del nostro
Risorgimento. Del quale si dice a torto che fosse moderato. Che il
neoguelfismo fosse rivoluzionario sono splendida prova gli anni
1847-48: esso era sorto contro la Santa Alleanza; romantico nella
sua ispirazione coltivava una libertà anche piú completa e ardente
che quella francese e per questo la fondava sull'idealismo (un
idealismo non molto chiaro, a tinte spiritualistiche) e non sul
sensismo.
«L'inanità dei moti del '21» non è dovuta solo all'assenza della
«grande massa del popolo», ma soprattutto all'assenza di una
concezione ideale: e mancò il popolo perché era mancata questa.
Fallito Santarosa, bisognava che altri tentasse di organizzare la
classe dirigente che ancora non esisteva: e bisognava muovere dal
principio laico, ignorato dal Santarosa (che non si può contrapporre
ai moti del '48 e del '59, ed è anzi nella stessa orbita di
pensiero). Questo avvisarono pochi pensatori meridionali, primo tra
tutti lo Spaventa, e nel Piemonte Luigi Ornato, con poca chiarezza,
e G. M. Bertini, con piena coscienza. Ma l'eredità cattolica stava
contro ogni movimento liberale chiaro a se stesso nelle sue premesse
ideali: la mediazione fra le esigenze cattoliche e il pensiero
dell'unità fu il neoguelfismo, che nelle condizioni della nostra
storia è veramente un momento necessario della rivoluzione. Il
neoguelfismo muore nella resistenza di Mazzini a Roma, nel '49, che
scava un abisso tra ortodossismo e liberalismo. Gli succede un
cattolicismo liberale antidogmatico e antitemporalista, un realismo
cristiano, che è il vero e solo legittimo movimento modernista
italiano: questo realismo cristiano è la fede del Berti. La politica
scolastica che da questa posizione scaturiva non è affatto opposta
allo spirito della rivoluzione francese. Era questa anzi la nostra
rivoluzione che, volgendosi in parte tra un equivoco, non poteva
essere tutta chiara a se stessa. Sicché il movimento realistico non
fu pieno e lasciò le sue esigenze in eredità al positivismo perché
le compisse. Ma la grande importanza data all'insegnamento, la larga
parte che si volle fare alla scuola primaria è interamente comune
alla politica della pedagogia rivoluzionaria (si veda il libro di
Codignola, Trevisini, Milano 1919), soprattutto nella fase
napoleonica. Del resto lo spirito di tutto il realismo cristiano
(vigorosamente criticato dallo Spaventa) è questo: cercare in una
posizione eclettica la conciliazione di utilitarismo e rigorismo,
scienza e fede, sensismo e spiritualismo, razionalismo e
cattolicismo (posizione che è proprio, nel suo assurdo, intimamente
modernista): la sua esigenza era infatti di assimilarsi lo spirito
della rivoluzione francese, tenendo lontano le esagerazioni
giacobine.
Bisogna muovere dalla centrale concezione realistica cristiana per
intendere la posizione del Berti, specialissima, nel problema della
libertà della scuola, che egli difese con argomenti che erano comuni
ai cattolici, ma temperandola con le sue preoccupazioni di liberale.
Ed è pure notevole, e rientra nella visione generale che noi abbiamo
del Berti, che proprio egli sia stato tra i piú ardenti sostenitori
degli istituti tecnici, nati in tutta fretta in quegli anni, in
mezzo al culto della scienza, dell'erudizione, dell'enciclopedia, e
ancora oggi malati di quel morbo iniziale. E anche si comprende
d'altra parte che il Berti, con tutto il suo liberalismo, fosse
ostinato difensore delle facoltà teologiche: egli non è ancora nella
posizione dello Spaventa e non è piú in quella del Thouar o del
Lambruschini (voglio dire il Lambruschini ufficiale piú noto, ché il
suo pensiero intimo è lontano dall'ortodossia).
3. È naturale che l'autrice non riesca con questi modi a intendere
la filosofia del Berti. Ella crede che «causa precipua del suo
orientamento» e dei suoi studi storici, siano state le «esortazioni»
del Rosmini (p. 67)! E del resto a p. 68 cita, senza respingere
decisamente, l'idea «che l'aver condotto in moglie una colta e ricca
protestante della confessione valdese» abbia potuto «indurre il
Berti a fermarsi di preferenza sui filosofi vissuti in Italia ai
tempi della Riforma protestante!»
Mentre non era difficile notare che il suo empirismo lo doveva
naturalmente portare al Galileo e al Pomponazzi, per ricavarne
alimento alla filosofia scientifica di cui egli s'andava facendo
promotore in Italia; e al Bruno, al Campanella, al Cremonino, al
Valdés lo indirizzava l'amore suo per ogni fatto o questione che
offrisse campo a meditare sul dissidio tra scienza e fede. Esigenza
assai poco filosofica questa seconda, e la prima di una filosofia
superficiale, antesignana della filosofia positivistica.
Del resto il Berti non fu filosofo vero, come non fu storico della
filosofia. Nelle sue pretese di far rivivere Galileo nel mondo
moderno c'è una posizione assolutamente antistorica che gli
impedisce di intendere il pensiero di Galileo e il pensiero moderno
(il Berti fu sempre antikantiano perché non afferrò il significato
della scoperta di Kant). Il naturalismo di Galileo ha il suo posto
nel secolo XVII; ma dopo di lui abbiamo avuto Cartesio, che è
veramente la via nuova negatrice del naturalismo: e tornare indietro
non si può. Infatti il positivismo, che vuol tornare indietro,
riesce a una filosofia come organizzazione delle scienze
completamente asistematica ed eclettica, che non fa progredire la
scienza e nega la filosofia perché non sa guardare le cose con
l'entusiasmo oggettivo e immediato dei pensatori del Risorgimento, i
quali veramente avevano fatto del loro naturalismo una concezione,
ossia un'unità. L'antistoricismo della mente del Berti non gli
lascia intendere neppure il pensiero di Galileo nel problema della
scienza di fronte alla Chiesa. Non si può in nessun modo attribuire
al nostro scienziato l'idea della separazione tra Stato e Chiesa:
Galileo crede invece ancora che la Chiesa sia depositaria della
verità, anzi tutto il significato della sua figura nei due processi
sta nel dissidio tra il dogmatismo antico che egli professa e il
nuovo principio dell'esperienza, che ha scoperto, ma da cui non sa
trarre tutte le conseguenze necessarie.
La leggerezza del pensiero del Berti si può anche vedere
nell'importanza che egli attribuisce a Copernico, che è scienziato
puro, senza un sol principio speculativo. E di Galileo egli studia
piuttosto la vita e le dottrine scientifiche che il fecondo e nuovo
concetto dell'esperienza. Di Bruno, dopo il volume biografico, non
riuscí a esporre, come aveva promesso, le dottrine in un secondo
volume. Perché in sostanza verso tutti questi argomenti egli non
provava affatto un vero bisogno filosofico.
E per la valutazione del suo pensiero è assai importante il fatto
che egli si sia occupato specialmente di filosofi poco ortodossi o
che egli considerò tali e studiò come rappresentanti del libero
pensiero il suo antidogmatismo, come abbiamo accennato, ha un posto
significativo nella storia dell'idea liberale in Italia.
Anche gli studi sul Risorgimento hanno piuttosto carattere erudito
che valore propriamente storico: hanno, naturalmente, un significato
notevole come preziosa raccolta di documenti che il Berti ebbe agio
di scegliere e di pubblicare per l'importanza ufficiale della sua
persona e delle varie cariche che tenne. Alcuni poi di questi studi
ci offrono modo di addentrarci nella visione che egli ebbe della
politica dei suoi tempi: per esempio il suo libro su Cesare Alfieri,
che esamina le origini di quel liberalismo moderatore e conservatore
da lui sempre professato.
I momenti importanti della sua carriera politica sono due. Il
1850-51 in cui egli, cattolico, si schierò contro l'atteggiamento
antinazionale del Vaticano specialmente nella recensione al libro
del Farmi sullo Stato Romano (pubblicato nella «Rivista Italiana»
del settembre 1850) e nel Parlamento dal Centro Sinistro aiutò la
formazione della concentrazione dei partiti intorno al Cavour.
Momento importante per il superamento del neoguelfismo a cui il
Balbo, per esempio, continuava a stare legato, condannandosi a non
intendere piú la storia moderna.
Il secondo momento importante è nel 1881-84 in cui, col Depretis,
egli governa il ministero di Agricoltura e Commercio. Il Berti fu il
primo iniziatore della cosiddetta legislazione sociale e di questo
gli dànno grande lode i suoi biografi con invocazioni ed
esclamazioni apocalittiche.
Ma bisogna invece cercare di intendere quale sia il valore storico
di quest'opera. Il Berti nell'80, discutendosi la tassa del
macinato, passò improvvisamente dalla Destra alla Sinistra. Fatto
che determinò naturalmente i piú opposti commenti. Che la tassa del
macinato fosse economicamente mal congegnata e dannosa nei metodi di
riscossione non v'ha dubbio; ma non v'ha dubbio del pari che
l'averla imposta nel momento che poté funzionare fu una delle glorie
piú grandi del Sella. Tuttavia qui, fuori delle discussioni
tecniche, c'è una questione essenzialmente storica. Non v'è luogo
per discorrere di opportunismo politico. Il Berti, combattendo la
tassa del macinato e passando alla Sinistra, portava con sé tutto un
programma di politica generale. E sia pure che vi fosse molta
demagogia nel frasario e nell'impostazione: ma quale era la
questione di questa demagogia? che significato assumeva pel Berti?
Qui si tratta di valutare tutta la Sinistra, poiché in essa la parte
del Berti fu assai importante e caratteristica.
La vecchia mentalità del realismo cattolico si concretava in
saggezza pratica. Poste le nuove esigenze, non si pensava piú al
cattolicismo, ma al popolo. Bisognava superare l'equivoco del
Risorgimento. Costituita l'Italia, il popolo era assente. L'opera
della Sinistra dunque doveva proprio essere la democratizzazione
della nazione: politica di conservatori intenti ad attirare il
popolo nella loro orbita, senza scosse violente, con una politica di
concessioni. Era ancora l'equivoco, era la transazione: e il popolo
vi si ribellò aderendo a un nuovo mito, il movimento socialista, il
mito rivoluzionario.
Ma il Berti, uomo della vecchia Destra, era logico nei suoi
atteggiamenti d'avanguardia. Era ancora l'antico Berti cristiano e
ammiratore di Bruno e di Galileo.
Nel 1849-50 la transazione si doveva compiere ricorrendo a una
politica scolastica ardita, nell'81-84 appigliandosi alla
legislazione sociale più democratica. La filosofia del primo momento
fu il neoguelfismo col realismo cristiano, suo erede; la concezione
riflessa del secondo fu il positivismo. Il liberalismo italiano,
lasciando da parte i suoi due piú grandi pensatori, Bertini e
Spaventa, si tormentava penosamente in mezzo agli assurdi della sua
mancata chiarezza ideale e della fallita rivoluzione pratica.
LA LIBERTÀ D'INSEGNAMENTO
IN PIEMONTE73
La questione dell'organizzazione scolastica presenta tanta
complessità ed è cosí intimamente collegata con tutto lo sviluppo
spirituale di un popolo che, ove la si voglia integralmente
affrontare e adeguatamente risolvere, è necessario risalire a una
visione storica nella quale gli elementi e i fattori del problema
considerati come espressione pratica di crisi ideali, abbiano la
loro luce e un loro chiaro significato. Mentre i politicanti si
ostinano a limitare rigidamente il loro esame al lato grettamente
amministrativo, spoglio di ogni significato ideale (che vuol poi
dire politico) delle cose, è giusto e confortante che un filosofo,
Giovanni Gentile, si dia pensiero di far intendere l'essenza storica
della realtà politica, studiando con realistica concretezza le
polemiche che intorno alla libertà dell'insegnamento, si agitarono
in Piemonte settant'anni fa74.
Il Gentile mostra come la questione si venisse agitando in Italia
sotto la influenza dei cattolici liberali di Francia (Montalembert,
Lacordaire, Lamennais) sin dal 1840 e come già nel 1842 il
Lambruschini la ponesse con molta finezza e precisione in questi
termini «Non abbandono dell'istruzione da parte dello Stato: anzi
l'interesse massimo, dimostrato con la formazione di scuole modello.
E poi la piú ampia libertà» (p. 14)
E s'informò in sostanza allo stesso spirito la polemica del '51 tra
il Berti e B. Spaventa.
Che il pensiero del Lambruschini e del Berti (anche piú) fosse sotto
la diretta influenza del cattolicismo liberale francese è chiaro e
incontestabile per chiunque abbia famigliarità coi due scrittori. Ma
non è forse inutile integrare le ricerche del Gentile mostrando come
in Piemonte si sia venuta sviluppando in modo autonomo sin dalla
fine del secolo XVIII una concezione assai chiara sull'argomento.
Giambattista Vasco, economista torinese (1733-96), del quale anche
il Pecchio loda la chiarezza e l'evidenza nella trattazione dei
problemi, liberista convinto «non tanto per aver letto e ammirato
Smith quanto per avere pensato da sé», affermava pochi anni prima
della rivoluzione francese che giova «sianvi scuole stabilite dal
governo, potendo esse scegliere facilmente i piú dotti professori
procacciandoli anche da' lontani paesi e somministrare agli studenti
quei comodi che difficilmente si avrebbero in altre scuole
particolari, come macchine di fisica, istromenti di matematiche,
ecc.». Ma «la concorrenza de' maestri privati coi professori (della
scuola pubblica) può essere utilissima sia per costringere questi a
non trascurare il loro dovere sia per formare ottimi candidati per
le cattedre, quali saranno certamente coloro che con buona
riputazione si sono molti anni esercitati ad insegnare nelle scuole
particolari (private)». E per regolare questo privato insegnamento
fissava due disposizioni: 1) «non permettere ad alcuno di aprire
scuole in casa senza una permissione speciale del governo, che non
si accorderebbe che a persone dabbene». 2) «Costringere coloro che
vogliono insegnare in propria casa a farlo a porte aperte, cosicché
possa intervenire alle loro lezioni chiunque voglia, il che sembra
un sufficiente ritegno». E «giammai non converrebbe spingere le
precauzioni piú oltre» (Delle università e delle arti e mestieri.
Dissertazione dì Giambattista Vasco, G. G. Destefanis, Milano 1804,
pp. 195, 197).
Proponendo la pubblicità dell'insegnamento, il Vasco non pensava
alle difficoltà didattiche del provvedimento (se ne preoccupò invece
nel 1876 un altro liberale, assai piú profondo per la sua cultura
filosofica: il Bertini, e risolse il problema negandole): fu, questa
della pubblicità, idea diffusa e fortunata durante tutto l'Ottocento
e meriterebbe certo un maturo esame: ma noi dobbiamo piuttosto
concludere in fretta, come si voleva, dalle citazioni fatte,
l'originalità assoluta della posizione dei liberali piemontesi nella
questione della scuola. E nel 1846, se ci vogliamo avvicinare agli
anni della polemica pubblicata dal Gentile, l'Albini, rosminiano in
filosofia, ma in politica costituzionalista con tendenze alla
statolatria, ossia nettamente diverso dal cattolicismo liberale e
anzi, inizialmente, opposto, affermava, in una forma sua, l'idea di
libertà corretta dal controllo governativo: «L'istruzione è affare
troppo rilevante, perché sia abbandonata al caso o lasciata in balia
ai privati. Quindi la necessità delle leggi che vi provveggano
dirigendola nel modo piú conforme al bene pubblico. Vengono pertanto
a collocarsi sotto questo capo del diritto amministrativo tutte le
leggi che compongono il sistema direttivo della pubblica istruzione
dalle infime scuole alle piú elevate, tanto di quelle che sono
direttamente dipendenti dalla pubblica autorità, quanto di quelle
che essendo di costituzione privata sono sottoposte alla
sorveglianza del governo» (Enciclopedia del Diritto, Mussano, Torino
1846).
Erano queste certo professioni di fede piuttosto generiche,
anticipazioni dottrinali su un problema che appena stava sorgendo.
Tutto il sistema d'insegnamento vigente in Piemonte era in realtà
nelle mani del governo, rigidamente cattolico, e cattolici erano
anche i pochi istituti privati. La concorrenza era un nome.
Ma proprio mentre l'Albini scriveva, nel 1844, si svegliava quel
movimento per le scuole di Metodo, da cui sorse poi tutto il
giornalismo scolastico dello Stato sardo. Fu un vero Sturm und Drang
pedagogico, che ebbe la sua efficacia nella formazione (rapida,
affrettata) della classe dirigente che guidò l'esperienza del
'48-49.
E proprio dopo la guerra il problema si presentò nella forma piú
urgente, imprescindibile. Il nuovo Stato, costituito a democrazia,
doveva prendere la sua posizione e la sua responsabilità di fronte
ai partiti, doveva affrontare il suo piú grande compito ideale,
l'istruzione del popolo, e preparare per questo una classe di
maestri.
Date le premesse teoriche che si sono viste nel Vasco, nel
Lambruschini e nell'Albini, le polemiche che sorsero sulla libertà
d'insegnamento devono essere valutate nel loro sforzo di soddisfare
questa pratica esigenza scolastica.
Soltanto cosí sarà possibile darsi ragione della concezione dei due
avversari: Bertrando Spaventa e Domenico Berti.
Tutti e due movevano dalla libertà come da dogma: ma la libertà del
Berti era quella del cattolico fattosi liberale per influenza
dell'economia inglese e dell'esperienza storica degli ultimi
sessant'anni; lo Spaventa era il liberale napoletano che aveva
raccolta l'eredità del Cuoco e del Colletta e cercava proprio allora
di inverare questo suo intimo sentimento di libertà nella filosofia
che aveva collocato la libertà al piú alto posto: la filosofia di
Hegel. Movendo dal suo concetto di libertà hegeliano e anticattolico
lo Spaventa, fissata chiaramente la differenza tra pensiero teorico
universale e applicazione politica relativa ai tempi, ammetteva
nella sua visione filosofica che l'insegnamento dovesse essere
libero per tutti (anzi a p. 81 troviamo addirittura contestato,
sempre in linea di principio, allo Stato l'ufficio di educatore:
evidentemente lo Spaventa non era giunto ancora a farsi un chiaro
concetto speculativo dello Stato, come si fece poi al tempo delle
polemiche contro i Gesuiti; e forse egli non era rimasto
indifferente all'influenza del pensiero libertario di qualche
repubblicano o anarchico d'oltr'Alpi); ma praticamente stava fisso
al concetto di insegnamento ufficiale, timoroso della prevalenza
cattolica, almeno fino a che non fosse tolta alla Chiesa la
posizione di privilegio, in cui la metteva il primo articolo dello
Statuto.
Questo pensiero che lo Spaventa difendeva nel 1851, era stato,
almeno nelle sue conclusioni, il pensiero del Berti nel '49 (vedi
«Rivista Italiana»), quando il giovane professore di Cumiana sotto
l'influenza del Brofferio aveva preso nella sua polemica col
ministero Alfieri un atteggiamento quasi repubblicano; questo
mutamento, che il Gentile non nota, ci può suggerire osservazioni
assai importanti. Il Berti attenuando la polemica anticattolica, si
avvicinava in sostanza a Cavour e preparava la famosa concentrazione
intorno al ministro piemontese, che fu per il Piemonte fecondissima
di successi politici. Il Berti aveva compreso dall'esperienza della
prima guerra che l'unità d'Italia sarebbe avvenuta soltanto mediante
la transazione coi cattolici; perciò verso la scuola cattolica egli
non poteva piú avere timori di sorta: anzi secondo lui essa si
sarebbe dovuta considerare come fattore primo di nazionalità.
Finalmente un terribile problema, come già abbiamo detto, incombeva
sul nuovo Stato: l'educazione di tutto il popolo; a compiere questo
dovere, secondo il Berti, bisognava che si unissero gli sforzi della
nazione intera, senza distinzione di partiti; a questo solo patto
era possibile la lotta contro l'analfabetismo: per questo bisognava
concedere la libertà d'insegnamento a tutti; la libera concorrenza
avrebbe permesso che solo le scuole migliori prendessero sviluppo
completo: le scuole limitate, confessionali, non avrebbero avuto mai
vita vigorosa; i liberali si sarebbero messi al lavoro a fondare
anch'essi scuole private buone, e a dare l'esempio ci si era messo
il Berti, con ardore, sin dal '50.
Ma – si poteva obbiettare da parte dello Spaventa (egli invece non
obbiettò) – di fronte all'immensità del problema bisogna che da
parte del governo venga una parola alta, grande: lasciare la scuola
alla libera concorrenza vuol dire condannare le regioni più povere a
non avere le scuole, a non combattere l'analfabetismo: vuol dire
rendere impossibile l'unità. Bisogna che il nuovo Stato affermi la
sua laicità in modo universale; bisogna che s'impegni a dare la
scuola a tutti i Comuni.
Questo non fu il pensiero esplicito dello Spaventa, ma diventò a
ogni modo il programma del governo. Il quale non s'accontentò di
fare, ma volle, e ancora vuole, strafare. Cosí la scuola è giunta
allo stato di disorganizzazione e confusione in cui si trova al
presente. Oggi, finito il pericolo clericale, o almeno equilibrato
(mi si passi la brutta parola) dalla forza del movimento socialista,
di fronte agli effetti del monopolio governativo e dell'affollamento
delle scuole, la logica dello Spaventa, realizzata in politica
concretezza, ci deve condurre alle conclusioni pratiche del Berti.
LA CRISI RIVOLUZIONARIA
DELL'OTTOCENTO IN ITALIA75
1. Della nostra crisi rivoluzionaria non si può dare una ragione
praticamente e filosoficamente valida se non si distrugge il mito
che si è foggiato intorno al Risorgimento.
Del resto il valore pragmatistico attuale di un tale mito non è piú
adeguato alla sua funzione. Il mito, idealizzando una situazione di
fatto, si pone come sintesi di aspirazioni per esprimere l'immanenza
di un progresso. È lo sviluppo e la razionalità della storia nel suo
valore trascendentale, e nella sua capacità di creare un impulso
all'azione.
Ma la nostra crisi rivoluzionaria non ha avuto una soluzione
integrale e conclusiva. Il problema del nostro Risorgimento:
costruire un'unità che fosse unità di popolo, rimane insoluto perché
la conquista dell'indipendenza non è stata sentita tanto da
diventare vita intima della nazione stessa, non è stata opera
faticosa e autonoma di formazione attivamente spontanea.
Accettando la realtà fatta, quale è data dal Risorgimento, noi
dobbiamo soddisfare un'esigenza che il Risorgimento non ha appagata
e perciò non possiamo esaltare e porre come aspirazione del nostro
avvenire quella debolezza che aspramente pesa su di noi e che è
nostro compito sforzarci di superare prendendone coscienza.
2. L'essenza dello Stato moderno come Stato – libertà dei cittadini
coincide col concetto di rivoluzione, perenne creare di realtà
sempre nuova, affermazione autonoma di cittadini indipendenti aventi
in se stessi il principio della loro attività e autorità sociale: la
rivoluzione coincide dunque col concetto stesso di funzione del
popolo.
Ma il nostro Risorgimento non è riuscito a realizzare politicamente
questo compito specifico per l'incapacità del popolo a esprimere dal
suo seno una classe di governo.
La classe dirigente, nel mondo moderno, ponendosi come negazione di
ogni aristocrazia chiusa, di ogni residuo di teocrazia e di
trascendenza realizza in sé la funzione del governo fondendo in una
sintesi vitale autorità e libertà: gli uomini del nostro
Risorgimento non sono giunti a vedere con chiarezza la loro
posizione storica; non hanno superato il feudalismo, non hanno
fecondato le esigenze che in Italia sorgevano dalla rivoluzione
francese. Questo è il significato del fallimento della nostra
rivoluzione.
3. Il primo tentativo dopo la rivoluzione francese per fondare una
classe dirigente e uno Stato risale al '21. Il '21, preparato da
tutto un movimento culturale che si riattacca all'Alfieri e si
riassume soprattutto nella vita e negli studi di Luigi Ornato e di
Santorre Santarosa, fallisce per un intimo vizio di dilettantismo,
per pregiudizi militaristici e per l'immaturità della concezione
politica dei dirigenti tormentati nell'insuperabile dissidio che
separava la laicità, implicita e necessaria in ogni movimento
politico autonomo, e il cattolicismo ancora padrone delle menti.
Per intendere la ineluttabilità di questo dissidio bisogna meditare
sul carattere e sulle forme del romanticismo italiano: tale ricerca
deve anche spiegarci indirettamente l'originalità e la validità del
pensiero del Berti.
4. È stato messo in luce da altri76 l'inevitabile carattere
approssimativo di ogni definizione del romanticismo che si esprima
in termini psicologici. Un concetto rigoroso del romanticismo che
valga ai nostri fini si può dare solo quando si consideri il valore
filosofico di quel movimento storico che nascendo in Germania nella
fine del secolo XVIII si ritrova poi in tutta Europa nella prima
metà dell'Ottocento.
Reazione idealistica, talvolta anzi addirittura spiritualistica, ai
sistemi sensisti e intellettualisti, affermazione dei valori
storici; e, per opera della conquistata storicità, elaborazione dei
concetti di tradizione nazionale, di realismo politico, di progresso
e di svolgimento graduale: queste sono le idee o, meglio, le
direzioni di pensiero, che possiamo legittimamente chiamare
romantiche.
Ma in Italia, mancando una coscienza riflessa e organica tra i
promotori stessi del movimento, il romanticismo procede e si viene
affermando confusamente senza liberarsi dalle sue implicite
contraddizioni.
Si veda il processo attraverso cui un nucleo di pensiero
originalmente romantico si viene formando in Piemonte durante la
dominazione napoleonica.
Il misogallismo imparato da Alfieri si concreta nell'affermazione
del concetto di indipendenza e conduce (oltre le limitatezze del
pensiero alfieriano) ad una violenza polemica antisensista, in
quanto si vede nel sensismo la caratteristica influenza del mondo
francese. Nello stesso modo la scuola di Alfieri, libertario, doveva
condurre a rimeditare sul concetto di libertà. E seguendo gli spunti
alfieriani, l'idea di libertà veniva purificata dai residui
materialistici, con cui l'aveva corrotta la demagogia
dell'enciclopedismo, e la si riconduceva alla sua purezza attraverso
un rinnovamento spiritualistico.
Tuttavia questo spiritualismo romantico stesso era gravemente
viziato dai limiti che ponevano la tradizione cattolica e l'esigenza
dell'ortodossismo, implicite in ogni sistema fondato sul principio
della teocrazia e della trascendenza.
Lo sforzo piú intenso per spezzare le catene di una tradizione
millenaria fu compiuto da Luigi Ornato, il filosofo dei moti del
'21, il rappresentante piú ardito della polemica antidogmatica. Una
coscienza oscura delle antinomie tra cui si travagliava l'Italia
nascente a nazione condusse l'Ornato a una elaborazione dello
spiritualismo che prescindendo dalle affermazioni cattoliche
realizzasse in un cristianesimo platoneggiante i bisogni religiosi e
il fervore anelante a una vita piú intima. Il misticismo ornatiano,
culminando nel supremo concetto della libertà, santificava tutti gli
ardori spirituali e poneva l'esigenza di una vita religiosa, che si
chiarisse e si risolvesse tutta come vita morale e filosofica.
Movendo dagli stessi motivi che avevano animata la filosofia di
Jacobi, introduceva come elemento di rinnovazione la necessità di
una coscienza civile.
Queste idee si dimostrarono nel '21 inadeguate al preciso momento
politico e incapaci di dare un contenuto alle aspirazioni del
popolo. Poiché nel Santarosa stesso la coscienza filosoficamente
determinata dell'Ornato, già s'affievoliva in uno spiritualismo
dogmatico e dualistico, e l'espressione dell'esigenza religiosa si
confondeva nell'ossequio alla Chiesa.
Né è meraviglia perché il cristianesimo, iniziale ardore di
sentimento, momento ideale naturalmente anarchico, eretico, atto che
supera tutti i fatti, affermazione violenta di spiritualità contro
tutti i dati, non può avere vita e compimento reale se non realizza
l'ardore in organismo, se non sostituisce alla purezza astratta
dell'aspirazione l'ordine solido della praticità.
Le correnti religiose del romanticismo, non avendo avuto la forza di
creare attraverso il primo impulso cristiano una riforma religiosa,
furono assorbite dal cattolicismo. Il culto romantico della storia
diede un contenuto tradizionale a questi ritorni cattolici. La
fecondità rivoluzionaria del pensiero dell'Ornato venne a perdersi
nella moderazione dei conservatori. L'uomo nuovo fu Balbo, la nuova
religiosità fu neoguelfa, il liberalismo diventò termine
inseparabile dal cattolicismo. L'assolutismo riusciva con le armi
stesse dei liberali, col loro spiritualismo e colla loro fede, a
stroncare ogni movimento di vera rinnovazione.
5. Distrutta la giovane aristocrazia del '21, la nuova aristocrazia
è ancora separata dal popolo, è ancora lo strumento di un
trascendente governo, espressione di un esterno dominio.
La riscossa del '48 ha soltanto piú le apparenze della rivoluzione:
il liberalismo confuso col neoguelfismo ha perduto la coscienza del
suo significato ideale. Lo stesso equivoco continua col cattolicismo
liberale. L'ossequio alla Chiesa stronca la volontà etica da cui
dovrebbe nascere il nuovo Stato. Il pensiero ufficiale del
liberalismo, sviluppando le premesse di Santarosa, non quelle
dell'Ornato, vede nello Stato e nella Chiesa un dualismo di corpo e
spirito, spoglia di ogni significato ideale la funzione dello Stato
e lo riduce a mera amministrazione lasciando la cura delle anime
alla Chiesa.
La povertà del pensiero degli italiani sullo Stato ha le sue ragioni
storiche. Il dilettantismo letterario, che, aveva impedito una
riforma religiosa e nello stesso modo un movimento francescano di
redenzione autonoma, era sostanzialmente anarchico e antisociale. E
siffatta psicologia libertaria poteva accettare per mera inerzia una
forza tradizionale come la Chiesa, ma non poteva dare la sua
vitalità a creare il nuovo Stato; siccome poi la storia nella sua
più vasta dialettica europea superava le contingenti volontà della
maggioranza dei cittadini italiani, dello Stato liberale si accettò
l'ossatura, il meccanismo, senza vivificarlo dall'interno. Le
esperienze del '48 e del '49 aiutarono la formazione della nuova
classe dirigente, ma questa dovendo accettare l'equivoco che le
stava intorno, ebbe soltanto una funzione di pratica abilità, non fu
rivoluzionaria, non creò lo Stato.
Dell'inadeguatezza del pensiero piemontese a prendere coscienza dei
problemi veri del Risorgimento fa prova esattamente il Berti,
rappresentante del regionalismo piú chiuso e incapace di afferrare
il significato dei nuovi valori nazionali.
6. La coscienza implicita di tale immaturità è da ricercarsi nel
movimento pedagogico intensissimo che il Berti promosse con il
Rayneri, l'Aporti, il Troya, il Valerio, il Boncompagni, e altri in
Piemonte prima e dopo il '48. La pratica superava, come valore di
coscienza, la limitatezza teoretica. L'educazione popolare sembrava
la sola via per cui potesse nascere nel popolo una volontà. Il nuovo
Stato doveva adeguarsi alla sua funzione, ma prima di esercitare la
funzione doveva creare gli elementi che potessero operare e
condizionarlo. Onde la contraddizione implicita del nostro
liberalismo che non si può accontentare di esprimere il risultato
della dialettica delle forze politiche, ma deve rinunciare
all'immanenza per affermare un elemento del processo al disopra
degli altri. Il governo erede del cattolicismo ha conservato una
funzione etica astratta di egalitarismo democratico. Democratico era
il romanticismo nelle sue conseguenze in quanto affermava nel
cattolicismo la fede del popolo. Democratico (e non liberale) era il
nuovo governo condannato nel suo nascere stesso a una politica di
transazioni, di riformismo che avvicinasse il popolo allo Stato. La
dialettica del nostro Risorgimento dimenticava le sue origini
liberali e si faceva democratica per continuare la teocrazia. Questa
volta però penetrava trionfalmente nel mito teocratico l'elemento
che lo doveva dissolvere, sostituendogli l'ineluttabilità del
progresso moderno. I cattolici si dovettero chiamare liberali; il
governo ormai indulgeva al cattolicismo solo per indulgere al
popolo. La legge Casati (con tutti i suoi errori tecnici) imponendo
allo Stato il compito di vincere l'analfabetismo, costituiva una
violenta sovrapposizione di un principio trascendente all'autonomia
e all'iniziativa che sorge dal basso, ma poneva le premesse per far
entrare nel mondo della nuova coscienza quel popolo che ne era
rimasto fuori per un'intima malattia feudale.
7. Dopo il '50 il governo piemontese è un socialismo di Stato: il
riformismo si presenta quale necessaria mediazione tra il medioevo
cattolico e la modernità liberale.
Come Lassalle, su un terreno di realismo, conduce a Marx, Berti (o
per esso Cavour) conduce a Mazzini.
Mazzini e Marx (ove si prescinda dalle espressioni singole che
trovano i loro miti) pongono le premesse rivoluzionarie della nuova
società e nei due concetti, cosí diversi, di missione nazionale e di
lotta di classe elaborano un principio idealistico, o, se meglio
piace, volontaristico che fa risiedere la funzione dello Stato nelle
libere attività popolari affermantisi attraverso un processo di
individuale differenziazione. In questo senso Mazzini e Marx sono i
piú grandi liberali del mondo moderno.
Ma dal 1850 al 1914 l'eredità cattolica costringe il nuovo organismo
sociale ad affermarsi secondo un'astratta funzione di moralità che
corrompe il principio attivistico (liberistico) in una concezione
democratica di stanca grettezza utilitaria. Questa è la validità,
questo è il compito del riformismo italiano che i nostri socialisti
credono di avere inventato e che è sorto invece con le prime
polemiche contro i Gesuiti a proposito della scuola popolare (Berti
e Gioberti).
Nell'evoluzione sociale dopo il '50, essendo stato introdotto nella
vita italiana un elemento di riorganizzazione economica sulla nuova
base industriale, alla legislazione scolastica del socialismo di
Stato si sostituisce il riformismo economico.
La ricostruzione scolastica, infatti, come rivoluzione morale, aveva
potuto creare un embrione di classe dirigente, ma si era dimostrata
inadeguata a un'espressione rivoluzionaria che fecondasse tutte le
forze individuali. Il primo momento della coscienza popolare doveva
essere un momento per eccellenza economico, affermazione
elementarissima dell'autonomia e della libertà nella sua forma più
egoistica. Chi dubitasse della legittimità del processo formativo
qui descritto ricordi che proprio il Berti, rispetto al quale ora si
enunciano queste idee, ha successivamente difeso, nei momenti vivi
del suo pensiero, il riformismo scolastico e (piú di trent'anni
dopo) il riformismo economico.
L'opera della Sinistra continuata dal giolittismo era il coronamento
logico della nostra impotenza rivoluzionaria. Era il risultato
dialettico di due forze incerte e incapaci di esplicarsi: la
teocrazia diventava mito democratico e riformismo, il liberalismo
era ridotto a funzione amministrativa e opportunismo. L'equivoco
iniziale tra Chiesa e Stato generava l'equivoco tra popolo e
governo.
Le forme esterne in cui l'equivoco si mostra sono quelle del
socialismo di Stato di Lassalle: e questo infatti fu l'ideale del
giolittismo (la monarchia socialista missiroliana). Ma per l'eredità
della rivoluzione non riuscita il movimento riformista e socialista
italiano non si può svolgere nei quadri di uno Stato a cui il popolo
non crede, perché non l'ha creato con il suo sangue. Il socialismo
tedesco coincide nel suo valore etico con il significato dello
Stato, rappresenta il realizzarsi dell'idea-Stato nella coscienza
dei cittadini. La lotta pratica s'è ridotta nei termini
dell'economia perché un principio comune già è coessenziale agli
spiriti, e dal progresso economico trae esso stesso sviluppo.
In Italia una tradizione che, se non è liberale, è almeno
individualistica, si oppone senza rimedio alla vitalità di un
sistema che ignori la libera iniziativa e consideri lo Stato come
una attività distinta dall'attività dei cittadini.
Il socialismo di Stato, quale noi l'abbiamo seguito nelle sue
origini e nel suo sviluppo, è dunque un momento effimero, che
rappresenta una transazione e che bisogna superare.
Una volta venuti sul terreno della legislazione sociale la politica
diventa un perpetuo ricatto, in cui a eterne concessioni fanno eco
eterne domande; senza che s'introduca nella lotta politica un
principio di responsabilità e di educazione.
Lo Stato viene corroso da un intimo dissidio tra governo e popolo;
un governo senza validità e senza autonomia perché astratto dalle
condizioni reali e fondato sul compromesso; un popolo educato al
materialismo, privo di concreta coscienza e di concreta volontà, in
perenne atteggiamento anarchico di fronte all'organizzazione
sociale.
Questa contraddizione s'andava proprio chiarendo negli ultimi anni
del Berti (che furono perciò necessariamente inattivi) e si
esprimeva nel fallimento africano.
Ma poiché la società può vivere di contraddizioni solo a patto di
risolverle senza posa, dalle rovine stesse di Adua, per negare il
riformismo, l'opportunismo e il socialismo di Stato, nasceva,
organizzandosi ad autonoma disciplina, alimentata di elementi
marxistici (Lassalle, e Berti con lui, è ormai fallito), ma diretta
erede del mazzinianismo esausto, la nuova affermazione
rivoluzionaria del popolo.
LA FILOSOFIA DI LUIGI ORNATO E LA CULTURA POLITICA DELL'OTTOCENTO77
Gli storici della rivoluzione francese hanno dimostrato che l'opera
rivoluzionaria non fu creazione immediata dei moti che avvennero
dopo il 1789, ma, incominciata in pieno Ancien Régime, ebbe
essenziale sviluppo e quasi organica vita culturale e politica nel
seno stesso della società feudale.
Un movimento culturale in certo senso autonomo, che a torto si suole
confondere con il Settecento francese, s'andava formando
contemporaneamente nel vecchio Piemonte, ansioso di liberarsi
dall'influenza gallica. Ricordo l'Alfieri, il Napione, il Caluso, il
Vasco e i suoi colleghi economisti.
Il fermento culturale fu soffocato dal potere regio e i risultati
vennero meno soprattutto per l'intima disorganicità del pensiero
agitato e per la poca originalità: è molto agevole trovare le fonti
di questi bravi piemontesi nelle libere idee della lontana
Inghilterra. Ma il movimento fu piú tardi fecondo. Alfieri,
riconosciuto come antesignano del liberalismo, apparve maestro di
originalità; il suo misogallismo prese coscienza filosofica nella
polemica contro il sensismo dell'Enciclopedia. L'affermazione del
concetto di libertà si presentò immediatamente in una forma
romantica, non ancora tutta chiara a se stessa: la chiarezza e
l'esplicazione conclusiva sono in Gioberti, che rappresenta pure il
momento culminante di tutta la formazione spirituale italiana,
riassumendo in sé il significato filosofico, politico e letterario
degli altri romantici, Rosmini, Manzoni, Pellico. I precursori di
questa chiarezza, figli immediati di Alfieri, sono l'Ornato, il
Santarosa, il Provana, il Balbo.
Ornato è la mediazione speculativa tra Alfieri e Gioberti; Santarosa
la mediazione civile: Balbo è il realismo politico che s'impone in
un mondo letterario. Movendo da Alfieri egli è già Gioberti. C'è in
questa attività lo spirito di uno Sturm und Drang italiano.
Luigi Ornato78 (1787-1842) era venuto giovinetto a Torino dalla
nativa Caramagna. Nel 1804 lo troviamo legato in fraterna amicizia
con Luigi Provana e con i fratelli Balbo. Di quegli anni, degli
ardori e delle speranze che animavano i giovani scrisse, ancora
commosso, il Provana in una biografia dell'Ornato che è rimasta
inedita. Il tormento del loro cuore era la patria, e l'amor di
patria si realizzava nella forma ristretta, quasi regionalistica,
dell'odio contro il dominio francese.
Ma questi sentimenti non cercavano rumorosa espressione e volevano
invece disciplinarsi in un tentativo ordinato di lavoro.
Ispiratori l'Ornato e il Provana, fondarono, nel 1804, con l'aiuto
pratico che offerse Prospero Balbo, l'Accademia dei Concordi79.
«Era, – come scrisse poi nella sua Autobiografia Cesare Balbo, primo
presidente del giovanile consesso, – una ragazzata di Accademia, che
abbracciava le universe cognizioni umane, e che non le avanzò, per
vero dire, ma che radicò in noi il gusto di quelle, intrecciato
nelle nostre menti colle piú dolci rimembranze dell'adolescenza.
Ancora molto si parlava tra noi dell'Italia. Era ragazzata, lo so,
ma di quelle che, maturandosi, poi diventano opinioni».
Prospero Balbo aveva raccomandato ai giovani accademici lo studio
delle lingue classiche, ma essi vi vollero unire l'esercizio della
lingua italiana, base di tutti i lavori e, come affermò Cesare Balbo
nel discorso inaugurale, affermazione della loro fiamma nazionale di
fronte all'invasione francese.
I loro studi, che ancora ci restano, non hanno valore scientifico.
Traduzioni dal latino e pochi lavori di matematica, che l'Ornato
aveva suggerito per richiamare gli amici a piú profonda meditazione,
ma che non ebbero molta fortuna. Soprattutto versi, molti versi. Lo
spirito pratico piemontese reagiva contro se stesso cercando di
conquistare ciò che gli era stato sempre precluso: la contemplazione
artistica, la limpida espressione della personalità. Alfieri
conduceva a Petrarca.
Molte di quelle espressioni poetiche sono addirittura grottesche.
Basterebbe citare i versi del Balbo, che pur ne ha dati alcuni saggi
alle stampe. Significavano una crisi sociale: al lettore moderno
suggeriscono il maligno pensiero che non si può andare contro
natura. I versi dell'Ornato, tecnicamente piú perfetti, risentono le
rime alfieriane e, qua e là, il Petrarca. E non si creda che al
Petrarca si rivolgessero i nostri poetini per il suo significato di
poeta dell'italianità: in lui cercavano e ritrovavano la loro
debolezza, l'ansia dello spirito critico, la scontentezza di se
medesimi, l'incapacità della sempre sospirata azione, insomma quello
stato d'animo crepuscolare, quella Sensucht che si ritrova nelle
coscienze degli individui di fronte alle grandi crisi sociali: in
Petrarca all'aprirsi dell'umanesimo, in Ornato al cominciare della
rivoluzione francese. Con che non si vogliono confrontare due
individualità, ma si vuol affermare invece precisamente che nel
Petrarca l'Ornato potesse trovare qualcosa del suo ideale, del suo
temperamento di mistico, delle sue aspirazioni.
I giovani accademici avevano cercato assistenza e difesa nei vecchi.
I migliori dell'antica generazione: Napione, Caluso, Prospero Balbo
lavoravano coi nuovi costruttori. Non tutto era da abbattere nel
mondo passato: anzi già vi si trovava un principio di rinnovamento.
Certo il meglio era in quella coesione intima di spiriti giovanili,
risoluti a guardare innanzi; in quella comunanza di pensieri che si
rinnovellò piú tardi. Eppure nelle origini stesse dell'Accademia
stava il vizio insuperabile, il vizio fatale di tutto il nostro
Risorgimento: la letteratura. Si parlava di patria, si voleva
soffrire per essa: ma l'espressione riusciva al dilettantismo. Lo
spirito era nuovo, le forme miserevolmente arcadiche, con i
soprannomi d'accademia, le sedute estetizzanti, la retorica,
l'apparato convenzionale. Morirono le forme e restò lo spirito. Morí
l'Accademia del 1809, restò la coesione degli ideali e delle anime,
l'amicizia tra i migliori, centro spirituale fecondo.
All'Ornato, al Provana, al Balbo si uní Santorre Santarosa e ne
nacque un vivo sodalizio che fu sprone e guida all'attività. Serietà
nuova li animava. Sentirono la vacuità della letteratura sospirata
nella fanciullezza. Immolarono gli inutili versi alla memoria
dell'Alfieri. Sarebbero stati scrittori, ma per formare le nuove
generazioni. Balbo e Santarosa, senza rinunciare, alle tendenze
estetiche, sostituirono alla lirica l'ideale del romanzo. E l'opera
loro di romantici inconsapevoli doveva essere romanzo storico.
Ornato e Provana pensavano a tradurre dal greco, ma il poeta
tradotto doveva essere Tirteo, nome di lotta e di vittoria, a cui si
ricorreva come a un simbolo. L'Arcadia era ben morta: non le era
nata al posto la Poesia, ma si presentavano ormai chiari agli
spiriti un compito nuovo ed esigenze spirituali piú profonde.
Che cosa rappresentano questi sforzi nella nostra storia? Trascurati
dagli eruditi di professione ci offrono invece la base essenziale
per intendere la rivoluzione del '21 e la crisi che seguí e che
entrò solo nel '48 nel suo periodo risolutivo80.
La posizione dell'Alfieri nella storia dello spirito italiano era
stata sommamente astratta e individualista: vizio comune
all'utilitarismo enciclopedista del Montesquieu, del Rousseau, del
Voltaire, dai quali l'Alfieri derivò molti elementi per il suo
sistema filosofico-politico. Dal sensismo, che corrode e travaglia
tutta la speculazione francese e italiana del tardo Settecento, non
si può giungere a una giustificazione dei valori sociali: il
sensismo, con il particolarismo astratto che gli è implicito, non
può consentire la conquista di un vero e proprio centro filosofico
che intenda integralmente la realtà dello spirito: invece che
fermezza ideale si dànno singolari passioni. Il patriottismo
dell'Alfieri era stato piú letterario che civile, piú romano che
italiano; nasceva da un'ardente aspirazione poetica e si nutriva
dell'odio a tutto ciò che fosse gallico o tedesco. C'era la forma,
mancava il contenuto del nuovo mondo. C'era l'emozione, mancava il
pensiero: o – che è lo stesso – c'era un pensiero vecchio.
Tutto l'organismo ideale che il movimento tedesco con Kant e i suoi
successori veniva creando è estraneo al poeta. Ma privo di Kant il
Settecento è privo della sua vera concretezza: in Kant si potenzia
il significato della rivoluzione francese, spogliandosi di ciò che è
utilitarismo o grettezza di individui.
Il nuovo secolo, l'Ottocento, doveva avere un senso soltanto a
questo patto, di prendere coscienza riflessa del moto spirituale da
cui era sorto. La rivoluzione tedesca, come la rivoluzione italiana,
doveva trovare effettuazione completa in questo superamento e
inveramento della rivoluzione francese, che aveva creato per intima
necessità, quasi inconsapevolmente, il nuovo Stato, realtà del mondo
moderno.
Ma Alfieri restava uomo del suo tempo, piú limitato di quel che non
fosse Parini, forse perché poeta piú immediato, di piú incomposto
furore. Mentre s'andava preparando il nuovo concetto dello Stato, in
irriducibile contrasto con la Chiesa, affermazione di immanenza
contro la trascendenza, Alfieri s'era tutto dedicato a teorizzare
l'individualismo empirico e, nonostante il suo ateismo, anzi appunto
per esso, non riusciva a liberarsi dal vecchio concetto di Dio. La
sua teoria dello Stato è un'intuizione anarchica, di quella pessima
fra le anarchie che si fonda su presupposti pseudodemocratici ed
edonistici. Ora, se tali concetti hanno un significato nella
tradizione inglese, non si possono poi trasportare meccanicamente in
un mondo diverso, mantenendone immutati i caratteri.
Giova avvertire che nell'Alfieri codesta statica concezione è
temprata e ravvivata dall'entusiasmo poetico: sicché nella praxis
sociale il suo valore intimo di sforzo e di stimolo a sforzo è ricco
di una fecondità piú ampia che non appaia da un esame meramente
intellettualistico. L'influenza del suo pensiero trascende l'interna
valutazione logica che se ne può dare. Alfieri era il vate, il
profeta, non il caposcuola. Ornato e Balbo, pieni l'animo di lui,
riescono di fatto a negarlo: Ornato con la sua filosofia mistica;
Balbo con la sua concezione di politico moderato. Vogliono
dell'Alfieri la fiamma interiore, non la dottrina. L'entusiasmo
dell'Alfieri possedeva tanta interiore virtú da ispirare Mazzini; la
dottrina aveva il suo posto negli anni 1790-1800, in un'Italia serva
alla Francia, perché serva alla propria intemperanza, e perciò
soltanto in tentativi frammentari capace di liberarsi. Ispirandosi
al primo Alfieri, il pericolo era di restare sotto l'influenza del
secondo. Occorreva perciò il massimo vigore di reazione, e questo
venne dal cattolicismo. Cattolicismo romantico e idealista
preparato, negli spiriti migliori del tempo, a lotta acerba contro
ogni sorta di sensismo o di razionalismo sensista. Bisogna
distinguere questa reazione ideale dalla reazione politica: non solo
non coincidono, ma sono agli antipodi. La reazione cattolica al
sensismo si esprime nella grande filosofia rosminiana, nel Manzoni e
in tutto il movimento romantico; la Santa Alleanza si fonda nel
cattolicismo soltanto per opportunismo di politicanti, ma è
intimamente antidealista nel suo programma di ritornare al
Settecento, come se la rivoluzione francese non fosse stata: la
«Biblioteca Italiana» dell'Acerbi, sensista e classicista, ha
l'appoggio del «cattolico» governo d'Austria.
Del movimento spiritualista antifrancese è antesignano Luigi Ornato.
Ora è naturale che l'eredità dell'Alfieri determinasse, come
necessaria opposizione all'individualismo poetizzante che restava
negli spiriti, un bisogno intenso di associazione, di comunicazione.
La società reagiva con le sue forme piú elementari alle pretese
anarchiche e particolaristiche.
Si trattava di risolvere un problema pratico. Seguivano al profeta
gli apostoli, al vate i realizzatori. Il problema concreto della
realizzazione consisteva nella formazione di una classe politica.
Problema vivo ancor oggi, poiché la nostra immaturità è precisamente
nell'assenza di una aristocrazia che, uscendo dalle viscere stesse
del movimento popolare, sia espressione del paese e lo governi.
Con Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele, Vittorio Amedeo, il Piemonte
aveva avuto un'aristocrazia militare e un'aristocrazia di corte,
ordinata in gerarchia facente capo al re. Era la logica dello Stato
feudale.
Con il Settecento si sostituiva definitivamente al feudo la Nazione,
la quale non può piú accettare, come valori di governo, Corte e
militari. Ai generali succedono gli statisti, gli economisti agli
strateghi, all'esercito il popolo.
Ora questi giovani che si raccolgono, studiano insieme, pensano
insieme a costruire la patria, sono i veri creatori della
rivoluzione in Italia. Nell'incertezza del movimento storico
rispecchiano le deficienze che sono di tutti81. Falliscono: ma
l'esperienza eroica non si trova soltanto nel successo. Tutti,
tranne l'Ornato, provengono dall'aristocrazia del sangue, alla quale
è posto ormai il dilemma di essere aristocrazia di popolo o di non
essere. La loro prima educazione è stata educazione militare, hanno
servito lungo tempo nell'esercito e hanno scritto di problemi
militari. Codesto genera in essi una certa incapacità di vedere il
mondo nuovo, fatto di pensiero, di cultura, di valori spirituali.
Dall'infatuazione letteraria stessa si liberano penosamente. In
tutti questi caratteri riconosciamo le ragioni del fallimento del
'21. Una specie di cultura politica s'era andata formando durante
l'esperienza della dominazione francese, rude contatto con la
realtà, distruggitrice di intellettualistiche illusioni, ma dai
meschini sforzi poetici a un organico realismo politico la via era
lunga. Ci si mise il Balbo risolutamente. A contatto con la
Germania, la Francia e la Spagna, temprò la sua realistica visione
politica: mancando di una coscienza chiara dei valori letterari e
storiografici, subordinò la pseudostoria e la pseudoletteratura dei
tempi suoi alla vivente realtà della politica: ne nacquero la Vita
di Dante e le Meditazioni storiche. Lo spirito pratico piemontese
domava le nuove pseudopoetiche. Balbo è il primo piemontese che,
senza diventare letterato, non è più militarista. Fu un Cavour in
miniatura e in anticipo. Nel fervore di lavoro degli amici il piano
del Balbo aveva coerenza e precisione matematica. Alla vigilia della
rivoluzione, diceva il Balbo al Santarosa: – Bisogna aspettare; tra
dieci anni il Piemonte sarà governato da Carlo Alberto e noi saremo
i suoi ministri. Allora si potrà parlare di libertà.
Il Balbo, senza fede, aveva una posizione realistica che non
ignorava l'assenza del popolo dai contrasti ideali d'Italia, e
limitava tutto il problema alla formazione della classe dirigente.
Realismo a mezzo, di un piemontese che non sapeva che cosa pensare
dell'Italia. La sua politica era per questo moderata, in quanto era
una posizione di partito di governo82.
Di fronte al Balbo stava il Santarosa83, anima di capitano poeta,
incapace di comprendere la realtà, eppure travagliato da velleità di
azione politica, sentimentale, mistico, religioso: temperamento
idillico che, fuori della sua vita, che è tutta un poema, non ci
seppe dare una sola pagina di poesia. Non ostante tutti i suoi
propositi di patriota fervente imparò a stento a scrivere l'italiano
e lasciò la sola opera sua in francese, senza riuscire a porre
termine ai due libri che aveva pensati in italiano: le Lettere
siciliane e Le speranze degli italiani. Quasi per reagire al suo
astrattismo, che aveva il prestigio dell'ideale, si sforzava di
farsi calcolatore preciso dei fatti pratici piú banali, dei casi piú
minuti, che, appunto per questo, isolati dalla visione generale,
irrimediabilmente gli sfuggivano. Egli sapeva pensare il problema
della nostra rivoluzione soltanto nelle proporzioni di una battaglia
contro gli austriaci, sminuzzata in innumerevoli scaramucce. Per
questa sua mentalità era naturale che Carlo Alberto lo ingannasse,
l'esercito gli sfuggisse di mano e la piú meschina sconfitta fosse
il coronamento della sua generosità. E neppure nella morte riuscí a
liberarsi dalle contraddizioni che lo laceravano: con tutto il suo
fervore di italianità, non seppe far di meglio che dare la vita sua
inutilmente, disperatamente, in una scaramuccia di greci contro
egiziani.
Il contrasto fra il Balbo e il Santarosa metteva al cimento estremo
gli spiriti. Il dissidio era tra astrattismo e realismo: i giovani
piemontesi furono col Santarosa contro il Balbo.
Cosí il '21, insieme con i fallimenti successivi del grande
Santarosa, significava per l'Italia la fine del tentativo piú ardito
compiuto per la costituzione di una aristocrazia piemontese. I
migliori dovettero andare in esilio. Balbo e Provana, rimasti in
patria, furono per molti anni esclusi dalla vita pubblica. La classe
dirigente, che avrebbe dovuto mediare tra monarchia e popolo, restò
un desiderio. Già nel '21, il Risorgimento era negato come
Risorgimento italiano e lo si condannava ad essere il frutto degli
abili calcoli e delle transazioni di Cavour: un capolavoro d'arte a
cui l'anima italiana sarebbe rimasta estranea.
La debolezza di tutti e due i programmi, il moderato e il
rivoluzionario, consisteva nell'assenza di una posizione ideale.
L'antinomia irriducibile era tra il cattolicismo, che ancora
dominava gli spiriti soffocandoli nel ferreo sistema di un
assolutismo teocratico negatore di tutte le libertà, e il carattere
anticattolico, perché umano, realistico, immanentistico, del nuovo
Stato che si voleva costruire. Bisognava porre il dilemma tra
cattolici e liberali: ma, se si fosse posto, gli italiani avrebbero
scelto il cattolicismo contro l'unità. Per questo fu così grande
l'importanza pratica del movimento neoguelfo, il quale, contro il
pensiero dei promotori, conciliando la realtà con un'aspirazione,
doveva preparare la liquidazione del mondo della teocrazia. Solo a
patto di questo equivoco poteva nascere l'unità. Ma perché l'idea
liberale si formasse bisognava giungere in qualunque modo a separare
religione e politica, e dare alla politica la sua consacrazione
umana nella filosofia, la quale si sarebbe poi, essa, assunta
l'impresa di liquidare la trascendenza. Santarosa e Balbo,
impigliati tra i termini stessi del dissidio, non potevano venire a
nessuna chiara affermazione; per il Balbo stesso è dovere del
politico l'ossequio alla religione: lo statista deve essere
cattolico.
Ma su questa nuova via, negando Rosmini e Manzoni, si trova Luigi
Ornato. Posizione che è fuori della contingenza empirica, perché
trova la sua concretezza per entro le leggi ancora ascose della
storia. Cattolico (ma in realtà, piú che cattolico, cristiano)
contro i sensisti, egli è liberale contro i cattolici.
Che cosa rappresentava il cattolicismo italiano nel principio del
secolo XIX? Professava in filosofia un razionalismo
intellettualista, palesemente realistico, che risolveva tutti i
problemi nell'indifferenza. Diffuso col favore dei governi
conservatori, s'era assimilato come l'Aufklärung tedesco i
molteplici elementi dell'Enciclopedia e del sensismo. La negazione
dell'Aufklärung e del sensismo nei concetti di esperienza e di atto
intellettuale è opera in Germania di Kant, in Italia di Galluppi e
Rosmini. Ma, mentre Kant supera gli elementi dogmatici del wolfismo,
Galluppi e Rosmini (e il Rosmini anche piú rigidamente del Galluppi)
restano cattolici e ortodossisti. Lo sforzo comune di Kant e di
Rosmini era di sistemare in una teoria che avesse consistenza
razionale lo sforzo della filosofia moderna postcartesiana. La loro
grande scoperta si chiama nel sistema di Kant unità sintetica
originaria e il nostro spirito ne ha coscienza nell'appercezione
trascendentale; in Rosmini è la dottrina del sentimento
fondamentale. Scoperte che negavano per sempre la logica
dell'identità ponendo la nuova esigenza della dialettica, della
creazione. Da Kant doveva nascere Hegel, da Rosmini, Gioberti84.
Del criticismo tedesco non s'intese subito l'essenza, e si accettò
invece la pretesa intellettualistica di sistemare la realtà in un
mondo di idee oggettivamente concepite, pretesa che Kant aveva
ereditata dal passato e che non gli aveva permesso, non ostante
tutto il suo lavoro demolitivo, di superare il wolfismo. Contro
queste degenerazioni di schematico intellettualismo, le quali si
scordavano che proprio Kant aveva proclamata la verità dominio della
ragion pratica, sorse il misticismo. In Germania Jacobi, in Italia
Luigi Ornato. Il merito dell'Ornato è di essere decisamente
all'avanguardia del movimento filosofico nazionale e di preparare la
reazione antirosminiana (Gioberti e Bertini) ancor prima che
sorgesse il Rosmini.
Negando i fantasmi della ragione astratta e le pretese del
criticismo, Jacobi e Ornato hanno il merito di riaffermare il
problema dell'assoluto come fondamentale problema filosofico, che
non si risolve con l'astratta riflessione, ma soltanto con la
concreta vitalità di tutto il pensiero, di tutto l'atto spirituale.
Il loro torto sta nell'essersi limitati ad affermare la
comunicazione tra l'assoluto e lo spirito umano come mera
immediatezza che non può avere valore filosofico. E perciò Jacobi
apre la via a Hegel, Ornato a Gioberti, perché si affermi sopra
quella immediata conoscenza la mediatezza del pensiero. Per Hegel si
giunge all'assoluto mediante la dialettica, per Gioberti mediante
l'intuito, che afferrando il processo creativo e anche esso
riflessione, medietà, triplicità.
Il misticismo di Jacobi e di Ornato è misticismo sentimentale come
quello di Pascal, ardore del cuore come il pensiero di Rousseau, il
quale tanta efficacia ebbe sui due filosofi. Nel loro sistema non ha
posto la scienza, non ha posto il particolare. Si limitano ad
affermare come ineffabile la comunicazione tra l'individuo e
l'universale. Ma questa comunicazione ha pure la virtú di fare sacro
lo spirito umano, di giustificare i valori della morale e della
vita. Pertanto salva la libertà e afferma contro il meccanismo
l'inesauribilità dello spirito. Cosí pensiamo che debba valutarsi
questa posizione mistica postkantiana, della quale già mise in luce
l'importanza Giorgio Hegel nei preliminari dell'Enciclopedia: poiché
dire mistico è meno che niente se non si significa di qual
misticismo si parli. E il misticismo ornatiano non è un ritorno
nelle spiritualistiche nebbie medievali, non è il naturalismo
platonico, o il dogmatismo del Malebranche; è una forma vigorosa di
affermazione dell'universale che viene dopo Kant, non soltanto
cronologicamente, ma che ne ha assimilate fortemente le esigenze:
alla vigilia del Risorgimento, il suo sforzo centrale tende alla
giustificazione dell'attività pratica.
Il pensiero dell'Ornato nacque indipendentemente da Jacobi. Si
temprò attraverso Platone e specialmente attraverso Rousseau. Si
differenzia ed è superiore a Jacobi per un carattere essenziale: per
lo sforzo, che era poi un'esigenza lasciata dal pensatore tedesco,
di non separare la filosofia dal resto dell'attività spirituale e
farne anzi un centro onde organicamente tutto si avvivasse. Padrone
di una cultura scientifica poderosa, non la lasciava dispersa
nell'empirismo, ma allo studio della filosofia, come dice il
Bertini, allievo suo85, «riferiva tutti gli altri come mezzi al
fine». In questo concetto egli s'è lasciato addietro Jacobi, che
nella sua affermazione della trascendenza negava la legittimità di
ogni proposizione scientifica. Il pensiero della validità
conoscitiva delle scienze, espresso in un con l'esigenza dell'unità
di tutte le scienze nella filosofia, è germe fecondissimo per
l'avvenire della speculazione.
E non è meno vigorosa la proposizione che la filosofia non consista
in una «mera speculazione della mente», ma in una «pratica di tutta
la vita» e s'identifichi con la «virtú». Questo concetto attinto
all'antichità che l'aveva espresso, piú che con vera coscienza
riflessa, col fervore di una passione etica (Socrate), è per la
prima volta trapiantato nel mondo moderno e introduce nel misticismo
sentimentale del Nostro una profonda efficacia di praxis politica.
In teoria egli accetta la logica della scuola scozzese per
l'indagine del mondo esterno, da noi percepito immediatamente nella
sua oggettività, ma pone al disopra di questa immediata percezione
l'intelletto, facoltà dei concetti che cerca di organizzare queste
idee sensibili senza però mai trovarne l'espressione ultima,
perfetta e assoluta, perché il vero è infinito e come tale
inconcepibile ed ineffabile. Vani sono dunque tutti gli sforzi del
formulismo per esporre le scienze more geometrico e bisogna giungere
ad una affermazione chiaramente teistica, di un Dio liberamente
creante! «Persuaso dell'impotenza della logica, – dice ancora il
Bertini, – movente da astratte generalità a dar fondamento alle
verità soprasensibili, cioè a farle accettare all'intelletto col
solo mezzo del meccanismo logico, e ritenendo tuttavia che la
filosofia ha per oggetto queste verità, cioè le idee di Dio, della
libertà e dell'immortalità dell'anima, egli dava loro un altro
fondamento ammettendo nell'uomo la ragione, come cosa ben diversa
dalla facoltà del raziocinio, e come immediata percezione del vero e
del soprasensibile, cioè di Dio, come ente vivente, libero,
intelligente, morale e provvido e dell'anima come principio
sostanziale libero, immortale, capace e degno di eterna felicità per
via della virtú». E, come il Jacobi, anche l'Ornato non vedeva via
di mezzo tra questo teismo e il nullismo.
Sarebbe interessante ed è argomento che riserviamo per altro
studio86, esaminare nei frammenti che ci restano dell'Ornato quali
forme sia andato assumendo nel suo svolgimento interno questo
teismo, che mentre ha la stessa formidabile logica di Jacobi nella
negazione di ogni visione spinozistica della natura, presenta una
varietà assai piú ampia di elementi. Ma l'idea essenziale della
quale a noi si richiede la dimostrazione, perché sta contro
l'opinione dei pochi che scrissero dell'Ornato, è l'affermata
autonomia e originalità della formazione del suo misticismo.
Testimonianza fondamentale sono, per la prima cosa, le parole di G.
M. Bertini: «Fin dal principio delle sue meditazioni gli si era
affacciata alla mente l'idea fondamentale della sua filosofia che
gli si venne poi rendendo piú chiara, piú precisa e piú certa colla
lettura dei filosofi e massimamente di Platone, di Vico, di
Malebranche e di Federico Jacobi».
Della testimonianza del Bertini fanno immediatamente fede le lettere
rimaste dell'Ornato agli amici degli anni precedenti l'esilio a
Parigi: ci sono le premesse spirituali e il primo svolgimento di
un'esperienza mistica.
Un bisogno indomabile di azione non mai soddisfatto, il sentimento
ognora presente della mancanza di libertà personale staccano a poco
a poco l'animo dalla pratica per volgerlo alla contemplazione.
Sensibile ad ogni sventura nella finezza del sentimento suo, gli
pare di essere straniero tra i suoi concittadini. E smarrisce la
visione della realtà e, negando la cultura del suo tempo, ripensa al
passato con accenti dolorosi: «Io mi vo' rammaricando entro me
stesso e dolendomi della malignità della fortuna la quale ha pur
voluto ch'io nascessi al mondo due mila anni troppo tardi, per lo
meno».
Sparisce dall'animo suo il desiderio della gloria e viene meno ogni
speranza e ogni timore. Disperato, si volge all'amicizia: la coltiva
misticamente con un ardore che pare d'amante. Uno stesso amore nutre
per i poeti. Processo psicologico attraverso cui evidentemente
un'anima di elevato sentire e di indomite passioni deve giungere
all'affermazione di un trascendente. Eliminazione di tutti i
sentimenti che possono disperdere la facoltà immaginativa;
annientamento di ciò che sta alla superficie; un solo pensiero va
prevalendo sugli altri, gigante: un pensiero che non è della realtà,
ma deve avere tanta forza da superarla tutta per trasportarti in un
mondo tuo; e quel mondo, che era l'ideale, fattosi concreto, sta ora
in intima comunicazione con il tuo spirito e tu in esso ti disperdi
in piena adorazione.
Attraverso questo movimento fantastico si genera il misticismo di
Luigi Ornato. Filosofare e fantasticare ancora non si distinguono.
Il cuore dà l'emozionalità sua a questo mondo, ma non ancora
l'organizza. Assistiamo allo strazio di un'anima, non a un processo
di riflessione. «Nessun maggior dolore che l'aver sortito un'anima
cui l'operare è un bisogno, e che per necessità non fa nulla».
Si vogliono guardare le cose dall'alto per scordare le delusioni:
Rousseau è il signore e l'ispiratore di questo mondo, e Ornato non
lo può leggere senza lagrime.
Ora, non appena penetri in questo mondo, con la maturità del
ripensamento, un senso di repugnanza alla troppa frammentarietà, non
appena si senta il bisogno del metodo, dello studio ordinato, i
fremiti passati diventano potenza di concretezza.
L'ardore di azione si teorizza come libera volontà. Il senso panico
dell'infinito diventa contemplazione sicura di Dio, da cui si
attinge la serenità. La filosofia primordiale del buon senso,
dell'istinto, si matura in concezione purissima della morale, come
morale innata, che si palesa direttamente nella convivenza con
Dio87.
Questa elaborazione filosofica dei primi ingenui palpiti della
gioventú reca nelle sue lettere la data del 1818. Il suo autore era
Platone.
Ora noi possiamo affermare con perfetta sicurezza che l'Ornato non
lesse le opere di Jacobi prima del 1821, primo anno dell'esilio a
Parigi. Del resto l'autonomia e la nazionalità del suo pensiero è
provato ancora dall'ammirazione che nutrí per il Vico. Al Vico egli,
per primo in Piemonte, s'ispirò con serietà e profondità veramente
filosofica; non si tratta di mera ammirazione, è reale e deliberato
proposito di congiungersi alla sua speculazione. Nel qual proposito
non v'è chi non veda di quanto l'Ornato sovrastasse al pensiero dei
contemporanei anche se il Vico amato da lui era specialmente il
filosofo del De antiquissima Italorum sapientia, impigliato ancora
nella vecchia metafisica teistica, affatto inadeguata alle piú
lucide intuizioni della Scienza nuova.
Un'idea adeguata dell'importanza di Luigi Ornato ci si può formare
soltanto studiando l'influenza sua sugli ambienti intellettuali di
Parigi (dal 1821 al 1834) e di Torino (dal 1832 al 1842); l'opera
sua scientifica fu molto esigua e non apparve mai alle stampe (ove
si eccettui la magistrale traduzione di Marco Aurelio finita e
pubblicata postuma da G. Picchioni): dei romantici egli ebbe anche
l'infecondità.
A Parigi si valsero dei consigli suoi per la vita e per gli studi il
principe della Cisterna, Moffa di Lisio, l'Ugoni, lo Scalvini (anima
sorella all'Ornato), il Cousin, che della conoscenza perfetta della
lingua greca del Nostro, dovette certo trar partito per la
traduzione platonica.
A Torino furono intorno a lui i giovani piú vivi e più appassionati,
ed egli severamente e amorosamente li seppe avviare ai profondi
studi filosofici, introducendo nella grettezza regionale del
pensiero piemontese il soffio di una cultura europea. L'Ornato fu
tra i primi italiani che abbiano letto Kant e Jacobi nell'originale
tedesco.
Lo studio minuto di queste relazioni intellettuali esula dal campo
del presente saggio e va riportato essenzialmente a suo luogo
nell'esame delle mentalità che alla sua influenza si formarono.
Altra volta si dimostrerà come Gioberti si sia fatta per i suoi
consigli una cultura filosofica e da lui sia stato confortato a
seguire una via che conduceva nettamente a superare il
rosminianismo; come il Bertini sia stato il vero erede del pensiero
suo laico e ne abbia svolto da lui l'idea piú originale della
speculazione italiana nei rapporti tra Chiesa e Stato; come Berti,
Sauli, Cibrario ne venissero incoraggiati agli studi.
La scuola dell'Ornato era avviamento alla società ed esercizio di
pratica elaborazione. Alla luce dei suoi concetti filosofici si
rischiaravano e prendevano un valore ideale i piccoli problemi
agitati dalle menti buone e semplici di quei giovani piemontesi
educati all'antica.
Cosí il pensiero dell'Ornato, prima del tramonto, riusciva ad
inserirsi nello sviluppo spirituale italiano e a promuovere
direttamente il programma del rinnovamento nazionale. L'opera
fallita nel '21 si riprendeva proprio durante il governo dei
Gesuiti. La sua politica, continuazione ideale del Santarosa,
conduce a Lorenzo Valerio e alla Sinistra piemontese.
Il suo vessillo è la democrazia moderata, senza degenerazioni
libertarie. C'è nella concezione politica dell'Ornato la saggezza
del Balbo, spoglia dei pregiudizi cattolici; la visione storica di
Mazzini, temprata alle dottrine costituzionali di Francia, sotto
l'influenza di Montesquieu; un liberalismo cosciente che, per
l'esperienza d'oltre Alpi, rifiuta decisamente ogni principio
grettamente edonistico.
Il suo concetto cristiano antidogmatico, laico, non venne inteso. Ma
le altre sue idee furono il vero patrimonio spirituale che restò
nelle anime piemontesi dopo il '48.
Torino, dicembre 1920.
LA SCUOLA IN PIEMONTE PRIMA DEL 184488
1. Giovanni Maria Bertini nella introduzione alla sua Relazione
sull'istruzione secondaria89 nota, in poche pagine di sintesi
storica, il significato della scuola nel trascorrere delle varie
civiltà, dalla greca alla moderna. E rintraccia per tutti i tempi i
documenti dell'esistenza di una scuola primaria, secondaria e
superiore. La critica moderna pensa invece che queste tre
istituzioni nel loro significato sostanziale e per la funzione a cui
s'adeguano rappresentino tre momenti della storia europea, e
corrispondano a tre diverse esigenze.
L'università è creazione specifica della civiltà medievale, giunta
dopo il travaglio dell'Alto Medioevo ad esprimere finalmente la sua
logica cattolica; la scuola secondaria col suo ideale classico è
nata dall'umanesimo; la primaria e la popolare sono creazione della
rivoluzione francese; non del primo impeto rivoluzionario
disordinatamente empiristico e utilitario (Enciclopedia), ma della
maturazione napoleonica, che fu l'effettivo inveramento del processo
rivoluzionario90.
E con questo non si dice che non vi sia stata scuola popolare prima
della rivoluzione francese, né scuola secondaria prima
dell'umanesimo, ma si vuole affermare invece che tutto
l'insegnamento medievale aveva come centrale obbiettivo gli studi
giuridici e teologici dell'università, vera misura della civiltà del
tempo, laddove dal trivio e dal quadrivio non nacque un'organica
cultura; che l'umanesimo volle una scuola formativa, umana,
letteraria e a questo ideale subordinò (non sacrificò) la
specializzazione scientifica; e finalmente che l'Ottocento mirò ad
ordinare e consolidare quel momento pedagogico in cui avviene la
preparazione e la scelta degli individui che si vogliono indirizzare
ad una cultura umana e ad una scientifica specializzazione.
Ma il Piemonte rimase quasi estraneo a questa storia della scuola.
Ragioni politiche evidenti che Cesare Balbo spiegò e ribadí nella
sua lettera: Del naturale dei Piemontesi, scritta nel 183291, ne
dovevano fare un centro militare, non un centro di studi.
2. L'università torinese, fondata soltanto nel 1405 dal principe
Ludovico di Acaia, approvata il 27 novembre 1405 dall'antipapa
Benedetto XIII, poi nel 1412 dall'imperatore Sigismondo, ebbe vita
assai incerta, poverissima di reale attività scientifica, priva
addirittura di stabile sede, poiché fu trasportata in periodi
successivi a Chieri, a Savigliano, a Mondoví.
Frammentarietà e incertezze che attestano un interesse piuttosto
superficiale e inerte. L'università incomincia a vivere di vita
attiva con Vittorio Amedeo II che, nel 1729, instaurò le nuove
Costituzioni degli studi92. Queste segnano veramente il principio
della legislazione scolastica piemontese, sono atto cosciente e
posizione esplicita di autorità, esercitata dal governo. Il problema
scolastico diventa problema di Stato, le scuole sono sottratte ai
Gesuiti; si crea un magistrato della riforma a cui è affidato il
reggimento dell'università e, benché si professi il piú devoto
ossequio ai principî della Chiesa, si pone l'esigenza di un
insegnamento pubblico laico per i laici. Energia e fermezza di
principî assai piú che vigore e serietà concreta di studi. Altri
miglioramenti si tentarono con le Costituzioni del 1772, ma in
realtà una università degna di questo nome si ebbe soltanto dopo gli
anni 1847-48. E allora l'università aveva assunto altro significato
e rappresentava altre precise esigenze.
La scuola secondaria, ordinata dalle disposizioni del 1772 secondo
un meccanico programma, s'era ridotta a scuola preparatoria per gli
studi superiori; piú che uno spirito di umanistica latinità vi
dominava l'influenza ecclesiastica, aliena da ogni libera cultura
letteraria.
E non esisteva affatto la scuola primaria, poiché le Costituzioni
del 1772 tenevano appena conto della necessità di istituire scuole
per i bambini come avviamento al corso di latinità, al quale pareva
che si dovesse richiedere la capacità di scrivere e di leggere in
lingua italiana.
Lo spirito che governava tali istituzioni era dunque medievale;
popolo e laicità, per chi prescinda dall'effimero atteggiamento di
Vittorio Amedeo II, apparivano nomi vuoti; e non era sentito il
bisogno di una scuola autonoma per la formazione d'una autonoma
classe dirigente. A fornire un'educazione di convenzionalità a una
classe militare è giusto che fosse ritenuto sufficiente lo spirito
burocratico ereditato dai Gesuiti.
3. Nell'inedia del buon mondo ufficiale piemontese, fuggito con
aspra ira da Alfieri e da Baretti, dominio incontrastato del Galateo
di monsignor Della Casa, s'immagini ora penetrato lo spirito
rivoluzionario dei francesi invasori con le idee pedagogiche dei
Diderot e dei Condorcet.
Si manifestò subito un rinnovamento, ma piú nell'intemperanza delle
forme che nella saldezza dello spirito animatore. Si crearono scuole
primarie e secondarie, ma accanto alle nuove materie – diritti e
doveri dell'uomo e del cittadino, elementi di storia delle
Repubbliche antiche e moderne93 – rimase la vecchia precettistica e
stilistica, e insieme rimasero nell'uso i vecchi nomi: grammatica,
umanità retorica.
I rinnovatori piú indiavolati furono i tre membri creati dalla
Commissione esecutiva a sostituire il magistrato della riforma,
abolito nel 1799 dal governo provvisorio: Brayda, Carlo Botta,
Giraud. Nel libro94 dei tre funzionari, che raccoglie l'opera di
legislazione scolastica del governo di Jourdan, si giunge con
deplorevole leggerezza a esaltare la lingua francese come lingua
della verità e a raccomandarne lo studio come di quella che doveva
un giorno diventare la lingua materna dei piemontesi. Ma attraverso
queste intemperanze si veniva affermando, inconcusso, un concetto
sano e fecondo: l'esigenza di una scuola popolare, di un
insegnamento elementare libero a tutti.
Ed è curioso notare che anche durante la breve restaurazione
monarchica del 1799 prevalse nel pensiero del governo del re il
principio che si dovessero stabilire scuole elementari obbligatorie
in ogni Comune95. Pare un'ironia a chi ripensi l'ostilità mostrata
dopo il 1815 dai governi reazionari verso tutte le forme di
educazione del popolo.
Giova ad ogni modo insistere nell'idea che questo tumultuoso
rinnovamento venuto di Francia non riuscí ad organizzare i nostri
studi e nel 1815 si trovò a non aver instaurato alcun stabile
progresso ma creato appena oscuri sentimenti e incerte aspirazioni
in pochi spiriti solitari.
4. Accanto alle speranze e agli entusiasmi l'invasione francese
aveva fatto nascere nelle menti piú solide e pensose un bisogno di
approfondimento e di autonoma cultura: mentre Carlo Botta levava il
suo inno alla lingua della verità portata dai conquistatori, Ornato,
Provana e i fratelli Balbo fondavano un centro di studi, pensato con
fervore alfieriano e messo in atto con spirito veramente troppo
arcadico, che doveva avere la sua vitale fiamma organizzatrice nel
culto per la lingua italiana, ritemprata nello spirito delle lingue
classiche96.
Dal 1814 al 1821, mentre Vittorio Emanuele I richiamava in vigore le
istituzioni prerivoluzionarie, e la scuola era lasciata nel piú
penoso abbandono, si maturava nella nascosta intimità di pochi
giovani l'esperienza morale e culturale che condusse alla
rivoluzione del '21. Nell'epistolario tra l'Ornato, il Santarosa e
il Provana è la vera storia della cultura piemontese del tempo.
Mancano i documenti scolastici ufficiali e nasce l'autodidattismo.
Delle condizioni dell'insegnamento ufficiale è rimasta la relazione
di Domenico Ferrero, riformatore di Carmagnola, penosamente
preoccupato delle miserande condizioni finanziarie in cui
l'amministrazione centrale lasciava gli insegnanti97.
La rivoluzione del '21 costrinse il reazionario governo sabaudo a
studiare il problema senza reticenze e senza temporeggiamenti98.
E il regolamento del 23 luglio 1822 impose infatti a carico dei
Comuni l'obbligo di stabilire scuole elementari gratuite «per
istruire i fanciulli nella lettura, scrittura, dottrina cristiana, e
negli elementi di lingua italiana e aritmetica», e stabilí che non
si potessero conservare le scuole di latinità nelle città dove non
venissero istituite due scuole elementari.
«Se queste commendevolissime disposizioni fossero state messe in
pratica, – dice il Berti, – avrebbero potuto iniziare presso di noi
l'insegnamento popolare e preparare nel futuro i mezzi di
perfezionarlo. Ma richiedevasi a tale intento: 1° una sanzione per
quei Comuni che non avrebbero tenuto per obbligatorio il decreto del
Governo; 2° che fosse venuto in soccorso, mercè i denari del
pubblico erario, a quelli che mancavano dei mezzi opportuni; 3° che
avesse pensato a formare abili maestri istituendo scuole pratiche di
pedagogia; 4° che avesse provveduto con legge al loro stipendio ed
alla loro promozione e giubilazione»99.
Osservazioni assennate che supponevano esistessero nel pensiero dei
governanti criteri direttivi di politica scolastica. In realtà, le
leggi erano presentate per la costrizione ineluttabile dei tempi e
per evitare lo scoppio del movimento rivoluzionario. Della scuola
popolare, una volta preparato il palliativo, nessuno si dava
pensiero. È notissimo, e pieno di amaro significato, il caso del
Troya, destituito nel 1828, perché l'ispettore aveva trovato che si
leggevano nella sua scuola poesie e prose classiche che contenevano
le parole «Italia» e «libertà».
Né introdussero diverso regime le disposizioni dei regi biglietti
del 10 luglio 1827 e 7 agosto 1832, rielaborati poi tutti nella
Raccolta dei sovrani provvedimenti del magistrato della riforma (18
ottobre 1834).
5. Del resto, ogni rinnovamento che fosse stato istituito per reale
decreto sarebbe rimasto vano nello sviluppo dello spirito nazionale.
Bisognava che i movimenti sentimentali, oscuramente incoraggiati
nelle masse dalla rivoluzione francese, si svolgessero fino a
determinare condizioni di vita ideale nuova.
Uno dei primi sintomi di questa vita nuova s'avverte nelle «Letture
Popolari»100 fondate nel 1837 da Lorenzo Valerio con un modesto
programma di rinnovamento morale e con l'intento di offrire umili
letture utili per le classi meno agiate e meno dotte. Il problema
scolastico vi fu trattato da A. Ambrosoli, G. Garzino, B. Milesi
Mojon, G. Adorni, G. O. Ferrua, ecc., senza organicità e senza
direttive comuni, con piú ardore che chiarezza. E, del resto, tutti
i problemi venivano considerati con semplicismo e ingenuità,
mancando i collaboratori competenti e i mezzi materiali per un più
ampio e serio lavoro. Era però il trionfo del buon senso ed era già
un risultato. Nel giornale di Lorenzo Valerio si trova in embrione
il giornalismo piemontese del '48: è il primo tentativo in cui si
veda un valore di formazione concreto. Ne ebbe coscienza il governo
di Torino.
In un numero del marzo 1841, Giambattista Michelini vi pubblicò un
articolo intitolato: Di alcuni mezzi di diffondere l'istruzione. Il
Michelini vi affrontava il problema nel suo significato politico
integrale, mostrando una solidità di pensiero non comune:
Nessun dubbio che una torbida crisi è presente. I tempi nuovi stanno
per determinare grande accrescimento del potere popolare e immensa
estensione della popolare influenza. E se anche la crisi non dovesse
avvertirsi per un pezzo in Piemonte, «sia per la moderata indole del
popolo, sia per la gran prevalenza numerica della popolazione
agricola sulla manifatturiera», bisognerebbe tuttavia approfittare
di questo tempo per la preparazione, per non lasciar perdere
vanamente le sanguinose esperienze che toccarono ad altre nazioni.
Il problema centrale consiste nella necessità di combattere la
centralizzazione. Ma «dove i lumi non sono universalmente diffusi,
la centralizzazione è un male necessario». Bisogna dunque alle forze
fisiche del popolo aggiungere le forze morali perché il pericolo non
sta nella ragione, ma nelle passioni degli uomini, e «quanto piú
essi sono illuminati, tanto meno si lasciano dominare dalle
passioni». L'istruzione, dunque, favorendo il gusto della lettura e
insieme l'abitudine della riflessione, favorisce lo spirito
d'ordine. Del resto oggi tutti gli ostacoli che si vorrebbero porre
all'istruzione sarebbero vani: il dilemma non è piú tra istruzione e
ignoranza, ma tra una istruzione cercata, aiutata e controllata
ufficialmente e un'istruzione cercata, tumultuosamente ed
erroneamente, dal popolo stesso. «Promuovasi adunque, – conclude il
Michelini, – la popolare istruzione dirigendola nel miglior modo che
si può affinché non partorisca che buoni effetti, ed appunto i
temuti pericoli dimostrano evidentemente che i Governi ed i buoni
tutti debbono favorirla per imprimerle un'utile direzione e
prevenirne gli abusi che potrebbero nascere, lasciandola in sua
balia, il che in alcuni paesi abbiamo visto essere accaduto»101.
Era la prima volta che il problema veniva posto esplicitamente e
veniva posto – si noti – da un conservatore in termini di realismo
politico, appena un pochino razionalisticamente circonfusi di
un'aura illuministica. Il governo rispose sopprimendo il giornale.
L'episodio rappresenta per noi l'ultima vittoria rumorosa del
gesuitismo. Gli spiriti sono mutati. Giambattista Michelini, a torto
dimenticato, è bene un uomo nuovo. Riassumendo il suo pensiero, noi
abbiamo sentito in lui un vigore civile insolito che ci ha fatti
indugiare a considerare con amore la sua intima importanza.
6. Con G. Michelini si può giustamente far cominciare un momento
nuovo (il momento risolutivo, attivo, fecondo) della storia della
scuola.
V. Troya, dodici anni prima destituito perché reo di patriottismo, è
ora alla testa del movimento pedagogico; per opera di Boncompagni,
di Cavour e di altri valentuomini, si fonda a Torino (1839) la
Società per le Scuole Infantili; Lorenzo Valerio fa risorgere, dopo
un anno appena, il giornale soppresso, col nuovo titolo «Letture di
Famiglia», e vi raccoglie il pensiero del Lambruschini, del
Boncompagni, dell'Aporti.
Intorno alle «Letture di Famiglia» sorge il movimento per le scuole
di Metodo. Questo è il fatto nuovo, moderno: è un movimento che
s'impone dalle province e dalle iniziative autonome; non consiste
piú in una disposizione legislativa astratta e meccanica. È il
capovolgimento delle consuetudini e delle tradizioni; prima, la
scuola popolare era considerata come mero avviamento alla scuola
secondaria, era la scuola preparatoria alla formazione di una
aristocrazia vivente di convenzionalità e di esteriorità; ora, la
realtà si fa dal basso, il nuovo centro è il popolo, il nuovo mondo
è la libertà e l'autonomia dell'individuo. Il processo è invertito.
La scuola secondaria diventa strumento di educazione popolare.
Invece che alla materia, tutta l'attenzione è alla nuova forma:
bisogna insegnare il metodo. Il vitale centro dell'organismo
scolastico è ancora la scuola secondaria, ma, per la prima volta,
essa ha la sua realtà e le sue leggi nelle condizioni sociali e nel
progresso della scuola primaria. S'è compreso che soltanto per
questa via è possibile liquidare il feudalismo: la nuova classe
dirigente deve essere un'aristocrazia, ma un'aristocrazia di popolo;
questa formula dà la misura del nuovo significato che avranno ormai
la scuola elementare, la scuola classica, la scuola normale e
l'università.
CATTANEO102
La cultura italiana dopo il '70 fu cieca e inesorabile contro gli
avversari del mito unitario. Condannò all'oblio Ferrari, lasciò
nell'oscurità l'Oriani, critico del Risorgimento tutt'altro che
acerbo e, non che antiunitario, quasi padre del nazionalismo. Si
accontentò del cavourismo che sembrava restasse negli impotenti
eredi dello statista piemontese, e vi aggiunse un po' di giobertismo
anfibio e un po' di mazzinianismo, che di Mazzini conservava
soltanto la retorica.
È naturale che i vincitori siano aspri e feroci quando la loro
apparente vittoria dà di fatto ragione agli avversari. Il
Risorgimento italiano segnò il trionfo dei partiti moderati e questi
dovevano tollerare a stento che si ricordassero anche i soli nomi
degli uomini che durante cinquant'anni avevano rappresentato la
critica interna del processo storico. La nuova classe dirigente, che
succedeva alla raffinata e abilissima burocrazia piemontese,
rappresentava i ceti medi e la piccola borghesia intellettualoide
del Sud, incapace di sentire e di esprimere da sé un vero e proprio
governo di tecnici. Storicamente ed economicamente immatura era
l'antitesi delle avanguardie della produzione lombarde e piemontesi
in nome delle quali aveva parlato Cattaneo.
Né seppero proseguire il Cattaneo i partiti d'opposizione, infermi
d'una stessa malattia, retori e magniloquenti: basti dire che di
lui, dopo il suo discepolo garibaldino Alberto Mario, il solo che
scrisse di proposito fu Enrico Zanoni, moderatissimo uomo, che pose
ogni sua sapienza nel difenderlo dal nome di regionalista e di
liberista, cercando di provare esser queste momentanee intemperanze!
Il Salvemini invece ha ripreso la parte viva del pensiero storico e
politico del Cattaneo e si può dire che a lui si sia ispirato
nell'opera sua di direttore dell'«Unità».
Poiché il Cattaneo avversò non l'unità ma l'illusione di risolvere
con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano
intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale,
caratteristica. Il suo regionalismo era anzitutto un problema di
stile politico e di modestia e non si può intendere se non lo si
mette in relazione con la sua filosofia, con la sua speculazione
che, al disopra di ogni critica e di ogni disconoscimento, resta
originalissima.
Si è voluto limitare e demolire il pensiero di Carlo Cattaneo con un
riferimento bibliografico di fonti: Romagnosi. Si è derisa la sua
dottrina indicandone i seguaci nei positivisti.
Tuttavia, non volendo assumere atteggiamenti di vendicatore in
ritardo, basterebbe indicare una successione di date per confondere
i frettolosi esegeti. Sono del 1836 e del 1844 le considerazioni
antirosminiane di Cattaneo; risale al 1839 il suo saggio sul Vico,
dove l'idea della psicologia delle menti associate è integralmente
espressa, anche se sarà poi ripresa e rielaborata nel '52, nel '57 e
negli anni seguenti. Invece il Cours de philosophie positive del
Comte, cominciato nel 1830, veniva solo terminato nel 1842; la
Politique positive è del 1851-54: se Cattaneo si deve studiare come
positivista, il suo pensiero non viene dietro a Comte, ma lo
precede; il suo posto non è quello di un divulgatore, ma di un
antesignano; il suo posto è nella storia europea a ben maggior
diritto che non si possa pensare di Rosmini, il quale tuttavia si
affatica intorno ai problemi risolti da Kant e dalla filosofia
romantica tedesca. I suoi conti con Romagnosi non sono stati fatti
ancora; ma forse si dovrebbero fare piuttosto con Locke e con Vico e
con Bacone: Romagnosi sarebbe appena, nella enciclopedica opera di
divulgazione, un intermediario.
La sua psicologia delle menti associate fu da alcuno, che ne aveva
guardato appena il titolo, definita una confusione di psicologia
individuale e di psicologia sociale, comodo semplicismo per non
distinguere il vichiano spirito del Cattaneo da Comte. Si accusò il
suo realismo di ripetere posizioni sensistiche; il suo storicismo di
voler dedurre l'uomo dalle manifestazioni piú attenuate della
spiritualità. Questa volta l'accusatore era il Gentile: si direbbe
ch'egli si proponesse di negare l'evidenza.
Chi cerchi in Cattaneo una gnoseologia precisa e sistematica
terminerà la sua ricerca senza averla ritrovata: ma l'insuccesso,
nonché far prova contro il Cattaneo, attesta in questo caso la poca
finezza dell'indagatore, che ha confuso il problema di Rosmini col
problema del Nostro. Chi cercasse in Hegel il criticista troverebbe
il suo scorno nell'invito di buttarsi a nuoto invece di indugiarsi
in contemplazioni iniziali. Cattaneo non ha una gnoseologia
introduttiva perché ha la sua filosofia della storia; al criticismo
rosminiano deve opporre una posizione costruttiva anche a costo di
presentarla in forme quasi ingenue; ma sono evitate le ingenuità
della vigile esperienza. Se si pensa al Gioberti, contemporaneo del
Cattaneo, e assorto in ipocriti teologismi e in inesauribili
premesse d'azione, non si può non guardare con franca simpatia al
Nostro che, dopo essersi assimilato il criticismo coll'esperienza
scientifica, risolse il problema dell'azione operando, e quello
della storia facendosi storico, cosí come Hegel coll'atto stesso di
filosofare dichiarava di risolvere il problema della filosofia.
Se la storia è imprevedibile non la si può metafisicamente dedurre
dal vero primo: in essa sola deve trovarsi il criterio della
certezza, anzi la certezza stessa. Nello studio dell'uomo interiore
e dell'istoria dell'intelletto si appaga il realismo di Cattaneo. Se
anche talvolta pare invocare il dominio del «senso comune» o il
«testimonio potente dei sensi», egli ha pur sempre definita
«filosofia scienza del pensiero», ma, contro la arbitraria esegesi
del Gentile, crede che il pensiero sia da studiarsi nelle menti
mature e forti e però nelle storie, nelle lingue, nelle religioni,
nelle arti, nelle scienze in cui le forti e mature menti si mostrano
e non «nelli informi cenni d'intelligenza, che appena spuntano nei
feti e nei bamboli».
A dir le cose con pratica chiarezza, poi che il problema pareva
soprattutto di persone e di psicologia, «intendiamo che il filosofo
non possa accingersi al suo ministerio se non con ampia preparazione
di molto vario sapere».
Si sente il bisogno alla vigilia della rivoluzione di liquidare gli
ultimi resti di cartesianesimo: Cattaneo è all'avanguardia della
moderna filosofia dell'attività, ansioso ormai di fondare la nuova
visione unitaria del mondo. L'identità di storia e di filosofia è
poco piú che una convinzione di esperienza; ma la filosofia si
riduce concretamente per lui ad una visione metodologica. La
speculazione di Cattaneo ricerca piuttosto impreviste esperienze che
illusioni di leggi: è spoglia di tecnicismi filosofici, preannuncia
orizzonti nuovi.
Ciò che gli viene rimproverato pare a noi la sua genialità vera. Del
resto, se la filosofia è storia, perché la filosofia? È la domanda
con cui gli immanentisti hanno liquidato la trascendenza: se il
mondo è Dio, perché Dio? Perché il sistema una volta che crediamo
solo piú al problema? Se la filosofia s'identifica con la storia,
non c'è piú filosofia fuor dello svolgimento e della risoluzione dei
problemi dell'esperienza attuale. Solo questa osservazione dà
ragione delle varietà dei sistemi filosofici attraverso i tempi; ed,
escludendo la dogmaticità metafisica, riduce il sistema al suo
valore d'esperienza. Sostenere questa posizione senza ricadere nello
scetticismo o in una nuova metafisica della identità: ecco, a parer
nostro, il problema che la nuova speculazione si deve affacciare. Il
merito di Cattaneo non consiste nell'aver risolto il problema, ma
nel non averne compromessa la soluzione con la ripresa del vecchio
sonno dogmatico. Per questo la sua personalità cela elementi
imprevisti, pur nella classica compostezza, e dove altri vorrebbe
scorgere una esperienza raccolta e individuale, si scorgono elementi
di cosmicità e di solenne conclusione. Di Locke accettò la polemica
contro l'innatismo (altro che fermarsi a una posizione dogmatica!),
e piú scaltro di Vico, pur avendo la stessa fiducia di lui nello
spirito, non pretese di chiudere l'esperienza, seppe lasciare aperto
il dramma tra la natura ed il passato e lo spirito che li indaga.
L'istintiva prudenza dello storico lo rendeva guardingo verso le piú
candide illusioni giusnaturalistiche: alle tenere semplicità del
Romagnosi opponeva la superiore consolazione del suo riflesso
realismo. Oh, inesauribile ingenuità di chi volle ricordare per il
Cattaneo le comtiane categorie sociologiche. Certi errori di
psicologia sono più compromettenti delle angustie concettuali. Chi
confonderebbe l'austerità del Cattaneo con il goffo ottimismo di
Comte? E la vigile storicità del milanese, agile dialettica
diplomatica, col pesante umanitarismo parigino?
La fisionomia speculativa del Nostro è tutta un'intenzione: né dal
sensismo né dal razionalismo si può dedurre la storia; per la
drammaticità della storia egli rinuncia agli schemi piú semplici
come ai piú complicati. Non dovete dimenticare che l'ambiente
storico di Cattaneo si colloca in pieno tramonto del razionalismo,
mentre si è esaurita la polemica ideale tra classici e romantici;
non per un caso egli resta estraneo al neoguelfismo, ultimo
tentativo di una esasperazione romantica. Anche chi voglia
riconoscere validi i quadri storici di B. Spaventa, non può non
avvertire in Cattaneo uno sforzo nuovo di liberazione; l'originalità
speculativa italiana, dopo tutte le brevi parentesi di misticismo,
s'è sempre affermata in un riconoscimento dei piú gelosi valori
della personalità. Dove l'ampiezza delle sue aspirazioni potrebbe
sembrare enciclopedica, la solidità classica del suo gusto fa
ch'egli riduca il sapere in una realtà di potenza. Fa prova della
sua finezza l'atteggiamento di antiromantico libero da ogni peccato
di sensismo; del suo rigorismo morale l'opposizione più inesorabile
verso i demagogismi unitari e le illusioni patriottiche. Se la forza
dinamica del suo pensiero è stata nei primi cinquant'anni del secolo
scorso meno esuberante di quella del Mazzini, il suo spirito è meno
viziato e meno vaporoso, la sua figura è per gli italiani non
letteraloidi piú ricca d'insegnamenti, la sua politica può essere
ancor oggi un programma.
Guardò al passato conscio del tramonto compiutosi; senza atteggiarsi
a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capí che il fondare una
nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle
tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela.
Gli italiani erano usi a parlare della libertà come di cosa da
dimostrazioni: Cattaneo offrí l'esempio di un pensiero che si
identificava tutto con la libertà e l'autonomia, e ne raccoglieva
organicamente le esigenze senza farne risquillare ad ogni istante
con ingenua retorica la parola. Eppure per certi spiriti non giova
che il tamburo. La libertà di Cattaneo si esprimeva come realismo in
etica, come produzione e iniziativa in economia, come creatività
liberale in politica, come valorizzazione della esperienza in
filosofia, come culto classico dei valori formali e della tradizione
liberatrice in arte. Antiromantico, non rinunciò, come non aveva
rinunciato Leopardi, ai motivi originali di cultura che i romantici
recavano con sé.
Per queste caratteristiche di misura, che sono il segreto della sua
vitalità, gli toccaron in sorte i compiti piú ardui e piú ingrati,
che a lui poi servirono di disciplina e di temperamento. Solo un
filosofo poteva pensare, quando egli lo pensò, il «Politecnico». Ma
neanche i filosofi poterono intendere quella sua indipendente
disinvoltura e dignità, che con tanta freschezza liberava il cammino
da ogni ingombro di schemi.
E lo condannarono alla solitudine e alla impopolarità e diedero, a
lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante
al deserto.
IL PENSIERO E L'OPERA DI
GIOVAN MARIA BERTINI103
1. Nei primi anni del secolo XIX e negli ultimi del XVIII il
Piemonte «ebbe cosí gagliardo impulso intellettuale dalle svariate
vicende politiche cui andò soggetto che la parte piú eletta della
nazione non tardò a rendersi persuasa che la monarchia assoluta né
piú rispondeva alla cultura dei tempi né piú era atta a tutelare i
molti e complessi interessi della società moderna»104. Questa
convinzione in tutta Italia coincise con la dominazione francese. Ma
la cultura italiana di quel tempo non si accontentò dell'espressione
data dal pensiero francese a quest'idea di libertà. La tradizione
italiana era cattolica: volendo approfondire le esigenze del tempo
si doveva approfondire il cattolicismo escludendo sensismo e
razionalismo enciclopedista perché privi di ogni motivo religioso.
La reazione del 1815 fu cattolica per opportunismo di politicanti:
nessun bisogno religioso era alimentato nelle Corti d'Europa. Ma nel
risorgere universale della religione, la politica dell'assolutismo
si affermò cattolica per separare il cattolicismo dalla libertà.
Bisognava illudere le plebi. La Santa Alleanza voleva tornare alle
condizioni sociali che avevano preceduto la rivoluzione francese; il
nuovo romanticismo cattolico invece pensava a creare una vita che
fosse adeguata ai nuovi bisogni: non abbandonava la vecchia
metafisica, ma la voleva integrata nella presente realtà, creazione
genuina della rivoluzione francese. C'era nell'intento una felice
contraddizione e ne doveva sorgere non la vecchia metafisica
integrata con nuovi elementi, ma una nuova metafisica. Siffatte
necessità si chiarirono piú tardi: nel principio del secolo la
filosofia si annunciava come ontologia e tale apparve tutto il
movimento rosminiano.
L'idea di libertà, spirituale e politica, si veniva preannunciando
nella società piemontese. Qui il dissidio tra i governanti e la
nuova classe colta scoppiò con speciale violenza, come polemica di
pensiero e come lotta pratica nel '21.
I nuovi studiosi tornavano alla storia e la storia insegnava loro la
libertà. È interessante studiare l'amicizia che legò in quegli
albori di rinnovamento Luigi Ornato, Santorre Santarosa, Luigi
Provana e Cesare Balbo105. L'ingenua spontaneità di questo movimento
di precursori si svela nelle loro lettere, nelle loro confessioni:
tutti i motivi che contribuirono piú tardi alla formazione dei
sistemi filosofici del Rosmini e del Gioberti e, in sede politica,
del neoguelfismo e del cattolicismo liberale, appaiono qui nella
loro immediatezza, quasi a provarci l'autenticità dei motivi
religiosi espressi in quest'alba di rinnovamento, e la loro assoluta
indipendenza dalla reazione della Santa Alleanza.
Ma tra i quattro amici vi sono differenze profonde che non tardano
ad assumere significato di polemica addirittura violenta, come nel
1821, tra il Balbo e il Santarosa. Non è disagevole darne la
caratteristica. Il Balbo aveva un senso della realtà per quei tempi
non comune, aveva una cultura politica, educazione e abilità
diplomatica; era il meno romantico, il meno illuso, il meno poeta;
sbocciava nell'ambiente letterario che li aveva visti nascere tutti
e quattro come un anacronismo. In verità anche al realismo moderato
del Balbo sfuggivano molti elementi realistici: egli rimase l'uomo
del neoguelfismo, che del nostro Risorgimento é una pagina sola;
dopo il '48 gli sfuggí irrimediabilmente la situazione che conteneva
ormai elementi ideali superiori al neoguelfismo. Ma in confronto
degli altri il suo senno pratico equilibrato dovette sembrare arido
e gretto proprio per la sua superiorità106.
Luigi Ornato107 e Santorre Santarosa108 erano per necessità lontani
dall'azione pratica. Agitava la loro crisi il dissidio tra l'azione
e contemplazione e faceva inerti i loro sogni: una gran fiamma
interna li consumava. Agli occhi nostri valgono per questo: ma la
politica loro fallí perché era solo uno sboccio ingenuo di
entusiasmo.
Si erano educati allo stesso amore di Vittorio Alfieri: ma
ravvivando il pensiero della patria attraverso le crisi
dell'esperienza religiosa. Il Santarosa rimase fermo al
cattolicismo, con costanti indulgenze verso preoccupazioni mistiche
che noi ci accontenteremo di individuare richiamandovi a lato il
Savonarola, ispiratore e maestro, capace di soddisfare le sue
ambizioni di lettore. Le Speranze degli italiani parrebbero il
preludio del Primato e sono ancora l'idillio cui vagheggia l'uomo
religioso e il patriota. Il suo pensiero rimane negli orizzonti del
dogmatismo ortodosso, il suo patriottismo è l'entusiasmo regionale
di un gentiluomo educato in Piemonte sui classici, con qualche
residuo di furore guerriero che non gli permette di distinguere tra
problema militare e problema politico. Si oppone il Santarosa alla
rivoluzione francese, poiché la mentalità settecentesca del soldato
piemontese gli impediva di intendere i nuovi valori degli Stati e
delle democrazie. Per lui l'opera rivoluzionaria doveva essere
compiuta da un principe, lo scopo ne sarebbe stata la Confederazione
benedetta dal papa, indipendente dall'Austria. Questi sogni si
colorivano di leggende eroiche; talvolta il concetto di libertà
rinvigoriva quello di indipendenza, ma concepito sempre in modo
astratto ed esterno, senza intendere che la libertà come vera
autonomia è conquistata dai popoli e non donata dai principi.
Santarosa invece rimpiangeva che nel 1733-34 Carlo Emanuele non
fosse riuscito a concludere la Confederazione nazionale. Ma questa
non era che la malattia irrimediabile di tutto il Risorgimento.
Santarosa non poteva e non voleva aderire alla concezione liberale
attraverso l'esperienza della rivoluzione francese. Di questa i
piemontesi non riuscivano a capire il valore storico; né a
dimenticare la recente invasione e schiavitú del Piemonte.
Pertanto il liberalismo di Santarosa cerca piú volentieri
ispirazione ed elementi alla grande tradizione romantica. Invoca una
vita religiosa nella quale anche la filosofia trovi il suo centro e
il suo organismo. Religione doveva essere esaltazione di libertà. La
reazione al sensismo settecentesco doveva condurre a un
approfondimento dei valori spirituali e all'affermazione della
storia, della tradizione contro l'Enciclopedia astrattista,
individualista e antistorica. Ma storia e tradizione sono nel
cristianesimo il solo sistema che possa giustificare i valori dello
spirito per menti non ancora mature alla rivoluzione kantiana.
Santarosa inizia questo processo, romantico, spiritualista,
patriota, ricercatore di storia nazionale. Il suo misticismo dà
anima e calore al suo concetto di libertà. Questa in sede politica
si afferma come necessità del governo popolare, realizzato in leggi
alle quali il governo è sottoposto. Anzi (e qui si anticipa il
pensiero neoguelfo) la religione stessa deve essere cattolica e in
nome del cattolicismo bisogna compiere la rivoluzione perché il
popolo è cattolico. Intuizioni geniali non svolte per la mancanza di
un chiaro concetto dello Stato e della laicità.
Uno stesso contrasto del resto domina le idee del Santarosa rispetto
al problema politico immediato. Con saggezza precorritrice del
Balbo, egli ha visto che il problema centrale d'Italia è
l'indipendenza dall'Austria: perciò non si presenta neanche il
problema dell'unità, ma sulle orme del Napione vagheggia confederati
con gli Stati del centro Napoli e i Savoia. Per raggiungere questi
risultati bisognava formare una classe dirigente: opera tormentosa a
cui lavorarono con Santorre dal 1815 al 1821 Ornato, Balbo, Provana
e altri fervidissimi: opera interrotta dall'esilio e ripresa prima
del '48. Fallita un'altra volta e fatta dimenticare dal fenomeno
Cavour si ripresentò con la stessa necessità, oggi ancora insoluta,
nel momento dell'eredità cavouriana. Il Santarosa vide soltanto da
lontano questa esigenza: inteso a scopi piú limitati, con la
psicologia di un piemontese del Settecento, burocraticamente e
militarescamente prussiano, egli era condannato a concepire la nuova
classe di dirigenti come classe di militari.
Per questa intima incertezza e non per le circostanze particolari
della sua vita (come parve al Colombo), il pensiero di Santorre
Santarosa è stato inferiore alla nobiltà dell'animo suo e, fallito
nella pratica, non ha avuto fecondità ideale.
Una piú vigorosa concezione speculativa c'è in Luigi Ornato il
quale, giovinetto, faceva sonetti alfieriani e approfondiva gli
studi matematici, ma poi cominciò a studiar filosofia sui testi
greci e tedeschi e fu filosofo vero. Sotto l'influenza di Rousseau
era venuto formando il suo sistema mistico, ricco di motivi
platonici: solo piú tardi conobbe nell'esilio, a Parigi, la
filosofia di Jacobi e se ne professò discepolo, benché a quella
concezione egli fosse giunto da sé, mediatore il sentimentalismo del
ginevrino109.
Già nel ricordare questi nomi avvertiamo allargati i limiti della
cultura. Platone, Rousseau, Jacobi non sono cattolicismo: il loro
misticismo ha fondamenti razionali o sentimentali estranei alla
tradizione cattolica. La religione dell'Ornato poi è già filosofia:
non contraddice al cattolicismo, ma non ne deriva, né sacrifica gli
sviluppi della sua speculazione a esigenze dogmatiche. Vuole che Dio
viva nel suo cuore, che di questa comunicazione si alimenti la sua
fede: ma verso la Chiesa empirica, le pratiche convenzionali e il
rito mostra un atteggiamento talora indifferente, talora
risolutamente critico che si può, senza anacronismi, definire
modernistico. E infatti l'atteggiamento non andava troppo a genio a
Gioberti che il 18 novembre 1841 scriveva al Pinelli: «Né so capire
come l'Ornato col suo ingegno e col suo senno, e dopo un soggiorno
decenne in Italia possa ancora far buon viso a certi grilli di
razionalismo che dovettero entrargli nel capo quando respirava
l'aria della Senna, impregnata dai miasmi dei libri tedeschi. Egli
dunque vuol divenire il Cousin della penisola? Benché lo scopo non
sia molto ambizioso, non gli riuscirà, spero. La patria di Dante,
del Buonarroti, del Galileo, del Vico e del Muratori, cioè dei
cinque nomi piú grandi d'Italia, nella poesia, nelle arti, nelle
scienze naturali, nella filosofia e nella erudizione, non si
persuaderà mai che il cattolicismo non possa accordarsi cogli
incrementi piú eletti e piú copiosi dell'ingegno umano. Signori
ornatisti, se vorrete combattere la fede antica d'Italia, ne
resterete a bocca rotta. Ve lo dice un ospite meschino della Beozia
belgica. Il quale si duole moltissimo che certe ragioni
v'impediscano di scrivere perché egli proverebbe un matto gusto a
stampare un libro sui gallo-tedeschi»110.
Qui, sotto l'enfasi, i sistemi polemici del Gioberti sono i piú
triti e i piú frettolosi. Ornato non è un eclettico come il
Cousin111: il razionalismo teologico del francese parte dal
sensualismo e non riesce a liberarsene112; il dualismo del Nostro
postula come originaria (per l'idea stessa di un intuito immediato
di Dio) l'unità del soggetto con l'assoluto e non è rimasto
indifferente alla critica mossa dal Vico al cartesianismo
intellettualistico. D'altra parte si domanda che cosa vi sia di
«gallo» nella cultura dell'Ornato, alieno dalle filosofie francesi e
appena tenero un poco verso il Malebranche, entusiasticamente
ammirato dal Gioberti. Bisognerebbe ricordare che l'Ornato fu tra i
primi e i piú intelligenti a riprendere il culto della filosofia
vichiana; sicché la malignità del Gioberti parrebbe addirittura un
mezzo polemico verso chi doveva disdegnare i fantastici rigori del
suo nazionalismo filosofico. In realtà l'importanza della
speculazione dell'Ornato consiste tutta nei nuovi motivi di libertà
che egli reca e che nell'Italia settentrionale hanno il loro senso
come motivi polemici contro il dogma rosminiano dominante. In sede
politica egli è estraneo alla devozione verso la Chiesa come
istituto politico che sarà propria dei neoguelfi: le sue
preoccupazioni si elaborano specialmente intorno al concetto di
Stato e intorno alla praxis statale che gli italiani dovranno
inaugurare. Il suo autore, nell'indagine politica, è Aristotele; ma
non gli è estraneo il pensiero democratico di Rousseau che egli ha
appreso a leggere dall'Alfieri e che tempera attraverso la
conoscenza degli scrittori liberali inglesi113. Non sarebbe dunque
giusto neanche qui richiamarci all'ortodossia cattolica. Invece la
convinzione centrale è che la politica debba fondarsi sull'attività
del popolo governato a libertà. La libertà poi per l'Ornato lealista
e tradizionalista non è quella dei francesi, avviamento ad uno Stato
atomistico ove «non sono piú ordini o ceti, ma solo individui, cioè
a dire atomi umani che si accozzano e separano secondo il rapido
variare della fortuna». Propizia al naturale sviluppo di tutti gli
elementi dell'umana civiltà è solo «quella forma di reggimento in
cui l'aristocrazia, la democrazia e il principato abbiano ciascuno
la debita parte»114. Qui non traggano le parole in inganno a far
sospettare una mera ripetizione di linguaggio aristotelico poiché
anche qui lo spunto originale dell'Ornato è la polemica alfieriana
contro le dottrine della reazione. Di quest'opera, di questi
pensieri, ci restano frammenti; ma l'influenza del maestro sui
giovani piemontesi (d'altronde attestata dal Berti) dovette essere
grandissima nel formare quella coscienza politica moderata e laica
che fu il punto morto e il punto vivo del nostro Risorgimento115.
2. Erede spirituale dell'Ornato fu Giovanni Maria Bertini, il solo
tra i pensatori subalpini che, movendo dalle esigenze religiose dei
tempi, giungesse con chiarezza speculativa alla negazione del
cattolicismo e all'affermazione della libertà nello Stato laico.
Nato a Pancalieri il 3 agosto 1818, passato a Carmagnola verso il
1827, vi compí fanciullo i primi studi filosofici sotto la guida di
Giovanni Antonio Rayneri. Nel 1835 è a Torino, stretto all'Ornato da
affettuosa famigliarità di pensiero che si continua nella lontananza
attraverso la corrispondenza epistolare e che solo per la morte
dell'Ornato s'interrompe il 28 ottobre 1842.
Una differenza radicale opponeva la mente di Luigi Ornato a quella
del Rayneri. Fu questa differenza uno degli impulsi piú laboriosi
nel giovane discepolo alla meditazione filosofica. Il Rayneri116,
sacerdote d'ingegno moderato, lavoratore coscienzioso, diede l'opera
sua pratica e speculativa alla scuola piemontese che faticosamente
veniva nascendo in quegli anni per l'assiduo sforzo di F. Aporti, di
C. Boncompagni, di Vincenzo Troya, del Danna, del Bernardi, del
Dapassano, del Garelli e specialmente, in un secondo tempo, del
Berti117.
Ebbe il suo momento di celebrità come filosofo della pedagogia e
parve l'opera sua sistemazione vigorosa delle dottrine educative del
tempo. In realtà il Rayneri fu tra i rosminiani più ossequienti
verso il maestro, ma che meno ne penetrarono il centro speculativo.
L'opera sua vale per osservazioni frammentarie, per l'acutezza e
l'esperienza presente nella soluzione dei piccoli problemi tecnici;
mentre il tentativo di organizzazione, che suscitò le meraviglie e
le simpatie dell'Allievo, è fallito per la mancanza di un centro
speculativo organico che presieda allo sviluppo del sistema.
L'autore resta alieno dalle altezze della filosofia; tutto lo sforzo
sintetico si riduce ad accennare l'usata antinomia di autorità
(educatore) e libertà (educando) che ha la sua risoluzione nella
sommissione della libertà all'autorità, dell'educando all'educatore.
Concetti ricondotti poi all'idea di Dio, dinanzi alla quale tra
educatore e educando v'è assoluta uguaglianza: senonché tale
uguaglianza si dovrebbe chiamar piuttosto indifferenza, cosí come
l'unità conquistata per questa via è priva di dialettica e di
consistenza filosofica, corrispondendo ad una tradizionale posizione
di mediocre spiritualismo. Sente il Rayneri i problemi pratici della
scuola e si sforza di risolverli sulle orme del Girard e
dell'Aporti; ma in teoria s'appaga di una tenue ripetizione dei
motivi religiosi del cardinale Gerdil (Malebranche adattato alla
scuola ed esposto ad uso della Chiesa), che egli contribuí a rendere
popolare in Piemonte118. Al Gerdil è ispirata la sua polemica contro
il Rousseau sostenuta con intenti dogmatici. Notevole è dunque la
differenza tra questo pensiero ortodosso, sospettoso di fronte al
Rousseau e ad ogni specie di razionalismo, e l'entusiasmo con cui
l'Ornato accoglie ogni sforzo di libero pensiero: tra i due
misticismi sta un abisso, se appena si pensa ai fremiti e alla
commozione con cui l'Ornato leggeva il Rousseau, tanto aborrito dal
Rayneri. Il contrasto è interessante perché si riproduce nella
formazione spirituale del Bertini, che accettò nei primi anni dal
Rayneri un dogmatismo spiritualistico, quale unica salvezza che i
tempi offrissero contro i pericoli del sensismo: ma avvertì subito
l'esigenza di approfondirlo attraverso lo studio dei filosofi, in
primo luogo i greci, il Vico e il Rosmini. Rosminiano, ma tra i piú
penetranti, fu il Bertini negli anni universitari, e come il Rosmini
desideroso di conciliare col cattolicismo il pensiero filosofico.
Ora, a contatto col teismo dell'Ornato, il Bertini non tardò a
sentire l'insufficienza della posizione rosminiana e contro di essa
i motivi jacobiani (di un Jacobi diligentemente riveduto e accordato
con la realtà pratica) dell'Ornato gli dovettero sembrare subito una
critica sicura e superiore. Tuttavia il Bertini non abbandonò il
pensiero rosminiano e venne invece ripensando i motivi del dissidio
con impassibile serenità. Che verso l'Ornato egli rappresentasse
un'esigenza razionalistica ci attesta il Parato: «A provare in
quanta estimazione l'Ornato fin d'allora avesse il Bertini, citerò
questo fatto sovvienmi che io a sedici anni faceva lettura a quel
venerabile cieco nel suo modestissimo alloggio in via della Rocca al
terzo piano e nel 1841 gli veniva leggendo manoscritti i sunti
dell'opera giobertiana Sugli errori del Rosmini che gli stendeva e
mandava da Carmagnola il professore Bertini; e ci erano note
piuttosto frequenti e tratto tratto l'Ornato passeggiando con passo
celere mi arrestava (mi pare ancora di vederlo quasi l'avessi
presente) ed esclamava: – Oh, questa volta il Rosmini non si caverà
piú... Ha un bel dire il Bertini in suo sostegno... se fosse qui
presente gli direi, ecc. –. E talvolta mi dettava anche lettere per
il Bertini che a ventitre anni era già all'altezza di disputare con
uno dei primi filosofi d'Europa»119.
Invece fa prova dell'influenza esercitata dall'Ornato sul suo
pensiero la Necrologia ch'egli ne scrisse nel 1842. Se anche
rimaneva cattolico in quegli anni forse con piú rigore che non lo
fosse stato l'Ornato, già dal beato sonno dogmatico del buon Rayneri
s'era scostato per sempre. Ma non bisogna confondere il problema del
Bertini con quello dell'Ornato. Questi gli faceva sentire l'esigenza
di abbandonare la posizione critica di Kant per ritrovare nell'unità
immediata di Dio e del soggetto, stabilita nell'intuito, la base del
sapere. Era l'esigenza da cui mosse Hegel, ma per sostituire la
mediazione e la dialettica all'unità immediata120. Invece l'Ornato
s'accontenta dell'immediatezza e in logica segue gli scozzesi.
Il problema che si presenta al Bertini è il superamento del
misticismo: la sua ontologia si deve costruire psicologicamente:
egli non può rinnegare Cartesio, né Locke, né Hume. Senonché la sua
indagine, invece di muovere da Kant, si ispira nel suo punto di
partenza alla Scienza Nuova. Di qui il movimento quasi tormentoso
che si avverte negli sforzi del Bertini per la costruzione della sua
nuova logica.
3. Amici e ammiratori del Bertini (Parato, Capello, ecc.)
deploravano nel 1876 la sua morte immatura, lamentando ch'essa gli
avesse impedito di vincere i suoi dubbi e ritornare cattolico
com'era stato nei primi anni. Quest'ingenuo rimpianto si ricorda qui
per confutare l'errore che vi si contiene.
L'Idea di una Filosofia della Vita, pubblicata nel 1850, ha potuto
giustificare l'attribuzione di un pensiero cattolico al Bertini
perché effettivamente in questo primo libro i tormenti e le
incertezze riuscivano a conclusioni mistiche e a una difesa del
dogma della Trinità contro le dottrine panteiste. Ma lo spirito e
l'intonazione di questo primo saggio speculativo si tenterebbe
invano di ridurre allo schema cattolico. Se poi risaliamo a certe
espressioni frammentarie di critica contenute nelle sue carte
giovanili, dobbiamo convincerci che sin dai primi anni le sue
esigenze filosofiche lo conducevano a cercare al di là del
cattolicismo una fede adeguata al tormento contemporaneo. Per
esempio il Bertini non accetta dal Gioberti la spiegazione della
dottrina cattolica della rivelazione, perché ne impugna sin
dall'inizio l'idea di creazione e di sovrintelligenza, come residuo
di limite posto all'attività razionale del pensiero. Infatti in un
lucido riassunto della Teorica del sovrannaturale il Bertini,
esposto il concetto giobertiano121 che l'espiazione si possa
giustificare soltanto con la rivelazione, obbietta: «A questo
proposito tuttavia si può osservare che l'idea di Dio inchiude che
la conversione deve essere a lui accetta. La ragione stessa poteva
insegnarci che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si
converta e viva. Il Cristianesimo rende poi facile la conversione e
la perseveranza, ma non è già necessario che esse siano agevoli:
basta che non siano impossibili. D'altronde e nel cristianesimo e
fuori di esso è sempre difficilissimo egualmente il discernere se la
nostra conversione sia verace o illusoria»122. Concetto che ha il
suo riscontro in quest'altra osservazione sulla virtú: «L'idea di
Dio esige bensí che la virtú sia possibile, ma non già ch'essa abbia
un cotal determinato grado di agevolezza e di universalità». Spunti
di una concezione religiosa quasi ascetica che non ammette
mediazione tra l'uomo e la divinità perché vuole che la divinità si
manifesti nell'uomo come sforzo autonomo di conquista morale. Segue
questa affermazione che anticipa in modo decisivo tutta la critica
svolta poi dal Bertini maturo: «Io tengo... che non si debba credere
finché non si vede l'impossibilità del contrario di ciò che si
propone a credere. Poiché finché sussiste la possibilità del
contrario sussiste il pericolo di errare. Ora l'errore è un male
cosí grande, che la possibilità di esso, anche minima, deve avere
una forza massima a rattenerci dall'assentire ogni qualvolta il
nostro assenso può essere erroneo. Né dicasi che, anche nel dubitare
v'è pericolo di errore, perché chi rettamente dubita non pronuncia
nulla sull'oggetto, ma enuncia solamente un fatto psicologico, cioè
la propria ignoranza intorno ad un oggetto»123. Questo atteggiamento
non si può evidentemente riportare al dogmatismo cattolico e si
scosta in modo assai preciso dalla jacobiana filosofia del
sentimento e della credenza. Jacobi infatti muove da una premessa
agnostica derivata direttamente dalla sua critica alle inadeguate
teorie della conoscenza e si limita a teorizzare il bisogno di una
metafisica, connaturale allo spirito anche quando si pensi che
l'assoluto sia inaccessibile, e il bisogno di una morale
obbligatoria necessaria anche se non la si possa fissare
razionalmente124. Invece Bertini partendo dallo stesso punto (e
separandosi perciò dai razionalisti della ragione meramente
soggettiva, scettici e materialisti) non si può accontentare del
sapere immediato di Jacobi.
Egli non scorge ancora in questi anni le conseguenze delle sue
indagini piú ardite che dovranno portare una rivoluzione nel rigido
mondo dell'ortodossia: la moralità rigoristica cui aspira, la
purezza religiosa che anima la sua critica, non paga di se stessa,
ma assetata di una superiore verità, lo trattengono nei limiti del
cattolicismo, anzi di questa permanenza gli fanno quasi un esplicito
dovere. Nel travaglio delle sue crisi angosciose egli non scorge
fuori del cattolicismo altro che scetticismo; e lo scetticismo,
corrispondendo nella sua esperienza psicologica ai momenti di
caduta, gli ripugna perché non giustifica la moralità.
Da questa fede incrollabile nella morale, che è stato il sostegno di
tutte le sue lotte giovanili, sorgeranno i motivi piú elevati e piú
commossi della sua filosofia. Ma già sin d'ora la giustificazione da
lui offerta del momento religioso è la parola del filosofo. Egli
scorge nella religione quasi una condizione materiale del sapere, un
presupposto cronologico, sul quale si esercita la nostra conoscenza
e l'accetta solo in quanto ne scorge la necessità logica. Siamo agli
antipodi da Gioberti per il quale la rivelazione non è l'immediato
da mediare, ma già mediazione che in se stessa ritiene la sua
validità e assolutezza.
Gli sviluppi dell'idea qui enunciata si trovano nel primo libro del
Bertini: L'idea di una Filosofia della Vita. L'opera, se si accetta
la testimonianza del Capello, risale al 1846; e fu pubblicata nel
'50 con l'aggiunta di un Saggio storico sui primordi della filosofia
greca. Qui nelle conclusioni mistiche c'è la teoria dei suoi bisogni
morali assillanti e in un certo senso il sistema delle esigenze
intravvedute dall'Ornato. Frettolosamente gli scriveva a tal
proposito il Gioberti dall'esilio: «Ho letto con vivo piacere la sua
bella opera dettata con gusto e con criterio finissimo. Ella ha
fatto bene a premere sull'idea dell'infinito, che è di momento
supremo in ogni parte della speculazione»125. Qui è agevole notare
l'errore in cui incorreva il Gioberti: mentre la posizione
ontologica del Bertini era piú vicina a Cartesio che alla Teorica
del sovrannaturale.
Del resto il Bertini stesso non si appaga delle conclusioni a cui ha
costretto il suo pensiero nell'Idea. Mentre si proponeva di creare
razionalmente una filosofia che giustificasse la vita, egli si trova
a non poter conciliare in Dio l'unità con la pluralità e deve
concludere affermando l'incomprensibilità di Dio; non riesce a
giustificare la creazione divina e lascia quindi senza un sostegno
speculativo sicuro la sua deduzione del finito dall'infinito.
Termina con un misticismo dolorosamente pessimistico: «Il bene nella
sua essenza, il male nella sua origine, la morte nelle sue
conseguenze sono tre misteri per cui la filosofia umana mette capo
alla rivelazione»126.
Gioverà dunque avvertire senza equivoco che il libro nelle sue
conclusioni ci interessa come storici, quale espressione di uno
stato d'animo: ma i principi posti condurranno il Bertini ben più
innanzi.
4. Nel 1847 il Bertini fu chiamato a reggere la cattedra di storia
della filosofia istituita in quel tempo in Torino e vi lesse il 10
novembre una prolusione intitolata: La Filosofia e la sua Storia.
Questo scritto (il primo del Bertini dopo le tesi discusse nel
'46127), pur non allontanandosi dalla concezione centrale dell'Idea
di una Filosofia della Vita ne svolge piú acutamente certi motivi.
L'esigenza di studiare la storia della filosofia è affermata come
attuazione di un momento filosofico che è già teoretico in quanto è
storico. Si proclama la necessità della ricerca, il bisogno di
ritornare sui risultati raggiunti, di rivederli sotto la guida dei
grandi filosofi. Tale atteggiamento rimarrà il punto vivo,
suscitatore di indagini sempre nuove nel pensiero del nostro
filosofo. Questa prolusione poi ci interessa fortemente per il
pensiero politico che ne risulta.
Non si dimentichi che l'Italia era in pieno neoguelfismo: gli
atteggiamenti di Pio IX riconfermavano ogni speranza; religione e
patria, supreme aspirazioni degli spiriti piú pensosi del tempo,
parevano unite in una realtà ideale sola. Fu neoguelfo allora anche
il Bertini, e partecipando della commozione dei tempi esortava i
giovani: «Ciascuno di voi può cominciare a rendersi tale quale
vorrebbe che tutti fossero per il bene della patria. Ciascuno di voi
insomma può cogli studi, cogli esempi e cogli scritti cooperare col
divin Pontefice alla gloriosa impresa affidatagli dalla
Provvidenza»128. L'effondersi di questa commozione ci pare
importante come quella che ci avverte quanto fortemente il Bertini
sentisse i motivi del suo tempo e nutrisse visione chiara della
realtà: anzi ci permette di attingere una misura per valutare
l'ardore degli sforzi ch'egli tentò in seguito per liberarsi dai
limiti del suo tempo. Certo elevando il suo inno al pontefice il
Bertini non condivide lo stato d'animo diffuso di eccitazione e di
confusione. La sua argomentazione è ancora quella del discepolo di
Ornato. Il bene della patria non può tenersi disgiunto dal bene
della religione, il quale nelle condizioni presenti dipende dal
culto della scienza. La politica, la poesia sono tornate
all'intimità dello spirito, si sono fatte religiose: ora deve farsi
religiosa la filosofia. E tra le religioni la piú profonda è il
cristianesimo: se una religione è vera, non vi può esser dubbio,
essa è il cristianesimo. Ma il Bertini si propone almeno per un
istante la domanda: può esservi una religione vera129? A questa
domanda deve rispondere la filosofia, dall'autorità assoluta della
quale dipendono dunque sin d'ora (1847) i destini della religione. E
se tale autorità sovrana riconosce e giustifica in questo momento la
verità religiosa, non ci dovremo meravigliare, una volta che la
questione di metodo è risolta, che dieci anni dopo venga pronunciata
invece una negazione. La nostra critica deve indicarci solo il
processo e i modi del ripensamento.
5. Le speranze fallirono, Pio IX ritirò lo Statuto. Le milizie
francesi soffocarono gli ultimi tentativi di libertà in Roma
repubblicana.
Il Bertini fu in quei giorni deputato al Parlamento piemontese per
il Collegio di Carmagnola (1° febbraio-29 marzo 1849) e parlò il 1°
marzo sulla questione romana. Il discorso del neoguelfo di due anni
prima trovò gli accenti piú vigorosi nella polemica con Cesare
Balbo. Ora non c'interessa se vi fosse in quell'occasione piú
realismo nel Balbo o nel Bertini: volere una parola netta in quei
giorni, volere che il Piemonte affermasse una visione sua delle cose
italiane proprio quando il '48 si era chiuso tragicamente, poteva
sembrare temerario. Ma era pur l'unica via di condurre la lotta con
dignità, e il Bertini infatti nel suo breve discorso la propose
recisamente. Ogni popolo ha diritto all'indipendenza e per questo
stesso alla libertà di coscienza. Ora se per questo i diritti del
popolo romano vengono a contrastare coi diritti del papa, bisogna
negare tali pretesi diritti.
«Il dominio del Papa è in contraddizione con questa libertà e ve lo
provo. Il principio di libertà di coscienza non dee valere soltanto
per gli individui considerati in relazione collo Stato, ma dee
valere eziandio per le nazioni le une rispetto alle altre. A quel
modo che ciascun cittadino deve poter vivere nello Stato secondo
quella religione che egli tiene per vera, cosí pure ciascun popolo
nel gran concilio delle nazioni. Ora se si ammettesse che il Papa,
come tale, abbia diritto al dominio temporale e che per conseguenza
le altre nazioni cattoliche abbiano il diritto d'imporlo ai romani
come sovrano, ne segue che esse avrebbero il diritto d'imporre ai
romani la religione cattolica come religione dello Stato poiché
certo non può capire in mia mente l'ipotesi di un Papa felicemente
regnante sopra un popolo di eretici. Ora io dico che là dove si
riconosce una religione qualunque come religione di Stato, ivi non
può essere vera e compiuta libertà di coscienza». E al Balbo che
parlando in difesa del potere temporale aveva professato il suo
rimorso per la colpa giovanile di aver approvato la condotta del
primo Napoleone, rispondeva di aver sentito alle sue parole una
commozione profonda «e, – aggiungeva, – temetti non forse quando
l'età mi avesse imbiancati i capegli avessi anch'io allora a
rimproverare a me stesso il voto con cui ora ho deciso di
acconsentire alla decadenza di Pio IX». Ma oggi le condizioni sono
mutate. Il Bertini è pronto a riconoscere l'utilità del dominio
temporale nel Medioevo. Di fronte al carattere e alle condizioni dei
barbari, anche l'uomo che personificava in sé le idee di ordine, di
giustizia, di pace, doveva necessariamente avere una forza fisica
proprio per far trionfare la verità e la giustizia. Ma «l'autorità è
tutta fondata sull'opinione degli uomini e si muta col mutarsi di
questa opinione». Ora siamo in tempi di idee nuove. Può essere vera
l'asserzione del Balbo che l'Italia perderebbe molti beni col
diminuire dell'autorità del pontefice. Poniamo però «da una parte
questi beni, e dall'altra l'indipendenza, la nazionalità e la
libertà, e scegliamo». Né infine è da temere, come temeva il Balbo,
l'ineluttabile forza dei papi: «Pio VII lottava contro il
dispotismo. Vi era da una parte il principio religioso verso cui gli
uomini si sentivano di nuovo attratti da un prepotente bisogno.
Dall'altra eravi un uomo col suo egoismo, colle sue tendenze
dispotiche, colla sua forza». Ora «abbiamo da una parte il principio
dell'indipendenza, della nazionalità, dell'inviolabilità del
territorio, della libertà politica, della libertà di coscienza.
Dall'altra abbiamo un meschino interesse che cerca di prevalere con
intrighi diplomatici e di coonestarsi con una vieta e gesuitica
dottrina. Pio IX è divenuto un pretendente; un pretendente di nuova
specie senza dubbio e alquanto piú formidabile degli altri, ma
destinato a correre la loro stessa sorte e ad ottenere dalle Corti
d'Europa ciò che sogliono ottenere i pretendenti: promesse, buone
parole e null'altro»130. Sembra una profezia. Senonché gli uomini
del tempo furono di altro avviso e al Bertini convenne ritornare ai
suoi studi. Votarsi a questi era pure per lui un votarsi alla
patria. L'Idea di una Filosofia della Vita era stata scritta «con lo
scopo di risparmiare almeno in parte a qualcuno gli errori, le
follie e le miserie che a lui guastarono la vita»131. Ora la sua
visione si va facendo piú serena e sottentra al pessimismo una
rassegnata tristezza. L'ideale che lo ispira è Socrate. Un fascino
chiarificatore emana per lui dalla vita dei primi sapienti della
Grecia pei quali scienza e pratica, natura e spirito erano una
stessa armonia. La moralità greca non è il nostro dovere, obbligo
che s'impone dall'esterno; non è «un debito da pagarsi, un obbligo
da compiersi... ma piuttosto il concetto di cosa ben fatta, cosa
convenevole, azione retta, cioè conforme all'ideale; la
doverosità... di tali atti tutta consiste nella loro bellezza
morale, nella loro onestà, nella loro lodevolezza intrinseca ed
assoluta; ogni azione bella è un dovere, ogni dovere è un'azione
bella». Non c'è distinzione tra erogatorio e supererogatorio, tra il
precetto e il consiglio. E la bontà è «perfezione di tutto l'uomo e
non solo dello spirito né di una sola facoltà dello spirito»132. Ma
l'eredità del cristianesimo e del romanticismo non concede siffatte
native spontaneità. Faticosamente conquista l'uomo moderno l'unità
di vita morale e vita teoretica. Tende alla serenità ellenica, ma il
punto di partenza è il tormento di uno spirito cristiano. Tra queste
angustie e queste costrizioni il Bertini cerca la sua libertà
speculativa nello studio della storia.
6. Con gli scritti del Bertini comincia in Italia lo studio serio
della storia della filosofia. Già nella citata prolusione del '47
egli aveva messo in luce il valore teoretico dell'insegnamento della
storia della filosofia. E piú esplicitamente nel 1854 affermava che
«noi possiamo nella storia dei secoli ravvisare la storia della vita
individuale e nella storia dei vari sistemi filosofici riandare le
vicende della propria vita individuale». Nella serie dei sistemi «la
quale non è una successione fortuita, ma ordinata secondo certe
leggi, noi possiamo leggere scritta in vari caratteri la filosofia
della storia, l'economia della Provvidenza divina nell'educazione
dell'umanità»133. C'era in queste affermazioni il meglio del
pensiero di Hegel che il Bertini citava e discuteva attentamente
prima dello Spaventa. «L'artefice di tutto questo lavoro (la storia
della filosofia) che dura da millenni è l'uno ed unico spirito
vivente, la cui essenza è di recare a sua consapevolezza quello che
esso è, ed essendo così questo suo essere divenuto oggetto subito
elevarsi sopra di esso, e costituirsi in grado superiore. La storia
della filosofia mostra nelle filosofie che appariscono diverse una
unica filosofia in diversi gradi di svolgimento; mostra altresí che
i particolari principî che stavano a fondamento quale di questo,
quale di quel sistema, sono altrettanti rami di un medesimo, unico
tutto. La filosofia che viene ultima per ordine di tempo è il
risultato di tutte le filosofie precedenti, e deve quindi contenere
i principi di tutte; essa è perciò, quando però sia veramente una
filosofia, la piú sviluppata, la piú ricca, la piú completa»134. Ma
piú viva che in Hegel fu sempre nel Bertini la visione della storia.
Non tanto per l'obbiettività che in lui loda il Cantoni quanto
perché egli effettivamente si sforza di ricreare il processo
storico, di compiere la fenomenologia dello spirito, e non si ferma
a vuoti e arbitrari schematismi. Egli del resto rimprovera anche piú
tardi allo Hegel, come uno degli errori piú gravi, «la pretesa di
costruire a priori... il corso della storia umana»135.
In questo approfondimento del concetto della storia il Bertini è un
solitario: i filosofi del tempo correvano dietro al fantasma di una
filosofia italiana da rinnovare (l'antiquissima italorum sapientia)
che si esprimeva o nelle aberrazioni platoniche del Gioberti o nel
volgare empirismo di Terenzio Mamiani. Nel Nostro è singolare
l'informazione completa dei testi e della critica moderna tedesca.
Già nel '50 era uscito con La Filosofia della Vita un Saggio sui
primordi della filosofia greca, del quale cosí giudicava il Gioberti
nella lettera citata: «Leggendo il sunto sugoso ch'Ella diede, nella
seconda parte, della filosofia greca, mi nacque un pensiero che non
posso dissimularle. Questo sunto, diss'io, è come l'unghia del
leone, che dimostra il valore dell'artefice. Perché mai questi non
ci darebbe una storia distesa dell'antica sapienza ellenica? Non
potrebbe cominciare a darci una storia della filosofia pitagorica?»
Anzi a quest'opera il Gioberti, che considerava la filosofia
pitagorica come «la sintesi piú vasta dell'antichità in opera di
filosofia», l'incitava col dirgli che cosí «c'introdurrebbe
nell'antica Grecia senza farci uscire d'Italia». Pregiudizi
nazionalisti di una mentalità antistorica.
Il valore dell'opera del Bertini è considerevole per i tempi benché
non riuscisse piú tardi ad accontentare l'autore che ne diede un
rifacimento nel 1869. Il tentativo di sintesi è preparato da una
forte cultura, sebbene qua e là turbino la visione dello storico non
pochi pregiudizi dogmatici, come sarebbe la preoccupazione di voler
rintracciare il teismo in filosofi come Talete e gli altri jonici
completamente immersi nel naturalismo.
L'opera si fondava soprattutto sul Ritter e n'ebbe i molti difetti.
Tra i piú gravi l'arbitraria distinzione della dottrina jonica in
fisico-dinamica e fisico-meccanica, che spezza l'organismo di un
pensiero e non ne coglie lo sviluppo reale. Il Bertini riesce a
vedere meglio del Ritter la posizione di Anassimene, ma non intende
Anassimandro perché ne studia la dottrina come se si trattasse di un
panteismo, accettando dal Ritter la dubbia esegesi (confutata poi
splendidamente dallo Zeller) che tutte le cose siano da principio
non virtualmente, ma in atto, ab aeterno e immutabili. Analoghe
incertezze si scorgono nello studio di Senofane del quale è
esagerato il teismo. (Il Bertini si fondava naturalmente sul De
Xenophane, Zenone et Gorgia da lui attribuito secondo l'opinione
tradizionale ad Aristotele: nel '69 accettò invece dallo Zeller le
correzioni all'attribuzione e al titolo che è De Melisso, Xenophane
et Gorgia).
Confrontando con questa prima la seconda edizione, bisognerà, per
spiegarsi il miglioramento, ricordare che al modello del Ritter s'è
sostituito lo Zelier. Qui l'esame dei pitagorici è tenuto in giusti
limiti e sono respinte le fantasie incoraggiate nel '50 dai
frammenti di Filolao del Böckh per i quali i primi pitagorici
venivano a confondersi coi neopitagorici; la trattazione poi non
comincia arbitrariamente con Talete, ma fa intender prima le
premesse psicologiche e storiche della Grecia attraverso Omero,
Esiodo, la morale e la cosmogonia popolare. Un senso storico sicuro
domina nella costruzione: dagli jonici (natura materiale) agli
eleati (puro essere), ai pitagorici (numero); poi da Eraclito
(divenire indeterminato) ad Empedocle e agli atomisti (coesistenza
della immutabilità del reale e della natura molteplice che diviene)
fino ad Anassagora (che nel vecchio pensiero introduce il principio
nuovo, il Nous): è colto e seguito con finezza d'analisi tutto il
processo dialettico che portò da Talete a Socrate.
Su Socrate abbiamo il suo saggio del 1854 e la traduzione variamente
annotata dei Memorabili; ma vi ritornò piú volte e tra i suoi
manoscritti vi sono importanti appunti per una nuova edizione dello
studio. A proposito di Socrate nacque tra il Bertini e lo Spaventa
una polemica assai violenta in cui bisogna riconoscere che il
napoletano incorse in alcuni abbagli determinatigli dalla fretta, e
si abbandonò a tratti di sdegno alquanto acceso non tanto per errori
presunti o veri del Bertini quanto per la sua intolleranza in sede
di terminologia hegeliana. Per esempio, l'esegesi del Bertini del
concetto di Dio in Socrate, distinto da ogni residuo di metafisica
materialistica e inteso piuttosto come uno sviluppo dell'ambiguo
principio di Anassagora che si offrirà poi a Platone per la dottrina
delle idee e per l'universalità della conoscenza, resta valida anche
dopo le critiche dello Spaventa. Per questi studi e per la nuova
interpretazione delle idee platoniche il Bertini resta davvero uno
degli studiosi piú diligenti del pensiero antico.
Anche i lavori di filosofia moderna, gli studi su Cartesio, Locke,
Hume, Kant, e la Storia critica delle prove metafisiche di una
realtà sovra-sensibile si possono rileggere oggi come veri modelli.
Per lui, come per l'Erdmann, la filosofia moderna incomincia con
Cartesio; si differenzia dalla filosofia greco-romana e medievale
perché è critica, mentre quella è dogmatica; si prepara in Italia
con Bruno, Telesio, Campanella e Galileo; in Inghilterra con Bacone,
attraverso il risorgimento delle scienze che infrangono i vecchi
limiti aristotelici, e la liberazione della filosofia dalla
teologia. Muore la Scolastica e si torna al libro eterno della
natura e della coscienza umana. Ma in Descartes, Malebranche,
Spinoza, Leibniz, Wolf, si tratta essenzialmente di critica delle
cognizioni e soltanto con Locke, Kant e i postkantiani si fa
quistione di critica della stessa facoltà di conoscere. Il Bertini
contesta in sede teorica la legittimità del problema critico
kantiano, ma riconosce in sede storica che da esso si sono svolte le
filosofie di Fichte, Schelling, Hegel, quelle che per lui
costituiscono il nuovo dogmatismo, essendo di necessità la filosofia
dogmatismo, ossia affermazione, fondato su basi criticamente
inconcusse. Da questo punto d'arrivo della storia deve muovere la
nuova teoria. La sintesi ricostruita faticosamente dal Bertini
storico attraverso l'indagine minuziosa dei problemi laterali riesce
dunque a risultati non disformi da quelli attinti quasi
contemporaneamente dallo Spaventa con una visione assai piú
semplificatrice e approssimativa.
7. Il corso della storia filosofica mentre gli affinava da un lato
il suo ideale morale gli faceva sentire piú acuto dall'altro il
bisogno di una teoria dello spirito che questo ideale giustificasse
razionalmente. Le considerazioni su Socrate del '54 corrispondevano
a questo programma e gli ardori del sentimento vi deformavano
persino la precisione d'osservazione tanto da consentire il
fraintendimento e la frettolosa esecuzione proposta dallo Spaventa.
Tutta la storia poi gli insegnava la decadenza del cattolicismo e il
tramonto delle dottrine rivelate: per veder chiaro in questo
problema il Bertini si dedica tutto alla critica religiosa.
L'impulso alla sua polemica si può trovare in fatti d'ordine
pratico; si tratta di esaminare la moralità della dottrina cattolica
nelle sue conseguenze politiche e il Bertini dagli spunti già
espressi nel '49 non tarda a conchiudere contestando
all'insegnamento della Chiesa ogni virtú educativa e rivendicando
alla morale il compito che altri assegnava alla religione. In
un'ultima fase la sua critica nega alla religione e alle varie forme
di fede ogni credenza, ogni validità conoscitiva, respinge le
dottrine rivelate, risolve la religione nella filosofia.
Nel 1861 furono pubblicati in Torino i tre dialoghi: La questione
religiosa136 che il Bertini fa svolgere tra un teologo e un filosofo
i quali pongono recisamente il dilemma tra cattolicismo ortodosso e
filosofia liberale, riducendolo nei suoi fondamenti all'opposizione
tra immoralità e moralità; infatti il principio essenziale proposto
dal filosofo è la necessità di non mentire a se stessi, di non
credere e di non affermare come certa nessuna cosa che non sia tale,
e il cattolico antepone invece al principio di veracità l'esigenza
assoluta di credere per la salute eterna anche quando non bastino
gli argomenti addotti, ossia anche quando si tratti di mentire a se
stessi. Alla prima posizione corrisponde in politica il liberalismo,
alla seconda l'assolutismo e il potere temporale.
Questo dilemma ritorna nella lettera del Bertini al Passaglia del
1863 dove la teoria dello Stato abbozzata rimarrà, nel 1876, il
fondamento del libro Il Vaticano e lo Stato.
Poiché il Passaglia aveva sollevata la questione dei rapporti tra
Stato e Chiesa e andava propugnando sul Mediatore, per ispirazione
di Cavour, un regime d'accordo tra i due organismi, il Bertini
risale all'esame dei presupposti teoretici del problema, indagando
qual sia la vera religione e per conseguenza qual sia il vero Dio.
Due opposti sistemi dànno risposte logiche e coerenti a tale
questione.
Il sistema cattolico è il sistema del servilismo assoluto: se la
salute dell'anima dipende dall'adesione a certe forme e pratiche
rivelate e istituite da Dio in modo sovrannaturale, se organo di
tale rivelazione è la Chiesa, ne scaturisce senza equivoco che la
Chiesa deve organizzarsi in forma di monarcato assoluto. Si può
infatti parlare di regime costituzionale per un sovrano terreno,
privo di assistenza divina, ma per il pontefice la cosa è diversa:
egli realizza l'ideale vagheggiato da Platone: egli, operando per la
grazia celeste, non può trasformarsi in tiranno, e perciò non deve
essere costretto dalla materialità delle leggi. Le leggi sono
rimedio contingente, inevitabile, ai mali politici di uno Stato
imperfetto; in una società perfetta, fondata per ispirazione divina,
diventano inutili e dannose: nessuna legge vi può essere superiore
al papa, alla quale i fedeli abbiano diritto di richiamarlo, perché
la Chiesa come società non è i fedeli, non è la moltitudine
disgregata degli individui, ma ha la sua forma e il suo ordine
nell'autorità assoluta del pontefice che è legge vivente di vita
divina. Posto il dogma che tutto deve indirizzarsi alla salvezza
dell'anima, la politica viene a dipendere dalla morale, la morale
dal dogma. L'infallibilità del papa in morale è infallibilità in
politica, per chi guardi l'essenza delle dottrine e non i contorti
artifici in cui si cerca di confondere le conclusioni inesorabili.
Pertanto non è concepibile accanto ad una Chiesa libera un libero
Stato, poiché la Chiesa tende per sua natura a render vana la
libertà degli altri.
Bisogna dunque opporre al sistema cattolico ortodossista un sistema
ugualmente netto ed organico senza accettare negazioni o compromessi
dove questi non si possano comportare. Il liberalismo laico del
Bertini a questo punto, nonché professarsi ateo o indifferente, pone
quale principio d'azione la religiosità, ma non sente alcun bisogno
di fissare la personalità di Dio per dedurne una legge umana. Il
Bertini dice che di Dio non importa accertare l'esistenza la vera
religione essendo il puro amore della verità congiunto alla pratica
della giustizia e della beneficenza, rende omaggio a Dio anche chi
nega la sua esistenza, se è convinto di rendere con ciò un omaggio
alla verità. Qui è chiaro che il vecchio teismo mistico del '46 è
stato definitivamente respinto dal Nostro, e non si può piú neppure
parlare come parla il Gentile di teismo filosofico. Qui il teismo è
ridotto al senso dell'infinità immanente negli uomini, è l'ideale
umano che trascende l'individuo perché si realizza come amore
nell'umanità. Nel ricercare la verità, nell'affermare ciò che vi è
nell'uomo di piú universale, l'umanità si rende veramente divina. La
religione per il Bertini viene a consistere nella «veracità, nel
rispetto assoluto della dignità umana, della libertà di coscienza,
nella mitezza d'animo, nella compassione operosa verso i miseri». Ma
questi sono i valori e i principî in nome dei quali è sorto lo Stato
nazionale: dunque lo Stato, sintesi degli ideali moderni, è Chiesa,
«è la vera Chiesa della vera religione, del vero Dio». Non
indifferente perché nato dal progresso, si batte per il progresso e
per la filosofia della libertà che è la sua religione. Qui è
evidente come il Bertini resti a mezza strada tra lo Stato liberale
e lo Stato etico panteista. Il risultato del concetto del Bertini è
che lo «Stato-Chiesa della libertà accoglie nel suo seno tutte le
libertà, non è intollerante se non contro l'intolleranza, non
perseguita altro che i persecutori». Nella funzione morale dello
Stato vien trasferito dal nostro autore il proprio tormento
religioso, e pertanto l'idea piú che adeguarsi a un reale principio
di organizzazione statale afferma una posizione trascendentale e
un'esigenza di lotta intima. Cosí, nei suoi elementi religiosi va
intesa la critica della formula libera Chiesa in libero Stato.
Lontano dalle aberrazioni nebulose del Vera, il Bertini combatte non
Cavour, ma la concezione speculativa che i cavouriani proponevano in
difesa della formula. Nessuno può negare l'importanza storica della
politica ecclesiastica di Cavour che permetteva l'inserirsi
dell'Italia in un equilibrio europeo, trovava un modus vivendi
nazionale e internazionale, preparava l'assorbimento dei cattolici
nello Stato, offriva agli altri popoli cattolici garanzie che non
compromettessero la nostra dignità. Questo programma era nel suo
tempo cosí difficile e radicale che l'aver trovato le forze per
sostenerlo è una delle prove piú decisive che abbia dato il ministro
della sua genialità. Ma l'atteggiamento stesso di conciliazione di
Cavour presupponeva il formarsi di una corrente di pensiero che
osasse in sede filosofica dar battaglia e sconfiggere coi mezzi
della dialettica un'ideologia di cui si veniva in sede politica
preparando la liquidazione a lunga scadenza. La critica del Bertini
costituiva dunque un'anticipazione della cultura, chiariva le
premesse ideali, salvava la dignità della logica dai pericoli
dell'intrigo. In altri termini, al rischio della diplomazia doveva
corrispondere una difesa preventiva, senza sfumature e senza
riserve, di una parte almeno dell'opinione pubblica: se l'eresia
veniva a patto col dogma non poteva però lasciar supporre corrotta
la propria natura ideale. Soltanto cosí l'equivoco del Passaglia si
sarebbe risolto a tutto suo danno, e la rivoluzione italiana avrebbe
salvato il suo contenuto.
8. Nel processo del pensiero bertiniano la negazione dello Stato
cattolico, platonico, assoluto si deve svolgere sino a diventare
negazione del sistema gnoseologico cattolico e del concetto di Dio
quale è dato dalla Chiesa. Il corso di questo processo si segue
agevolmente dal '60 al '70. Il Bertini tenta di costruire in questo
tempo la nuova logica che possa giustificare la sua metafisica.
Nel '66 ripetendo agli allievi la prolusione sulla Storia della
Filosofia pronunciata nel '47, ne corregge la sostanza, afferma
senza incertezze il proprio razionalismo, evita ogni confessione di
teismo, rinuncia all'antico dilemma tra teismo e nullismo e attenua
la critica panteistica che dominava nella prima edizione.
Nella Storia critica delle prove metafisiche di una realtà
soprasensibile, esposti e discussi accuratamente gli argomenti
metafisici da Senofane al Gioberti, si accettano come valide alcune
proposizioni non interamente contrarie allo spirito della vecchia
metafisica, ma costituenti in un certo senso la mediazione tra la
vecchia e la nuova.
Il Bertini respinge il teismo mistico, accettando dal Leibniz il
sistema delle monadi come moltitudine infinita di enti pensanti (e
perciò esistenti spiritualmente, realmente, assolutamente) capaci di
rappresentarsi in qualche modo l'universo e perciò partecipi
nell'infinità propria della infinità degli altri. Invece elimina
dopo profondo ripensamento i due concetti leibniziani di creazione e
di annientamento, ritenendo che provengano «da pregiudizi
invincibili o da ripugnanza a mettersi in aperta contraddizione
colle credenze comuni troppo rispettabili per un uomo il quale, come
Leibniz, recava nella trattazione delle questioni religiose e
filosofiche la destrezza del diplomatico, il senso pratico dell'uomo
di mondo e nutriva nel fondo dell'anima qualche speranza che la sua
filosofia potesse esercitare un'influenza riformatrice sugli uomini
del suo tempo».
Ora credo anch'io, col Gentile, che sia arbitraria questa
interpretazione di Leibniz e che veramente i concetti di creazione e
di annientamento nel sistema leibniziano abbiano l'essenziale
funzione di ridurre il mondo all'unità vivente di un Dio operante.
Ma qui non è il luogo per interpretare Leibniz, mentre il Bertini
vuol sostituire al mondo di Leibniz che è ancora qualcosa di
immediato e di naturale il suo mondo di razionalità e di
riflessione. Egli è dunque al di là del teismo anche se per ora non
ne esclude esplicitamente il concetto: nel suo sistema Dio non sta
piú a far nulla. La sua funzione sarebbe di predominare, di
comprendere nella sua intelligenza la pluralità infinita delle
monadi, ma in questo senso ogni monade è Dio, se realizza, come si è
detto, il concetto dell'infinito in sé ed ha la massima realtà in
quanto si rappresenta l'universo (che cosa è per il Bertini
rappresentarsi se non comprendere nella propria intelligenza?) E
allora questo Dio non è affatto predominante, anzi non è Dio se non
in quanto è monade.
Tale infatti è il pensiero intimo del Bertini che tende a negare il
trascendente e a risolvere in intelligibilità il sovrintelligibile
giobertiano (che resta, come disse lo Spaventa, limite insuperabile,
finità dello spirito o esplicazione infinita ma non sviluppo di una
essenza implicata, sostanza e non soggetto). Cerchiamone gli
elementi nella polemica contro il cattolicismo e contro la filosofia
della credenza. Nelle Lettere sulla Religione (1870) la conclusione
fondamentale è che le proposizioni della gnosi cattolica non
ritengono alcuna intrinseca credibilità, poiché la credenza è
un'illusione se non si risolve nella coscienza riflessa, e la fede
in un sovrintelligibile è una rinuncia dello spirito. Infine nel
1874 troviamo una discussione precisa del concetto di esistenza di
Dio e, vincendo le ultime repugnanze sentimentali, il Bertini giunge
a una negazione netta. La sua morale può ormai fondarsi su altre
basi, anche se per ora non si chiariscono tutte le conseguenze e
affiorano qua e là elementi del problema sorpassato, come il dubbio
sull'immortalità dell'anima individuale. Ma importa in questo saggio
soprattutto l'affermazione netta che per trovare la verità «si debba
puramente e semplicemente filosofare» poiché non c'è «nell'uomo
altra facoltà del vero che la ragione».
Non v'è dualismo tra fede e scienza, religione e filosofia. Qui il
Bertini anticipa e conclude i motivi che saranno ripresi
inorganicamente dal modernismo, come nelle Lettere sulla Religione
sono anticipati gli elementi della moderna critica biblica. Dopo
Gioberti e Lambruschini egli conchiude nel modo piú rigoroso il
periodo eroico del modernismo italiano che doveva e poteva nascere
solo nel momento in cui la creazione del nuovo Stato apriva la mente
ai dualismi più pericolosi e al problema della laicità.
Come nella vita individuale il filosofo ha superato il momento
religioso per trovare la sua religione nella sua filosofia, cosí nel
corso della storia «la scienza diventerà un giorno la sola
religione, la sola legge, la sola consolatrice degli uomini, e
adempirà a questi uffici in modo ben piú compiuto, piú efficace e
piú costante che non abbiano fatto infino ad ora tutte le religioni
positive del mondo». Secondo questi concetti direttivi doveva esser
scritto tutto un nuovo corso di filosofia, ma sventuratamente egli
riuscí a pubblicarne soltanto l'introduzione, che è tra i suoi
scritti piú convinti e commossi. La Logica, edita postuma dal
Capello, non presenta invece soverchio interesse perché si limita a
una limpida esposizione dei principi aristotelici, e, per i supremi
problemi gnoseologici, su cui la logica formale si fonda, l'autore
rimanda ai volumi che doveva seguire di psicologia e di metafisica.
Ma, senza fermarsi a rimpiangere e a costruire delle ipotesi,
abbiamo sufficienti documenti per rafforzarci nella nostra opinione
e non seguire l'errore dei critici che trattarono Bertini da
neoplatonico.
Scrive il Nostro nel '74 con storica esattezza: «L'età nostra è
dominata insieme da spirito di positivismo e da spirito di libertà:
fa d'uopo adunque che le credenze cercate siano positive e liberali
a un tempo». Dove è anticipato un mirabile inveramento e una
giustificazione storica di tutta la nuova corrente di idee, di
fronte alla quale impauriti si condannavano alla solitudine i vecchi
spiritualisti. Sin dal 1850 il Bertini aveva professato un suo
positivismo, inteso «come spirito di critica e di esattezza
scientifica» anche se egli lo chiamava piú gentilmente umanismo:
certo non aveva peccato di indulgenza verso la grossolana sicumera
del Mamiani e dei suoi discepoli. Ma il suo positivismo non rinunciò
mai alla filosofia. Poiché libertà e indipendenza, conquistate con
tanto sacrificio sarebbero vane senza «un sistema di cognizioni
profonde e ispiratrici di nobili sentimenti». Questo bisogno si
soddisfa solo filosofando e non già ripetendo materialmente dottrine
filosofiche passate, «senza darci la pena di intenderne il senso e
le ragioni». «Quand'anche la vera filosofia già si trovasse al mondo
o presso qualche antico o presso alcuno dei nostri contemporanei,
noi non potremmo volgerla a beneficio nostro se non
coll'appropriarcela intellettualmente, cioè col giungere alla nostra
volta a scoprirla e riconoscerla vera filosofando con metodo ed in
piena libertà di spirito. Nulla adunque ci può esimere dalla
necessità di filosofare. Si tratta soltanto di opporre alle
metafisiche dogmatiche e materialistiche una metafisica vera. Poiché
Kant ha dimostrato che una metafisica è un bisogno naturale e
ineluttabile, e che la ragione umana, per usare le parole del
vecchio professore di Könisberg, mossa non da vana curiosità, ma da
naturale bisogno, si eleva sempre a tali questioni a cui
l'esperienza non può dare alcuna risposta». E la risposta, per il
Bertini, deve darla la ragione.
Nel 1871 il Bertini esamina la filosofia di Hegel e vi ritrova il
suo stesso bisogno di una metafisica dell'immanenza che abolisca
ogni residuo di misticismo. E, benché in questo momento il suo
pensiero non abbia la chiarezza che conquisterà nel '74, egli ci dà
su Hegel una pagina critica di valore gnoseologico definitivo. È la
critica di un italiano cui il cattolicismo ha appreso i valori piú
sottili della personalità e le sfumature piú caratteristiche della
storia. È una critica che muove dal concreto, contro lo schema,
anche se risente troppo i tormenti dell'asceta e un sapore di chiuso
caratteristico di chi, soffrendo la sua filosofia, ha conosciuto la
morale piuttosto come incubo e coscienza di diminuzione e necessità
di affetto che come superiore visione serena.
«Alle formole scolastiche dell'Eghelianismo (sic) sopravvive lo
spirito, e questo spirito ve lo esprimo in due proposizioni
fondamentali: l'una ontologica, la quale afferma che l'assoluto che
è il proprio oggetto della filosofia non è separato dal divino, ma
in questo vive e si muove e fuori di questo non sarebbe che una vana
astrazione: l'altra proposizione è metodologica ed afferma che alla
conoscenza certa dell'assoluto non si arriva di primo slancio per
mezzo di una pretesa intuizione intellettuale, come voleva
Schelling, ma sí con un metodo dialettico il quale, procedendo da
qualche cosa di assolutamente necessario e non movendo un passo
innanzi se non per forza di una necessità assoluta, riesca a
ripensare in modo concreto e determinato quello che è dato
nell'intuito come una astratta universalità.
«Questo spirito egheliano è quello che trapelando nelle dottrine
religiose rende noi moderni cosí ripugnanti a quel
semiantropomorfismo, per cui si considera Dio come sopra e fuori
della vita dell'universo, interveniente di tratto in tratto ad
interrompere il corso delle sue leggi con azione sovrannaturale e
come rivelantesi ab extrinseco alla mente umana. Questo spirito è
pur quello che ci rende alieni da ogni misticismo e non ci lascia
prendere interesse se non all'uomo e alle cose umane. All'antico
detto del comico – Homo sum; humani nihil a me alienum puto – noi
potremmo sostituire quest'altro motto – Homo sum; quicquid non
humanum est a me alienum puto –. A questo spirito è pur dovuto il
grande interesse che hanno per noi gli studi storici. Ammesso che
l'assoluto non si manifesti se non nell'uomo e nello svolgimento
storico della coscienza umana, è chiaro che la massima e piú copiosa
sorgente di cognizione filosofica è la storia; essa sola ci può far
conoscere in modo vivo e pieno quello che vi è nella natura umana, e
mostrarci in questa un riflesso della divinità.
«Gli stoici definivano la filosofia, scientia rerum divinarum et
humanarum. Noi moderni dovremmo piuttosto dirla, scientia rerum
divinarum in rebus humanis.
«Ma se lo spirito della filosofia egheliana vive ancora al presente
e, a loro saputa od insaputa, governa le menti di coloro che pensano
e cercano il vero negli svariati campi della scienza, il sistema
nelle sue varie forme è caduto e la sua pretesa di costrurre a
priori il mondo della natura e il corso della storia umana si è
chiarita vana e ridicola».
Io confesso che sarei tentato di apporre a questa pagina, una delle
piú vigorose che siano state scritte dai filosofi italiani moderni,
la stessa data del saggio crociano: Ciò che è vivo e ciò che è morto
in Hegel. Piú originale e piú indipendente che lo Spaventa, il
Bertini riesce a intendere per primo in Italia il significato
centrale di Hegel, senza ripeterlo servilmente, anzi negandone la
parte caduca. Allo schematismo che vizia il sistema egheliano egli
sostituisce la concretezza di esperienze del suo mondo morale.
L'immanenza divina è da lui intesa con piú suggestiva verità umana,
con piú complesse, anche se imprecise, risonanze affettive.
Inserendosi nella speculazione italiana l'esigenza ch'egli avverte
dominante è la determinazione del concetto di individuo e di
personalità; perciò, pur fondandosi su una metafisica superiore a
Leibniz, ne accetta l'idea di monade e professa come suo ideale
l'uomo-Dio, non volontà anarchicamente tesa verso l'assoluto e
l'irrazionale, ma martirio di critica che tende alla verità. In
questi risultati non sarebbe ingannevole riconoscere un punto di
sosta dal quale dovrà proseguire la via maestra della nostra
filosofia.
9. Invece il Bertini volle legare il suo testamento alla patria e
concludere con un'opera di politica, Il Vaticano e lo Stato, la sua
polemica religiosa. Egli raccomanda allo Stato nella lotta contro la
Chiesa un'opera che parrebbe troppo superiore ai limiti
imprescindibili del liberalismo. Ma saremo piú nel vero e non avremo
altra ragione di stupore intendendo quest'ultimo saggio come il
libro di morale offerto non allo Stato, ma agli italiani; come quasi
contemporaneamente agli italiani capaci di intendere indirizzavano
Sonnino e Franchetti la loro parola d'intransigenza e di aspra
negazione contro l'ottimismo conciliatorista di Padre Curci. Il
Bertini, spirito religioso, può suggerire tutto un programma
d'azione per vincere la religione con le sue stesse armi. Basta
ch'egli si confessi. Ritornando ai motivi originari, che avevano
indicato nell'Ornato l'inizio del processo laico, egli oppone ancora
una volta al Sillabo lo spirito del Vangelo, al cattolicismo il
cristianesimo. Rinunciando al dogma, salva la morale biblica e lo
spirito di sacrificio. Anche l'eresia e il mondo moderno dovrebbero,
per il Bertini, parlare il linguaggio dell'amore, e il catechismo
laico potrebbe aderire ai moti e alle confidenze piú intime e
feconde dello spirito. Purtroppo questo insegnamento eretico e
rivoluzionario cadeva a vuoto nell'Italia inguaribilmente neoguelfa.
Torino, febbraio 1923.
RICORDI DI UN REAZIONARIO137
Si può immaginare G. B. Casoni nel secolo XIII incerto tra la
tentazione di arruolarsi con Simone di Monfort per far strage di
Albigesi e il prudente pensiero di vestir l'abito domenicano, dacché
ai Domenicani era stata affidata l'inquisitio hereticae pravitatis.
In questo dilemma si riconoscono i suoi limiti e il suo stile.
Vissuto nel Risorgimento, con milizie papaline e chiostri inerti se
non addirittura semiliberali, volle essere giornalista austriacante
per appagare la sua sete di lotta ed ebbe l'animo di un fante
crociato. Come giornalista trovò facile fortuna: la sua attività
occupa tutto il secolo e non è delle piú umili; amico di Don
Margotti, tenuto in considerazione da Thiers, da Montalembert e da
Veuillot, prediletto da Pio IX tra gli scrittori laici del
cattolicismo, incominciò redattore dell'«Osservatore Bolognese»
prima del '59 e fini a dirigere l'«Osservatore Romano» e a
procurare, per il suo atteggiamento battagliero, noie ininterrotte e
rimostranze feroci della diplomazia internazionale presso la
Segreteria vaticana. Ma questo suo essere stato cinquant'anni in
campo138, all'avanguardia della reazione, a sperare l'impero di Pio
IX e a vederne il tramonto, a consigliare intransigenza a Leone XIII
e ad assistere il dogmatismo di Pio X, dà alla sua vita un colore
d'avventura e rende singolare la sua esperienza, che dal '48 giunge
sino alla preparazione della guerra europea e che egli ci ha voluto
descrivere, prima di morire, in un libro di ricordi cui non si
saprebbero trovare riscontri per vivacità e originalità. Ma di tanta
storia che gli è passata davanti egli non ha voluto vedere che la
cronaca, e nella sua fede, cosí sicura che non si indugia neanche a
professarsi, ha costantemente rifiutato di prendere interesse a
drammi d'idee o a incertezze di passioni che un cattolico autentico
deve aver già risolti e giudicati per sempre, tranquillo che il
futuro nulla possa aggiungere alla conosciuta rivelazione. Casoni ha
fatto del mondo un chiostro da cui anche i fantasmi sognati e le
notturne apparizioni tentatrici sono bandite e, assente il dubbio,
la lotta conserva una maestà pacifica e inesorabile, e un ordine
sistematico di pubblica amministrazione. Le suggestioni della lotta
di idee e dei drammi cosmici derivano dalla circostanza totalmente
metafisica che l'uomo lottando con gli altri lotti con se stesso e
nella vittoria rechi il dono di un attimo di tregua all'autocritica
dilaceratrice: invece le confessioni del nostro giornalista
austriacante mancano affatto di tali dualismi dialettici e riescono
l'elenco riposato di statiche affermazioni. I fatti sono seguiti con
la curiosità dell'erudito, e guardati con obbiettiva indulgenza o
con bonaria canzonatura anche quando un vero mortale, non cosí
metafisicamente convinto di rappresentare la spada terrena dell'idea
divina, troverebbe la propria contraddizione e lo scorno della sua
debolezza. La narrazione procede costante su uno stesso piano, con
palese indifferenza, in un tono tra scettico e dogmatico, e la sola
varietà è data da una diplomatica attenzione verso le persone e da
una dilettevole copia di aneddoti. Ora con tale sicumera dovrebbe
contrastare il tono dimesso del ricordo personale, senonché la piú
elementare malizia scopre facilmente l'equivoco per cui il Casoni
parla «della sua modesta e umile persona», proprio quando non
tralascia il postumo ripicco coi suoi antichi denigratori e nota con
bonaria indulgenza e con estrema diligenza i proprii successi e le
circostanze in cui eccelle il suo valore quasi se ne compiacesse
soltanto per amore della causa. Insomma la vanità umana dello
scrittore è piuttosto aiutata e nascosta che dimenticata nella
rigidezza del cattolico e la presenza dei motivi dogmatici vi
aggiunge anzi un tono secco e ascetico che è piuttosto originale che
ingrato. Cosí anche lo stile conferma la struttura psicologica
semplice e lineare dell'uomo. Sono gli elementi narrativi che
alimentano la monotonia del libro, come il gusto del particolare
allieta il freddo dogmatismo del pensatore; le osservazioni
psicologiche nascono col tono del sarcasmo e della stroncatura,
adeguate secondo un punto di vista di amministrazione e di cronaca;
le definizioni risultano palesi, l'aneddoto dato come
esemplificazione non disperde il processo quasi sempre dichiarativo
del periodare, il tono dell'apologia e della polemica è vivace,
senza sottintesi e senza sfumature. L'uomo è tutto di un pezzo, il
libro non può avere altri pregi fuor della accuratezza per cui la
fotografia riesce incisiva; dove si mettono in scena altre persone
manca l'interesse fantastico per una ricostruzione drammatica, ma il
ricordo o il dialogo, ingenuamente immediato, non appaiono meno
suggestivi.
Si legga questo ritratto di Minghetti che non è meno preciso di
quello scritto da Petruccelli Della Gattina ed ha i pregi della
passione da cui è dettato
«Se Marco Minghetti fosse sempre stato alla opposizione, e non fosse
mai stato ministro, avrebbe davvero immortalato il suo nome, poiché,
come ha detto Emilio Castelar, sul banco del deputato si veggono le
cose diversamente da quelle che si veggono nello scanno del
ministro.
«Colla copia delle sue cognizioni, colla facilità della sua parola,
colla gentilezza dei suoi modi, Marco Minghetti, sarebbe stato un
capo d'opposizione rispettato e temuto e avrebbe potuto essere non
poche volte il padrone della situazione e l'arbitro dei destini di
qualche ministero.
«Ma egli volle essere ministro e anche presidente del Consiglio dei
ministri. Se sempre dimostrò profondità d'ingegno e vastità di
cultura, non si dimostrò fornito di quel tatto pratico e di quel
criterio politico, che, piú che l'ingegno e la dottrina, formano i
veri uomini di Stato.
«Del resto egli aveva intravveduto la sua potenzialità intellettuale
e politica, poiché sarebbesi appagato di essere uomo di consiglio e
uomo di cattedra» (pp. 27-28).
Invece la passione non gli fa velo nel giudicare Cantú, per il quale
egli ci offre invero un modello di arguzia psicologica e di placida
canzonatura:
«Secondo me, Cesare Cantú ha compiuto un lavoro colossale e ardito
colla sua Storia Universale per quanto siasi detto che essa non è
che un raffazzonamento di fatti e di documenti piú che una ragionata
coordinazione degli eventi e delle loro cause.
«Ma bisogna, secondo il mio debole avviso, considerare che egli fu
primo nel concepire e nell'effettuare sí ardita impresa, come è da
considerare che Cantú cominciò a scrivere troppo presto, cominciò a
diciotto anni e quindi non ebbe il tempo di pensare.
«Fu scrittore, ma non fu pensatore» (p. 90).
Ma le pagine piú suggestive del Casoni sono per certo quelle che nel
1907 egli scriveva sulla rivoluzione italiana del Risorgimento. Come
il combattente non s'è placato, lo storico non vuol vedere piú in là
di ciò che ha giudicato come testimonio e rifiuta un avvenire che
non riporti al mondo tramontato. La storia che diverge dalla linea
maestra della tradizione pontificia è stratagemma provvisorio di
eretici e truffa di diavoli. Casoni non ha bisogno di fare il
processo alla rivoluzione, gli basta vederla nel modo piú
dilettevole frantumarsi in aneddoti.
Perché caddero i Borboni?
«Il regname delle Due Sicilie dava ogni anno al Papa una chinea in
segno di suo vassallaggio e di riconoscimento dell'alta sovranità
della Santa Sede sopra il Regno di Napoli.
«Quando Pio IX esulò a Gaeta, e fu accolto con tanto onore dal Re
Ferdinando II, questi domandò al Papa di volere liberare il suo
regno da tale prestazione.
«— Come si fa a dire di no, – rispose calmo, ma impensierito, Pio
IX.
«Il Regno delle Due Sicilie da allora in poi non diede piú la chinea
al Papa, e fu libero da ogni subordinazione al medesimo. In cambio
dovette però fra breve il Re Ferdinando dare il Regno alla
rivoluzione, e perduta la vita per un delitto perdeva il trono pel
giovane suo figlio e per l'intera sua famiglia.
«Ciò che è del Papa è di Dio e ciò che non si dà o si toglie al
Papa, non si dà o si toglie a Dio» (p. 93).
Qui la morale non è sovrapposta aridamente, ma nasce spontanea
coll'aneddoto stesso ed ha tutte le suggestioni dell'ingenuità. Come
si spiega il successo dei Mille? C'è anche per questo la favoletta
piú convincente:
«L'antico esercito napoletano si sfasciò in breve, parte tradito dai
generali e parte sbandato per mancanza di ordini e di duci. A ciò
contribuí piú l'oro che il ferro, ossia poterono assai i biglietti
di banca piú che l'onore e il giuramento di parecchi capi
dell'esercito delle Due Sicilie.
«Fra l'altro si raccontò subito che il generale Lanzo, comandante
delle forze borboniche a Palermo, cedé la piazza a Garibaldi per
dugentocinquantamila lire, ma si aggiunse ancora, e non fu mai
smentito, che i biglietti di banca, dati al generale fedifrago,
erano tutti falsi».
Cosí con Garibaldi il Casoni non vuole riconciliarsi a nessun costo
e la ferocia con cui lo ricorda a venticinque anni di distanza dalla
morte è addirittura drammatica. Non può avere rispetto, non odio per
i nemici della Chiesa, e mostra molto piú ragionevolmente e
freddamente disprezzo:
«Il grido emesso da Garibaldi Roma o morte fu soffocato ad
Aspromonte, e fu per un momento ripetuto prima di Mentana poiché a
Mentana l'eroe dei due mondi non si trovò presente al combattimento,
come non si trovò a Castelfidardo il generale Cialdini, ad onta che
fosse poi chiamato l'eroe di Castelfidardo, pomposo titolo da lui
meritato come Garibaldi poteva meritare quello di eroe di Mentana,
per avere questi due eroi brillato per la loro assenza dai luoghi
della lotta e nell'ora della battaglia» (p. 91).
Del governo italiano tenuto in Bologna dopo il '59 parla cosí:
«I nuovi venuti fecero tosto comprendere quello che era per essi
l'abolizione della tirannide papale e l'intronizzazione della
libertà liberale.
«Dico libertà liberale, perché essa è ben diversa dalla libertà
naturale, essendo che pel liberalismo la libertà è un mezzo. Non è
uno scopo, ed è un diritto pei liberali, mentre è una parola pei non
liberali. D'altronde era molto tempo che in Bologna non erasi goduta
quella libertà che per secoli godettero i vecchi bolognesi, mentre
poi era stata fino allora amplissima la libertà di dir male dei
preti, del Papa, e del suo governo» (p. 53).
Diremmo che in questi anacronismi si nascondano i piú piacevoli
esempi di stile: certo un semplificatore formidabile e dignitoso
come Casoni non è sorpresa di tutti i giorni e chi volesse opporgli
la propria ironia urterebbe invano contro la sua impassibilità. Del
resto nei suoi piani d'azione c'è qualcosa di piú che l'applicazione
della morale alla politica: nella lotta contro il nuovo governo ha
la sua parte anche la diplomazia:
«Noi vedevamo che con l'astensione dall'azione governativa si
sottraeva alla rivoluzione dominante la forza morale e la
cooperazione materiale di non pochi milioni di cittadini italiani»
(p. 179).
Gioverà chiudere questi cenni di presentazione con un esempio di
perfetto ragionamento logico per cui il Casoni ferma decisamente il
suo edificio intellettuale e si giustifica quasi commossamente come
italiano e come uomo oltreché come cattolico:
«Il non expedit è stato per molto tempo la base d'operazione, come
diceva un dotto prelato, del movimento cattolico in Italia, il quale
non poteva avere, quasi sto per dire, quella libertà d'azione e
quella vastità di espansione, che ha e può dare in altre nazioni e
in altri paesi, essendoché, trovandosi in Italia la sede del Papato
Romano e il centro della Cattolica Chiesa, non si possono mai
disgiungere le condizioni politiche e sociali dell'Italia da quelle
del Papato, istituzione mondiale e cosmopolita, che ha diritti,
doveri, interessi, ideali e finalità che si stendono pel mondo
intero e che hanno per oggetto l'intera umanità.
«Ecco perché noi sostenevamo fin dal principio della nostra
resistenza e della nostra lotta che la libertà civile e
l'indipendenza politica e l'unità nazionale dell'Italia non poteva
essere disgiunta dalla libertà effettiva, dall'indipendenza assoluta
e dall'unità morale della Chiesa e del Papato. Ecco perché noi, in
base alla storia della Chiesa e dell'Italia fissammo per condizione
fondamentale del nostro movimento cattolico italiano questa grande e
incontrovertibile verità storica: "Il Papa è non solamente il capo
spirituale dell'Italia, ma ne è ben anche il capo politico". Non vi
fu mai infatti nessun assetto politico e sociale dell'Italia senza
l'intervento del Papa: basta ricordare la grande epoca dei Comuni
italiani.
«Questi furono l'opera meravigliosa dei Papi, che fece godere
all'Italia quella libertà civile, quella grandezza nazionale e
quell'agiatezza economica, che tutte le altre nazioni civili non
hanno avuto che dopo parecchi secoli.
«In ciò stava la ragione storica della nostra divisa cattolici e
italiani» (p. 182).
Se anche questo pensiero è un sogno, si deve riconoscere che il
Casoni rimase fedele e coerente al suo sogno per tutta la vita,
inesorabile di fronte ai carbonari come di fronte ai questurini139.
UN PRUSSIANO TRA I BRIGANTI140
Pasquale Turiello è il professore che ha cercato il suo ideale nella
caserma. Cosí il suo stile è talora ferrigno, violento, impettito,
preoccupato di cose piú che di persone e altrove maestoso,
accademico, monotono, pedagogico.
L'ideale del professore Turiello è l'ordine tranquillo e definitivo;
la fede di Turiello militare è la rigorosa disciplina. Ai suoi gusti
spartani la cultura richiama subito il modello severo e consolante
di Roma. Mettete l'uomo nel mondo di Depretis e siamo in pieno
dramma.
In uno scrittore fiducioso nei propri studi e nell'importanza delle
tradizioni avite i motivi piú drammatici sembrerebbero nascere
necessariamente dall'ispirazione letteraria e ripetere il destino
dell'isolamento incompreso in mezzo all'ignoranza. Infatti Turiello
usa ogni cautela e mette le mani avanti già a partire dal metodo.
Scetticismo verso gli atteggiamenti dottrinari. Metodo sperimentale
in politica: conoscere e poi provvedere. Il primo volume della sua
opera (Governo e governati in Italia) contiene i fatti; il secondo
le proposte.
Ma di positivismo sperimentale non c'è che il metodo. Le aspirazioni
sono a un rinnovamento nazionale in senso eroico, tradizionale,
spiritualistico. La diagnosi dei mali e dei rimedi rivela
l'umanista, o diciamo pure l'educatore, con l'idea fissa di
riformare i caratteri attraverso la scuola spartanamente intesa come
collegio. Conforta il programma con un'osservazione pittoresca di
crudele ironia: nelle regioni meridionali la scuola ha l'efficacia
educativa che spetta nel Nord all'asprezza del clima e alle
difficoltà quotidiane della vita; bisogna che l'Italia impari nel
collegio la sua disciplina.
Orizzonti chiusi: nulla di moderno. Crediamo di sapere che
l'educazione si svolge fuori della scuola, che la fibra dei popoli
si forma nella lotta, nella libertà; Turiello ci oppone una fredda
diffidenza pregiudiziale, un cinismo retrivo. Quest'uomo è fuori
dallo spirito della rivoluzione francese e del Risorgimento e
condanna come dottrinale tutto il secolo XIX colpevole d'aver
favorita, migliorando le condizioni della plebe, la demagogia e la
decadenza dei costumi (arte immorale, femminismo, vincoli famigliari
diminuiti).
Questi spunti, come la filosofia autoritaria che ne deriva,
parrebbero di grande attualità e quasi anticipazioni di teorie
facilmente riprese quarant'anni dopo come originali: senonché
rimanendo in siffatto terreno di analogie il nostro discorso sarebbe
tuttavia generico.
La psicologia ci serba sorprese piú seducenti. Bisogna vedere lo
scrittore inteso a esprimere un'esperienza tutta sua, vicina,
regionale. Turiello napoletano, ma senza nulla di morbido; anzi
piuttosto saraceno, tutto felice di accentuare un'antitesi che
riesca una frustata per la razza degenere. Talvolta provinciale, con
la sicumera, il semplicismo, il gusto per lo schema proprio del
giurista: fiducia nelle leggi, disgusto per il popolo e per la sua
pigrizia. Questo distacco del pedagogo dai selvaggi del borgo natio
si venne facendo con gli anni piú acerbo ed esclusivo.
Col realismo attenuato di un professore di storia vede il Sud
travagliato nei suoi vizi borbonici, senza possibilità di salvazione
fuori di un regime che stia tra l'austriaco e il prussiano. Del
Risorgimento tiene l'effetto: l'organismo statale che ha bisogno di
essere rafforzato; l'esercito piemontese è ancora un ideale valido
se si deve istituire un dispotismo illuminato. Meglio Cavour che
Garibaldi; meglio gli eserciti nazionali che i volontari: il
lealismo monarchico aveva sperimentati troppi pericoli
nell'avventura del '60. Turiello ha il senso dell'autorità come
tutti i solitari, non il senso dell'azione. Vede il monarca,
rivestito delle sue attribuzioni: austero e benigno. La politica
nasce dall'alto. Le manifestazioni di libertà sono disordine. La
pratica borbonica gli suggerisce l'immagine dei custodi per definire
la funzione dei governanti. La lotta politica deve essere soppressa
dall'amministrazione.
Brigantaggio, camorra, mafia, bagarinaggio sono la realtà osservata
dallo scrittore; realtà preliberale, segno di inquietudine e
d'individualismo. La sola esperienza di lotta politica nel Sud è
data dal contrasto delle clientele. Le divisioni e le battaglie sono
feroci intorno alle attribuzioni e alle rivendicazioni di terre
comunali. Mentre la plebe si abbandona al brigantaggio, la
borghesia, abile nel manovrare gli strumenti offerti dalle
istituzioni liberali, si trasforma rapidamente in oligarchia e
s'accaparra i vantaggi del governo di Destra come di quello di
Sinistra. Il problema meridionale non è dunque nella povertà della
terra o nell'ozio degli abitanti: è un problema di governo.
Per il Turiello solo nell'Italia settentrionale possono avere
importanza dominante le iniziative individuali, invece nel Sud per
lo spirito dei popoli i grandi risultati si conseguono con la
prepotente autorità dello Stato e dei suoi rettori: la vita sociale
coincide con la legislazione.
Questo palesemente è risolvere il problema negandolo: come se in
tutti i tempi l'auto-governo non fosse la migliore scuola dei
popoli. L'individualismo e la libertà si guariscono con la libertà e
l'individualismo. Invece Turiello si adatta a considerare impropri
al clima italiano i governi democratici.
Vuole un socialismo patriarcale, che abbia per caposaldi la scuola e
l'esercito, la burocrazia e la beneficenza. Misura del regime la
giustizia, non la libertà: questa sostituzione ci dichiara le
intenzioni dispotiche e retrive. L'economia di Turiello, messo da
parte il liberismo, ignora le esigenze del bilancio e del risparmio,
dell'industria e del capitalismo; e riduce il problema meridionale,
in omaggio al buon accordo e alla felicità dei cittadini, a un
problema di opere pubbliche.
Da queste premesse all'elogio franco e totale della burocrazia il
cammino è puramente deduttivo. Qui si svelano gli istinti piú
franchi e quasi uno spirito di difesa di classe. I ceti sociali, a
cui apparteneva Turiello, portavano alla nuova Italia doti di
severità e di lealismo : borghesia borbonica che s'era battuta al
Volturno nelle file di Garibaldi, per salvare il Sud dal dittatore e
riguadagnarsi un re vero.
Per la borghesia napoletana, cresciuta col senso dell'onore pubblico
e privato, con un rispetto religioso per l'impiego, il Piemonte era
il vagheggiato ideale prussiano: culto dell'esercito e del pubblico
ufficiale. Accettava l'unità come affermazione dell'ordine (fosse
pure il carabiniere) contro il brigantaggio del popolino che era
diventato strumento e sistema di governo, ultimo ripiego contro le
riforme. In queste condizioni di anarchia già si vedeva che la nuova
classe dirigente si sarebbe venuta formando parassitariamente,
lusingando i ribelli e combattendo le tradizioni, facendo pagare ai
conservatori le spese della demagogia. I ceti borghesi napoletani,
che in Turiello trovano lo scrittore della loro disperazione,
chiedevano al Piemonte una tirannide per difendersi contro avvocati
e tribuni che stavano ereditando dai cortigiani il dominio delle
folle.
Vige in questi conservatori il concetto della carica pubblica come
onore; il disprezzo per le indennità e gli stipendi. Alle pretese
dei consigli comunali oppongono fieramente che l'autorità viene dal
re. Nel senatore onorano il sacerdote infallibile della grazia
regale. La cultura umanistica, col gagliardo disinteresse che la
distingue, è ritenuta ancora una preparazione indispensabile al
reggimento dei popoli. Alla licenza dei costumi unico rimedio pare
il ritorno alla severità e alla concezione classica della giustizia;
la pena sia l'affermazione dello Stato; la pena di morte si
ristabilisca come segno di forza, di autorità, di austerità.
Da questa passione ci attenderemmo concezioni piú vive: idee più
coraggiose. Invece si ripetono le precauzioni del socialismo di
stato tedesco, si cercano le nuove classi dirigenti nella selezione
dei custodi: predomina il terrore del brigantaggio, la paura delle
masse popolari.
In luogo del decentramento, rigido controllo dell'amministrazione
centrale sul ceto dei governanti locali, che hanno soverchia
autorità. Con argomentazione perfettamente dispotica, che ha avuto
la meritata fortuna presso il piú recente dei demagoghi, Turiello
protesta che il popolo non chiede e non desidera libertà, ma
piuttosto protezione.
Il decentramento istituzionale è invece perfettamente consentaneo
all'istinto del nostro popolo, dal quale è nato esemplarmente
l'ordinamento della Chiesa, fondato piú sulle divisioni
istituzionali che sulle territoriali. Le funzioni specializzate
richiedono organismi capaci. La scuola decade se affidata a Comuni e
province. La beneficenza retta da istituti locali diventa preda
delle clientele: mentre sono i beneficiandi i migliori
amministratori delle opere pie costituite in istituzione organica
dal voto degli interessati.
Rimedio agli abusi sarà la giustizia amministrativa sotto le due
forme di giudici indipendenti dal flutto elettorale e di controlli
preventivi delle ingiustizie amministrative ed elettorali. Come
trovare questi giudici indipendenti? Con onesta logica di classe
Turiello li vede nei giovani laureati in legge, scelti da un
consiglio di senatori, posti al nobile e gratuito ufficio di
contrastare i sopraffattori locali! Le rigorose analisi
dell'osservatore pessimista sono addirittura dimenticate per le
consolazioni dei sogni del letterato.
Del Parlamento si constata la decadenza: la possibilità di dare un
solenne giuramento senza credervi, l'ostruzionismo, il disprezzo del
bene pubblico per il bene degli elettori, l'inguaribile
antimilitarismo sono i malanni e il disdoro della nazione. I governi
costituzionali si devono liberare dal parlamentarismo, le
prerogative sovrane si riprenderanno con vantaggio del popolo. Il
reazionario guarda persino senza sospetto l'ipotesi di un Parlamento
di competenti. Pur che nuove e legittime gerarchie succedano
all'insopportabile democrazia dell'autogoverno.
Pensando al risentimento e alle delusioni dell'orgoglio mancato in
chi voleva essere a ogni costo cittadino di una grande nazione, noi
ci spieghiamo questa polemica inumana contro il secolo XVIII e XIX.
Freme nei documenti che abbiamo considerati l'indomabile febbre
patriottica del professore di storia. Solo un letterato poteva
ammirare cosí smodatamente nell'abate Vincenzo Gioberti il maggiore
politico di Europa!
L'esasperazione, e la cieca fiducia, unite al pessimismo, gli
suggerirono profeticamente (quarant'anni prima!) i congegni e le
ideologie del perfetto regime paterno degli italiani. Giustizia
contro libertà, rappresentanza degli interessi, partito unico ossia
nessun partito politico, militarismo e imperialismo in programma,
Chiesa cattolica corona allo stato imperiale. Con questi risultati
si concorda bene il metodo di lasciare da parte l'economia per
pensar solo al carattere e alla scuola spartana. Anche il presidente
Mussolini giudica cosí e ha scoperto che la moderna scuola spartana
è il circuito di Monza.
Ma Turiello, innocente cafone umanista, serbava un altro stile e
un'altra serietà. Possedeva del suo paese una conoscenza meno
dilettantesca, più accorata. Credette d'avere trovato il suo uomo in
Crispi: s'inebriò di imprese coloniali, rivide Roma in Africa, la
terza Italia eroica e guerresca con Barattieri per Scipione. Era uno
sport accademico ma con il cuore di Catone, con un tragico fondo di
eroico, con la convinzione dolorosa che gl'italiani dovessero ancora
soffrire per tornare romani! Seppellendo i programmi Adua salva la
passione, e noi possiamo contemplare l'austerità del suo pessimismo
cordialmente, come un modello.
IL MISTICISMO DI LUIGI ORNATO141
Luigi Ornato, alfieriano di fronte alla rivoluzione francese,
vichiano contro la grettezza della cultura piemontese del suo tempo,
amico del Santarosa e del Balbo nel periodo di fermento
rivoluzionario e di prerisorgimento, è una delle figure piú
caratteristiche di romantico, cresciuto come un frutto fuori
stagione in terra allobroga. La fisionomia spirituale di Ornato tra
opposte esigenze e tra incertezze dell'alba di un secolo avventuroso
come l'Ottocento si può riassumere in questo paradosso: cattolico e
cristiano contro i sensisti, liberale contro i cattolici.
Tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, mentre
l'Ornato si veniva formando alla vita degli studi, si può dire che
quasi tutta l'Europa filosofica stesse subendo il kantismo, un
kantismo di cui si esageravano le pretese intellettualistiche come
se non fosse stato per l'appunto Kant a demolire il razionalismo
dell'Aufklärung e il piú ristretto dogmatismo del wolfismo. Ora
contro queste degenerazioni di schematismo intellettualista reagí
quel curioso movimento di spiriti e di costumi che fu il misticismo
a tinta neoplatonica, preoccupato di trovare addentellati nel
Seicento francese, e di cui il massimo rappresentante è il Jacobi.
Il merito dell'Ornato è di essere arrivato indipendentemente da
Jacobi a questa posizione di avanguardia che preparava la reazione
antirosminiana prima che nascesse Rosmini. In questo senso non si
comprende la posizione di Gioberti e di G. M. Bertini nel movimento
filosofico italiano se non li si ricollega all'insegnamento, che fu
su di essi efficacissimo, del misticismo ornatiano.
Negando i fantasmi della ragione astratta e le pretese del
criticismo, Jacobi e Ornato hanno il merito di riaffermare il
problema filosofico fondamentale che non si risolve con l'astratta
riflessione, ma con la vitalità concreta di tutto lo spirito. Il
loro torto sta nell'essersi limitati ad affermare la comunicazione
tra l'assoluto e lo spirito umano come ineffabile immediatezza che
non può avere valore filosofico. Ma questa esigenza sarà soltanto
risolta da Hegel.
Il misticismo di Jacobi e di Ornato è misticismo sentimentale, come
quello di Pascal, ardore del cuore, come nel Rousseau. Nel loro
sistema non ha posto la scienza, non ha posto il particolare. Ma
tutto è illuminato e derivato dalla comunicazione tra l'individuo e
l'universale. Lo spirito umano ne è fatto sacro, i valori della
morale e della vita ne sono giustificati. L'aspirazione centrale
mira a rendersi ragione della libertà. Il misticismo ornatiano non è
dunque un ritorno alle spiritualistiche nebbie medievali, non è
naturalismo platonico né dogmatismo alla Malebranche, è invece una
forma vigorosa di affermazione universale che viene dopo Kant non
soltanto cronologicamente, ma ne ha assimilato tutte le esigenze;
alla vigilia del Risorgimento il suo sforzo centrale tende alla
giustificazione dell'attività pratica. Vi si sente una ispirazione
direttamente cristiana del primo cristianesimo.
Il pensiero di Ornato nacque indipendentemente da Jacobi. Platone e
Rousseau sono i suoi autori. Egli si differenzia dal Jacobi nello
sforzo di non separare la filosofia dal resto dell'attività
spirituale, e farne anzi un centro onde tutto si avvivi. Padrone di
una cultura scientifica poderosa, non la lasciava dispersa
nell'empirismo ma allo studio della filosofia, come dice il Bertini,
allievo suo, «riferiva tutti gli altri come mezzi al fine». E non è
meno vigorosa la sua proposizione che la filosofia non consista in
una «mera speculazione della mente» ma in una pratica di tutta la
vita e si identifichi con la virtú. Questo concetto attinto
all'antichità che l'aveva espresso piú che con vera coscienza
riflessa col fervore di una passione etica (Socrate) è per la prima
volta trapiantato nel mondo moderno e introduce nel misticismo
sentimentale del nostro scrittore una profonda efficacia di praxis
politica. In teoria egli accetta la logica della scuola scozzese per
l'indagine del mondo esterno da noi percepito immediatamente nella
sua oggettività, ma pone al disopra di questa immediata percezione
l'intelletto, facoltà dei concetti che cerca di organizzare queste
idee sensibili senza però mai trovarne l'espressione ultima,
perfetta e assoluta, perché il vero è infinito e come tale
inconcepibile ed ineffabile. Vani sono dunque tutti gli sforzi del
formulismo per esporre le scienze more geometrico e bisogna giungere
ad una affermazione chiaramente teistica, di un Dio liberamente
creante! «Persuaso dell'impotenza della logica, – dice ancora il
Bertini, – movente da astratte generalità a dar fondamento alle
verità soprasensibili, cioè a farle accettare all'intelletto col
solo mezzo del meccanismo logico, e ritenendo tuttavia che la
filosofia ha per oggetto queste verità, cioè le idee di Dio, della
libertà e dell'immortalità dell'anima, egli dava loro un altro
fondamento ammettendo nell'uomo la ragione come cosa ben diversa
dalla facoltà del raziocinio e come immediata percezione del vero e
del soprasensibile, cioè di Dio, come ente vivente, libero,
intelligente, morale e provvido e dell'anima come principio
sostanziale libero, immortale, capace e degno di eterna felicità per
via della virtú». E, come il Jacobi, anche l'Ornato non vedeva via
di mezzo tra questo teismo e il nullismo.
Nella sua vita giovanile ci sono le premesse della sua esperienza
mistica. Un bisogno indomabile di azione non mai soddisfatto, il
sentimento ognora presente della mancanza di libertà personale
staccano a poco a poco l'animo suo dalla pratica, cui s'era votato
fanciullo con Balbo e Santarosa, per volgerlo alla contemplazione.
Sensibile ad ogni sventura nella finezza del sentimento suo, gli
pare di essere straniero fra i suoi concittadini. E si allontana dal
presente e si vota al passato con accenti dolorosi: «Io mi vo'
rammaricando entro me stesso e dolendomi della malignità della
fortuna la quale ha pur voluto che io nascessi duemila anni troppo
tardi, per lo meno». Sparisce dall'animo suo l'ingenito desiderio
della gloria e viene meno ogni speranza e ogni timore. Il suo
bisogno disperato di amicizia e di poesia è già la confessione
trepida della sua debolezza e della sua rinuncia.
Attraverso questo processo un animo di indomite passioni giunge
naturalmente all'affermazione di un trascendente. Eliminazione di
tutti i sentimenti che vorrebbero disperdere la facoltà
immaginativa, annientando ciò che sta alla superficie: un solo
pensiero va prevalendo sugli altri, gigante, un pensiero che non è
della realtà, ma deve avere tanta forza da superarla tutta per
trasportarti in un mondo tuo: e quel mondo, che era l'ideale,
fattosi concreto, sta ora in intima comunicazione con il tuo spirito
e tu in esso ti disperdi, quasi in adorazione.
Attraverso questo movimento fantastico si genera il misticismo di
Luigi Ornato. Filosofare e fantasticare ancora non si distinguono.
Il cuore dà l'emozionalità sua a questo mondo, ma non ancora
l'organizza. Assistiamo allo strazio di un'anima, non a un processo
di riflessione: «Nessun maggior dolore che d'aver sortito un'anima
cui l'operare è un bisogno e che per necessità non fa nulla». Fate
che penetri in questo mondo con la maturità del ripensamento un
senso di repugnanza alla troppa frammentarietà e subito l'ardore di
azione si teorizza come libera volontà; il senso panico
dell'infinito diventa contemplazione di Dio da cui si attinge la
serenità; la filosofia primordiale del buon senso si matura in
concezione purissima della morale come morale innata che si palesa
direttamente nella convivenza con Dio.
La vita e il carattere di Luigi Ornato sono totalmente in questa
soluzione mistica di un'alba romantica.
IL ROMANTICISMO CRISTIANO DI
DI BREME142
Tutti conoscono Pellico, e piú ancora Di Breme: «C'était un jeune
homme d'une taille fort élevée, et fort maigre, souffrant déjà de la
maladie de poitrine qui l'a mis au tombeau peu d'années après... Il
avait beaucoup de hauteur, d'instruction et de politesse. Sa figure
élancée et triste ressemblait à ces statues de marbre blanc que l'on
trouve en Italie sur les tombeaux du onzième siècle. Il me semble
toujours le voir montant l'immense escalier du vieux palais sombre
et magnifique dont son père lui avait laissé l'usage...»
Questo ritratto, scritto da Stendhal, ci offre un Di Breme da
leggenda, il cavaliere antico, la figura stilizzata del romantico
aristocratico. Ludovico Di Breme fu romantico fra i primi,
collaboratore e precursore del «Conciliatore», seguace del Sismondi,
di Madame de Staël, di A. G. Schlegel, apostolo delle fortune del
Byron in Italia. Ma il suo stile non è quello che Stendhal ci
farebbe sospettare; il moralismo la vince sul gusto, l'entusiasmo
sul senso dell'arte; piú che un sistema d'estetica si trova un
fervore generico di propaganda. Avverti qualcosa di pesante e di
pedante, una mancanza di riserbo e una fretta di espressione che non
ti aspetteresti dal fine uomo di mondo, dall'amico della Marchionni.
Il suo romanticismo riguarda il contenuto ed è un problema di
civilizzazione, piú che un'esperienza artistica; presuppone
sentimentalismo e polemica pratica. Scarsa novità dottrinaria v'è
negli scritti, né si potrebbe propriamente parlare di filosofia:
quel che c'interessa nel Di Breme, fuor della sua opera pregevole di
volgarizzatore, è il caso di coscienza di un subalpino alle prese
con l'arte, e di un piemontese sorpreso all'alba del Risorgimento,
mentre è intento a farsi una cultura letteraria.
Ludovico Di Breme ha respirato la stessa atmosfera spirituale che
descrivemmo a proposito della giovinezza di Luigi Ornato143 e il suo
destino fu anche piú incompiuto e frammentario perché non trovò
neanche pace in un forte sistema di misticità filosofico come il
traduttore di Marco Aurelio. In fondo la sua filosofia volle sempre
essere applicata e nelle sue inquietudini eretiche si sente già la
retorica nebulosa e l'oratoria monotona di Gioberti tribuno.
Anzi la sua individualità è proprio in queste debolezze, in questa
curiosa e alla fine poi suggestiva mescolanza di letteratura e di
politica, di apostolato e di mondanità. E le sue mediocri teorie
acquistano un senso nuovo guardate attraverso la luce di un
dominante moralismo. «C'est par sa littérature qu'une nation
naturalise chez soi le génie et la pensée de tous les temps et de
tous les peuples». Il suo romanticismo viveva di questa sete di
infinito, di universale, di internazionale. Dai tedeschi ha imparato
il concetto di una cultura e di una letteratura mondiale che nasce
direttamente dall'anima. «Onore a questa dottrina che pone il
focolare delle lettere e delle arti nel centro dell'anima e
riconosce nell'intelligenza umana un astro attivo e animatore, il
quale presta alla natura incostante assai piú che non ne riceva». E
questi accenti egli ha il merito di connettere col riconoscimento
esplicito dell'originalità del Vico.
Quando parla della necessità della rigenerazione di tutta la vita
italiana Ludovico Di Breme prospetta una concezione chiaramente e
integralmente religiosa.
La sua filosofia pratica deve sboccare per necessità in una
religione.
Insieme con l'esempio di Ornato egli è un'altra prova che il
romanticismo in Italia doveva svolgersi naturalmente toccando i
motivi della Riforma, e trasportando in letteratura aspirazioni
religiose. Tutto il romanticismo italiano prima di Manzoni fu
soprattutto cristiano.
A questa generica religiosità bisogna ridurre il significato
dell'idealismo del Di Breme che reagiva contro il razionalismo e il
sensismo, ma soprattutto provava insofferenza «contre les bornes
étroites de la science».
Con lui – e nonostante l'entusiasmo – ricompare anche il pensiero
della tolleranza quasi ad animare la polemica contro le pedanterie
delle scuole, contro le ipocrisie o quasi del patriottismo
nazionalistico e filisteo, contro le religioni superstiziose e
meschine. A Voltaire, in tutti i modi, voleva opporre il Vangelo,
non i dogmi.
Questa singolare religiosità – fra il decadente e il protestante –
rimarrà affatto caratterizzata una volta detto che il Di Breme
definisce l'ateismo il piú antipoetico degli stati d'animo. Bisogna
professare un teismo che nasca dai moti spontanei di un animo puro,
come disposizione interiore dell'anima. Qui il romanticismo
s'identifica col senso intimo della divinità, colle virtú eroiche,
con la poesia del cuore. Uno stato d'animo che avevamo esaminato
altre volte: religiosità contro religione.
«En nous eschaussant sur des grands mots, nous croyons nous
approcher mieux de la Divinité, nous appelons Dieu l'Etre des êtres,
le Modérateur Suprême, le Législateur des Mondes, le Dispensateur de
l'existence... Eh! sans doute, on ne sauroit jamais reconnoître
assez ces attribus divins: mais il est aisé de voir que ce n'en est
pas moins par une espèce d'enflure philosophique, et par effet d'une
vraie petitesse d'esprit, que nous recourons souvent à ces
ambitieuses périphrases et les substituons au simple et adorable nom
de Dieu.
«Il est assez prouvé que dans le pur théisme, vertu ne peut guère
signifier qu'une conformité des nos actions avec nos penchants,
soumise à un calcul plus ou moins prudent. L'homme, lorsqu'il veut
statuer des théories morales à sa portée, est reduit à devoir partir
de ses inclinations, de ses prédispositions intimes. En ce genre il
ne peut imaginer que d'après ce qu'il sent».
Qui si può avvertire il sottile verso per cui dalla religione
dell'immediatezza, dalla religione del cuore si passa alla morale e
alla politica.
«Chantons la Divinité, mais chantons-la d'amour et dans le charme
d'une sincère adoration; préludons par des hymnes d'espérance à ces
cantiques de bonheur, dont retentiront un jour les collines
éternelles».
Di fronte a tali espansioni l'egoismo diventa le crime
essentiellement anti-social.
«La vertu ne se rencontre que sur le chemin de ce renoncement à
soi-même qui a pour objet l'utilité generale... le véritable
heroïsme ne peut consister que dans le plus haut degré de ce mérite
social. C'est donc sur cette échelle qu'il faut mesurer le grand
homme».
Ecco come il romanticismo cristiano riesce a una morale della
simpatia e della solidarietà in senso attivistico e ottimistico. Il
patriottismo ne discende logicamente. «Et la patrie!...
créons-nous-en une d'abord pour des moeurs domestiques... la
politique respectera un jour cette touchante humanité des coeurs
italiens; car la politique n'est puissante que des données sociales
que nous lui présentons... Concitoyens! nos destinées sont notre
oeuvre».
Queste parole di sapore mazziniano recano la data del 1817. Era il
programma della rivoluzione che fallí nel '21144.
LE «MEMORIE» DI CESANA145
La politica dell'Austria, la Restaurazione, è valsa come reazione
per educare gli italiani? In questi argomenti le storie usano
comportarsi con tranquillo ottimismo: e per poco non fanno nascere
il Risorgimento direttamente dal confronto con i metodi
dell'Austria. Ma converrebbe guardare il problema da buoni laici,
piuttosto ignoranti di miti e di Provvidenza della Storia. L'idea
che la tirannide sia educativa ci repugna. La tirannide genera la
ribellione romantica o l'umiliazione plebea. Se nel Risorgimento si
ebbe altro, si ebbe nonostante la tirannide, per opera di
ineluttabili avvenimenti europei che trascinarono anche il nostro
popolo verso la vita moderna.
La reazione austriaca ha educato le generazioni che non potevano
vincere nel '48. L'Austria di Giuseppe II e i re borbonici avevano
avuto virtú di educatori: avevano preparato l'esercito napoleonico,
un'aristocrazia militare, specialmente meridionale che l'Italia non
aveva piú visto da secoli. Ma la parte migliore di questo esercito
trovò la morte in campo o ritornò come straniera sotto la
Restaurazione. Il tono della cultura italiana, che nel Settecento
aveva un valore europeo, fu rovinato dal disordine degli anni
napoleonici: il romanticismo del '21, reazione cristiana a
Napoleone, era in arretrato rispetto all'illuminismo lombardo del
secolo precedente; fu un prodotto delle avventure 1780-1810, anni in
cui non si studia, non si lavora, si vive di imprevisti e di
retorica. È questa la generazione dei padri degli eroi del
Risorgimento. Una generazione che cominciò sovversiva e finí
reazionaria; che fece le sue prime prove in piazza, con demagogia e
leggerezza, che in Napoleone apprezzò soprattutto le qualità del
capo di tutti gli arrivismi e di tutti gli spostati. Sotto l'Austria
questi sindacalisti rivoluzionari trovarono la consolazione di un
impiego stabile, adatto ai loro quarant'anni, e si convinsero
lentamente, con l'aiuto del bastone croato, ad abbandonare i costumi
del parvenu per l'ideale del servitore leale.
Sotto questa descrizione può essere compresa la maggioranza delle
classi medie italiane dopo il 1815, gente saggia, che aveva messo
testa a partito e non era piú disposta ad ascoltare i richiami dei
romantici, delle teste calde come Santorre, Ciro Menotti, Mazzini.
Cosí gli idealisti dovettero cercare le vie dell'esilio, vissero da
disperati, alla giornata, afflitti dalla miseria e dai sospetti,
tagliati fuori dalla vita civile. Spiriti naturalmente destinati a
essere classe dirigente, crebbero nell'aria falsa delle congiure,
dei progetti nebulosi, lavorando per una patria che non conoscevano,
che non potevano studiare realisticamente, di cui si facevano una
idealizzazione tanto necessaria quanto imprecisa e pericolosa. Ne
risultarono dei poligrafi pieni di entusiasmo: ma tendenziosi nella
scienza, inesperti nella politica pratica.
Chi rimase in Italia mandò i suoi figli alla scuola della
Restaurazione. Per ragionare su esempi concreti, prendiamo il caso
di Giuseppe Augusto Cesana, uno dei fondatori del «Pasquino», del
«Fanfulla» e di dieci altri giornali del Risorgimento, il quale
nelle Memorie di un giornalista ci ha lasciato un ritratto senza
miti delle cose d'Italia dal 1821 al 1871.
Figlio di un moderato, moderato di istinto. Virtú fondamentale in
lui: il buon senso. Sotto l'Austria, disposto a sopportare il giogo,
ma addestrato dall'abitudine ad usare astuzie per eludere
persecuzioni nel caso di qualche scappatella. Un patriottismo che
arriva sino a tentare la lettura delle edizioni di Capolago, se la
cosa si può far franca. Era logico, per le premesse che si son
dette, che i milanesi preferissero sembrare spiritosi piuttosto che
eroi e che l'idea di canzonare croati e tedeschi fosse più
tentatrice di una congiura. Delle scuole austriache Cesana ci
conferma l'idea divulgata da tutti i manuali scolastici. La scienza
era in decadenza: dove avrebbe potuto l'Austria trovare dei
professori seri? Anche il Piemonte non trova insegnanti prima del
'40. E Francesco I aveva esposto ai professori di Pavia il suo
programma: «Signori, io non desidero che mi facciate dei dotti,
desidero che mi facciate dei buoni sudditi». La cosa piú
interessante nella scuola del '21 erano gli scherzi tra studenti o
contro i professori. Ecco, in modo assai generico, una forma di
resistenza all'Austria. Resistenza inerte che s'accontentava di
sfruttare gli eventi:
«Il banco della lode, – narra Cesana, – era verniciato di verde,
filettato di bianco e di rosso, colori nazionali, mentre il banco
dell'asino era verniciato di nero, filettato di giallo, colori
dell'Austria, che già da parecchi anni aveva riacquistato il dominio
della Lombardia. Evidentemente quei colori erano un avanzo
dimenticato del regno napoleonico; ma l'uso al quale continuavano a
servire non costituiva meno una satira atroce per i nuovi padroni».
Ma ogni pensiero di avvenire languiva: la scuola indirizzava agli
impieghi, che l'Austria concedeva con una certa larghezza. Anche
nell'impiegato lo spirito della caricatura si conservava, ma non era
altro che una specie di resistenza passiva alla routine.
«C'erano bensí dei partiti a Milano in lotta fra loro; ma i principî
che li tenevano divisi erano le gole dei cantanti e le gambe delle
ballerine». Il regime paterno funzionava a dovere, con la bandiera:
tutti apolitici. Le plebi rurali costituivano la base del regime; i
mendicanti di città ne approfittavano; le classi medie urbane erano
una minoranza condannata ad adattarsi finché non potesse contare
politicamente di piú.
È chiaro che in queste condizioni non si può parlare di educazione
politica. Cesana uscí dalla scuola col temperamento di un
osservatore mediocre e incolto, come Pellico era uscito dal carcere
stroncato. In queste generazioni, che nel '48 superarono se stesse,
la capacità di reazione fu minima: l'Austria aveva umiliata la loro
dignità, limitato i loro cervelli.
Portate ora Cesana in esilio a Torino. Fu miracolo se gli riuscí di
trovarsi in esilio come in casa sua. Ma, in giornalismo, nessuna
cultura economica, nessuna conoscenza dei problemi europei. Si
doveva aiutare con la fantasia e con le barzellette. Si ebbe un
giornalismo politico in tono di letteratura amena. «Il Fischietto» e
«Il Pasquino» furono il modello del genere: un giornalismo di idee e
di lotta politica non poteva sorgere; Cavour, Ferrara, De Sanctis
tra i giornalisti si trovarono isolati. Invece che in battaglie,
l'opinione pubblica era impegnata in scaramucce. Il '49 è in parte
il frutto dell'immaturità della critica in un ambiente sospettoso,
in cui i partiti vengono a ridursi a sètte, e la paura di spionaggi
e di tradimenti è la prova di dubbi interiori non ancora elaborati.
Di questa incultura politica degli uomini che nel 1848 avevano 20,
30, 40 anni sono responsabili la dittatura e i governi paterni.
Fabbricarono un'atmosfera a cui gli spiriti indomiti dovettero
reagire con le fucilate: reagire con la critica, con la dignità
della chiarezza politica nessuno avrebbe potuto. Meno degli altri
gli italiani che avevano conosciuto da troppi secoli costrizioni e
umiliazioni.
Con questo noviziato di servitú i moderati lombardi (e gli altri
italiani con loro) si trovarono nel regno d'Italia come provinciali,
non perfettamente convinti né consci di ciò che era successo. Il
terreno non era preparato per le riforme: nessuno osava pensare ai
grandi problemi dell'unità non ancora compiuta. Il progetto
Minghetti sulle regioni, per esempio, fu battuto dall'indifferenza e
dall'incultura di uomini che avevano bisogno di esser lasciati
tranquillamente a ricordare la passata schiavitú. La neutralità dei
romani nel '70 – che non seppero offrire, nemmeno con una
dimostrazione contro le guardie del papa, un pretesto
all'occupazione italiana – si spiega anch'essa con l'ignoranza e con
l'esercizio della schiavitú.
La Destra fotografò questa debolezza: dieci uomini di genio capaci
di guidare una rivoluzione come di amministrare lo Stato; gli altri,
uomini mediocri, moderati per quietismo, amanti dell'ordine per
stanchezza di ricordi giovanili troppo tristi.
Dopo il '70, questa classe politica rassegnò quasi spontaneamente le
sue dimissioni. Aveva bisogno di allargare le sue visioni, di
liberarsi del ricordo degli austriacanti, di viaggiare. Cesana,
ch'era tra i giornalisti piú aperti, andò a vedere le Piramidi
d'Egitto. Le descrive in uno degli ultimi capitoli delle sue
memorie. La cultura di quegli spiriti non poteva essere che
dilettantismo, passatempo.
Ma le colpe spirituali dei cospiratori e degli esuli risalgono ai
loro persecutori.
SANTORRE DI SANTAROSA146
La cultura piemontese del primo Ottocento fu all'avanguardia della
polemica contro la rivoluzione francese. Prescindendo dalla polemica
dei reazionari che deriva direttamente dallo spirito dell'epoca (la
Restaurazione), la posizione antifrancese di romantici e
progressisti si può giustificare per due ordini di considerazioni.
I romantici capivano che le tradizioni spirituali del paese erano
legate al cattolicismo: l'anticattolicismo sensista dei francesi
screditava la causa della rivoluzione che per ragioni di
opportunità, di adattamento e diciamo pure di razza conveniva fosse
cristiana, correzione dall'interno, non distruzione, del
cattolicismo.
I progressisti si trovavano sotto Vittorio Emanuele I in piena
reazione col ricordo dei bei tempi di Carlo Emanuele III e di
Vittorio Amedeo II, principi riformatori, che avevano cercato di
fare del Piemonte uno Stato moderno. A questa decadenza non era
estraneo un vero esaurimento della Casa regnante (ormai estinta nel
suo primo ramo, ridotta a far succedere sul trono per quasi mezzo
secolo i nipoti sempre piú indifferenti e apolitici di Carlo
Emanuele III) ma la ragione apparente e in realtà l'occasione si
attribuiva all'intervento francese, che di una Casa indipendente
aveva fatta la schiava dell'Austria.
Santarosa sentí vivacemente questo doppio ordine di motivi alla
propria condotta.
Apparteneva a una famiglia di nobiltà recente, nobiltà concessa in
premio per servigi al re – il lealismo illuminato era in lui
tradizionale. Il mestiere della Corte non aveva ancora corrotto le
virtú di iniziativa dei Santarosa; portavano il carattere del
Seicento e del Settecento, burocrazia ligia al re perché il re
rappresentava lo Stato moderno anche contro la piú antica nobiltà
feudale. Si trattava di una vera borghesia che aveva trovato la
nobiltà attraverso gli impieghi.
L'ambizione della gloria, il senso delle virtú militari e statali
erano nel sangue di questa famiglia che aveva concepito col re il
grande sogno di un Piemonte capace di difendere in qualunque caso
con le armi la sua indipendenza. Il ritratto che ce ne ha lasciato
Cousin è il ritratto del militare piemontese. «Santarosa era sui 40
anni, di media statura, cinque piedi e due pollici circa. Grossa la
testa, calva la fronte, labbra e naso fin troppo grandi; portava
abitualmente gli occhiali. Nulla d'elegante nei suoi modi; un tono
maschio e virile sotto forme del resto squisitamente cortesi. Era
tutt'altro che bello ma il suo volto, quando s'animava, ed era
sempre animato, aveva qualcosa di cosí appassionato da attrarre. Era
soprattutto singolare in lui la forza fisica eccezionale. Né grande,
né piccolo, né pingue né magro, era un leone per vigore ed agilità.
Per poco che cessasse di contenersi il suo non era piú un camminare,
ma un correre a balzi. Aveva muscoli d'acciaio e la sua mano era una
morsa in cui serrava i piú robusti. L'ho visto sollevare, quasi
senza sforzo, le tavole piú pesanti; era capace di sopportare le piú
lunghe fatiche, e sembrava nato per le fatiche di guerra».
Tra le fatiche della guerra era vissuto ancor fanciullo
accompagnando il padre nelle campagne del 1792-93 contro la Francia.
Nato nel 1783 egli appartiene in modo caratteristico a quelle
generazioni che l'esperienza pratica della rivoluzione francese
volse a grandi sogni, togliendoli a forza alla loro vita
tradizionale, senza lasciar loro il tempo di consolidare queste
aspirazioni con forti studi. «Il nostro, – scrisse piú tardi il
Santarosa, – è il tempo della cultura parcellare». La Restaurazione
ne avrebbe fatto poi dei romantici appassionati e degli spostati.
Un regime provvido avrebbe trovato il modo di valorizzare le energie
di questi uomini che certo avevano piú spirito di statisti e di
amministratori che di cospiratori. Sindaco di Savigliano a
ventiquattro anni, sottoprefetto di Spezia, capitano dei granatieri
nella Campagna del '15, poi impiegato del ministero della Guerra,
Santarosa sarebbe stato un uomo prezioso per i vecchi Savoia. Il suo
lealismo era incondizionato. «L'abdicazione di Vittorio Emanuele, –
scriveva egli nel '21, – fu una prima sciagura. Noi tutti lo
sentimmo. Io ne piansi lacrime amare: io che alla persona del
Sovrano portavo vivissimo affetto e mi pascevo della speranza che
divenuto Monarca di otto milioni di Italiani mi perdonerebbe un
giorno di avergli recato momentaneo dolore».
Di quest'uomo d'ordine la stupida reazione fece un sovversivo: di
questo funzionario distinto che, sposatosi subito dopo la
Restaurazione, avrebbe dedicato tutta la sua vita alla cosa pubblica
e ad educare dei figli devoti allo Stato, fece un esule e un
cavaliere errante.
Invece Santarosa non era neanche un utopista: stile e pensiero in
lui si definivano in un liberalismo moderato, lungimirante,
concepito come arte di governo.
Non il visionario, non l'uomo di dottrina, ma il cittadino si
ribellava al regime poliziesco e alla violenza delle sètte retrive
che gli ispiratori di Carlo Emanuele I avevano importato in
Piemonte. In Santarosa reagiva contro questo illegalismo dominante
il senso della dignità civile.
«Il nostro Governo era pienamente assoluto di diritto e di fatto. Il
Piemonte è troppo progredito nella civiltà per potersi a ciò
rassegnare, soprattutto dopo l'esperienza fatta dal 1814 in poi
dell'impossibilità di avere almeno una buona amministrazione con un
tale Governo. Se il Re si limita semplicemente a temperare la
Monarchia pura con istituzioni che la ravvicinino al Governo
rappresentativo senza però instaurarlo, noi saremo condotti da una
tendenza irresistibile a sollecitare sempre istituzioni piú
liberali: gli animi non si quieteranno; non si vedrà quanto si è
ottenuto, si vedrà solo ciò che resta a conseguire. Non avremo né
pace, né riposo, né felicità. Non credo che i miei concittadini
abbiano invincibili preferenze per talune forme costituzionali
piuttosto che per delle altre: ma sono convinto che occorrano loro
delle istituzioni che assicurino la libertà individuale, la
eguaglianza dei diritti civili, l'indipendenza dei Tribunali, la
responsabilità dei Ministri, la libertà della tribuna e della
stampa, guarentigie di tutte le altre.
«Persone eminenti del mio paese giudicano diversamente: non pongo in
dubbio la loro buona fede, le accuserò solo di non conoscere le vere
condizioni dello spirito pubblico, di non averle studiate, di non
averne indagate le vere sorgenti, e di abbandonarsi a illusioni
funeste».
Con questo sogno di uomo d'ordine e di Stato, Santarosa operò nel
'21. Egli non era un rivoluzionario: se dunque peccò di ingenuità
tattica converrà un'altra volta accusarne i tempi.
«Venti volte Santarosa mi protestò, – scrive il Cousin nel ritratto
dedicato all'amico, – che i suoi amici e lui non avevano annodati
rapporti con le società segrete se non assai tardi, all'ultima
estremità, quando era ormai patente che il Governo piemontese né
voleva né poteva resistere all'Austria – che un movimento militare
sarebbe impotente, se non appoggiato ad un moto civile – pel quale
era indispensabile il concorso delle società segrete. Egli deplorava
questa necessità, e accusava l'aristocrazia, gli abbienti piemontesi
d'aver rovinato il Paese e se stessi, non compiendo il loro dovere,
non dando l'allarme al Re su' pericoli del Piemonte, e sforzando
cosí i patrioti a ricorrere ad occulte trame. La sua lealtà
ripugnava da ogni segretume e senza ch'ei mel dicesse vedevo
chiaramente che il suo spirito cavalleresco provava una specie di
intima vergogna d'essersi a poco a poco lasciato sospingere a quella
estremità. Continuamente mi ripeteva: "Le società segrete sono la
peste d'Italia; ma come farne senza, quando non abbiamo pubblicità
qualsiasi, nessun mezzo legale di esprimere impunemente le nostre
opinioni?" Mi raccontava che per lungo tempo s'era arrestato al
pensiero di non partecipare ad alcuna società, di astenersi da ogni
azione, e limitarsi a grandi pubblicazioni morali e politiche,
capaci di influire sull'opinione pubblica e di rigenerare l'Italia.
Era quella, com'egli chiamava, una cospirazione letteraria. Sarebbe
riuscita di certo piú utile della levata di scudi del 1821. Il suo
sogno era di ricominciare questa cospirazione letteraria in Francia:
si consolava pensando di non aver fatto nulla per suo interesse
personale, ma d'essersi unicamente preoccupato del suo Paese».
Era naturale che come teorico questo martire dell'assolutismo
dovesse riuscire inferiore a se stesso. Aveva trascorsa la
giovinezza in campo o nell'amministrazione pubblica, costretto a
pochi studi; tagliato fuori dalla grande corrente europea di
pensiero, che egli riusciva soltanto a indovinare, come lontana
ispiratrice della sua azione. In Francia trovò in Montesquieu il suo
autore: ma continuavano a frenarlo pregiudizi teorici di
cattolicismo e di moderazione che era facile correggere in pratica,
impossibile superare nel tormento della riflessione. Non si può
pensare senza commozione agli abbozzi di Santarosa, ai frammenti dei
suoi scritti politici, alle notizie di studi e di elaborazione che
si hanno dalle sue lettere. Una personalità incompiuta per forza di
eventi. Il suo pensiero doveva lottare prima di tutto contro la sua
solitudine. Nessuna tradizione lo sorreggeva, gli pesava l'esilio;
la mancanza di un'atmosfera di studi, l'impossibilità di ogni
controllo e di ogni collaborazione davano al suo spirito le
inquietudini dello spostato, dello sradicato.
Esaminando le sue ideologie bisogna tener conto di questo senso del
provvisorio. Non era facile per un funzionario piemontese attaccato
specialmente al senso del dovere e della dignità passare ai grandi
sogni di democrazia europea.
Santarosa continuava a credere che l'opera rivoluzionaria dovesse
essere compiuta da un principe, il termine sarebbe stata la
Confederazione, benedetta dal papa, indipendente dall'Austria: il
suo spirito civile era alfieriano e s'alimentava di leggende
eroiche; poneva accanto all'indipendenza il concetto di libertà, ma
lo concepiva in modo soltanto giuridico senza giungere a capire che
la libertà come vera autonomia è conquistata dai popoli e non donata
dai principi; ed egli rimpiangeva che nel 1733-34 Carlo Emanuele non
fosse arrivato a concludere la Confederazione nazionale.
Quest'assenza del pensiero di Stato, come Stato-popolare, è poi la
deficienza di tutto il nostro Risorgimento fallito.
Come tutti i filosofi del romanticismo italiano, il Santarosa
afferma con sicurezza che vita non vi può essere senza che sia vita
religiosa, e la filosofia stessa deve avere il suo centro e il suo
organismo nella religione. E religione doveva essere concretezza di
valori ed esaltazione di libertà. Concetti che non si possono
intendere se non si vedono nella opposizione, già indicata, al
sensismo francese. Qui il Santarosa va oltre l'Alfieri. La reazione
alle idee edonistiche e sensistiche del Settecento doveva condurre a
un approfondimento dei valori spirituali, e l'affermazione della
storia, della tradizione, contro l'enciclopedia astrattista,
individualista e antistorica. Solo cosí si sarebbe compiuto il
ciclo, ed esplicato tutto il senso ideale implicito nella
rivoluzione francese. Ma storia e tradizione si ritrovavano nel
cattolicismo, il solo sistema che potesse salvare i valori
spirituali per le menti non ancora mature alla rivoluzione kantiana.
Santarosa è uno degli iniziatori di questo processo che si chiarirà
con la negazione del cattolicismo fatta da un punto di vista
religioso. Egli è romantico in tutto il senso del concetto:
spiritualista, patriota, ricercatore di storia nazionale. Ma è alla
prima fase del romanticismo e perciò incapace di liberarsi delle
contraddizioni sentimentali, e di prender coscienza netta delle sue
intuizioni, sviluppandole. Resta un precursore. S'impiglia in una
forma di necessaria aberrazione mistica, che sarà poi teorizzata dal
suo profondissimo amico Luigi Ornato. E il suo misticismo (che è
della tempra stessa di quello che avevano affermato Rousseau in
Francia e in Germania Jacobi) dà anima e calore al suo concetto di
libertà. Questa politicamente si afferma come necessità del governo
popolare, realizzato in leggi alle quali il governo è sottoposto.
Anzi (e qui è anticipato il pensiero neoguelfo) la religione stessa
deve essere cattolica e in nome del cattolicismo bisogna compiere la
rivoluzione, perché il popolo è cattolico. E tanto domina la sua
mente il concetto semplicistico della identità di religione
cattolica e di libertà (vero soltanto nella contingenza e necessario
nel 1815 contro la Santa Alleanza), che egli non affronta neppure il
problema delle relazioni tra Chiesa e Stato. Non era rimasto in lui
il ricordo delle lotte giurisdizionaliste in cui i suoi padri
avevano appoggiato il re contro l'invadenza di Roma.
Uno stesso contrasto domina le idee del Santarosa rispetto al
problema politico immediato. Con saggezza precorritrice del Balbo
(che sarà però ben altrimenti sicuro) egli ha visto che il problema
centrale dell'Italia è l'indipendenza dall'Austria: perciò non si
pone neanche il problema dell'unità, ma sulle orme del Napione
vagheggia confederati con gli Stati del centro Napoli e i Savoia,
signori del Nord. Per raggiungere questi risultati bisognava formare
una classe dirigente: opera tormentosa a cui lavorarono con Santorre
dal 1815 al 1821 Ornato, Balbo, Provana e altri oppositori: l'opera
fu interrotta dall'esilio e ripresa poco prima del 1848. Fallita di
nuovo, fu fatta dimenticare dal fenomeno Cavour, ma si ripresentò
con la stessa necessità, ancora oggi insoluta, per l'eredità
cavouriana. Il Santarosa vide soltanto da lontano questo grande
problema: la reazione, costringendo la politica nelle posizioni
pregiudiziali, facendo rinascere la lotta per le condizioni
elementari, restringe per sua natura gli orizzonti spirituali,
impone ai cervelli le sue misure, corrompe le idee, stronca le
tradizioni. In queste condizioni salvare la propria anima, rimaner
fermi alle proprie posizioni, resistere è la sola prova di nobiltà e
di superiorità che si chiede alla vittima.
Certo è un'ironia che Santarosa muoia il 9 maggio 1825 per la
libertà della Grecia, con perfetta ingenuità: «Sento per la Grecia
un amore che ha qualche cosa di augusto: è la patria di Socrate,
capisci?». Ma questa ironia della Storia si rivolge contro chi lo
tradiva nel '21.
MILANO NAPOLEONICA147
Nel recente saggio dell'amico Raffaele Ciasca sull'Evoluzione
economica della Lombardia dagli inizi del secolo XIX al 1850 (Milano
1924, vol. edito dalla Cassa di Risparmio, per il centenario), trovo
elementi decisivi per il problema dei rapporti tra capitalismo e
libertà.
Consideriamo il primo periodo: l'economia lombarda durante il
dominio francese.
Nella Lombardia della fine del Settecento, tutte le riforme che
potevano essere compatibili con un governo paternalista di tipo
illuminista antifeudale erano state attuate. Liberazione dalla
tirannia delle corporazioni d'arti e mestieri, abolizione delle
manomorte, scioglimento dei fedecommessi, ecco le grandi riforme
della politica giuseppina. Ne risultò un'atmosfera legale favorevole
alla proprietà frazionata e mobile. I nuovi capitali della nascente
borghesia s'impiegarono nelle terre: le statistiche dànno un
notevole afflusso dalla città alla campagna, specialmente verso la
pianura del Po.
Nelle città invece, a Bergamo e a Milano, abolita l'oppressione del
regime feudale, si assiste a uno sviluppo industriale, notevole
specialmente nella manifattura della seta. Ma questo sviluppo è
artificiale, dovuto in gran parte alle esenzioni fiscali. Sotto il
regime austriaco, che coincideva colle feste e col lusso
dell'aristocrazia, uno sviluppo industriale serio non era
concepibile per mancanza di capitali, maestranze e commerci
mondiali.
L'Austria era ostinata nel protezionismo doganale, necessario per
l'equilibrio artificiale e il paternalismo intervenzionista con cui
teneva in piedi l'impero già scosso.
La nuova borghesia milanese doveva essere per reazione democratica e
doveva tendere a un riordinamento politico della penisola che le
aprisse i mercati della intera pianura padana.
Questi interessi nuovi affiorano infatti nel tempo della Repubblica
Cisalpina; si complicano però con un altro fenomeno: l'instabilità
degli affari, l'atmosfera d'avventura del dopoguerra. È
nell'ambiente di libertà e di spregiudicatezza portata dai francesi
che si forma, con i caratteristici sistemi che si sono esperimentati
in piú alto rilievo nell'Europa del 1919, il primo capitalismo
italiano. Capitalismo figlio di libertà. Milano conosce intorno al
1800 gli arricchiti di guerra, i fornitori militari, gli
speculatori, i dissipatori di fortune troppo presto raggiunte.
Lusso, strepitoso rialzo dei consumi, gioco degli inflazionisti,
speculazioni sul cambio tra Milano e le province. Erano i miracoli
ignoti dell'aumentata velocità di circolazione del capitale. Il
governo francese riscuoteva nel Regno d'Italia 180 milioni di lire
annue d'imposte e ne spendeva 145 in Italia per le forniture
militari e per la burocrazia. Il regno dei pescicani e degli
impiegati; plutocrazia e classi medie!
In questo periodo trionfano uomini nuovi, agili, intraprendenti; la
Banca acquista una grande influenza sulla vita sociale; la borghesia
sbalza di seggio l'aristocrazia delle feste e delle mode esotiche,
impone le nuove mode della Parigi imperiale, si fa maestra di
eleganza a tutte le classi sociali, conquista i poteri municipali,
compra terre e palazzi dalle famiglie nobili, tagliate fuori dalla
vita nuova dai loro pregiudizi e dalla loro educazione. Osti,
caffettieri, pasticcieri, pizzicagnoli, s'arricchiscono sul traffico
incessante portato dai militari, le modisterie guadagnano sul gusto
per il lusso esteso a tutte le classi sociali. Notevole è
l'incremento edilizio sia della città sia delle case private: e
anche di qui derivano nuovi lavori, nuove imprese, nuove fonti
d'arricchimento per i piú audaci e per i piú pronti.
Questo esperimento infernale di nascente capitalismo fu turbato da
un gruppo di circostanze connesse con la situazione politica. Il
nuovo clima di libertà era fittizio e un capitalismo vigoroso e
costruttivo non può svolgersi se la libertà è continuamente alla
mercè dell'intervento straniero.
L'industria milanese si trovò sotto la concorrenza minacciosa delle
manifatture francesi: era un argomento decisivo per il miglioramento
della produzione; ma presa appena questa via si ebbe la nuova
politica economica di Napoleone. Il blocco continentale del 1805
portò due conseguenze disastrose. Da una parte alterò l'equilibrio
economico generale, determinando un artificiale e provvisorio
interesse di dedicarsi a produzioni improprie al nostro clima
economico, momentaneamente redditizie per l'allontanamento
dell'offerta inglese. Costosissimo diversivo! D'altra parte diede
alla Francia una posizione d'assoluto privilegio. I lavori di ferro
e di acciaio non si poterono piú esportare nell'Italia francese
(Piemonte, Toscana, Romagna, Parma). L'industria della seta fu
duramente colpita dalla concorrenza dei sistemi di vendita francesi.
Forte incremento ricevettero le industrie di guerra: ma è da vedere
anche qui se l'incremento non venisse a turbare per l'appunto il
normale equilibrio della produzione, alterando le iniziative
naturali con diversivi incoraggiati dallo Stato.
Da tutti questi fattori di instabilità derivano infatti la
depressione dei commerci e i frequenti fallimenti che caratterizzano
gli ultimi anni del regno. Se si vuol continuare l'analogia
accennata si pensi alla crisi di depressione del 1921 succeduta
all'audacia produttiva del 1915-20.
La sola agricoltura risentí i risultati stabili, vantaggiosi, di
questa enorme trasformazione di ricchezza. E anche questo fenomeno
possiamo intendere meglio se lo guardiamo alla luce delle esperienze
rurali della guerra e del dopoguerra, cui ci trovammo ad assistere.
Una parte di nuovi ricchi si dedicò a dissodare le terre di recente
acquisto, con energia singolare. Canali, risaie, praterie,
sostituirono la deficiente agricoltura del feudalesimo
ecclesiastico. Risale a questi anni il primo tentativo
d'industrializzazione in vasta misura della pianura padana. Si pensa
a migliorare il sistema delle acque: la grande proprietà s'impone
nelle risaie, i piccoli contadini occupano i pascoli comunali e li
sottopongono a cultura con tenacissima audacia. Il risultato di
questo breve esperimento liberale è formidabile: dal 1762 al 1814 si
trova un aumento reale dell'esportazione agricola lombarda del 50%.
L'opera di due lavoratori indipendenti vale in sede economica come
il lavoro di tre servi.