Le memorie della mia vita di famiglia nella fanciullezza, e della mia educazione sono semplici assai e di tipo comune, senza niente di particolare o di eccezionale. Sono nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì, dove mio padre, Giovenale, teneva il posto di Cancelliere di quel Tribunale, e dove morì un anno appena dopo la mia nascita, di una polmonite presa in una gita di montagna. La famiglia di mio padre era originaria di Val di Macra; una delle vallate delle Alpi Occidentali che da occidente a oriente confluiscono al Po. Mio nonno paterno, che io non ho conosciuto, era notaio a San Damiano di Macra, e faceva da segretario e un po' da factotum a tutti quasi i Comuni della vallata. Le memorie della famiglia risalgono sino al nonno di mio nonno, del quale si sapeva che era venuto da Acceglio, il Comune più alto della Valle, sui 1500 metri, e propriamente dalla borgata Lausetti, da cui vennero pure i Ponza di San Martino.
La nostra insomma era una famiglia di contadini-montanari, che
deve avere vissuto per secoli in quella vallata che ebbe sempre
una fiera indole democratica. Infatti la Val di Macra, da San
Damiano in su, e sino al 1427, era stata, una piccola repubblica
indipendente, retta da suoi speciali statuti, che ancora si
conoscono. I capi di famiglia si radunavano annualmente ad
Acceglio, e nominavano due consoli e due giudici per la durata
d'un anno. Per un esempio della semplicità dei suoi statuti, valga
la legge della istruzione pubblica, che si compendiava tutta in
questa frase latina: — Quod quisquis possit tenere scholas, et
quisquis adire scholas sine ulla molestia.
Questo istinto democratico si mantenne nonostante le mutate
condizioni ed istituzioni. Nel 1427 la minuscola repubblica
montanara fece un accordo coi marchesi di Saluzzo, accettandone la
signoria, ma assai nominalmente; infatti i valligiani si
riservavano la nomina dei giudici e pattuivano che nella valle non
dovessero mai essere introdotti né il feudalismo né l'inquisizione
religiosa; ciò che era notevole assai per quei tempi. Quando il
Marchesato di Saluzzo si unì con la Casa di Savoia, questa si
obbligò a mantenere tutte le concessioni già fatte. Ma quando
essa, mancando agli impegni, iniziò persecuzioni contro i
protestanti, dei quali erano nella valle alcuni nuclei, i
valligiani tutti si sollevarono, e verso il 1550 ne nacque una
guerra dichiarata. Il primo anno i valligiani ebbero la meglio, ma
l'anno appresso furono battuti; e la Casa di Savoia, a compensare
gli ufficiali che avevano condotto la piccola guerra, attribuì
loro titoli di nobiltà presi da quei Comuni; e nacquero così le
famiglie dei La Marmora, degli Stroppo, dei Paglieres e degli
Acceglio.
I valligiani, battuti ma non disanimati, si opposero, ricorrendo
alla Camera dei Conti e sostenendo che la Casa di Savoia non
avesse diritto di dare titoli di nobiltà nella valle, il suo
dominio essendo stato accettato col patto che non vi sarebbe mai
introdotto il feudalismo. La Camera dei Conti respinse l'istanza;
ma i valligiani, raccoltisi ad Acceglio, deliberarono che il primo
dei nuovi feudatari che mettesse piede nel paese fosse ammazzato.
E nessuno tentò mai l'avventura, restando così i soli titoli,
senza alcuna effettiva applicazione dei diritti feudali in essi
implicati. La valle così salvò e mantenne la sua democrazia.
Mia madre, di nome Enrichetta, era di una vecchia famiglia, i
Plochiù, che si era distinta per il suo liberalismo. Suo padre,
che aveva accolte le idee nuove, era stato Procuratore generale a
Torino sotto il governo francese. Con l'avvento della
restaurazione, nel 1814 egli si ritirò; e pochi anni dopo, nei
moti del 1821, fu alla testa del movimento rivoluzionario nella
provincia di Pinerolo. Domata l'insurrezione dovette riparare
all'estero; ma poi gli fu concesso di rientrare nel regno con la
esplicita condizione che vivesse in campagna; ed egli scelse a sua
residenza Cavour, dove aveva preso moglie, che gli aveva fra
l'altro recato in dote una casa; la stessa vecchia casa
nell'interno del paese, dove io risiedo l'inverno. Oltre mia madre
egli aveva avuto due altre figlie e quattro figli maschi; l'uno di
essi, il medico Giuseppe Plochiù fu il primo deputato di Cavour,
dove fu eletto nella prima Legislatura piemontese, nel 1848. Altri
due suoi figli, Luigi e Melchiorre, furono magistrati, ed un
quarto infine, Alessandro, fu fatto generale sul campo di
battaglia di San Martino, dove aveva combattuto come colonnello
alla testa del 6.° reggimento, che aveva prese le alture di San
Maritino nel momento decisivo della battaglia. Tutti e quattro
quei miei zii materni sono morti senza famiglia. Le due sorelle di
mia madre sposarono una il colonnello Danesi, l'altra
il Cav. Vaccaneo.
Con la morte precoce di mio padre, mia madre lasciò Mondovì e
ritornò nella casa della madre sua e dei fratelli a Torino. Passai
così fra questi quattro scapoli i primi anni della mia vita;
essendo l'unico nipote con loro convivente ero naturalmente il
beniamino della casa. Scarsi ricordi ho di quel periodo della mia
vita che va fino ai sei anni; uno dei più vividi
ricordi si riconnette agli avvenimenti del 1848-49.
I miei zii mantenevano calorosamente la
tradizione liberale della famiglia, trasmessa loro dal padre ed
accolsero quindi con grande fervore la concessione dello Statuto
fatta da Carlo Alberto; ed io ricordo di essere stato condotto a
vedere la partenza del Re per la guerra, con una grossa coccarda
appuntata sui miei abiti infantili.
Come io apparivo di costituzione assai gracile, e la mia salute
dava apprensioni a mia madre, che nella sua precoce vedovanza si
era tutta consacrata alla mia educazione, mio zio medico la
consigliò di portarmi in montagna; e mia madre lasciò Torino dove
aveva la madre, le sorelle e i fratelli ai quali era profondamente
affezionata e andò a stabilirsi da sola con me per tre anni,
estate e inverno, a San Damiano, paese nativo di mio padre,
piccolo comune della valle Macra a dieci chilometri sopra Dronero.
Mio zio, per prescrizione medica, aveva aggiunto che mi si
lasciasse trastullare come volevo con l'acqua e con la neve, e non
mi si desse mai nessuna medicina. Prescrizione che ho fatto poi
mia per tutta la vita; poiché a quasi ottant'anni a cui sono
arrivato, io ho conservata una vera avversione alle medicine.
Anche quando soffrii di una grave malattia di depressione nervosa,
questa avversione alle medicine non mi si attenuò, e quando i
medici me le ordinavano, io le discutevo, insistendo se fosse
proprio necessario di prenderle, con l'effetto che non ne ho prese
quasi mai....
In quel paese di montagna, a quei tempi incomparabilmente più
appartato che tali paesi non siano ora, io fui pure iniziato alla
scuola classica. Avevo già appreso a leggere e scrivere e presso a
che compiuta la mia istruzione elementare sotto la guida di mia
madre; a San Damiano cominciai l'istruzione ginnasiale, unicamente
impersonata in un prete che godeva di un
beneficio ecclesiastico con
l'obbligo di fare i primi tre anni di Ginnasio pei ragazzi
paesani. Lo ricordo ancora: si chiamava Don Bernardo Aymar, ed era
un tipo singolare, intelligentissimo, poeta improvvisatore,
conosciuto, e popolarissimo per tutta la vallata. Fui alla sua
scuola, assieme ad altri cinque o sei ragazzi del paese, dai sette
ai dieci anni, e feci qualche strada nell'apprendere il latino; ma
il meglio del tempo passato lassù nei monti lo spesi a giocare e a
rinforzarmi la salute.
A diedi anni, quando tornai a Torino, mi contarono quei tre anni
di Ginnasio montanaro per uno, e mi ammisero alla seconda classe
nel Ginnasio San Francesco da Paola, che poi mutò il vecchio nome
in quello attuale di Ginnasio Gioberti.
In quella scuola non mi distinsi particolarmente, se non forse pel
fatto che fui scolaro poco disciplinato. Nello studio ero fra i
buoni, ma non fra i diligenti e primissimi. Lo studio a cui mi
sentivo più invogliato era quello della storia, e negli esami dj
storia prendevo spesso il premio. Ma lo studio delle lingue
antiche, condotto anche allora con metodo grammaticale ed
astratto, tutto fatto di regole e di eccezioni alle regole, mi
repugnava; così pure poco mi attraevano le matematiche. Le mie
preferenze erano per le materie più concrete. Ero attratto anche
dalla lettura, e negli anni del Liceo feci un gran leggere di cose
letterarie, specie dei nostri poeti dal trecento in poi. Poco
lessi di autori stranieri, e di romanzi; preferii quelli di Walter
Scott e di Balzac, per le loro connessioni con la tradizione
storica o con la realtà attuale. I romanzi di intrigo o di
passione non mi interessarono mai. Lessi e studiai molto di
filosofia, specie dei filosofi allora celebrati, che erano il
Rosmini ed il Gioberti; ma di questa passione filosofica fui poi
guarito ad un tratto, ed una volta per sempre, dalla lettura della
«Teorica del sovranaturale» del Gioberti.
Passato alla Università, entrai nel corso di legge. Feci i due
primi anni di quegli studi secondo il sistema antico, col quale il
curriculo di legge era diviso in cinque anni; poi, introdotto il
sistema nuovo, compiei tre anni in uno solo, prendendo dieci esami
e la laurea in poche settimane, parendomi che nella Università si
andasse a rilento e si perdesse tempo. Meco presero pure la laurea
il Malvano, quello che poi fu Segretario Generale degli Affari
Esteri e Senatore, ed il Senatore Bertetti. Negli anni
d'Università m'interessai allo studio del Diritto; e
particolarmente Diritto romano e Diritto civile e loro storia. Il
maggiore o minore interesse che si può prendere in quegli studi
molto dipende dai professori, e in quegli anni la Università di
Torino non ne aveva di insigni. C'era veramente di uomini insigni
il Mancini, o meglio avrebbe dovuto esserci; perchè in tutti i
miei anni universitarii, non che sentirlo, non l'ho visto mai.
In quegli anni, cioè fra il '57 e il '60, io non ho conosciuto
nessuno degli uomini politici in vista. Vidi spesso il Cavour ed
ascoltai i suoi discorsi alla Camera, ma non ebbi rapporti con
lui.
Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette
anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla.
Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna;
andavo a caccia e tiravo di scherma. Mia madre, che era donna di
carattere molto energico, tanto che mio zio il generale soleva
dire che avrebbe potuto comandare bene un reggimento, mi teneva
sempre in moto. Nella scherma, alla quale mi dilettavo molto, ebbi
maestro Achille Parise, padre del famoso schermitore Masaniello,
poi Gandolfi e Sprani. Seguitai ad esercitarmi anche dopo, quando
ero impiegato a Firenze, dove ebbi maestri Enrichetti, Borelli,
Sampieri, Bellincioni. Ero diventato espertissimo e famoso; in
accademie pubbliche avevo battuto anche dei maestri di
professione. Credo che quell'esercizio giovanile mi abbia servito
poi anche alla scherma parlamentare.
Ricordo in proposito un episodio curioso. Quando appartenevo al
Ministero Crispi quale Ministro del Tesoro, un giorno, essendo
assente Crispi, dovetti rispondere ad una interpellanza di
politica estera presentata dall'Alfieri, che aveva dette parecchie
corbellerie. Risposi con molta verve ed ironia, e quando ebbi
finito, Farmi, presidente del Senato, mi disse: — Lei, nella sua
giovinezza deve avere studiato e praticato assai bene di scherma;
me ne sono accorto dal come ha risposto.
Ho detto che non ho mai avuti rapporti personali con Cavour. Egli
era però molto amico del mio zio materno Melchiorre, che era anche
azionista del suo giornale Il Risorgimento. E fu a mezzo
di quel mio zio, il quale aveva molta influenza nel paese, che
Cavour fece eleggere deputato al collegio di Cavour-Vigone, il
famoso Gallenga, perchè, essendo il Gallenga corrispondente del
Times, Cavour che conosceva la grande influenza di quel giornale
nella vita politica inglese d'allora, teneva ad averlo alla
Camera. A quell'elezione seguì poi il famoso episodio
Gallenga-Mazzini. Il Gallenga infatti aveva rivelato come il
Mazzini avesse tramata l'uccisione di Carlo Alberto,, che doveva
essere consumata a mezzo di un pugnale ornato di lapislazzuli, da
un certo Mariotti. Il Mazzini, irritato, rispose in modo fulmineo,
rivelando alla sua volta che il nominato Mariotti altri non era
che il Gallenga stesso, il quale per questo scandalo dovette
dimettersi da deputato.
Entro al Ministero di Grazia e Giustizia — La mia prima
caricatura —La morte di mia madre e il mio matrimonio — Mia
opera pel riordinamento della riscossione delle imposte — La
figura e l'opera di Sella e di Lanza — Entro segretario generale
alla Corte dei Conti—Sono nominato
consigliere di Stato — La mia
candidatura e l'elezione a deputato.
Così, a poco più di diciotto anni, avevo compiuti tutti i miei
studi, ed ero fornito di laurea per entrare nella vita pratica. Ma
per l'avvocatura, a cui avrei dovuto avviarmi, non avevo alcuna
simpatia; feci un po' di pratica nello studio dell'avvocato
Marini, che allora era uno dei più rinomati avvocati di Torino, ed
all'Ufficio dell'avvocatura dei poveri; ma per poco tempo, poiché
ai primi di febbraio del 1862 fui chiamato, con niente meno che il
grado altissimo di «aspirante al volontariato» nel Ministero di
Grazia e Giustizia dall'allora ministro Miglietti, principale
autore del nuovo Codice Civile. Egli mi applicò al suo Gabinetto.
Poi passai, per esame, volontario e uditore in magistratura. Al
Miglietti successe poco dopo Raffaele Conforti. Eravamo nell'anno
1862, e si doveva nominare tutta la nuova magistratura napoletana
dopo l'annessione.
Il Conforti, che era napoletano, domandò per procedere a questo
compito delicato e pieno di possibili insidie, che gli si desse un
impiegato che non solo non fosse napoletano, ma non conoscesse
nessun napoletano; e gli fui indicato io, appunto per la mia
giovinezza; ed in quel posto mi passarono per le mani tutti i
rapporti riservati e le informazioni più gelose. Successero poi al
Conforti il Pisanelli, il Vacca, il Cortese, il De Falco, tutti
napoletani; poi il Borgatti, di Cento di Ferrara, che mi fece suo
segretario particolare. Ricordo che Segretario generale al
Ministero di Grazia e Giustizia era allora l'Eula, sotto i cui
ordini io lavoravo; e poi circa trent'anni dopo l'Eula, che era
diventato Presidente della Cassassione di Roma, accettò di entrare
quale Ministro di Grazia e Giustizia nel mio primo Ministero,
avendo prima rifiutato l'offerta di quel dicastero da parte di
altri uomini politici.
Nei cinque anni che passai al Ministero di Grazia e Giustizia ed
al Gabinetto del Ministro, oltre il lavoro ordinario, io fui
occupato più specialmente a raccogliere elementi e materiali per
la grande Commissione, nominata da Miglietti, che preparava la
compilazione del Codice Civile. Avevo a mia disposizione la
biblioteca, con tutti i principali autori italiani e forestieri; e
quel lavoro e quello studio servirono assai a formarmi una cultura
giuridica, che mi fu poi sempre di grande aiuto.
Il Governo era in quegli anni passato a Firenze, ed io l'avevo
seguito, essendo sempre addetto alla Segreteria Generale, tenuta
ancora dal Borgatti, e lavorando in una stanza accanto alla sua.
Il Borgatti era uomo di molto valore, ma assai modesto. Ora nel
'66, quando scoppiò la guerra, e La Marmora dovette partire pel
campo, Ricasoli, assumendo la Presidenza, avvertì il Borgatti di
avere bisogno d'un Ministro di Grazia e Giustizia, e l'incaricò di
trovarglielo. La cosa dovette esser risaputa, e parecchi aspiranti
vennero a cercare il Borgatti ed a raccomandarglisi, facendo
valere i loro titoli e benemerenze. Il Borgatti, molto
conscienziosamente, fece una terna di nomi e la presentò al
Ricasoli, il quale gli rispose: — Ma come: non avete ancora capito
che il Ministro dovete essere voi? — Così avvenne che quando
qualcuno degli aspiranti si ripresentò, Borgatti non potè a meno
di avvertirlo che non sarebbe stato incluso nel ministero; ed io
ricordo di avere sentito dalla mia camera attigua, uno di essi
scoppiare in singhiozzi alla notizia dolorosa. Tanta era, già
allora, la passione di ornarsi del nome di Ministro.
Intanto, mia madre che era venuta con me a Firenze era caduta
malata e desiderava tornare a Torino dove aveva i fratelli e le
sorelle; ed io, avendo già preso da tempo l'esame di Magistratura,
e avendo titolo per la nomina a sostituto Procuratore del Re,
chiesi di essere destinato a Torino. L'istanza fu accolta ed io vi
andai quale sostituto Procuratore del Re a quel Tribunale. Ero
allora sui ventiquattro anni, ed avevo la disgrazia di parere
ancora più giovane; e la mia giovane età e quella apparenza
dettero occasione alla mia prima caricatura, stampata nel
Fischietto, che mi raffigurava nella veste di Magistrato, con la
toga e col tocco, fra le braccia della balia.
Allora a Torino c'era un foro molto rumoroso; ed io venivo mandato
in Tribunale a fronteggiare gli avvocati più battaglieri, nei
processi più agitati, come i processi di stampa.
La salute di mia madre si era intanto andata aggravando, tanto che
essa morì nell'agosto 1867.
Due anni dopo morì mio zio medico Plochiù. Mio zio generale morì
più tardi assai, nel gennaio 1888, ad ottantadue anni; mio zio
Luigi magistrato morì pure nel febbraio di quell'anno, avendo
compiuti gli ottantasei anni; e mio zio Melchiorre morì poi a
settantasette anni, nel 1894.
Nel febbraio del 1869 il Senatore Pallieri, Presidente della
Commissione centrale delle Imposte dirette, mi chiese se fossi
disposto a ritornare a Firenze, come membro e segretario capo di
quella Commissione. Dopo la morte di mia madre nessuna ragione
particolare mi tratteneva a Torino, dove ero tornato solo per
cagione sua; così io accettai volentieri, :e prima di partire per
Firenze, il 31 marzo del 1869 presi moglie. Mia moglie, Rosa, era
di una famiglia Sobrero. Suo padre era stato sostituto Procuratore
Generale della Cassazione di Torino, ma era morto da molti anni in
giovane età; egli era fratello di Ascanio Sobrero, il celebre
chimico che inventò la nitroglicerina. Un altro fratello di suo
padre
era generale del Genio ed era stato il disegnatore
e
costruttore della fortezza di Alessandria.
Io vidi per
la prima volta quella che fu poi mia moglie, l'8
gennaio 1869 e ci sposammo il 31 marzo dello
stesso
anno. ,
Ritornai così a Firenze, dove fui subito occupato da quel nuovo
lavoro che era di grande importanza per l'ordinamento dello Stato,
e che richiedeva da parte mia tutta una nuova preparazione. Sulla
fine di quell'anno la mia posizione cambiò ancora, mettendomi a
contatto con un uomo di grande valore, a cui devo molto per la mia
cultura amministrativa; Quintino Sella. Questi, avendo assunto, in
una crisi ministeriale, il dicastero delle Finanze, a cui
intendeva dedicare tutto il suo studio e la sua opera, chiese al
Senatore Pallieri se nella Commissione da lui presieduta ci fosse
qualcuno che avesse speciale conoscenza di cose legali. Il
Pallieri gli fece il mio nome, e mi mandò dal Sella, che mi
incaricò subito di un certo lavoro, che io finii e portai subito
l'indomani. Me ne diede un altro, che fu subito compiuto; e di lì
a qualche giorno il Sella mi richiamò ancora offrendomi il posto
di Capo sezione alle Finanze. Accettai, e lavorai secolui, come
segretario particolare, tutto il '70 e il '71. La capitale
essendosi trasferita a Roma, il Sella venne pure a Roma; ma il
Ministero rimase a Firenze, attendendosi la costruzione del
palazzo, che fu finito solo nel '76.
Poco dopo, all'inizio del '72 il Sella pensò di porre mano a
riordinare la Direzione generale delle imposte, che si trovava in
grave stato di disordine, affidandola al deputato Giuseppe
Giacomelli, di Udine, che si era già occupato, quale membro di una
Commissione, di studi finanziari in quel Ministero stesso. Il
Giacomelli, col quale io mi trovavo già in contatto, si dichiarò
disposto ad assumersi quell'incarico, col patto però che io
andassi con lui. Col consenso del Ministro, io accettai. Il Sella
attribuiva a quel riordinamento una primaria importanza, specie
per l'applicazione della nuova legge generale per la riscossione
delle imposte. Eravamo ancora nel periodo costruttivo del nuovo
Stato; e per la riscossione delle imposte vigevano sette sistemi
diversi, ereditati dagli Stati scomparsi. Eccetto che nel
LombardoVeneto, dove il sistema austriaco era affine al nuovo
nostro, vi era tutto da mutare; in alcune regioni si riscoteva
direttamente, in altre per appalti; in Toscana la riscossione
della parte erariale era fatta a mezzo dei Comuni, i quali si
erano trattenuti trenta milioni, dovuti allo Stato. Ne seguiva una
grande confusione, con effetti rovinosi per l'entità stessa delle
riscossioni, che avevano dietro una grande massa di arretrati.
Occorreva compiere dunque una duplice opera; ricuperare questi
arretrati, che sommavano alla cifra, stupenda per quei tempi, di
duecento milioni, impiantando ad un tempo il nuovo sistema di
riscossione, efficace ed uniforme per tutto il paese.
E questa opera doveva compiersi contro l'opposizione e l'ostilità
degli interessati, i quali non volevano saperne di pagare gli
arretrati ed ostacolavano l'impianto del nuovo sistema che non
avrebbe permessi più gli antichi abusi. A. Messina e altrove
furono uccisi degli esattori; i Comuni stessi che dovevano dare
gli appalti vi si rifiutavano, e bisognava fare le aste d'ufficio,
a mezzo dei prefetti. Vi era anche il lato comico; siccome in
alcune provincie gli antichi regolamenti per la riscossione delle
imposte davano facoltà alla direzione delle imposte di sospendere
il versamento, da parte degli esattori, delle quote dovute da
contribuenti irreperibili, così gran numero di questi, anche fra i
maggiori, erano fatti apparire irreperibili. Ricordo che fra gli
irreperibili apparvero alti funzionarli; irreperibili si
dichiararono per fino degli stessi percettori delle imposte; e
come irreperibile fu classificato per fino il municipio di
Catania.
L'impianto del nuovo sistema, fronteggiando tutte queste
difficoltà, fu un lavoro diabolico. Per condurlo a termine mi
erano stati assegnati quattro funzionari, due dei quali erano
ispettori superiori, e due caposezioni di prima classe; così che
io, che dovevo comandarli, ero un funzionario di grado inferiore,
essendo solo caposezione di seconda classe. Prevedendo le
difficoltà che potevano risultare da questa curiosa situazione,
posi per condizione che mi fossero dati i poteri necessari; e poi
chiamati i miei collaboratori designati tenni loro un breve
discorso, avvertendoli che bisognava lavorare sul serio, e che chi
mancasse al proprio dovere sarebbe stato licenziato. Non ebbi poi
che a lodarmi della loro collaborazione, e diventammo buoni amici.
Al principio dell'anno in cui avevo dato inizio a quel lavoro, il
presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Lanza, al quale
dovevo spesso rivolgermi perchè il collocamento delle esattorie si
faceva per mezzo delle prefetture, un giorno mi aveva detto che,
se alla fine dell'anno medesimo, delle cinquemila esattorie che si
dovevano impiantare, ne rimanessero ancora vacanti cinquecento, il
governo avrebbe potuto considerarsi soddisfatto. E l'ultimo giorno
dell'anno io gli potei dare la notizia che non ne restava vacante
che una sola, e anche questa solamente perchè l'assuntore era
morto in quei giorni.
Quella mia lunga collaborazione con Quintino Sella, oltre che
giovare grandemente alla mia educazione amministrativa, mi pose
sotto gli occhi l'esempio di una capacità ed attività politica
superiore. Il Sella infatti era indubbiamente un uomo di primo
ordine, e che ha resi all'Italia, con un lavoro duro e continuo,
servizii maggiori che non gli siano generalmente riconosciuti.
Intelligentissimo e coltissimo, era sopratutto dotato di una
sorprendente prontezza ad afferrare qualunque questione gli fosse
presentata. Era poi un grande lavoratore; ricordo che quando io mi
recavo da lui al mattino lo trovavo che era già da qualche ora al
suo lavoro, perchè si alzava e vi si metteva regolarmente alle
cinque. Di studio e professione era ingegnere delle miniere, e la
sua opera in questo campo ha avuto per l'Italia una importanza
classica; ma poi si era assimilato altre materie, e specie
nel campo finanziario, nel quale aveva già fatta
esperienza come ministro nel 1862 e nel 1864. La sua benemerenza
capitale nella costituzione del nuovo Stato italiano, fu appunto
la rigidezza e la fermezza con cui ne amministrò le finanze
nei primi, difficilissimi tempi.
Era fermissimo di carattere sempre, ma in special modo quando si
trattava di difendere l'erario dello Stato. Ricordo in proposito
un curioso episodio. Era allora in funzione la Commissione per la
perequazione dell' imposta fondiaria presieduta dal Menabrea, la
quale, volendo affrettare l'adempimento del compito ad essa
affidato, prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il
lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i
commissarii si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano
si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto
che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si
presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei
commissarii, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio
esclamò: — Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio,
verrò a lavorare con due candele in tasca. — Bravo! — gli rispose
il Sella, — così mi risparmi anche il petrolio! — E rifiutò la
piccola concessione.
Altra grande benemerenza del Sella, fu la sua insistenza, che
valse moltissimo, perchè si andasse a Roma. L'opinione in
proposito non era unanime nel Ministero; alcuni degli uomini più
autorevoli della Destra, specie quelli di origine neoguelfa, erano
titubanti; fra gli altri Cesare Correnti, contro il quale Sella si
scaldava, qualificandolo «quel benedetto canonico!» La sua energia
vinse le incertezze, e fu fortuna; perchè se non si coglieva quel
momento chi sa quali altre difficoltà nell'interno e
dall'estero si sarebbero sollevate.
Col nome del Sella si accoppia quello del Lanza, che era
Presidente del Consiglio del Ministero in cui il Sella teneva le
Finanze. E i due uomini si rassomigliavano assai, per la
semplicità ed austerità della vita; per la grande onestà, e pel
carattere dell'intelligenza. Il Lanza era meno vivo e meno ricco
di pensiero e di cultura del Sella; per me egli rimane il tipo
perfetto dell'uomo di buon senso, fermissimo e rettissimo. La
modestia della sua vita famigliare è rimasta proverbiale; ed in
questo egli era grandemente coadiuvato dalla moglie, la quale
attendeva agli affari della loro piccola proprietà campagnola,
mentre il marito occupava il primo posto al governo. Quando il
Lanza morì il Re volle offrire alla vedova una pensione come
collaressa dell'Annunziata, al cui ordine il Lanza apparteneva. Ma
essa rifiutò dicendo: — Se con quello che avevamo abbiamo vissuto
in due, posso tanto meglio vivere io, ora che sono sola. —
Poco dopo fui nominato capo divisione. Si ebbe una crisi
ministeriale (luglio 1873); il Sella cadde e gli successe
Minghetti, il quale con la Presidenza prese le Finanze. Il
Giacomelli, che aveva accettata la Direzione generale delle
imposte dirette solo per deferenza al Sella, si dimise. Nel
frattempo Desambrois, di Oulx, che era stato nel 1848 uno dei
firmatari dello Statuto e poi Presidente del Senato, e che teneva
il posto di Primo Presidente del Consiglio di Stato, senza che io
l'avessi mai conosciuto mi mandò a chiamare, e mi chiese se avrei
accettato il posto di referendario al Consiglio di Stato; posto
che veniva lasciato da Angelo Fava, lo scrittore, che andava a
riposo. Io avevo accettato; ma nel frattempo il Minghetti, dopo le
dimissioni del Giacomelli, aveva offerto il posto lasciato da
costui ad Enrico Pacini, il quale da prima rifiutò,
rincrescendogli di allontanarsi da Firenze; ma poi finì per
cedere, mettendo la condizione che io fossi Ispettore generale con
lui, e Minghetti gli rispose annunciandogli di avere già mandato
alla firma il decreto suo ed il mio.
Rimasi con Minghetti per tutta la durata al suo ministero, che
andò dal 10 luglio del '73 al 18 marzo '76, e fu l'ultimo
ministero di Destra. Ebbi quindi occasione di apprezzare l'uomo,
che per molti rispetti meritava tutta la stima che gli fu
tributata, e della quale rimane ancora il ricordo. Le sue qualità
precipue erano una eccezionale facilità a capire subito qualunque
problema, ed una straordinaria facoltà di assimilazione. Ricordo
in proposito che, quando egli era alla Camera, io dovevo stare in
una tribuna per essere pronto a fornirgli le informazioni e gli
elementi di cui avesse immediato bisogno nella discussione
parlamentare, che era allora vivace assai,
ma anche concreta. Era fra noi convenuto un segnale; egli alzava
un foglio rosso, ed io allora discendevo e l'incontravo nel suo
Gabinetto di Presidente, e gli fornivo gli elementi tecnici che
servivano per la sua risposta; e su quei dati, comunicatigli in
fretta, egli svolgeva subito, e con signorile facilità, un bel
discorso. Era signorile in tutto, nei modi e nella cultura, e
questa sua qualità era molta parte del fascino che egli
esercitava su tutti.
Aveva poi certi suoi espedienti, affatto particolari. Eccone un
caso. Si stava studiando la perequazione della imposta fondiaria,
ed una Commissione di venticinque Senatori e Deputati, presieduta
dal Menabrea, dopo lunghi studi aveva presentato un progetto di
nientemeno che centosessanta articoli. Il Minghetti mi chiamò e mi
disse: — Non mi è possibile di presentare un progetto talmente
farraginoso; vuole esaminarlo lei procurando di abbreviarlo e
semplificarlo ? — Quando poi, qualche settimana dopo, gli
annunciai che il mio lavoro era compiuto, egli mi fissò un giorno
ed un'ora per portarglielo. Quando mi recai all'udienza,
nell'anticamera del Ministro trovai il Caneva, capogiunta del
censimento a Milano, e il Baravelli, ispettore generale delle
Finanze; ed allora io appresi, o meglio tutti e tre apprendemmo
che lo stesso incarico era stato dato ad ognuno di noi, ad
insaputa gli uni degli altri. Quando fummo ricevuti da Minghetti,
il Caneva annunziò, con la sicurezza di avere compiuto un tour de
force, che gli era riuscito di ridurre il progetto, dai
centosessanta articoli originarli a soli sessanta. Il Baravelli
presentò allora il progetto suo che la vinceva su quello del
collega, gli articoli essendovi ridotti a quarantacinque. — E il
suo? — chiese Minghetti a me. Glie lo presentai; io aveva ridotti
gli articoli a tredici in tutto. Minghetti prese il progetto mio
per base, e mi incaricò di compilare la relazione per la Caniera,
che condussi a termine di lì a sei settimane.
Quando, con quella che fu chiamata la rivoluzione parlamentare del
1876, venne al potere la Sinistra, e Minghetti cadde, Depretis,
formando il primo Ministero di Sinistra, prese il portafogli delle
Finanze; segno che gli uomini più ponderati della Sinistra si
rendevano anch'essi conto della preponderanza del problema
finanziario, che aveva tanto preoccupata la Destra. La Direzione
delle Finanze, essendo ormai finito il palazzo di sua sede, si
trasferì allora da Firenze a Roma; e siccome il Pacini non volle
lasciare Firenze, così io nel settembre del 1876, venendo a Roma,
fui da Depretis incaricato di continuare a reggere quella
Direzione. Vi rimasi circa un anno. Depretis aveva seco, quale
Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi
il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri, senza però la
facoltà, che fu data poi, di parlare e rispondere alla Camera ed
al Senato a nome del Governo), il deputato Sesmit Doda, che gli
era stato imposto dagli elementi estremi del partito. Il Sesmit
Doda era un brav' uomo, ma
alquanto fantasioso, «furioso» come lo chiamava
Depretis; non aveva pratica di amministrazione e aveva chiamati al
suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava
continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge,
che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si
potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì,
ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che
nel dicastero «si congiurava». Io capii l'allusione, e gli risposi
che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo,
del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo
di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò :
— Dica, dica. — Allora io dissi: — Se io volessi congiurare contro
il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi
dà,.... — Depretis scoppiò in una risata, e Sesmit Doda, furioso,
prese il cappello e se ne andò. Io allora osservai al Depretis che
in quelle condizioni di malinteso, di contrasto e di sospetto col
Segretario generale non sarei rimasto, e gli presentai le
dimissioni; accettando, solo, su sua richiesta, di rimanere
provvisoriamente.
Pochi giorni dopo, ebbi dal Presidente della Corte dei Conti, il
senatore Duchoquet, l'offerta di andarvi come Segretario generale;
posto che era di nomina della Corte stessa. Depretis acconsentì,
col patto che quando avesse bisogno di me mi avrebbe chiamato,
come fece effettivamente molte volte, e ricordo in specie per
farmi esaminare i progetti delle Convenzioni ferroviarie.
Alla Corte dei Conti rimasi cinque anni, con l'intervallo di sei
mesi nel '79, quando ebbi dal Depretis l'incarico di Regio
Commissario delle Opere Pie di San Paolo in Torino, la cui
amministrazione era stata sciolta. Trovai allora che molti milioni
erano impiegati in azioni di banche fortemente impegnate in
speculazioni edilizie. Prevedendo che sarebbero finite male, come
avvenne infatti pochi anni dopo, vendei tutte quelle azioni
investendo il prezzo in obbligazioni ferroviarie garantite dallo
Stato. E non contento di ciò feci inserire in un nuovo statuto da
me proposto un articolo che proibiva l'acquisto di azioni
speculative nel futuro. A mio avviso quella importante Opera Pia
doveva sopratutto avere di mira la sicurezza dell'impiego, ed
infatti seguendo quel sistema non ebbe mai alcun danno.
Avevo da poco tempo condotta a termine quella mia missione,
quando, nel settembre del 1879 mi colpì una terribile disgrazia,
la tragica morte del mio figlio primogenito, Lorenzo, di sette
anni, un bimbo intelligentissimo. La mia famiglia si trovava a
Chiomonte, in Val di Susa, a villeggiarvi, ed io ero andato per
due giorni a Cavour. Mio figlio, giocando con altri ragazzi, al
primo piano di una casa rustica, posta di fronte alla mia
abitazione, non vide una botola aperta nel pavimento, e precipitò
nel piano di sotto, battendo la testa, e rimase morto sul colpo.
Mia moglie accorse subito, Io trovò e lo raccolse cadavere; poi mi
telegrafò che il ragazzo era malato, e quando alla sera arrivai
ella ebbe la forza di animo di venirmi incontro a darmi essa
stessa la triste notizia e a confortarmi.
Voglio qui ricordare che per tutta la sua vita mia moglie fu per
me, oltre che compagna affettuosa, un grande aiuto morale. Era
dotata d'intelligenza vivissima e s'interessava assai della mia
opera politica, e nelle discussioni con famigliari ed amici aveva
osservazioni e motti pronti e geniali; ma nello stesso tempo
manteneva il più assoluto riserbo, non cercando in alcun modo di
mescolarsi nella mia azione pubblica. Preferiva che io non fossi
occupato nelle responsabilità politiche e mi riposassi nella vita
privata; ma ogni qual volta una responsabilità precisa si
affacciava, era essa stessa la prima ad incoraggiarmi ad
affrontarla ed a compiere, come uomo pubblico, tutto il mio
dovere.
Alla Corte mi occupai particolarmente del controllo, esaminando i
decreti che venivano dai vari Ministeri e riferendone al
Presidente. Intervenivo come segretario alle sezioni del controllo
e alle sezioni riunite; e in quistioni di controllo stendevo io le
decisioni motivate. Quel lungo lavoro, col controllo di tutti i
decreti, è stato per me una educazione amministrativa
efflcacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo
dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo
dovetti muoverlo io stesso.
Nel luglio dell'82 il Depretis mi offerse il posto di Consigliere
di Stato, che accettai volontieri. La prima volta che intervenni
al Consiglio, parecchi Consiglieri mancavano, ed io
chiesi al Presidente che mi desse da lavorare. L'indomani
ricevetti un pacco, poi ogni giorno un altro; più di un'ottantina
di grossi affari. Mi misi all'opera giorno e notte, e quando dopo
una settimana gli riportai l'intero lavoro finito, il Presidente
della mia sezione non poteva crederlo, ed esclamava: — Ma quello
era l'arretrato di tre mesi! — Il senatore Ghivizzani che reggeva
la Presidenza del Consiglio mi chiamò poi, e mi fece un elogio,
aggiungendo però: — Ma per carità non lo dica, che non si venga a
sapere che si può sbrigare in una settimana l'arretrato di tre
mesi! —
Poco dopo entrai nella vita politica. Già alcuni anni avanti, nel
1877, mi era stata offerta la candidatura nel collegio di
Pinerolo, che allora avevo rifiutato, non volendo abbandonare la
carriera. Come Consigliere di Stato ora ero eleggibile; ed
essendosi aperta la campagna elettorale col nuovo scrutinio di
lista, mi fu offerta la candidatura nel collegio di Cuneo, che
comprendeva i tre collegi di Cuneo, Dronero e Borgo San Dalmazzo.
I tre deputati uscenti, Riberi Antonio, Riberi Spirito e Ranco si
ritiravano, i due ultimi andando al Senato; e Riberi Antonio
scrisse una lettera agli elettori in cui, dichiarando di non
presentarsi più, proponeva la mia candidatura. Era un mio vecchio
amico, figlio di un bizzarro spirito, un montanaro all'antica,
Martino Riberi, che faceva il mulattiere, ed era ostinato
che suo figlio seguisse lo stesso mestiere, quantunque avesse un
fratello, distinto chirurgo, professore, senatore, medico capo
nell'iesercito, assai arricchito, che gli proponeva di farlo
studiare a sue spese, e di lasciargli la sua fortuna; così che il
figlio aveva dovuto seguire il padre nel suo mestiere, e non aveva
potuto mettersi agli studi che dopo la sua morte.
Il Riberi aveva agito di per se stesso, senza dirmi niente; così
che la notizia della mia candidatura l'ebbi io pure da una copia
stampata della sua getterà circolare, che mi fu mandata. Fui
appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano; ma
non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di
campagna elettorale. Il Sindaco di Cuneo, che era il capoluogo,
insistè che facessi almeno una visita al collegio; ed io gli
risposi che per cortesia avrei fatto una visita a lui; partii per
Cuneo, arrivando alle undici di sera; feci la mia visita alle
dieci del mattino appresso e ripartii alle undici, lasciando il
mio indirizzo solo a tre persone: al Procuratore del Re, antico
amico; al Sindaco di Cuneo, ed al Sindaco dì Dronero, mio cugino.
C'erano tre liste, ero portato in tutte e tre e riuscii capolista.
Ricordo un curioso episodio; a Peveragno ebbi l'unanimità dei
voti. Non capivo come fosse avvenuto, ma una mia zia, che
ricordava le vecchie storie della famiglia, me ne trovò la
spiegazione. A San Damiano mio nonno, che era uomo popolarissimo,
teneva la sua casa aperta a tutti, e la gente di passaggio vi
prendeva alloggio. Il padre del Sindaco di Peveragno vi aveva
pernottato una notte con la moglie incinta, che era stata presa
dai dolori e vi aveva partorito, rimanendo poi ospite oltre un
mese, sino a quando si era rimessa. Il Sindaco si era ricordato
d'esser nato nella casa, della mia famiglia, ed aveva voluto
compensarmi della antica ospitalità facendomi dare l'unanimità dei
voti.
Il passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra — L'opera
della Destra; i suoi meriti e i suoi difetti — Che cosa
rappresentò la vittoria della Sinistra — La personalità di
Depretis e il trasformismo — Le divisioni della Sinistra: la
Pentarchia e i «dissidenti» — La lotta contro la finanza del
Magliani e il mio primo discorso parlamentare — Come Crispi
formò il suo primo ministero — La mia entrata nel ministero
Crispi — Le difficoltà politiche e la mia prima politica sociale
— Perchè mi dimisi — Il ministero Rudinì, i suoi travagli e la
sua caduta — Personalità del tempo: Crispi, Zanardelli,
Nicotera, Magliani e di Rudinì.
Quando entrai nella Camera, nel 1882, era al potere Depretis, che
a quel tempo aveva già iniziata quella sua particolare azione
politica, che ebbe il nome di trasformismo,. Ma per farsi una
chiara idea di tutta quella situazione, e degli uomini che
operavano in essa e ne rappresentavano le varie faccie, bisogna
retrocedere alquanto, e vedere quale fosse stata l'opera della
Destra e l'indole della politica da essa svolta per sedici anni, e
le ragioni della sua decadenza e della sua caduta.
Gli uomini che avevano formata e dominata l'antica Destra erano
stati indubbiamente uomini egregi, ed anche di grande valore; veri
patrioti la cui condotta era dettata da austeri sentimenti civici
e da motivi superiori. Erano anche gente seria e che possedeva
notevole competenza per il governo della cosa pubblica nei suoi
varii campi. Siccome, dopo compiuta l'unità della patria con Roma
capitale, il problema più grave che si affacciò subito nel nuovo
Stato era indubbiamente il problema, finanziario, essi si
preoccuparono precipuamente di dare allo Stato una finanza solida
e sincera, che sola poteva cementarlo ed assicurarne l'avvenire.
Si trovarono in questa opera di fronte a difficoltà ed ostacoli di
ogni sorta, ai quali ho già parzialmente fatto accenno; e ad
ottenere il pareggio, che era la meta dei loro sforzi, aggravarono
le imposte sino al limite consentito dalle condizioni del paese,
riscuotendole con energia, e nello stesso tempo si sforzavano di
fare argine alle spese.
Ebbero però il torto di non preoccuparsi sufficientemente delle
condizioni delle provincie più povere ed arretrate, e specie del
Mezzogiorno. Già anzitutto avevano fra loro pochi meridionali,
essendo quasi tutti piemontesi e lombardi con un po' di emiliani,
come il Minghetti, e di toscani, quali il Ricasoli ed il Peruzzi;
ed anche quei meridionali che erano con loro, non potevano portare
loro le voci del loro paese, perchè erano stati o degli esiliati,
che avevano vissuto a lungo in Piemonte, quali lo Scialoia, il
Mancini, il De Sanctis, o come lo Spaventa erano stati racchiusi
lunghi anni nelle carceri borboniche, perdendo il contatto con la
realtà immediata. Erano poi tutti degli idealisti, le cui
concezioni si fondavano su una cultura generale europea, lontana
dalle miserie materiali e morali delle popola
zioni da cui erano
usciti.
Ho detto che la Destra,
nella sua preoccupazione, del resto
giustissima, del
bilancio, metteva imposte dove poteva, curando
una
rigorosa riscossione; e, si sa, il mettere imposte
e
riscuoterle severamente non concilia la popolarità.
Uno dei
fatti che concorse in quel torno a indebolire
la Destra, fu
l'imposta sul macinato, odiatissima specie nelle campagne, tanto
che vi suscitò tumulti; la
quale era stata fatta approvare con
legge da Cambrai
Digny ed applicata poi molto energicamente da
Sella
e Minghetti. Altro coefficiente nella caduta della Destra
era stato il trasporto della capitale da Firenze
a Roma. Firenze,
danneggiata, reclamava indennizzi,
ed il governo, pure
riconoscendo le ragioni della città,
andava a rilento nel
concederli, perchè appunto non
voleva compromettere il pareggio, a
cui si era sforzato per tanto tempo e con tanta industria, ed
il
cui raggiungimento appariva molto prossimo. Allora
i toscani,
con alla testa il Peruzzi, fecero l'accordo
con Nicotera per
abbattere il governo. Raggiunto
questo accordo, Nicotera e gli
altri condussero subito
alla Camera attacchi violenti.
Ricordo che, quando
la legge, di rigido carattere fiscale,
proposta dal governo per la nullità degli atti non registrati fu
re
spinta per un voto, Minghetti mi chiamò e mi condusse seco per
andare a consultare il Ricasoli, che
viveva fuori Porta San
Pancrazio, e non prendeva
più parte diretta alla politica, ma era
sempre una
specie di gran consulente della Destra....
In conclusione questo si può dire, che la Destra cadde parte per
ragione delle sue stesse virtù, parte per certe sue deficienze.
Essa aveva lavorato lungo tempo per dare al nuovo Stato un
bilancio in pareggio e metterlo al sicuro dalla minaccia del
fallimento; il raggiungimento stesso di questo scopo fu per un
verso ragione della sua caduta; in quanto sorse allora il concetto
che si potesse iniziare una politica economica nuova, cioè una
politica di spese per le regioni che ne avevano più bisogno;
concetto il quale entro certi limiti era pure giustificato. Come
però avviene sempre, in tali rivolgimenti la tendenza dei nuovi
venuti era di sorpassare questo limite; ma i più prudenti di essi
si mostrarono subito preoccupati di mettere dei freni. Così il
Depretis, formando nel marzo del '76 il primo Ministero di
Sinistra, prese per sé il Dicastero delle Finanze, certo per
vigilare efficacemente sulla situazione finanziaria.
Alla formazione della Sinistra trionfatrice avevano concorso in
prima linea i meridionali, specie sotto l'impulso del Nicotera.
che fu uno dei primi capitani nella grande battaglia; poi i
toscani secessionisti dal loro vecchio partito, poi i garibaldini,
gli zanardelliani ed in genere tutti gli elementi di temperamento
e di tendenze culturali democratiche, sino ai radicali, che
rappresentavano allora l'estremismo. Questo movimento della
Sinistra, oltre che motivi di carattere personale e di rivalità di
capi, aveva anch'esso le sue profonde ragioni politiche; mentre la
Destra rappresentava una cultura astratta
ed una competenza particolare più alta, il pregio della
Sinistra e la sua forza stavano nel fatto di meglio rappresentare
lo stato d'animo delle masse popolari, che cominciavano a
risvegliarsi contro il dominio degli ottimati, sia pure
degnissimi, e mostravano di volere prendere maggior parte nella
cosa pubblica, adottando le dottrine e seguendo gli uomini ed i
partiti che aprivano loro la strada.
Del resto si comprende che un partito il quale aveva governato per
sedici anni in mezzo a gravissime difficoltà di ogni genere si
fosse logorato e indebolito; fra l'altro gli riusciva difficile di
raccogliere reclute nuove di valore; i giovani di ingegno più
vivace essendo attratti, come accade sempre, verso i partiti di
opposizione. Infine vi erano i dissensi interni, fra i
conservatori rigorosi, di vecchia scuola, quali il Cantelli e il
Cambrai Digny, ed uomini di spirito più democratico e più aperti
alle idee nuove, quali il Sella ed il Lanza. Ricordo anzi in
proposito un episodio assai significativo. Quando, nel luglio del
'73, cadde il Ministero Lanza-Sella, insidiato e minato dagli
stessi conservatori, Costantino Perazzi, deputato del novarese e
segretario generale di Sella, lo consigliava di passare a
sinistra, fondando il suo concetto su questo: che egli aveva
voluta la venuta a Roma d'accordo con la Sinistra; che egli
rappresentava idee più avanzate del resto della Destra, e che il
ministero a cui apparteneva era stato abbattuto col concorso
aperto della parte più conservatrice della Destra. Se il Sella
avesse ascoltato quel parere, probabilmente sarebbe diventato il
capo della Sinistra; il che avrebbe parzialmente modificato il
corso degli eventi di poi. Ma mi risulta che gli uomini più
autorevoli della Destra avevano fatto ogni sforzo per dissuaderlo
dall'accettare quel consiglio, e c'erano riusciti.
Quando io entrai nella Camera, la Sinistra aveva già cominciato a
decadere. La sua popolarità nel periodo di opposizione, che
l'aveva poi condotta al potere, era dovuta ad una ricetta
infallibile: opporsi alle nuove imposte e chiedere nuove spese. Ma
questi due termini sono inconciliabili: se essi possono servire
nella polemica, falliscono quando si viene alla pratica politica.
Servono insomma all'opposizione per attaccare il governo
avversario; ma non per governare. Ho già detto che gli elementi
più prudenti della Sinistra sentivano la necessità, pure
consentendo nuove spese per le regioni bisognose, di non
compromettere troppo la restaurazione finanziaria a cui il partito
avverso era pure pervenuto. Queste ed altre ragioni di carattere
politico, specie l'incompatibilità fra il suo temperamento pratico
e positivo, e le ideologie sentimentali e fantasiose; il contrasto
fra il suo sentimento dello Stato e il demagogismo di certi
elementi della Sinistra, avevano portato il Depretis, traverso a
quattro suoi ministeri, intramezzati da due brevi ministeri
Cairoli, a cercare appoggi a Destra ed al Centro, e così era nato
il trasformismo.
La parola ha avuto cattiva fama che si è ripercossa sull'uomo, che
fu accusato di scetticismo e di cinismo. Ma né al trasformismo
mancarono profonde ragioni politiche, ne il Depretis meritava quei
giudizii. Egli era un uomo in cui era assai sviluppata una delle
principali doti dell'uomo di governo: il buon senso. Non possedeva
forse altre qualità eccezionali; conosceva bene l'amministrazione;
sapeva esaminare a fondo le questioni, ed era uomo fermo e deciso.
Era grande lavoratore, e lo si trovava sempre in mezzo a fasci di
carte, Quando c'erano delle cose che non voleva risolvere, le
metteva a parte, e ne aveva fatta una pila che saliva sempre più
alta; e con quel suo fine sorriso ironico vi accennava come al
reparto delle cose che vanno studiate lungamente. Non era affatto
uno scettico o un cinico; odiava le vane declamazioni, ma
s'interessava profondamente alle cose dello Stato, a cui dedicava
tutta la sua attività ed energia. Combatteva apertamente gli
avversari, ma era bonario, senza ombra di astio verso nessuno.
Quando io cominciai a votargli contro, egli un giorno mi domandò
perchè fossi passato all'opposizione. Gli risposi adducendo molti
motivi, e poi aggiunsi che non mi persuadeva che il ministero si
appoggiasse specialmente su alcuni tipi poco raccomandabili. Al
che egli osservò: — Ma è sicuro che persone dello stesso tipo non
ci siano anche fra i suoi amici dell'opposizione? — Probabilmente
ci sono, — gli replicai; — ma all'opposizione noi siamo solo
d'accordo per dire di no, non per governare il paese. —
Quanto all'accusa che egli fosse un
furbo, è proprio obbligatorio per un uomo
di Stato di essere un ingenuo ?
Poco dopo che io ero entrato nella Camera, questa dissoluzione
della Sinistra come partito unito di governo fece un altro passo,
col ritiro, nel maggio 1883, di Zanardelli e di Baccarini dal
Ministero, e la costituzione della famosa Pentarchia, che aveva a
capo Cairoli, Crispi, Nicotera, Baccarini e Zanardelli, e che
riuniva in un fascio di opposizione buona parte degli uomini di
Sinistra. Pure contro il Ministero, ma separato dalla Pentarchia,
vi era il gruppo detto dei «dissidenti», che combattevano il
Ministero sopratutto per la finanza del Magliani, ma si tenevano
distaccati dalla Pentarchia per viarie ragioni, ma sopratutto
perchè temevano quella politica estera, così detta delle «mani
nette» con la quale il Cairoli, capo riconosciuto della
Pentarchia, ci aveva condotti al grave scacco di Tunisi. A questo
gruppo, a cui io mi ascrissi quando passai all'opposizione,
appartenevano quasi tutti gli uomini che poi diventarono
Presidenti del Consiglio, cioè Rudinì, Sonnino, Pelloux ed io,
oltre Berti, Villa, Chimirri, Lacava, ecc. Eravamo quarantacinque;
facevamo parte di quasi tutte le Commissioni e costituivamo così
una forza parlamentare importante.
I miei due primi anni di quella legislatura, durata circa tre anni
e mezzo, dal 22 novembre 1882 al 27 aprile 1886, furono per me
d'affiatamento e di noviziato. Fui eletto in molte Commissioni, in
specie in quella del Bilancio, nelle quali portavo le competenze
acquistate nell'amministrazione. La mia azione più veramente
politica cominciò solo nel terzo anno, con l'opposizione ai metodi
finanziari del Magliani, che teneva e tenne ancora per qualche
anno il Ministero del Tesoro e reggeva quello delle Finanze; e il
cui nome è rimasto famoso, come del rappresentante tipico di una
finanza insinceramente ottimista e di una quasi prestigitazione
finanziaria. Il Magliani veniva dalla burocrazia borbonica; era
intelligentissimo, pronto ed abile e parlatore facondo e
persuasivo; ma poco consistente nella sostanza e sopratutto
debole, incapace di rispondere con quel monosillabo che dovrebbe
essere la divisa di ogni ministro del Tesoro, col no a qualunque
domanda di cosa dannosa alla finanza. Il Depretis per parte sua
non lo frenava, preso com'era dalla passione di rimanere al
governo ad ogni costo; passione che fu il fattore personale di
quel trasformismo di cui sopra ho detto le ragioni politiche.
Questa ottimistica finanza del Magliani riusciva tanto più
pericolosa per l'abilità con cui vi si dissimulava il disavanzo
allo scopo di giustificare aumenti di spese. Si ricorreva, a
questo fine, a varii trucchi e ripieghi; si era inventata la
categoria delle spese ultra straordinarie, che non dovevano
contare per la loro eccezionalità, vera o pretesa; e si era
escogitata la dottrina delle «trasformazioni di capitale», per cui
una spesa che creava una cosa reale, non doveva contare come
spesa, essendosi convertita in capitale. Una volta messisi per
questa via insidiosa, la necessità dei ripieghi e dei trucchi si
moltiplicava; si arrivò al punto di fare figurare all'attivo del
bilancio, non solo le cosidette «trasformazioni di capitale», ma a
calcolare come aumento di valore qualunque spesa fatta intorno ad
un oggetto.
Il discorso che contro questi metodi di finanza io pronunciai alla
Camera nell'88, fece un gran rumore, anche per la specie di
scandalo che proprio un nuovo arrivato venisse a proclamare il
fatto di un grave disavanzo, e perchè io m'ero sforzato di
semplificare i termini del problema, e di renderlo chiaro a tutti.
E pare che ci fossi riuscito, perchè dopo il discorso venne a me
il deputato Medoro Savini, il romanziere, uno degli uomini più
semplici e ingenui che io abbia conosciuto, il quale mi disse: —
Ti faccio la migliore di tutte le congratulazioni, e cioè che ho
capito anch'io! — Il governo, che si era accorto dell'impressione
fatta, voleva che qualche risposta al discorso mio, in attesa di
quella più solenne del Ministro competente, venisse da qualche
altro deputato, e ne incaricò il Toscanelli. Le cose si facevano
allora molto bonariamente, e il Toscanelli venne da me ad
avvertirmi e a chiedermi anche degli argomenti contro il mio
discorso, perchè egli di finanza non se ne intendeva. Io glie li
diedi volontieri, mostrandogli ciò che poteva rispondere, ed egli
ne cavò un discreto discorso. Dopo il quale ritornò da me a
chiedermi come mai fosse avvenuto che gli argomenti che io gli
aveva dati fossero migliori e più efficaci di quelli che gli
avevano fornito al Ministero delle Finanze.
— Si capisce — gli risposi io — perchè io il Ministero avevamo
interessi diversi. Al Ministero gli argomenti migliori volevano
riservarli pel Ministro,, che doveva parlare dopo di te; mentre a
me conveniva di fare apparire che il Magliani di finanze non ne
sapeva più di te; e ci sono riuscito. —
Così si venne alle elezioni del 1886, tenute sempre a scrutinio di
lista, il 10 giugno. Depretis avrebbe voluto farle nell'ìautunno,
ma siccome ciò sarebbe stato molto pericoloso per l'opposizione,
questa gli creava ormai tali impicci nella Giunta del bilancio, e
tali imbarazzi alla Camera con qualche episodio di ostruzionismo,
che egli fu costretto a farle subito, quantunque il momento non
fosse propizio per il Ministero. Ricordo che egli in quei giorni
mi chiamò e mi disse: — Ma perchè mi volete obbligare a fare le
elezioni subito? — Ed io gli risposi: — Ma per non darle tempo di
prepararsi a combatterci!—
Ricordo, in quelle elezioni, un curioso episodio, che mostra come
certe questioni, prolungatesi per tanti lustri nella politica
italiana, nel Piemonte erano già praticamente risolte. Andai ad un
banchetto, a San Damiano, nel quale, oltre tutti i sindaci della
valle intervennero parecchi parroci, non ostante che in quel tempo
la Curia romana avesse ribadito energicamente il principio del non
expedit. Anzi il parroco più anziano volle fare un discorso, che
si riassume tutto in queste parole: — Andate tutti a votare,
perchè «né eletti né elettori» sono tutte balle! — Il governo
naturalmente combatteva la nostra lista per quel che poteva, e
aveva messo in campo un suo unico candidato il quale, sapendo che
la mia posizione non poteva, essere toccata, cercava di persuadere
a sostituire il nome suo a quello di uno dei miei due compagni di
lista, che erano il Roux ed il Turbiglio. A pararci questa insidia
io dichiarai agli elettori della valle Macra, del collegio di
Dronero, che la lista doveva essere votata integralmente, perchè
se votavano solo per me avrebbero bensì espressa una simpatia
personale, ma avrebbero condannata la mia politica, che era una
con quella dei miei colleghi. E la lista intera fu votata nei
quindici comuni di quella valle così largamente che il candidato
ministeriale vi ebbe due soli voti nel comune di Stroppo. Ricordo
che qualche tempo dopo il sindaco di quel comune, incontrandomi,
si scusò che non mi si fosse data l'unanimità dei voti e mi
aggiunse: — Ma non accadrà una seconda volta. In paese si è saputo
di chi erano quei due voti, e quei due elettori sono stati
trattati in modo tale che si sono decisi ad emigrare e andarsene
in Francia! —
Gli risposi che ciò era veramente troppo.
La tattica usata dall'opposizione, di forzare il governo a fare le
elezioni in maggio, e non dargli tempo ad una preparazione, fu
giustificata dai risultati. Con la nuova Camera la posizione del
governo apparve subito assai indebolita; e noi ripigliammo
immediatamente la nostra campagna contro la finanza del Magliani,
la quale nelle conseguenze accumulate dei suoi errori era andata
sempre peggiorando. In un dibattito tenuto al principio dell'87,
il Ministero non ebbe che quindici voti di maggioranza. Era dunque
ormai giunto il momento di stringere; e il nostro gruppo dei
dissidenti aperse trattative con la Pentarchia. Io, Rudini e
Lacava avemmo l'incarico di condurre quelle trattative, le quali
del resto non toccavano che un punto: che la Pentarchia prendesse
a suo capo Crispi al posto di Cairoli, del quale diffidavamo per
l'ingenuità della sua politica estera; con questo mutamento i
dissidenti s'impegnavano a votare con loro.
Andammo da Crispi io e Lacava, perchè fra Crispi e Rudini vi era
una ruggine personale che non fu mai tolta. La Pentarchia accettò
la nostra proposta, e Crispi fu incaricato di parlare, e parlò a
nome di tutte le opposizioni, con la conseguenza che al voto il
Ministero ottenne una esigua maggioranza. La sera stessa della
votazione, per invito di Codronchi fu tenuto un convegno di
parecchi deputati di Destra, che deliberarono di passare
all'opposizione essi pure. Così il Ministero sarebbe caduto; e si
seppe che in una conversazione che il giorno dopo Depretis ebbe
col Re, Sua Maestà accennò all'eventualità di incaricare Crispi
della formazione di un nuovo Ministero; ma Depretis
gli rispose che credeva
di potere avere Crispi con sé. Aperse
infatti trattative a questo scopo e Crispi si lasciò persuadere.
Invece di tentare la formazione di un Ministero proprio, secondo
avrebbe voluto il logico svolgimento dell'azione delle opposizioni
riunite, égli accettò di entrare nel ministero Depretis (4 aprile
1887) quale ministro degli Interni, mantenendo anche al Tesoro ed
alle Finanze il Magliani; contro cui la battaglia dell'opposizione
era stata particolarmente e lungamente condotta. Con questo suo
passo anche il Crispi abbandonava effettivamente la Sinistra, ed
entrava nel processo del trasformismo del Depnetis, che più tardi,
coi varii suoi Ministeri si risolse nel governo del Centro.
La condotta del Crispi ebbe per effetto di scompaginare la
situazione, dividendo nuovamente le opposizioni. Ma pochi mesi
dopo, nel luglio, Depretis morì, e Crispi ebbe l'incarico di
formare il nuovo Ministero. Lo fece con elementi varii
mantenendopero sempre seco il Magliani il quale, non ostante
l'evidenza della rovina della sua finanza che conduceva ad uno
spareggio pauroso, pareva irremovibile. Noi riprendemmo però la
lotta, che l'anno dopo portò alla sua caduta, che fu definitiva.
L'occasione fu data dal progetto di aumento del prezzo del sale e
di decimi della imposta fondiaria, progetto insufficiente e non
accompagnato, come avrebbe dovuto essere, da economie. Fummo
nominati nove commissari per riferire sul progetto, e ci trovammo
subito tutti d'accordo nel respingerlo. Io fui nominato relatore e
mi impegnai di portare la relazione l'indomani mattina alle
undici. Vi lavorai la notte; la portai alla tipografia della
Camera alle otto del mattino, ed alle undici la presentai in bozze
ai miei colleghi commissar! che l'approvarono ad unanimità, così
che alle due fu distribuita stampata alla Camera. Credo che sia il
record di una opposizione efficace e rapida.
Si era prossimi alle feste di Natale e il disegno di legge non si
discusse; ma durante le vacanze Crispi fece una crisi parziale.
Magliani si dimise; e siccome egli teneva le Finanze e l'interim
del Tesoro, Crispi lo sostituì con due nuovi ministri, nominando
alle Finanze il Grimaldi, e chiamando al Tesoro il senatore
Perazzi, che era già stato segretario generale con Sella, e che
prese seco come sottosegretario l'onorevole Sonnino. Durante quel
primo suo ministero, Crispi incaricò me, insieme con Lacava e
Della Rocca, suo segretario generale, di compilare il progetto per
la riforma della Legge provinciale e comunale, che noi conducemmo
in porto, ed è quella che vige tuttora.
Venuti alle Finanze ed al Tesoro Grimaldi e Perazzi, questi fece
alla Camera una esposizione finanziaria la quale confermava
pienamente le nostre critiche, dimostrando che la situazione del
bilancio non era quale l'aveva descritta il Magliani. Quella
esposizione toccava molte responsabilità, e diede quindi luogo ad
una discussione tempestosa assai per parte di tutti quelli che
avevano appoggiata la finanza del Magliani. Io fui fra i pochi che
difesero quella esposizione, ma in complesso la Camera si mostrò
ostile, ciò che portò ad una nuova crisi. Crispi cambiò i due
ministri, chiamando me al Tesoro e Sesmit Doda alle Finanze, e
sostituendo pure ai Lavori Pubblici Saracco con Finali, e creando
ad un tempo il Ministero delle Poste e Telegrafi, a cui chiamò il
Lacava.
Io rimasi con Crispi, in quel Ministero, dal 9 marzo del 1889 al
principio di novembre dell'anno seguente, e potei raccoglierne,
nel lavoro comune che si svolse nel migliore accordo, una
impressione abbastanza compiuta, e che non mi si è nel complesso
modificata per gli eventi intervenuti di poi. Egli era
indiscutibilmente un fervido patriota, che sentiva altamente
dell'Italia, ed avrebbe voluto condurla a sempre più alti destini.
Era uomo di grande energia, di mente larga e pronta, ed aveva idee
molto chiare nel suo programma generale; a cui non corrispondeva
però una eguale attitudine a curare i particolari e l'esecuzione.
Il disastro d'Adua, a mio avviso, fu appunto una conseguenza di
questa manchevolezza; egli aveva tracciato un largo ed audace
programma di espansione, sproporzionato però alla potenzialità del
paese; non ne seppe curare le esecuzioni ed adeguare i mezzi allo
scopo, avventurandosi con mezzi insufficienti, che furono la
ragione principale della disfatta.
Possedeva un senso d'amministrazione severo, proprio d'uomo di
governo; ricordo che quando ero con lui Ministro
al Tesoro, avendo dovuto procedere contro un suo amico, non ebbi
da lui nonché ostacoli, nemmeno raccomandazioni. Ma la scarsa
attitudine ed abitudine all'esame ponderato delle cose, lo portava
alle volte addirittura al fantastico. Ricordo in proposito un
episodio ben strano. Io mi trovavo, d'estate, in campagna a
Cavour, quando egli mi telegrafò di venire senza indugio a Roma.
Arrivato,, quando fui nel suo Gabinetto, egli mi disse senz'altro
ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo di mano della Francia
sulla Spezia. — Come, — esclamai io, — siamo in guerra con la
Francia? Abbiamo dichiarato la guerra alla Francia? — No, — mi
rispose egli, — è la Francia che si prepara ad attaccarci
d'improvviso, con un colpo di mano, che è imminente. — Io gli
replicai che non credevo assolutamente alla cosa, e gli detti
buone ragioni del mio scetticismo; fra l'altro era incomprensibile
che la Francia, che possedeva allora una flotta tre volte
supcriore alla nostra, si prendesse l'odio di una così enorme
violazione del diritto, per fare un colpo di assai dubbia
convenienza. Ma egli rimaneva fermo nella sua convinzione, come
non avesse alcun dubbio della cosa, e mi chiese di dare il mio
aiuto; ciò che feci per lealtà verso di lui come capo del governo
a cui partecipavo, e per quel tanto che potevo come ministro del
Tesoro.
Crispi aveva avvertito l'Inghilterra, che mandò a Genova un
ammiraglio con l'incarico di parlare pubblicamente della comunanza
di interessi fra l'Inghilterra ed Italia nel Mediterraneo, ciò che
egli fece.
Quando poi fui Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni,
scopersi che quella sorprendente informazione Crispi l'aveva avuta
da un agente che teneva presso il Vaticano, e l'aveva accettata
senz'altro come vera senza curarsi di appurarla.
Pure di quel tempo, e cioè durante la mia permanenza al suo
ministero, furono i primi accenni di Crispi ai suoi progetti di
espansione coloniale nell'Abissinia. Quando nell'estate del 1890
la Camera era chiusa, egli mi chiese un prelevamento di
seicentomila lire per una spedizione scientifica in Abissinia.
Dovetti rifiutare; in primo luogo perchè il fondo di riserva era
ridotto a piccole proporzioni; e poi perchè si trattava, con
quella richiesta, non di completare uno stanziamento di bilancio
insufficiente, ma di aprire una spesa nuova, la quale doveva
essere consentita dal Parlamento con legge speciale. Poco dopo
Crispi progettò di inviare a Massaua seimila uomini; e ne fece
richiesta al Ministro della guerra, Bertolè-Viale, e
all'obbiezione del Ministro che per fare ciò occorreva un anticipo
di sei milioni, Crispi gli disse di chiedermeli. Bertolè-Viale
rispose: — Chi deve chiederli è lei, che come Presidente del
Consiglio e Ministro degli Esteri ritiene quella spedizione
necessaria; non io che non ci ho mai pensato. — Crispi replicò che
a me, dopo il rifiuto avuto, non intendeva di chiedere più nulla.
Bertolè-Viale me ne parlò poi; ma io non consentii, anche perchè,
pure parlandomene, Bertolè-Viale mi fece capire che non era lui
che desiderasse quella spedizione.
Riguardo a quella che fu battezzata dal Cavallotti la
«questione
morale» la mia impressione fu allora, nel
momento in cui tali
questioni si agitavano, che il Crispi personalmente fosse onesto e
disinteressato. Ritengo si debba escludere che egli abbia mai
pensato di
avvantaggiarsi della sua posizione per sete di
guadagni. Era onesto, ma disordinato, o forse meglio, su
lui
ricadeva la soma e la responsabilità di disordini
famigliari,
e più tardi anche di persone da cui si
era lasciato circondare;
tanto più che a codesto
genere di disordini egli non dava
importanza, tutto
preso dal pensiero della sua opera politica.
Le relazioni personali fra me e lui furono allora buone,
e devo
dire che durante la mia partecipazione al
suo ministero io non
ebbi che a lodarmi di lui
pel suo contegno e pel cordiale e
sincero appoggio
che egli dava alla mia politica finanziaria.
Eravamo
molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso
a
consulto. Un certo straniamento cominciò quando
io mi dimisi; egli
se la prese a male, specie perchè
io avevo motivate le dimissioni
in forma troppo
sincera, dichiarando che non mi sentivo di
ripresentarmi alla Camera con programma diverso da quello
con cui
ci eravamo presentati agli elettori. Vedendo
però che io non gli
creavo difficoltà e non lo combattevo, la sua animosità del primo
momento si
placò; e durante poi il ministero Rudinì, che seguì
al
suo dopo il gennaio 1891, non ebbi occasione di
dubitare che ci
fosse da parte sua ostilità alcuna
verso di me. Anzi, parlando coi
suoi amici e seguaci
della lotta da condurre contro Rudinì, egli
diceva apertamente essere venuto il momento mio, e doversi seguire
la mia guida.
Fra gli altri uomini politici più in vista del tempo, nel
Ministero Crispi trovai lo Zanardelli, che era uomo di grande
onestà e dirittura, e di valore nel suo ramo speciale della legge.
Aveva molta cultura, però alquanto antiquata; la cultura propria
del periodo di Luigi Filippo, da lui assorbita nella sua
giovinezza di studente; e ne aveva derivata una mentalità
dottrinaria, che si rivela principalmente nella parte giuridica
della sua opera principale, cioè il Codice Penale. Possedeva
grande eloquenza, di carattere letterario; i suoi discorsi erano
composti con grande cura, poi imparati a memoria e detti a
perfezione. Le sue convinzioni politiche erano passionatamente
democratiche, però della particolare democrazia borghese del suo
tempo, mista ad un sincero lealismo per la monarchia
costituzionale. Come molti altri, anzi quasi tutti gli uomini
venuti su con quella cultura ed educazione, non comprendeva ed
avversava il socialismo. Godeva di molte simpatie ed amicizie, ed
era alla sua volta fervidissimo nelle amicizie e negli odii, che
però mutavano. C'era sempre qualcuno che per lui era, secondo una
sua frase abituale, «il peggiore di tutti»; ma poi l'oggetto di
questa sua antipatia cambiava, tanto che fra noi si domandava
scherzosamente: .— Chi è adesso il «peggiore di tutti»? —
Appassionatissimo della politica, delle sue lotte, delle sue
polemiche, egli impersonava proprio l'anima della Sinistra nella
sua implacabilità contro l'antica Destra.
Altro uomo che allora occupava l'attenzione pubblica era il
Nicotera, al quale non mancavano qualità native ragguardevoli. Era
dotato di ingegno naturale; aveva molta energia; era pieno di
coraggio. Ma era pure violento e impulsivo; mancava di cultura;
non conosceva la legislazione né aveva pratica dei congegni
amministrativi dello Stato. Egli è rimasto per me un esempio che
le qualità naturali non sono sufficienti a creare l'uomo politico,
se non sono disciplinate. Anche l'energia non basta se non si sa
poi come adoperarla a proposito e con senso dì misura.
Assumendo il dicastero del Tesoro nel Gabinetto Crispi, io aderivo
pienamente alla concezione democratica della Sinistra, cercando
anzi di estenderla dal puro campo politico, a cui si arrestavano i
criteri di Crispi, Zanardelli, Depretis ed altri, al campo
economico per quanto me lo consentivano le mie particolari
funzioni. Così la prima cosa che feci come Ministro del Tesoro, fu
di mutare la legge generale di contabilità dello Stato per
consentire la concessione di opere pubbliche entro un dato limite
alle cooperative operaie, che erano cominciate a sorgere in quel
tempo. Ero entrato nel Ministero in febbraio e la legge fu
approvata e promulgata il 4 aprile. Nello stesso tempo però io mi
scostavo da quella tendenza della Sinistra, che aveva prevalso
negli ultimi ministeri Depretis per opera di Magnani, in quanto
mettevo in prima linea il pareggio del Bilancio.
Bisogna in proposito ricordare che, mentre Minghetti era riuscito
a raggiungere dopo tanti anni di sacrifizii e di sforzi la meta
del pareggio, la finanza del Magliani lasciava un disavanzo che si
avvicinava ai trecento milioni su un bilancia di circa un miliardo
e mezzo. La situazione finanziaria era tanto più grave per la
lunga crisi economica che travagliava il paese, e che non
consentiva la speranza di potere colmare, o diminuire largamente
quel disavanzo con nuove entrate; e per le ripercussioni della
situazione finanziaria internazionale che creavano grandi ansie
per i nostri pagamenti all'estero, che allora ascendevano a circa
trecentocinquanta milioni all'anno. In seguito infatti ad una
crisi gravissima scoppiata nell'Argentina, ed al conseguente
disastro della famosa Banca inglese Bahring, che si era impegnata
a fondo in quel paese, il cambio era salito fino al sedici per
cento, inasprendo ancora le difficoltà dei nostri pagamenti
all'estero. Per quei diciotto mesi che io rimasi al Tesoro, si
rimediò al disavanzo con l'emissione di Obbligazioni ferroviarie
al tre per cento, titolo creato ai tempi del Magliani; e con la
vendita di centoventi milioni della Cassa Pensioni, che era stata
mal creata, senza dare seguito alla legge, e non funzionava; così
che erano rimasti nelle sue casse, a disposizione del Tesoro, quei
centoventi milioni già dati come sua prima dotazione.
Un'altra difficoltà della nostra finanza d'allora, era creata
dalla ostilità della finanza francese, che obbedendo alla parola
d'ordine del suo governo, irritato dalla politica di Crispi,
ostacolava in tutti i modi quel collocamento di nostri titoli che
doveva servirci per i nostri pagamenti all'estero. In quelle
difficili congiunture venne a Roma, emissario della Deutsche Bank,
il signor Siemens, per la costituzione, da me promossa, del
Credito Fondiario. Io colsi l'occasione per trattare con lui il
collocamento all'estero di quei centoventi milioni di rendita, e
potemmo venire ad un accordo per noi conveniente La sola
condizione che egli pose fu che non fosse resa nota l'esistenza di
quel contratto per un po' di tempo, appunto perchè la finanza
francese ostile non creasse ostacoli al collocamento. Ricordo che
l'accordo era stato raggiunto alla sera, e che il Siemens doveva
venire il giorno dopo per la firma; e che la sera stessa il
telegrafo segnalò un ribasso di sessanta centesimi della nostra
rendita sulla Borsa di Parigi. Ma il Siemens firmò lo stesso, pure
lamentando di avere concluso un cattivo affare. Bisogna
riconoscere che in quel momento, e per parecchio tempo dopo, la
nostra finanza fu molto e cordialmente sostenuta dalla Banca
tedesca.
Le condizioni del nostro bilancio allora erano tali che, specie
pei pagamenti all'estero bisognava ricorrere a crediti esteri,
perchè in Italia avevamo il corso Torzoso. Ma il campo per quei
crediti era ristretto assai; la Francia ce li rifiutava
assolutamente, per controbattere la politica di Crispi ad essa
ostile; ed anche sull'Inghilterra c'era poco da contare, perchè i
finanzieri inglesi facevano scarsi affari in Europa, preferendo le
imprese e le speculazioni coloniali, nelle quali guadagnavano
molto di più, anche se erano esposti a catastrofi come quella che
travolse la Banca Bahring.
Mentre provvedevo nel miglior modo possibile a questi bisogni
immediati, procuravo di restringere le spese; ed a questa mia
opera di economia Crispi non si oppose nullamente sino alle
elezioni del '90; ed anzi l'appoggiò, consentendo meco che il
Governo si presentasse a quelle elezioni con un programma di
economie. Tale programma io l'avevo formulato ai primi di
settembre come programma per le elezioni stesse, chiedendo in un
Consiglio dei ministri una diminuzione delle spese per venti
milioni nell'esercito e per dodici nella marina, e che nessun
aumento fosse consentito per alcun altro bilancio. E poiché come
il Ministro più giovane fungevo da segretario nel Consiglio, ne
profittai per metterlo a verbale, aggiungendo che senza queste
concessioni io non avrei presentati i bilanci alla Camera. Dopo
lunghe discussioni il Ministro della Guerra, Bertolè-Viale, e
quello della Marina, Brin, dettero il loro assenso; ma Finali,
ministro dei Lavori Pubblici, insistette per avere un aumento di
dodici milioni nel suo bilancio. Io rifiutai, perchè a mio avviso
quei dodici milioni non erano necessari, ed anche perchè il
Ministro della Guerra, prima di cedere alla mia richiesta di
diminuzione del suo bilancio, aveva ottenuta da me la promessa,
che non avrei ceduto con nessun altro dei ministri.
Finali continuando ad insistere, io dichiarai in Consiglio, e
ripetei personalmente a Crispi, che se Finali non rinunciava, e
non si modificava il bilancio dei Lavori Pubblici nel senso da me
indicato, avrei date le dimissioni. Crispi cercò di rimandare la
questione per quanto potè; ma siccome Finali non cedeva, e Crispi
forse non si aspettava che io tenessi fermo al proposito
manifestato, le dimissioni diventarono inevitabili.
Mancando tre o quattro giorni alllapertura della Camera, io feci a
Crispi un'ultima dichiarazione, avvertendolo che se il giorno
dopo, a mezzogiorno, non avessi il consenso del Finali, gli avrei
mandate le dimissioni e le avrei ad un tempo pubblicate. Non
avendo a mezzogiorno ricevuta alcuna risposta, dieci minuti dopo
mandai la mia lettera di dimissioni e le comunicai alla stampa. Un
quarto d'ora dopo si dimise pure il mio sottosegretario, Lazzaro
Gagliardo, già garibaldino, ferito al Volturno e nel Tirolo, e che
ricordo sempre come uno dei maggiori galantuomini e degli uomini
di maggior buon senso che io abbia incontrati.
Non volli però creare altre difficoltà al Ministero, e seguitai a
votare in suo favore sino alla
sua caduta, che avvenne
improvvisamente il 31 gennaio 1891, in una seduta alla quale non
mi trovavo presente.
Fu la seduta delle famose «sante memorie». In uno dei
suoi scatti impulsivi, Crispi aveva detto che la politica estera
della Destra era vile. Avvenne un pandemonio; Rudinì e gli altri
uomini del suo partito balzarono in piedi apostrofandolo, ed il
Ministero, nella votazione avvenuta subito dopo, fu battuto e
rassegnò le dimissioni. Ma l'episodio di quella caduta era stato
preparato senza volerlo dal Crispi stesso, il quale, staccandosi
sempre più dalla Sinistra, aveva favorito inconsciamente un
tentativo di ripresa della Destra, che s'impersonò appunto nel
Ministero costituito da Rudinì in seguito a quella crisi.
Quando formò il suo primo Ministero, il Marchese Di Rudinì era
considerato come il capo della Destra; essendo pervenuto a quella
situazione con la scomparsa degli altri uomini più insigni del
partito e per il prestigio del suo passato. Era infatti entrato
nella vita politica giovanissimo, e in un episodio drammatico, nel
1866, quando a Palermo, in seguito al malcontento causato dalla
guerra, era stata tentata una vera e propria insurrezione. Era
stata una insurrezione prettamente borbonica, preparata con gli
elementi della malavita palermitana; la quale per tre giorni aveva
assediato il Di Rudinì, allora sindaco della città, nel palazzo
municipale. Il giovane sindaco si era difeso con grande coraggio
ed energia, dando tempo alle truppe dell'esercito regolare di
sbarcare, reprimere i rivoltosi e rimettere l'ordine nella città
perturbata.
Questo episodio gli aveva creata una grande popolarità fra gli
uomini della sua parte, a cui era parso di avere trovato
finalmente in questo giovane un vero uomo di azione, che sarebbe
stato il loro capo per l'avvenire. E si cercò di affrettarne la
carriera; fu nominato Prefetto di Napoli, e fu poi chiamato al
dicastero dell'Interno nell'ultimo Ministero Minghetti, quando non
aveva ancora compiuti i trenta anni. Come avviene per le
aspettazioni troppo vive, seguì una certa delusione, anche nella
fila del suo partito. Ricordo in proposito una frase del De
Sanctis, alquanto maligna, e che allora fece il giro degli
ambienti politici : — Venne alla Camera come il fanciullo
miracolo; il fanciullo rimase, ma il miracolo scomparve. — Le mie
impressioni di lui sono che egli fosse un perfetto galantuomo ed
uomo di garbo e finezza; dotato di una cultura non ricca ma certo
superiore alla media. Non aveva e non acquistò mai una completa
esperienza e non sapeva dominare le assemblee. Il più grande
difetto del suo carattere quale uomo politico, era l'indecisione.
Questa perplessità della sua indole si manifestò anche quella
volta, nella formazione del suo Ministero. Come ho accennato, il
modo con cui avvenne la crisi indicava il proposito di
esperimentare un ritorno alla Destra; ma quando fu a scegliersi i
suoi collaboratori il Di Rudinì finì per seguire l'esempio di
Depretis al rovescio, cercando cioè di formare un Gabinetto il
quale, movendo dalla Destra assorbisse uomini di Sinistra. Egli
prese seco, al Ministero degli Interni il Nicotera, cioè l'uomo
che aveva condotta la rivolta parlamentare del '76, insieme a
uomini di pura Destra.
Prima di offrire gli Interni al Nicotera, il Dì Rudinì li aveva
offerti a me; ma io non potei accettare, dando ragione del mio
rifiuto col fatto che il nuovo Ministero si era formato sovra una
base politica diversa da quella su cui poggiava il Ministero di
cui ero stato parte sino a pochi mesi prima.
Le difficoltà inerenti ad una situazione quale quella in cui il
Ministero si era formato, non tardarono a manifestarsi, aggravate
da un dissidio, invano dissimulato, fra i suoi due uomini
principali, il Di Rudinì ed il Nicotera. Questi, che forse nutriva
maggiori ambizioni, si giovava della sua posizione per scalzare il
suo capo, al quale mancava l'energia e la decisione per
disfarsene. Un giorno, avendomi chiamato, il Di Rudinì si sfogò
meco, e dichiarandomi di non potere andare avanti col Nicotera
agli Interni, concluse coll'offrirmi nuovamente quel posto. Gli
risposi reiterando ciò che gli avevo già risposto alla sua prima
offerta; e cioè che io non potevo entrarvi se il colore del
Ministero non venisse cambiato, nel senso di appoggiarlo
maggiormente verso Sinistra. Egli mi chiese in che modo, a mio
avviso, questo mutamento potesse attuarsi, ed io suggerii di
chiamare insieme a me Bonacci alla Grazia e Giustizia. Egli
accettò il suggerimento, ed anzi dette a me l'incarico di fare
l'offerta formale al Bonacci.
Io adempiei a quel mandato; ma poi non ne seppi più niente perchè
Di Rudinì non si decise a fare la crisi, quantunque più volte
ancora ritornasse a parlarmi dei suoi screzii col Nicotera. Poco
dopo, durante la chiusura della Camera per le feste di Pasqua del
1892, essendosi dimesso il Ministro delle Finanze, Colombo, egli
mi telegrafò a Cavour dove mi trovavo, pregandomi di venire a
Roma. Venni, ed egli mi offerse di fare un nuovo Ministero
d'accordo meco, tutto con uomini nuovi, tenendo fermi solo il nome
suo e quello di Nicotera. Gli risposi che non mi pareva
opportuno.; che io con Nicotera non mi sarei trovato. — Ma lo
sopporto io — mi disse RudinL Ed io gli replicai: — Per questo
posso compiangerla, ma non mi sento di imitarla. — Egli offerse
allora il Ministero del Tesoro al Genala, che non accettò; e non
riuscendo ad accaparrarsi altro nome che portasse ad un
rafforzamento della compagine ministeriale, il Ministero si
presentò alla Camera incompleto.
Nel dibattito parlamentare che seguì ai primi di maggio, io parlai
contro, osservando che il Ministero non poteva andare avanti
perchè non riuscirà nemmeno a ricomporsi; ed il Ministero essendo
caduto col voto provocato dal mio discorso, fui indicato per la
soluzione della crisi ed ebbi l'incarico di formare il nuovo
Ministero.
Un ritorno al governo di partito — I punti fondamentali del mio
programma: politica liberale e politica sociale; mantenimento
della Triplice e rapporti amichevoli con la Francia — Le
elezioni e la vittoria della Sinistra — L'inchiesta sulla Banca
Romana e i suoi precedenti — Il pericolo pel credito nazionale e
la riforma delle Banche d'emissione — Gli inizii del movimento
socialista — I « Fasci » siciliani e l'azione economica dei
lavoratori — De Felice, Barbato, Verro — La reazione
conservatrice — 11 Comitato dei Sette e la sua opera inadeguata
— Le accuse mosse contro di me e le mie dimissioni.
La caduta del Ministero Di Rudinì, che era nato da una crisi
provocata dagli elementi conservatori sur una frase infelice del
Crispi, e che, nonostante la partecipazione del Nicotera e le
velleità mai adempiute del Di Rudinì di cercare altri appoggi
verso la Sinistra, era stato complessivamente un Ministero di
Destra, rappresentò appunto lo scacco di quel primo tentativo di
restaurazione di una politica conservatrice, che in quella forma
non fu più ritentata.
Avuto l'incarico di formare il nuovo Ministero io giudicai che
esso dovesse essere nettamente un Ministero di Sinistra, senza
dissimulazione ed accomodamenti, e chiamai a collaborare meco il
Bonacci, Brin, Martini,
Genala, Lacava, Finocchiaro-Aprile, Di
Saint-Bon, che era sopratutto un tecnico per la marina, e per la
guerra il Pelloux, che nel mondo militare rappresentava allora,
avanti le sue posteriori trasformazioni, un elemento molto
liberale. E mi formai anche il concetto di chiamare uno dei
liberali più rappresentativi alla Presidenza della Camera,
scegliendo lo Zanardelli, che effettivamente fu nominato alla
Presidenza dopo le elezioni generali, il 23 novembre del '92.
Il mio programma aveva alcuni punti capitali che lo distinguevano
dalla politica dei miei immediati predecessori. Non solo da quella
del Di Rudinì, rimasta sempre oscillante fra le tendenze
conservatrici dell'uomo e il suo sforzo ad adattarsi alle
condizioni dell'ambiente; ma anche da quella del Crispi, che
avviatosi ormai a propositi grandiosi di espansione non teneva
sufficiente conto delle condizioni ancora assai difficili della
finanza e della economia pubblica, e mostrava già la disposizione
a reagire con violenza al malcontento del paese, specie delle
classi lavoratrici. Uno di questi punti era per me la
restaurazione del bilancio, malamente scosso dalla finanza del
Magliani e dalla mania spendereccia della Sinistra nei suoi primi
tempi; e la necessità di adattare la nostra politica finanziaria
alle condizioni del paese, che stava ancora traversando una lunga
crisi economica, dalla quale non doveva uscire che parecchi anni
dopo.
Un altro punto, che d'altronde era in stretta correlazione con
questa necessità capitale del risanamento della nostra finanza,
toccava la politica estera. Io accettavo pienamente la «Triplice
Alleanza» conclusa parecchi anni avanti dal Depretis; ma non
intendevo affatto di seguire l'indirizzo di Crispi, che a questa
alleanza si era appoggiato per condurre una politica estera che la
Francia considerava ostile e provocatrice. Tale atteggiamento di
Crispi aveva avuto per noi ripercussioni gravi appunto nel campo
finanziario; rendendo più acuta l'ostilità finanziaria con cui la
Francia rispondeva alla ostilità politica del Crispi, e
costringendoci a maggiori spese militari, come apparve poi negli
anni seguenti, quando Crispi ritornò al Governo. Nel mio pensiero,
già sino d'allora la Triplice doveva essere considerata da noi
nell'aspetto di una alleanza difensiva, la quale, garantendoci la
nostra sicurezza, ci permettesse appunto di intrattenere relazioni
cordiali, sovra un piede di riconosciuta eguaglianza, con le altre
Potenze. Io mi proponevo dunque nella politica estera, mantenendo
fermi i nostri accordi con le Potenze Centrali, di smussare gli
angoli nei nostri rapporti con la Francia, che si erano gravemente
inaspriti durante il Ministero Crispi, e di ristabilire con essa
relazioni equanimi e di buon vicinato. Ed a questo mio proposito
riuscii, ottenendo appunto che la Francia partecipasse
ufficialmente alle feste colombiane tenute a Genova, nell'agosto
del '92, inviandovi una sua corazzata con un viceammiraglio a fare
omaggio al Re, che era presente con tutti i Ministri.
Il terzo punto capitale del mio programma concerneva la politica
interna; per la quale io ritenevo arrivato il momento di avviarsi
ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici.
L'avvento infatti della democrazia al
governo, con la cosidetta
rivoluzione parlamentare del
'76 ed il trionfo della Sinistra, era
stato di carattere più che altro dottrinario, toccando più
particolarmente, e in modo non interamente
benefico, la politica finanziaria dello Stato. Le
inclinazioni democratiche della Sinistra si erano insomma più che
altro sfogate nel fare una politica popolare di spese, che se per
un verso parevano giustificate
dalle condizioni e dai bisogni delle
regioni meno fortunate e più arretrate, per un altro minacciavano
la compagine finanziaria dello Stato. E se le convinzioni
democratiche della Sinistra erano rimaste ferme nella
dottrina, nella pratica parlamentare avevano subito inevitabili
oscuramenti per la politica del «trasformismo» del Depretis, e per
le nuove tendenze dittatorie a cui il Crispi si era ormai avviato.
C'era poi un punto nel quale le idee mie si
distinguevano nettamente da quelle degli altri
rappresentanti della democrazia di quel tempo. La Sinistra
democratica era pur sempre una espressione della borghesia, sia
pure della borghesia minuta in confronto a quella degli
ottimati rappresentata dalla vecchia Destra, specie lombarda; e
le sue ispirazioni dottrinarie erano
pure attinte alle scuole della democrazia borghese. Ho già
detto che a quel tempo gli stessi democratici più avanzati, quali
lo Zanardelli e il Cavallotti, erano avversi al socialismo ed alle
sue dottrine; mentre per Crispi il socialismo era addirittura il
nemico della patria. Per l'opinione media il socialismo si
confondeva con l'anarchismo e la rivoluzione; e i pochi socialisti
già arrivati alla Camera, quali il Costa, il Prampolini, il
Badaloni, l'Agnini, se personalmente erano trattati come egregie
persone, come meritavano, politicamente erano considerati come un
caso eccezionale. Io pensavo invece che fosse già arrivato il
momento di prendere in considerazione gli interessi e le
aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto
il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche,
di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano
cominciato, tanto nelle grandi città industriali, che qua e là
nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire. Concetti questi
che, anche se non espressamente proclamati, informavano lo spirito
delle dichiarazioni con cui il nuovo Ministero si presentò alla
Camera.
Apparve subito che la Camera, come era stata
formata nelle ultime
elezionii fatte dal Crispi, non
avrebbe fornito una base sicura
alla esplicazione
di quel programma. Quando mi presentai fui
infatti
attaccato particolarmente dalla Destra, che aveva
per suo
oratore principale Ruggiero Bonghi, che ne
rappresentava appunto
le tendenze più retrive. Provocai, a chiudere la discussione, un
voto di fiducia;
ed ebbi appena nove voti di maggioranza, con
ventisei o ventisette astenuti al Centro, che facevano
capo a
Sonnino. Quella votazione mi dimostrò che
con quella Camera era
impossibile andare avanti, e la sera stessa mi recai dal Re per
esporgli la situazione, che si riassumeva poi nel dilemma: o lo
scioglimento della Camera o le dimissioni del Ministero. Le
ragioni per cui allora non esitai a proporre lo scioglimento della
Camera, e che esposi a Sua Maestà, erano le seguenti: che il
sistema elettorale essendo stato mutato con la legge presentata e
fatta approvare dal Di Rudinì, che ristabiliva l'antico collegio
uninominale, la Camera non rispecchiava più fedelmente la
situazione politica del paese; e che d'altronde, la Camera avendo
abbattuti i due Ministeri del Crispi e del Rudinì, e avendo a me
data una votazione in base alla quale non potevo assumermi la
responsabilità del governo, ne risultava una condizione di cose
per cui non appariva possibile di costituire una maggioranza. Il
Re ascoltò queste ragioni e mi disse di tornare l'indomani a
mezzogiorno per la risposta.
Nei rapporti che durante il mio Ministero io ebbi con Re Umberto,
egli mi apparve come un uomo molto semplice, molto cortese, e
correttissimo dal punto di vista costituzionale. Dopo quel mio
primo Ministero io non ebbi per un pezzo più a rivederlo; ma certo
in quel tempo non notai in lui prevenzioni di sorta contro una
politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di
responsabilità la sua funzione, e s'informava moltissimo delle
cose di Stato, interessandosi di tutto, ma in particolar modo
della politica estera e delle cose militari.
Anche in questa occasione egli mostrò d'intendere con retto senso
costituzionale l'alto compito che gli incombeva. Appena lasciato
il Re io avevo convocato per l'indomani alle undici il Consiglio
dei ministri. Appena fu adunato il Genala chiese la parola, e
mettendo in rilievo l'impossibilità di andare avanti, dichiarò
solennemente che gli pareva opportuno di proporre la convocazione
dei comizii elettorali. Ricordo ancora che usò la frase: — Bisogna
fare un gran colpo. — Io presi allora la parola e dichiarai ai
Ministri che li avevo convocati appunto per informarli che la
proposta dello scioglimento della Camera e delle elezioni era già
stata da me fatta a Sua Maestà, e che a mezzogiorno dovevo tornare
a Palazzo reale a prendere la risposta. E infatti poco dopo fui
ricevuto dal Re, il quale mi disse subito che, avendo esaminata la
situazione parlamentare, e tenendo conto della mutazione della
legge elettorale, era venuto alla conclusione che fosse opportuno
interpellare il paese. Soggiunse poi che quanto al momento ed alla
forma della dichiarazione, si rimetteva interamente a me. Con
questa risposta tornai ai ministri, che erano rimasti ad
aspettarmi, e li invitai a ritrovarsi tutti per le due
all'apertura della Camera. Vi era grande aspettativa e fermento.
Quando io mi alzai a parlare e cominciai a dire: —Ho l'onore di
dichiarare che in seguito alla votazione di iersera il Ministero
ha presentate a Sua Maestà le sue dimissioni — un applauso scoppiò
dai banchi della Destra. Io li lasciai applaudire un bel po', poi
soggiunsi: — Però Sua Maestà non le ha accettate.
—Un altro applauso fragoroso scoppiò allora dai banchi della
Sinistra, e Zanardelli alzandosi gridò:
—Viva il Re! —
Per tutto il seguita poi del mio Ministero, nella Camera fu
mantenuta questa rigida divisione di Destra e di Sinistra, quale
non si era avuta da un pezzo, e che si dimostrava ogni volta che
si faceva una votazione per alzata e seduta.
Io conclusi chiedendo l'esercizio provvisorio per sei mesi. Seguì
una lunga discussione, nella quale oratore principale contro il
Ministero fu sempre il Bonghi, e si concluse con una votazione a
scrutinio segreto, che mi dette settantotto voti di maggioranza.
Sciolsi la Camera solo nell'autunno, e precisamente il 10 ottobre,
anche perchè per l'agosto si preparavano a Genova le feste pel
Centenario di Colombo, alle quali dovevano convenire
rappresentanze da tutto il mondo, e che, come ho detto, ebbero
anche un particolare significato politico, per l'intervento della
Francia, che indicava un attenuamento della tensione fra i due
paesi.
Le elezioni ebbero luogo il 13 novembre col risultato di una
notevole vittoria della Sinistra la quale guadagnò parecchi seggi
contro la Destra. Rimasero pure colpiti i repubblicaneggianti
dell'Estrema Sinistra, con la caduta di Cavallotti e
dell'Imbriani, che ne fecero un chiasso indiavolato,
attribuendomene la responsabilità, come se io avessi avuto il
dovere di sostenere elementi che non erano perfettamente
nell'ambito della Costituzione.
L'anno che seguì, 1893, fu grave e difficile; per l'inasprirsi
delle difficoltà finanziarie, con un rialzo del cambio che le
finanze dello Stato, già da tempo in condizioni non buone,
risentivano assai pei pagamenti che si dovevano fare all'estero, e
che superavano i trecento milioni in oro; per le rivelazioni
bancarie, specie quelle concernenti la Banca Romana, coi
conseguenti scandali e polemiche che suscitarono nel mondo
politico; ed infine per le agitazioni proletarie che culminarono
nel movimento dei Fasci dei lavoratori, organizzatisi in Sicilia.
A complicare tutte queste difficoltà si aggiunse la morte di
parecchi dei miei collaboratori al Ministero: morirono l'Eula, che
teneva il dicastero della Grazia e Giustizia, e che io sostituii
prima col senatore Santamaria Nicolini, poi col senatore Giacomo
Arno; morì l'Ellena, che era alle Finanze, e che fu sostituito dal
Grimaldi; morì il Saint-Bon, che fu sostituito dal Racchia; ed
infine morì il Genala, che sostituii io personalmente
prendendo l'interim dei Lavori Pubblici.
Per fare fronte alle difficoltà finanziarie, che si risentivano
specialmente per i pagamenti dovuti all'estero, escogitai due
provvedimenti. Gli interessi del nostro Debito Pubblico all'estero
si dovevano pagare in moneta estera o in oro. Col cambio salito al
quindici per cento, si faceva, da Banche e privati, la
speculazione di inviare all'estero i coupons per la riscossione,
lucrando così quel quindici per cento a
danno dello Stato. A mettere un argine a questa speculazione, che
si allargava sempre più, io stabilii il sistema dell'affìdavit,
per cui la riscossione delle cedole degli interessi all'estero non
si poteva fare che previa dichiarazione di possesso con giuramento
presso le autorità consolari italiane. Stabilii pure che i dazii
doganali fossero pagati da allora in avanti in oro. Questo
provvedimento di far pagare in oro la dogana diede luogo a
controversie con alcune potenze estere, le quali finirono poi per
riconoscere che il pagare la dogana con moneta scadente avrebbe
costituito una vera diminuzione della protezione stabilita dai
trattati. Questi due provvedimenti riuscirono perfettamente
efficaci allo scopo, e furono poi sempre mantenuti, anche quando
la nostra moneta si era pareggiata per un lungo periodo di anni
con l'oro; e fu fortuna quando si consideri la condizione dei
cambi formatasi pur troppo dopo la guerra europea.
Ora ecco come scoppiò, e cosa fu veramente lo scandalo della Banca
Romana.
Bisogna anzitutto ricordare che sino a quel tempo, la vigilanza
degli Istituti di emissione non spettava, come è avvenuto di poi
per opera mia, ai Ministero del Tesoro, ma a quello di
Agricoltura, Industria e Commercio. Ai tempi dell'ultimo Ministero
Grispi, nel quale io tenevo il dicastero del Tesoro, erano corse
delle voci e sorte delle accuse riguardo all'amministrazione della
Banca Romana; ed il Ministro d'Agricoltura di allora, Miceli, nel
giugno del 1889, in seguito a quelle voci aveva ordinata una
ispezione generale degli Istituti di emissione. Per la Banca
Romana l'incarico era stato affidato al Senatore Alvisi, il quale
chiese la collaborazione di un funzionario del Tesoro, che gli fu
concessa nella persona del Comm. Gustavo
Biagini.
Siccome la cosa non era affatto di pertinenza mia, i risultati di
quella ispezione io non li appresi che nel Consiglio dei Ministri,
e secondo la relazione che ne dette il Ministro d'Agricoltura. È
apparso poi che una relazione, compilata dal Biagini, facesse
rilievi e presentasse accuse contro l'amministrazione della Banca,
sia riguardo al suo portafoglio, viziato da molta carta di comodo
che si rinnovava di scadenza in scadenza; sia riguardo alla
circolazione ed un vuoto di cassa di nove milioni, coperto da
emissione clandestina. Ma, in seguito a spiegazioni date
personalmente dal Tanlongo al Ministro, ed a nuove ispezioni e
studii condotti a mezzo del Commendator Monzilli, allora Direttore
generale del credito, il Miceli fu convinto che il Biagini, per
mancanza di pratica, fosse caduto in equivoci, tanto più che il
Biagini stesso, dopo una seconda ispezione ordinata dal Ministro,
aveva verificato e riferito che la Cassa era stata reintegrata; e
la relazione che egli portò al Consiglio dei Ministri su l'esito
dei lavori della Commissione fu complessivamente favorevole alla
Banca Romana, e l'azione del Ministero d'Agricoltura verso la
Banca si limitò ad alcuni provvedimenti di ordine e gestione.
Dello stesso tenore, come appare dai documenti ufficiali e dalla
Relazione del Comitato dei Sette, furono le dichiarazioni che il
Miceli fece poi alla Commissione parlamentare eletta per studiare
e riferire sulla legge del 30 novembre 1889 pel riordinamento
degli Istituti di emissione; alla quale egli presentò un sunto
delle relazioni ricevute, in cui si tacevano le circostanze
rilevate dal Biagini, anzi si facevano accenni lusinghieri alle
migliorie già introdotte nell'Istituto. Nessun sospetto si poteva
avere e mai si ebbe sulla buona fede del Miceli; e solo i fatti,
venuti poi alla luce a mezzo della inchiesta da me ordinata,
rivelarono il modo con cui la sua buona fede era stata sorpresa;
fra l'altro con l'audace mascheratura del vuoto di cassa mediante
un prestito provvisorio di dieci milioni ottenuto dalla Banca
Nazionale. Ad ogni modo, ai Ministri colleghi del Miceli non
competeva né il diritto né il dovere di entrare per conto proprio
nella questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del
Ministro competente e della cosa non si parlò più.
Io, come Ministro del Tesoro, non avevo alcun diritto di ingerirmi
nella vigilanza degli Istituti di emissione, che fu poi tolta
all'Agricoltura e passata al Tesoro appunto con la legge che io
stesso feci approvare nel 1893; e contrariamente alle presunzioni
degli avversari io non conobbi la relazione particolare del
Biagini, assorbita per me, quale membro del Gabinetto, nella
relazione generale fatta dal Ministro Miceli.
La questione della Banca
Romana, fra la fine del '92 e il principio
del '93 fu portata alla Camera dal deputato Colajanni, pare, in
base alla relazione Alvisi-Biagini, di cui egli avrebbe ricevuta
copia dopo la morte dell'Alvisi. E cominciarono a circolare subito
gravi voci sulle condizioni in cui la Banca si trovava,
accennandosi sin d'allora a deficienze di cassa e ad eccedenze di
circolazione. A questo proposito bisogna ricordare che sino allora
le Banche d'emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che
emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e la Banca
Bomana che faceva fabbricare i suoi biglietti in Inghilterra ne
poteva commissionare sin che voleva. Ed infatti si venne poi a
scoprire che, oltre alle eccedenze di circolazione di sessanta
milioni, essa ne aveva fatti venire altri quaranta che
costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni
impiegati superiori, saputo dell' arrivo di questi biglietti, e
spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro,
protestarono presso i Direttori della Banca, obbligandoli a
bruciarli. Tutto questo venne alla luce poi, per mezzo della
inchiesta Finali, da me ordinata.
Gli attacchi di Colajanni contro la Banca Bomana fecero molta
impressione nel Parlamento e sulla pubblica opinione; e si propose
una inchiesta parlamentare. Ma io, che intanto avevo cercato di
raccogliere informazioni sulle cose, ebbi a notare che a tale
domanda si associavano con eccessiva energia alcuni deputati che
mi risultavano compromessi con la Banca, e rifiutai quella
inchiesta, proponendomi di farla invece a mezzo di una Commissione
di nomina governativa. Così, con un decreto del 30 dicembre 1892,
nominai quella Commissione chiamandovi alla Presidenza un uomo che
era da sé solo garanzia di serietà, di competenza, di severità
indiscutibile, il Senatore Finali, primo Presidente della Corte
dei Conti. La Commissione fu composta di persone il cui giudizio
non era pregiudicato da inchieste precedenti o da uffici da esse
coperti, e che furono scelte fra quanto di più elevato, per
competenza, per oculatezza e per carattere, vi era nella pubblica
amministrazione.
L'inchiesta doveva estendersi a tutti gli Istituti di emissione,
che allora erano sei; e cioè la Banca Nazionale e la Banca Romana;
il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; la Banca Nazionale
Toscana e la Banca Toscana di Credito. Furono scelti sei
funzionari, ad ognuno dei quali fu affidata l'ispezione di una
Banca, e di quella per la Banca Romana fu incaricato il
Commendatore Martuscelli, segretario generale della Corte dei
Conti. Il decreto con cui costituii la Commissione era molto
semplice, ma diretto ad andare a fondo di tutte le varie parti che
costituiscono una azienda bancaria: creazione, emissione e ritiro
dei biglietti; circolazione e quantità dei biglietti di scorta;
consistenza delle riserve metalliche; natura e entità degli
impieghi, delle sofferenze e delle immobilizzazioni. Intervenni
alla prima seduta della Commissione per dichiarare che ponevo a
servizio di essa tutti i funzionari dello Stato, e tutti gli
elementi di cui il Governo disponeva, e per pregare la Commissione
di procedere in modo che avvenisse contemporaneamente la verifica
di tutte le casse degli Istituti di emissione per evitare che con
trasporti di fondi potesse coprirsi qualche vuoto di cassa.
Nei giorni seguenti essendomi poi allontanato da Roma per recarmi
a visitare a Cavour un mio parente ammalato, ricevetti un
telegramma del mio collega, il Ministro di Agricoltura, Industria
e Commercio, il quale mi comunicava il desiderio del Senatore
Finali che fosse spedita una circolare ai Prefetti affinchè lo
aiutassero in tutte le indagini occorrenti. Ed io risposi
immediatamente affidando allo stesso Senatore Finali di formulare
tale circolare nei termini che egli credesse più adatti a
raggiungere lo scopo, ed autorizzando, nel caso vi fosse urgenza,
il Rosano, mio sottosegretario, a firmarla in mia vece.
Pochi giorni dopo che io aveva ordinata l'inchiesta presieduta dal
Finali, cominciarono a correre per Roma voci di gravi disordini
che si temeva fossero per scoprirsi alla Banca Romana; tali voci
traevano origine da discorsi di impiegati di quella Banca, e
vennero riferite al Ministero anche da agenti della Pubblica
Sicurezza. Le prime indagini del Commendatore Martuscelli parevano
riconfermare l'esistenza di quei disordini, e si ebbe pure il
sospetto che alcuno dei responsabili potesse mettersi al sicuro
all'estero. Allora io diedi ordine che fossero sottoposti a
vigilanza gli amministratori tutti di quella Banca senza
distinzione, e che in ispecie il Tanlongo, il Commendatore Cesare
Lazzaroni e il barone Michele Lazzaroni che apparivano più
coinvolti in quei fatti, fossero diffidati di non allontanarsi da
Roma, che altrimenti sarebbero arrestati. Tale diffida fu fatta il
15 gennaio '93; il Tanlongo e Cesare Lazzaroni dettero parola che
non si sarebbero allontanati, e il Michele Lazzaroni dichiarò che
se i suoi interessi lo avessero, come era probabile, costretto a
partire, ne avrebbe dato avviso.
Fra i censori della Banca c'era il Duca di Ceri, che non aveva
colpa alcuna nei fatti, e poteva solo essere considerato
responsabile per negligenza del suo ufficio. Vedendosi vigilato,
egli si fece accompagnare presso me da un amico, chiedendomi che
cosa quella vigilanza significasse. — Niente altro che questo, —
gli risposi, — che se si scopriranno magagne nella Banca Ella sarà
immediatamente arrestato. — Ma poi conoscendolo per un perfetto
galantuomo, lo rassicurai, senza però modificare la sorveglianza.
Il lavoro della Commissione fu condotto avanti, avendo in
considerazione la mole e complessità delle indagini, con
eccezionale sollecitudine; così che il 18 di gennaio il
Martuscelli potè stendere il suo rapporto. Il Finali mi annunciò
che la sera stessa me l'avrebbe portato, insieme col Martuscelli,
preavvertendomi che constatava dei fatti gravissimi. Io allora
avvisai il Bonacci, Ministro di Grazia e Giustizia, di trovarsi
egli pure a Palazzo Braschi per la venuta del Finali. Il Bonacci
giunse al mio ufficio, verso le nove di sera, accompagnato dal
senatore Bartoli, procuratore generale presso la Corte di Appello
di Roma, dichiarandomi di averlo condotto per esaminare la
questione se il Tanlongo, essendo stato nominato Senatore ma non
ancora convalidato, potesse essere soggetto alla giurisdizione
ordinaria dei Tribunali o dovesse essere mandato davanti al
Senato.
Il Senatore Bartoli, entrando poi nella mia stanza — e ricordo
questi particolari perchè intorno a quel convegno fu architettato
poi un vero romanzo — mi disse che essendo egli un po' indisposto
di salute, aveva creduto conveniente di condurre seco il giudice
istruttore ed il sostituto procuratore del Re e li aveva lasciati
nella prima camera del mio ufficio. Io non avevo a questo nulla da
obbiettare, ma quei funzionari non furono da me visti in alcun
modo. Finali, arrivando poi col Martuscelli, mi consegnò il
rapporto, ed io dopo averne data lettura lo consegnai al Bonacci,
accompagnandolo con una lettera affinchè rimanesse traccia
ufficiale della sua provenienza; ed il Bonacci alla sua volta lo
consegnò al Procuratore generale, che lo ricevette, dichiarando
che si ritirava coi funzionari che aveva condotti seco, per
deliberare sul da farsi. Poi io mi allontanai dal Ministero perchè
era già ora tarda.
L'indomani mattina si tenevano al Pantheon le esequie in memoria
di Vittorio Emanuele (19 marzo), e fu colà, mentre io vi
assistevo, che il mio sottosegretario, il deputato Rosano, mi
informò che l'autorità giudiziaria aveva nella mattinata presto
spedito mandato di cattura contro il Tanlongo e Cesare Lazzaroni,
ordinando nello stesso tempo alla Pubblica Sicurezza di procedere
alle perquisizioni.
Pur troppo la relazione della Commissione confermava i peggiori
sospetti, precisando le accuse, sia riguardo alle eccedenze, ed
alle irregolarità della circolazione ed ai vuoti di cassa, sia
alle pessime condizioni del portafoglio, dove giaceva una ingente
mole di cambiali in sofferenza. La inchiesta era stata condotta
con tanta oculatezza e diligenza, che in tutte le indagini
successive, comprese quelle ordinate dalla autorità giudiziaria
pel processo penale contro Tanlongo e i suoi complici, non fu
accertata una sola irregolarità che dalla inchiesta non fosse già
stata rivelata. Credo che di rado una indagine ordinata su una
materia così vasta e complessa sia riuscita ad andare a fondo con
tanta sollecitudine e così pienamente.
Quando venne così a mia notizia l'esistenza di una circolazione
clandestina di circa settanta milioni, e l'altro fatto enorme che
con una ordinazione mandata a Londra si erano potuti fare spedire
a Roma, come se si trattasse di un barile di birra, quaranta
milioni di altri biglietti all'insaputa di tutti, due timori
gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si
spandesse in Italia per tutti i biglietti di Banca, unica nostra
moneta, vigendo allora il corso forzoso, col pericolo di un
turbamento incalcolabile di tutta la vita economica del nostro
paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione
clandestina ancora maggiore di quella accertata, e che altre
spedizioni di biglietti da Londra, oltre quella scoperta, avessero
forse avuto luogo.
Al primo di questi pericoli altro rimedio non v'era all'infuori di
quello che pochi giorni dopo adottai, facendolo poi approvare dal
Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di biglietti a
corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare
tale dichiarazione mi premeva di avere, la certezza, per quanto
era possibile averla, che il male non fosse più grave di quello
che dalle indagini compiute dal Martuscelli era risultato. Mi
preoccupavo pure del pericolo che qualche creazione clandestina di
biglietti potesse venire trafugata. Perciò incaricai il
sottosegretario di Stato e la Direzione generale di Pubblica
Sicurezza di informarmi immediatamente di tutto quanto venisse a
sapersi intorno alla Banca Romana, sia pei risultati delle
perquisizioni, sia per altre informazioni di qualunque genere; e
così pervennero alle mie mani copie di alcuni documenti
sequestrati in casa Lazzaroni ed elenchi di documenti sequestrati
in casa Tanlongo e alla sede della Banca Romana. Tanto gli elenchi
quanto le copie si riferivano esclusivamente a documenti trasmessi
alla autorità giudiziaria. Ma, come vedremo appresso, queste mie
disposizioni, che entravano nell'orbita dei miei doveri di
governo, dettero poi luogo ad una campagna di persecuzione e
diffamazione contro di me.
Le risultanze delle indagini
condotte presso le altre Banche di emissioni,
riuscirono assai meno gravi, e in ogni modo non rivestirono
l'aspetto cosi criminoso di quelle uscite dalla indagine sulla
Banca Romana. Per il Banco di Napoli, dalla relazione risultò che
era ridotto senza capitale, ed anzi con venti milioni di passivo.
Non c'erano disordini nella circolazione; ma il suo portafoglio
era gravato di una mole stupefacente di cambiali di nessun valore.
Il metodo che era stato seguito nel Banco di Napoli per fare delle
generosità a spese del Banco, consisteva nello scontare cambiali
firmate da nullatenenti, che poi venivano messe fra le
inesigibili.
Di fronte alla scoperta di queste gravissime condizioni di cose,
che gettava tanta ombra di discredito sulla nostra moneta, io
pensai che il primo dovere che s'imponeva al governo era di fare
casa nuova, procedendo ad un riordinamento totale degli Istituti
di emissioni, con provvedimenti tali che dessero la massima
possibile garanzia al credito ed al biglietto di Banca. Ebbi
consenzienti i miei colleghi, e presentai al più presto a tale
scopo un progetto di legge al Parlamento. Questo progetto
conteneva i seguenti punti principali: 1.° Soppressione della
Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana
di Credito, perchè l'esistenza di sei Banche, con sei specie di
biglietti a corso legale, creava grandi complicazioni ed aumentava
le difficoltà di vigilanza da parte del governo; lasciando
sussistere solo la Banca Nazionale, trasformata in Banca d'Italia,
il Banco di Napoli e quello di Sicilia che avevano antiche
tradizioni; 2.° stabilire che non si potessero fare emissioni di
biglietti
senza il controllo dello Stato, così che d'allora
ogni
biglietto porta il timbro dello Stato, impresso
dalle
Officine cartevalori, rendendosi così impossibile qualunque
emissione clandestina; 3.° si proibì in modo
assoluto che
potessero fare parte delle amministrazioni e direzioni degli
Istituti di emissione deputati
e senatori, che sino a quel tempo
vi partecipavano in
grande numero, disposizione questa che ferendo
interessi mi attirò vivi risentimenti ed odii che si sfogarono
nelle campagne di poi.
La legge inoltre comprendeva disposizioni severissime per
ristabilire il
credito del Banco di Napoli, molto scosso, e
per
smobilizzare la Banca d'Italia; talmente severe, che
quando
cominciarono a ristabilirsi condizioni più
normali, furono
attenuate.
Così grave era stato il
pericolo corso dal credito nazionale, e
così evidente
la necessità di rimedi immediati e radicali, che
quella
legge fu approvata quasi senza discussione non
ostante gli
interessi che feriva. Ed essa può considerarsi il risultato
benefico del grave scandalo, perchè mi dette modo di creare, per
il funzionamento
delle Banche di emissione, e per la
circolazione
monetaria, un sistema sicuro ed efficace, che
vige
tuttora, e per forza del quale i gravi, criminosi
in
convenienti per quegli scandali venuti in luce, non
si sono mai
più ripetuti.
La relazione della Commissione d'inchiesta, e le
voci che
correvano sui risultati delle perquisizioni
e delle istruttorie processuali contro Tanlongo, Lazzaroni e i
loro complici, e di responsabilità e colpevolezze di uomini
politici, avevano intanto creato una grande agitazione nella
opinione pubblica, nella stampa e nel Parlamento. Così in una
seduta della Camera fu presentata la proposta di nominare un
Comitato col preciso incarico di accertare le responsabilità
politiche e di riferirne. Io, che mi ero opposto ad una inchiesta
politica che precedesse quella amministrativa, perchè avevo
ragione di temere che l'inchiesta politica prematura potesse
essere strumento di salvataggio, e perchè mi premeva di stabilire
avanti tutto quale fosse la reale condizione degli Istituti di
emissione, e di provvedere ai rimedi; quando l'indagine
amministrativa fu compiuta non avevo più ragione di oppormi a che
fossero ricercate e constatate le eventuali responsabilità di
uomini politici.
La Camera affidò al suo Presidente, che era allora lo Zanardelli,
l'incarico di nominare questa Commissione, che prese poi il nome
di Comitato dei Sette, e che fu nominata il 21 marzo, e risultò
composta di Mordini, presidente e relatore, di Alessandro
Paternostro, segretario, di Cesare Fani, altro segretario, e di
Giovanni Bovio, Antonio Pellegrini, Eduardo Sineo e Suardi
Gianforte.
Il secondo importante avvenimento di quell'anno fu l'agitazione
proletaria, che si manifestò particolarmente con la costituzione
dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, e con la loro lotta pel
miglioramento dei patti agrari e dei salari.
Un certo movimento nelle classi popolari, e specialmente fra
quelle operaie delle città, si era già iniziato in Italia da non
pochi anni. Nella sua prima fase, e col favore degli elementi
democratici, esso si era affermato con la creazione delle società
operaie di mutuo soccorso, aliene la maggior parte dalla politica,
ed anche nelle campagne, con la costituzione di cooperative di
lavoro, per le quali, come Ministro del Tesoro nel Gabinetto
Crispi, io avevo già preso disposizioni perchè certi lavori
pubblici potessero essere affidati loro direttamente. Ma lo
spirito e le dottrine socialiste, che avevano già avuti grandi
movimenti di organizzazione ed episodi di lotta all'estero, specie
in Germania ,ed in Francia, cominciavano a filtrare anche in
Italia; e già nel 1874 c'era stata a Milano la costituzione della
prima Camera del Lavoro, con intendimenti di lotta anche politica,
che avevano molto allarmato i conservatori lombardi ed il governo;
tanto che era stata sciolta e i suoi capi, tutti operai,
processati. È da notarsi che anche i democratici milanesi non
mostrarono alcuna simpatia per quel movimento, ed anzi
l'avversarono.
Poi ci furono le agitazioni e la propaganda nella Romagna da parte
di Andrea Costa, che per alcuni anni fu il solo deputato
socialista alla Camera, ed il cui socialismo era di carattere
rivoluzionario, e si mescolava col repubblicanesimo. In generale,
in quelle primissime agitazioni il socialismo si confondeva assai
con l'anarchismo che aveva per capi il Gori e il Cipriani, ed
anche, specie in Romagna, col garibaldismo; era un movimento assai
confuso, con tendenze di congiura e complotto e velleità
insurrezionali, che attirava gli spiriti disordinati e ribelli, ma
non si spandeva molto nelle masse operaie.
Un chiarimento nel senso socialista, e secondo le idee marxiste di
progressiva educazione ed organizzazione dei lavoratori, si era
avuto più tardi, dopo l'85 con la propaganda condotta da
Prampolini ed Agnini nelle provincie di Reggio e di Modena, da
Badaloni nel Polesine, e poi dal Berenini a Parma, da Enrico Ferri
nel Mantovano, e da Bissolati nel Cremonese.
A Milano, con la pubblicazione della Critica Sociale da parte del
Turati, mi pare verso il '90, si era formato un centro di cultura
e di rigida dottrina marxista, che esercitava una notevole
influenza sulla gioventù universitaria dell'Italia settentrionale,
e che raccolse presto collaboratori a Bologna, a Genova ed a
Torino, molti dei quali, come il Treves, lo Zerboglio, il Canepa
ebbero poi notevole parte nel movimento politico socialista.
Nell'agosto del 1892 era stato tenuto un Congresso a Genova, nel
quale le due tendenze, quella anarchico-rivoluzionaria e quella
socialista organizzatrice si erano trovate di fronte, e che si era
concluso con la rottura; i socialisti, facenti capo a Turati e
Prampolini e con l'adesione della maggioranza degli intellettuali
e di parte delle organizzazioni operaie, quale la Camera del
Lavoro di Milano, costituirono
il Partito socialista italiano, che con varie vicende si è
mantenuto sino ad ora, mentre i rivoluzionari andarono scemando di
numero e d'influenza.
Nella Sicilia il movimento operaio aveva avuta la sua origine a
Catania, per opera di De Felice Giuffrida. Questi non possedeva
molta cultura, e la sua indole era piuttosto di un agitatore
popolano. Aveva cominciato col condurre una violenta lotta contro
il municipio conservatore, muovendo accuse contro i suoi capi; e
costoro, per vendetta e per liberarsi di lui l'avevano involto] in
un processo ed erano riusciti a farlo condannara Si trattava di
questo: il De Felice avrebbe dovuto testimoniare in un processo
contro un suo amico, e se ne sottrasse presentando un certificato
medico di malattia. I suoi nemici l'accusarono di falso
intenzionale, per essersi giovato di quel certificato pure sapendo
di non essere malato, e il Tribunale lo condannò a tredici mesi di
reclusione. La condanna che parve ingiusta, suscitò una forte
reazione nell'opinione pubblica; il De Felice diventò
popolarissimo presso le masse e portato deputato nelle elezioni
del '92, non ostante gli sforzi dei suoi avversari, fu eletto con
una grande maggioranza. Per sfuggire alla condanna egli si era
rifugiato a Malta, e dopo la sua elezione io lo feci avvertire che
poteva ritornare sicuramente. Il suo ritorno fu veramente
trionfale; per dare una idea della popolarità che si era
conquistata, ricordo che durante le elezioni erano stati eretti
molti altarini, sui quali davanti al suo ritratto bruciavano le
candele, come davanti ai santi.
Io conobbi poi il De Felice come deputato, e la mia impressione di
lui è sempre stata che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo
che ha sempre vissuto modestamente; un po' imaginoso ma
fondamentalmente buono. Ricordo un curioso episodio della sua
vita, che mi narrò egli stesso, e che mostra tutto il suo
carattere. C'era il colera in un grosso comune della provincia di
Catania, e la sua diffusione era attribuita specialmente
all'infezione di un acquedotto, che apparteneva a un ricco barone.
Il municipio aveva intimato al barone di interrompere
l'acquedotto, ma costui si rifiutava negando l'infezione e
minacciando di chiedere al municipio milioni di danni se
l'interruzione avesse avuto luogo. Allora De Felice, insieme con
alcuni amici, si recò nella campagna ad un punto dove l'acquedotto
passava, e lo fracassò, per assumersene la responsabilità
personalmente e non involvere il municipio in una lite costosa,
dicendo: — E adesso il barone venga a chiedere a me i milioni pei
danni subiti. — Egli era odiatissimo da Crispi, che aveva sempre
attaccato.
L'agitazione dei contadini, che condusse alla costituzione dei
Fasci dei lavoratori, scoppiò nella primavera del '93 per dispute
di salari, e si estese per tutta la Sicilia, ed ebbe dei capi
energici, venuti dalla borghesia, come il Garibaldi Bosco, che era
un impiegato privato, il Barbato medico, Bernardino Verro e molti
altri. Io mi resi subito conto che si trattava di un movimento
economico, pienamente giustificato dalle penosissime condizioni in
cui si trovavano i contadini ed i minatori, come fu allora
ampiamente dimostrato da inchieste condotte da giornali
autorevoli, quali la Tribuna e il Corriere della, Sera, le cui
rivelazioni sulle miserrime condizioni in cui si trovavano i
lavoratori siciliani, e sull'atroce abuso che si faceva del lavoro
dei fanciulli nelle miniere produssero una viva impressione sulla
pubblica opinione.
Ricorderò anche che molti anni avanti il Sonnino insieme col
Franchetti avevano compiuta una inchiesta e compilato uno studio
sulle condizioni della Sicilia, rilevando le miserabili condizioni
fatte alle classi lavoratrici e gli abusi dei proprietari; e
venendo alla conclusione pessimistica che i rimedi ordinari non
sarebbero mai riusciti efficaci, e quello stato di cose non
avrebbe potuto essere mutato che con una rivoluzione. Non ostante
però queste sue considerazioni di studioso, il Sonnino si trovò
poi a far parte del Ministero Crispi, che reagì violentemente
contro il primo tentativo di quelle classi lavoratrici di ottenere
miglioramenti alle loro condizioni di lavoro e di vita.
Io, senza lasciarmi troppo impressionare, avevo dato ai prefetti
istruzioni corrispondenti alla realtà della situazione; disponendo
cioè perchè mantenessero l'ordine pubblico ed impedissero in
qualunque modo l'uso della violenza; ma lasciassero però d'altra
parte che i contadini e i minatori potessero ottenere patti
migliori e cercassero anche di persuadere i proprietari a venire a
risoluzioni conciliative.
La situazione certo presentava in alcuni punti difficoltà gravi e
qualche pericolo di disordini locali; ma, a mio avviso e secondo
le informazioni che ricevevo dalle autorità, tutte le voci che si
facevano correre di pericoli rivoluzionari e di minaccie alla
unità nazionale, erano senza fondamento. Quel movimento, in
conclusione, era molto meno grave di altri venuti dopo; ma quello
era il primo, e le classi ricche, non ancora abituate a questo
genere di lotte, scambiavano le agitazioni economiche addirittura
con la rivoluzione sociale;. Io sin d'allora ero convinto che
fosse da aspettarsi che le masse dei lavoratori non si adattassero
a tirare avanti con condizioni di salari insufficienti non solo a
vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Una cieca repressione
delle loro legittime agitazioni intese a migliorare la propria
sorte, non avrebbe a mio avviso risolta, ma solo rinviata la
questione, esacerbandola, e facendo nascere davvero il pericolo
rivoluzionario. Perciò il mio indirizzo politico era di lasciare
che queste lotte economiche si risolvessero di per sé col
miglioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendo l'azione
del governo al mantenimento dell'ordine e ad un'opera di
persuasione per mettere d'accordo le parti. Ed avevo ragione di
ritenere che, a parte i proprietari direttamente interessati, ed i
conservatori reazionari, l'opinione pubblica fosse pure di questo
avviso.
Anche nel Parlamento gli avvenimenti di Sicilia erano considerati
sotto questo aspetto e non vi avevano destata molta impressione;
ed anzi vi si ascoltavano con molta attenzione ed una certa
benevolenza i discorsi con cui i deputati socialisti, Prampolini e
Badaloni, esponevano la situazione.
Solo la Pubblica Sicurezza, abituata alle idee antiche ed agli
antichi metodi, si mostrava preoccupata, e mi chiedeva di
provvedere con un decreto di scioglimento dei Fasci, che mi fu
proposto in effetto dall'allora Direttore della Pubblica
Sicurezza, Comm. Ramognini, al quale io lo rifiutai, mandandolo
poi prefetto, Il Ramognini, quando fu al governo Crispi, temendo
di essere ritenuto egli pure responsabile per il non avvenuto
scioglimento, si recò da Crispi a ricordare che egli l'aveva
proposto, e che quindi su lui non pesava nessuna responsabilità.
Ed infatti la responsabilità era tutta mia, ed intendevo che fosse
mia, in quanto rappresentava, non una negligenza, ma una nuova
veduta di governo.
Ricordo ancora che venne da me una rappresentanza di grossi
proprietari agricoli delle Provincie di Palermo, Trapani e
Caltanissetta a reclamare provvedimenti energici, e sopratutto lo
scioglimento dei Fasci; — essi mostravano di riconoscere che le
condizioni dei lavoratori dovevano essere migliorate, ma
insistevano di non poterlo o volerlo fare finché i Fasci fossero
in esistenza, per non parere di avere ceduto alle loro
intimidazioni. Ma io dubitavo assai di queste buone intenzioni; ed
infatti quando tornai al governo nel 1901 volli verificare quali
concessioni fossero state date dopo lo scioglimento dei Fasci
fatto dal Crispi; e dovetti constatare che in molti luoghi le
condizioni dei salari, invece che migliorate, erano state anche
peggiorate. Ricordo anche che dopo lo scioglimento, si raccolse a
Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il
coraggio di proporre, per tutta riforma, l'abolizione della
istruzione elementare, perchè i contadini ed i minatori non
potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove,
Il punto di vista e la condotta del governo mutarono poi quando
io, per altre ragioni, mi dimisi. Allora gli elementi
conservatori, che avevano cominciato a stringersi intorno a Crispi
come al loro uomo, levarono grandi reclami perchè non si era fatta
una politica di repressione; e Crispi e il suo contorno, per
stornare anche l'attenzione pubblica dalle questioni morali e
politiche sollevate dallo scandalo della Banca Romana, avevano
ogni interesse a ingrossare il pericolo, per acquistare la
benemerenza di salvatori dell'ordine pubblico e delle
istituzioni.
Nell'attesa della presentazione della relazione del Comitato dei
Sette sulle responsabilità politiche della Banca Romana, la
situazione parlamentare si manteneva nervosa. La lotta contro il
Ministero veniva sempre sopratutto dalla Destra, con Bonghi come
suo oratore principale; ma anche con l'adesione, che rappresentava
uno strano connubio, degli elementi di estrema Sinistra, quali il
Cavallotti e l'Imbriani, che del resto in quei tempi erano sempre
contro qualunque governo, ed infatti
dopo le mie dimissioni si schierarono anche contro
Crispi. A questa curiosa politica di ostilità contro qualunque
governo, senza nessuna distinzione delle sue tendenze,
partecipavano anche i socialisti, i quali non avevano capito
allora la mia politica riguardo le classi lavoratrici, e si
accanivano contro di me, come avrebbero fatto contro qualunque
altro.
L'avvento del governo di Crispi, con la sua politica verso i Fasci
siciliani, e in seguito e per parecchi anni quella dei varii
governi Rudinì e Pelloux, a tendenze e con azione reazionaria di
cui i socialisti dovevano specialmente soffrire, e come partito e
come persone, li condusse poi a rendersi conto della differenza
che ci può essere fra governo e governo, sopratutto dal punto di
vista degli interessi delle classi lavoratrici.
La relazione del Comitato dei Sette fu presentata alla Camera il
23 novembre del '93. Dopo la sua presentazione, siccome la
conclusione conteneva accuse a mio riguardo per la nomina di
Tanlongo a senatore, ed apprezzamenti e interpretazioni di altri
miei atti e parole, che non potevo accettare, io dichiarai che
davo subito le dimissioni, non volendo, se occorreva, difendermi
dal banco di Ministro, ma da quello di semplice deputato.
Sull'opera di quel Comitato e sulle conclusioni a cui giunse,
bisogna dire la verità. E la verità è che il Comitato dei Sette
non si mostrò né abile né volonteroso a condurre a fondo la
missione che gli era stata affidata, di constatare cioè le
responsabilità politiche connesse con gli scandali della Banca
Romana, né franco ed imparziale nei giudizii che' credette di
potere esprimere. Per la prima parte basti osservare che, mentre
la Commissione da me nominata, in meno di due mesi aveva condotto
a fondo una indagine ponderosa su l'intera situazione delle Banche
di emissione, giungendo alla scoperta di fatti gravissimi; il
Comitato dei Sette con più di sei mesi di lavoro non riuscì ad
aggiungere neppure un fatto nuovo a quelli già constatati. Né
basta: la poca voglia di andare a fondo fu provata anche da un
episodio assai significante.
Achille Fazzari aveva ricevuto, il 16 maggio di quell'anno, dal
figlio di Tanlongo carte di tale gravità da indurlo a portarle al
deputato Mordini, presidente del Comitato, e ad incitarlo a
riunire gli uomini politici principali di tutti i partiti, per
evitare uno scandalo che oltre ad oscurare tanti anni di
patriottismo di qualche alto uomo politico, sarebbe stato di danno
grave al paese. Il Mordini si prese ventiquattro ore a riflettere;
ma l'indomani, quando il Fazzari lo rivide, gli si mostrò molto
preoccupato, e finì per dichiarare che non si sentiva di fare ciò
che gli era stato consigliato. Il Fazzari, come ne fece poi egli
stesso narrazione non mai smentita, quantunque non autorizzato,
giunse al punto di dichiarargli che si sarebbe assunta la
responsabilità di lasciare
presso di lui
quelle carte; ma il Mordini non le volle, rispondendo
che esse stavano bene nelle mani di un patriota quale egli era. Ed
il Fazzari, vedendosele respinte, le restituì lo stesso giorno a
chi glie le aveva date; e questo episodio fu ammesso come vero
dallo stesso Mordini alla Camera dei Deputati, quando nel dicembre
1894 si discusse sulla presentazione da me fatta di documenti
relativi alla Banca Romana.
Della esistenza di altri gruppi di documenti importanti, che il
Tanlongo e gli altri imputati erano riusciti a sottrarre alle
perquisizioni, si parlava ovunque e si accennava sui giornali;
alcuni furono poi usati dalla difesa nel processo Tanlongo ; altri
contenenti lettere di numerosissimi uomini politici, furono più
tardi pubblicati, in un volume di 193 pagine dal figlio del
Tanlongo, ma non risulta che il Comitato dei Sette abbia mai
cercato di porre sovra essi le mani.
Per quanto riguarda i giudizi, io non intendo di disseppellire ciò
che allora fu sepolto, e mi limito alle cose che mi riguardavano
personalmente. Le accuse che mi furono fatte erano quattro: che io
avessi conosciuto, a mezzo della inchiesta Alvisi-Biagini, le vere
condizioni della Banca Romana quando ero stato Ministro del Tesoro
nel Gabinetto Crispi, e le avessi dissimulate; che avessi
contratto con la Banca Romana un prestito di sessantamila lire;
che avessi preso dalla stessa Banca altre quarantamila lire per le
elezioni, e che infine, per premio di questa prestazione avessi
nominato il Tanlongo senatore.
Ora, per la prima accusa, ho già detto e dimostrato che la
vigilanza delle Banche di emissione non spettava in quel tempo al
Ministero del Tesoro, e che dei risultati della ispezione
Alvisi-Biagini io non avevo altro saputo che ciò che il Ministro
competente, il Miceli, ne aveva riferito al Consiglio dei
Ministri, attenuando, anzi quasi smentendo, ingannato ed in buona
fede, la relazione che quei due ne avevano fatta.
Per la seconda accusa, ecco come le cose erano andate. Quando
nell'agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste pel
centenario della scoperta dell'America, che avevano dato occasione
ad un miglioramento delle relazioni fra l'Italia e la Francia, io
credetti opportuno di fare una azione nella stampa estera, perchè
questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i
fondi messi a disposizione del governo per le spese segrete non
possono spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si
trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm. Cantoni,
Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi occorreva una
anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata
entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa anticipazioni, così la
somma doveva essere presa a prestito presso una Banca, ed il
Cantoni si rivolse alla Banca Romana, rilasciando regolare
ricevuta. Il prestito era stato chiesto non da me, ma dal
Direttore generale del Tesoro, a cui io non avevo nullamente
indicato a chi rivolgersi. La somma fu restituita entro sei mesi,
coi suoi interessi, e della restituzione io ottenni regolare
ricevuta, che potei esibire al Comitato dei Sette, che riconobbe
del resto la regolarità della operazione. Se la
Banca Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe
ancora, ed in floride condizioni.
La voce sparsa che io avessi poi avuto quarantamila lire
dalla Banca Romana per le elezioni, era una
assoluta invenzione, senza la menoma base di una qualunque
testimonianza o documento. La diceria fu sparsa prima da uno degli
imputati che ne parlò a parecchie persone ma poi
si disdisse; fu ripetuta poi da un altro
imputato. Si era cercato con molta abilità di creare degli indizii
indiretti; il Comitato dei Sette concluse con un giudizio di
«non provato» arzigogolando intorno
ad una lettera mia trovata presso
il Tanlongo, la quale
invece si riferiva a tutt'altra
cosa. Dopo la morte dell'Ellena, mio collega alle Finanze, molti
elettori avevano offerto al fratello di lui, colonnello
Ellena, la, candidatura. Egli mi aveva chiesto il mio parere sulla
convenienza di accettare, ed io l'avevo consigliato di accertarsi
prima se non sarebbe stato combattuto da coloro che nel collegio
avevano maggiore influenza, fra i quali era il Tanlongo. Egli ebbe
da questi assicurazioni e fu eletto a scrutinio di lista. Un
mese dopo, essendo stata sciolta la Camera egli si ripresentò al
collegio uninominale di Frosinone; ed avendo notizia che egli
fosse combattuto dagli agenti della Banca, io probabilmente avevo
scritto in proposito rammaricandomene col Tanlongo. Dico
probabilmente perchè, come dichiarai al Comitato, non avevo della
cosa sicura memoria. Ad ogni modo contro cotale presunzione che io
avessi preso dalla Banca Romana quarantamila lire per le elezioni,
stava un altro fatto ben preciso; e che cioè quando abbandonai il
Ministero, oltre lasciare disponibili le rate mensili dei fondi
non scaduti, ascendenti a 500 mila lire, lasciai in cassa altre
123 mila lire, delle quali avevo la libera disposizione. Se dunque
mi fossero occorse per un pubblico servizio quarantamila lire nel
novembre del 1892, le avrei prese a prestito come le prime
sessantamila e poi le avrei restituite.
Infine, per quanto concerne la nomina di Tanlongo a Senatore, per
la quale insistevano particolarmente le accuse e che fu deplorata
dal Comitato dei Sette, era assai facile, dopo la rivelazione
degli scandali della Banca, affermare che la nomina non doveva
farsi; ma per dare un equo giudizio bisognava riferirsi al momento
in cui era avvenuta. Al Consiglio dei Ministri era stato
presentato un lunghissimo elenco di candidati alla dignità
senatoriale; e la nomina di Tanlongo fu come tutte le altre
approvata all'unanimità, in quanto egli, governatore della Banca
Romana, presidente della Camera di Commercio e della Commissione
provinciale delle imposte, e ricco di censo, era uno dei
personaggi più importanti di Roma, e la stima che in Roma si aveva
di lui era tale, che Guido Baccelli, conoscitore esatto delle cose
e delle persone della città, non aveva esitato, anche dopo
le accuse mosse dal Colajanni, a dichiarare, nella
seduta della Camera del 20 dicembre '92, che lo riteneva uomo
operoso, benefico, e pieno di onore.
Che l'opera del Comitato dei Sette non fosse andata a fondo, e
fosse monca e parziale, arrestandosi davanti a responsabilità di
ben altra gravità, fu dimostrato dal fatto che l'opinione pubblica
non se ne mostrò soddisfatta, e la campagna morale per gli
scandali della Banca Romana e la complicità di uomini politici,
continuò per lungo tempo ancora.
L'incarico a Zanardelli e il suo fallimento — Crispi inizia
l'azione reazionaria e dittatoriale — Minacce contro me perchè
ero passato all'opposizione — Le scandalose assoluzioni .nel
processo della Banca Romana — Come nacque l'accusa di
sottrazione di documenti e con quali scopi — Pressioni sulla
Magistratura e irregolarità processuali — Perchè e come
presentai il plico — La relazione della Commissione dei cinque e
un voto sfavorevole al governo — La proroga della Camera ed un
mandato di comparizione — Tentata violazione delle prerogative
statutarie annullata dalla Cassazione — Le elezioni — Come fu
sepolta la questione morale.
Come ho già detto, dopo la relazione del Gomitato dei Sette,
presentata alla Camera nel novembre del '93, io detti le
dimissioni, non volendo, ove occorresse, difendere il mio operato
dal Banco dei Ministri, ma come semplice deputato; ritenendo che
un'ampia discussione si sarebbe aperta sulle conclusioni del
Comitato dei Sette, che alcune cose dicevano, ma più ne lasciavano
intravedere. Ciò poi non avvenne, ed è stato uno dei fatti più
strani di tutta quella faccenda, che un documento, che alla sua
presentazione aveva sollevato tanta tempesta ed eccitate tante
passioni, fosse poi, dopo la crisi, messo
a dormire.
Avvenuta la crisi, il Re chiamò anzitutto, per designazione degli
uomini più autorevoli, lo Zanardelli, dandogli l'incarico, che
egli accettò, di formare il nuovo Ministero. Devo ricordare che
già alcuni mesi
avanti, prevedendo che gli scandali della Banca, con
l'inquietudine che ne era derivata nel mondo politico e
parlamentare, uniti al movimento dei fasci e alle difficoltà
finanziarie, avrebbero prima o dopo condotto ad una crisi, io
avevo pensato che, considerata la composizione della Camera, dove
la Sinistra aveva una notevole maggioranza, lo Zanardelli fosse
l'uomo meglio indicato per risolverla. E glie ne avevo già parlato
perchè si preparasse, e siccome sapevo che fra lui e il Re c'era
una certa freddezza, avevo procurato di ravvicinarli, pregando il
Re di parlargli in una occasione che si era presentata all'estate,
cioè la inaugurazione di un monumento sul campo di battaglia di
San Martino. Lo Zanardelli, nel cui collegio aveva luogo la
cerimonia, vi prese naturalmente parte, ed il Re lo aveva chiamato
a sé ed erano rimasti insieme in una lunga conversazione appunto
sulla terrazza del monumento.
Dopo avuto l'incarico lo Zanardelli, nelle sue conversazioni col
Re per la composizione del nuovo Ministero, gli aveva proposti pel
dicastero degli esteri tre nomi, e cioè il generale Dal Verme, il
generale Morselli e il generale Baratieri; il Re gli aveva
risposto, che pei due primi nulla c'era a ridire, ma che pel terzo
c'era da pensarci. Ma Zanardelli si ostinò appunto sul nome di
Baratieri, che il Re non potè accettare, avendo ricevute,
dall'estero informazioni che l'avvento del Baratieri, irredento,
alla Consulta avrebbe create delle difficoltà internazionali;
Zanardelli allora finì per rinunciare all'incarico.
Allora il Re si rivolse a Crispi, che formò il Ministero,
chiamando Blanc agli Esteri, Sonnino al Tesoro con l'interim delle
Finanze, Mocenni alla Guerra, Morin alla Marina, Saracco ai Lavori
Pubblici, Baccelli alla Istruzione e Boselli all'Agricoltura.
Erano degli uomini del Centro e dei tecnici senza chiara
distinzione di partito, ciò che dette modo a Crispi di assumere
subito un atteggiamento reazionario e dittatoriale.
Egli infatti si presentò con parole magniloquenti, come se si
trattasse di salvare l'unità nazionale, mettendo in primissima
linea la questione dei Fasci siciliani, ed esagerandone le
minaccie e i pericoli, per potere fare scomparire dietro di essa
tutte le altre questioni e specie la questione morale, sollevata
dalle conclusioni del Comitato dei Sette. Chiamò subito sotto le
armi una classe; mandò cinquantamila uomini in Sicilia; vi stabilì
lo stato d'assedio, sciogliendo i Fasci e insediandovi i Tribunali
militari, che condannarono il De Felice, il Barbato, il Verro, il
Bosco e gli altri capi dell'agitazione a pene mostruose.
Quando io, che nei primi momenti non avevo fatto alcun cenno di
opposizione al Ministero, vidi tutto questo, mi avvicinai
all'opposizione, intervenendo a riunioni nelle quali si trovavano
fra gli altri Cavallotti per l'Estrema Sinistra e Carmine per la
Destra. Ricordo in proposito un episodio interessante che spiega
parecchio di quanto avvenne di poi; venne cioè da me il deputato
Macola, che era un giornalista del contorno di Crispi, ad
avvertirmi che se io non mi mettevo con l'opposizione avrei
evitato dei guai. Gli risposi che non potevo assolutamente mutare
la mia linea di condotta, che del resto era semplicemente di
coerenza politica, senza nessun motivo di ostilità personale.
Intanto il processo contro Tanlongo, e contro gli altri imputati
della Banca Romana, che era stato nei mesi precedenti trascinato
traverso a lungaggini, fu varato e, con grave scandalo della
opinione pubblica, finì con l'assoluzione completa di tutti gli
imputati, verso i quali l'inchiesta da me promossa aveva pure
provato fatti così gravi e dannosi. Fatto caratteristico, nò io né
il mio sottosegretario di Stato, Rosano, quantunque in quel
processo fossero mosse le prime accuse contro di me per la
presunta sottrazione di documenti, fummo chiamati, né a dare
schiarimenti, né a presentare i documenti che pure erano già stati
pubblicati.
Né la colpevole indulgenza si arresta qui, perchè del modo con cui
sia andata a finire la liquidazione della Banca, nulla di preciso
si è mai saputo, il rendiconto di quella liquidazione, che era
stata affidata alla Banca d'Italia, non essendo mai stato
pubblicato. Si seppe soltanto che alcuni dei maggiori debitori
avevano potuto liquidare la loro posizione con cifre addirittura
irrisorie. E peggio ancora, mentre i responsabili e colpevoli
venivano assolti, dal loro processo si traevano le fila per la
persecuzione e incriminazione degli innocenti, anzi di coloro per
la cui opera la scandalosa situazione della Banca era stata
scoperta e constatata.
Durante il processo infatti, gli avvocati di Tanlongo e degli
altri imputati, prendendo le mosse da affermazioni senza prove
fatte dal Tanlongo stesso, avevano architettata la difesa sulla
presunzione che il Tanlongo, per lunghi anni, avesse dovuto
spendere cospicue somme, specie per incarico del Ministro
Magliani, per la difesa della nostra Rendita sui mercati
finanziari; e siccome non potevano addurre nessuna prova di questo
loro asserto, affermavano che i documenti comprovanti esistevano,
ma non si erano più trovati, e che per ciò si doveva supporre che
fossero stati sottratti durante le perquisizioni fatte dalla
Pubblica Sicurezza. Partendo da queste premesse fu iniziato un
procedimento contro quattro funzionarli di pubblica sicurezza che
avevano presieduto a quelle perquisizioni; uno dei quali era il
Questore di Roma, comm. Felzani, e gli altri gli Ispettori Ro,
Rinaldi e Pezzi.
Qualche tempo dopo, a cose passate, Tommaso Villa, che era stato
uno dei difensori, non del Tanlongo ma del cassiere Lazzaroni, mi
confessò apertamente che tutta questa storia delle spese fatte
fare dal Magliani, e che dovevano ascendere nientemeno che a
diciotto milioni, era stata appunto architettata come spediente di
difesa.
E c'era un'altra prova che quei pretesi documenti sottratti erano
imaginari, fornita involontariamente dall'accusato principale, il
Tanlongo, il quale nel luglio del 1893, scrivendomi dal carcere
per scolparsi di avere personalmente fruito dei danari della
Ranca, e dichiarando di averli spesi dietro inviti di ministri,
soggiungeva: — Le cose esposte risultano da docu1menti, a
cominciare dall'incarico ricevuto dal Ministro nel 1881, giusta
lettera che potrà essere resa ostensiva alla E. V. e giusta una
infinita quantità di inviti direttimi da tutti i ministri. —
Ora, quando si fu al processo, il documento per la spesa di
diciotto milioni con la pretesa sigla del Magliani non fu
presentato, adducendosi, in contraddizione con quanto dichiarava
la lettera del Tanlongo, che fosse stato sottratto. Se io fossi
stato chiamato testimone al processo, avrei dunque potuto
presentare la prova autentica che nel luglio del 1893, dopo le
perquisizioni, non era stata ancora imaginata quella tabella
firmata dal Magliani, e così sarebbe caduta una delle affermazioni
che più servirono a facilitare l'assoluzione dei colpevoli e ad
imbastire il processo per la pretesa sottrazione dei documenti. Si
noti del resto che il supporre che un uomo della levatura del
Magliani potesse con una semplice sigla autenticare un credito
verso il Tesoro di diciotto milioni è cosa strana; ma anche più
strano era supporre che io, che avevo combattuto a fondo il
Magliani quando era in vita per la sua politica finanziaria, mi
fossi poi indotto a fare commettere un reato, come quello della
sottrazione di documenti, per difendere la sua memoria.
L'inscenatura del processo contro questi funzionari, per una
presunta sottrazione di documenti che non esisteva, mentre che
vere sottrazioni avessero avuto luogo avanti il
loro arresto per parte degli
imputati stessi era dimostrato dal modo della difesa e da varie
pubblicazioni, in realtà mirava a me. Questi funzionari erano
intanto stati sospesi e dall'impiego e dal loro stipendio, e nei
procedimenti d'istruttoria si insisteva perchè confessassero, cioè
dichiarassero il falso, osservando loro che se la sottrazione era
stata da essi consumata per esecuzione di un ordine mio, la loro
responsabilità cadeva ed essi sarebbero stati liberati da ogni prò
cedimento. Per compiere una tale enormità e fuorviare la
magistratura dalla retta via, si era fatta tutta una preparazione,
di cui più tardi il Ministro Guardasigilli, Calenda dei Tavani, si
lasciò sfuggire la confessione in piena Camera, rispondendo ad una
interrogazione con la frase, rimasta celebre, che egli «aveva
dovuto preparare l'ambiente». E come questa preparazione fosse
stata condotta, era evidente.
Infatti sotto il Ministero da me presieduto, quando si aperse
l'istruzione del processo della Banca Romana, non un solo
magistrato era stato mutato; e procuratore generale, procuratore
del Re, giudice istruttore capo, e giudici istruttori e sostituti
procuratori incaricati del processo, rimasero quali io li avevo
trovati assumendo il governo, ed erano tutti funzionari chiamati
dai precedenti Ministeri; e lo stesso si dica di tutti i
funzionari di Pubblica Sicurezza, dal questore agli agenti,
incaricati degli arresti e delle perquisizioni. Per inscenare
invece contro di me il processo della pretesa sottrazione di
documenti si era ricorso ad ogni mezza di costrizione ed
intimidazione. Il Procuratore generale, il Comm. Venturini,
patriota egregio e magistrato da tutti stimato, fu traslocato da
Roma, ed al suo posto chiamato un altro magistrato che io non
conoscevo, ma che era il solo fra tutti i procuratori generali
d'Italia che avesse ragioni di rancore contro di me, perchè ai
tempi del mio Ministero, essendo stato traslocato dal suo posto ad
un altro dove non aveva voluto andare, era stato messo in
aspettativa.
Insieme al procuratore del Re erano stati mutati i giudici
istruttori; ed era ad un tempo stata ordinata una inchiesta sulla
magistratura affidandola a tre persone; e l'anima di questa
inchiesta, il relatore, non era un magistrato, ma l'avvocato
generale erariale, cioè un funzionario che dipendeva dal governo
senza alcuna garanzia d'inamovibilità. Il tentativo di pressione
sulla magistratura, inerente a questa inchiesta, era troppo
scandaloso e andò fallito, la Commissione consulente per il
personale della magistratura, composta di magistrati inamovibili,
ed il Tribunale di Roma avendone ad unanimità respinte le
conclusioni, dichiarando di non volere applicare nessuna pena ai
magistrati censurati, perchè non la meritavano avendo sempre
adempiuto al loro dovere. Il tentativo fallì, ma il fatto di
quella inchiesta provò che il governo era disposto a ricorrere a
mezzi illegali per agire sulla magistratura.
Gli effetti di questi mezzi, e di questa cosidetta «preparazione
dell'ambiente» erano intanto evidenti a tutti. Mentre il Codice
penale vieta rigidamente di fare conoscere i risultati
d'istruttoria; pare che in quel caso essa fosse condotta
davanti agli occhi di tutti, ed ogni sera i giornali riferivano
ciò che avveniva nel Gabinetto del giudice istruttore, e gli,
somministravano incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me
più ostile. I funzionari accusati avevano chiesto per mezzo dei
propri difensori che al loro processo fossero aggiunti i documenti
del processo precedente, perchè la constatazione della mancanza di
qualche documento potesse così farsi; ma tale domanda fu respinta
dal giudice inquirente non. ostante la sua evidente giustizia. Era
questa una cosa enorme, ma era anche una evidente conseguenza
della consegna secondo la quale nessun occhio profano doveva
penetrare nel sacrario dei documenti della Banca Romana.
Gli accusati presentarono pure dichiarazioni giurate di testimoni
che riuscivano, stabilendo degli alibi, a smentire le false accuse
della loro attività per sottrarre documenti durante le
perquisizioni; ma erano passati più di dieci mesi senza che alcuno
di questi testimoni fosse stato chiamato dal giudice istruttore.
Si ricorse insomma a tutti i mezzi contro quegli egregi
funzionari, esercitando sul loro animo ogni pressione, tenendoli
sospesi riguardo alla loro sorte; allo scopo di ottenere da loro
l'accusa desiderata contro di me; ma essi resistettero,
perseverando a dichiarare che nulla avevano commesso, e si
difesero energicamente negando nel modo più reciso ed assoluto di
avere avuto mai da me ordine di sottrarre documenti, o di averne
mai portati al Ministero dell' Interno.
Mentre così si stava istruendo dal giudice istrutitore e dai
giornali il processo per la sottrazione dei documenti, io dovetti
venire a Roma per accompagnarvi mio figlio. Venne a casa mia
l'ex-questore Felzani, il quale mi disse che il principale
argomento che si adoperava nell'accusa contro di lui e contro gli
altri funzionari di Pubblica Sicurezza, era l'affermazione che
delle carte di carattere politico dovevano essere giunte al
Ministero, e che non potevano provenire che da sottrazioni operate
da ufficiali di Pubblica Sicurezza. Gli risposi: — Potete invocare
la mia testimonianza; carte al Ministero ne sono giunte, ma non
sono assolutamente state portate, e voi Io sapete meglio di me, né
da voi, né da alcuno di quei funzionari. — Allora egli mi chiese
se avrei avuto difficoltà di rilasciargliene dichiarazione per
iscritto.
Per abitudine costante ciò che io dico non ho difficoltà di
scriverlo, ed inoltre era chiaro il mio dovere di addurre la mia
testimonianza contro false accuse che colpivano degli innocenti. E
così, gli rilasciai, con la data del 25 ottobre '94, la lettera
seguente:
«Ella mi informa che nel processo per la pretesa sottrazione di
documenti alla Banca Romana, si adduce come argomento di accusa la
circostanza che documenti relativi alla Banca Romana sarebbero
giunti al Ministero dell' Interno. La autorizzo a dire essere
perfettamente vero che al Ministero dell' Interno giunsero
documenti, che potevano gettare luce non bella sopra qualche uomo
politico, ma quei documenti provenivano da tutt'altra parte che
dai funzionari di Pubblica Sicurezza; furono portati al Ministero
molto tempo dopo che le perquisizioni erano finite, ed erano carte
le quali non potevano in alcun modo influire sul processo
della Banca Romana.»
Quella lettera la diedi perchè il Felzani la portasse al giudice,
come argomento di difesa, per sé e per i suoi compagni. Portata al
giudice durante il periodo dell'istruttoria segreta, essa avrebbe
dovuto rimanere segreta e servire solamente al giudice, per
l'accertamento dei fatti, ciò che egli avrebbe potuto fare anche
interrogando me, il mio Sottosegretario di Stato e tutti quelli
che potessero informare d'onde quei documenti erano venuti.
Invece, non so per opera di chi, ma con la necessaria complicità
del giudice, quella lettera due o tre giorni dopo fu pubblicata
dai giornali, che ne trassero occasione di una campagna furiosa
contro di me, come se io avessi lanciato delle accuse contro tutto
il mondo politico italiano, e mi sfidavano a pubblicare ciò che io
avevo. Finché si trattò di insinuazioni di giornali, resistetti e
nulla pubblicai. Ma pochi giorni dopo fu aperta la Camera, e
Colajanni presentò una interpellanza sulla questione.
Compresi allora che non potevo tacere più oltre, perchè la lettera
essendo, regolarmente o no, diventata pubblica, vi era ormai di
mezzo la dignità parlamentare. Ma volendo, in materia così
delicata procedere con ogni cautela, io credetti mio dovere di non
giudicare col criterio mio, e pregai quindi molti fra gli uomini
politici più autorevoli della Camera, di darmi il loro parere;
scegliendo a quest'uopo i deputati Cavallotti, Carmine, Coppino,
Colombo, Damiani, Di Rudinì, Fortis, Marcora, Zanardelli e Roux,
uomini che, oltre la loro autorità personale, rappresentavano
tutte le parti della Camera. Il loro verdetto fu unanime, e cioè
che nulla doveva restare non pubblicato. Offersi di consegnare
loro i documenti perchè ne prendessero visione, ma essi mi
dichiararono di non sentirsi autorizzati a questo. Interrogati poi
da me personalmente questi uomini e parecchi altri della Camera,
perchè mi dicessero quale fosse la forma che credevano più
conveniente per eseguire quel verdetto, tutti, nessuno eccettuato,
mi consigliarono di consegnare al Presidente della Camera i
documenti. E nella stessa seduta in cui il Colajanni doveva
svolgere la sua interpellanza, che egli ritirò in seguito alla mia
decisione, io feci una breve dichiarazione, concludendo col
portare i documenti al Presidente. Questi rifiutava di riceverli,
ed allora io glieli lasciai sul tavolo. Egli dichiarò, fra i
rumori, che non li accettava, e che sarebbero stati deposti nella
cassaforte dellia Camera.
Seguì una discussione accanita.
Da una parte Imbriani, Cavallotti e Colajanni insistevano perchè
il plico fosse aperto seduta stante, e presentarono ordini del
giorno in tale senso. Dall'altra parte Crispi sostenne che i
documenti dovevano essere respinti a me, e che sopra di me doveva
restare la responsabilità della pubblicazione, che altrimenti
sarebbe ricaduta sulla Camera. A tale tesi portarono concorso gli
amici particolari di Crispi, come il De Nicolò e il Casale; e
particolarmente accanito ad opporsi a riceverli fu il Bonghi, non
perchè egli fosse compromesso, che anzi non c'entrava per nulla;
ma per la forte ostilità politica che una parte della Destra aveva
preso contro di me, sentimento a cui non partecipavano il Di
Rudinì, il Luzzatti e gli altri elementi più temperati di quella
parte.
Alla fine il Coppino presentò una proposta intermedia fra la
lettura immediata e la restituzione a me dei documenti, e cioè che
fosse eletto un comitato di cinque persone che prendessero visione
dei documenti e poi ne riferissero alla Camera. A tale proposta si
associarono anche il Cavallotti che ritirò la proposta sua di
lettura immediata, ed il Rudinì. Si venne alla votazione; l'ordine
del giorno per la restituzione, presentato dal Bonghi ed a cui si
era associato il Torraca, ebbe ventisei voti favorevoli contro
duecentotrentanove contrari e ventisette astenuti. Il secondo
ordine del giorno presentato dal De Nicolò, perchè i documenti
fossero rinviati al magistrato incaricato della istruzione del
processo per la sottrazione dei documenti, ebbe la stessa sorte, e
la proposta della nomina di una Commissione di cinque membri per
l'esame fu approvata per alzata e seduta.
Si tentò ancora di differire al giorno dopo la nomina della
Commissione; ma Cavallotti ed altri si opposero, ed infine i
Commissari furono votati e risultarono scelti il Carmine, il
Cavallotti, il Chinaglia, il Cibrario, ed il Damiani.
I documenti da me consegnati erano accompagnati da una lettera, in
cui dichiaravo brevemente le ragioni per le quali, in seguito alla
pubblicazione della lettera da me rilasciata al Felzani, per
dovere di coscienza e nell'interesse della verità, nella
persuasione che avrebbe servito solo per l'istruttoria segreta del
processo in corso, — pubblicazione fatta senza la mia
partecipazione ed anzi a mia insaputa — avevo creduto necessario
consegnare alla Camera, nell'intento di far cessare sospetti e
scandali, le carte in mio possesso.
Tali documenti, e di ciò dette poi notizia la Commissione dei
cinque, erano contenuti in sei buste sulle quali io avevo indicato
sommariamente per ognuna il contenuto. La prima busta conteneva
copie di una ventina di documenti esistenti nel processo della
Banca Romana e sequestrati a Lazzaroni; copie che come Ministro
degli Interni e Presidente del Consiglio io mi ero fatto dare,
avendone diritto ed anzi dovere, per rendermi pienamente conto
della gravissima situazione minacciante il credito nazionale, che
derivava dalle rivelazioni delle condizioni della Banca e degli
abusi consumati. Conteneva pure dieci elenchi di documenti del
processo della Banca, che comprendevano ventisette pagine di
scrittura.
La seconda busta, conteneva quattro lettere, che Bernardo Tanlongo
mi aveva dirette personalmente
in busta chiusa, valendosi della facoltà concessa ai detenuti dai
regolamenti carcerari. Due di esse si riferivano a calcoli sulle
perdite della Banca Romana per il cambio e le riscontrate. Per le
altre due, io avvertivo con una nota la Commissione del modo con
cui mi erano pervenute. Ed era questo: il Tanlongo mi aveva fatto
chiedere se desideravo informazioni circa i rapporti di uomini
politici con la sua Banca, e siccome anche tali informazioni
avevano importanza per la conoscenza della situazione, io gli
avevo fatto rispondere che le avrei accettate. Egli me le
trasmise, a mezzo di due lettere, in piego chiuso, ed io
richiamavo l'attenzione della Commissione che a quelle lettere si
poteva dare fede in quanto trovassero conferma in altri atti,
parendomi esse dettate in gran parte dal suo proposito di far
temere scandali se il processo avesse luogo. E ricordavo al
riguardo che infatti le accuse mosse in tali lettere ai miei
colleghi Grimaldi e Lacava, furono poi smentite dal Tanlongo
stesso nel suo interrogatorio davanti al Comitato dei Sette e
nello stesso dibattito pubblico del processo, nel quale egli le
dichiarò false e da lui stesso inventate per condotta di causa.
Quelle due lettere, ad ogni modo, costituivano un elaborato
rapporto sulle cause della crisi della Banca, sulle responsabilità
di uomini politici e giornalisti in detta crisi, in relazione alle
varie leggi sulle Banche d'emissione, e su altre molteplici
responsabilità di vario genere.
La terza busta conteneva una
lettera direttami,
in data 13 maggio '93 dal Direttore
generale della Banca Nazionale, Comm. Grillo e copia di un
telegramma di Stato, riservato e direttomi da una autorità
governativa di Milano quando ero Presidente del Consiglio.
La busta quarta conteneva appunti consegnatimi durante l'ispezione
delle Banche; e cioè per la Banca Romana una nota delle cambiali
giacenti in sofferenza nella Banca stessa, dal 1889 in poi,
consegnatami il 25 febbraio '93 dal Comm. Martuscelli; poi tre
fogli, che furono così qualificati dalla Commissione: 1.° Cessione
Chiara Pietro accettante a favore di Antonio Crispi; 2.°
Accettazione Pietro e Nicolò Chiara; 3.° Intestazione a debito di
Chiara Pietro e Nicolò, senza firma.
La busta quinta conteneva, in quarantatre fogli, copie di lettere
e documenti relativi a trattative, intervenute dall'agosto
all'ottobre '92 ad insaputa del Governo, per la fusione della
Banca Romana con la Banca Nazionale; ciò che provava che la Banca
Nazionale non conosceva le condizioni della Banca Romana.
Infine la sesta lettera conteneva otto lettere di Crispi, e
centodue lettere di donna Lina Crispi, dirette a persone di
servizio di casa Crispi. Queste ultime lettere erano state da me
suggellate a parte, con sopra scrittovi che esse erano di
carattere privato, e che io avevo creduto di doverle sottrarre
alla circolazione; che le depositavo per mio completo discarico,
ma non credevo dovessersi pubblicare; criterio a cui la
Commissione aderì senza discussione.
La Commissione, riferendo nella sua relazione questo esame
sommario dei documenti, avvertiva poi di essersi posti vari
quesiti; e cioè se nelle risoluzioni che si avessero a proporre
alla Camera per eventuali pubblicazioni si dovessero escludere i
nomi di persone appartenenti al Senato ed i nomi di uomini
politici defunti; se essa dovesse esprimere un avviso qualsiasi
sul merito dei documenti contenuti nel piego e dichiarati
suscettibili d'esame, e se si dovesse procedere ad interrogatori;
e che aveva concluso per: tutti questi quesiti negativamente,
ritenendo essere il proprio mandato limitato alla cernita dei
documenti, e di non avere essa perciò veste di Commissione di
inchiesta parlamentare, quale l'aveva avuta il Comitato dei Sette.
Essa concludeva semplicemente con la proposta della pubblicazione
di quei documenti di cui aveva fatta la cernita, e con le
esclusioni contemplate nei quesiti sopraccennati. E la proposta,
con quelle limitazioni, fu dalla Camera approvata.
La relazione e i documenti scelti furono infatti pubblicati e
distribuiti due giorni dopo, il 15 dicembre. L'Imbriani ed il
Cavallotti proposero che sulla relazione fosse aperta
immediatamente la discussione; il Presidente Biancheri si oppose
dichiarando che la discussione non era all'ordine del giorno, e
ricordando che il regolamento prescrive che non si possa discutere
una proposta che non è all'ordine del giorno, se la discussione
non è decisa a scrutinio segreto con la maggioranza dei tre quarti
dei votanti. Cavallotti insistè, appoggiato anche dal Di Rudinì,
per la discussione immediata; Bonghi si oppose accanitamente;
Crispi insorse violentemente contro la relazione. Si venne alla
votazione; i tre quarti necessari per il passaggio alla
discussione non furono ottenuti, ma la maggioranza risultò per
nove voti favorevole alla discussione immediata; il che
significava che il Ministero sarebbe stato battuto. Allora Crispi
decise di prorogare la sessione.
Ricordo che alle tre pomeridiane di quel giorno stesso, venne a
casa mia un giornalista, corrispondente di giornali americani, ad
avvertirmi di sapere che era stata decisa la chiusura della Camera
per potere, fra l'altro, farmi arrestare, quando non fossi, per la
proroga della sessione, più protetto dalla incolumità
parlamentare. Io avevo già promesso a una delle mie figlie, che
allora viveva a Berlino, di recarmi a passare le feste con lei; e
siccome con la chiusura della Camera non avevo più alcuna ragione
di trattenermi a Roma, partii la sera stessa per Berlino. Per
strada, e durante tutto il viaggio in Italia, mi accorsi di essere
pedinato e sorvegliato da vari agenti di Pubblica Sicurezza, che
si scambiavano; ricordo che all'ultima tappa, da Bologna al
confine, uno mi si presentò spacciandosi per amico di un mio
collega politico, pure grande mio amico; ed a quell'agente chiesi
a Verona quale fosse il migliore albergo di Trento, dove infatti
andai, e fui da lui seguito.
A Berlino fui ospitato da mia figlia, che
con suo marito viveva nel sobborgo di Charlottenburg, mio genero
essendovi occupato per studi in una grande fabbrica di materiale
elettrico, la Siemens. Rimasi a Berlino circa un mese, tenendomi
assolutamente in disparte, tanto che essendosi rivolti a me dei
giornalisti francesi, per avere interviste presumibilmente contro
Crispi, io mi rifiutai di riceverli. Mi occupai solo ad osservare
il paese, e ne ebbi l'impressione di un paese molto operoso,
tranquillo e disciplinato.
Alla fine di gennaio ricevetti un mandato di comparizione da parte
della sezione di accusa di Roma. Infatti, nella mia assenza era
stato iniziato procedimento contro di me per ogni sorta di
imputazioni, dipendenti dalla presentazione del plico. Il
procedimento era parte di azione pubblica, parte a querele di
privati. Ritornai immediatamente in Italia, e venuto a Roma, mi
presentai alla sezione d'accusa alla quale era stato avocato il
processo. Senza entrare in alcuna questione di merito io eccepii
l'incompetenza dell'autorità giudiziaria; sia perchè si trattava
di accuse fatte a me per presunti reati commessi durante
l'esercizio delle mie funzioni di Ministro; sia sopratutto perchè
la presentazione del plico era avvenuta alla Camera, e non poteva
fare quindi oggetto di procedimento senza il consenso della Camera
stessa.
Ricordo che i componenti la sezione d'accusa mi dichiararono che
codesta questione di competenza l'avevano già esaminata e risolta,
e non potevano cambiaiparere; io risposi di essere sicuro che le
ragioni da me addotte avrebbero finito di persuaderli della
incompetenza dell'autorità giudiziaria. Uno dei giudici, per
combinare un tranello, forse col calcolo di fare decorrere i
termini, mi disse: — Ella vuol dire che si riserva di ricorrere in
Cassazione? — ma io replicai ancora che ero convinto che si
sarebbero persuasi, e che probabilmente non avrei avuta occasione
di ricorrere in Cassazione.
Le ragioni che io presentai, in una breve memoria al giudice
istruttore, sorpassavano la mia questione personale, e toccavano
le più alte prerogative costituzionali, la minaccia contro le
quali costituiva indubbiamente la cosa più grave di quel periodo
di violenza e di arbitrio contro la legge. Io osservavo dunque che
quantunque il mio desiderio, quale privato cittadino, potesse
essere di provocare il più rapido giudizio, per dissipare colla
evidenza dei fatti l'ombra degli addebiti che solo la violenza
delle passioni politiche aveva potuto provocare, il mio dovere
quale membro del Parlamento ed ex-ministro del Re in regime
parlamentare mi imponeva di non venir meno all'obbligo di non
lasciare pregiudicare, con una acquiescenza passiva, quelle
prerogative parlamentari che esistono in virtù del Patto
fondamentale del Regno, e che sono garanzie indispensabili di
indipendenza della rappresentanza del paese di fronte all'autorità
politica.
Riguardo all'accusa di sottrazione di documenti osservavo che lo
Statuto prescrivendo che la Camera dei Deputati ha il diritto di
accusare i Ministri del Re e di tradurli davanti al Senato
costituito in Alta Corte di giustizia, tale diritto si riferisce
per consenso unanime degli scrittori di diritto pubblico, e per
l'esempio di tutte le costituzioni europee, agli atti ed ai fatti
compiuti da una persona, nelle sue qualità di Ministro, tanto se
esso è in carica quanto se ha cessato di esserlo; e che tale
disposizione statutaria, anche dai trattatisti più contrari
a qualunque forma di privilegio in tutto ciò che
tocca la pubblica giustizia, era riconosciuta con concorde
giudizio indispensabile, come non informata
a privilegio, ma a
necessità intrinseche delle stesse istituzioni.
Per l'altro gruppo di addebiti, riferentisi
alla presentazione del
plico, io richiamavo l'articolo 30 della
legge sulla stampa, che era una derivazione dell'articolo 51 dello
Statuto, il quale dispone che non potranno dare luogo ad azione
giudiziaria le pubblicazioni dei discorsi
tenuti nel Senato o nella Camera dei Deputati, le relazioni
o qualunque altro scritto stampato per ordine delle due
Camere. È infatti evidente che tali
manifestazioni, quali emanazioni del Potere legislativo, sono
necessariamente sottratte alla cognizione ed alla censura di un
altro Potere, quale è il giudiziario, altrimenti sarebbe resa
impossibile qualunque libera funzione parlamentare.
Nel caso mio particolare poi, le carte che avevano dato luogo ad
azione pubblica ed a querele private, erano state presentate alla
Camera da parte mia, nell'esercizio della mia qualità di deputato
e sotto la garanzia dell'articolo 51 dello Statuto, perchè
richiesto di dare conto alla Camera di fatti compiuti in qualità
di Ministro. Io avevo consegnati i documenti in plico chiuso alla
Presidenza, ed era stata la Camera stessa, che respingendo la
proposta che mi fossero restituiti, e l'altra proposta di
trasmetterli all'autorità giudiziaria, aveva deliberato che il
plico venisse aperto, e che le carte in esso contenute fossero
esaminate da uno speciale Comitato parlamentare e parzialmente
pubblicate. Si trattava dunque di atti, non miei personali, ma di
essenziale giurisdizione della Camera, e che non potevano in alcun
modo cadere sotto il controllo e la censura dell'autorità
giudiziaria. La incompetenza della quale veniva anche riconfermata
indirettamente dal fatto che essa non aveva potuto ottenere dalla
Camera gli scritti sui quali le accuse e tutta l'azione
giudiziaria doveva essere fondata.
Era dunque evidente, anzi incontrovertibile, che, avendo la Camera
riservato a se stessa con formale deliberazione l'esame e la
decisione dell'intera materia, e delle questioni e responsabilità
tutte ad essa inerenti; qualunque giudizio l'autorità giudiziaria
pronunciasse su quei documenti, sulla loro autenticità ed
efficacia, sulla fede che potevano meritare, sulla legittimità
della loro provenienza e dell'uso che ne era stato fatto, avrebbe
pregiudicato il giudizio che la Camera si era riservato, come sola
competente, di pronunciare sui Ministri in carica e su quelli
cessati, e sarebbe riuscito ad una invasione del potere
giudiziario sul potere legislativo, e ad un controllo
costituzionalmente inammissibile di fatti politici svoltisi nella
Camera dei Deputati.
Infine poi, dal punto di vista pratico, il processo per la
presentazione di documenti alla Camera, avrebbe dovuto svolgersi
intorno a documenti che la Camera aveva già deliberato di non
pubblicare integralmente, anzi di tenere segreti; cosicché
l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto ragionare su documenti che
non aveva Visti; la difesa avrebbe dovuto procedere senza sapere
di che veramente si trattasse, ed i giudici giudicare senza avere
sott'occhio i documenti che si pretendeva contenere diffamazioni.
Ma la sezione d'accusa, non esitando a colpire ciecamente le più
gelose prerogative legislative, ed altre prerogative statutarie
senza le quali nessun governo responsabile sarebbe possibile,
respinse le mie eccezioni di incompetenza. Allora io ricorsi alla
Corte di Cassazione, presieduta allora dal Senatore Canonico, e
detti l'incarico della mia difesa all'avvocato Cavaglià di Torino,
agli on. Sacchi e Galimberti, ed all'avv. Leonida Busi di Bologna.
La Corte di Cassazione annullò senza rinvio tutte indistintamente
le decisioni pronunciate dalla sezione di accusa, dichiarando
l'incompetenza dell' autorità giudiziaria, per giudicare, sia
dell'opera di un Ministro, sia di atti compiuti nelle aule
parlamentari. Ricordo che l'avvocato Busi, a cui io chiedevo quale
fosse il mio dovere verso di lui per l'opera prestata, mi
dichiarava: — Sono compensato abbastanza con l'avere constatato
che vi è ancora giustizia in Italia. — E due anni dopo il Senatore
Canonico mi diceva che durante quelle deliberazioni, Crispi si era
recato personalmente a visitarlo a casa sua, per sollecitare le
decisioni della Cassazione.
Intanto si era continuato a mantenere la Camera prorogata; e la
proroga durò, cosa senza precedenti, per oltre quattro mesi. Il
disegno di Crispi e della gente che l'attorniava, era di riuscire
a ottenere una condanna contro di me avanti di indire le elezioni
generali, per avere il campo libero e per presentarsi agli
elettori col prestigio di un tale successo, che nel loro pensiero
doveva seppellire la questione morale, rimasta sempre viva, pure
fra tanti contrasti e non ostante i diversivi della politica
contro i socialisti e dell'inizio della impresa d'Abissinia, nella
pubblica coscienza. Ma dopo il giudizio della Cassazione, che
sventava questo disegno, si dovette venire alle elezioni; la
Camera fu sciolta l' 8 maggio e le elezioni indette per il 26
maggio e 2 giugno del '95.
In queste elezioni il governo tentò in tutti i modi di suscitarmi
contro dei concorrenti; ma tre del paese, interpellati perchè
accettassero la candidatura, risposero, che non solo non si
presenterebbero contro di me, ma mi avrebbero dato il loro voto. A
Cuneo in quei giorni era stato mandato un nuovo prefetto perchè si
occupasse in special modo delle elezioni; e dopo una quindicina di
giorni che aveva preso possesso, si recò a Dronero, il capoluogo
del mio collegio. Arrivando trovò
alla stazione il Sindaco, l'intero Consiglio comunale
e parecchi dei più ragguardevoli cittadini. Il Sindaco, a nome di
tutti gli intervenuti, si rivolse al prefetto e gli tenne presso a
poco questo discorso: — Se Ella viene come prefetto per visitare i
nostri istituti, noi che siamo deferentissimi all' autorità,
l'accompagneremo da per tutto; ma se Ella parla di elezioni noi la
lasciamo sola, ed Ella non troverà in tutta Dronero né uno che le
parli né uno che la saluti. — Il prefetto protestò che non
intendeva immischiarsi nelle elezioni, ed allora fu festeggiato e
condotto a visitare asili ed ospedali.
Il risultato della votazione fu che all'unanimità mi mancarono
solo tre voti: due dati a Crispi ed uno a Barbato. Dei due voti a
Crispi, si seppe poi che erano stati dati da due ricchi del
collegio, padre e figlio, che si erano allarmati della idea
dell'imposta progressiva, da me proposta. L'indignazione per la
lotta violenta e senza scrupoli condotta dal governo contro di me,
era così forte in tutto il collegio, che votarono per me anche
coloro, pochi invero di numero, che nelle elezioni precedenti
avevano votato per un socialista. Il governo tentò pure di agire
presso dei miei amici: al Cefaly, Crispi aveva fatto dire che non
l'avrebbe combattuto nel suo collegio a condizione s'impegnasse a
non ritornare sulla questione morale; al che Cefaly aveva risposto
: — Ma la questione morale è appunto l'unica ragione per cui mi
ripresento! —
Il Ministero ebbe però complessivamente la maggioranza,
specie nell'Italia centrale e meridionale,
dove l'opinione pubblica era particolarmente infatuata
dell'impresa africana e dei vantaggi nazionali che se ne
riprometteva. L'opinione e il sentimento erano assai diversi
nell'Italia settentrionale, dove la corrente, sia contro la
guerra, sia per la questione morale era fortissima nelle classi
popolari e nei partiti democratici. Fra gli stessi conservatori le
opinioni erano divise; se vi erano alcuni che menavano tutto buono
a Crispi per la sua politica interna a loro grata; altri, ed erano
la maggioranza, erano assai perplessi riguardo l'impresa africana,
per le sue ripercussioni sulle già difficili condizioni economiche
e finanziarie dello Stato e del paese, né erano proclivi ad
eccessive indulgenze per la questione morale, anche per non
sfigurare di fronte ai loro avversari, i democratici, i quali, a
Milano particolarmente, l'avevano posta come la questione allora
capitale della vita politica italiana.
La Camera fu aperta dopo le elezioni, il 10 giugno, per pochi
giorni, ed il Governo ebbe la maggioranza. Alla riapertura in
novembre, furono ripresentati gli atti che riguardavano i processi
iniziati contro di me. La Commissione incaricata di esaminarli,
composta in grande maggioranza di amici di Crispi, si rifiutò di
sentirmi, proponendo l'autorizzazione a procedere; il relatore fu
il Cambrai-Digny. Quando la proposta della Commissione venne in
discussione io pronunciai un discorso, che fu dalla Camera
ascoltato con grande attenzione ed equanimità, nel quale feci una
completa esposizione dei fatti e delle cose, e sostenendo che dato
il carattere assolutamente politico degli addebiti e delle accuse
che mi si facevano, solo nei miei colleghi io potevo avere i miei
giudici. E chiedevo che la Camera entrasse finalmente nell'esame
di merito perchè, visto che l'autorità giudiziaria, a mezzo del
suo organo massimo, la Corte di Cassazione, aveva già dichiarata
la propria incompetenza, solamente il Parlamento, e cioè la Camera
come accusatrice, e il Senato costituito in Alta Corte come
giudice, potevano pronunciarsi.
La decisione della Commissione di raccomandare l'autorizzazione a
procedere, ciò che equivaleva a rimandare la questione davanti
alla giustizia ordinaria che si era già dichiarata incompetente,
portava all'assurdo.
Siccome nel mio discorso io avevo richiamata l'attenzione al fatto
delle interferenze del Ministro della Giustizia d'allora Calenda
dei Tavani, nei procedimenti promossi contro di me, fra l'altro
cambiando tutti i giudici, il Ministro chiese la parola, e
cominciò a parlare dicendo: — Naturalmente io avevo dovuto
preparare l'ambiente. — La frase, che confermava involontariamente
le mie accuse, sollevò un putiferio; il Calenda dei Tavani fu
investito violentemente, specie dall'Estrema Sinistra, e il
Presidente costretto a sospendere la seduta, e i Ministri, fra i
quali Crispi non era presente, si ritirarono dall'aula. Quando fu
ripresa la seduta, i Ministri rientrarono tutti, tranne quello di
Grazia e Giustizia, il che provocò nuovi rumori.
Prese poi la parola il deputato Torraca, mio antico avversario, il
quale propose un ordine del giorno inteso a dire che della
questione non si dovesse parlare più, per non turbare il paese,
che aveva bisogno di tutta la sua calma per affrontare tutte le
altre questioni, fra le quali vi era la guerra d'Abissinia. I miei
amici, fra i quali ricordo particolarmente il Guicciardini, si
opposero, sostenendo che si dovesse andare a fondo, per constatare
se vi erano dei colpevoli o dei calunniatori. Questo ordine del
giorno fu appoggiato dal Ministero, ed ottenne la maggioranza, per
parte mia astenendomi dal voto secondo l'impegno che avevo preso
nel tmio stesso discorso, col quale mi ero rimesso completamente
al giudizio dei miei colleghi. E così la questione fu
definitivamente sepolta, senza che io potessi dimostrare, a mezzo
di sentenza, che le accuse dirette contro di me erano pure
calunnie, e che io ero stato vittima di una sleale persecuzione.
L'episodio della Banca Romana, che tenne agitato per quasi due
anni il Parlamento e l'opinione pubblica, per me ebbe una
importanza di primo ordine perchè, rilevando le manchevolezze del
nostro ordinamento delle Banche di emissione, e i gravissimi abusi
che ne erano derivati, e che minacciavano il credito del paese
alle sue stesse fonti, cioè nella sicurezza della moneta, dette
modo di porvi rimedio. A ciò appunto io, appena le cose e i fatti
vennero alla luce, indirizzai la mia opera politica in modo che
riuscì permanentemente efficace.
Va ricordato in proposito che, rispondendo alle interrogazioni del
Comitato dei Sette, Crispi ammise pienamente di avere conosciuta,
quando era Presidente del Consiglio, la relazione Biagini e il
marcio della Banca Romana, e che aveva ritenuto si dovesse uscirne
al più presto possibile, ma senza chiasso, trattandosi del credito
nazionale, che non solo era debole all'interno, ma combattuto
all'estero acerbamente, così che ogni atto che lo pregiudicasse
maggiormente sarebbe riuscito fatale all'economia nazionale, e che
perciò si limitò di fare da sé lo studio della Banca unica. Ma
effettivamente non risulta che il Crispi qualche cosa facesse di
pratico per rimediare ad uno stato di cose così gravi e che egli
dichiarava .essere stato a sua conoscenza.
Per quanto riguarda quella che fu chiamata la questione morale,
cioè la compromissione di uomini politici in questi tristi affari
delle Banche, le cose andarono in modo assai poco soddisfacente;
dalla scandalosa assoluzione degli .imputati del processo della
Banca Romana, alle evasioni delle Commissioni parlamentari
incaricate di constatare la responsabilità degli uomini politici;
mentre poi, contro la verità e la legge, col pretesto di una
sottrazione di documenti che poteva essere dimostrata
assolutamente inesistente sino dal principio, se si fossero
interrogati i testimoni citati dalla difesa, si condusse per odio
politico una lunga persecuzione e si tentò di colpire
chi, per ragione del suo
ufficio, aveva portato alla rivelazione di quello
stato di cose ver
gognoso e pericoloso.
Per parte mia, per quanto riguardava la responsabilità degli
uomini politici, m'ero rimesso pienamente alla Camera, cui
competeva di giudicare sul da farsi, dando il mio consenso alla
inchiesta proposta. Se poi dovetti intervenire direttamente, con
la presentazione dei documenti e degli appunti in mio possesso, a
ciò fui costretto dalle circostanze. In primo luogo perchè non
potevo consentire che dei funzionari incolpevoli fossero fatti
vittime di false accuse, ordite allo scopo di arrivare a colpirmi
personalmente; e perchè era mio debito di coscienza fare conoscere
in proposito la verità. Ciò feci nel modo più riguardoso, dando ad
uno dei funzionari falsamente accusati, il Felzani, una
dichiarazione scritta intesa semplicemente a richiamare
l'attenzione del giudice istruttore sulla necessità di sentirmi
quale testimone. Fu la pubblicazione abusiva di quella lettera,
sottratta alla istruttoria segreta a cui apparteneva, che mettendo
a rumore il Parlamento e la stampa, mi costrinse poi a consegnare
i documenti che erano in mio possesso. Consegnandoli alla Camera,
io intesi di liberarmene definitivamente, tanto che richiesto che
cosa ne avrei fatto qualora, secondo le proposte di alcuni, mi
fossero restituiti, dichiarai che li avrei bruciati. La Camera, a
mezzo della Commissione da essa nominata per la cernita e la
pubblicazione, adottò norme che ne limitarono l'uso, per ragioni
rispettabili, come quella di nulla pubblicare che si riferisse a
persone defunte; ed oggi io, narrando quegli avvenimenti di cui
fui parte principale, mi sono attenuto al riserbo che mi ero già
imposto, limitandomi ad esporre i fatti, di ragione pubblica la
maggior parte, che Imi concernevano personalmente e nei quali ero
stato direttamente implicato.
La guerra d'Abissinia e la sua incerta condotta — Dissensi fra
Crispi e Sonnino — La sconfitta d'Adua e la caduta di Crispi —
La frettolosa liquidazione della guerra fatta dal Rudinì —
Titubanze fra liberalismo e reazione — Gli avvenimenti del 1898
— La fase liberale del governo Pelloux — Il passaggio alla
reazione e i provTedimenti eccezionali — La lotta
dell'ostruzionismo — Il colpo di mano per mutare il regolamento
della Camera — Il trionfo dell' Estrema Sinistra nelle elezioni
e la caduta di Pelloux — I concetti da me proclamati per la
soluzione della crisi nazionale.
Gli ultimi mesi del governo Crispi, fra il dicembre del 1895 e il
marzo del 1896, furono interamente occupati, nelle cose e nella
opinione pubblica, dagli avvenimenti di Abissinia. La loro storia
non ha luogo fra queste memorie, se non per alcune connessioni
indirette; e mi limito a ricordare solo alcuni punti1 per dare
ragione della politica da me seguita nelle condizioni
generali che ne erano poi derivate.
I fatti che ci avevano condotti nel Mar Rosso, sono noti. Alla
vigilia del Congresso di Berlino l'Inghilterra ci aveva chiesto di
metterci d'accordo con essa, offrendoci Tunisi. È noto il rifiuto
di Cairoli, per la cosidetta politica delle «mani nette», rifiuto
che portò l'Inghilterra ad accordarsi per Tunisi con la Francia,
con la conseguenza che al Congresso noi ci trovammo poi isolati e
non avemmo nulla. Una seconda occasione ci si presentò per entrare
nella vita coloniale, quando l'Inghilterra, nel 1882, preparandosi
ad occupare l'Egitto, ci offrì di partecipare all'occupazione. Noi
rifiutammo ancora, ed a questo rifiuto concorse assai Magliani,
pel timore che accettando l'invito noi avremmo irritata la
Francia, mentre egli si illudeva di potere propiziarsi la
benevolenza della finanza francese. E così finimmo di andare a
Massaua, per fiche de consolation, d'accordo con le altre
potenze, nessuna delle quali protestò, eccetto la Turchia che fece
una semplice protesta proforma. Il Mancini, allora ministro degli
Esteri, magnificò la cosa pronunciando la famosa frase, che le
chiavi del Mediterraneo erano nel Mar Rosso, ma noi non ve le
abbiamo mai trovate.
Il Crispi, che aveva cercato di persuadere il governo ad accettare
la proposta inglese per l'Egitto, si lasciò poi attrarre dal
miraggio di conquiste verso l'Abissinia. Ho già ricordate le
velleità che egli dimostrò durante il periodo in cui io
appartenevo al suo Ministero quale ministro del Tesoro; ricordo
pure un altro episodio. Un giorno, in Consiglio dei Ministri,
Crispi disse testualmente: — Corre voce che Re Giovanni sia stato
ucciso in una battaglia coi dervisci; e questa mi pare una buona
occasione per occupare l'Asmara. — Io gli osservai che non ero
contrario a quella occupazione; ma che non mi pareva si dovesse
agire su una semplice voce ma aspettare la conferma. Crispi
acconsentì; la conferma venne e l'Asinara fu occupata. Quella
precipitazione di Crispi, mostrata da questo episodio, era un
segno delle sue inclinazioni, che io ritenevo pericolose.
Quando, nel dicembre del 1893, Crispi assunse di nuovo il governo,
queste sue inclinazioni trovarono nuove ragioni e nuove spinte.
L'opinione pubblica era turbata dagli scandali bancari e le classi
dirigenti impaurite dalle prime agitazioni socialiste; una impresa
coloniale si presentava come un diversivo. Ma le imprese, a cui ci
si accinge in tali condizioni, diventano delle vere e proprie
avventure, e generalmente risultano sfortunate. Credo che di rado
una guerra coloniale sia stata iniziata in meno favorevoli
condizioni e con peggiori auspici. Grandissima parte dell'opinione
pubblica vi era contraria; nella loro grande massa le classi
popolari, e per tutta l'Italia settentrionale anche la maggioranza
delle classi dirigenti non ne volevano sapere. Nello stesso
Ministero i consigli erano divisi; e ne è una prova una lettera
riprodotta poi nei documenti diplomatici, con la quale il Sonnino,
nel principio del '95, consentiva a malincuore all'invio di due
battaglioni, e concludeva che l'invio di altre truppe, allo stato
delle cose, sarebbe stato una vera follia. Altri documenti
dimostrano la resistenza di chi aveva la responsabilità delle
finanze dello Stato, ed avventurarsi in una impresa, il cui costo
superava le nostre potenzialità, e non poteva essere
calcolato.
Perfino nella mente del Crispi queste preoccupazioni dello stato
dell'opinione pubblica e delle condizioni della finanza si
facevano sentire; ed allora egli telegrafava a Baratieri che ogni
ulteriore espansione in Abissinia trovava opposizioni nell'alta
Italia anche fra gli amici del Ministero; che il suo collega del
Tesoro se ne preoccupava per l'incertezza delle spese a cui si
andava incontro, e che non permetteva che il bilancio dell'Eritrea
superasse i nove milioni, concludendo con l'avvertire che non si
voleva che la questione suscitasse imbarazzi nella Camera, la cui
opera per la restaurazione delle finanze non doveva essere
turbata. Ma poi queste esitazioni e preoccupazioni erano vinte in
lui dall'allettamento di notizie di vittorie che mandava il
Baratieri, e con le quali si cercava d'infiammare l'opinione
pubblica.
Così si continuò per parecchi mesi, senza decidere né di fare la
guerra sul serio, dando tutti i mezzi necessari, né di abbandonare
l'impresa. A mostrare con quali criteri si procedeva rimane un
telegramma di Crispi, datato pochi mesi prima del disastro, con
cui egli chiedeva al Baratieri quale sarebbe stata l'economia del
rimpatrio di due battaglioni, e concludeva con l'ammonirlo di fare
la guerra come Napoleone, col danaro dei vinti, e di sciogliere il
problema — cioè il problema fra le necessità della guerra e la
mancanza dei mezzi per condurla — con le risorse della colonia
Eritrea e dei territori occupati. Solo all'ultimo momento, quando
cioè Menelick si avanzava con tutte le forze deli'Abissinia, si
comprese la gravità della situazione ed il pericolo, e si volle
correre ai ripari con tutti i mezzi ed inviando i rinforzi
necessari, come pure sostituendo il Baratieri col Baldissera. Ma
era troppo tardi, e non si seppe nemmeno nascondere l'invio del
Baldissera. Baratieri avutane notizia attaccò, e la sconfitta
d'Adua avvenne lo stesso giorno in cui il Re passava in rivista a
Napoli i rinforzi pronti per l'imbarco.
L'impressione del disastro fu gravissima per tutta Italia, e
provocò una clamorosa sollevazione degli animi, nella quale pur
troppo si mescolavano i risentimenti per la politica di reazione e
di violenza usata dal governo specie contro le classi e i partiti
popolari. Crispi si presentò alla Camera, che era stata appunto
convocata per quei giorni, con le dimissioni. L'annunzio fu
accolto da un tumulto : Rudinì chiese di parlare, ma il Presidente
chiuse frettolosamente la seduta. Della costituzione del nuovo
Ministero fu incaricato il generale Ricotti, il quale mise per
condizione della sua accettazione di prendere accordi col Rudinì,
cui cedette la Presidenza. Ricordo che io fui chiamato da Rudinì,
in casa di Brin, nel palazzo Odescalchi, in cui si riunivano, per
chiedere la mia opinione, e per sapere da me quale contegno
avrebbero assunto i miei amici. Io gli dichiarai che avrei
francamente appoggiato il Ministero, nel quale entrò anche,
prendendo il dicastero della Pubblica Istruzione, il mio amico
Gianturco. Agli Esteri fu chiamato il Caetani, che quantunque
conservatore aveva mantenuto un atteggiamento di forte opposizione
al Crispi, sia per la impresa di Abissinia, sia per la politica
reazionaria.
Il Di Rudinì, assunto il potere, si preoccupò an
zitutto di
risolvere la situazione abissina, che teneva
in fermento tutto il
paese, sia pel pericolo di complicazioni, sia per preoccupazioni
sulla sorte dei soldati ed ufficiali rimasti prigionieri nella
sfortunata
battaglia. Egli iniziò una politica di graduale
ritirata, in corrispondenza ad una tendenza che si era
manifestata
fortissima nel paese, e che arrivava sino
a desiderare e
patrocinare l'abbandono totale e definitivo dell'Africa. Questo a
me pareva eccessivo
e poco conveniente alla stessa dignità
nazionale; e
trovai pure che fu esagerato l'abbandono di Cassala,
che era la parte migliore della colonia, e dove
si erano potuti
iniziare esperimenti promettenti di
cultura del cotone, e che fu
retrocessa quasi per
forza all'Inghilterra. Se per queste
decisioni affrettate
ed eccessive c'è una scusante nello stato
dell'opinione pubblica, si può dire però che il Rudinì ebbe
il
torto di abbandonarsi ad una corrente impetuosa
del momento, la
quale rappresentava anche una rea
zione alla politica interna di
violenza del Ministero
caduto. |
Quel periodo di governo Di Rudinì, fu un vero caleidoscopio, con
continui mutamenti di ministri. Il primo Ministero durò dal 10
marzo all'11 luglio, e fu in gran parte mutato con le dimissioni
di Caetani, sostituito dal Visconti-Venosta; di Colombo sostituito
dal Luzzatti; di Ricotti sostituito da Pelloux; di Perazzi
sostituito da Prinetti, e di Carmine sostituito da Sineo. Queste
sostituzioni non rappresentavano nuovi orientamenti o mutamenti di
rotta; erano puri e semplici cambiamenti di persone per soddisfare
a pretese parlamentari e tenersi in piedi.
Questo secondo Ministero tirò avanti per un anno e mezzo, sino al
dicembre del '97, quando si ebbe il notevole fatto della entrata
nel Ministero di Zanardelli che era intesa a dare al governo un
indirizzo più liberale. Altre notevoli variazioni di persone ci
furono e Pelloux fu sostituito da San Marzano; Gianturco da Gallo;
Prinetti da Pavoncelli; Guicciardini da CoccoOrtu. Questo
Ministero che, sopratutto per l'entrata di Zanardelli,
rappresentava una mossa decisa verso Sinistra, durò sino al 12
giugno del '98. Un terzo Ministero, sempre con lo stesso metodo,
fu messo ancora insieme da Rudinì, ma non durò che ventinove
giorni.
Quella fu proprio l'epoca dei cosidetti rimpasti ministeriali,
metodo al quale io non ho mai creduto e mai ricorso. L'esperienza
infatti insegna che quando si fa un rimpasto, col proposito di
rafforzare un Ministero, si ottiene l'effetto opposto di
indebolirlo sempre più, e di farlo vivacchiare senza nessuna
capacità di azione.
Durante questo periodo, che fu di due anni e tre mesi, di continui
cambiamenti di uomini con ondeggiamenti ora a destra ora a
sinistra, io mi trovai molto d'accordo con Cavallotti per
combattere il Ministero quando
esso prendeva degli atteggiamenti
reazionari. Ricordo che Cavallotti ed io avevamo cercato di
dissuadere in tutti i modi lo Zanardelli dall'entrarvi, essendo
convinti che avrebbe potuto formarne uno egli stesso sulla base
della Sinistra. Anzi ci recammo insieme a casa dello Zanardelli lo
stesso giorno in cui egli accettò le offerte del Di Rudinì; e dopo
una nostra lunga conversazione con lo Zanardelli, uscendo
Cavallotti mi disse: — Credo che siamo riusciti a dissuaderlo — ma
io gli risposi: — Temo invece che siamo arrivati troppo tardi — ed
infatti l'ingresso di Zanardelli nel Ministero fu annunciato
l'indomani.
Per questi nostri contatti ebbi allora campo di conoscere bene il
Cavallotti. Egli era uomo di molto e vivo ingegno; impetuoso di
carattere ma sinceramente interessato al bene del paese. Le mie
relazioni con lui furono varie. Quando ero stato alla Presidenza
del Consiglio, egli mi aveva combattuto; ma più tardi ci trovammo
in pieno accordo nel combattere la reazione di Crispi, come pure
nel combattere il Di Rudinì quando prese un atteggiamento troppo
conservatore, che lo portò poi alla proclamazione degli stati
d'assedio. Non ho mai avuto a lagnarmi di lui, anche quando mi ha
combattuto; anche quando aggrediva violentemente e alle volte
passava i limiti era sempre animato da passione politica e la sua
condotta non era mai obliqua e sleale. Se fosse vissuto sarebbe
certo pervenuto al governo: lo stesso Re Umberto, negli ultimi
tempi prima che morisse gli aveva mandato a dire che
pel caso di una combinazione ministeriale egli non faceva alcuna
esclusione.
Ricordo che il giorno in cui si battè nel duello dove trovò la
morte, io mi trovavo alla Camera, e Giampietro, suo grande amico,
e che molte volte era stato suo padrino, venne a parlarmi
dimostrandosi inquietissimo, perchè conosceva il pericolo al quale
il Cavallotti con la sua impetuosità si esponeva di fronte ad un
avversario di sangue freddo. E mentre eravamo in questi discorsi
giunse alla Camera la notizia della sua morte.
I fatti del '98 furono occasionati nel loro inizio dalla miseria
in cui si trovava il paese, al colmo di una lunga crisi che aveva
colpito l'economia mondiale, e da un improvviso, grave rincaro del
costo del pane, dovuto a cattivi raccolti; al quale rincaro il
governo non aveva provvisto nemmeno con una abolizione temporanea
del dazio sul grano. A mio parere fu allora un errore il credere
che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo,
mentre si trattava di una esplosione di malcontento. Ma perdurava
ancora nelle classi dirigenti uno stato d'animo paurosissimo di
qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il
governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a
provvedimenti eccessivi. Così fu proclamato, o proposto
all'autorità locale la proclamazione dello stato d'assedio in
provincie e luoghi dove non c'era nessun pericolo.
Ricordo che si trovava a Torino Re Umberto, con alcuni ministri e
numerosi senatori e deputati per la celebrazione del cinquantesimo
anniversario dello Statuto, e proprio in quei giorni vi giunse
l'ordine di proclamare lo stato d'assedio, ordine provocato
indubbiamente da informazioni false o per lo meno esagerate. Fra
l'altro era stato riferito a Roma, non so da chi, che gli operai
della fabbrica Leumann, sita nelle vicinanze della città, si erano
messi in marcia su Torino; ora quella fabbrica impiegava quasi
esclusivamente donne le quali, essendo in isciopero, furono
trovate sedute tranquillamente nei prati contigui alla fabbrica.
Era a Torino, insieme al Re, anche lo Zanardelli, ministro di
Grazia e Giustizia; e il generale Resozzi, che comandava quel
corpo d'armata, fece osservare che mancava qualunque motivo per
proclamare lo stato d'assedio; e così l'ordine fu revocato. Un
altro generale che pure rilevò non essere necessario lo stato
d'assedio, fu il Pelloux, che teneva il comando del corpo d'armata
di Bari.
I provvedimenti eccessivi a cui si era lasciato andare il governo
per codesti avvenimenti ebbero il loro contraccolpo sulla
situazione parlamentare e sullo stesso Ministero, da cui uscirono
gli elementi di Sinistra: Zanardelli, Cocco-Ortu, Gallo, Sineo e
Visconti-Venosta. Il Di Rudinì volle tentare un'altra
ricomposizione, e fra gli altri invitò il Pelloux, offrendogli il
portafogli degli Esteri. Il Pelloux venne da me, per avere in
proposito il mio parere, ed io lo dissuasi dall'accettare, sia
perchè a me pareva che, dopo la caduta del Rudinì, sarebbe stato
molto opportuno offrire l'incarico a lui, che fra i generali,
astenendosi dal proclamare lo stato d'assedio a Bari, si era
mostrato il più liberale, sia perchè d'altra parte nella sua
qualità di generale offriva particolari garanzie pel mantenimento
dell'ordine, allora sempre turbato. Egli accettò il mio parere e
rifiutò.
Il Di Rudinì mise assieme un Ministero alla meglio; ma non potendo
più contare su un appoggio a Sinistra ed avendo così perduta la
maggioranza, dopo ventinove giorni dovette ritirarsi
definitivamente.
Dopo la caduta del Di Rudinì, il Re chiamò Visconti-Venosta il
quale, dopo i primi assaggi si persuase di non potere formare un
ministero capace di reggersi, e quindi declinò l'incarico. Fu
chiamato un altro senatore, il Finali, che venne da me
dichiarandomi che riteneva suo dovere di esaminare quali
possibilità vi fossero, pure non facendosi nessuna illusione di
potere riuscire, e infatti due giorni dopo si ritirò. Allora il Re
chiamò Pelloux. Questi volle ancora vedermi, e in una
conversazione che avemmo mi osservò che per comporre un Ministero,
considerata la situazione parlamentare, gli occorreva l'appoggio
tanto di Zanardelli che degli amici di Crispi. Io mi impegnai con
lui di tastare il terreno per quanto riguardava gli elementi di
Sinistra, e mi recai subito dallo Zanardelli, insieme al suo
intimo amico, il deputato Picardi; e lo Zanardelli
convenne con noi che, considerate le condizioni dello spirito
pubblico in quel momento, la migliore soluzione che si presentasse
con probabilità di buon successo, era appunto di dare l'incarico a
Pelloux, che pei suoi precedenti dava serii affidamenti ai partiti
liberali. Mi recai pure da Guido Baccelli, amico di Crispi, che
pure convenne della opportunità di tale soluzione. E così Pelloux
potè formare il suo primo Ministero, interamente su base di
Sinistra, prendendo seco il Fortis, il Lacava, il
Finocchiaro-Aprile, ecc. ed avendo come sottosegretario agli
Interni un mio amico, il deputato MarsengoBastia.
Giunto così al governo, il generale Pelloux abbandonò i disegni di
legge restrittivi della libertà della stampa e del diritto di
associazione presentati dal suo predecessore; accennò al proposito
di governare con le leggi ordinarie rigidamente applicate; e pose
a base del suo programma una riforma tributaria in senso
democratico; tenne insomma, per circa sette mesi, una condotta
politica liberale, cercando anche di attenuare negli effetti le
condanne degli uomini politici, radicali e socialisti, colpiti dai
tribunali militari, quali il Turati, il Romussi ed altri. Ricordo
che per un caso speciale toccato al Romussi, intervenni io
personalmente, ottenendo che fosse revocato un assurdo
provvedimento pel quale, avendo il Romussi scritta nella sua
detenzione una vita di Silvio Pellico, la si voleva considerare
come lavoro carcerario, ed attribuirne la proprietà allo
Stato. Ed il Pelloux in tutto
questo periodo ebbe l'illimitato e
disinteressato appoggio del Partito liberale.
Poi improvvisamente egli mutò rotta; e il 4 febbraio del 1899,
cedendo alle intimazioni della parte più intransigente del partito
conservatore; e forse anche impressionato pel fatto che, non
ostante la repressione del '98, il movimento operaio e socialista
si propagava per tutta l'alta Italia, con grande spavento dei
conservatori, il Pelloux presentò alla Camera le cosidette leggi
eccezionali, che miravano a restringere i diritti statutari di
riunione, di associazione e di libertà di stampa. Di fronte a tale
atto del Ministero, il Partito liberale momentaneamente si divise;
una parte, ritenendolo definitivamente avviato a reazione, lo
abbandonò, rifiutandogli il voto pel passaggio alla seconda
lettura del disegno di legge presentato; altri, fra i quali io
ero, vollero tentare ancora di ricondurre il Ministero al
programma con cui era sorto. A me, e a quelli fra i miei amici che
allora consentirono meco, repugnava di credere che il Pelloux,
andato al governo con programma liberale, volesse volgersi a una
politica reazionaria. Noi consideravamo d'altra parte che il
disegno di legge ministeriale con alcuni emendamenti poteva essere
reso accettabile; in quanto la parte relativa al diritto di
riunione riguardava solamente quelle tenute all'aperto, lo
scioglimento delle associazioni si deferiva all'autorità
giudiziaria, e si avevano affidamenti per la modificazione della
parte più grave, quella che concerneva la libertà di stampa.
Io e Zanardelli esaminammo quindi se fosse il caso di passare
immediatamente all'opposizione o se convenisse attendere la
discussione. E finimmo per trovarci d'accordo che si potesse
accettare il passaggio alla discussione degli articoli; e questo
tanto più che il Pelloux, a mezzo del Lacava, ci aveva date
assicurazioni, promettendoci fra l'altro che la Commissione per
l'esame del progetto sarebbe stata nominata di pieno accordo col
Partito liberale, così che le leggi proposte avrebbero potuto
essere modificate in guisa che non riuscissero ad alcuna
restrizione o menomazione dei diritti statutari, mentre io e
Zanardelli eravamo poi disposti ad accettarne quella parte che
mirava ad assicurare la continuità dei pubblici servizi.
Se non che ogni tentativo di ritrarre il governo dal suo nuovo
indirizzo politico apparve presto vano, e gli affidamenti dati
fallaci. Infatti, appena ottenuto il voto per il passaggio alla
seconda lettura, il Pelloux mostrò apertamente il fermo suo
intendimento di non attenuare in alcun modo il carattere
reazionario dei suoi provvedimenti; fra l'altro, quando si fu a
comporre la Commissione che doveva riferire alla Camera, egli,
mancando alle dichiarazioni che a suo nome aveva fatto Lacava,
propose una serie di nomi scelti appunto fra coloro che si erano
mostrati favorevoli alla restrizione dei diritti statutari, e
specie del diritto di riunione. Nello stesso tempo, ripetendo
l'esempio di Crispi, per quella legge fatale per la quale ad ogni
movimento, reazionario all'interno corrisponde un tentativo di
diversione all'estero, egli iniziò in Cina una nuova impresa che
la maggioranza della Camera disapprovava, perchè non consigliata
da alcun evidente interesse del Paese e rivolta a luogo che
escludeva ogni possibilità di colonizzazione, e perchè intrapresa
senza scopo preciso, senza conoscenza del luogo che si voleva
occupare e senza alcun serio calcolo delle sue difficoltà e delle
spese che avrebbe importate. E quella impresa infatti, non ebbe
altro risultato che lo sperpero di parecchi milioni ed una
umiliazione nazionale; e malamente iniziata fu poi abbandonata in
modo così poco dignitoso, che più tardi io, quando si discusse il
bilancio degli esteri, mi sentii in dovere di raccomandare al
Ministro che per carità di patria non ne pubblicasse i documenti;
raccomandazione che il Ministro accolse.
Venuta in discussione quella sciagurata impresa,
il Pelloux,
prevedendo una sicura sconfitta, si dimise senza attendere il voto
del Parlamento e formò
un nuovo Ministero con la sua base
principale negli
elementi più conservatori della Camera :
Finocchiaro-Aprile fu sostituito da Bonasi, Carcano da
Carmine,
Fortis da Salandra, Vacchelli da Boselli, Nasi da
San
Giuliano; sostituzioni tutte che portavano alla
trasformazione
totale del Ministero da Sinistra a Destra, da liberale a
conservatore. Per inevitabile conseguenza, e per assicurarsi
l'appoggio dei conservatori più intransigenti, il Pelloux dovette
modificare
i suoi progetti di legge in senso anche più
reazionario,
arrivando a sopprimere addirittura, contro lo stesso
voto della Commissione parlamentare, il diritto di riunione
garantito dallo Statuto, ed a togliere ogni garanzia di intervento
dell'autorità giudiziaria nello scioglimento delle associazioni.
Nello stesso tempo, e per logica conseguenza del nuovo indirizzo
politico, il Pelloux abbandonò pure quei propositi di riforma
tributaria a favore delle classi popolari, coi quali aveva da
prima assunto il governo.
Con questo atteggiamento assunto dal governo, la vita parlamentare
fu travolta in una lotta senza limitazioni. L'Estrema Sinistra,
che riteneva i provvedimenti antistatutari del Pelloux contrari
agli interessi politici delle classi che essa rappresentava,
rispose alla sfida ricorrendo ad un'arma che sino allora non era
mai stata usata nel parlamento italiano: l'arma
dell'ostruzionismo. Né io, né Zanardelli, né gli altri
dell'opposizione costituzionale partecipammo alla lotta
dell'ostruzionismo, e lo dimostrammo votando contro tutte le
proposte che a scopo di ostruzionismo venivano avanzate; io anzi
un giorno, in un mio discorso ebbi a dichiarare che noi ci
trovavamo presi fra due violenze: quella del governo che
presentava leggi contro i diritti statutari, e quella degli
estremi che rendevano impossibile il funzionamento del Parlamento,
ciò che non poteva essere approvato dal partito liberale. Non
sarebbe, del resto, stata cosa difficile vincere l'ostruzionismo,
se il Ministero avesse avuta autorità per dirigere i lavori
parlamentari e se fosse stato sorretto da una maggioranza sicura;
ma codeste condizioni mancavano, ed il Ministero
non riuscì
neppure a tenere presente alla Camera la
sua maggioranza, cosicché
parecchie volte, sebbene
l'opposizione costituzionale non avesse
mai abbando
nata l'aula, mancò il numero
legale.
L'aiuto più efficace all'ostruzionismo fu pure dato
dalla
incertezza dello stesso Ministero nei suoi propositi. Infatti esso
abbandonò il primo suo disegno
di legge; ne abbandonò un secondo
dopo averlo trasmesso alla Commissione parlamentare; non
accettò
un progetto elaborato dalla Commissione stessa, e
lasciò
che la Camera discutesse per quindici giorni
senza sapere
precisamente quale fosse il disegno di
legge voluto dal Ministero,
la cui incertezza giunse
al punto che il 15 giugno del 1899 il
Ministro di
Grazia e Giustizia sostenne una disposizione
relativa
al diritto di riunione che poteva essere accettata
dal
Partito liberale, ed all'indomani il Presidente del
Consiglio
ne propose un'altra sostanzialmente di
versa ed equivalente
all'assoluta abolizione di quel
diritto.
Dopo tutti questi errori il Pelloux, trovatosi impotente a
dominare la situazione, non seppe escogitare altro che un atto da
lui stesso dichiarato illegale; e con semplice decreto, contro la
esplicita disposizione dello Statuto fondamentale dello Stato,
senza il voto della Camera, senza il voto del Senato, modificò le
leggi esistenti sulla stampa e sui diritti di riunione e di
associazione; cosa che non era stata mai tentata dal 1848 in poi.
E devo qui ricordare, ad onore del Parlamento, che tale aperta
violazione dello Statuto, ebbe aperti rimproveri, non solo dalla
opposizione costituzionale, ma dai più autorevoli capi della
stessa maggioranza ministeriale. Tale decreto fu poi dichiarato
incostituzionale dalla Corte dei Conti ed annullato dalla Corte di
Cassazione.
Ma ormai il governo di Pelloux doveva giungere sino al fondo della
china pericolosa in cui si era messo incautamente. Per debellare
l'ostruzionismo e renderlo impossibile nell'avvenire, d'accordo
con la Presidenza, pensò di modificare il regolamento della
Camera; ma anche queste modificazioni dovevano essere discusse ed
approvate, e si trovavano quindi e non meno dei provvedimenti
eccezionali, di fronte all'ostacolo dell'ostruzionismo. Per girare
questo ostacolo si ricorse, da parte del governo, con la
connivenza della Presidenza, tenuta allora dal conservatore
Colombo, ad uno stratagemma. Era stato già preparato il progetto
di regolamento, che fu subito pubblicato, ma non iscritto
all'ordine del giorno. Il Colombo, all'inizio di una seduta,
dichiarò improvvisamente — I deputati hanno già visto il nuovo
progetto di regolamento: lo metto ai voti: chi lo approva alzi la
mano. — Naturalmente in tal modo il progetto fu lapprovato, ma
senza che fosse passiate traverso ad alcuna discussione. L'Estrema
Sinistra si sollevò in tumulto; e noi pure dichiarammo di non
potere riconoscere quel regolamento, perchè non approvato nelle
debite forme. Per dare maggiore importanza a questo
rifiuto, Zanardelli fu incaricato da tutte
le Sinistre di fare una solenne dichiarazione di non riconoscerlo;
dopo di che uscimmo in massa dall'aula. Il governo, col mettersi
nell'illegalità, altro non aveva ottenuto che di riunire in un
blocco compatto tutte le opposizioni; e l'ostruzionismo non potè
essere vinto.
Ci fu qualche tentativo di riconciliazione ma senza risultato.
Ricordo che un giorno io avevo incontrato il Colombo nell'auletta
della Camera, che si stava riassettando, ed in una conversazione
che ne era seguita il Colombo aveva assentito ad una mia proposta
conciliativa, riservandosi però di darmi la risposta. E il giorno
dopo mi portò la risposta, negativa, dicendomi: — Sonnino non
vuole. —
L'on. Sonnino aveva in quel tempo tenuta la posizione di capo
della maggioranza, ed in un suo famoso scritto, col titolo
«Torniamo allo Statuto» aveva patrocinata la tesi conservatrice
sino alle sue ultime conseguenze, di tornare cioè alla forma del
governo cosidetto costituzionale, in opposizione al governo
parlamentare, con la responsabilità cioè dei ministri invece che
verso il Parlamento, verso la Corona. Quella tesi, e la lotta
sostenuta da Pelloux per l'approvazione delle leggi
antistatutarie, rappresentarono l'ultimo sforzo dei conservatori
per dominare i destini del Paese; sforzo condannato all'insuccesso
perchè in contrasto con le tendenze sempre più democratiche dei
tempi e in quasi tutti i paesi. Più tardi poi il Sonnino, dopo il
mio secondo Ministero, ebbe a dichiarare francamente che l'Italia
poteva essere governata solo coi metodi miei, ed in tutta la sua
opera ulteriore ritornò e si tenne lealmente alle norme del
governo parlamentare.
Al governo, battuto con l'ostruzionismo, non rimaneva che un
ultimo espediente: l'appello al Paese, che s'imponeva anche per
tranquillare gli animi ad uscire dalla situazione mediante un
verdetto della pubblica opinione. Le elezioni furono indette il 18
maggio 1900 per il 3 ed il 10 giugno, e riuscirono ad un trionfo
dell'Estrema Sinistra, che ritornò alla Camera notevolmente
rafforzata.
In una lettera indirizzata ai miei elettori, io avevo osservato
che, pel modo con cui erano condotte le elezioni, risultava
evidente che il Ministero considerava come nemici suoi coloro che
invocavano la integrità dello Statuto fondamentale dello Stato; ed
aggiungevo che, la violenza non essendo mai durevole, noi potevamo
considerare con piena sicurezza il Ministero Pelloux come
destinato a scomparire di fronte alla nuova rappresentanza del
Paese, lasciando dietro di sé tristi ricordi e rendendo più gravi
e difiìcili nella nuova legislatura i doveri dei sinceri amici
delle istituzioni. Quel mio pronostico, che irritò assai il
Pelloux, fu pienamente adempiuto.
Alla convocazione della Camera vi fu lotta per l'elezione del
Presidente, il Governo portando il Gallo e l'opposizione lo
Zanardelli. Il Gallo riuscì solo per pochi voti; ed a me che gli
presentavo i miei rallegramenti personali, pure non avendogli dato
il voto, e gli chiedevo se ora egli farebbe le parti di forza,
come il Colombo, egli rispose: — Mi pare che sarebbe perfettamente
inutile. — Ed egli stesso consigliò poi il Pelloux a dare le
dimissioni, che furono presentate il 24 giugno.
Con questo il Pelloux chiuse la sua carriera politica, scontando
l'errore di essersi lasciato trascinare ad una politica
ultraconservatrice, dopo aver assunto il governo grazie ai suoi
precedenti liberali e con l'appoggio, da lui stesso chiesto, della
Sinistra. Personalmente egli era un uomo altamente stimabile;
gentiluomo cortese ed onestissimo; uomo d'ingegno pronto e vario,
ma deficiente nella cultura politica. I nostri rapporti erano
sempre stati assai amichevoli; ma poi egli si alienò da me per un
episodio svoltosi più tardi al Senato. Egli sostenne che la
militarizzazione dei ferrovieri, da me applicata, non era legale.
Allora io gli ricordai che egli era generale in attività di
servizio, e come tale avrebbe avuto l'obbligo di pubblicare gli
ordini del governo con la sua stessa firma; sotto la quale i
ferrovieri avrebbero potuto stampare le parole contrarie a quegli
ordini che egli pronunciava come senatore. Egli ne rimase turbato,
e d'allora in poi i nostri rapporti furono rotti.
Con la caduta di Pelloux si chiuse definitivamente un periodo
assai torbido della nostra vita nazionale; periodo che, iniziato
col Ministero Crispi, succeduto al mio primo Ministero, e passando
per i varii Ministeri Di Rudinì e Pelloux, rappresentò nel suo
complesso, non ostante momentanei proponimenti ed affidamenti, un
continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e
reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava
il paese. Gli intendimenti reazionari, con l'uso dei mezzi più
violenti, furono più espliciti e diretti nella politica del
Crispi; mentre col Di Rudinì e il Pelloux le cose andarono
diversamente, perchè il primo, venuto al potere contro appunto il
reazionarismo del Crispi, si lasciò trascinare egli stesso ad una
politica di reazione; e il Pelloux, chiamato, con la fiducia del
partito liberale contro all'ultimo periodo reazionario del Rudinì,
finì per riassumere tutta la politica reazionaria nel tentativo di
mutare le leggi statutarie liberali.
Il Di Rudinì e il Pelloux parvero insomma essere spinti nella
corrente della politica conservatrice e reazionaria piuttosto
contro la loro volontà, dalla forza dei fatti e delle cose; e
sarebbe ingiusto non riconoscere le difficoltà delle condizioni a
cui si trovarono ripetutamente di fronte. Il malessere economico
che gravava sul paese, col conseguente sorgere e diffondersi del
malcontento e delle agitazioni nelle classi popolari e nella
piccola borghesia, che ne erano particolarmente colpite;
l'affacciarsi di nuove dottrine politiche, quale il socialismo,
che facevano presa sulle folle tanto nelle città che nelle
campagne, creavano indubbiamente nuovi e gravi problemi, sia
economici che politici di non facile soluzione, e che
preoccupavano le classi dirigenti ed il Parlamento. La principale
questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche
ed agli uomini di governo, era se questi problemi potevano
risolversi col regime di libertà, o se essi richiedevano e
imponevano un restringimento di freni e l'adozione di
provvedimenti eccezionali.
Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta
soluzione non potesse ottenersi che col mantenimento dei principii
liberali, e che qualunque provvedimento di reazione, per soffocare
il malcontento e per impedire la manifestazione delle nuove
aspirazioni popolari, avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare
le cose e minacciare le stesse istituzioni. Cotale criterio io
cercai di applicare nel mio primo Ministero, e lo mantenni
fermamente nella lotta contro la politica di Crispi, e poi contro
il Di Rudinì e Pelloux quando, venendo meno agli impegni presi ed
agli affidamenti dati al partito liberale, passarono alla
reazione. E tali principii ribadii costantemente in lettere
indirizzate ai miei elettori, per rendere conto del mandato
politico da essi affidatomi, e in discorsi pronunciati dal 1897 al
1899 in varie sedi del mio collegio e specialmente a Busca e
Coraglio.
Non credo fuori di luogo, tralasciando le questioni più
particolari del momento, di riassumere qui brevemente la parte
generale dei concetti politici allora da me proclamati, nel vivo
della lotta fra conservatorismo e liberalismo; tanto più che essi
rappresentano i principii fondamentali della mia condotta
politica, a cui mi sono, e prima e dopo, costantemente attenuto.
Dunque, in quei miei discorsi, dopo avere rilevato come, in
seguito alla persistente politica di reazione, in contrasto con
gli affidamenti dati, il paese non prestasse più fede al governo
ed ai partiti costituzionali, e che solamente con una energica
azione ed un radicale mutamento di indirizzo, si poteva
riacquistare la fiducia delle popolazioni, io domandavo: — Quale
deve essere il nuovo indirizzo?
Ed osservavo che due sistemi politici stavano di fronte: l'uno,
quello del partito reazionario, che consisteva nel rifiutare
qualunque concessione e nell'opporre ai malcontenti la forza,
diminuendo le pubbliche libertà ed accrescendo i mezzi di
repressione; l'altro, quello del partito liberale, che consisteva
nel dare soddisfazione ai giusti desideri della grande maggioranza
del paese, e così togliere o almeno attenuare, per quanto può
dipendere dalle leggi e dai metodi di governo, le cause del
pubblico malcontento.
Notavo quindi che la via della reazione era consigliata da alcuni
uomini politici, i quali si presentavano come continuatori
dell'antico partito moderato, e della politica del Conte di
Cavour. Giammai era stata fatta a quel partito ed a quella
gloriosa politica più grave ingiuria; la storia c'insegnava che i
legittimi rappresentanti dell'antico partito moderato, Lamarmora,
Ricasoli, Farmi, Menabrea, Lanza, Sella, Minghetti avevano saputo,
nei momenti più difficili, come dopo Novara, Villafranca,
Aspromonte, Mentana, rendere la pace al paese senza togliergli la
libertà; e invocare il nome di Cavour per sostenere una politica
reazionaria e violatrice della libertà equivaleva a tentare una
delle più audaci falsificazioni della storia. E facevo notare che
i reazionari di quel tempo non appartenevano alla scuola politica
del Conte di Cavour, ma a quella dei governi che quella politica
aveva abbattuti nel 1859 e nel 1860.
Esaminavo poi quali sarebbero state le conseguenze di una politica
reazionaria.
Evidentemente tale politica sarebbe stata diretta contro la
piccola borghesia e contro le grandi masse popolari, e perciò
avrebbe potuto contare solamente sulla forza delle classi nella
reazione interessate, vale a dire di quelle classi che temevano le
riforme necessarie ad attenuare il pubblico malcontento. Ora, era
mai possibile che reggesse a lungo un governo che avesse contro di
sé la maggioranza dell'opinione pubblica, specie in un paese,
quale era l'Italia, dove il governo non avrebbe avuto neppure
l'aiuto incondizionato del partito clericale?
Una tale politica reazionaria avrebbe dovuto contare
principalmente sulla forza armata; e poteva essere ammissibile che
l'esercito italiano, che esce dalle fila del popolo e ne è la più
schietta rappresentanza, diventasse strumento di oppressione della
libertà del paese? A ciò si doveva aggiungere che una tale
condizione di cose non avrebbe potuto non avere un triste riflesso
sulle condizioni dell'Italia all'estero, perchè un paese che deve
mettere ogni tanto una parte dell'esercito sul piede di guerra per
mantenere l'ordine all'interno, non può avere all'estero seria
influenza. Alla forza della pubblica
opinione non
avevano potuto resistere le monarchie reazionarie che governarono
l'Italia prima del 1860, le quali avevano per sé l'appoggio della
chiesa, la tradizione secolare ed i pregiudizi allora prevalenti
nel popolo. Come avrebbe potuto poi reggersi un governo sorto
dalla rivoluzione, dopo che cinquanta anni di vita libera, di
discussione e di libera stampa avevano fatto penetrare in tutti la
coscienza dei propri diritti?
Il movimento reazionario, secondo i propositi di quelli che lo
caldeggiavano, avrebbe dovuto cominciare da una restrizione del
suffragio elettorale. Tale restrizione, se fatta in misura molto
limitata, mentre sarebbe stata un atto odioso a carico di alcuni
cittadini, non avrebbe prodotto effetto sensibile, perchè il
malcontento più pericoloso non si manifestava tanto nelle ultime
classi sociali, che ne sarebbero state colpite, quanto nelle
classi operaie più colte e nella piccola borghesia. Se poi si
avesse voluto togliere il diritto di voto a numerose classi di
cittadini, si avrebbe avuto l'effetto di gettare codeste classi
sociali fuori delle istituzioni, e di creare una vera situazione
rivoluzionaria. Togliere il voto ai malcontenti, io osservavo,
poteva avere l'effetto di evitare momentaneamente la
manifestazione del male, senza però curarlo, anzi aggravandolo. Si
temeva che i voti delle classi popolari si rivolgessero tutti ai
socialisti, ma in realtà, più che a socialisti noi ci trovavamo di
fronte a malcontenti; la forza del socialismo, assai più che dalle
sue dottrine in gran parte contrarie all'indole ed alle tradizioni
del popolo italiano, che ha saldo il sentimento
della famiglia e della proprietà individuale, derivando in parte
dall'essersi presentato come difensore delle classi più numerose,
che i partiti costituzionali avevano avuto il torto di trascurare,
e più ancora dal generale malcontento diffuso per il paese.
Era mai pensabile che un paese così poco soddisfatto del suo
governo, consentisse ad abdicare nelle mani di esso le proprie
libertà, conquistate con tanti sacrifizi? E poi che cosa si
sarebbe offerto al paese in compenso della libertà perduta? Quando
le ristrette consorterie che spingevano il governo verso la
reazione, avessero raggiunto il principale loro scopo, che era
appunto di non dividere il potere coi rappresentanti delle classi
popolari, per esercitarlo solo nel proprio egoistico interesse,
chi si sarebbe illuso che proprio allora sarebbe sorto in esse
l'affetto per le classi popolari, e che avrebbero cominciato
allora a sacrificare gli interessi propri a quelli generali del
paese? Ed io concludevo che la politica della reazione sarebbe
stata fatale alle nostre istituzioni, appunto perchè le avrebbe
poste a servizio di una esigua minoranza, ed avrebbe rivolto
contro di esse le forze più vive e irresistibili della società
moderna, cioè l'interesse delle classi più numerose e il
sentimento degli uomini più colti.
Esclusa così la convenienza, anzi la possibilità stessa di un
programma reazionario, io osservavo che restava come unica via,
per scongiurare i pericoli della situazione a cui il malessere
generale e i conati reazionari avevano portato il paese, quel
programma liberale che si proponeva di togliere, per quanto
possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale
mutamento di indirizzo, tanto nei metodi di governo, quanto nella
legislazione. Ma un programma di tal fatta, di cui parte non
piccola doveva essere la riforma tributaria a favore delle classi
più numerose e meno favorite dalla fortuna, non avrebbe potuto
essere proclamato ed eseguito che da un governo il quale avesse
solida base nella maggioranza del paese, e non fosse quindi
costretto a cedere ad interessi illegittimi.
Nel campo politico sovratutto vi era un punto essenziale, nel
quale i metodi del governo dovevano essere immediatamente mutati.
Negli anni corsi dal 1895 al 1899, nell'azione reazionaria del
Crispi prima, poi del Rudinì e del Pelloux, si era a poco a poco
giunti a confondere la forza del governo con la violenza,
considerando forte quel governo che al primo stormire di fronda
proclamava lo stato d'assedio, sospendeva la giustizia ordinaria,
istituiva i tribunali militari e calpestava tutte le franchigie
costituzionali. Quella invece non era forza, ma debolezza e della
peggiore specie; debolezza giunta a tal punto da fare perdere la
visione esatta delle cose. Primo dovere del governo è e sarà
sempre di mantenere l'ordine a qualunque costo; ma la vera
dimostrazione di forza si fa quando l'ordine è mantenuto con la
rigida e costante applicazione della legge; quando il governo sa
resistere alle pressioni degli interessi illegittimi, e quando ha
un programma preciso e lo attua con fermezza e costanza, senza
consumare né subire alcuna violenza. E per riuscire a possedere
questa forza fatta sopratutto di autorità, è necessario che il
governo lasci pieno agio a tutte le classi, ed in special modo a
quelle più numerose, di fare conoscere e fare valere le proprie
aspirazioni e di difendere, nell'ambito delle leggi, i propri
legittimi interessi. Accogliendo così nel loro ambito la
rappresentanza dei più larghi interessi nazionali, le istituzioni
potevano acquistare quella solidità che i metodi della reazione e
della violenza, non che assicurare loro, avevano gravemente
compromessa.
Il ritorno alla costituzione — Il ministero di transizione
Saracco — Il ministero Zanardelli — Il completo esperimento
liberale — La mia opera al ministero degli interni — La lotta
fra capitale e lavoro — Le leghe e gli scioperi agrari — La
duplice lotta, contro gli estremisti alla Camera e contro i
reazionari al Senato — Perchè mi dimisi dal ministero
Zanardelli,
La caduta di Pelloux avvenuta, più che in seguito
ad un voto
parlamentare, alla solenne manifestazione
che il paese, a mezzo
delle elezioni, aveva fatta contro
la politica reazionaria, apriva
finalmente, dopo i torbidi esperimenti reazionari, la strada al
ritorno alle
tradizioni liberali. Se non che, dopo un così
lungo
conflitto di interessi e di passioni, appariva opportuno
un
periodo di transizione durante il quale le passioni
sbollissero e
si ritornasse gradatamente allo stato
normale della vita politica;
e la Corona non fu male
consigliata a chiamare per allora al
potere, in luogo
di qualcuno dei capi partito della Camera, che
si
erano trovati involti nella lotta, un Senatore; e la
scelta
cadde sul Senatore Saracco, il quale fu infatti
accettato da tutti
i gruppi del partito liberale nella
persuasione che con lui si
sarebbe rientrati nell'orbita costituzionale.
Come ho già ricordato, l'opposizione liberale costituzionale, dopo
avere assistito con
spirito imparziale alla lotta
dell'ostruzionismo, aveva
dovuto, all'ultimo, sollevarsi contro il
tentativo, compiuto con la connivenza del Presidente della Camera
di modificare il regolamento con violazione delle norme statutarie
e parlamentari che garantiscono le istituzioni parlamentari,
dichiarando illegale, violento e nullo il procedimento che era
stato seguito. Era quindi necessario anzitutto, per potere
riprendere le discussioni alla Camera, ristabilire per questo
verso il rispetto della legge; ed a ciò si provvide con la nomina
di una Commissione, composta di sei membri da una parte e di sei
dall'altra, con l'incarico di formulare di comune accordo un nuovo
regolamento che fosse da tutti accettato; e così fu fatto e la
spinosa questione finalmente e pacificamente risoluta. Era questa
precisamente la transazione che io avevo proposta, prima delle
elezioni generali, al Presidente della Camera Colombo, e che
questi mi aveva detto essere stata dal Pelloux respinta per
consiglio di Sonnino.
Il Saracco aveva preso Visconti-Venosta come ministro degli
Esteri; Gianturco alla Giustizia; Carcano all'Agricoltura; Rubini
al Tesoro; Branca ai Lavori pubblici e Gallo all'Istruzione; in
complesso il nuovo Ministero era liberale, con qualche elemento
temperato di Destra, quale il Chimirri; e durò dal 24 giugno del
1900 al 15 febbraio dell'anno dopo. La sua breve vita fu funestata
da un orribile delitto : l'assassinio di Re Umberto, consumato a
Monza nel luglio del 1900. Io ne ebbi la notizia a Valdieri, dove
mi trovavo ai bagni, e dove era pure in quei giorni l'Alfazio,
prefetto di Milano. Il doloroso evento non ebbe alcuna influenza a
modificare la politica liberale del Ministero, non ispirò nessuna
idea o proposito di reazione; anzi da molti era riconosciuto come
un effetto sur un cervello squilibrato della politica reazionaria
seguita negli anni antecedenti.
Il regicidio colpì, in Re Umberto, un sovrano che aveva avuto vivo
ed alto il sentimento del proprio dovere e che si era dedicato con
spirito equanime, alle cose dello Stato, ed un uomo che era stato
costante, esempio di bontà e di cortesia. Indubbiamente egli, che
quando io l'avevo conosciuto prima come Ministro del Tesoro, poi
come Presidente del Consiglio, si era sempre mostrato di spirito
molto liberale ed ossequiente alla Costituzione, durante il
periodo reazionario risentì l'influenza dei personaggi e dei
partiti conservatori, seguendone i consigli; ma bisogna
riconoscere che l'impressione di spavento e la preoccupazione per
la agitazione delle masse popolari e per la propaganda e il
movimento socialista erano allora comuni in tutte le classi
dirigenti.
Ho ancora vivo il ricordo del mio primo e del mio ultimo incontro
con lui. La prima volta venni a contatto seco alla sua assunzione
al trono, quando la Corte dei Conti si recò a presentargli in
corpo gli omaggi. Io ero allora segretario generale della Corte ed
avevo trentasette anni, ma ne dimostravo molto meno, ed il Re si
rallegrò meco della mia giovinezza, al che io risposi: — Così
spero di potere servire Vostra Maestà per molti anni. — Più tardi,
dopo che ero stato Ministro del Tesoro, mi nominò membro del
consiglio dell'Ordine Mauriziano, dove fra gli altri consiglieri,
tranne il Villa, il più giovane aveva ottant'anni.
L'ultima volta l'avevo visto dopo gli insuccessi della politica
reazionaria, a Savigliano, nell'occasione dell'inaugurazione di un
monumento nel suo paese nativo al generale Arimondi, morto in
Africa; ed egli si era mostrato meco molto cordiale, trattenendomi
a lungo a conversare seco. Rammento che le ultime parole in quella
occasione furono queste: — Si ricordi che le sono amico. —
Il Ministero Saracco poco fece, del resto, in qualunque campo,
causa anche la sua breve durata; e cadde per avere prima sciolto
la Camera del lavoro di Genova, col quale provvedimento si attirò
l'opposizione della parte liberale e della Estrema; poi, per aver
permesso, allarmato di quella opposizione, che fosse ricostituita,
il che gli tirò addosso i conservatori. Nella mia opinione, come
io pensavo che l'esperimento liberale dovesse compiersi sino in
fondo, e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e
toccava, come osservai in un discorso pronunciato durante la
grande discussione che seguì a quell'avvenimento, le più alte
questioni di diritto e di politica interna, sopratutto nel
rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il Governo nei
conflitti fra capitale e lavoro; ed a mio parere la pace sociale
dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti.
Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero
stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati,
persisteva ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti
nelle Provincie, la tendenza a considerare come pericolose tutte
le associazioni di lavoratori; tendenza che era l'effetto di
scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che
da tempo si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili,
e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la
organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso
generale della civiltà.
Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto
che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si
vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché
benevolo da parte del Governo, il cui compito invece avrebbe
dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di
cittadini. Un Governo, che non interveniva mai, e non doveva di
fatto intervenire, quando i salari erano bassissimi; non aveva
alcuna ragione di intervenire, come qualche volta faceva, quando
la misura del salario, per la legge economica della domanda e
dell'offerta, avesse pure raggiunto una cifra che ai proprietari
paresse eccessiva. Questa non era funzione legittima del Governo.
La ragione principale per cui si osteggiavano le Camere del
lavoro, era appunto questa: che l'opera loro tendeva a fare
aumentare i salari. Ma se tenere i salari bassi poteva essere un
interesse degli industriali, nessun interesse poteva avervi lo
Stato. Ciò a prescindere dal fatto che è un errore ed un
pregiudizio credere che il basso salario giovi ai progressi
dell'industria; salari bassi significano cattiva nutrizione, e
l'operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, e
i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale.
Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri
contadini: anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non
produce.
Ad ogni modo però, a mio avviso, quando il Governo, come allora
usava, interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una
ingiustizia, e più ancora un errore economico ed un errore
politico. Una ingiustizia, perchè mancava al suo dovere di
assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta
contro una classe in favore di un'altra. Un errore economico,
perchè turbava il funzionamento della legge economica della
domanda e dell'offerta, la quale è la sola legittima regolatrice
della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce.
Ed infine un errore politico, perchè rendeva nemiche dello Stato
quelle classi che costituiscono la grande maggioranza del paese.
Il solo ufficio equo ed utile dello Stato in queste lotte fra
capitale e lavoro è di esercitare un'azione pacificatrice, e
talora anche conciliatrice; ed in caso di sciopero esso ha il
dovere di intervenire in un solo caso: a tutela cioè della libertà
di lavoro, non meno sacra della libertà di sciopero, quando gli
scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare.
Ora a me pareva che a questi concetti liberali la condotta del
Governo venisse meno osteggiando l'azione delle Camere del lavoro.
Le Camere del lavoro non avevano per se stesse nulla di
illegittimo; esse erano le rappresentanti degli interessi delle
classi operaie, con la legittima funzione di cercare il
miglioramento di quelle classi, sia nella limitazione ragionevole
delle ore di lavoro, sia nell'aumento dei salari, sia
nell'insegnamento che giovasse ad accrescere sempre più il valore
della loro opera; ed io consideravo che se bene adoperate dal
Governo, esse avrebbero potuto essere intermediarie utilissime fra
capitale e lavoro. E come c'erano le Camere di Commercio regolate
per legge, io non vedevo alcuna ragione perchè lo Stato non
potesse, anzi non dovesse disciplinare legislativamente le Camere
del lavoro, mettendo così allo stesso livello, di fronte alla
legge, tanto il capitalista che il lavoratore, ognuna delle due
parti con la sua legittima rappresentanza riconosciuta dallo
Stato. Si era per molto tempo tentato di impedire le
organizzazioni dei lavoratori, temendone l'azione e l'influenza.
Per conto mio io credevo assai meno temibili le forze organizzate
che non quelle inorganiche, perchè sulle prime l'azione del
Governo si può esercitare efficacemente ed utilmente, mentre
contro i moti disorganici non vi può essere che l'uso della forza.
Ma ormai, a chi conosceva le condizioni del nostro paese, come
pure le tendenze generali del mondo civile, era evidente che
ostacolare l'organizzazione dei lavoratori era un compito inane.
L'unico effetto di una resistenza inconsulta da parte dello Stato
sarebbe stato quello di dare sempre più un fine politico a quelle
organizzazioni le quali non dovrebbero avere che un fine economico
nell'interesse delle classi lavoratrici.
Per il caso speciale di Genova, i conservatori portavano appunto
avanti, come uno scandalo, il fatto che esso avesse assunto anche
carattere politico. E questo era una ingenuità, perchè chi
conosceva il movimento operaio, quale si era andato svolgendo in.
quegli anni specialmente nell'Alta Italia, sapeva perfettamente
che gli operai avevano compreso il nesso intimo, indissolubile,
che esiste fra le questioni economiche e le questioni politiche;
ed a farlo loro comprendere, più che la propaganda dei loro
organizzatori, aveva giovato l'azione dei Governi reazionari,
dimostratasi costantemente alleata agli interessi delle classi
capitaliste contro quelli delle classi popolari, sia nelle lotte
fra capitale e lavoro, sia nella legislazione tributaria.
Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica
reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo
storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo.
Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita
politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze
sorgevano con le quali il Governo doveva fare i conti. Il moto
ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era
moto invincibile, perchè comune a tutti i paesi civili e perchè
poggiava sui principi dell'eguaglianza fra gli uomini. Nessuno
poteva ormai illudersi di potere impedire che le classi popolari
conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che
politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di
persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere, ma
coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare
assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo
interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali
ordinamenti politici e sociali. Solo con un tale atteggiamento ed
una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le
classi popolari, si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste
classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a
introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad
aumentare grandezza e prosperità alla nazione.
Il Ministero Saracco aveva avuto il merito di chiudere la fase
della reazione, di uscire dalla strada perigliosa in cui i Governi
precedenti da alcuni anni si erano smarriti. Ma esso pareva ormai
giunto ad un punto morto, ed episodi come quello dello
scioglimento della Camera del lavoro di Genova, mostravano che lo
spirito reazionario non era del tutto vinto, e che non era del
tutto passato il pericolo che su quella strada noi fossimo ancora
respinti; mentre a mio avviso, era ormai giunto il momento di
avviarsi risolutamente sulla strada opposta. E la commozione che
quei fatti produssero alla Camera, come pure lo svolgimento della
susseguente discussione ed il suo esito, confermarono pienamente
la giustezza dei miei giudizi, e mostrarono che i concetti da me
proclamati entravano ormai nella coscienza generale.
Appena il Parlamento si riunì furono infatti presentate numerose
interpellanze; e l'on. Sonnino e i suoi amici, che pure avevano
sostenuto con tanto accanimento la politica dell'on. Pelloux,
presentarono pure una mozione. Secondo il regolamento alla mozione
spettava la preoeidenza. Ma siccome quella mozione, pure essendo
nettamente contro il Governo, non era esplicita nei suoi termini,
e perchè a me premeva, secondo i criteri sovra spiegati, che la
votazione si facesse sul punto preciso di non approvare lo
scioglimento della Camera del lavoro, io feci presentare dal mio
amico, deputato Nicola Fulci, un emendamento alla mozione stessa,
il quale emendamento, sempre per ragione di regolamento, doveva
essere votato avanti la mozione. Il presidente della Camera, on.
Villa, molto legato al Sonnino, insisteva nel volere dare la
precedenza alla mozione, ed allora noi gli facemmo sapere che,
qualora egli fosse così mancato ai doveri della imparzialità
presidenziale, avremmo promosso contro di lui un voto di biasimo.
Egli allora si piegò, e dopo un mio discorso l'emendamento fu
votato, e il Governo ebbe una minoranza di circa duecento voti.
Seguì una curiosa commedia: il Sonnino, comprendendo che dopo quel
voto la opposizione avrebbe votato contro alla sua mozione, e
avrebbero pure votato contro i ministeriali, lasciandolo isolato
con appena una trentina di amici, dichiarò di ritirarla. Ma
l'Estrema Sinistra, d'accordo con l'opposizione costituzionale, e
ad impedire ambigue interpretazioni del voto, si oppose al ritiro;
le mozioni non potendo essere ritirate quando dieci deputati si
oppongano. Tutti i partiti liberali dichiararono allora che
avrebbero votato contro, e lo stesso fecero i ministeriali; e
l'on. Sonnino e i suoi amici, ad evitare un clamoroso insuccesso,
dichiararono che essi pure avrebbero votato contro la mozione da
essi stessi presentata, giustificando la loro condotta con
l'argomento che non ve n'era più bisogno perchè il Ministero era
stato già battuto. Seguì tuttavia la votazione, per appello
nominale, con grandi dimostrazioni di ilarità ogni volta che
votava contro la mozione uno dei suoi firmatari. Codesta manovra
parlamentare, non ostante questa sua conseguenza alquanto comica,
aveva però avuta grande importanza, in quanto aveva pienamente
chiarita la situazione, dando una indicazione precisa ed assoluta.
La chiamata al Governo dei liberali diventava infatti in tal modo
inevitabile; e siccome la persona più in vista dei partiti
liberali era lo Zanardelli, egli fu unanimemente indicato.
Il Saracco, attribuendo a me la sua caduta, ne ebbe sempre
risentimento. Del resto i nostri rapporti erano rimasti freddi fin
dal tempo del mio primo Ministero. Il Saracco tenne allora in
Senato un discorso, durato due ore, in cui attaccò la finanza del
Governo, criticandone ogni provvedimento. Io gli risposi subito,
punto per punto, confutando le sue critiche, tranne su due o tre
punti, nei quali mi dichiarai d'accordo con lui nel ritenere che
si trattava di provvedimenti non utili; soggiungendo però che
dovevo fargli notare che quei provvedimenti erano proprio opera
sua, di quando egli era ai Lavori Pubblici. Di questa mia risposta
egli fu dolente e dopo d'allora i nostri rapporti furono piuttosto
freddi. Egli era del resto un uomo di molto ingegno, ma
essenzialmente critico, e critico abilissimo; ma che, come gli
spiriti essenzialmente critici, poco produceva per conto suo.
Appena ricevuto l'incarico, Zanardelli mi chiamò offrendomi subito
di andare seco col portafogli dell'Interno, e chiedendomi di
aiutarlo nella formazione del Ministero. Ricordo che Zanardelli
abitava in un alloggetto di un suo parente, che non si prestava
bene per le necessarie visite e consultazioni, ed io pregai il suo
amico Picardi di mettere a sua disposizione un suo appartamento,
ciò che egli fece. Le ostilità contro il Ministero in formazione
non erano poche, e Zanardelli dopo tre giorni di lavoro era ormai
scoraggiato, mancandogli ancora i Ministeri degli Esteri, del
Tesoro e dei Lavori Pubblici, ed era in procinto di rinunciare al
mandato. Io gli osservai che, avendo già rinunciato una volta, si
sarebbe politicamente rovinato del tutto se si mostrava incapace
di riuscire una seconda; gli dissi che con nove uomini di buona
volontà doveva presentarsi al Parlamento per provocare un voto che
mettesse in chiaro la situazione. Il Ministero fu alla fine
composto con Prinetti agli Esteri, Giusso ai Lavori Pubblici e Di
Broglio al Tesoro, ed ebbe vita abbastanza lunga, durando dal 15
febbraio 1901 al 29 ottobre del 1903.
Quando ci presentammo, in realtà eravamo in minoranza; la parte
più conservatrice della Camera non ci vedeva di buon occhio e i
sonniniani consideravano che noi avessimo preso il posto loro
dovuto. Un primo accenno di modificazione di tale situazione lo si
ebbe con l'annullamento dell'elezione di un collegio di Napoli
risultata contraria al mio amico Rosano, che fu annullata per
brogli. Il voto per quell'annullamento prese un carattere
politico, tanto che si fece la votazione a scrutinio segreto, che
dette al Ministero una maggioranza di quaranta voti. Fu poi
presentata, secondo antiche convinzioni di Zanardelli, la legge
sul divorzio, che provocò le dimissioni di Giusso, che non
l'approvava, e che fu sostituito da Balenzano; poi il Wollemborg,
ministro delle Finanze, presentò alcuni progetti di legge per
modificazione dell'ordinamento tributario, ed il Consiglio dei
Ministri non avendoli approvati, si dimise egli pure, sostituito
da Carcano. Infine si dimise Picardi per motivi di salute ed il
suo posto fu preso da Guido Baccelli.
La situazione più delicata per questo primo Ministero, interamente
e francamente liberale, dopo un così lungo periodo di politica
reazionaria e di politica indecisa, stava appunto nei metodi della
politica interna. Noi tutti come partito, ed in particolar modo io
personalmente, avevamo combattuta la politica di restrizione delle
libertà, sostenendo la necessità che il paese fosse governato coi
metodi liberali; ed a noi ora, venuti al potere, incombeva di fare
l'applicazione integrale dei principi che avevamo propugnati. Le
difficoltà in cui il Governo, e sopratutto io, come Ministro degli
Interni, ci trovavamo, erano di duplice origine; perchè da una
parte i conservatori, alla Camera in parte, ma più specialmente
nel Senato, mantenevano ostinatamente le loro posizioni e le loro
tesi, e cercavano in ogni muover di fronda la conferma delle loro
apprensioni e dei loro vaticini pessimisti; mentre d'altra parte i
partiti più avanzati non si mostravano soddisfatti delle larghe
concessioni ottenute ed accusavano il Governo di fare dei passi
indietro, o per lo meno di non camminare abbastanza arditamente
sulla via della libertà.
Avendo noi, ad esempio, riconosciuto pienamente ii diritto di
riunione, i socialisti e gli altri estremi ci rimproveravano
quando il Governo interveniva contro riunioni convocate da
scioperanti con lo scopo confessato di impedire con la violenza
che lavorassero gli operai volonterosi di lavorare. Noi insomma
attraversavamo allora un periodo difficilissimo per il sistema
liberale, che si attuava allora in tutta la sua pienezza per la
prima volta; e che da una parte urtava contro alcuni interessi
delle classi più agiate, mentre dall'altra le classi lavoratrici
si erano lasciate andare a speranze molto al di là di ciò che
fosse possibile realizzare; e non riconoscevano i limiti dei
propri diritti e della propria azione, ricorrendo ad
intimidazioni e ad atti assolutamente illegali.
Noi ci trovavamo insomma nella condizione di essere da una parte
accusati di lasciare troppo lento il freno e di interpretare
troppo largamente le pubbliche libertà, dall'altra di essere
considerati come troppo tepidi amici dei principi liberali. Io
dovetti così alla Camera pronunciare discorsi in contradittorio
con gli onorevoli Mazza, Mirabelli, Turati, osservando loro che,
quando si trattava di passare da un sistema restrittivo, quale era
stato usato fino ad allora in Italia, ad un sistema di uso
larghissimo delle pubbliche libertà, era necessario procedere con
grande prudenza, e che ciò che talvolta veniva a noi rimproverato
come tiepida amicizia per i principi liberali, era invece una
amicizia illuminata e sincera, per cui noi ci sobbarcavamo a
prenderci certe odiosità, allo scopo di impedire che l'abuso delle
libertà potesse comprometterle, e credevamo di rendere un grande
servizio al paese con l'abituarlo all'uso pacifico e tranquillo di
queste libertà, impedendo quelle violenze che le avrebbero
compromesse.
Lo spirito della reazione certo non aveva ancora disarmato, e
sarebbe stato fare ingenuamente il suo gioco e preparare per
contraccolpo il ritorno alle misure restrittive, se avessimo
tollerato che la libertà degenerasse in licenza, fornendo ai
reazionari argomenti impressionanti per le loro tesi. Se non si
voleva andare incontro al pericolo di dovere fare dei passi
indietro, era indispensabile tenere il debito conto del grado di
educazione politica a cui erano giunte le varie regioni del nostro
paese; educazione che non si può compiere che con un lunghissimo
esercizio delle pubbliche libertà. Il progresso compiuto in Italia
in questo campo era evidente, ed io potevo augurarmi che esso
continuasse così rapido che l'azione di chiunque dovesse poi
assumersi la carica di Ministro degli Interni potesse restringersi
a qualche circolare per raccomandare l'esecuzione della legge,
senza la necessità di prendere ogni giorno delle grandi
precauzioni, e senza essere spesso obbligato, come capitava a me,
di assumere delle responsabilità che non erano certo piacevoli.
Ma nel frattempo io avevo ragione di ritenere necessaria, a tal
fine, una grandissima prudenza nella stessa condotta del Governo,
per giungere a tale scopo senza scosse, senza violenze, e senza
passi indietro. E tanto più ciò era necessario in quel momento,
dopo che alle questioni puramente politiche che prima occupavano
l'opinione pubblica, si erano sovrapposte le questioni economiche
e sociali, le quali, toccando interessi diretti, vivi, quotidiani,
eccitavano le masse popolari assai più che le questioni politiche,
con l'evidente pericolo che esse trasmodassero nel fare valere
quelli che consideravano i loro diritti. In codeste discussioni i
socialisti più intelligenti finivano spesso per riconoscere la
validità delle mie ragioni; e ricordo che il Turati ammetteva che
il nostro popolo per molti rispetti era ancora bambino, e che egli
e i suoi amici erano i più interessati al mantenimento
dell'ordine, allo scopo appunto di fare salvi i
principi essenziali delle liberta. I repubblicani che.
invece avevano scopi più politici, spesso si mostravano
malcontenti dei miei metodi; ed una volta il deputato repubblicano
Carlo Del Balzo, incominciando un suo discorso, dichiarò che il
suo partito temeva più la politica liberale nostra, che quella di
un Governo che tendesse a reazione. Ed io colsi l'occasione per
rispondergli, sincerità per sincerità, che uno dei fini principali
che io mi proponevo con la mia politica interna liberale, era
appunto di dimostrare che il partito repubblicano non aveva
ragione di essere in Italia.
Al Senato, data la sua composizione e perchè la
grande maggioranza
dei suoi elementi rispecchiavano
necessariamente le idee e i
sentimenti di una generazione anteriore, io dovevo fare la parte
opposta,
e difendere ad ogni momento il Governo dalla critica
dei
conservatori, che l'accusavano di cedere alla
piazza e di non
difendere con la dovuta energia i
diritti stabiliti. La verità era
che certi gruppi di
conservatori confondevano troppo facilmente
tali diritti coi particolari interessi delle loro classi, e
volevano piegare la interpretazione della legge e la
politica del
Governo alla difesa ad oltranza di quegli interessi.
Ricordo particolarmente una lunga di
scussione che io dovetti
sostenervi, coi senatori Arrivabene, Vitelleschi, Cadenazzi,
Guarmeri, Faina ed
altri, che per la loro posizione sociale e la
loro educazione mentale rappresentavano nettamente lo spirito dei
grandi proprietari delle campagne contro il
movimento delle leghe
dei contadini. L'applicazione
di una politica liberale ed
imparziale, nei conflitti fra gli interessi delle varie classi,
venendo dopo un lungo periodo di compressione, aveva
inevitabilmente dato un grande impulso alle agitazioni popolari;
era lo sfogo naturale di istinti, passioni ed interessi che per un
lungo tempo non avevano potuto avere voce. Queste agitazioni
qualche volta passavano i limiti imposti dalla legge e dal diritto
degli altri; mentre i propagandisti socialisti cercavano di
sfruttare politicamente le rivendicazioni economiche. Si erano
avuti, in pochi mesi, in quaranta provincie oltre centocinquanta
scioperi agrari in cui erano stati involti oltre duecentomila
contadini; e in quella ampiezza e diffusione del movimento i
conservatori volevano vedere sopratutto un disegno ed una
organizzazione di carattere politico. Contro queste supposizioni
stavano parecchi fatti; e in primissimo luogo la massima parte di
questi scioperi, non solo non avevano dato luogo al menomo
disordine, ma si erano composti con degli aumenti di pochi
centesimi di salario e la diminuzione di qualche mezz'ora
nell'orario di lavoro.
Le statistiche poi, con le cifre che io raccolsi e portai nella
discussione, dimostravano che i salari dei lavoratori agricoli,
specie degli obbligati e dei braccianti, nelle regioni dove gli
scioperi erano scoppiati e le leghe di resistenza organizzate,
erano di gran lunga inferiori a quelli di altre regioni dove
nessuna agitazione si era manifestata; e che in molti casi, non
ostante il notevole rincaro della vita, essi presentavano
diminuzioni in confronto ai salari oltre vent'anni prima
constatati dalla inchiesta Jacini, e già deplorati in quella
inchiesta come assolutamente insufficienti agli elementari bisogni
della vita. E si era anche potuto constatare che, negli stessi
luoghi dove l'agitazione era più grave, e particolarmente nella
provincia di Mantova, nella quale le leghe avevano organizzati
oltra ventimila contadini;. dove il contadino si trovava in
diretto rapporto col proprietario le cose si erano potute
aggiustare più facilmente, perchè il proprietario si mostrava
generalmente assai più arrendevole; mentre le difficoltà e i
conflitti si erario inaspriti dove il contadino si trovava a
servizio dell'affittuario, il quale, nella sua qualità di
speculatore temporaneo, non dubitava di cercare di fare un maggior
guadagno abbassando di qualche soldo la mercede.
Anche un conservatore di vera intelligenza e cultura economica,
quale era il senatore Boccardo, riconosceva che il ribassare il
salario oltre misura non costituiva nemmeno una buona speculazione
per chi adopera il lavoro del contadino, perchè se questi non ha
ciò che è necessario alla propria esistenza, non può dare nemmeno
un lavoro utile; ma gli affittuari speculatori del Mantovano e di
altre Provincie a salari agrari bassissimi, non erano degli
economisti che sapessero e volessero tener conto di
queste verità generali e superiori.
E non erano né economisti né saggi uomini politici quei
conservatori del Senato che insistevano perchè il Governo
risolvesse in loro favore ad ogni modo e con qualunque mezzo quei
conflitti economici, e che presentavano particolarmente due
domande; cioè che le leghe dei contadini venissero sciolte e in
caso di bisogno si usasse l'esercito per fare i raccolti, quando i
lavoratori persistessero nello sciopero.
Per la prima io ricordai nei miei discorsi al Senato, che
l'esperimento della forza aveva già dati pessimi risultati; e che
lo Stato la sua forza doveva dimostrarla essenzialmente tenendosi
entro i limiti della legge, senza offendere le libertà garantite
dallo Statuto egualmente a tutti i cittadini. L'organizzazione
delle leghe di resistenza era legittima; nulla contro la legge
potevasi accusare nei loro programmi e nella loro lotta pacifica
pei miglioramenti economici; le loro domande erano pure entro i
limiti della equità, perchè le misure di salario richieste erano
così discrete, che con tali salari in molte parti d'Italia non si
sarebbero trovati lavoratori; e se in tali condizioni il Governo
fosse intervenuto contro le leghe, ciò avrebbe avuto per solo
effetto di condurre le masse dei lavoratori a considerare il
Governo come loro nemico, in quanto avrebbe violata la legge a
beneficio di una parte contro l'altra, ed arrecando a questa danni
economici gravi. Il Governo non aveva che due doveri, quello di
mantenere l'ordine pubblico ad ogni costo, e di garantire nel modo
più assoluto la libertà del lavoro; e a questi doveri esso aveva
pienamente adempiuto.
E in quanto alla domanda, che mi faceva il
senatore Faina, se il Governo
sarebbe intervenuto con l'esercito per sostituire gli
scioperanti, se questi si rifiutassero di compiere i raccolti, io
dichiarai nettamente che non ero disposto a seguire quella via per
tre ordini di ragioni: perchè la credevo non legale; perchè la
consideravo non politica, ed infine perchè non si trattava di un
servizio pubblico, nessuno potendo sostenere che mietere del grano
per conto di privati fosse un pubblico servizio. C'è sempre,
veramente, un interesse generale a che i raccolti non siano
perduti, al modo che è d'interesse generale che gli affari si
svolgano proficuamente, che le industrie procedano regolarmente e
che i commerci risultino vantaggiosi, tutto questo contribuendo a
formare la ricchezza nazionale. Ma si tratta però sempre di un
interesse privato, tanto che se un proprietario dichiarasse di non
volere mietere il suo grano o vendemmiare la sua uva, nessuno
potrebbe costringerlo. Impolitico, perchè adottando il sistema di
sostituire il lavoratore libero con l'esercito, il Governo
prenderebbe ingiustamente parte nella lotta fra capitale e lavoro,
parteggiando pel capitalista, e la moltitudine dei lavoratori ne
riceverebbe l'impressione che l'esercito, che rappresenta l'intera
nazione, fosse un loro nemico. Impossibile infine nell'attuazione,
perchè se era stato agevole trovare nell'esercito tanti mietitori
che potessero compiere quei lavori quando si era trattato dei
raccolti di due o tre comuni, sarebbe invece impossibile che
l'esercito fornisse tutte le braccia necessarie quando i conflitti
agrari si erano estesi per molte provincie.
Inoltre dare ai proprietari l'illusione che all'ultimo momento
essi potrebbero avere a loro disposizione l'esercito, avrebbe
avuto l'effetto di farli ancora più restii a concessioni eque e
ragionevoli, con l'ultima conseguenza di rendere più difficile la
soluzione dei conflitti.
Codesti argomenti, la cui validità cominciava ormai ad essere
generalmente riconosciuta nel mondo politico, trovavano ancora
molti spiriti chiusi fra gli elementi conservatori che formavano
molta parte del Senato. Tale resistenza a riconoscere le nuove
necessità dei tempi, si dimostrò nell'atteggiamento preso da
questi conservatori per la votazione del bilancio degli Interni.
Quando la votazione avvenne io mi trovavo alla Camera, dove fui
avvicinato dal mio collega Di Broglio, che ritornava dal Senato e
che mi disse: — Devo darti una non buona notizia; il tuo bilancio
è passato al Senato con soli tre voti di maggioranza. — Io gli
risposi: — Ce ne sono due più del bisogno, — e questo non era un
semplice motto di spirito, perchè in realtà le difficoltà che io
avevo a fare accettare la mia politica al Senato, servivano a
mostriare a quegli elementi della Camera che andavano all'eccesso
opposto, l'esistenza di limiti che non potevano essere impunemente
sorpassati.
A parte la linea di politica liberale adottata e lealmente
mantenuta, senza restrizioni e concessioni ai
reazionari e senza dedizioni e
debolezze verso gli estremisti, il Ministero Zanardelli non
potè far molto nel campo della legislazione e in quello
dell'amministrazione, forse anche per ragione della ormai
declinante salute del suo Capo. Alcune riforme furono però
condotte in porto; furono così approvate la legge per lo sgravio
del dazio sulle farine; quella su gli infortuni sul lavoro e
l'altra sul lavoro delle donne e dei fanciulli; fu istituito
l'Ufficio del lavoro e presentata una legge per i probiviri
nell'agricoltura; si provvide alla cura dei poveri colpiti di
malaria o di pellagra, e si rese giustizia ad alcune eque domande
dei ferrovieri.
Ma le grosse questioni rimanevano sospese: quella dell'esercizio
delle ferrovie, perchè le Convenzioni ferroviarie scadevano il 30
giugno del 1905, ed era necessaria una lunga preparazione sia che
si volesse rinnovare le Convenzioni, sia che si preferisse
addivenire all'esercizio di Stato; e quella dei trattati di
commercio, che scadevano al 31 dicembre del 1903. Vedendo che in
tali materie nulla si faceva non ostante le mie sollecitazioni io
colsi un'occasione che si presentò nelle discussioni della Camera
per dare le dimissioni, il 21 giugno del 1903.
Vi era stata alla Camera un appassionato dibattito per una
inchiesta su la marina militare, a cui il Ministero si opponeva.
La votazione diede una scarsissima maggioranza ed ottenuta anche
col concorso di deputati di opposizione della Destra, che erano
pure contrari all'inchiesta, ma che dichiararono di dare il loro
voto senza significato di fiducia. Io ritenni che dopo tale
votazione il Ministero non avesse più l'autorità necessaria per
affrontare i gravi problemi d'ordine amministrativo che si
dovevano risolvere, e allo Zanardelli dichiarai il mio avviso
della convenienza, in tali condizioni, che il Governo si
dimettesse. Il mio consiglio non essendo stato seguito, io detti
le dimissioni per conto mio. L'occasione era costituzionalmente
corretta. Tornato al mio banco di deputato, non volendo fare nulla
contrario ai miei antichi colleghi, votai sempre in favore del
Governo.
Più tardi doveva venire in Italia lo Czar, per una visita al Re;
ma i socialisti sollevarono una agitazione, proponendosi di fargli
delle accoglienze ostili. Da Pietroburgo furono mandati in Italia
degli agenti speciali, i quali riferirono che la sicurezza dello
Czar non era abbastanza garantita, e la visita fu rimandata.
Intanto le condizioni di salute dello Zanardelli si erano fatte
sempre più gravi, ed egli nell'ottobre si dimise, ritirandosi
nella sua villa sul lago di Garda, dove morì pochi mesi dopo.
La formazione del Ministero: uomini nuovi — Una campagna di
calunnie e la tragica fine di Rosano — L'invito a Turati e il
rifiuta dei socialisti — Inizio di riforme sociali,
economiche e finanziarie
—La rinnovazione dei Trattati di commercio — Perchè si addivenne
all'esercizio ferroviario di Stato — Lo sciopero dei ferrovieri
e la loro militarizzazione — Vasta opera di legislazione e
riforme — Epidemia di scioperi; sua ragione ed effetti economici
— Lo sciopero generale, come fu affrontato e suo fallimento — Le
elezioni e il loro risultato conservatore — L'istituto
internazionale d'agricoltura
—La visita a Roma di Loubet — Mia visita a Bülow ad Homburg —
Una malattia mi obbliga alle dimissioni.
Dopo le dimissioni dello Zanardelli, e in seguito alle ordinarie
consultazioni, io fui chiamato dal Re, che mi offerse l'incarico
della formazione del nuovo Ministero, dicendomi che le indicazioni
da parte degli uomini parlamentari erano state presso a che
unanimi sul mio nome.
Non ostante questa quasi unanimità di designazione, io incontrai
non poche difficoltà a compiere l'opera che mi era stata affidata.
Anzitutto io dovetti pormi questo problema: — Avevo fatto parte,.
sino a tre mesi addietro, del gabinetto Zanardelli nel quale avevo
degli amici carissimi; ma v'erano pure dei ministri che non mi
parevano assolutamente adatti alla giusta trattazione dei problemi
grossi ed urgenti che il nuovo governo era chiamato a risolvere;
primissimi fra i quali quelli dell'esercizio ferroviario e della
rinnovazione dei trattati di commercio. Non parendomi conveniente
scegliere fra coloro che sino a poco tempo prima erano stati miei
colleghi, decisi di non prendere alcuno degli uomini che avevano
appartenuto al Ministero precedente. Questa decisione, dettatami
dallo scrupolo di evitare qualunque apparenza di giudizio su
antichi miei colleghi, suscitò invece non pochi malumori,
moltiplicandomi intorno difficoltà, ostilità e guai; i quali pur
troppo culminarono in uno degli episodi più tristi che ricordi la
vita politica italiana.
Avevo chiamato alle Finanze un mio antico amico, il deputato
Rosano, che era già stato sottosegretario agli Interni nel mio
primo Ministero; e che avevo avuto ragione di apprezzare
grandemente, per la sua vivissima intelligenza e la sua grande
onestà e delicatezza morale. Appena egli fu nominato, cominciò una
campagna di attacchi furibondi da parte di alcuni giornali, specie
socialisti e radicali, diretti contro di lui personalmente; ma con
l'evidente scopo di combattere il nuovo Ministero alla sua stessa
formazione. A pretesto di questi attacchi fu preso il seguente
fatto : un certo Bergamaschi, suddito russo che viveva in Italia,
era stato denunciato, al tempo delle persecuzioni di Crispi contro
il movimento socialista, come rivoluzionario e proposto pel
domicilio coatto. Costui si era rivolto al Rosano, come avvocato,
per essere difeso; ed il Rosano aveva compilata a sua difesa una
lunga memoria legale, estesa su carta bollata, e recante la sua
firma; memoria che si trovava ancora negli archivi del Ministero
degli Interni.
I motivi addotti dal Rosano in favore del suo patrocinato, avevano
persuaso il governo, ed il provvedimento minacciato contro il
Bergamaschi non era stato eseguito. L'ufficio legale del Rosano
aveva, in seguito a questo risultato dell'opera prestata da lui
come avvocato, inviata al Bergamaschi una parcella di lire
quattromila; e da questo fatto assolutamente legittimo si era
preso pretesto alla campagna, accusando il Rosano di essersi fatto
pagare, non come avvocato ma come deputato. Il Rosano, che era di
una estrema sensibilità, si accorò talmente di questa indegna
accusa, reiterata in modo violento da parte della stampa, che in
un momento di sconforto si uccise. Prima di uccidersi mi indirizzò
la seguente lettera:
«Caro Giolitti. — Ho avuto, devi convenirne, un coraggio superiore
sinora, ma ora non resisto più. Cedo, e sono innocente: ho
ignorato la lettera, non conosco il telegramma; è falso il fatto
della grazia.
«Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine
come di affetto per te!
«Bacio la mano alla tua Signora, sempre per me tanto buona; mi
ricordo ai tuoi tutti, e ti stringo per l'ultima volta
al cuore con affetto fraterno.
«Dai tu per me un saluto ai colleghi tutti di otto
giorni. — Tuo Pietro
Rosano».
Questa dolorosa lettera trovata sul tavolo nella stanza della sua
casa a Napoli, dove il Rosano si era ucciso, mi fu mandata dal
Golosimo dopo che mi era già arrivata la notizia della sua morte.
Il triste avvenimento fece una penosissima impressione non solo su
coloro che avevano conosciuto il Rosano e ne avevano apprezzato
sempre l'ingegno e la rettitudine, ma anche sul pubblico generale,
provocando una universale indignazione sul malcostume di metodi di
lotta politica che furono giustamente qualificati da molta parte
della stampa come equivalenti all'assassinio.
Al Ministero degli Esteri io avevo preso il Tittoni, allora
prefetto a Napoli. Anche codesta nomina dette luogo a grandi
attacchi, perchè pareva strano che si affidasse il Ministero degli
Esteri a chi fino al momento di assumerlo non aveva avuto pratica
di cose diplomatiche. Ma il fatto era che la carriera diplomatica
non presentava allora alcuno che, oltre le particolari esperienze
della diplomazia, possedesse le qualità necessarie per adempiere
le funzioni di ministro e sostenere le discussioni richieste dal
regime parlamentare, alle quali il Tittoni si era allenato nella
sua carriera di deputato. Anche contro il Tittoni
furono sferrati attacchi furibondi, in base ad
accuse delle quali egli, appena il Ministero si presentò alla
Camera, seppe difendersi validamente.
Che poi non fosse un concetto errato chiamare alle responsabilità
della politica estera uomini nuovi alla diplomazia, ma che
avessero giù dato prova di intelligenza e capacità nel campo
politico generale, lo dimostrò il Tittoni stesso, che nelle sue
funzioni diplomatiche, sia come ministro sia come ambasciatore,
riuscì certamente uno dei più stimati, ed anche l'esperienza
susseguente ha dimostrato che, a parte qualche eccezione, riesce
meglio ad un uomo parlamentare di valore di diventare un buon
diplomatico, che ad un buon diplomatico di acquistare le qualità
necessarie nel Parlamento.
Al Tesoro avevo chiamato il Luzzatti, in considerazione sia della
sua grande competenza in materia finanziaria, sia della sua
preparazione veramente eccezionale in tutto ciò che concerneva i
trattati di commercio. E siccome poi la questione delle questioni,
che il governo era chiamato a risolvere, era quella dell'esercizio
delle ferrovie, in quanto le Convenzioni con le società private
scadevano il 30 giugno del 1905, e c'era appena il tempo
necessario per la necessaria preparazione, sia che si addivenisse
all'esercizio di Stato, come poi accadde, sia che si concordassero
Convenzioni nuove; io mi occupai di cercare una persona che avesse
nella materia speciale competenza. E così chiamai ai Lavori
Pubblici il deputato Francesco Tedesco, che in quel Ministero
aveva compiuta la sua carriera, e che fra l'altro era stato anche
segretario della Commissione d'inchiesta sulle condizioni del
personale ferroviario, della quale era Presidente il deputato
Gagliardo.
Al Ministero della Istruzione chiamai l'onorevole Orlando, che
pure non era stato mai ministro. Anzi l'intero Ministero, con
l'eccezione mia e dell'onorevole Luzzatti, riuscì composto di
uomini che diventavano allora ministri per la prima volta; —
ricordo oltre i nominati, Ronchetti alla Giustizia; Angelo
Majorana, che dopo un breve interim del Luzzatti, in seguito al
suicidio del povero Rosano, prese la Finanze; Pedotti alla Guerra;
Rava all'Agricoltura; Stelluti-Scala alle Poste, e l'ammiraglio
Mirabello alla Marina.
Del resto io ho sempre cercato di mettere alla prova del governo
uomini nuovi; l'avevo già fatto nel mio primo Ministero e lo feci
in tutti i miei Ministeri susseguenti; ubbidendo in ciò al
criterio di allargare il più possibile il personale politico atto
alla pratica degli affari e sperimentato nella realtà delle cose.
Gli uomini che si danno alla carriera politica entrano nel
parlamento con un certo bagaglio di idee e di dottrine derivate
dai loro studi, e con l'abitudine e la capacità alla discussione
critica e polemica; quello che generalmente manca loro, a parte le
attitudini naturali, è la pratica del trattamento delle questioni
concrete, con la conseguenza di scarsa consapevolezza dei limiti
entro i quali quelle idee e quelle dottrine possono avere una
ragionevole e benefica applicazione. Agli uomini politici che
passano dalla critica all'azione, assumendo le
responsabilità del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le
loro idee; ma in verità ciò che accade, non è che essi le mutino,
ma le limitino adattandole alla realtà e alle possibilità
dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere
necessariamente. Questa educazione degli uomini parlamentari alla
pratica del governo, ha inoltre un benefico effetto sulle stesse
discussioni parlamentari; ed io ho potuto sempre constatare che
una assemblea politica, più contiene uomini pratici e più ha
attitudine a trattare sul serio, con criteri positivi, gli affari
del paese, evitando le vuote divagazioni dottrinarie.
Questo stesso concetto, di richiamare gli uomini ed i partiti alla
realtà ed all'operosità pratica, mi determinò anche ad invitare
l'onorevole Turati ad entrare nel mio Ministero. Io pensavo, che
siccome il mio intendimento ed il programma del Governo era di
continuare, senza riserve e senza deviamenti, in quella politica
di libertà a cui il Partito socialista aveva sempre data la sua
approvazione, fosse logico che questo Partito partecipasse al
Ministero che io stavo formando. Quindi, a mezzo del Prefetto di
Milano, senatore Alfazio, invitai l'onorevole Turati a venire a
Roma a conferire meco. L'onorevole Turati mi rispose che una sua
venuta a Roma in tempo di crisi ministeriale avrebbe provocato una
quantità di chiacchiere, e che credeva più conveniente che io
parlassi col Bissolati, che si trovava a Roma, e che era in tutto
d'accordo con lui. Il Bissolati venne infatti da me, ed avemmo
insieme una lunga conversazione nella quale io gli spiegai le mie
idee e
gli dissi le ragioni per le quali, a mio avviso, il
Partito
socialista avrebbe ben fatto a collaborare
in un Ministero il
quale, oltre mantenere l'indirizzo
liberale già dato alla condotta
del governo, avrebbe
fatta anche nel campo economico una politica
di
aiuto alle classi popolari.
Alle mie ragioni il Bissolati, pure mostrando di apprezzarle per
sé stesse,
obbiettò che una partecipazione dei socialisti al
potere gli pareva prematura, sopratutto perchè essa
non sarebbe
stata compresa dalle masse, ancora imperfettamente educate alla
vita politica; e questa
sua obbiezione egli mantenne contro le mie
insistenze,
così che io dovetti rinunciare all'idea di fare
entrare
i socialisti nell'orbita delle istituzioni e
dell'azione
positiva di governo.
Io non credo che l'impressione ed il giudizio del Turati e del
Bissolati sulla immaturità delle masse popolari alla
partecipazione al governo, corrispondesse alla reale condizione
delle cose, perchè la mia esperienza è che nelle masse il buon
senso domina più che generalmente non si creda. Era però vero che
anche in quel momento, come poi, una grossa parte degli agitatori,
propagandisti ed organizzatori socialisti, molti dei quali di
origine borghese e di cultura dottrinaria, insistevano
particolarmente sui giornali e nei comizi, sulle formule
rivoluzionarie e sui dogmi estremi del socialismo, ostacolando in
ogni modo l'azione di coloro che sentivano l'opportunità di
rivolgere le forze del partito e delle masse che ad esso facevano
capo, a criteri più moderati e positivi.
E ne ebbi una prova anche in quella occasione, in quanto gli
agitatori più scalmanati, non solo del partito socialista, ma
anche fra i repubblicani e i radicali, si proponevano di iniziare
un periodo di violenza all'aprirsi della Camera. Di questa cosa io
mi preoccupai, sopratutto perchè una tale condotta da parte di
elementi di Estrema Sinistra avrebbe avuto il solo effetto di
giovare ai reazionari, confermando le loro accuse sui pericoli
della politica liberale. Io feci quindi avvicinare alcuni degli
uomini più autorevoli di quei partiti, quali il Turati, il Marcora
e il Romussi, per fare loro presente questo pericolo, invitandoli
a procurare che ai propositi di violenza si sostituisse un'azione
seria di pensiero e di programma, fosse pure con netta opposizione
al mio Ministero; ed ebbi da loro a questo riguardo le più ampie
assicurazioni. Vero è che lo spirito di violenza che era diffuso
in questi partiti, o per meglio dire, in una parte dei loro capi,
si manifestò più tardi, conducendo all'esperimento dello sciopero
generale, che fallì del tutto, e provocò anzi una reazione
generale che dette pienamente ragione ai miei ammonimenti.
Presentandomi al Parlamento io riaffermai il proposito di
continuare quella politica della più ampia
libertà,
nei limiti della legge, la
cui applicazione
in un periodo di tre anni aveva dati
i migliori frutti, conducendo ad una larga pacificazione sociale
ed apportando nello stesso tempo notevoli benefici ai lavoratori
dei campi e delle officine. Ma la libertà, se è indispensabile al
progresso di un popolo civile, non è fine a sé stessa; ed io
insistevo particolarmente, ora che il consenso della grande
maggioranza degli italiani al regime liberale era assicurato, su
la necessità di iniziare un periodo di riforme sociali, economiche
e finanziarie; poiché le classi meno agiate della nazione
attendevano il miglioramento della loro vita da un aumento nella
prosperità economica del paese.
Ho già osservato come i due problemi che in quel momento
incombevano con maggior urgenza sulla vita del paese, fossero
quello delle ferrovie e quello dei trattati di commercio; a questi
si dovevano aggiungere l'alleviamento dell'onere del debito
pubblico e la cura pel miglioramento delle condizioni economiche
delle provincie meridionali, che più ancora che una necessità
politica, dopo tante promesse fatte da successivi governi e
scarsamente mantenute, doveva considerarsi come un vero dovere
nazionale. La riduzione dell'onere del debito pubblico non doveva,
nel mio pensiero e nel mio programma, considerarsi come una
semplice questione di bilancio. Il vantaggio di circa sessanta
milioni che ne sarebbe derivato al bilancio dello Stato avrebbe
dovuto darci il modo di affrontare una seria riforma tributaria,
già dichiarata necessaria da ogni governo, allo scopo di sollevare
le condizioni delle classi meno agiate,
sia sgravando
Il Ministero del 1903 certe tasse sui consumi, sia
introducendo nel sistema tributario un ragionevole criterio di
progressività a favore dei piccoli proprietari.
Questi concetti ottennero una larga approvazione nel Parlamento e
nel Paese; e non ostante l'opposizione formalistica dei socialisti
e degli altri elementi di Estrema Sinistra che pure pretendevano
di rappresentare quelle masse nel cui interesse erano proposti,
poterono subito essere parzialmente tradotti in leggi, con la
cordiale collaborazione dei partiti liberali, che veramente
seppero rappresentare in quel periodo gli interessi generali e
superiori del paese.
Nell'opera più specialmente concreta di governo, la prima
questione che dovemmo affrontare fu quella dei trattati di
commercio i quali, come ho già detto, scadevano fra due mesi, al
31 dicembre 1903. Non trovammo in proposito la menoma
preparazione; ricordo anzi che quando ne parlai la prima volta con
l'ambasciatore d'Austria, questi mi dichiarò che già dal mese di
maggio egli aveva presentato al Ministero degli Esteri, da parte
del suo governo, un progetto di trattato; e che solo alla fine di
settembre ne aveva avuto notifica di ricevuta, senza alcuna
comunicazione in merito. E con tutti gli altri paesi si era nelle
medesime condizioni. Di fronte ad un tale stato di cose non ci fu
altro da fare che concludere con grandissima fretta degli accordi
provvisori, per preparare poi per l'anno dopo la negoziazione e la
conclusione dei trattati permanenti. Il lavoro per i negoziati
definitivi fu poi preparato; ed i negoziati stessi condotti in
modo veramente ammirevole dal Ministro del Tesoro, onorevole
Luzzatti, che in tale opera potè fare valere tutta la sua dottrina
e la sua esperienza.
Noi ci eravamo proposti, secondo criteri che erano stati
largamente discussi ed approvati dal Parlamento, di favorire in
questo nuovo assetto commerciale, gli interessi più larghi
dell'agricoltura, pure preoccupandoci di mantenere all'industria
italiana, ancora giovane, quella ragionevole protezione che
valesse ad assicurarne la consolidazione e l'incremento: e questi
nostri propositi, grazie all'abilità dei nostri negoziatori furono
pienamente adempiuti, procurando al paese un complesso di benefizi
superiori anche a quanto il governo stesso potesse sperare di
ottenere nelle condizioni in cui allora si trovavano quasi tutti i
paesi civili, dominati da irresistibili correnti protezioniste. In
meno di un anno noi riuscimmo a stipulare i trattati definitivi
con la Germania, l'Austria-Ungheria, la Svizzera e il Brasile, e
ad avviare alla conclusione quelli con la Russia e gli altri paesi
per noi commercialmente più importanti.
Per il problema dell'esercizio ferroviario, io, pure non
pronunciandomi ancora definitivamente in favore dell'esercizio di
Stato, mi resi conto sino dal principio che quale potesse essere
la decisione definitiva, incombeva al governo il dovere assoluto
di studiare in tutte le sue parti il sistema dell'esercizio
statale, di tracciarne tutte le linee e prepararne i quadri come
se ad esso si dovesse in ogni modo addivenire; essendo evidente
che senza una tale minuta e precisa preparazione lo Stato, non
avendo questa alternativa dell'esercizio diretto, si sarebbe
trovato in condizione di assoluta inferiorità nel trattare con le
Società e ne avrebbe dovuto subire le condizioni. E mi preoccupai
anche di trovare l'uomo adatto ad assumere la responsabilità
dell'esercizio statale; anzi ebbi ripetutamente a dichiarare in
Consiglio dei ministri che non mi sarei mai assunta la
responsabilità dell'esercizio di Stato, se quest'uomo non si fosse
trovato.
Fra i candidati presi in considerazione, l'uomo che mi parve
subito il meglio indicato, sia per capacità tecnica, sia pel suo
giudizio equilibrato e sicuro, fu il Comm. Riccardo Bianchi, che
teneva allora la Direzione delle ferrovie sicule. E l'opera del
Bianchi corrispose in tutto alla mia aspettazione; e sotto la sua
sapiente direzione le ferrovie italiane, consegnate dalle Società
allo Stato in condizioni di deteriorazione gravissima, furono, in
volgere di tempo relativamente breve, condotte ad una efficienza
tale da non temere il paragone con quelle meglio organizzate degli
altri paesi. Devo anche ricordare ad onore del Bianchi, che noi,
per ottenere la sua opera, eravamo disposti a fargli condizioni
specialissime; ma egli, interrogato in proposito dal Ministro
Tedesco, dichiarò di non richiedere emolumenti superiori a quelli
che ricavava dal posto che allora occupava, posto che certamente
implicava minore lavoro e minore responsabilità che non la
direzione delle Ferrovie dello Stato.
Contro l'attuazione dell'esercizio ferroviario di Stato sono state
levate molte ed aspre critiche, specie in questi ultimi tempi,
forse per le condizioni in cui questo servizio, sia nell'aspetto
tecnico e finanziario, che in quello morale del personale, è
caduto dopo la guerra. Ma non è giusto fare risalire al principio
ed all'attuazione, per lungo tempo esperimentata ottima,
dell'esercizio di Stato, le conseguenze finanziarie e morali che
sono derivate dalla guerra non solo in questo, ma presso che in
ogni altro campo della vita sociale e nazionale. E bisogna pur
ricordare che l'esercizio di Stato delle ferrovie durante la
guerra funzionò in modo ammirevole. Né si può dare un equo
giudizio di una deliberazione, prescindendo dalle condizioni
speciali in cui essa fu presa. Il ponderoso problema
dell'esercizio delle strade ferrate fu allora studiato dal
governo, con la collaborazione di una Commissione parlamentare
ottimamente scelta, senza alcun preconcetto, e tenendo conto di
tutti i complessi elementi, materiali e morali, di cui era
composto. E di due punti particolarmente dovemmo tener conto:
delle condizioni tecniche in cui le ferrovie si trovavano, e delle
condizioni morali del personale.
Pel rispetto tecnico le ferrovie erano ormai state ridotte a
condizioni deplorevoli; le Società esercenti avevano seguita
quella pratica che nelle campagne toscane si chiama del
«lasciapodere», sfruttando le reti e il materiale ferroviario sino
agli estremi, e lesinando sino all'inverosimile nelle
manutenzioni. Tale condotta aveva anche essa le sue ragioni,
nell'incertezza in cui le Società si trovavano riguardo al
rinnovamento o meno delle Convenzioni ferroviarie ed alle
condizioni in cui avrebbe potuto avere luogo; ma pertanto
l'effetto di tale politica di aspettazione era questo, che nei
calcoli più modesti non sarebbe occorso meno di un miliardo per
rimettere le ferrovie in assetto tale da corrispondere al
crescente sviluppo della vita economica del paese. Questa enorme
somma avrebbe dovuto essere spesa dallo Stato; e nessuno può non
rendersi conto delle complicazioni e difficoltà che sarebbero
risultate dalla coincidenza di questa grossa spesa patrimoniale,
spettante allo Stato, con l'esercizio privato delle ferrovie.
Né meno gravi si presentavano le difficoltà e complicazioni che
risultavano dallo stato d'animo del personale, ormai
irreparabilmente straniato dalle Società; straniamento del quale
la maggiore responsabilità risaliva alle Società stesse, che non
avevano trattato con equità i loro dipendenti, come il governo
stesso ed il Parlamento avevano già potuto constatare. Conviene
fra l'altro ricordare che le Società, non ostante le replicate
istanze del personale, si erano sempre rifiutate di stabilire
delle norme generali e precise per le nomine e le promozioni; e la
questione aveva dato luogo a conflitti così minacciosi che già i
governi precedenti avevano dovuto nominare una Commissione
d'inchiesta sulle condizioni fatte dalle Società al loro
personale. Questa Commissione presieduta, come ho detto, da un
uomo di grande equità e moderazione, quale era il deputato
Gagliardo, e di cui era segretario l'on. Tedesco, dovette
constatare che in realtà il trattamento fatto al personale delle
ferrovie non rispondeva alle elementari norme di equità, e propose
una serie di provvedimenti che correggessero le ingiustizie più
palesi e stridenti.
Ma nulla fu realmente fatto, e i conflitti fra personale e società
continuarono inasprendosi sempre più; tanto che io stesso, quando
ero Ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli, proposi di
chiamare a Roma i rappresentanti del personale, che aveva allora
costituito il Fascio ferroviario, per sentire le loro ragioni. Una
Commissione di ferrovieri venne e fu ricevuta da me insieme con lo
Zanardelli; e dopo un lungo colloquio ne ricevemmo entrambi la
chiara impressione che molte delle loro lagnanze fossero
pienamente giustificate e che per considerazioni di equità qualche
provvedimento fosse richiesto. Ma le Società resistevano a
qualunque concessione, adducendo sempre che il loro contratto
stava per scadere, e che esse non potevano assumere impegni se non
quando sapessero se le Convenzioni sarebbero state rinnovate, ed a
quali condizioni. I conflitti in seguito a questa resistenza si
moltiplicarono; ed infine i ferrovieri, lasciandosi trascinare
dagli estremisti, a cui la resistenza delle Società faceva buon
gioco, minacciarono lo sciopero generale.
Pure non disconoscendo che i ferrovieri avevano giuste ragioni di
lagnanze, il Governo non poteva permettere che le conseguenze di
un conflitto di una particolare categoria si ripercuotessero in un
danno generale del paese, quale sarebbe derivato dallo sciopero
dei grandi mezzi di trosporto. Io allora escogitai, per evitarlo,
un mezzo che si dimostrò efficacissimo. Considerando che una
fortissima percentuale del personale ferroviario aveva ancora
l'obbligo militare, io proposi precisamente la militarizzazione
dei ferrovieri, la quale assoggettando alla disciplina militare
tutti coloro che erano iscritti ai quadri dell'esercito, rendeva
lo sciopero impraticabile, ed assicurava il servizio. Di questa
mia idea io non parlai che col Presidente del Consiglio, essendo
evidente che perchè la cosa potesse riuscire senza provocare
disordini, bisogna procedere con la massima segretezza, in modo
che il provvedimento giungesse affatto improvviso e inaspettato.
Messomi d'accordo con lo Zanardelli, scrissi io stesso i dispacci
con cui l'ordine della militarizzazione era comunicato ai
Prefetti, facendoli poi cifrare da persona di mia assoluta
fiducia, premendomi di ottenere che in tutta Italia, e
simultaneamente fosse fatta l'intimazione personale della
militarizzazione a tutti i ferrovieri, applicando loro le
stellette, simbolo della appartenenza all'esercito.
La cosa riuscì benissimo, tanto che il mio capo di gabinetto e lo
stesso Sottosegretario al mio Ministero non ne seppero nulla sino
a quando non lessero, affìsso alle cantonate, l'ordine della
militarizzazione. Prova questa che un segreto è bene mantenuto
quando ad averne conoscenza non sono che in due; poiché altrimenti
non è più possibile stabilire la responsabilità della
divulgazione. Non ostante la novità del provvedimento non si
ebbero resistenze e conflitti, tutto procedendo nel modo più
tranquillo ed ordinato; ma un provvedimento simile aveva un
carattere eccezionale, tale da non doversene abusare. Così, pure
essendo sempre mantenuto in riserva, esso non fu più applicato;
nemmeno quando, appunto nel 1904, i ferrovieri scioperarono, non
trattandosi però di uno sciopero proprio, ma della loro adesione
ad uno sciopero generale, al quale io credetti conveniente, per
ragioni che dirò più avanti, di lasciare libero sfogo.
Di queste condizioni del momento, tecniche e morali, bisognava
tenere conto per la soluzione del problema ferroviario; ed esse
tutte concorrevano a rendere assai diffìcile e forse impossibile
la rinnovazione di Convenzioni per l'esercizio privato. Conviene
poi aggiungere che quel problema veniva a coincidere con un
momento decisivo della vita economica nazionale, la quale, a
sicuri segni, si avviava verso un grande incremento. Ora di questo
incremento i grandi mezzi di comunicazione erano uno degli
strumenti ad un tempo più necessari ed efficaci; ed il Governo
sarebbe incorso in una vera responsabilità storica trascurando di
considerare il problema ferroviario sotto questo aspetto e in
connessione con l'intera economia nazionale. E la nostra
principale preoccupazione, adottando il principio dell'esercizio
di Stato, fu appunto di dare alle ferrovie un assetto che
corrispondesse alle nuove ed aumentate esigenze dell'economia del
paese.
L'anno di lavoro parlamentare e legislativo, che
intercorse fra la formazione del mio Ministero e lo scioglimento
della Camera, fu assai operoso e fecondo. Il programma con cui il
mio governo si era presentato, era stato da molti criticato come
troppo vasto e contenente troppi impegni e promesse; ma si potè
poi constatare che, in meno di un anno, tutti gli impegni e le
promesse che dipendevano dall'azione del Governo, furono adempiuti
e mantenute, e che anzi per certe parti l'opera legislativa ebbe
uno sviluppo ancora più ampio che in quel programma non fosse
indicato. In circa sei mesi di lavoro parlamentare, oltre alla
regolare approvazione di tutti i bilanci, e di un gran numero di
leggi di secondaria importanza, si approvarono le leggi che
provvedevano alla trasformazione economica della Basilicata, al
risorgimento industriale di Napoli, alla trasformazione dei
prestiti del Mezzogiorno continentale ed a rendere possibile la
pronta costruzione dell'acquedotto delle Puglie; si approvò la
radicale modificazione della legge sulle Opere Pie, intesa ad
assicurare una efficace tutela di quel vero patrimonio dei poveri
e la sua destinazione ad usi più conformi alle mutate esigenze dei
tempi; si rinnovò la legislazione sulla Sanità pubblica,
intensificando la cura della malaria e della pellagra ed
affermando per la prima volta il dovere dei proprietari di
provvedere di sane abitazioni i lavoratori della terra; si
provvide alla Scuola primaria ed ai maestri elementari con
larghezza ignota a tutte le leggi precedenti, facendovi concorrere
lo Stato con otto milioni all'anno; si estese a favore delle
Società cooperative, operaie ed agricole il diritto di concorrere
agli appalti dei lavori pubblici; si tolse al potere esecutivo,
riservandolo al potere legislativo, il diritto di modificare i
ruoli organici delle pubbliche amministrazioni, si migliorarono
grandemente, con la spesa di molti milioni, gli organici delle
amministrazioni Postali e Telegrafiche, e di quelle delle Finanze
e del Tesoro, dei Lavori Pubblici, della Magistratura, del
Ministero degli Affari Esteri, degli ufficiali inferiori
dell'esercito, delle biblioteche e della amministrazione
carceraria.
Si provvide inoltre a migliorare le condizioni della cassa per la
invalidità e vecchiaia degli operai; si istituì quella per gli
impiegati dei Comuni; si stabilirono le pensioni per gli operai
della manifattura dei tabacchi, e si provvide pure ai veterani
della guerra dell'indipendenza. Si fissò per un quadriennio un
razionale piano di lavori pubblici, s'introdusse nella nostra
legislazione penale il principio salutare della condanna
condizionale, e si iniziò una radicale riforma del sistema
carcerario con l'ammettere i condannati al lavoro all'aperto e con
la trasformazione dei riformatori pei minorenni da luoghi di pena
ad istituti di educazione ed istruzione; oltre a molte cose
minori, come il riordinamento della finanza di Roma; i
provvedimenti a favore dell'industria enologica ed agrumaria,
reprimendo nello stesso tempo e in relazione ai trattati di
commercio, la frode nella produzione e nel commercio dei vini; il
disciplinamento della navigazione di cabotaggio, il
perfezionamento dei sistemi di pesca marittima, con salutare
miglioramento delle condizioni dei pescatori; la concessione di
notevoli agevolezze alle industrie che usano il sale e lo spirito,
e così via.
Questa seria e feconda operosità legislativa, veniva però
continuamente turbata da agitazioni nel paese, e da retoriche
declamazioni nel Parlamento, provocate dagli estremisti, che
comprendevano non solo i socialisti, ma anche elementi radicali.
Ma per bene comprendere tale situazione e le sue ripercussioni e
conseguenze politiche, è necessario fare anzitutto una
distinzione.
La comune e primaria forma di queste agitazioni, erano gli
scioperi, i quali, a parte che per se stessi non uscivano affatto
dall'ambito della legge, avevano anche, nell'aspetto economico,
ragionevoli giustificazioni. Il periodo della politica
reazionaria, prolungatosi circa sette o otto anni, con la
compressione che esercitava sulle masse operaie ostacolandole
nell'esercizio dei diritti di riunione e di associazione, aveva
avuto fra l'altro la conseguenza assai grave di turbare il libero
gioco delle forze economiche, nella domanda ed offerta di lavoro e
di salari. Questo turbamento si era prodotto necessariamente a
danno delle classi popolari; ed era quindi naturale e legittimo
che queste classi, ricuperando nel regime di libertà il pieno
esercizio di quei loro diritti, ne profittassero per ristabilire
un più equo equilibrio nei salari. L'arma, per se stessa legittima
assolutamente, a cui queste classi
ricorrevano per migliorare le proprie
condizioni, era quella dello sciopero.
Ma siccome, sia nel campo industriale sia in quello agricolo, vi
era una infinita varietà nelle condizioni dei salari, da industria
ad industria, e da regione a regione; si produceva, per così dire
una specie di rotazione degli scioperi; gli operai mettendosi in
sciopero da provincia a provincia, da comune a comune, da
industria ad industria e infine da azienda ad azienda, per
ottenere i vantaggi e le concessioni già ottenute dai loro
compagni in altre aziende, industrie e provincie, in forza della
legge economica per cui il tenore di vita e la misura dei salari
tende a perequarsi. Gli scioperi erano dunque continui; ricordo un
momento in cui ce n'erano oltre ottocento ad un tempo. E fin qui
nulla vi era di male e di anormale; per quanto queste agitazioni e
queste lotte economiche potessero deplorarsi per il danno generale
che arrecavano alla produzione, esse rappresentavano una
condizione inerente allo stesso sistema economico, ed avrebbero
finito per sedarsi, o almeno diminuire assai d'intensità e di
frequenza, quando un nuovo assestamento nel regime generale dei
salari fosse stato raggiunto.
Sfortunatamente su questo fenomeno economico, legittimo e
naturale, si era innestato, per opera di una minoranza esigua ma
facinorosa, un fenomeno di agitazioni politiche, artificiale e per
nulla giustificato. Gli estremisti del partito socialista, insieme
ad altri elementi anarchici e rivoluzionari, lavoravano
costantemente a spingere gli scioperanti alla violenza, provocando
così continuamente l'intervento della forza pubblica, in
corrispondenza ai criteri ripetutamente affermati dal Governo; il
quale si sentiva egualmente impegnato a riconoscere la libertà di
sciopero e la libertà di lavoro, contro la quale specialmente le
minaccie e le violenze erano dirette.
Assolutamente fermo nel concetto che fosse dovere del Governo di
assicurare, nelle lotte pei salari, il libero gioco delle forze
economiche, il quale solo può determinarne la misura giusta e
compatibile con le condizioni generali dell'economia del paese; io
non potevo né usare della forza pubblica in favore dei padroni
contro gli scioperanti, né permettere che questi ostacolassero e
impedissero, con le minaccie e le violenze, la libertà del lavoro,
perchè l'uno o l'altro abuso avrebbero avuto l'eguale effetto di
creare condizioni artificiali, che riuscendo insostenibili
avrebbero portato inevitabilmente a nuovi conflitti. Per cui,
mentre non ascoltavo i reazionari, i quali, spaventati dalla
moltiplicazione degli scioperi avrebbero preteso di ritornare al
regime di provvedimenti eccezionali, dall'altra parte usavo delle
forze dello Stato per proteggere quei lavoratori che non volevano
partecipare agli scioperi, e assicurare i proprietari nei loro
diritti contro le violenze degli scioperanti.
Contro codesto intervento regolatore dello Stato insorgevano gli
estremisti, i quali avrebbero preteso che la forza pubblica fosse
affatto assente nei conflitti fra capitale e lavoro; il che
equivaleva a richiedere che fosse lasciato libero corso alla
violenza da parte degli scioperanti, quando questi avessero
creduto opportuno di usarla; e colla quale, come avviene sempre in
tali casi, si sarebbe mescolata quella dei delinquenti comuni.
L'assurdità di queste pretese, che confondevano il regime di
libertà, a cui il Governo si manteneva fedele senza titubanze e
senza riserve, con la pura e semplice anarchia, era evidente a
tutti; ma ciò non toglieva che, ogni qual volta l'intervento
necessario della forza pubblica, o per meglio dire la violenza
degli scioperanti eccitati dagli estremisti, portava a qualche
doloroso episodio, sia pure secondario, i deputati socialisti,
disconoscendo tutta l'opera compiuta dal Governo per la libertà ed
a favore delle classi popolari, recassero in Parlamento continue
proteste, sostenendo le pretese degli estremisti contro l'uso
della forza pubblica per la protezione dei diritti di ogni parte.
Cosa ancora più curiosa, alle proteste dei socialisti si
accodavano anche parecchi deputati radicali, di un partito cioè
che poco tempo dopo doveva pure assumersi tutte le responsabilità
di governo. Vero è che non erano sinceri in questo loro
atteggiamento, né gli uni né gli altri. I deputati socialisti, che
per il loro formalismo d'opposizione votavano in Parlamento anche
contro le leggi presentate a favore delle classi popolari, si
lasciavano così rimorchiare dagli agitatori rivoluzionari per
timore che questi prendessero il loro posto nell'animo delle
folle; mentre poi quei radicali, qualcuno dei quali era mio amico
personale e fu poi dopo ministro, nell'assumere tali atteggiamenti
ubbidivano sopratutto a preoccupazioni elettorali e rispecchiavano
le condizioni di alcune provincie nelle quali il radicalismo aveva
ormai fatto il suo tempo, così che essi vedevano le loro posizioni
minate dalla concorrenza dei socialisti, e cercavano di
ammansarli.
Questi conflitti economici per se stessi inevitabili e non
illegittimi né pericolosi, per ragione dello sfruttamento politico
che cercavano di farne i partiti estremi, mantenevano il paese, e
sopratutto le masse popolari, in un perenne stato di
irrequietezza. Il governo da una parte non poteva cedere alle
intimazioni degli agitatori e dei rivoluzionari e venir meno in
qualunque modo al suo dovere di difesa dell'ordine pubblico e dei
diritti di ogni categoria di cittadini; dall'altra gli agitatori,
non riuscendo nei loro intenti di intimidazione e temendo di
perdere il proprio prestigio sulle masse, erano spinti ad
esagerare le loro minacele. Le masse, che pure dal regime di
libertà avevano tratto, tanto nelle officine che nei campi,
larghissimi benefici materiali e morali, non erano però ancora
educate a tale regime tanto da rendersi pienamente conto dei
limiti che il diritto di ognuno trova nel diritto degli altri, ed
a resistere con reale consapevolezza dei loro migliori interessi
alle nuove tirannie che sorgevano dal basso; né alla libertà erano
sufficientemente educate le stesse classi agiate, le quali non
avevano ancora abbastanza compreso che in un regime di libertà non
si può e non si deve attendere ogni cosa dal Governo, ma occorre
pure una vigorosa azione di resistenza da parte di tutti i
cittadini per la tutela dei legittimi loro interessi.
In tali condizioni di incertezza morale, era evidente che prima o
dopo si doveva venire ad un qualche episodio risolutivo; e che,
pure senza augurarsene l'avvento, si poteva e doveva attenderlo
con calma e fermezza nella fiducia che avrebbe servito di
ammaestramento all'una e all'altra parte. Per cui io non mi
preoccupai affatto quando gli estremisti si decisero a cogliere un
pretesto per provocare quello sciopero generale, la cui minaccia
incombeva, con una paurosità per me non giustificata, da parecchi
mesi sulla vita del paese. Il pretesto fu trovato in un piccolo
conflitto scoppiato fra scioperanti minatori e la forza pubblica
in Sardegna.
Gli scioperanti avendo aggredito la forza che proteggeva i pozzi
delle miniere, questa dovette fare uso delle armi, e ci fu un
morto. Come protesta per questo secondario incidente fu proclamato
lo sciopero generale. E lo sciopero quella volta fu veramente
generale, avendovi aderito anche i ferrovieri; tanto che essendo
in quei giorni nato a Racconigi il Principe ereditario, e dovendo
io andarvi per l'atto di nascita quale notaio della Corona, fui
costretto a viaggiare su un treno speciale, composto di una
macchina e di un vagone, e a fare un lungo giro per evitare i
punti in cui i ferrovieri, come ad Alessandria ed in altri centri
più spiccatamente socialisti e sovversivi, avevano interrotto il
passaggio. Con tutto questo era fermissima in me la persuasione
che quel movimento fosse di carattere effìmero, e mancasse di
base; e in questo senso telegrafai ai prefetti, osservando
che trattandosi di una agitazione che non aveva alcuna ragione né
in una grande questione economica né in una grande questione
nazionale, non poteva avere che una brevissima durata, e che
quindi lo considerassero con calma e senza soverchie
preoccupazioni. Tale mio convincimento reiterai nei dispacci con
cui informavo il Re giorno per giorno dello svolgersi degli
avvenimenti.
Si ebbero qua e la episodi di violenza, ma di carattere
secondario, specialmente a Genova, dove io passai la direzione
della sicurezza pubblica nelle mani del generale Del Magno,
comandante della piazza, mandandovi anche tre navi da guerra; ed a
Napoli, dove inviai pure due navi da guerra e due reggimenti di
cavalleria. Il Consiglio dei Ministri deliberò pure la chiamata di
due classi e la militarizzazione dei ferrovieri, pel caso che la
situazione si aggravasse, ed io preparai i due decreti relativi,
tenendoli però in riserva.
La mia linea di condotta fu, insomma, che lo Stato fosse preparato
a qualunque evento, senza però ostentare prematuramente la sua
forza,, che doveva essere usata solamente quando apparisse
veramente necessario, il che non avvenne. Le mie previsioni
ottimiste infatti si avverarono totalmente, perchè lo sciopero non
potè durare che pochissimi giorni. Esso si esaurì per stanchezza,
e i primi a stancarsene furono gli scioperanti stessi, i quali,
rendendosi a poco a poco conto della mancanza di vere ragioni che
giustificassero e i loro sacrifizi e il turbamento recato alla
vita generale del paese, cominciarono un po' da per tutto a
ritornare al lavoro.
Le classi borghesi, che da principio si erano assai spaventate,
come avviene pur troppo frequentemente per qualunque minaccia,
quando ebbero visto finalmente in faccia questo spauracchio dello
sciopero generale, di cui si era parlato con tanto allarme prima
di conoscerne i reali effetti, ed ebbero constatato che non
produceva i guai temuti, si rinfrancarono. Gli stessi elementi
rivoluzionari finirono per comprendere che questo strumento, che
poteva parere così terribile sino a quando si limitavano a
parlarne ed a minacciarne l'uso, alla prova dei fatti si era
rivelato presso a che innocuo, e tale da mettere forse in maggiori
imbarazzi chi lo usava che quelli contro i quali era diretto.
L'impressione del fallimento fu generale; anche quelli che erano
stati più spauriti ed avevano domandato mezzi straordinari per
fare fronte alla minaccia, si persuasero dopo, ad esperimento
compiuto, che l'averla affrontata con tanta tranquillità era stata
una delle principali ragioni del suo fallimento.
La sincera e logica pratica della politica di libertà acquistava
così un nuovo merito con la distruzione dello spauracchio e del
mito dello sciopero generale, la cui minaccia aveva per così lungo
tempo conturbato lo spirito del paese.
I deputati socialisti, e gli altri della Estrema Sinistra che si
erano uniti a loro per provocare e proclamare lo sciopero, quando
si accorsero che cessava di per se stesso, si affrettarono a
proclamarne la fine. Poi indissero e
tennero una riunione nella quale
deliberarono di chiedere la immediata convocazione del Parlamento.
Siccome la Camera era già prossima a compiere i suoi cinque anni
di vita, ed avrebbe dovuto essere sciolta in tempo non lontano, io
risposi che, invece di convocare i deputati ritenevo più opportuno
convocare gli elettori, per dare loro modo di esprimere il loro
giudizio sulla politica del Governo, ed anche perchè giudicassero
quei partiti e quegli uomini che avevano provocata quella inutile
e dannosa interruzione nella vita normale del paese. Così io
proposi alla Corona lo scioglimento della Camera e la Camera fu
sciolta.
Ad evitare qualunque falsa impressione, nella relazione per lo
scioglimento della Camera io riaffermai chiaramente la volontà
liberale del Governo, dichiarando che il Ministero non avrebbe
mutata una linea al programma seguito dal febbraio 1901 in poi,
cioè della più ampia libertà per tutti nei limiti della legge. La
fede nella politica liberale non poteva, nel mio pensiero, essere
scossa dalle violenze di una esigua minoranza che tutto il paese
aveva disapprovate. Quelle violenze anzi avevano dimostrato che la
libertà era sopra tutto temuta dagli elementi rivoluzionari, i
quali in un regime libero perdono ogni ragione di essere, e perciò
ogni prestigio. Ricorrendo infatti allo sciopero generale, che fra
l'altro impediva alla voce della opinione pubblica di farsi
sentire, costoro avevano dimostrato coi fatti che per acquistare
l'ambito predominio, erano costretti a sopprimere ogni libertà,
compresa quella della stampa, per la impotenza in cui erano di
sostenere col ragionamento le loro assurde pretese. Il Governo
manteneva quindi intatto il suo programma di libertà, che trovava
vivaci oppositori appunto nei due partiti estremi, di destra e di
sinistra; avendo illimitata fiducia nel senno del popolo italiano
a cui la storia ha insegnato essere suoi nemici egualmente
pericolosi la demagogia e la reazione.
Le elezioni si svolsero poi infatti sopra tutto come un giudizio
sulle responsabilità dei partiti e degli uomini che avevano
provocato il perturbamento dello sciopero generale; e per logica
retribuzione quel giudizio colpì più particolarmente quegli uomini
e partiti radicali, che solo per calcoli e preoccupazioni
elettorali, che poi apparvero sbagliate, si erano lasciati
rimorchiare dietro i socialisti ed i rivoluzionari. E nello stesso
modo che la politica reazionaria del Pelloux, nelle elezioni del
1901, si era risolta contro i partiti e gli uomini della reazione;
così le esagerazioni rivoluzionarie ed egualmente perturbatrici
della vita normale del paese, dei socialisti e degli altri
estremisti, si rivolsero contro di loro. La Camera eletta coi
comizi del novembre 1904, apparve subito assai più conservatrice
della Camera sciolta. Né questo era per me ragione di rammarico e
di preoccupazione, perchè se io ho sempre egualmente avversato il
rivoluzionarismo e la reazione, ho sempre apprezzato tanto le
forze del progresso che del conservatorismo quando agiscono
entrambe in modo legittimo entro i limiti della legge. Nel caso
attuale poi, l'affermazione conservatrice, ma per nulla
reazionaria, uscita dalle elezioni, aveva il particolare merito di
servire di lezione al socialismo ed al rivoluzionarismo, mostrando
che il popolo italiano, nella sua educazione civile, non intendeva
permettere che certi limiti fossero violati da qualsiasi parte.
Alla riapertura del Parlamento, il discorso della Corona riaffermò
la piena fiducia nel regime della più ampia libertà entro i limiti
della legge fortemente difesa; riaffermazione che corrispondeva
pienamente al verdetto dato dal paese nei comizi elettorali,
risultati egualmente contrari ai campioni della reazione ed a
quelli del sovversivismo. Il discorso preannunciò pure
l'intenzione di invitare il Parlamento ad elaborare una saggia
legislazione sociale, che ad un tempo mirasse ad elevare
progressivamente il tenore di vita delle classi lavoratrici e
fornisse, mediante l'arbitrato e il probivirato, nuovi strumenti
per la pacifica soluzione dei conflitti fra capitale e lavoro,
allo scopo di evitare le lotte combattute con le armi dello
sciopero e delle serrate, nelle quali il danno è comune e la
vittoria rimane a chi abbia non le migliori ragioni, ma la
maggiore forza dalla sua parte.
Credetti poi opportuno di apportare un mutamento alla Presidenza
della Camera, la quale ormai per parecchi anni era stata tenuta
con grande dignità e imparzialità e tatto dall'on. Biancheri, col
quale ero
legato da sentimenti di comune stima ed amicizia, e da cui mi
dolse di dovermi distaccare. Le ragioni di questa mia decisione,
di carattere essenzialmente politico, le comunicai al Biancheri
stesso, con piena franchezza, in una mia lettera. Ed erano
duplici; per un lato, con la costituzione di una Camera in cui lo
spirito conservatore, sia pure nelle forme più moderate,
predominava, a me pareva opportuno, per ragioni di equilibrio ed a
garanzia delle parti più liberali, che la Presidenza fosse tenuta
da un uomo di tendenze spiccatamente avanzate; per l'altro,
considerando la nuova situazione generale uscita dalle elezioni,
mi ero convinto della opportunità di profittarne per accentuare al
possibile la separazione dei radicali dai repubblicani e dai
socialisti. La nomina di Marcora a Presidente della Camera, dati i
precedenti dell'uomo e l'autorità di cui godeva fra gli elementi
avanzati ma costituzionali, rispondeva a questa duplice
convenienza.
Il Biancheri, che pure parecchi mesi prima mi aveva accennato
spontaneamente all'opportunità di tale nomina, mi rispose con
franchezza pari alla cordialità, dichiarandomi il suo parere che
la composizione della Camera indicasse come più opportuna la
scelta di una persona di meno spiccata personalità politica e che
rappresentasse piuttosto uno spirito di conciliazione.
Le ragioni espostemi dal Biancheri non mi persuasero a rinunciare
a quella che io credevo una alta convenienza politica per fare
gradatamente entrare nell'orbita delle istituzioni il partito
radicale, che per il suo programma positivo e misurato non aveva
alcuna ragione di rimanere confuso fra gli estremisti sia
repubblicani che socialisti. L'elezione del Marcora alla
Presidenza rispose perfettamente alle mie aspettazioni, in quanto
egli per lunghi anni esercitò la sua delicata funzione con
generale soddisfazione e perchè quella nomina fu il primo passo
decisivo che avviò il partito radicale ad assumersi la
responsabilità del governo.
Mi compiaccio pure di ricordare la creazione, avvenuta in quel
torno di tempo, di una nuova istituzione internazionale, con sede
in Italia, dovuta ad una nobile e geniale iniziativa del Re. Sua
Maestà, il 24 gennaio 1905 mi indirizzò una lettera che qui
riproduco:
«Caro Presidente. — Un cittadino degli Stati Uniti d'America, il
signor Davide Lubin, mi esponeva, con quel calore che viene dai
sicuri convincimenti, una idea che a me parve provvida e buona, e
che perciò raccomando all'attenzione del mio governo.
«Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo
disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza,
né a migliorare e distribuire secondo le ragioni del consumo le
varie culture, né a tutelare i propri interessi sul mercato, che,
per i maggiori prodotti del suolo, si va sempre più facendo
mondiale.
«Di grande giovamento potrebbe quindi riuscire un istituto
internazionale, che si proponesse di studiare le condizioni
della agricoltura nei vari paesi del mondo; di segnalare
periodicamente l'entità e la qualità dei raccolti, cosichè ne
fosse agevolato il commercio e la determinazione giusta dei
prezzi; di fornire notizie precise sulle condizioni della mano
d'opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne
avessero una guida utile e sicura; di procedere d'intesa per la
tutela degli stessi emigranti coi vari istituti nazionali già
sorti a tal fine; di procurare opportuni accordi per la difesa
contro quelle malattie delle piante e del bestiame, per le quali
riesce meno efficace la difesa parziale; di esercitare finalmente
un'azione prudente e opportuna sui congegni delle assicurazioni e
del credito agrario.
«Di un istituto siffatto, capace di ulteriori e benefici
svolgimenti, e a cui Roma sarebbe degna sede augurale, dovrebbero
fare parte le rappresentanze degli Stati aderenti e delle maggiori
associazioni interessate, per modo che vi procedessero concordi
l'autorità dei Governi e le libere energie dei coltivatori della
terra.
«Ho fede che l'altezza del fine farà superare le difficoltà
dell'impresa.
«E in questa fede mi piace di confermarmi. — Suo aff.mo Cugino
Vittorio Emanuele.»
L'iniziativa del Sovrano, accolta rispettosamente dal Governo,
ottenne il plauso dell'opinione pubblica italiana ed
internazionale, ed ebbe la cordiale adesione di tutti gli Stati
civili. L'Istituto fu fondato; e da allora in poi ha sempre ed
utilmente funzionato.
L'anno 1904 ebbe pure un avvenimento di alta importanza
internazionale, e fu la visita a Roma del Presidente della
Repubblica francese, il Loubet.
Il Re, dopo la sua ascensione al trono, aveva compiuto un giro di
visite presso i capi dei principali Stati europei; era stato a
Pietroburgo, a Londra, a Berlino ed a Parigi. Queste visite furono
restituite. Il Re d'Inghilterra, Edoardo VII, e l'Imperatore di
Germania, Guglielmo II, avevano fatto queste restituzioni di
visite durante il Ministero Zanardeslli; io ero allora Ministro
degli Interni e non ebbi occasione di avvicinare particolarmente i
due sovrani, a parte i ricevimenti generali a cui interveniva
l'intero corpo dei ministri. Ricordo tuttavia che Re Edoardo
insisteva particolarmente col nostro Sovrano perchè si mettesse in
rapporto col Re di Spagna, col quale da poco la Corte
d'Inghilterra si era imparentata; ma il governo italiano gli
dovette richiamare le difficoltà di una tale relazione, in quanto
che non si poteva ammettere una visita del Re di Spagna che a
Roma. Con l'Imperatore Guglielmo io avevo già avuti rapporti
abbastanza intimi, durante il mio primo Ministero, cioè dieci anni
prima, nell'occasione di una sua visita fatta a Re Umberto. Io
l'avevo allora accompagnato a Napoli, dove si era trattenuto tre
giorni, alloggiando nel Palazzo Reale, ed alla Spezia, di cui
voleva visitare l'arsenale, interessandosi assai a tutto ciò che
concerneva la marina militare), come mostrò poi col grandiosa
sviluppo che dette appunto alla marina da guerra del suo Impero.
Quando restituì nel 1903 la visita a Vittorio Emanuele III, in un
ricevimento di Corte a cui erano presenti i ministri egli mi
riconobbe di lontano, ed avvicinandomisi mi complimentò dicendomi
che era lieto di constatare che in quei dieci anni non ero
invecchiato. — Mentre, aggiungeva, io sono invecchiato assai. —
L'impressione che l'Imperatore Guglielmo II dava nei rapporti
personali, col suo fare aperto e cordiale, era indubbiamente assai
simpatica; e trattenendosi a parlare con lui, nelle conversazioni
a cui egli si abbandonava con molta semplicità e calore, si
ritraeva l'ulteriore impressione di una intelligenza molto viva e
pronta, che amava di espandersi sui soggetti più vari. La
cordialità personale dei suoi modi non diminuiva però mai la
dignità della sua posizione, e si sentiva che egli era convinto di
avere una missione, che rimaneva però un po' generica, senza che
apparissero, o che egli volesse lasciare apparire, propositi
precisi e concreti. Come era naturale, nell'occasione di quelle
sue visite in Italia egli parlava molto delle cose nostre,
mostrando d'interessarsene assai, ma io ebbi a notare che la sua
conversazione si rivolgeva piuttosto a raccogliere informazioni,
senza che esprimesse mai sulle cose nostre giudizii suoi
personali.
La venuta di Loubet a Roma, quantunque rappresentasse anch'essa
una restituzione di visita, ebbe
una assai maggiore importanza politica, e per parecchi
rispetti, particolari e generali. Era mia fondamentale concezione,
per la politica estera, che l'Italia, pure mantenendo lealmente la
sua alleanza con le Potenze centrali, dovesse considerarla come
essenzialmente pacifica, e indirizzata ad assicurare la pace
dell'Europa. La Triplice Alleanza, concepita in tal modo, in piena
conformità con lo spirito e la lettera del Trattato, non solo non
ostacolava il mantenimento di relazioni cordiali con le altre
Potenze, e specie con l'Inghilterra e la Francia, ma le
incoraggiava. Personalmente poi io avevo sempre desiderato di
migliorare i rapporti con la Francia, che sotto i governi di
Crispi erano stati se non messi in serio pericolo, certo
raffreddati dall'interpretazione meno conciliante e pacifica che
Crispi dava al trattato. Così, sino dal mio primo Ministero, io
avevo lavorato al miglioramento dei rapporti fra l'Italia e la
Francia; e, come ho già detto, ero riuscito ad ottenerne una
pubblica manifestazione con la partecipazione ufficiale della
flotta francese alle feste Colombiane nell'estate del 1892.
La venuta di Loubet a Roma aveva pure un alto significato
politico, in quanto essa rappresentava la prima visita ufficiale
di un Capo del Governo francese alla capitale d'Italia. Infine
essa servì a confermare e condurre a termine gli accordi speciali
già intervenuti fra i due paesi, quando era al governo
Pelloux con Visconti-Venosta quale
ministro degli Esteri, continuati poi ad Algesiras,
sulla connessione fra le due questioni del Marocco e della
Libia, e secondo i quali l'Italia si disinteressava del Marocco, e
la Francia riconosceva all'Italia assoluta priorità d'interessi
riguardo la Libia.
Il Presidente Loubet, a dare maggiore rilievo all'importanza ed al
significato della visita, aveva condotto seco il Ministro degli
Esteri, che era allora il Delcassé; e nelle conversazioni che
intervennero fra loro due, me, il Tittoni, e per la parte
economica e finanziaria, il Luzzatti, io ebbi campo di farmi una
adeguata impressione dei due uomini di Stato francesi. Il Loubet
mi apparve un uomo molto equilibrato e di buon senso, ed animato
di sincera e cordiale amicizia verso l'Italia; nel Delcassé
rilevai sopra tutto la finezza ed abilità, come pure l'insistenza
con la quale tentava di sciogliere o per lo meno indebolire i
nostri vincoli con la Germania, senza però che sia stata avanzata
in proposito alcuna proposta concreta. Si trattò insomma solo di
conversazioni generiche, delle quali non si può disconoscere
l'utilità allo scopo e col successo di migliorare grandemente i
rapporti fra i due paesi, dopo un lungo periodo di ostilità sia
pure superficiale.
Un ultimo evento diplomatico di quell'annata, fu la visita che io
feci sulla fine di settembre al principe di Bülow, ad Homburg,
presso Francoforte. Erano pervenute a me sicure informazioni che
l'allora ambasciatore di. Germania a Roma, Conte De Monts, mandava
al suo governo dei rapporti poco favorevoli all'Italia, e tali da
potere indurre in sospetto sulla lealtà del Governo italiano
nell'alleanza. Io credetti allora opportuno venire a diretto
contatto col principe Bülow, allora Cancelliere, da me già
conosciuto durante il mio Ministero del 189293, epoca nella quale
egli era ambasciatore di Germania a Roma. Non volli d'altra parte
che la visita assumesse un carattere di troppa solennità, e
procurai, a mezzo di comuni amici, che essa fosse preparata in
modo semplice e senza notizia pubblica. Ed infatti nulla ne fu
saputo se non dopo il mio ritorno.
Arrivai ad Homburg la mattina del 27 settembre, ed alle undici
ebbi col von Bülow una conversazione che si protrasse per oltre
un'ora e mezza e della quale presi subito degli appunti, che ancor
conservo. Egli cominciò a parlare con grande fervore e
compiacimento dei progressi compiuti dall'Italia in ogni campo, e
specie nel campo economico, negli ultimi anni; e mi espresse la
sua piena approvazione per la politica interna che io avevo
applicata, dichiarandomi che aveva particolarmente apprezzato il
modo con cui mi ero condotto di fronte allo sciopero generale.
Passando poi un po' alla volta nel campo della politica estera,
egli mi disse che alcuni in Germania avevano avuta l'impressione
che noi ci fossimo avvicinati troppo alla Francia nell'occasione
della visita del Presidente Loubet a Roma. Io gli osservai che le
accoglienze fatte al Loubet rispondevano ai doveri della
ospitalità; ma che d'altronde consideravo come un interesse comune
togliere di mezzo le ostilità che avevano perdurato per lungo
tempo fra Italia e Francia. Gli osservai ancora che noi avevamo
conseguito il risultato di escludere d'ora in avanti che il
governo francese potesse in alcun modo essere o parere il
sostenitore del papa nel campo politico, togliendo così di mezzo
le ultime velleità dei fautori del potere temporale. E su tutto
questo egli conveniva cordialmente.
Discorremmo anche del papa d'allora convenendo essere bene che
l'influenza del papato non fosse più a servizio della Francia
contro l'Austria.
Si passò poi a parlare dei nostri rapporti con l'Austria, Il Bülow
lodò il nostro contegno, e mi assicurò formalmente che l'Austria
non aveva alcuna mira di espansione nei Balcani; dichiarando
ancora che occorreva mantenervi lo statu quo col dominio della
Turchia, e se tale dominio non potesse in seguito reggersi, la
retta soluzione sarebbe stata di costituirvi stati autonomi
nell'Albania e in Macedonia. Io gli osservai che l'Italia non
potrebbe mai consentire che altra potenza, ed in ispecie
l'Austria, occupasse l'Albania in qualunque punto, perchè una tale
occupazione avrebbe l'effetto di chiudere ad essa l'Adriatico; ed
egli ne convenne interamente, aggiungendo che tale nostra esigenza
corrispondeva pure alle direttive dell'Austria e della Germania,
Io richiamai poi la sua attenzione alle difficoltà che creava al
governo italiano il trattamento, spesso e in molta parte non equo,
che il governo austriaco faceva agli italiani dell'Istria e del
Trentino; osservando che se quel governo si mostrasse più largo
verso gli italiani suoi sudditi, concedendo ad esempio
l'università italiana a Trieste, le agitazioni ed i conflitti
nazionalisti ne sarebbero assai attenuati. Il Bülow consentì
pienamente, assicurandomi che la Germania farebbe del suo
possibile per indurre l'alleata ad un trattamento più generoso dei
suoi sudditi italiani. Mi aggiunse che la Germania aveva ogni
interesse a mantenere lo statu quo austriaco; che le dottrine dei
pangermanisti erano fantasia senza base di realtà, la Germania non
avendo alcun interesse ad assorbire nel suo organismo alcuna parte
dell'Austria. E mi citò in proposito anche l'opinione di Bismarck.
Passando a parlare della guerra russo-giapponese, mi espresse
l'opinione che la Russia non potrebbe dettare la pace se non
quando avesse conseguito un successo militare.
Io rimasi ad Homburg due giorni, durante i quali ebbi col Principe
Bülow altre lunghe conversazioni, specialmente in passeggiate che
facemmo insieme nei bellissimi boschi che circondano la elegante
città. Il mio scopo, che era di franche spiegazioni e di
affiatamento, fu pienamente raggiunto. Io ho del resto sempre
avuta ed ho ancora la convinzione che il Principe di Bülow sia
stato costante e sincerissimo amico dell' Italia, pure mettendo
sempre, come è naturale, in primissima linea gli interessi del suo
paese. Nelle conversazioni che avemmo in quei giorni egli mostrò
apertamente di tenere moltissimo all'amicizia dell'Italia, e di
giudicare la sua appartenenza alla Triplice come una garanzia per
l'equilibrio e la pace europea.
L'impressione personale mia di lui è sempre stata di uomo
intelligentissimo, che conosceva profondamente le situazioni ed i
problemi della politica europea, e la cui mente era rivolta a
mantenere la pace d'Europa, e non a spingere alla guerra.
Il Ministero Fortis — Il Ministero Sonnino e la sua caduta — II
mio nuovo Ministero: programma di riforme concrete — Dal
problema politico al problema economico — La lotta contro il
malessere eco,nomico nel Mezzogiorno e nelle Isole —
Alleviamento delle imposte sui consumi — Impulso alla istruzione
popolare ed alla istruzione tecnica — La conversione della
rendita — L'incremento della economia nazionale e il florido
bilancio della Stato — La visita dello Czar a Racconigi e gli
accordi russoitaliani per Tripoli, i Balcani e l'Oriente — L'
Università di Trieste e l'Arciduca Ferdinando — La ferrovia
AdriaticoMar Nero — La crisi dei servizii marittimi — La mia
proposta di imposta progressiva e la caduta del Ministero —
Nuovo insuccesso dell'on. Sonnino, e le sue ragioni.
Lasciando nel marzo del 1905 il Ministero, considerando che non si
trattava di una crisi, in quanto che il mio ritiro era una cosa
affatto, personale e dovuto a ragioni di salute, io proposi che si
nominasse alla Presidenza ed al Ministero degli Interni
l'onorevole Fortis, mantenendo pel resto il Gabinetto quale era.
Dal 16 al 27 marzo prese la reggenza il Tittoni, poi il Fortis
assunse la Presidenza facendo qualche cambiamento. Rimasero con
lui Tittoni agli Esteri, Majorana alle Finanze, Pedotti alla
Guerra, Mirabello alla Marina e Rava all'Agricoltura: furono
sostituiti il Ministro di Grazia e Giustizia, al Ronchetti
succedendo il Finocchiaro-Aprile; quello del Tesoro con Carcano al
posto del Luzzatti; quello dei Lavori Pubblici con Carlo Ferraris
al posto di Tedesco, e infine quello della Pubblica Istruzione,
dove Orlando cede il posto a Leonardo Bianchi.
Il nuovo Ministero nel riguardo delle cose più importanti aveva
già la sua via tracciata. Così esso, applicando alle Ferrovie
l'esercizio di Stato, che cominciò col primo luglio di quell'anno,
non fece che effettuare ciò che era già stato deciso e preparato
in tutti i suoi particolari. Va però rilevato un provvedimento
legislativo di notevole importanza che fu preso quasi subito dopo
che il nuovo Ministero era entrato in funzione. Quando io lasciai
nel marzo il governo, era ormai al suo termine uno sciopero
ferroviario, che era un altro segno del malcontento del personale
e della disgregazione della amministrazione privata, che i
ferrovieri male tolleravano, desiderando di passare allo Stato. Il
Fortis fronteggiò quella agitazione che causava inconvenienti e
danni al pubblico ed alla vita economica del paese, stabilendo il
principio che l'abbandono del servizio importava le dimissioni.
Quel principio fu poi da me accolto ed esteso a tutte le classi
dei funzionari dello Stato, mediante la Legge sullo stato
giuridico degli impiegati, che fu presentata al Parlamento ed
approvata durante il mio nuovo Ministero nel 1908.
Per alcun tempo io non venni più a Roma, soggiornando un po' a
Cavour e un po' a Bardonecchia per rimettermi, ed astenendomi,
secondo mi avevano ordinato i medici, da qualunque lavoro; e fu
solo dopo due o tre mesi, fra il maggio e il giugno, che cominciai
a sentirmi assai migliorato in salute. Nel luglio andai a Fiuggi.
Nel dicembre successivo si ebbe una prima crisi del Ministero; e
ricordo che il Fortis venne allora da me per dirmi che io dovevo
riprendere il governo; al che io mi rifiutai, adducendo che non
ero ancora del tutto ristabilito, e che del resto la crisi, per il
modo con cui si era svolta, non lo colpiva direttamente, e quindi
competeva a lui di formare un nuovo Ministero. Ed alla Camera io
avevo appunto agito per impedire che il voto avverso colpisse
personalmente il Fortis, ed ero riuscito nel mio intento. Fortis
si persuase, ed il 24 dicembre si ripresentò con un nuovo
Ministero, nel quale San. Giuliano, diventando per la prima volta
Ministro degli Esteri, sostituiva il Tittoni; Mainoni sostituiva
alla Guerra il Pedotti; Tedesco ritornava ai Lavori Pubblici al
posto di Carlo Ferraris; Viacchelli sostituiva il Majorana alle
Finanze; Marsengo Bastia il Morelli Gualtierotti alle Poste, ed
infine il De Marinis, uno dei primi socialisti che passasse al
riformismo, prendeva il Ministero dell' Istruzione, sostituendo
Leonardo Bianchi.
Ma il nuovo Ministero ebbe vita brevissima, arrivando solo agli 8
di febbraio dell'anno successivo. La sua caduta fu provocata
dall'accordo che si era stipulato con la Spagna, per
l'importazione dei vini spagnuoli, in compenso di altre
concessioni, che in materia doganale la Spagna aveva fatte
all'Italia. Numerosi. deputati dei paesi vinicoli, particolarmente
delle Puglie, si ribellarono contro questa concessione, quantunque
il dazio per l'importazione dei vini spagnuoli rimanesse sempre
assai elevato, e sufficiente ad una ragionevole protezione.
Siccome io avevo difeso ed appoggiato il Ministero in questa
questione, rimasi nella minoranza, ed ero assolutamente fuori di
discussione; ed allora venne indicato l'onorevole Sonnino, il
quale formò così il primo suo Ministero.
È stato un peccato che il Fortis, morto in età ancora giovane, non
abbia potuto dedicare più lungamente, e con più matura esperienza,
il suo fortissimo e fertile ingegno al paese. La qualità in cui
sopratutto eccelleva era la sua eccezionale facoltà di
assimilazione, che spesse volte compensava o sostituiva la
capacità e persistenza del lavoro, la cui deficienza era il suo
punto debole, perchè egli non fu mai un lavoratore. Per un esempio
del modo con cui egli riusciva a cavarsela, ricordo un curioso
episodio. Nel tempo in cui egli era Ministro d'Agricoltura nel
primo gabinetto Pelloux, in una seduta antimeridiana della Camera
si stava discutendo un disegno di legge inteso ad impedire
l'adulteramento dei vini. Avevano parlato il relatore della legge,
e alcuni deputati, pro e contro; poi il Fortis si alzò e
pronunciò, in difesa del progetto di legge, un bellissimo
discorso, che in chi l'ascoltava dava l'impressione di uno studio
profondo e minuto e di una vera competenza nella materia. Alla
fine della seduta io l'avvicinai per richiamare la sua attenzione
ad un articolo della legge, che non poteva assolutamente essere
mantenuto; ed egli, dopo avermi ascoltato, mi rispose col suo
bonario sorriso: — A dirti la verità, io il progetto di legge non
l'ho nemmeno letto. — Gli era bastato l'esposizione del relatore e
la discussione degli oratori e favorevoli e contrari, per farsi
una idea precisa e sicura dell'argomento, e dargli la materia alla
sua risposta ed' alla sua difesa.
Egli si abbandonava forse un po' troppo alla sua facilità di
avvocato; ma aveva un intuito politico finissimo ed un criterio
rettissimo; il suo vero posto in un governo sarebbe stato la
Presidenza senza portafogli; un posto cioè in cui valga la
genialità naturale, e non sia richiesto lo studio e l'assiduità,
da cui l'indole del suo ingegno era affatto aliena. Personalmente
poi egli riscuoteva simpatie generali, sia per la sua bonaria
cordialità, sia per la sua lealtà a tutta prova: ognuno sentiva di
potersi fidare in lui. Da giovane, quando era all'Università,
aveva fatto molto rumore come repubblicano; poi era venuto alla
Camera come radicale, e la prima volta entrò al governo nel 1887
come sottosegretario di Crispi, del quale rimase sempre amico,
pure essendo anche amicissimo mio; e quando fra me e il Crispi
scoppiò il conflitto, egli cercò del suo meglio di fare opera di
pacificazione.
Il Ministero costituito dall'onorevole Sonnino l'8 febbraio del
1906, raccolse parecchi dei parlamentari più considerati, riunendo
elementi conservatori quali il Guicciardini, il Salandra, il
Carmine e il Luzzatti, con elementi radicali, quali il Sacchi e il
Pantano; anzi fu quella la prima partecipazione aperta e diretta
del partito radicale al governo con suoi uomini rappresentativi.
Ciò non ostante ebbe vita brevissima, durando cento giorni
precisi, sino al 22 del maggio seguente.
Ciò che fu più caratteristico nella sua breve vita, fu la causa ed
il modo della sua caduta. Il Ministero aveva stipulato la
convenzione pel riscatto delle Ferrovie Meridionali; la
stipulazione era stata fatta dall'onorevole Carmine, ministro dei
Lavori Pubblici. La Convenzione importava a debito del governo una
annualità di trenta milioni e mezzo per sessantanni. La
Commissione parlamentare nominata per l'esame del relativo
progetto di legge si era manifestata in grandissima maggioranza
favorevole; vi erano solo due suoi membri che ne discutevano e
chiedevano modificazioni per alcune clausole secondarie. In questa
condizione di cose l'onorevole Sonnino venne un giorno alla Camera
e chiese che s'imponesse alla Commissione di riferire entro otto
giorni. La proposta non fece buona impressione inquantochè pareva
intesa a forzare la mano; cosa di che, considerando
l'atteggiamento favorevole della Commissione, non c'era affatto
bisogno. Io presi la parola per osservare che, trattandosi di un
contratto di tanta importanza, mi pareva eccessivo stabilire un
termine così breve alla Commissione. Sonnino insistette nella sua
richiesta, ed allora l'onorevole Rubini propose di rimandare la
questione a tre giorni, per dare alla Camera tempo di riflettere.
Nelle conversazioni che seguirono dopo la seduta, io dissi ai miei
amici di essere persuaso che l'onorevole Sonnino non avrebbe
receduto dalla sua proposta e che la Camera l'avrebbe battuto, e
che, non volendo assistere ad un infanticidio sarei partito la
sera stessa per Cavour. Le mie previsioni si avverarono, e due
giorni dopo io ricevevo a Cavour un telegramma che a nome di Sua
Maestà mi chiamava a Roma. Quando il telegramma mi pervenne, io
non avevo ancora letta nei giornali la notizia, ma arguii subito
che il Ministero aveva provocato il voto ed era stato battuto.
Giungendo a Roma ebbi da Sua Maestà l'incarico di formare il nuovo
Ministero, il quale entrò in funzione il 27 maggio del 1906, ed
ebbe lunga durata, rimanendo in carica sino al 9 dicembre del
1909. Esso fu dolorosamente funestato dalla morte di alcuni dei
principali uomini che lo componevano, e che erano fra le più
promettenti personalità del mondo politico e parlamentare
italiano.
Agli Esteri io avevo richiamato il Tittoni; ed alla Grazia e
Giustizia il Gallo, che morì nel 1909 e fu sostituito
dall'Orlando. Alle Finanze avevo chiamato Fon. Massimini,
fedelissimo amico dello Zanardelli, tantoché avendogli io nel
1903, quando succedetti a Zanardelli, offerto il posto di
sottosegretario al Ministero dell'Interno, egli mi disse che
sarebbe stato lietissimo di accettare tale posto, ma che essendo
Zanardelli malato egli voleva accompagnarlo a Brescia e restare là
con lui. Il Massimini fu colpito da un attacco di apoplessia nel
marzo del 1907, e sostituito da Lacava. Il colpo lo aveva
paralizzato della parte destra del corpo, ed egli aveva dichiarato
che entro un anno non guarendo si sarebbe ucciso. Ed infatti
passato l'anno, egli mi scrisse con la mano sinistra una
affettuosissima lettera di addio e si uccise.
Al Tesoro avevo chiamato Angelo Majorana, deputato di Catania,
ancora assai giovane, uomo di forte ingegno e che pareva destinato
a fare una grande carriera politica. Ma pur troppo, nel maggio del
1907 fu colpito da una malattia di esaurimento nervoso, ribelle ad
ogni cura, che si andò sempre più aggravando e lo condusse
precocemente alla tomba. Egli fu sostituito nel Ministero dal
Carcano. Il Ministero dei Lavori Pubblici era stato assunto da un
mio antico amico, il Gianturco, uomo pure di grandissimo ingegno,
come mostrò anche in quell'occasione, impadronendosi in modo
mirabile, in due o tre mesi, di tutto il complesso meccanismo
tecnico del suo dicastero e dei problemi che ad esso facevano
capo. Anche egli era uomo di avvenire sicuro ed era ormai
considerato da tutti come una delle migliori speranze della
politica italiana; ma sfortunatamente egli pure fu tolto
precocemente alla vita pubblica da una grave malattia di cancro,
per la quale fu costretto a ritirarsi nel novembre del 1907,
morendo poi poco tempo dopo.
Il dicastero della Guerra fu preso dal generale Vigano, a cui poi
successe, nel dicembre del 1907, il Senatore Casana, che fu il
primo ministro borghese della guerra in Italia. All'Istruzione
avevo chiamato l'on. Fusinato, uomo di vivo ingegno, ma che solo
pochi mesi dopo, nell'agosto dello stesso anno, dovette pure
ritirarsi per esaurimento nervoso. Gli altri dicasteri furono
assunti: dallo Schanzer quello delle Poste e Telegrafi; dal
CoccoOrtu l'Agricoltura, ed alla Marina rimase l'onorevole
Mirabello, che io avevo già preso nel mio Ministero del 1903, e
che era rimasto traverso i due Ministeri del Fortis e quello del
Sonnino, svolgendovi una mirabile ed organica opera di riforma,
che fu condotta a compimento appunto durante il mio nuovo
Ministero.
Il Ministero si presentò alla Camera con dichiarazioni assai brevi
e di carattere sopratutto concreto e speciale. Ormai le tendenze
politiche generali di un Ministero da me presieduto erano ovvie:
la lotta per la democrazia ed il liberalismo, combattuta con
diversa fortuna dal 1892 in poi, si era ormai conclusa con una
così completa vittoria, da non lasciare più luogo ad alcuna seria
discussione. Il fatto che uomini i quali avevano combattuto dalla
parte opposta, come l'on. Sonnino e i suoi aderenti, avessero
ormai accettato senza riserve il nuovo indirizzo democratico e
liberale della politica nazionale, era il miglior segno che tale
problema fondamentale era risolto definitivamente e che nessuno
poteva pensare ormai alla convenienza e nemmeno alla possibilità
di ritornare addietro. Ma i problemi politica, risolvendosi ne
generano dei nuovi, inesauribilmente; e la vittoria della dottrina
democratica e liberale, per il fatto stesso che chiamava a
partecipare al governo classi sempre più vaste, creava nuovi
grandi interessi, e poneva sopra tutto la questione
dell'elevamento materiale e morale di queste classi, senza il
quale la loro partecipazione alla vita dello Stato sarebbe stata
una finzione, e non avrebbe condotto a quella pacificazione delle
classi a cui quella politica appunto intendeva.
Assumendo dunque il governo io dovetti richiamare l'attenzione del
Parlamento e della pubblica opinione sul fatto che negli ultimi
tempi l'Italia era stata funestata da disordini che avevano avuto
le più deplorevoli conseguenze, specialmente nelle Provincie
meridionali e nella Sardegna. Coloro che avevano studiate le cause
prime di quei disordini avevano dovuto riconoscere che essi
avevano la loro prima origine in un malessere economico dovuto a
cause diversissime da luogo a luogo, e al quale non sarebbe stato
possibile portare rimedio se non se ne accertassero da prima la
vera entità e le sue. ultime ragioni. Occorreva a questo scopo
compiere uno studio ampio e profondo, ed io proponevo, affinchè
esso avesse la maggiore autorità ed efficacia, di affidarlo a due
Commissioni d'inchiesta parlamentare; all'una delle quali fosse
dato il compito di indagare sulle condizioni dei lavoratori della
terra nelle provincie meridionali e nella Sicilia, specialmente in
rapporto coi patti agrari; ed all'altra quello di studiare le
condizioni dei lavoratori della Sardegna, e specie quelle degli
operai addetti alle miniere, dove appunto si erano prodotti i più
gravi conflitti.
Mettere in contatto diretto la rappresentanza nazionale con le
classi più sofferenti, pareva a me il mezzo più efficace per dare
impulso ad una seria opera di legislazione sociale, e la
dimostrazione più evidente della solidarietà che deve unire, in un
paese civile e progressivo, tutte le classi.
Il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, nella
mia opinione costituiva il problema dominante di quel momento, che
seguiva immediatamente a quella conquista delle pubbliche libertà,
mediante le quali queste classi potevano fare conoscere i loro
bisogni e manifestare le loro aspirazioni. Dopo un aspro periodo
di lotta, l'avvenire della nostra civiltà e la prosperità e
grandezza del nostro paese, dipendevano direttamente, a mio
avviso, dal miglioramento morale e materiale, ma ordinato,
costante e pacifico delle più numerose classi sociali.
La possibilità però di un tale miglioramento era evidentemente
connessa con la prosperità dell'agricoltura, dell'industria, del
commercio; cioè con l'incremento generale della ricchezza
nazionale, perchè solo dove il capitale ed il lavoro abbondano vi
possono essere alti salari e buone condizioni di lavoro. Quello
che negli anni precedenti era stato essenzialmente problema
politico, diventava dunque oggi problema essenzialmente economico,
che non poteva trovare la soluzione sua che nella soluzione di
numerosi e svariati problemi tecnici, a cui dovevano appunto
mirare e l'azione costante del governo e l'opera di
riforma legislativa.
Dal punto di vista materiale bisognava agevolare
le comunicazioni, completando la rete stradale,
assai povera nelle provincie meridionali e nelle isole, dando un
efficace impulso ad un buon ordinamento ferroviario, ed
organizzando bene i servizi marittimi, per facilitare gli scambi
commerciali all'interno ed il movimento delle
esportazioni ed importazioni con l'estero. Nello
stesso tempo a rendere più efficace l'elevamento dei
salari era necessario procurare con tutti i mezzi di rendere meno
costosa la vita; ciò che si sarebbe ottenuto riducendo, a mano a
mano che le condizioni della finanza lo
permettessero, le imposte sui
consumi, e trasformando le imposte locali in
modo che non colpissero le classi meno agiate.
Dal punto di vista morale io consideravo necessario per una parte
dare una maggior diffusione sia alla
istruzione popolare, sia a quella
istruzione tecnica superiore che
negli ordinamenti vigenti appariva affatto inadeguata al
continuo progresso industriale; e dall'altra perfezionare nello
spirito e nella pratica la legislazione sociale, creando
varie leggi sul contratto di lavoro, sul lavoro notturno e su
quello delle risaie ed in genere delle industrie più pericolose, e
sul lavoro festivo.
Come uno dei primi passi, e forse il più importante, per avviare
la finanza italiana a tendenze più democratiche si presentava la
conversione della Rendita del cinque per cento lordo al tre e
mezzo per cento; sia per il significato intrinseco di una tale
riforma, sia perchè la conversione avrebbe offerto al governo i
primi margini per uno sgravio delle tasse eccessive
sui consumi.
Il problema della conversione della rendita si era affacciato sino
da quando questo titolo aveva superato e si era mantenuto fermo
sopra le pari, e il corso dei cambi aveva, cessato dal
rappresentare il disagio della circolazione legale di fronte
all'oro, segnando pure un miglioramento notevolissimo nelle
condizioni di addebitamento ed accreditamento dell'Italia di
fronte all'estero per il movimento generale delle transazioni
internazionali, che oltre l'importazione ed esportazione
comprendevano le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri
che visitavano l'Italia. Il buon esperimento della emissione di un
titolo al tre e mezzo per cento, iniziata dal Ministero Zanardelli
essendo ministro del Tesoro il Di Broglio, e il successo della
conversione del quattro e mezzo per cento interno nel tre e mezzo
internazionale; altre minori conversioni come pure l'agevole
collocamento dei Certificati ferroviari fruttanti il tre e
sessantacinque per cento, quantunque tutte operazioni di modesta
mole, avevano ormai dimostrato che il mercato italiano era
preparato ad accogliere la maggiore conversione.
Al 30 giugno del 1906 la situazione delle due rendite da
convertire, cioè del cinque per cento lordo a cui si aggiungevano
circa duecento milioni di quattro per
cento netto, era di otto
miliardi e cento
milioni circa; rappresentata per un po' più della metà da titoli
nominativi e per un po' meno della metà da titoli al portatore!.
Fra le rendite nominative circa novecento milioni erano inscritti
alla Cassa Depositi e Prestiti o altre Amministrazioni statali;
per cui le operazioni e i rischi della conversione riguardavano
all'ingrosso, sei miliardi e mezzo che si trovavano nel Regno, e
da 650 a 700 milioni che si trovavano all'estero, e dei quali
circa 400 erano collocati in Francia.
La conversione poteva essere eseguita con l'uno o l'altro dei
seguenti criteri: o portare subito l'interesse al tre e cinquanta
per cento, o compierla in due tempi, concedendo un periodo di
transazione di alcuni anni, durante il quale l'interesse fosse del
3,75 per cento, secondo era stato fatto nella conversione dei
consolidati inglesi. Tenersi a questo secondo metodo apparve, se
non assolutamente necessario, certo opportuno; in considerazione
della mole dell'operazione e delle possibili non favorevoli
ripercussioni, sia di carattere finanziario immediato, sia di
carattere economico e più permanenti, che tanto all'interno quanto
all'estero avrebbe avuto l'adozione del metodo più radicale della
totale conversione immediata; e quel criterio graduale appariva
tanto più saggio in quanto che il maggiore benefizio della
conversione radicale immediata sarebbe stato con ogni probabilità
in graji parte assorbito dalle maggiori spese di una conversione
più difficile e rischiosa. E già alcuni minori esperimenti, come
la conversione del prestito in oro
della città di Roma, e quello delle cartelle fondiarie a tipo
internazionale della Banca d'Italia, avevano dimostrato che il
decurtamento immediato di un mezzo per cento negli interessi
provocava larghe domande di rimborso.
Già nel mio precedente Ministero io avevo fatto iniziare una
preparazione di studio per una possibile conversione. Il mio
successore Fortis aveva ripreso la pratica; aveva fatti passi a
Parigi ed a Berlino ottenendo affidamenti di buone disposizioni da
parte della Casa Rothschild, la quale per l'innanzi si era
mostrata sempre assai riservata; ed aveva abbozzato in proposito
un primo progetto; ma il suo Ministero cadde prima di essersi
assicurati i necessari consensi. Il Sonnino, che successe al
Fortis, aveva ripreso, segnatamente per opera del suo Ministro del
Tesoro, on. Luzzatti, i negoziati; e il Comm. Bonaldo Stringher
per desiderio del Ministero e del Luzzatti, ebbe a Mentone una
prima intervista col Barone Edmondo de Rothschild, al quale espose
i progetti del governo italiano ed il piano per attuarli, con la
cooperazione della sua Casa. Anche allora il Rothschild riaffermò
le sue buone intenzioni, ma dichiarò pure che la conversione
italiana doveva attendere che fosse prima varato il prestito russo
già concordato.
Si seppe poi che un'altra ragione dei temporeggiamenti della Casa
Rothschild era che essa non aveva considerati abbastanza stabili i
due precedenti ministeri, mentre riteneva necessario per il buon
successo della conversione che il governo italiano fosse in
condizione di prendere impegno di non fare nuove emissioni per un
certo periodo di tempo.
Ad ogni modo un utile lavoro preliminare era già stato compiuto;
ed assumendo il potere io interpellai subito la Casa Rothschild se
fosse disposta ad entrare in trattative per la conversione; e il
Rothschild rispose che considerava il mio governo abbastanza
stabile perchè trattative potessero essere senz'altro avviate. A
queste trattative io associai l'on. Luzzatti, quantunque non fosse
più al governo, per la sua grande competenza in materia, e per i
negoziati diretti mandai a Parigi l'11 giugno seguente,
rappresentante del Governo italiano, il Comm. Stringher che iniziò
il 14 giugno le trattative con la Casa Rothschild, la quale
essendosi associati i maggiori Istituti di Berlino, e Banche e
banchieri di Londra, rappresentava l'alta finanza internazionale.
Le trattative furono laboriose, per il diverso punto di vista
delle parti contraenti; perchè da una parte il Governo italiano
era interessato a non protrarre troppo a lungo il periodo
d'applicazione del saggio intermedio del 3,75 per cento;
dall'altra l'alta Banca francese, era ferma nel proposito di non
concedere la garanzia dell'operazione, sìe tale periodo non fosse
stato di almeno otto anni. Presi in considerazione tutti gli
elementi del problema, e constatando che la garanzia offerta
sarebbe costata troppo cara al Tesoro italiano ed avrebbe imposti
vincoli incompatibili, parve a noi miglior consiglio di confidare
nella resistenza del paese, e mantenere al Tesoro una maggiore
libertà d'azione rinunciando a quella garanzia, ed avviando le
trattative per altro cammino.
Così il 26 giugno, il Comm. Stringher firmava un contratto,, che
due giorni dopo veniva ratificato dal Governo italiano, con la
casa Rothschild e i rappresentanti della banca tedesca e di quella
inglese; con esso noi ci garantivamo il concorso materiale e
morale dell'alta Banca europea per sostenere la conversione della
nostra rendita fuori d'Italia e per eliminare i pericoli di
perturbazioni nel corso dei cambi sull'estero, senza sottometterci
a condizioni non desiderabili nò finanziariamente né
politicamente. Questo presidio della Banca internazionale prese la
forma di un Consorzio, formato da un gruppo francese, da un gruppo
tedesco e da un gruppo inglese, il quale s'impegnava di tenere a
disposizione del Tesoro italiano la somma di 400 milioni di lire,
divisi in 250 milioni di franchi a Parigi, due milioni e 400 mila
sterline a Londra ed ottanta milioni di marchi a Berlino, per
corrispondere fuori d'ltalia a tutte le domande di rimborso delle
rendite da convertire, e per provvedere inoltre a tutti gli
acquisti di titoli di rendita, che si fossero resi necessari a
tutela dei prezzi, quindi a presidio della conversione, dal giorno
del contratto a quello fissato per la chiusura del tempo utile
alle domande di rimborso.
Come correspettivo a tale cooperazione, e dell'impegno di
accettare la conversione e di fare opera per il suo esito
favorevole, nel contratto era attribuito al Consorzio
internazionale la provvigione dell'uno per cento sulla somma
impegnata; di modo che più largo sarebbe stato per esso il
benefizio quanto minore fosse stata la somma dei rimborsi e degli
acquisti sul mercato, vale a dire quanto più brillante fosse stato
l'esito dell'operazione.
Erano poi considerati i casi della cessione e del ritiro dei
titoli rimborsati e di quelli acquistati sul mercato; e la grande
operazione era circondata della più prudenti cautele, per modo che
essa potesse essere condotta a buon fine anche se avvenimenti
gravi ed improvvisi avessero turbato transitoriamente il mercato
monetario internazionale deprimendo per qualche tempo il corso
generale dei valori di Stato. Nello stesso modo si costituiva un
Consorzio italiano per la conversione della massima mole dei
titoli, che si trovavano in Italia, ed al quale oltre gli Istituti
di emissione parteciparono presso che tutte le forze finanziarie
italiane, comprese le Casse di Risparmio, e le Banche cooperative.
I patti sottoscritti dal Consorzio italiano erano sostanzialmente
simili a quelli fatti al Consorzio internazionale, ma con le
commissioni e gli altri corrispettivi a carico del Tesoro, ridotti
alla metà anche in considerazione del fatto che il Consorzio
nostrano partecipava ad una percentuale assai maggiore
dell'operazione totale.
Il 26 di giugno il Coram. Stringher aveva firmato il contratto a
Parigi; il 28 giugno il Governo l'aveva ratificato; il 29 giugno
la legge per la conversione veniva presentata alla Camera.
L'approvazione di questa legge costituisce un record di rapidità,
credo non mai sorpassato. Il disegno di legge fu presentato
alla Camera alle tre pomeridiane; la Camera, nelle forme volute
dal regolamento, e cioè a scrutinio segreto, deliberò di
discuterlo immediatamente; l'onorevole Luzzatti, nominato
relatore, presentò la relazione mezz'ora dopo, e la legge fu
votata alle ore cinque. Alle cinque e mezzo fu presentata al
Senato che la votò alle sei; alle ore otto era già firmata dal Re
e la sera stessa pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale. Tale rapidità nella emanazione della
legge era necessaria per impedire qualunque manovra di Borsa.
Il risultato della operazione fu eccezionalmente felice. Le
domande di rimborsi furono minime; le rendite rimborsate
all'estero dal Consorzio presieduto dalla Casa
Rothschild e fuori del Consorzio furono in tutto di poco più di
tre milioni; quelle rimborsate in Italia ammontarono ajd un
milione e 661 mila lire, delle quali un milione circa
appartenenti a stranieri, e trasmesse in Italia per le operazioni
relative trattandosi di titoli vincolati. Il totale dei rimborsi
fu di poco più di quattro milioni e mezzo. Le compere eseguite sul
mercato per sostenere la quotazione durante la conversione
ammontarono a circa sedici milioni e mezzo all'estero, e trentadue
in Italia, la più gran parte dei quali concernevano titoli rimessi
in Italia da Istituti e banchieri esteri, specie tedeschi; così
che l'azione dei due Consorzi non dovè esercitarsi che sur un
capitale complessivo di circa cinquantatre milioni e mezzo per gli
acquisti e i rimborsi, rispetto ad un valore totale di otto
miliardi e cento milioni di rendite.
Fu un risultato massimo con uno sforzo minimo. Si aggiunga che,
visto l'esito felicissimo, tanto il Consorzio estero che quello
nazionale ritennero per sé i titoli rimborsati ed acquistati; così
che il Tesoro non ebbe né ad usare le disponibilità della
Tesoreria, né a ricorrere a provvedimenti di carattere
straordinario per raggiungere la meta. Anche la spesa per la
conversione riuscì minima; sommando assieme tutte le commissioni
fissate e le partecipazioni; gli oneri d'ogni genere inerenti al
cambio dei titoli vecchi coi nuovi; gli assegni e le somme a
forfait convenuti coi Consorzi e con le Banche, si raggiunse la
somma di poco più di nove milioni e mezzo, equivalenti a dodici
centesimi per ogni cento lire di capitale convertito. Conversioni
per somme simili, anche recentemente in altri paesi erano costate
dieci volte tanto.
Ricordo che poco dopo venne da me un ex-ministro delle finanze
spagnuolo, appunto per conoscere come l'operazione fosse proceduta
e quale ne fosse stato il costo; e quando io gli comunicai la
cifra del costo, egli mi mostrò tanta incredulità che dovetti
dargli una copia della relazione già stampata per persuaderlo che
la somma era proprio quella. Oltre ai vantaggi permanenti per le
finanze dello Stato, il magnifico successo di quella operazione
giovò indirettamente assai al nostro paese, rialzandone il
credito; tanto che non ostante la riduzione dell'interesse la
nostra rendita continuò a mantenersi sovra la pari, mentre la
nostra carta moneta arrivava a fare aggio
sull'oro.
Un notevolissimo miglioramento si era prodotto in quegli ultimi
anni nelle condizioni generali dell'economia nazionale; ed il
bilancio dello Stato, che riflette fedelmente la economia del
paese, si trovava nelle più floride condizioni, le entrate
superando sensibilmente le spese, e ciò per effetto di un costante
e rapido aumento nel gettito delle imposte.
Per misurare l'importanza di questo generale incremento basta il
confronto del conto consuntivo dell'anno 1907-08, con quello
dell'anno 1900-01. In quei sette anni vi era stato un aumento di
entrate di 214 milioni; quantunque al bilancio 1907-08 non
figurassero più gli 88 milioni di ritenute per imposta di
ricchezza mobile sul debito pubblico, né 28 milioni di prodotti
delle ferrovie; e quantunque fosse stato abolito il dazio consumo
sulle farine, sul pane e la pasta, si fosse ridotta a metà la
tassa sul petrolio, e coi trattati di commercio si fossero ridotte
molte delle tariffe doganali, e per effetto della legge sul
mezzogiorno e della applicazione del nuovo catasto in alcune
provincie fosse diminuita di venti milioni l'imposta sui terreni.
A così rapido aumento di entrate avevano contribuito le privative
per 83 milioni, le tasse di fabbricazione per 57, le tasse sugli
affari per 47, l'imposta sulla ricchezza mobile riscossa coi ruoli
per 33, le poste e telegrafi per 32, le dogane per 12, le tasse
sul movimento ferroviario per 9, le altre imposte per somme
minori.
Gli incrementi delle entrate permisero aumento di spese: il
bilancio della pubblica istruzione fu portato da 49 a 85 milioni
con aumento di 36 milioni, 15 dei quali furono dati alla
istruzione elementare; il bilanco dell'agricoltura fu portato da
13 a 27 milioni; quello dei lavori pubblici salì da 79 a 117
milioni; quello delle poste e telegrafi crebbe da 69 a 123
milioni.
Ma la cifra più grossa degli aumenti di spesa fu quella occorsa
per accrescere gli stipendi degli impiegati affinchè meglio
corrispondessero all'accresciuto costo della vita. La somma di
tali aumenti di stipendi dal bilancio 1900-01 a quello del 1907-08
ascese a 103 milioni, senza contare gli aumenti concessi ai
ferrovieri che non figurano nel bilancio dello Stato, ma in quello
speciale della gestione ferroviaria.
Il progresso economico che si rifletteva così potentemente sul
bilancio dello Stato, presentava indizi egualmente favorevoli in
tutte le altre manifestazioni della attività economica del paese.
Così la importazione del carbon fossile che era nel 1900 di 4 947
180 tonnellate salì nel 1907 a tonnellate 8 300 439, mentre nello
stesso periodo di tempo furono fatte concessioni di derivazioni dì
acque pubbliche corrispondenti a 489 mila cavalli dinamici, e
furono attuati impianti elettrici per la forza di cavalli dinamici
244 mila. Nello stesso periodo di tempo dal 1900 al 1907, il
prodotto lordo di quelle ferrovie che erano
nel 1900 esercitate da società private e ora sono esercitate
dallo Stato, salì da 297 a 434 milioni con un aumento del prodotto
annuo di 137 milioni.
Pure dal 1900 al 1908 i depositi delle casse di risparmio
ordinarie salirono da 1507 a 2109 milioni con un aumento di
milioni 602; i depositi in conto corrente e a risparmio delle
società ordinarie di credito salirono da 305 a 735 milioni con un
aumento di milioni 430; i depositi delle banche popolari salirono
da 463 a 908 milioni con aumento di milioni 445; i depositi delle
casse di risparmio postali da 682 milioni salirono a 1487 milioni
con un aumento di milioni 805. Adunque nel periodo decorso dal
1900 al 1908 i depositi agli istituti di credito, alle banche
popolari e alle casse di risparmio ordinarie e postali salirono da
2957 a 5237 milioni con un aumento di milioni 2280. Nello stesso
periodo di tempo le riserve metalliche dei tre nostri istituti di
emissione salirono da 575 a 1450 milioni, dei quali 1177 in oro,
con un aumento di milioni 875 sul totale delle riserve, e di 774
sulla riserva in oro.
Un altro importante indizio della cresciuta prosperità economica
del paese era dato dal fatto che nell'esercizio 1900-01 il tesoro
pagava all'estero, al netto da imposta, milioni 76 di interessi
del debito pubblico, corrispondenti a un valore capitale in titoli
di milioni 1900, mentre nell'esercizio 1907-08 i pagamenti
all'estero per interessi del debito pubblico si ridussero a
milioni 27 corrispondenti al valore capitale di 720 milioni. Ciò
dimostrava che in sette anni il risparmio nazionale aveva
riscattato dall'estero tanti titoli del nostro debito pubblico per
un valore di 1180 milioni.
Una cifra forse ancora più impressionante sarebbe stata quella che
rappresentasse l'aumento nell'ammontare dei salari annualmente
riscossi in Italia dalle classi lavoratrici. Una statistica dei
salari non esisteva ma chiunque avesse consideralo la grande
differenza nella misura dei salari dal 1900 al 1908, differenza
che in molte parti d'Italia, specialmente per i lavoratori della
terra, costituiva un raddoppiamento, fe avesse moltiplicato tale
differenza per le giornate di lavoro e per il numero di lavoratori
di tutte le industrie e dei coltivatori della terra, sarebbe
giunto ad una cifra quale nessuno aveva preveduto potersi
raggiungere in così breve volgere di anni.
Un avvenimento di carattere e di grande importanza internazionale,
che si compiè nell'ottobre del 1907, fu la visita che l'Imperatore
di Russia fece al nostro sovrano a Racconigi, e che fu la prima
visita ufficiale di uno Czar nel Regno
d'Italia.
Quando Vittorio Emanuele III salì al trono, egli aveva iniziato il
ciclo di visite ufficiali presso i Capi di Stato esteri, con un
viaggio alla Corte dello Czar; avvenimento questo che aveva
attratta molta attenzione nel campo internazionale, come un nuovo
segno della tendenza già dimostrata dall'Italia di volere
stringere cordiali relazioni con tutte le Potenze europee, pure
mantenendo la sua ferma adesione alla Triplice Alleanza; tendenza
che concorreva a riaffermare la volontà, già dimostrata in altri
modi ed occasioni dall'Italia, d'imprimere sempre più a questa
alleanza un carattere pacifico. La Corte imperiale di Russia aveva
assai gradita la visita del nostro Sovrano, e sino dal tempo del
Ministero Zanardelli aveva manifestato il proposito di restituirla
solennemente. Ma in quella prima occasione le agitazioni
anticzariste del partito socialista e la minaccia di cogliere
l'occasione della venuta dello Czar per dimostrazioni ostili
contro la politica interna djel governo russo, avevano adombrata
la polizia russa a tal punto, che la visita fu sospesa.
Ricordo che quando io lasciai il Ministero Zanardelli, essendomi
recato ad una udienza di commiato presso sua Maestà, questi mi
disse scherzosamente: — Ma sa che Lei ha la virtù di cambiare la
testa alla gente? — E seguitò raccontandomi che l'ambasciatore
russo a Roma, signor Nelidoff, che era conosciuto come un
conservatore e reazionario, e che quindi aveva sempre disapprovata
la mia politica liberale, aveva manifestato il timore che il mio
allontanamento dal Ministero dell'interno creasse difficoltà per
la venuta dello Czar. Anche in questa nuova occasione, quando la
probabile venuta dello Czar in Italia divenne di dominio pubblico,
i socialisti si agitarono alquanto, e minacciarono dimostrazioni
per protesta contro la politica di reazione con cui in Russia si
erano schiacciate le agitazioni rivoluzionarie seguite alla
disgraziata guerra col Giappone.
Per tanto si convenne che la visita non avrebbe avuto un ostentato
carattere pubblico e si scelse il castello di Racconigi dove il Re
soggiornava abitualmente nella stagione autunnale, come il luogo
del ritrovo. A Racconigi Sua Maestà, oltre che me e il Ministro
degli Esteri on. Tittoni, invitò pure il Nathan, allora Sindaco di
Roma, perchè portasse allo Czar l'omaggio della Capitale. Il
Nathan, che aveva fine senso politico, e comprendeva che la
valutazione della importanza internazionale della visita doveva
stare al di sopra di qualunque altra considerazione, accolse
subito l'invito; e questo atteggiamento di un uomo rappresentativo
delle tendenze democratiche valse assai a spegnere le velleità
degli agitatori.
Si presero naturalmente eccezionali precauzioni per mettere
assolutamente fuori di dubbio la sicurezza dello Czar e del suo
seguito; alcune di queste misure, certamente le più efficaci, non
apparivano; altre, ossia un grande sfoggio di truppe, rispondeva
al costume vigente in Russia per tutti i viaggi e le visite dello
Czar, a cui anche per cortesia noi dovevamo attenerci. E la visita
infatti ebbe luogo senza che si producesse il benché menomo
incidente; e ciò, oltre alle misure prese, era certo dovuto, anche
in maggior parte, al buon senso ed alla cortesia innata del popolo
italiano, che riconosceva l'importanza politica della visita, e
sentiva altamente i doveri della ospitalità, come sempre.
Lo Czar era accompagnato dal suo ministro degli Esteri, Isvolsky e
fra lui e me e Tittoni si conclusero a Racconigi alcuni importanti
negoziati di cui già parecchi mesi addietro si erano occupate le
due Cancellerie. Per parte nostra ci assumemmo l'impegno di dare
la nostra adesione e collaborazione ad ottenere l'apertura dei
Dardanelli, e per lo meno a stabilirne la neutralizzazione. Noi ci
impegnammo per questo rispetto, qualora aderissero anche le altre
grandi Potenze; e la nostra adesione si fondava pure sulla
considerazione che se l'apertura, dei Dardanelli era sopratutto un
grande interesse russo, non cessava per questo di essere anche
interesse nostro. Per compenso la Russia s'impegnò, quando il caso
si presentasse, di riconoscere i diritti preminenti dell'Italia su
Tripoli.
Un altro argomento trattato a fondo, fu quello della comunità
d'interessi nostri e della Russia in molteplici questioni del
vicino Oriente. E furono stabiliti i seguenti punti. 1.° che
l'Italia e la Russia si sarebbero adoperate, in primissima lignea,
a mantenere l'integrità dell'Impero Ottomano; 2.° che per
qualunque eventualità che si producesse nei Balcani, le due
Potenze avrebbero sostenuta l'applicazione e lo sviluppo del
principio di nazionalità; 3.° che se l'AustriaUngheria avesse
proposto all'Italia o alla Russia la conclusione di un nuovo
accordo speciale riferentesi alle questioni orientali, quella
delle due Potenze che avesse ricevuto l'invito ad un tale accordo
l'avrebbe accettato solo nel caso che fosse egualmente assicurata
la partecipazione dell'altra.
Durante il mio soggiorno a Racconigi ebbi occasione di avvicinare
lo Czar in lunghe conversazioni; ed ebbi di lui l'impressione di
un uomo di indole molto buona e mite, ed anche di non comune
intelligenza e cultura; fra l'altro egli si mostrava molto
informato delle cose nostre e se ne interessava con sincerità
evidente; ma ebbi pure l'impressione che egli non fosse dotato di
una chiara volontà e di ferma energia. L'ambiente che lo
circondava esercitava manifestamente una decisiva influenza su di
lui; e per dare una idea che cosa fosse questo ambiente ricorderò
un piccolo episodio personale. Quando lo Czar era in partenza, io
mi trovavo, per andare alla stazione, nella stessa carrozza col
Ministro della Casa Imperiale, Friedrish, il quale mi complimentò
lungamente sul modo con cui era stato organizzato il servizio per
la sicurezza dello Czar. Ed alla fine per farmi quasi un
complimento supremo, egli uscì fuori in questa frase: — C'est
dommage que vous ne soyez pas militaire! —
Un altro avvenimento di grande importanza, sia per le sue
ripercussioni internazionali immediate, che per quelle che si
dovevano poi manifestare nell'avvenire, fu la rivoluzione
giovane-turca. Come è noto essa condusse il governo
Austro-Ungarico all'annessione della Bosnia-Erzegovina; fatto
questo che costituendo una gravissima violazione del Trattato di
Berlino, e invelenendo la questione serbo-austriaca, e quella più
vasta austro-russa, suscitò una gravisisima commozione in Europa,
tanto da fare per qualche momento temere lo scoppio della guerra.
L'Europa allora evitò la guerra solamente subendo la volontà
dell'AustriaUngheria, appoggiata apertamente dalla Germania, ed
accettando il fatto compiuto. Il Governo Imperiale di Vienna, nei
negoziati che allora corsero anche con l'Italia, fece però mia
concessione che apparve poi di notevole importanza, rinunciando
all'occupazione del Sangiaccato di Novi Bazar e ritirandone le sue
guarnigioni; rinuncia e ritiro le cui conseguenze apparvero poi
nella guerra balcanica, in quanto permisero la cooperazione degli
eserciti bulgari e serbi contro la Turchia, senza che si generasse
il pericolo di un intervento austroungarico, che avrebbe condotto
alcuni anni prima alla guerra generale europea.
Nello scambio di vedute che intercorsero in quel tempo fra il
nostro Ministro degli Esteri, on. Tittoni, e il Ministro degli
esteri austriaco Aehrenthal, noi avevamo ottenuto la formale
promessa della costituzione di una Università italiana a Trieste,
per quella difesa della italianità triestina che anche nell'ambito
dell'alleanza era stata sempre apertamente e giustificatamente nel
nostro programma, in quanto non c'era ragione che il Governo
austriaco facesse alla nazionalità italiana trattamento diverso
dalle altre. Ma quando nel principio del 1909 si doveva venire
all'attuazione, il progetto elaborato dal governo austriaco non
apparve menomamente conforme ai nostri desideri ed alle
assicurazioni date; — invece di una Università a Trieste si
pensava di istituire una facoltà giuridica italiana nella
Università di Vienna.
Il Tittoni, il quale fondandosi sulle assicurazioni date dallo
Aehrenthal, e col suo consenso, aveva alla sua volta dato
assicurazioni al Senato ed alla Camera dei Deputati, s'indignò per
questo mancamento d'impegno, protestò energicamente a Vienna,
chiedendo, a mezzo dell'ambasciatore nostro, Duca d'Avarna, che
piuttosto non si facesse niente, e che intanto si sospendesse
qualunque decisione, perchè la creazione della facoltà giuridica a
Vienna, obbligando gli studenti triestini a recarsi a vivere in un
centro essenzialmente teder sco, pareva piuttosto diretta contro
che a favore dell'italianità di Trieste.
L'Aehrenthal rispose di non poterne far nulla, pure scusandosi
privatamente, e dichiarando che questa soluzione della questione
era voluta dall'Arciduca Ferdinando, il quale, partigiano del
trialismo e dello slavismo, della italianità era stato sempre e
particolarmente nemico.
Allora il Tittoni mi scrisse proponendomi di rassegnare quale
Ministro degli Esteri, le sue dimissioni per protesta contro la
sleale condotta austriaca. Benché io partecipassi ai suoi giusti
sentimenti, non potei approvare una tale decisione. Mi trovavo a
Cavour, e fra me e Tittoni avvenne in proposito mio scambio di
telegrammi. Il Tittoni insisteva nella idea di presentare le
dimissioni, sia per dare una soddisfazione all'opinione
pubblica italiana, che traverso i giornali cominciava ad
agitarsi, sia per un monito all'Austria ed alla Germania della
difficoltà che l'Italia avrebbe a mantenersi nella alleanza,
quando fosse esposta a tale trattamento da parte di uno degli
alleati. Io gli risposi che, per quanto considerassi da ogni lato
la questione non riuscivo a persuadermi che le sue dimissioni
potessero recare giovamento sia all'estero che all'interno; e che
d'altra parte non pensavo che la questione potesse produrre vera e
profonda agitazione nel paese; pochissimi essendo stati quelli che
avevano veramente creduto alla istituzione di una Università
italiana a Trieste; io, fra gli altri, dovevo confessare di non
averci creduto.
Ora, rilevare la mancata istituzione come un'offesa così grave da
provocare le dimissioni del Ministro degli Esteri, e poi
continuare nella stessa politica di adesione alla Triplice
Alleanza, non mi pareva decoroso, e forse non sarebbe stato
nemmeno possibile. Le dimissioni, come dimostrazione di ira
impotente non avrebbero poi certamente giovato al nostro
prestigio; mentre all'interno esse dimostrerebbero che anche il
Governo considerava l'atto dell'Austria come offesa all'Italia, e
provocherebbero gravi manifestazioni. Aggiungevo che, poiché egli
stesso riconosceva l'impossibilità di mutare allora la nostra
politica estera, era evidente come non convenisse rilevare in modo
così solenne l'accaduto, tanto più che la prossimità delle
elezioni avrebbe potuto complicare maggiormente la situazione, con
conseguenze gravi, non paragonabili alla piccola pacificazione
degli animi che le dimissioni potrebberò momentaneamente produrre.
E concludendo osservavo di non ammettere assolutamente che il
contegno di un ministro austriaco potesse produrre una crisi di
governo in Italia. Ciò avrebbe potuto essere solo nel caso in cui
l'Italia volesse mutare radicalmente politica, denunciando
senz'altro la Triplice Alleanza; nel qual caso però io per primo
avrei date le dimissioni, non intendendo di assumermi la
responsabilità di esporre in quel momento il paese ad una guerra.
Esclusa la eventualità di un mutamento decisivo e sostanziale
nella nostra politica estera, le dimissioni motivate con un tale
episodio produrrebbero all'estero una pessima impressione,
mettendoci, per le nostre relazioni con l'Austria, al livello
della Serbia. E l'Italia non aveva che due vie: o non rilevare la
mancanza di riguardo dell'Austria, o andare alle ultime
conseguenze. La responsabilità di questa seconda soluzione io non
l'avrei assunta, sia perchè una guerra, qualunque ne fosse stato
l'esito militare, sarebbe riuscita allora per l'Italia un
disastro, sia perchè ci saremmo trovati affatto isoiati.
Le mie ragioni finirono per persuadere il Tittoni. e le dimissioni
non furono presentate. La condotta dell'Austria e le sue mancate
promesse produssero grande irritazione a Trieste, e raggiunsero
l'effetto opposto a quello che il Governo di Vienna si proponeva,
provocando una ripresa dell'agitazione nazionale. E siccome in
quel tempo vi erano a Trieste le elezioni municipali, nelle quali
il governo austriaco sosteneva apertamente l'elemento slavo, io, a
mezzo di Ernesto Nathan, aiutai con fondi gli italiani nella
lotta, che risultò in una loro grande vittoria.
Un ultimo l'atto di carattere internazionale, pure concernente i
Balcani, che si compiè durante quel mio Ministero, fu l'accordo
con gruppi francesi, russi e serbi per una ferrovia Adriatico-Mar
Nero, che veniva a contrapporsi a quella di iniziativa
austrotedesca per Salonicco.
Sino dalla metà del mese di marzo 1908, in seguito a concerti
intervenuti col Governo serbo, il quale già aveva avviati
opportuni negoziati, la Compagnia Ottomana della ferrovia che
congiunge Salonicco a Costantinopoli, appoggiata dalla Banca
Imperiale Ottomana di cui era una filiazione, aveva presentato al
Ministro dei lavori Pubblici dell'Impero Ottomano, domanda di
concessione per una linea di strada ferrata DanubioAdriatico. Tale
domanda faceva appunto seguito alla concessione accordata dalla
Sublime Porta a un gruppo di altri cospicui interessi collegati a
un tronco di strada ferrata inteso a congiungere Uvacz con
Mitrovitza, e quindi a rendere più. brevi e più rapide le
comunicazioni della Monarchia austriaca e dell'Impero germanico
col Mare Egeo, guardando a Suez e all'Oriente.
Data l'importanza economica e politica di un'altra linea destinata
invece a congiungere ferroviariamente il Danubio con
l'Adriatico, attraverso la Serbia, il Vilajet di Kossovo e
l'Albania, partendo da Turn-Severin e mettendo capo su quel mare
di fronte a Bari, noi vedemmo la necessità che l'Italia non
rimanesse estranea all'impresa per la quale il gruppo francese
della Banca Imperiale Ottomana aveva già chiesta la concessione, e
che anzi l'Italia vi prendesse parte efficacemente, ed operammo
con ogni energia in tal senso.
Stabilito tale criterio l'on. Tittoni invitò il Direttore della
Banca d'Italia a considerare sollecitamente, nell'interesse del
paese, la possibilità di raccogliere fra noi i capitali
occorrenti,a una partecipazione notevole nella accennata impresa,
e la convenienza di avviare, frattanto, trattative — appoggiate
diplomaticamente; — per giungere a un sollecito accordo col gruppo
francese della Banca Imperiale Ottomana, allo scopo di assicurare
all'Italia la partecipazione medesima.
L'intervento della Banca d'Italia essendo stato gradito dal
Governo francese e dalla detta Banca Imperiale Ottomana, furono
spinti alacremente a Parigi i negoziati, i quali condussero poi
non solamente ad un'intesa fra i due Istituti, ma ad un atto di
carattere internazionale, colla data del 5 giugno, al quale
parteciparono, oltre i francesi, i rappresentanti di un gruppo
serbo e di un gruppo russo, per la costituzione di un'impresa di
nazionalità ottomana, avente per iscopo: la costruzione e
l'esercizio di una strada ferrata dal confine serbo occidentale a
San Giovanni di Medua sull'Adriatico o in un punto più a nord su
territorio ottomano; e la costruzione e l'esercizio di un porto
alla testa della linea ferroviaria sull'Adriatico.
Per le intelligenze passate a Roma e a Parigi, il gruppo italiano
si doveva formare e costituire sotto gli auspici della Banca
d'Italia, che ne doveva prendere la direzione e rappresentarlo con
gli opportuni poteri, allo scopo di dare una impronta di
nazionalità al gruppo medesimo e di conservarne l'unità di
indirizzo e d'azione.
Secondo gli accordi sottoscritti a Parigi il giorno 5 giugno 1908,
l'impresa complessiva doveva essere distinta in due rami, con due
Società diversamente composte, sebbene formate coi medesimi
elementi: l'una per la strada ferrata e l'altra per il porto,
avvertendo che, secondo i tecnici della Banca Imperiale Ottomana,
la somma complessiva di costruzione non dovrebbe presumibilmente
eccedere i ses>santa milioni, ma che, col porto, si sarebbe
potuta calcolare in una cifra non superiore a 65 milioni.
Per quanto concerne la strada ferrata, le partecipazioni furono
così fissate: gruppo francese 45 per cento; italiano 35 per cento;
russo 15 per cento; serbo 5 per cento.
Il Consiglio d'Amministrazione della Società ferroviaria si doveva
comporre di dodici membri, dei quali, cinque in rappresentanza
idei .gruppo francese, quattro dell'italiano, due del russo ed uno
del gruppo serbo.
Per quanto concerne il porto, non si era fissata la distribuzione
delle parti, ma si era già formalmente stabilito che l'Italia
doveva avere non meno del 50 per cento così nella partecipazione
al capitale come nella composizione del Consiglio
d'Amministrazione. La Banca d'Italia, con accordo riservato, si
era poi assicurata che la parte italiana arrivasse al 55 %.
Con atto riservato, fra la Banca Imperiale Ottomana e la Banca
d'Italia si era poi convenuto che il presidente della Società
ferroviaria fosse un francese e presidente della Società del porto
un italiano, e che i vice presidenti fossero reciprocamente,
italiano e francese.
La costruzione della linea di strada ferrata rimaneva assegnata al
gruppo francese, il quale si era obbligato di far aegua parte
nella costruzione medesima al solo gruppo italiano; la costruzione
del porto era riservata al gruppo italiano che, per reciprocità,
doveva fare aequa parte al gruppo francese.
La Società Ottomana Jonction Salonique-Constantinople, che aveva
già chiesta la concessione della nuova linea di strada ferrata, si
assumeva di chiedere anche la concessione del porto da costruire
sul mare Adriatico, ed essa continuava i negoziati presso il
Governo ottomano, sotto gli auspici della Banca Imperiale
Ottomana, e con l'appoggio dei gruppi che col protocollo del 5
giugno 1908 si erano assunti l'impresa, vale a dire, con l'ausilio
dell'azione diplomatica dei quattro Governi. La Banca Imperiale
Ottomana si era pure impegnata a consultare i gruppi associati su
tutte le questioni importanti riguardanti sia la strada ferrata,
sia il porto, in relazione ai negoziati a Costantinopoli, sino
alla determinazione delle condizioni essenziali della concessione
e al suo conseguimento.
Prima fra le accennate condizioni essenziali, senza della quale
non si sarebbe costituita la Società Danubio-Adriatico e non
avrebbe avuto seguito l'impresa, era quella della garanzia dei
capitali che dovevano essere impegnati nell'impresa stessa.
L'ammontare la natura e la formula delle necessarie guarentigie
dovevano essere determinate d'accordo con la Banca Imperiale
Ottomana. A tale riguardò, nei convegni di Parigi, furono
scambiate talune idee circa il fond'amento finanziario di siffatte
guarentigie sulla base di informazioni attinte dagli uomini
competenti della Banca Imperiale Ottomana; ma era evidente che il
conseguimento di una garanzia valida e ferma, quale era necessaria
per affrontare le spese delle costruzioni e dell'esercizio delle
due imprese, dipendeva, oltre che dal buon volere della Turchia,
dal consenso delle grandi Potenze.
I dirigenti della Banca Imperiale Ottomana si erano impegnati a
fare in modo che il delegato italiano nel Consiglio del debito
pubblico ottomano fosse tenuto al corrente di tutte le questioni
importanti relative ai negoziati che fossero condotti a
Costantinopoli per assicurare il buon successo della concessione.
Così il nostro gruppo era in condizione di seguire i negoziati e
misurarne le conseguenze.
Secondo le idee scambiate a Parigi il capitale occorrente alla
costruzione della strada ferrata e del porto doveva essere
raccolto mediante la emissione di azioni e di obbligazioni,
serbando la proporzione di un quarto, o anche meno, per le azioni
e il resto per le obbligazioni opportunamente garantite.
Le azioni dovevano essere sindacate per un periodo di cinque anni,
salvo il rinnovo della sindacazione, se le parti contraenti lo
ritenevano necessario. Il Governo italiano, per suo conto,
riteneva conveniente che non si limitasse a cinque anni l'impegno
per le azioni del gruppo italiano, essendosi dichiarato disposto
ad agevolare il gruppo assuntore degli impegni con opportuni
accordi da stabilirsi fra il gruppo medesimo e gli Istituti di
emissione, segnatamente per quanto concerneva operazioni di
anticipazione sulle obbligazioni da (emettersi, le quali avrebbero
potuto eventualmente essere considerate come titoli di Stato
forestieri.
Nel principio del 1909 il governo dovette prendere in esame la
questione delle elezioni politiche, che dovevano essere tenute
entro l'anno, perchè la Camera aveva avuto lunga vita e col 13
dicembre di quell'anno scadeva il suo termine normale. Si trattava
di considerare quale fosse, nei mesi che ancora ci separavano da
quella scadenza, l'epoca più opportuna per convocare i comizi
elettorali. Due considerazioni s'imponevano immediatamente: la
prima era che la lotta elettorale, nell'approssimarsi di quel
termine, era di già cominciata di per se stessa in parecchie
provincie, e che tale lotta, protraendosi troppo a lungo avrebbe
recato danno alla vita normale del paese; la seconda era che lo
stato attuale dei lavori parlamentari non lasciava spierare che si
potesse ultimare la discussione dei bilanci nei due rami del
Parlamento prima delle ferie pasquali, con la conseguenza che lo
scioglimento della Camera dei Deputati dopo tale periodo avrebbe
condotto di necessità all'esercizio provvisorio dei bilanci; ciò
che io ritengo si debba cercare sempre di evitare. Se invece si
convocavano i comizi elettorali entro il mese di marzo, si poteva
avere la regolare costituzione della Camera prima delle ferie
pasquali, con tempo sufficiente nei mesi seguenti per un'ampia
discussione dei bilanci, che avrebbe acquistata maggiore
importanza, perchè fatta da una Camera appena eletta dai suffragi
del paese, e che si doveva ritenere ne rispecchiasse più
direttamente la volontà e le inclinazioni.
Per queste considerazioni il Ministero propose lo scioglimento
della Camera dei Deputati, e la convocazione dei Comizi elettorali
pel 7 e pel 14 marzo.
La legislatura che così si chiudeva aveva corrisposto pienamente
al programma con cui era stata convocata, ed in quasi tutte le
parti della nostra legislazione aveva condotto a termine riforme
di importanza notevolissima.
In esecuzione del programma esposto dal Governo prima delle ultime
elezioni generali, si era avocato allo Stato l'esercizio delle
principali reti delle strade ferrate, comprendenti tredicimila
duecento chilometri che erano esercitati da Società private,
rendendo lo Stato proprietario di tutte quelle reti mediante il
riscatto delle Ferrovie meridionali, e votando poi con due leggi
successive una spesa di 910 milioni per dare assetto regolare alle
ferrovie delle quali lo Stato aveva assunto l'esercizio.
Del migliore assetto derivante da quei provvedimenti si erano
quasi subito veduti i benefici effetti, essendosi riusciti a far
fronte ad un aumento di traffico che superò tutte le
previsioni.
Nel campo finanziario oltre la conversione della rendita, altri
importanti provvedimenti furono: la riduzione a metà della tassa
sul petrolio e una ulteriore riduzione della stessa tassa già
assicurata a breve scadenza per effetto del trattato di commercio
con la Russia; la riduzione della tariffa postale; l'avocazione
allo Stato di molte spese che gravavano le provincie ed i comuni;
il riscatto delle linee telefoniche prima esercitate dalla
industria privata; le leggi sugli Istituti di emissione con la
riduzione delle tasse di bollo sulle cambiali e della tassa sulle
anticipazioni.
Le opere pubbliche, le quali così potentemente aiutano lo sviluppo
della ricchezza pubblica ebbero un grande impulso: con la legge 12
luglio 1906 che ordinò la costruzione delle ferrovie complementari
della Sicilia; con le leggi che ordinarono la costruzione di
ferrovie e di molte altre opere pubbliche nella Basilicata e nella
Calabria; con la legge 14 luglio 1907 per nuove opere portuali,
che fu la più completa legge votata dal Parlamento
italiano in tale argomento; con la legge 12
luglio 1908 che ordinò la costruzione di nuove ferrovie per la
spesa prevista di 600 milioni.
Le riforme organiche nei pubblici servizi avevano avuta pure larga
parte nell'opera legislativa: basti ricordare le modificazioni
all'ordinamento giudiziario; la legge sulle guarentigie e sulla
disciplina della magistratura; quella che riordinò le cancellerie
e segreterie giudiziarie; il riordinamento della giustizia
amministrativa; la legge sullo stato giuridico degli impiegati
civili; la legge per l'incremento dell'insegnamento elementare; il
disegno di legge sui professori universitari presentato alla
Camera; la legge che riordinò i servizi delle belle arti; il
disegno di legge sulla tutela del patrimonio artistico; le
numerose leggi che provvidero al riordinamento dei vari seivizi
della marina militare, in parte precedendo in parte secondando le
proposte della Commissione parlamentarfe d'inchiesta; la nuova
legge sul reclutamento dell'esercito, e quella che stanziò i fondi
per spese straordinarie militari per la difesa dello Stato.
Per quanto riguarda l'ordinamento dell'esercito era stata, con
legge proposta dal Governo, ordinata una inchiesta la quale,
affidata ad autorevolissima Commissione, aveva già compiuto un
primo periodo di lavori e fatte delle proposte che in parte erano
state già approvate pfer legge e in altra parte dovevano dare
luogo a nuove proposte legislative.
Più intensa ancora era stata l'opera di questa legislatura nel
campo delle riforme sociali. Con importanti leggi organiche si era
assicurato a tutti i lavoratori il riposo domenicale; si era
provvisto a rendere più sicura e feconda la cassa per la vecchiaia
e l'invalidità degli op'erai; si era abolito il lavoro notturno
nella fabbricazione del pane; si erano migliorate le leggi sul
lavoro delle donne e dei fanciulli; si erana concesse con due
leggi successive grandi facilitazioni e sussidi per la costruzione
delle case popolari; si era provveduto a rendere più pronta e più
facile la riabilitazione dei condannati che ne fossero degni: si
era facilitata la concessione di mutui di favore della Cassa
depositi e prestiti ai Comuni per acquedotti ed altre opere
igieniche; si era presentato un disegno di legge per risolvere la
gravissima questione dell'infanzia abbandonata.
Infine nel corso di quella legislatura si era votata tutta una
serie di leggi dirette a provvedere a speciali necessità di alcune
parti del Regno. Meritano particolare ricordo la legge 15 luglio
1906 di provvedimenti per le provincie meridionali, la Sicilia e
la Sardegna; la legge per la Calabria del 25 giugno 1906; la legge
9 luglio 1908 per la Basilicata e la Calabria; la legge per Roma
dell'11 luglio 1907; la legge portante l'esenzione da imposta
delle case dei contadini nelle provincie meridionali, in Sicilia e
in Sardegna; i provvedimenti per l'industria zolfifera e per il
commèrcio degli agrumi e loro derivati; la legge per i danneggiati
dalle eruzioni del Vesuvio; e finalmente quella votata con
mirabile e unanime slancio di fratellanza dalla Camera e dal
Senato per i primi provvedimenti a favore dei danneggiati dal
terremoto del 28 dicembre 1908.
Il complesso di quei provvedimenti, rispondeva ad una politica di
pace, di libertà, di lavoro, di giustizia sociale, che io ritenevo
dovesse continuare con sempre crescente fermezza ed energia, se si
voleva che il nostro paese si avvicinasse rapidamente a quell'alta
mèta che fu ed è l'ideale di quanti amano l'Italia. Che questo
ideale si potesse raggiungere perseverando nella via seguita lo
dimostrava in modo evidente il grande progresso compiuto
dall'Italia in quegli ultimi anni.
Il programma col quale il governo convocava ora i comizi
elettorali perchè giudicassero l'opera sua, e ad un tempo
indicassero le vie da seguirsi nell'avvenire, era, ed altro non
poteva essere, che la continuazione del programma già esplicato.
Nel mio pensiero si doveva continuare nell'opera di costruzione
economica, collegata a giustizia sociale, che già tanti frutti
aveva dati, e per la quale soltanto l'Italia poteva sperare di
compiere tutto il ciclo di progresso materiale e morale a cui era
destinata per le mirabili qualità del suo popolo, intelligente e
laborioso. Quindi nella relazione con cui avevo proposto al Re la
convocazione dei Comizi elettorali, io richiamava fra l'altro e
particolarmente l'attenzione alla necessità di intensificare in
tutte le classi sociali l'istruzione tecnica, dalla quale dipende
in gran parte il progresso delle industrie e della cultura
artistica applicata alle industrie, nella quale l'Italia,
con le sue tradizioni e con le squisite attitudini dei suoi
lavoratori, avrebbe dovuto conquistarsi un vero primato.
Un altro punto su cui richiamavo l'attenzione era il problema
della sapiente utilizzazione delle forze idrauliche, di cui il
nostro paese è così riccamente dotato, quasi a compenso della sua
povertà di carbone. A tale proposito io avevo già presentato ,al
Senato un disegno di legge, che avrebbe dovuto essere discusso
dalla nuova legislatura, ricollegando anche alla soluzione di quel
problema quello del rimboschimento dei nostri monti e della
sistemazione idraulica dei nostri fiumi. L'Italia ormai, superate
le lotte per le pubbliche libertà, e superate pure le difficoltà
finanziarie che per lungo tempo ne avevano inceppato lo sviluppo,
si avviava rapidamente a raggiungere il livello di civiltà di
paesi più ricchi e fortunati, cancellando le ultime traccie di
quella inferiorità di cui aveva sofferto non per deficienze
intrinseche del suo popolo, ma per eredità di avvenimenti
sfortunati. Il rapido progresso compiuto negli ultimi anni
dimostrava che eravamo sulla buona via e che sarebbe stato errore
gravissimo l'abbandonarla per mettersi in una politica di
avventure e di precipitate riforme nella parte vitale dei nostri
ordinamenti.
E che tale fosse il pensiero ed il sentimento profondo del nostro
popolo, lo mostrarono nuovamente i risultati di quelle elezioni,
riconfermando la fiducia nel programma da parecchi anni già
esplicato.
La nuova legislatura dovette subito affrontare un problema di
grande importanza, e cioè quello dei servizi marittimi, che erano
esercitati in modo da non corrispondere più agli aumentati bisogni
ed alla capacità di espansione del paese; nello stesso modo che
non aveva più corrisposto a questi bisogni, nei trasporti di
terra, il regime ferroviario delle società concessionarie. Questi
servizi erano allora in buona parte esercitati dalla Navigazione
Generale, la quale preferendo di mantenere la navigazione libera,
rifiutò di intervenire ad accordi per il nuovo progetto di
convenzioni marittime e di assumere i servizi. Il rifiuto della
Navigazione Generale, che aveva un quasi monopolio dei mezzi e
delle competenze, ci creò gravi difficoltà, ed io pensai di
rispondere a questa specie di boicottaggio organizzando un'altra
società abbastanza potente, che potesse dare un impulso molto
energico alla nostra marina mercantile. Per raggiungere tale scopo
era necessario mettere alla testa di questo servizio una persona
di competenza eccezionale e che godesse inoltre di largo credito.
Da prima io rivolsi la mia attenzione alla Società Adriatica, che
aveva appunto cessato dall'esercizio delle ferrovie, e che aveva
molto capitale e godeva di molto credito nel mondo finanziario,
per persuaderla a trasformarsi in una grande società di trasporti
marittimi; ma il suo direttore, il Borgnini, che era uomo di molto
valore, non si sentì, essendo
avanzato negli anni, di mettersi in una impresa per lui
affatto nuova; e così questo proposito venne a mancare.
Allora il Governo si rivolse al Senatore Piaggio, conosciuto come
una delle persone più competenti in materia marinara, e che godeva
pure di largo credito finanziario. Il Piaggio accettò la proposta,
e dopo lunghe discussioni col Ministro competente, ono1revole
Schanzer, si addivenne alla conclusione di una convenzione che fu
subito presentata alla Camera per l'approvazione. Il progetto, che
pure dopo il suo abbandono fu riconosciuto dai competenti come
tecnicamente ottimo, e il più completo e il più utile al commercio
marittimo fra quanti se ne erano escogitati e prima e dopo,
provocò una violentissima opr posizione che ebbe pure una forte
ripercussione nel Parlamento. Questa opposizione tentò di
sollevare contro il progetto la deputazione meridionale e
sopratuttó siciliana, avanzando l'argomento che esso non tenesse
abbastanza conto degli interessi dei porti meridionali, mentre in
realtà esso provvedeva pure alla costituzione di una sede a
Palermo. E siccome si muoveva al Governo l'accusa di avere fatte
troppe larghe condizioni alla società concessionaria, il Senatore
Piaggio, con lettera a me diretta, dichiarò di rinunciare al
contratto già concluso, consentendo che si addivenisse ad un'asta
pubblica. Tale offerta, che metteva fuori dubbio l'assoluta
coi*rettezza delle parti impegnate, fu accettata, e si stabilì di
fare le aste, rimandando all'autunno la ripresa della discussione.
Io però ormai mi ero persuaso che l'opposizione al progetto era
talmente forte, che difficilmente si sarebbe riusciti ad una
conclusione. E non trovando ragionevole che la condotta del
governo dovesse essere giudicata in un problema di carattere
essenzialmente tecnico e nella quale l'opposizione nasceva da
interessi speciali, pensai di spostare la questione su un campo
essenzialmente politico. E così, alla riapertura della Camera,
seguendo un mio indirizzo ripetutamente affermato, presentai un
disegno di legge, il quale per una parte, in rispondenza allo
spirito del programma con cui il Governo si era presentato alle
elezioni, diminuiva l'imposta sullo zucchero allo scopo di
aumentare il consumo di un alimento di carattere popolare e di
giovare nello stesso tempo alle finanze; per l'altra conteneva un
progetto d'imposta progressiva globale sui redditi di ricchezza
mobile, terreni e fabbricati. Il progetto sollevò l'opposizione di
tutto il conservatorismo italiano, il quale, se nel campo politico
aveva ormai battuto in definitiva ritirata, difendeva ancora
energicamente le sue posizioni economiche. La discussione agli
Uffici si dimostrò subito poco favorevole, e la Commissione che ne
fu eletta risultò in grande maggioranza ostile. Allora — era il
dicembre del 1909 — il Governo da me presieduto rassegnò le sue
dimissioni.
Siccome l'opposizione si era manifestata alla Camera in senso
conservatore, fu indicato per la formazione del nuovo Ministero
l'on. Sonnino, il quale assunse il Governo l'11 dicembre,
prendendo seco agli Esteri il Guicciardini; alla Grazia e
Giustizia il Senatore Scialoja; al Tesoro l'on. Salandra; alla
Istruzione il Daneo; ai Lavori Pubblici il Rubini e l'on. Luzzatti
all'Agricoltura. Il Ministero così formato, per gli uomini che vi
partecipavano, rispondeva alla crisi da cui era originato; era
insomma il Ministero più conservatore che si potesse mettere
assieme nel Parlamento italiano, pure considerando che le tendenze
conservatrici dei suoi componenti avevano subito negli ultimi anni
profonde modificazioni, attenuandosi, sopra tutto dal punto di
vista politico e per le direttive generali, assai notevolmente.
Il Ministero Sonnino dovette subito affrontare esso pure il
problema delle Convenzioni marittime; e propose una Convenzione in
forma assai ridotta, allo scopo evidente di evitare molte delle
opposizioni che il progetto da me presentato aveva suscitate. Ma
tale scopo non fu raggiunto che in parte; l'opposizione,
quantunque in alcuni punti attenuata, si manifestò tuttavia anche
questa volta forte assai. Io arrivai a Roma prima che fosse
iniziata la discussione parlamentare; ed esaminando la situazione
mi persuasi che le persistenti opposizioni si sarebbero
potute vincere con alcune
modificazioni. Pertanto a mezzo del Bertolini, pregai
il Sonnino di rinviare la discussione dopo Pasqua, per guadagnare
tempo ed escogitare i modi per disarmare almeno parte degli
oppositori. Il Sonnino non accettò questo consiglio, credendo
necessario di affrontare la discussione immediatamente; ma
l'opposizione si manifestò subito così vivace ed energica che egli
non insistè nemmeno per la votazione, ed il 31 marzo presentò le
dimissioni.
Così per la seconda volta l'on. Sonnino aveva presa la direzione
del Governo, senza riuscire a superare le prime difficoltà che si
parano avanti inesorabilmente a chiunque si assuma questa suprema
responsabilità della vita politica; e questo non ostante il grande
rispetto e l'estimazione di cui godeva nel mondo politico e
parlamentare per le qualità del suo carattere, del suo ingegno e
della sua cultura, e per la sua lunga preparazione.
Questo suo insuccesso, che non fu mai scompagnato dalla più
rispettabile dignità, può servire a dimostrare quanto varie e
complesse sieno le qualità che si richiedono per l'esercizio del
governo, e come la mancanza di una sola possa infirmare tutte le
altre.
L'on. Sonnino, datosi tutto sino dalla gioventù alla vita
politica, ed entrato ancora giovanissimo nel Parlamento, e dotato
pure di grande volontà e serissima capacità di lavoro, si era
fatta una preparazione di dottrina e di cultura nei diversi rami
della amministrazione dello Stato, quale non hanno neppure
lontanamente avuta altri più fortunati di lui. Ma se egli
conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente
gli uomini, la cui cooperazione, volontaria o renitente, diretta o
indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei
regimi democratici e rappresentativi. Sempre un po' isolato ed
appartato anche in mezzo ai suoi amici, si è tanto più trovato a
disagio nelle assemblee, che vogliono essere dominate, ma a mezzo
di una sagace persuasione che tenga conto di tutti i loro umori, e
che sappia volgerli ai propri fini. E gli è mancato pure il
sentimento che i problemi politici, pure rimanendo sempre gli
stessi nel loro nocciolo, sono essenzialmente mutevoli nei loro
rapporti con le condizioni e le circostanze fra le quali vengono
affrontati. Ad ogni modo le sue migliori qualità egli le spiegò
quando ebbe dei compiti di carattere strettamente tecnico e nei
quali la sostanza prevale necessariamente sulla forma, specie come
ministro del Tesoro; nel quale compito, in un momento difficile
delle nostre finanze, quella sua stessa rigidezza e inflessibilità
che in altre materie e circostanze poteva apparire irragionevole,
servì a proteggere il bilancio dello Stato.
FINE DEL VOLUME PRIMO.
Il Ministero Luzzati; perchè cadde—La necessità di un più ampio suffragio — Il mio programma e il nuovo invito ai socialisti — Manovre contro il monopolio e il suffragio universale — L'opposizione diplomatica al monopolio — La guerra di Libia — Perchè avevo anteposto il progresso economico a quello politico delle classi popolari — La partecipazione delle classi popolari alla vita politica, ed il rafforzamento politico e l'incremento economico dello Stato — Come fu congegnato il mio progetto di riforma — La lotta mascherata contro di esso — I risultati del primo esperimento.
Per la formazione del nuovo Ministero le indicazioni parlamentari
furono largamente favorevoli all'on. Luzzatti, il quale già da
lunghi anni si era
guadagnata meritatamente un'alta fama per la
sua
grande e geniale cultura, e per la sua eccezionale
competenza
in materia economica e finanziaria; competenza esperimentata
ripetutamente nei vari dicasteri
tecnici ed alle Finanze e al
Tesoro particolarmente.
Quantunque egli traesse le sue origini
dall'antica Destra, il suo ingegno agile e pieghevole aveva
seguito
il movimento dei tempi; ed egli potè benissimo presiedere
un Ministero di spiccato carattere di Sinistra, al quale
parteciparono San Giuliano agli Esteri;
Fani alla Giustizia;
Facta alle Finanze; Tedesco al
Tesoro; Spingardi alla Guerra, e
due radicali, Sacchi e Credaro, ai Lavori Pubblici ed alla
Istruzione.
Il suo Ministero ebbe la durata di circa un anno, dal marzo del
1910 al marzo del 1911. Per prima cosa risolse la questione dei
servizi marittimi, che si era trascinata ormai troppo a lungo per
le opposizioni incontrate dal progetto mio e da quello
dell'onorevole Sonnino; opposizioni che furono, piuttosto che
vinte, girate ed evitate mediante un progetto assai più modesto e
la costituzione di una piccola Società che non dava troppa ombra
ai concorrenti della marina libera.
Le incertezze della condotta dell'onorevole Luzzatti si
manifestarono nel campo politico, e propriamente a proposito del
progetto dell'allargamento del suffragio, che era contenuto nei
suo programma. Si trattava di una riforma mantenuta in modesti
limiti, che tuttavia allarmò certi elementi conservatori i quali,
pure non combattendola direttamente, chiedevano che l'allargamento
del suffragio fosse accompagnato dal principio della
obbligatorietà del voto. Codesta richiesta dei conservatori, per
l'introduzione nella legislazione elettorale del nostro paese di
una norma che non è stata sperimentata ed adottata che in qualche
piccolo Stato, era un curioso segno delle condizioni politiche
delle classi che pretendevano di mantenere la posizione di classi
dirigenti, e per le quali i loro stessi capi eran costretti,
appunto con quella richiesta del voto obbligatorio, a riconoscere
la necessità che il loro diritto di voto fosse trasmutato in un
dovere, per assicurarne l'esercizio.
La richiesta era una vera confessione di debolezza; e non fu
quindi meraviglia che i socialisti, i radicali e gli altri
avversari del conservatorismo, si opponessero risolutamente
all'introduzione del voto obbligatorio nella riforma elettorale
annunciata nel programma del governo. Questo contrasto generò una
certa agitazione parlamentare, tanto più che il capo del governo,
nei contatti che aveva coi rappresentanti delle sue tendenze, non
si risolveva a dichiarare apertamente le proprie intenzioni, tanto
che sia i fautori che gli avversari del voto obbligatorio,
credevano egualmente di potere contare che il governo avrebbe
accettato il loro punto di vista. Era stata nominata una
commissione parlamentare per studiare il progetto di legge; ed
essa pure, riflettendo codeste incertezze, conduceva le cose per
le lunghe.
Si venne ad una discussione, allo scopo di stabilire la procedura
per l'approvazione della legge; ed io, prendendo in quella
discussione la parola, sostenni la tesi che, poiché si entrava
nella questione della riforma elettorale, tante volte agitata,
fosse conveniente, data la grande importanza della cosa, di
prendere in considerazione una riforma più ampia e radicale.
Osservai che, dopo vent'anni dall'ultima riforma elettorale, una
grande rivoluzione sociale si era compiuta pacificamente in
Italia, che aveva condotto ad un notevole progresso delle
condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi
popolari; progresso al quale corrispondeva indubbiamente il
diritto ad una più diretta partecipazione alla vita politica del
paese.
Non era, a mio avviso, il caso di decidere se si dovesse o no dare
facoltà agli ispettori scolastici di creare qualche nuovo
elettore; il problema, quale era ormai posto davanti alla Camera
ed al paese, doveva essere risolto con criteri molto più larghi.
L'esame sulla capacità di maneggiare le ventiquattro lettere
dell'alfabeto quanto fosse necessario per scrivere il nome di un
candidato sulla scheda, non poteva ormai più essere il criterio
per stabilire se un uomo avesse le attitudini per giudicare delle
grandi questioni che interessano le masse popolari; bisognava
vedere di trovare altri criteri molto più larghi.
Passando poi dal merito della questione alla procedura, osservai
che in fatto di leggi elettorali non si poteva procedere per
acconti. Quando si affronta il più grave dei problemi che il
Parlamento possa affrontare, si ha il dovere di risolverlo a
fondo. Una soluzione incerta e parziale del problema elettorale
non avrebbe soddisfatti i partiti popolari, lasciando il campo
aperto a nuove e continue agitazioni. Osservai inoltre che la
questione non era tutta contenuta nel semplice allargamento del
suffragio e che si dovevano pure considerare numerosi problemi
collaterali. E siccome la discussione era stata provocata da una
mossa fatta da alcuni deputati contro la Commissione incaricata di
studiare e riferire sulla riforma, e che veniva accusata di
dilazioni e tergiversazioni, io conclusi richiamando l'attenzione
al fatto che un voto che avesse provocato le dimissioni della
Commissione sarebbe stato causa di nuovi ritardi, e dichiarai che
avrei votato qualunque ordine del giorno, il quale, senza suonare
sfiducia verso la Commissione, incitasse ad uno studio più largo e
più rapido ad un tempo, per presentare al Parlamento proposte
concrete per la soluzione del problema.
Il mio discorso, che ottenne presso a che generali approvazioni
anche da parte dei banchi socialisti, non aveva alcuna intenzione
di opposizione; esso mirava semplicemente ad avviare praticamente
questa discussione sulla riforma della legge elettorale, che fino
allora era rimasta sospesa e che non pochi speravano di soffocare
tacitamente. Anche il voto a cui si venne non toccava il merito
della questione, e tanto meno colpiva il Ministero, così che io
lasciando l'aula non pensavo affatto che si potesse venire ad una
crisi.
Il Ministero invece la sera stessa decideva di presentare le
dimissioni; non tanto per effetto diretto del voto parlamentare,
quanto per la sua ripercussione in quei gruppi i quali si erano
illusi che il Ministero favorisse segretamente i loro disegni nel
contenere la riforma elettorale entro limiti ristretti e
nell'attenuarla con l'adozione del voto obbligatorio, inteso nel
loro pensiero a controbilanciare il modesto allargamento del
suffragio con l'obbligare gli elettori borghesi pigri ad uscire
dal loro astensionismo con la minaccia di multe e pene più noiose
che il semplice sforzo di recarsi alle urne il giorno delle
elezioni.
L'on. Luzzatti, reggendo per un anno la Presidenza dal Consiglio e
il Ministero degli Interni, dette nuova
prova delle sue capacità e competenze tecniche già ben
conosciute; e se dal lato politico la sua condotta non riuscì
ugualmente e interamente soddisfacente, ciò fu dovuto sopratutto
alla sua cordialità naturale, per la quale non opponeva sempre la
necessaria resistenza alle domande e pressioni da cui il governo è
sempre inevitabilmente circondato. Se l'on. Sonnino, come capo del
governo, peccava piuttosto nel non tenere sufficiente conto degli
uomini e delle loro passioni ed interessi, che non vanno
trascurati mai, non per ubbidire ad essi ma per sorvegliarli e
dominarli volgendoli ai propri fini: l'onorevole Luzzatti peccò
forse dal lato opposto, preoccupandosi troppo degli uomini, delle
loro ostilità e dei loro possibili intrighi. Certo il ragionevole
ed opportuno maneggio degli uomini, che è naturalmente un problema
perpetuo in qualunque regime, presenta le maggiori complicazioni e
difficoltà nei regimi parlamentari e democratici, per la loro
stessa indole; ed ha spesso costituito lo scoglio contro cui si
sono andate a infrangere capacità politiche e parlamentari per
ogni altro rispetto assai promettenti. La mia esperienza però mi
ha persuaso che anche in queste situazioni pubbliche, ciò che
serve meglio ed involve in minori compromissioni e difficoltà, è
sempre, come nella vita privata, la piena franchezza.
Un pericolo da evitarsi particolarmente, è quello delle troppe
promesse, quando non si abbia la sicurezza di mantenerle. Per
conto mio me ne sono sempre astenuto, limitandomi per
qualunque richiesta che
ricevessi, di impegnarmi semplicemente ad esaminarla; e siccome
quelli che hanno ricevuto o si immaginano di avere ricevuto
promesse da un governo, tentano specialmente di farne la
riscossione presso i successori, così io, ogni volta che ho
lasciato il governo, mi sono sempre dato cura di avvertire il mio
successore che, se qualcuno si presentava esigendo l'adempimento
di una promessa da me fatta, egli era autorizzato di smentirla
senz'altro a mio nome.
Certo molti ritengono che in regime democratico sia difficile non
fare promesse; ma costoro dovrebbero tenere presente che anche più
diffìcile è mantenerle. Quelli poi che pensano che fare una
promessa non significa mantenerla, mentre con questo si credono i
più furbi, in realtà sono i più ingenui; perchè alla conclusione,
colui che semina promesse in tale modo e con tale intenzione, non
si accorge che con quel sistema fa un assai magro affare, e cioè
di guadagnare gli amici al minuto per poi perderli all'ingrosso.
Un avvenimento notevole del Ministero Luzzatti fu la celebrazione
del cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale
d'Italia; avvenimento che fu celebrato con molta solennità,
specialmente con le due grandi esposizioni di Roma e di Torino. Il
merito dell'ordinamento di queste cerimonie e delle due
esposizioni fu interamente del suo Ministero; e l'onorevole
Luzzatti potè presiedere ancora come Presidente del Consiglio,
all'inaugurazione di quella di Roma alla quale io assistetti come
semplice deputato, avendo avuto solo il giorno precedente
l'incarico di costituire il nuovo Ministero. Inaugurai poi io
quella di Torino.
Non è fuori di luogo, in connessione a
questa cerimonia, ricordare ciò che dai Ministeri da
me presieduti era già stato fatto a favore della capitale.
Già nel 1890, essendo Ministro del Tesoro, io avevo insieme con
Crispi proposta la legge che pose a carico dello Stato l'onere che
sarebbe spettato al Comune per gli ospedali e per l'assistenza dei
malati poveri. Anche di quel tempo fu una legge, da! me proposta,
per l'erezione in Roma del monumento a Mazzini di cui è stata
posta la prima pietra in questi giorni. Nel 1904 feci approvare la
legge che approvava l'acquisto di Villa Borghese, e la donava alla
città di Roma con l'obbligo di riunirla al Pincio; e fra il 1907 e
il 1908 feci approvare la legge per le aree fabbricabili, intesa
a mettere fine ad una esosa speculazione che ostacolava
l'incremento edilizio della città, reso necessario dall'aumento
continuo della popolazione; quella per la costruzione
di un grande viale da Roma ad Ostia, per soddisfare un antico voto
di congiungere Roma al mare nel suo punto più vicino; quella per
la passeggiata archeologica e per le Terme di Diocleziano, che
dovevano rimettere alla luce tanti antichi monumenti e memorie
dell'antica Roma, ed aumentare l'interesse della città come centro
archeologico, ed infine quella che riuniva a Villa Borghese la
Vigna Cartoni.
E tutte queste leggi, le quali contenevano anche grandi
provvedimenti finanziari per assestare le finanze della capitale,
concorsero indubbiamente all'incremento che la città ha avuto
nell'ultimo ventennio, ed all'elevamento della sua dignità come
capitale d'Italia. In attestato di riconoscenza per questa mia
opera in favore di Roma, il Sindaco Nathan, a nome del Consiglio
Comunale, mi portò una copia in argento, in piccole proporzioni,
della lupa romana.
Assumendo nuovamente la responsabilità del governo e la Presidenza
del Consiglio, io mantenni la maggior parte dei Ministri che
avevano fatto parte del Ministero Luzzatti e i quali, oltre essere
miei amici personali, rappresentavano con larghezza e competenza
la maggioranza liberale della Camera.
Il mio programma conteneva tre punti fondamentali. Il primo punto
era una riforma elettorale che si avvicinasse, per quanto era
possibile nelle particolari condizioni della vita italiana di
allora e specialmente delle classi popolari, al principio del
suffragio universale, con alcune limitazioni e cautele che mi
parevano opportune. Il secondo punto era la istituzione del
monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili fossero
devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie. Questi
furono però i soli due punti enunciati nel programma e discussi
per la formazione del Ministero; il terzo, cioè la soluzione della
questione della Libia, già da tempo presente alla mia mente, con
la ferma intenzione di cogliere la prima occasione per condurla in
porto, fu tenuto segretissimo, essendo di natura tale che nessuna
enunciazione pubblica, anzi nemmeno il menomo accenno doveva
esserne fatto.
Della riforma del sistema elettorale e del proposito di istituire
il monopolio delle assicurazioni sulla vita, io dunque trattai
ampiamente con gli uomini a cui mi rivolsi per la formazione del
Mistero; la maggior parte, come ho detto, già appartenenti al
Ministero precedente, e che trovai tutti cordialmente assenzienti.
A me pareva però che, considerata l'indole del nuovo Ministero,
che comprendeva uomini della più larga e avanzata opinione
liberale, fra i quali due rappresentanti di quel partito radicale
che sino a poco prima si era mantenuto nei ranghi di opposizione
dell'Estrema Sinistra; e tenuto conto del programma, politicamente
ed economicamente favorevole alle classi popolari che io mi
proponevo di condurre in porto, si presentasse nettamente
l'occasione per la partecipazione al governo di uomini di quel
partito che si riteneva il più diretto rappresentante delle classi
popolari, e cioè del partito socialista. Mi rivolsi quindi a
Leonida Bissolati, col quale ebbi una lunga conversazione in casa
di Camillo Peano, che era già stato e fu poi ancora mio
capo-gabinetto.
Il Bissolati, parlando non solo personalmente, ma anche a nome dei
suoi colleghi, dichiarò la sua piena approvazione del mio
programma; ma mi ripetè ancora quello che mi aveva già dichiarato
alcuni anni fa, quando io avevo richiesta la collaborazione dei
socialisti per l'inaugurazione della politica di piena libertà
contro le tendenze reazionarie; e cioè che egli non credeva che il
partito socialista fosse già maturo per partecipare al governo.
Pareva infatti che nel partito socialista potessero maturare pel
governo e le sue responsabilità gli individui; ma non il partito
stesso. Il Bissolati però mi soggiunse che egli opinava di potere
meglio aiutare il governo alla realizzazione del suo programma,
rimanendo al di fuori; ciò che gli avrebbe reso in buona parte
possibile di ottenere pel governo l'appoggio positivo, o almeno
negativo, dell'intero suo gruppo parlamentare; mentre la sua
accettazione di un portafoglio avrebbe provocato, nell'ambito
stesso del partito, polemiche conducenti a dissensi ed a
scissioni.
Io chiesi allora al Bissolati se, qualora egli fosse chiamato dal
Sovrano per esporgli il suo parere sulla situazione politica e sul
programma del governo, egli avrebbe accettato l'invito. II
Bissolati rispose affermativamente, ed il giorno dopo fu infatti
ricevuto in udienza dal Re. Era la prima volta che un deputato
socialista varcava la soglia del Quirinale per essere interrogato
dal Sovrano sulla situazione politica; ed il fatto naturalmente
suscitò grandi commenti, apparendo d'accordo nel deplorarlo gli
estremisti da una parte e dall'altra; cioè i conservatori
reazionari ed i socialisti rivoluzionari.
Il Bissolati mantenne poi con grande lealtà e fervore l'impegno
assunto di appoggiare il governo nella dura lotta che dovè
sostenere per convertire in leggi quei punti capitali del suo
programma; e quando venne l'impresa di Libia, e la grande
maggioranza dei socialisti si voltò contro, si staccò dal partito
facendosi un fervente apostolo di quella impresa, le cui ragioni
politiche egli aveva perfettamente comprese.
Il Bissolati si trovò contro di me nell'apprezzamento della
situazione in cui per la conflagrazione europea si venne poi a
trovare l'Italia, e nel giudizio dei doveri e delle convenienze
nazionali in quella grandissima crisi della politica mondiale; ma
anche allora, non ostante la violenza dei dissensi e dei conflitti
scoppiati, egli si condusse sempre al mio riguardo con cordiale
correttezza di gentiluomo.
La mia impressione del Bissolati è stata ed è sempre rimasta di un
uomo di ingegno molto acuto e logico, e di carattere semplice e
diritto; il suo difetto come uomo politico e giudice delle
situazioni politiche era forse in certi momenti un soverchio
entusiasmo idealistico, che per se stesso è cosa buona, ma che
deve essere raffinato e corretto da una più calma visione delle
cose. Egli era dotato anche di molto equilibrio intellettuale,
come mostrò negli anni più maturi sapendo fare la giusta parte
agli interessi ed alle ragioni nazionali, pure non venendo meno
alle sue convinzioni socialiste. E siccome era anche uomo energico
e di coraggio, probabilmente, se non fosse mancato immaturamente,
avrebbe avuta una parte importante nella politica del dopo guerra.
Mancata anche questa volta la collaborazione diretta del partito
socialista e di qualche suo uomo di governo, io invitai ad
assumlere il Ministero d'Agricoltura, al quale competeva
tecnicamente di elaborare e difendere alla Camera il progetto del
monopolio delle assicurazioni su la vita, l'onorevole Nitti, che
apparteneva allora al partito radicale, e che per i suoi studi e
la sua vivacità polemica mi pareva particolarmente indicato.
L'onorevole Nitti si mostrò da prima incerto e titubante, e
ricordo che egli mi accennò alla difficoltà, in cui si trovava per
sostenere quella legge, avendo egli nei suoi scritti e nelle sue
lezioni criticata sempre la pratica dei monopoli. Ma avendogli io
dichiarato che quello era un punto del programma mio che non
poteva essere toccato, egli finì per accettare, considerando il
monopolio delle assicurazioni della vita come un caso particolare,
e che poteva essere sostenuto anche da chi ai monopoli
non fosse favorevole in generale.
Tale programma del governo fu esposto subito al Parlamento, con la
maggiore chiarezza e precisione, e fu favorevolmente accolto dalla
grande maggioranza. Ma le opposizioni, sia da parte degli
interessati nelle assicurazioni della vita, sia per parte dei
conservatori, avversi generalmente, quantunque non osassero
dichiararlo apertamente, alla riforma elettorale, erano violente e
tenaci, e si manifestarono ben presto, quantunque più nella stampa
che nel Parlamento. E in poche settimane si era riprodotta la
stessa situazione in cui io mi ero trovato nel 1901 e nel 1902,
quando, per avere iniziato e proseguito con fermezza il sistema
della più ampia libertà nella lotta fra capitale e lavoro, ero
stato dipinto come nemico del capitale, come demolitore del
diritto di proprietà, e come ministro che preparava la rovina
delle istituzioni.
Anche nel 1901 il Ministero, nella sua politica di libertà, aveva
avuto l'appoggio dei socialisti, e il rinnovarsi di questo
appoggio pel programma da me presentato mi veniva rimproverato da
alcuni come un nuovo tradimento verso il partito liberale.
Evidentemente coloro che pronunziavano questa accusa, più che dei
veri e propri liberali erano dei conservatori più o meno
mascherati di liberalismo, o dei puri dottrinari i quali, volendo
cristallizzare il partito liberale in poche formule immutabili, e
tenere chiuse le sue porte ad ogni nuova corrente di idee, e ad
ogni concorso degli uomini che le rappresentavano, non
riflettevano che i partiti chiusi sono destinati fatalmente a
decadere e scomparire; e non ricordavano che una delle maggiori
forze della nostra dinastia, che pure rappresenta la tradizione,
era stata di avere sempre accettato il concorso di tutti gli
uomini disposti a lavorare lealmente per il bene della nazione, da
qualunque partito essi provenissero e qualunque fosse il loro
passato politico.
Ed era poi particolarmente strano, che in questa occasione, come
nelle precedenti in cui il governo si era avvicinato agli
uomini
dei partiti popolari ed estremi, per ottenerne
la collaborazione e
farli così rientrare nell'orbita
della istituzione, quelli che
manifestavano il più sacro
orrore per tali metodi di governo
fossero appunto
coloro che si pretendevano e si professavano
seguaci del Conte di Cavour; dimenticando che egli
fece il
connubio del suo partito con la parte più
avanzata della Camera;
che prese accordi politici
con gli uomini dei partiti più estremi,
mandandoli
a governare il paese nei momenti più diffìcili.
Supporre che il Conte di Cavour sarebbe rimasto fermo
alla
situazione politica di cinquantanni fa, e non
avrebbe più fatto un
passo avanti, sarebbe fare ingiuria al più grande e più ardito dei
nostri uomini
di Stato.
Ad ogni modo, contro questi attacchi e
queste critiche io mi
limitai ad' osservare che a chi
vuole andare avanti vi è una sola
compagnia che
non è possibile, ed è quella di chi vuole andare
indietro, o di chi vuole stare fermo, che in pratica
è poi la
stessa cosa. E poiché notavo che contro il
mio programma e la mia
azione politica e parlamentare si ripetevano allora le stesse
accuse di dieci
anni prima, io consigliai ai miei avversari, per
loro
risparmio di fatica intellettuale, di rileggere i
discorsi
dell'opposizione di allora, e valersene nelle
future
discussioni.
Siccome la riforma elettorale importava una vasta preparazione di
studi da parte del governo, non solo per dimostrarne, con
raffronti statistici con l'uso d'egli altri paesi, la convenienza
politica, ma anche per congegnarla, nel suo funzionamento pratico,
in modo da evitare sorprese ed ostacoli nell'applicazione, e
richiedeva pure un ampio ed accurato esame da parte della
Commissione parlamentare, la sua presentazione alla Camera fu
necessariamente rimandata. Difficoltà di tal genere non esistevano
per la questione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, il
cui progetto potè essere preparato rapidamente e presentato al
Parlamento.
La idea di creare questo monopolio non fu affatto, come dissero
allora gli oppositori, una improvvisazione per ragioni e
convenienze politiche. Era una mia idea antica, che m'era in
principio venuta per la considerazione del fallimento di non poche
società che non avevano adempiuto ai loro obblighi dopo avere
intascati i premi. L'assicurazione sulla vita non è che una forma
di risparmio, con questo carattere speciale, che gli impegni verso
l'assicurato non vengono a scadenza che dopo una lunga serie di
anni, da venti almeno a quaranta e più; per cui si richiede la
certezza che, quando venga il giorno in cui gli impegni debbono
essere mantenuti, l'assicuratore sia in grado di farlo. Senza
questa certezza, che deve essere assoluta, l'assicurazione è un
inganno alla fede pubblica.
Ora, l'esperienza
di molti anni aveva dimostrato che, a canto a
Società bene amministrate, altre ve ne erano le quali,
facendo
cattivi investimenti, o abbandonandosi a speculazioni aleatorie o
peggio, erano andate a finire
male, defraudando gli assicurati del
loro avere; ciò
che era la peggiore delle frodi, perchè ai
risparmi
così collocati gli assicurati affidavano le sorti
della
loro vecchiaia e in caso di morte, della loro famiglia. Né
le società andate a male si contavano solo
fra quelle secondarie;
non solo da noi, ma in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove pure
l'assicurazione sulla vita aveva raggiunto sviluppi
ingentissimi,
c'erano stati casi di fallimento di grandi società,
con
l'effetto di veri disastri sociali e la rovina di migliaia
di
famiglie che ad esse avevano affidati i loro risparmi.
Né era il caso di dire che si poteva distinguere fra istituti
solidi e bene amministrati, e
istituti male amministrati e
pericolanti; la buona
amministrazione non è una qualità inerente
agli istituti, ma agli uomini che li amministrano; e ad
amministratori capaci ed onesti possono in qualunque
società
succedere amministratori incapaci e senza
scrupoli. E le
conseguenze di tale stato di cose, almeno presso di noi, erano di
carattere generale e sociale,
inquantochè la diffidenza suscitata
dai fallimenti, e
la mancanza di una sicurezza assoluta, impediva
che
questo ottimo sistema di previdenza avesse quella
più larga
diffusione che era desiderabile per ogni
verso.
Io avevo pensato che questi inconvenienti sarebbero
superati, e l'istituto della previdenza incoraggiato, quando
si potesse dare vita ad un istituto d'assicurazione che
presentasse la massima garanzia di durabilità e di
sicurezza pel mantenimento dei suoi
impegni. Ora l'Ente che presenta
appunto le maggiori garanzie in tale senso, è lo Stato, il
quale nel mio progetto garantiva le
operazioni dell'Istituto.
Ad evitare poi il sospetto che l'Istituto potesse avere carattere
e scopo fiscale, e che il, danaro degli assicurati potesse essere
esposto per questo verso a diminuzioni e falcidie, io provvedevo a
che i suoi utili fossero
devoluti alla Cassa per la
vecchiaia ed invalidità degli
operai; parendomi una nobile prova
di solidarietà sociale che gli utili
derivanti dalla previdenza dei cittadini in qualche misura più
favoriti dalla fortuna, concorressero ad alleviare le condizioni
della vecchiaia dei cittadini meno favoriti. Un'altra
considerazione favorevole all'Istituto statale delle assicurazioni
sulla vita, era connessa con le condizioni e le
convenienze generali della pubblica economia. Le statistiche
dimostravano che gli istituti assicuratori cumulavano nelle
loro mani ingenti capitali, e siccome in Italia oltre i tre
quinti delle assicurazioni erano fatti da società straniere, ne
derivava che molti dei capitali raccolti emigravano all'estero;
costituendo così una vera organizzazione per la esportazione del
risparmio nazionale. Creare un monopolio statale
significava porre fine anche a codesto inconveniente,
e accentrare nelle mani dello Stato una potenza finanziaria di
primo ordine, rappresentata appunto dagli ingenti capitali che si
cumulano coi versamenti degli assicurati.
Questi concetti furono da me esposti con la presentazione del
progetto di legge. Alla Camera essi riscossero l'approvazione
della grande maggioranza, dai liberali ai socialisti. Ma, come ho
già detto, gli oppositori furono assai tenaci. Fra essi ve n'erano
certo parecchi, la cui opposizione aveva ragioni dottrinarie;
costoro invocavano i principi del liberismo economico, che non
sempre si accordano col liberalismo politico, a cui compete di
tener conto di elementi assai più vari e complessi; altri
sfogavano una istintiva antipatia contro i monopoli di qualunque
genere, quando invece gli ottimi risultati del monopolio nostro
dei tabacchi dimostrava la capacità dello Stato per tali generi
d'imprese. Non mancavano coloro che combattevano il mio progetto
in rispondenza agli interessi particolari che ne erano offesi.
Ma la campagna più violenta era condotta in parte dalla stampa,
specialmente conservatrice; la quale, forse più che a sostenere
gli interessi degli assicuratori, era mossa da ragioni più larghe
se non apertamente dichiarate; questi organi del conservatorismo
combattevano il monopolio delle assicurazioni non tanto per sé
stesso, quanto per colpire traverso ad esso il governo che aveva
messo nel suo programma, come capo fondamentale, la riforma della
legge elettorale col suffragio quasi universale. Soltanto la
speranza di allontanare, se non di impedire assolutamente la
riforma elettorale, poteva spiegare la eccezionale vivacità della
battaglia contro il monopolio delle assicurazioni, assolutamente
sproporzionata all'importanza del problema; e i mezzi ai quali si
ricorse per ritardarne o rimandarne l'approvazione, e l'assurdità
delle argomentazioni e delle invenzioni messe innanzi contro di
esso.
Si cercò anzitutto di eccitare una vera sollevazione di tutti gli
interessi borghesi, capitalistici, industriali e commerciali. Si
cominciò col proclamare che la legge sul monopolio era nientemeno
che un attentato alla proprietà, e l'inizio o l'avviamento di un
sistema tendente alla istituzione del collettivismo per mezzo
della monopolizzazione di grande parte delle industrie.
L'artificio di tale argomentazione consisteva in questa tentata
confusione fra l'attività industriale e l'assicurazione della
vita, che con quella nulla aveva a che fare, essendo essa una pura
e semplice speculazione su una forma speciale di risparmio. Lo
scopo delle industrie è la produzione della ricchezza; mentre la
speculazione assicuratrice altro scopo non ha, anche quando
rettamente esercitata, che di fare passare una percentuale della
ricchezza degli assicurati nelle tasche degli assicuratori. E
questa speculazione infatti era esercitata in modo così sfrenato,
che in alcuni casi aveva portato al fallimento, ed in altri alla
realizzazione di guadagni addirittura scandalosi. Rispondendo agli
oppositori io ebbi in questo buon gioco, limitandomi a citare
esempi di utili conseguiti in un solo anno, e appunto nell'anno
precedente.
Mostrai che una società, i cui azionisti avevano versate 882 lire
per azione, avevano ricevuto un dividendo di 336 lire, pari al
quaranta per cento, ripartendo inoltre fra gli amministratori 240
mila lire. Un'altra, su azioni di lire 250, aveva distribuito 307
lire di dividendo, pari al 122 per cento del capitale versato; una
terza su azioni di 882 lire aveva distribuito 980 lire, pari al
111 per cento, e attribuito agli amministratori quasi un milione.
E poiché le operazioni di assicurazione sulla vita sono per la
massima parte per piccole somme e fatte da gente non agiata, a
coloro che gridavano che il monopolio violava il diritto io
rispondevo che il diritto che si diceva violato poteva definirsi
come il diritto di esercitare l'usura sul risparmio della povera
gente. Tutto questo, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con
l'industria; ed è strano che certi gruppi di industriali si
lasciassero trascinare ad una agitazione che coi loro reali
interessi nulla aveva a che fare, perchè anzi l'industria, quando
sanamente esercitata, non deve avere alcuna amicizia con la
speculazione.
Un'altra argomentazione a cui si ricorreva, consisteva nel gettare
il dubbio sulla capacità dello Stato a fare l'assicuratore e ad
impiegare i capitali che col monopolio si sarebbero raccolti.
Codesto dubbio era però già preventivamente sfatato, perchè tale
attitudine da parte dello Stato era già stata provata dal modo
mirabile col quale era stata amministrata la Cassa Depositi e
Prestiti, la quale dalle sole Casse postali di risparmio aveva
raccolti milleottocento milioni, e che mentre aveva resi servizi
inestimabili allo Stato, alle Provincie ed ai Comuni, non aveva
mai subito alcuna perdita. Alcuni, osservando che alle casse
postali non si era dato il monopolio del risparmio, proponevano
che si creasse bensì un Istituto di Stato per le assicurazioni
della vita, ma senza monopolio ed in concorrenza con gli istituti
privati.
La risposta a codesta obiezione era assai facile. Le casse di
risparmio, che fanno concorrenza alle casse postali, non sono
società di speculazione, ma istituti, tutti italiani, non aventi
scopo di lucro, e i quali destinano i loro utili, in parte ad
accrescere le riserve per sicurezza dei depositanti, e per il
resto a scopo di beneficenza, che esse esercitano largamente. Se
alle Società di assicurazione della vita si fosse proposto di
continuare il loro esercizio con la condizione di destinare i loro
utili alla beneficenza, nessuno poteva illudersi che avrebbero
accettato.
La battaglia parlamentare, a cui faceva ala quella che si
combatteva nella stampa e nei comizi degli interessati e dei loro
dipendenti, si prolungò per parecchie settimane, assorbendo
l'intera attività della Camera. Vi parteciparono anche i
socialisti, in favore del governo, con un ottimo discorso tecnico
per parte dell'onorevole Bonomi, e discorsi politici di Bissolati
e di altri, mentre l'onorevole Sonnino, l'onorevole Salandra ed
altri, della Destra specialmente, parlarono contro. La discussione
fu riassunta poi, pel lato tecnico, dall'on. Nitti, il quale, pure
consentendo, d'accordo meco, a modificazioni parziali
che non intaccassero però menomamente il principio, difese
il progetto egregiamente, essendosi bene impadronito della
materia; e pel lato politico con un mio discorso, che a certi
momenti suscitò una tempesta nei radi banchi dei conservatori.
Si passò quindi al voto, e la Camera dette largamente la sua
approvazione di massima al principio fondamentale della legge. Si
doveva quindi venire alla discussione degli articoli. Eravamo alla
fine di giugno, ed io proposi che quella discussione fosse
rimandata alla ripresa dei lavori parlamentari, nel prossimo
autunno. E ciò feci perchè avevo capito che gli avversari della
legge, pure dandosi aria di disarmare davanti al principio
generale, si proponevano di riprendere la battaglia nella
discussione particolare, presentando una grande quantità di
emendamenti. Ora in regimi di tale genere, quale è un monopolio,
basta alle volte un emendamento che ne turbi il principio per
farlo fallire nell'esecuzione. Non vi era, d'altra parte, la
menoma ragione di urgenza, ed io preferivo che la discussione
fosse ripresa dopo che la Camera si fosse riposata, per evitare
che qualche emendamento pericoloso potesse passare in una Camera
già stanca ed impaziente di prendersi le vacanze.
Insieme a quella parlamentare, il governo dovette, pel progetto
del monopolio, sostenere pure una battaglia di carattere
diplomatico ed internazionale.
Ho già rilevato che per oltre i tre quinti le
assicurazioni sulla vita erano
raccolte in Italia da istituti
stranieri, e più particolarmente austro-ungarici, inglesi,
americani, tedeschi e francesi. Questi istituti, alcuni dei quali
di mole gigantesca, non si preoccupavano forse tanto della perdita
del mercato italiano, assai limitato in paragone alla grandiosità
dei loro interessi, quanto del fatto che la creazione di un
monopolio statale potesse essere un esempio che altri Stati prima
o dopo avrebbero imitato. La preoccupazione e l'irritazione ad'
ogni modo deve essere stata assai viva, ed accordi devono essere
passati fra questi istituti legati da comuni interessi, perchè noi
assistemmo ad un movimento diplomatico di protesta quasi generale.
Tali proteste si basavano sulla supposizione che l'Italia violasse
gli accordi e gli usi internazionali, inibendo a cittadini
stranieri di esercitare in Italia la loro industria ed il loro
commercio. Noi però rispondemmo respingendo assolutamente tale
accusa, la quale avrebbe avuto ragione d'essere solo in un caso; e
cioè quando noi avessimo inibito la pratica delle assicurazioni
sulla vita alle Società straniere, permettendola invece alle
italiane. Ma così non era; l'Italia, creando il monopolio statale
delle assicurazioni sulla vita, era pienamente nei suoi diritti di
sovranità, e il trattamento che essa faceva agli stranieri era
eguale a quello fatto ai suoi cittadini, e gli stranieri più non
potevano pretendere. Questo nostro argomento, dopo qualche
ulteriore opposizione e discussione, fu alla fine riconosciuto
valido quasi universalmente dagli altri Stati.
Ricordo che una più particolare ed ostinata resistenza fu
fatta dall'Austria, la quale aveva tanto meno diritto di
protestare ed insistere nella protesta, in quanto che nel trattato
di commercio che pochi anni prima aveva concluso con noi, era
stata riservata, e per desiderio dell'Austria stessa, ai due paesi
contrattanti la facoltà di istituire dei monopoli. La insistenza,
ingiustificata ed insostenibile del governo austriaco, non era
attenuata o raddolcita dal contegno del suo ambasciatore Conte
Merey, uomo che si compiaceva di ostentare una certa bruschezza di
modi. Ricordo che, venuto da me per protestare contro la
istituzione del monopolio, essendosi nell'anticamera incontrato
con un grosso assicuratore, che era venuto per la stessa cosa, e
col quale egli aveva forse ragioni di malumore, esclamò nel
vedermi: — Vous recevez ce cochon là?...
Al che io risposi: — Ce cochon est venu ici pour la mème
raison que Vòtre Excéllence. — Il Merey fece allora una
requisitoria contro il progetto con le parole più aspre che gli
venivano sulla bocca; ma siccome io mi contentavo di rispondergli:
— Je ne suis pas de votre avis — egli finì col mettersi a
ridere e lasciar cadere la cosa.
L'Austria però cercò ancora di insistere, per vie indirette, e
mandò qui a Roma alcuni banchieri francesi con l'incarico di
tentare una intimidazione finanziaria. Io li ricevetti, e siccome
uno di essi ad un certo punto della discussione esclamò: — Noi
combatteremo la finanza italiana e faremo ribassare la vostra
rendita — io gli risposi che, lungi dall'allarmarmi, glie ne sarei
stato riconoscente. E poiché quei finanzieri si meravigliarono a
questa mia uscita, io osservai loro che, siccome l'Italia stava
allora ricomprandosi la sua rendita collocata all'estero, io sarei
stato loro grato se ci avessero dato così il modo di acquistarla a
miglior mercato.
La discussione della legge del monopolio fu poi ripresa, come era
stato stabilito, dopo le vacanze e condotta a porto nel 1912. Era
nel frattempo intervenuta la guerra di Libia, che occupava
grandemente l'attenzione pubblica, e l'opposizione alla legge si
attenuò notevolmente, gli avversari avendo ormai compreso che
qualunque maneggio per ferire a morte la nuova istituzione con
emendamenti che ne ostacolassero l'applicazione, sarebbe riuscito
vano. Il governo poi fece alcune concessioni, principale fra le
quali fu quella di autorizzare le Società che già esercivano in
Italia, a continuare il loro esercizio per dieci anni,
limitatamente però alle somme assicurate superiori alle ventimila
lire, e di cedere una quota delle altre all'istituto di Stato. Era
una concessione di interesse reciproco, perchè mentre permetteva
alle Società di liquidare il passato, dava al nuovo istituto il
tempo necessario per ordinarsi.
Si stabilì pure che il monopolio statale potesse riscattare il
portafoglio che le Società private, italiane o estere, avevano in
Italia; e la maggior parte delle società ne profittarono
immediatamente, venendo ad equi concordati e liquidando così
senz'altro la loro posizione.
Il monopolio, dopo i primi tempi di avviamento, ha potuto
funzionare egregiamente, smentendo tutte le previsioni
pessimistiche, e rendendo eccellenti servizi allo Stato durante la
guerra. L'esperimento fatto finora è di ottimo augurio per un
maggior sviluppo nell'avvenire, essendosi anche.in questo campo
dimostrato che, dopo tutto, il cittadino italiano ha la maggiore
fiducia nello Stato. Come vi erano stati gli avversari accaniti,
così per questa questione del monopolio ci furono pure i fautori
eccessivi i quali avrebbero voluto estenderlo ad altre forme
assicurative, come gli incendi, la grandine, gli infortuni e così
via. A cotali estensioni io sono stato sino dal principio
contrario. Io scelsi per il monopolio il ramo vita, per la grande
semplicità e sicurezza degli elementi che lo costituiscono, non
essendo facile né presumibile che si possa fare apparire morto chi
è vivo. Ma io penso che lo Stato si involverebbe in gravi
difficoltà, e si esporrebbe ad abusi di ogni genere, quando si
assumesse l'assicurazione di danni che diano luogo a
contestazioni, pei quali è meglio lasciare libero il campo alla
iniziativa privata.
Avanti che la Camera si convocasse nuovamente, era intervenuta
nell'ottobre 1911, la guerra con la Turchia. Ma prima di narrare
di questa, delle ragioni che l'avevano determinata, e della sua
preparazione politica e diplomatica, ritengo opportuno, con una
breve infrazione dell'ordine cronologico seguito in queste
memorie, di esporre la questione della riforma elettorale e della
conversione in legge del progetto che, assumendo la responsabilità
del governo, io avevo presentato.
Quando io misi nel mio programma, come punto fondamentale, la
riforma elettorale, con un allargamento del suffragio che arrivava
quasi al suffragio universale, vi fu chi mi ricordò con rimprovero
che io altre volte mi ero dichiarato contrario a tale estensione
del diritto politico fondamentale. E la cosa era vera per sé
stessa; ma era viceversa assurdo richiamarsi a tali dichiarazioni
da me fatte in altri momenti come prova che io fossi stato avverso
al suffragio popolare per ragioni di principio. Tutta la condotta
politica da me seguita nel passato, intesa alla elevazione delle
classi popolari, ed all'allargamento della influenza dei loro
interessi nella vita pubblica, smentiva nettamente quell'accusa.
La verità era che, proponendomi come programma capitale della mia
azione politica l'elevazione delle classi popolari, io avevo
dovuto anzitutto considerare le loro condizioni materiali, e
restituendo loro quel pieno esercizio delle libertà statutarie,
che era stato posto in forse da quasi dieci anni di politica
reazionaria, rimetterle nelle condizioni necessarie per lottare
pel proprio miglioramento economico. Questo mio primo concetto era
stato pienamente giustificato dall'esperienza, e dieci anni di
regime di libertà nei conflitti fra capitale e lavoro, rispettato
da tutti i governi che si erano succeduti, aveva da per tutto
accresciuto, e in molte parti d'Italia più che raddoppiata la
misura dei salari degli operai delle officine e dei campi,
contribuendo anche potentemente alla loro educazione.
Le associazioni di ogni genere, economiche e politiche, che si
erano formate dovunque fra le masse lavoratrici, il maggiore
interessamento che esse erano andate prendendo nella vita della
nazione, avevano indubbiamente avuto una grande influenza
educativa, dando ad esse una consapevolezza della vita politica,
fino allora quasi totalmente ignorata. Di fronte a tali mutate
condizioni non era più ammissibile che in uno Stato sorto dalla
rivoluzione e costituito dai plebisciti, dopo cinquant'anni dalla
sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la
classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per
la difesa del paese, e sotto la forma delle imposte indirette
concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello Stato.
La questione della elevazione del quarto Stato alla dignità della
totale cittadinanza politica, nella quale ai diritti corrispondono
i doveri, era pure imposta, oltre che da superiori considerazioni
di giustizia,, da altre ragioni di convenienza nell'interesse
stesso delle classi dirigenti. L'elevazione del quarto Stato ad un
più alto grado di civiltà, era per noi ormai il problema più
urgente, e per molti punti di vista. Anzitutto per la stessa
sicurezza sociale, in quanto che l'esclusione delle masse dei
lavoratori, non solo dalla vita politica, ma anche da quella
amministrativa del paese, togliendo loro ogni influenza legale, ha
sempre per effetto di esporle alle suggestioni dei partiti
rivoluzionari e delle idee sovvertitrici, in quanto gli apostoli
di queste idee hanno a loro disposizione un argomento formidabile,
quando osservano che, per ragione di codesta esclusione, alle
classi popolari non resta altra difesa, contro le possibili
ingiustizie, generali e particolari, delle classi dominanti, che
l'uso della violenza.
Dove le masse sanno di non potere col loro voto e con la legale
azione politica modificare le leggi che siano proposte ed
elaborate a loro danno, è ovvio che esse si lascino persuadere che
i soli mezzi per mutare un tale stato di cose, sono i mezzi
rivoluzionari. Partecipando invece alla vita politica, le masse,
nelle quali il buon senso finisce sempre alla lunga col prevalere,
possono, non solo rendersi conto delle difficoltà che lo Stato
deve superare per aiutare il loro incremento, ma anche dei limiti
che le condizioni generali del paese e del tempo pongono alla
soddisfazione delle loro aspirazioni e delle loro richieste; e
così esse vengono ad essere interessate al mantenimento dello
Stato.
È troppo facile oggi opporre a questi concetti l'esempio delle
manifestazioni in senso contrario ad essi, avutesi dopo la guerra;
ma gli episodi di momenti eccezionali non fanno regola; e del
resto la rapidità con cui le agitazioni e le pretese soverchie ed
irragionevoli determinatesi nelle masse dopo la guerra sotto la
influenza dei partiti estremi, si sono attenuate, è una riprova
della fondamentale giustezza
di questo mio modo di vedere. In secondo luogo tale elevamento è
desiderabile, anzi necessario per un altro aspetto, e cioè quello
della convenienza economica, perchè la partecipazione attiva ad
ogni forma di progresso, da parte di tutto il popolo, è
strettamente connessa con l'incremento della ricchezza di un
paese. Le condizioni generali della civiltà in quel momento
dimostravano infatti che soltanto le nazioni al cui progresso
concorrevano attivamente le masse popolari, quali l'Inghilterra,
la Germania, la Francia, gli Stati Uniti d'America, erano
economicamente potenti; gli Stati anche grandi, anche militarmente
fortissimi, quale la Russia, nei quali però le classi popolari
avevano un grado di civiltà inferiore, soffrivano economicamente
di grave debolezza.
E questo si comprende, quando si pensa quali forze di
intelligenza, di volontà, di operosità si trovano latenti nelle
masse popolari delle città e delle campagne; e quale contributo al
progresso di un paese esse potrebbero dare se, istruite ed
educate, fossero in condizioni tali che ognuno potesse prendere
nella società un posto corrispondente alle sue naturali
attitudini, alla sua intelligenza ed alla sua forza morale.
La sicurezza sociale e la ricchezza economica del paese a me erano
sempre parse strettamente collegate col benessere e con
l'elevazione materiale e morale delle classi popolari; aiutando
questa elevazione le classi dirigenti compivano dunque una opera
in cui il dovere morale della solidarietà umana era in pieno
accordo col loro stesso bene inteso interesse. Se esse si fossero
opposte al movimento di ascensione delle classi più numerose della
società, sarebbero state, prima o dopo, inesorabilmente travolte;
se invece, adempiendo al dovere della solidarietà umana, avessero
assunto la tutela dei diritti e degli interessi del proletariato;
se con sapienti leggi avessero provveduto al suo benessere
materiale e morale; se lo avessero spontaneamente chiamato a
prendere il suo posto nell'esercizio della sovranità nazionale,
esse avrebbero conseguito il vanto di sostituire alla lotta delle
classi, proclamata dagli estremisti, la loro collaborazione,
assicurando nello stesso tempo un progresso regolare e benefico
alla intera società, ed un incremento della potenza e della
dignità dell'Italia fra le altre nazioni.
Per cui, quando nella discussione della Camera, e nelle polemiche
dei giornali, vi fu chi mi rimproverò di essere andato
spontaneamente incontro ai partiti estremi; di avere offerto in
regalo ai socialisti più di quanto essi osassero domandare e si
aspettassero di potere ottenere, invece di lasciare che essi
conquistassero la riforma combattendo passo a passo; io ritorsi
questa accusa, facendone un vanto, non personale mio, ma del
partito e del governo liberale, il quale, invece di resistere ad
esigenze giuste, le soddisfaceva spontaneamente, mostrandosi
superiore agli interessi particolari, e quindi veramente degno di
regolare i destini della nazione.
Quando io presentai la mia proposta di riforma
elettorale, erano
trascorsi trent'anni dalla riforma
anteriore, a cui aveva lavorato
sopratutto l'onorevole Zanardelli. La legge del 1882 aveva
rappresentato un notevolissimo progresso su quella prima vigente,
e nel senso veramente democratico, in quanto
aveva abolito tutti i
privilegi basati sul censo, ed
aveva istituito teoricamente il
principio del suffragio
universale, dando il diritto di voto ad
ogni cittadino
che avesse compiuto il primo corso
elementare.
Quando quella riforma era stata adottata, si calcolava
che l'analfabetismo sarebbe stato rapidamente
debellato, e che la
legge avrebbe automaticamente
portato all'esercizio del diritto
politico da parte della
grandissima maggioranza dei cittadini. A
tali speranze non aveva però corrisposto il successo, e per
varie
ragioni; sia cioè per l'inefficacia del nostro
sistema di
educazione elementare, sia anche, e forse
sopratutto, perchè la
semplicità della nostra vita agricola non rendendo necessario
l'uso del saper leggere e scrivere, non spingeva le classi
popolari a
procurarselo. D'altra parte, tutti sanno che nelle
nostre campagne vi sono contadini che, pure non sapendo firmare
che con la croce, spiegano facoltà di
primo ordine nel maneggio
dei loro affari, e conducono mirabilmente floride aziende
agricole; mentre
vi sono dei cittadini, a cui la vita della città
ha reso
necessario il saper leggere e scrivere, e che tuttavia non
ne fanno certo il migliore degli usi. S'aggiunga ancora che tale
sistema, in cui il diritto elettorale era basato sul certificato
scolastico, creava grandi disparità, da regione a regione e da
provincie a Provincie, in relazione alla maggiore o minore
diffusione e comodità di accesso alle scuole e della conseguente
diversa opportunità per parte dei ragazzi di frequentarle.
Il mio predecessore, onorevole Luzzatti, come ho già riferito,
aveva già presentato un suo progetto di allargamento dei suffragi,
che a mio parere era insufficiente. Esso infatti manteneva ancora
il criterio dell'alfabetismo come base del diritto elettorale,
limitandosi a facilitarne la constatazione ed a rendere più
agevole l'ammissione. Si trattava, insomma, di aggiungere agli
elettori alfabeti quelli che si trovavano in una specie di limbo
fra l'alfabetismo e l'analfabetismo; con la quale aggiunta si
attendeva un incremento graduale, da un milione ad un milione e
mezzo di elettori. A me, ed alla Commissione parlamentare che poi
esaminò il progetto mio, questo calcolo pareva esagerato,
apparendo assai difficile che gli uomini già maturi, non ben
sicuri della materia, si sarebbero molto volontieri presentati
all'esame necessario davanti al pretore; mentre poi, valorizzando
sino all'estremo una qualunque capacità di leggere e scrivere,
esso riusciva ad aggravare gli squilibri e le incongruenze del
sistema vigente, nel non tenere conto di qualunque altro genere di
capacità individuale e sociale.
Ma, come ho già accennato, la più forte obbiezione contro le
proposte dell'onorevole Luzzatti, stava in questo: che invece di
affrontare nel suo complesso la questione, ne proponeva una
soluzione parziale. Ed a mio parere, poiché esigenze superiori di
varia indole imponevano oramai la riforma elettorale, doveva
essere cura del legislatore che cotali esigenze fossero al più
possibile soddisfatte, per evitare il pericolo di dover tornare
sopra al problema a breve scadenza.
Era quindi d'uopo trovare altri criteri; non volendo io d'altra
parte, con l'adozione del suffragio universale puro e semplice,
esteso a tutti i cittadini, anche illetterati, sembrare di non
fare alcuna distinzione fra chi è istruito e chi non è; fra chi
adempie alla legge della istruzione obbligatoria e chi la viola; e
togliere una spinta alla istruzione pubblica, e ciò appunto nel
momento quando, col progresso delle industrie e del tecnicismo,
nella stessa agricoltura; il problema della istruzione primaria si
affermava sempre più come un problema di primissimo ordine ed una
vera necessità per l'incremento economico e civile del paese. E
conclusi col risolvere il complesso problema rinunciando al
semplicismo del principio unico, ed adottando principi diversi,
corrispondenti appunto alle diversità delle condizioni a cui ci
dovevamo adattare.
E così presentai il mio progetto, che conteneva, riguardo
all'estensione del suffragio, i punti seguenti:
Primo: era mantenuto il diritto elettorale a
ventun anni per tutti
coloro che sapessero leggere e
scrivere;
Secondo: era concesso il diritto elettorale a tutti coloro che
avessero adempiuto agli obblighi del servizio militare;
Terzo: diventavano elettori anche coloro che mancassero dei
requisiti necessari dell'istruzione, quando compissero il
trentesimo anno.
Il primo punto corrispondeva alla legge vigente. Il secondo punto,
oltre la presunzione che chi abbia fatto il servizio militare ha
già ricevuta una certa istruzione e non appartiene più alla
categoria degli analfabeti, aveva per sé una elementare ragione di
giustizia, essendo evidente che non si può negare il diritto della
partecipazione alla vita politica del paese, a colui a cui si
domanda di sottostare per la sicurezza comune al servizio militare
e di essere disposto a dare la sua vita. Quanto al terzo punto, a
parte la giusta differenziazione fra i diritti politici di chi
adempia agli obblighi dell'istruzione e chi non li adempia, mi
pareva che esistessero ragioni di carattere generale per le quali
si poteva concedere il voto all'illetterato che abbia compiuto i
trentanni, negandolo in età più giovanile. Le persone infatti che
manchino di qualunque più elementare cultura, e non abbiano
nemmeno compiuto lo sforzo per apprenderne i rudimenti, sforzo che
è già ragione di una certa disciplina, sono indubbiamente più
soggette alle suggestioni di idee estreme, tanto rivoluzionarie
come reazionarie.
Nove anni di esperienza nella vita, quanti sono quelli che corrono
fra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola,
che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire
l'istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli
individui devono presto assumersi la responsabilità della loro
condotta e guadagnarsi il pane. L'uomo del popolo, che
generalmente a trent'anni ha già famiglia e figli, diventa
riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare
dalle propagande di idee e propositi eccessivi. Del resto, il
numero d' questi analfabeti che diventavano elettori a trent'anni,
non era così grosso come si presumeva generalmente; i calcoli
degli uffici da me incaricati di studiare il lato tecnico della
legge, li portavano circa a ottocentomila; mentre il numero
complessivo degli elettori era più che raddoppiato, salendo dai
tre milioni e mezzo degli iscritti secondo la legge vigente, a
circa otto milioni.
Si doveva d'altra parte attendersi ad una diminuzione notevole
nella percentuale dei votanti, come poi fu confermato
dall'esperienza; e ciò perchè solo gradatamente i nuovi iscritti
avrebbero usato del loro diritto, e perchè una parte notevole dei
nuovi elettori appartenenti alle classi popolari, era allontanata
dalle correnti di emigrazione.
L'introduzione degli illetterati nel suffragio importava
necessariamente considerevoli modificazioni tee-
niche, dovendosi conciliare l'esercizio del voto con l'eventuale
incapacità a scrivere il nome del candidato, e con la necessità di
mantenere il segreto dell'urna. Queste difficoltà furono
genialmente superate con l'adozione di un sistema speciale di
buste e di controllo, escogitato e proposto dal relatore della
legge, on. Bertolini.
Presentando il disegno di legge io lo corredai con un completo
quadro delle legislazioni elettorali straniere, dalle quali
risultava che il suffragio universale era già adottato in Europa,
non solo dagli Stati più liberali ed avanzati in civiltà, ma anche
da Stati di carattere conservatore e da altri di civiltà meno
avanzata; — e cioè dalla Francia, dalla Germania, dall'Austria,
dalla Spagna, dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Norvegia, dalla
Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, ed era nello stesso momento
proposto per l'Ungheria; e che quanto a numero di elettori, in
Italia ogni cento individui aventi l'età richiesta non erano
elettori, col sistema ancora vigente, che trentadue, rimanendo
così esclusi dalla vita politica il sessantotto per cento; mentre
in tutti gli altri paesi di Europa, compresi quelli che non
avevano ancora adottato il suffragio universale, la proporzione
andava dal sessanta al novantotto per cento. Noi dunque, quanto ad
estensione di suffragio, eravamo gli ultimi in Europa.
Esponendo la battaglia combattuta contro il Monopolio delle
Assicurazioni sulla vita, ho già accennato al fatto che
l'accanimento di quella lotta, più che per quella legge stessa, si
spiegava per quella del suffragio, mirandosi a colpire
indirettamente il governo che l'aveva proposta.
L'opposizione diretta alla legge per l'allargamento del suffragio
non era facile; gli uomini politici, i deputati che vi si fossero
impegnati dovevano sentire di esporsi, quando la legge fosse
approvata, alla rappresaglia elettorale di coloro a cui essi
avessero tentato di sbarrare la strada al conseguimento dei
diritti politici,- e questa preoccupazione era per me un tacito
omaggio al progetto stesso, ed un riconoscimento, sia pure
dissimulato, che le condizioni per la sua adozione erano già
mature nella coscienza politica del paese. Più tardi, nella
discussione della legge, non vi furono che due deputati, l'on.
Gaetano Mosca e l'on. Vincenzo Riccio, che lo combatterono
direttamente, con argomenti che io non potevo accettare, ma che
erano logici e rispettabili dal punto di vista conservatore. E si
ebbe allora un singolare fenomeno; che mentre, di fronte a quella
mia proposta, la più democratica che in cinquant'anni di vita
nazionale fosse stata presentata da qualunque governo, la stampa
conservatrice si manifestava assolutamente contraria, molti degli
uomini politici appartenenti ai partiti più decisamente
conservatori dichiaravano invece di accettarla.
Non c'era il menomo dubbio sulla sincerità di uomini, quali
l'onorevole Sonnino, il quale pure essendo avversario del
Ministero si dichiarava apertamente fautore della estensione del
suffragio; ma c'era ragione di ritenere che in quel suo
atteggiamento egli fosse seguito da pochi. Per chi ha l'abitudine
di indagare le inclinazioni e seguire le manovre dei partiti,
intese al conseguimento dei propri fini anche quando non credono
opportuno confessarli, e che in questo caso era di fare naufragare
la riforma elettorale, era evidente che si erano scelte, per
combatterla, le vie indirette e traverse. Una delle manovre più
interessanti per l'osservatore in questa battaglia consisteva, non
solo nel non avversare la riforma, ma nel cercare anzi di
svalutarla dichiarandola insufficiente; e non è ormai scienza
occulta, dopo tanto scaltrimento parlamentare, che uno dei modi
più efficaci per combattere una proposta, consiste
nell'esagerarla.
E ricordo che vi fu allora chi propose di allargare il suffragio
al di là dei miei intendimenti, con togliere quel limite dei
trentanni che io aveva fissato per gli illetterati; altri che
propose di dare senz'altro anche il voto alle donne; mentre altri
ancora proponevano l'adozione dello scrutinio di lista, o
l'applicazione del sistema proporzionale, tutti mezzi sicuri per
raddoppiare gli ostacoli e rendere più difficile al governo di
condurre la legge in porto; mentre altri proponeva che si
approvasse la riforma, ma la sua applicazione fosse rimandata,
tenendosi le prossime elezioni con le liste attuali.
Altri ancora qualificavano la legge come un suffragio universale
deformato per quelle limitazioni che vi avevo introdotte. Ora io
ammetto che nelle leggi la massima semplicità sia l'ideale; ma
esso non è sempre raggiungibile, perchè le leggi devono tenere
conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, come
nel nostro caso era l'analfabetismo, ed adattarsi ad essi. Un
sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba
anche all'abito.
Non dirò che l'intenzione di ostruzionismo fosse in tutti coloro
che avanzavano queste proposte atte a complicare le cose; ma era
assai istruttivo il fatto che esse fossero sempre accolte e
contrapposte al progetto del governo da quegli organi della
pubblica opinione nei quali era evidente l'interesse e
l'intenzione di fare naufragare la riforma, o di mutilarla o
almeno di ritardarla. Quando fra l'aprile ed il maggio del 1912,
la Commissione presieduta dall'onorevole Bertolini presentò la sua
relazione e la legge venne in discussione, questi maneggi si erano
assai attenuati, come era avvenuto per la legge del monopolio. Ed
a tanto maggiore ragione. Era infatti intervenuta la guerra; e
come si sarebbe potuto negare il pieno diritto alla cittadinanza
politica ed alla partecipazione alLa vita dello Stato a quelle
stesse classi a cui si domandava di dare la vita dei loro figli
per l'incremento e per i più alti interessi politici del paese?
La discussione fu pertanto assai blanda e la legge fu approvata in
poche settimane. Rispondendo ai diversi oratori, ed esaminando
alcune loro proposte dal governo non accettate, io dovetti toccare
di alcune questioni che voglio ricordare.
C'era la questione del voto alle donne, questione, io osservai,
degna di ogni studio e di ogni ponderazione, poiché si trattava
nientemeno che di una metà del genere umano. Ma, riguardo alla
situazione delle donne, vi erano altre questioni da risolvere, che
le concernevano, prima di addivenire alla considerazione della
loro capacità politica. Anzitutto bisognava cominciare col
modificare quelle leggi che restringono la indipendenza e la
capacità della donna nel campo puramente civile, creando ad essa
una speciale situazione di sottomissione. Poi prima del voto
politico era il caso di provvedere per essa al voto
amministrativo, come quello che poteva servirle da tirocinio per
la comprensione dei suoi doveri e diritti politici. Ricordai poi
che in proposito io avevo nominato una Commissione, affidandole il
compito di studiare a fondo il problema; Commissione a cui avevano
appartenuto persone assai autorevoli; fra gli altri i senatori
Finali, Bodio, Brusa, Villari e i deputati Boselli, Bertolini,
Nitti, Finocchiaro Aprile, Luigi Rossi ed altri. La Commissione
aveva studiato lungamente ed ampiamente il problema; ed i
risultati dei suoi studi erano stati raccolti in una lettera
comunicatami il 5 luglio del 1911, dal suo Presidente, senatore
Finali, nella quale lettera si dichiarava che nella sua ultima
seduta la Commissione, a maggioranza, aveva approvato un ordine
del giorno esprimente l'avviso che non fosse opportuno, per
allora, concedere alle donne nemmeno il voto amministrativo. La
Commissione però aveva ad unanimità approvato il concetto che si
dovesse modificare il Codice Civile in quella parte che riguardava
le donne, e più specialmente le donne maritate.
Non ostante tale autorevole parere contrario, io non credevo che
la questione del voto amministrativo alla donna si dovesse
ritenere così negativamente risolta, e pensavo che potesse essere
riproposta e ripresa in esame; ma ritenevo assolutamente prematura
qualunque concessione di voto politico. E niente mostrava meglio
tale inopportunità e immaturità, che il modo stesso con cui alla
Camera si era condotta la discussione su quel punto. Si era, in
conclusione, fatta piuttosto una questione accademica., di
simpatia; ma nessuno c'era stato che avesse sostenuto con
profondità di argomenti convincenti l'opportunità e l'utilità di
creare altri sei milioni di elettori politici, quando il Codice
civile manteneva ancora per le donne una condizione giuridica
diversa ed inferiore. Il paese non avrebbe né compresa né
approvata una simile riforma. Quanto poi alla opportunità,
accennata da alcuni, di concedere il voto alle sole donne in
condizione finanziaria, intellettuale e morale più elevata, quale
si fosse la forza degli argomenti portati a sostenere tale
proposta, essa non avrebbe potuto essere accettata; il valore di
tali argomenti essendo annullato dall'inconveniente gravissimo di
creare, con tale attuazione, dei privilegi che oltre che
individuali, sarebbero stati necessariamente anche privilegi di
classe.
Si era pure avanzata la proposta di abbassare il limite di
eleggibilità, indietreggiandolo dai trenta ai' venticinque anni.
Era una proposta oziosa, perchè era già rarissimo il caso di
deputati di trent'anni. Ad ogni modo se si voleva che la legge
trovasse una maggioranza favorevole era bene non introdurvi troppe
novità. Terminai con uno scherzo consigliando di lasciare questo
desiderio di deputati più giovani per quando le donne avessero il
voto.
Si pose avanti nuovamente la questione del voto obbligatorio. Ma
quando si estendeva il voto ad otto milioni di cittadini,
l'obbligatorietà sarebbe stata un principio non liberale, e di
difficilissima applicazione pratica. Il cittadino deve sentire il
dovere di partecipare alla vita politica del suo paese. Se non lo
sente, è meglio considerarlo come una quantità trascurabile. Se un
cittadino di tal fatta non vota, è un bene.
Fu allora in quella discussione, nominato per la prima volta il
sistema proporzionale. Lo sostenne l'on. Cornaggia, del partito
clericale, e ne parlò favorevolmente anche l'on. Sonnino nel suo
discorso; mentre l'on. Caetani presentò un vero e proprio
progetto, sostenendo che una tale riforma sarebbe stata l'unico
rimedio per avere un Parlamento che corrispondesse perfettamente
alle condizioni politiche del Paese.
Il progetto presentato dal Caetani era male congegnato anche
tecnicamente e si sarebbe prestato alle più singolari manovre e
sorprese; per cui, ad esempio, io sarei potuto diventare il
rappresentante di un gruppetto di anarchici, o una mia elezione
plebiscitaria a Cuneo, sarebbe stata annullata se qualcuno mi
avesse fatto lo scherzo di iscrivermi prima in una lista di
Girgenti. Ma, a parte questi scherzi, io ero avverso al sistema
proporzionale, in primo luogo perchè lo ritenevo non conforme agli
interessi generali del paese, dato che solo i partiti di minoranza
erano organizzati in modo da potersene giovare; come del resto era
dimostrato dall'esempio dei paesi in cui era stato esperimentato.
A me pareva poi che quel sistema dovesse inevitabilmente produrre
la difficoltà di creare maggioranze omogenee e compatte, capaci di
costituire e sostenere un governo forte e duraturo.
La riforma elettorale diventò legge nella prima metà del 1912, ma
il prolungarsi della guerra di Libia rese necessario rimandare
ancora per un anno e parecchi mesi le nuove elezioni, che in
condizioni normali avrebbero dovuto essere tenute al più presto
dopo l'approvazione di una legge che recando un mutamento così
vasto e profondo nelle basi stesse della vita politica, toglieva
inevitabilmente autorità ad una rappresentanza nazionale, alla cui
scelta era concorso appena un terzo del nuovo elettorato.
I risultati delle prime elezioni col suffragio quasi universale,
tenute nell'ottobre del 1913, smentirono le
previsioni di una rivoluzione parlamentare, che era stato uno
degli argomenti con cui gli organi conservatori nemici della
riforma, l'avevano combattuta. Il numero dei deputati socialisti
aumentò certo notevolmente, arrivando ad una cinquantina; e gli
elementi che facevano capo al partito clericale, allora non ancora
trasformato, esercitarono una maggiore influenza in numerosi
collegi; ma nel complesso i partiti liberali mantennero le loro
posizioni più anche che non fosse necessario per un esercizio
efficace del potere.
Quando dopo la guerra, essendo passati oltre sei anni dal primo
esperimento della riforma elettorale, gli elettori mandarono al
Parlamento oltre centocinquanta deputati socialisti ed un
centinaio di popolari, mutando così profondamente la situazione
parlamentare, e rendendo assai diffìcile e precario l'esercizio
del governo liberale, ci fu chi volle disseppellire quelle antiche
previsioni pessimiste, facendo ricadere sulla riforma del
suffragio del 1912 la responsabilità di quei mutamenti e delle
loro conseguenze. Ma, per ragione della guerra, nuove, ampie
estensioni del suffragio si erano prodotte; i quattro milioni e
mezzo di nuovi elettori creati dalla mia riforma essendosi più che
raddoppiati in seguito a nuovi provvedimenti; mentre poi sarebbe
assurdo non tenere conto del concorso dei fattori morali della
guerra nel produrre quella nuova situazione.
Ma a parte questo, si può domandare se con una guerra, la quale
aveva chiamati a portare le armi e ad arrischiare la loro vita
oltre cinque milioni di italiani, in molta parte usciti dalle
classi popolari, e in cui si era avuto un mezzo milione di morti e
un milione e mezzo di feriti; si può domandare, dico, se vi sia
alcuno, anche fra i più tenaci conservatori, che si illuda che si
potesse richiedere ad un popolo un così immane sacrifizio,
negandogli nello stesso tempo il diritto a partecipare, alla vita
pubblica del paese. Ed io ritengo che fu cosa provvida che il
popolo italiano in tutte le sue classi fosse stato investito del
diritto di partecipare alla sovranità dello Stato, prima che egli
fosse chiamato ai sacrifizi gravissimi della guerra.
Gli antecedenti della guerra libica — Gli accordi con la
Francia, Inghilterra e Russia e un memorandum aggiunto al
Trattato della Triplice — Quali furono le ragioni che mi
determinarono all'impresa —La scelta del momento — La politica
antitaliana della Porta: minacce e agitazioni — Nostri moniti al
governo turco — La preparazione diplomatica — Cordiale
atteggiamento dell' Inghilterra, Francia e Russia — Difficile
situazione dei nostri alleati: l'atteggiamento di Aehrenthal —
Tentata intromissione conciliatrice del barone Marshall —
Kiderlen-Wachter sconsiglia l'azione — Una campagna
internazionale di stampa contro l'Italia — La preparazione
militare —Perchè non cercammo d'attaccare la flotta turca —
L'episodio del « Derna » — Il nostro ultimatun — La
risposta evasiva turca e la dichiarazione di
guerra.
Un terzo punto del programma con cui avevo assunto il governo,
come già ho accennato, era la soluzione del problema della Libia;
problema che trovavasi davanti all'Italia ormai da parecchi anni,
dopo che gli accordi intervenuti fra la Francia e l'Inghilterra,
fra la Francia e la Germania, e fra la Francia e la Spagna, con
l'assenso nostro e delle altre Potenze, avevano risolto con le due
questioni dell'Egitto e del Marocco, il problema generale
dell'Africa mediterranea, riconoscendo all'Italia interessi e
diritti predominanti sulla Tripolitania e la Cirenaica.
Naturalmente, come ho già osservato, questo punto del mio
programma di governo doveva rimanere segreto; la segretezza
essendo un elemento essenziale per la migliore soluzione del
problema. Tale reticenza fu considerata da taluni critici prima
dell'evento come una rinuncia; mentre altri, quando entrammo in
azione, giudicarono che l'impresa fosse stata improvvisata e
precipitata, e ciò come un mezzo per fiaccare le opposizioni
conservatrici alle due leggi della riforma elettorale e del
monopolio. Ora è vero che l'essere l'Italia impegnata nella
impresa di Libia ebbe l'effetto di disarmare certi intrighi che si
ordivano contro quelle leggi, e si comprende che quando un paese
si trova in guerra, i conflitti degli interessi e delle opinioni
rimangono notevolmente attenuati. Ma ciò era una semplice
conseguenza, cosa ben diversa da un proposito e da una manovra
intenzionale, che sarebbero state contrarie alla avversione che io
ho sempre avuta, di cercare diversivi all'estero per i conflitti
della politica interna. D'altronde sarebbe stato assurdo pensare a
diversivi mentre i dissensi sulla politica interna erano tenui e
secondari, e la soluzione della questione libica invece
interessava veramente e largamente la pubblica opinione.
Che io mi rendessi conto dell'importanza del problema dell'Africa
mediterranea, e della necessità che l'Italia non fosse esclusa
dalla sua soluzione, l'avevo già dimostrato sino da quando ero
entrato nel Parlamento, dando la mia adesione ad un gruppo, che si
differenziava dal resto della Sinistra, appunto perchè
rimproverava al suo capo, Cairoli, la faccenda di Tunisi; ed avevo
pure disapprovato il governo che non aveva accolto l'invito
dell'Inghilterra di partecipare alla sua azione in Egitto. Dopo
conclusi poi gli accordi con la Francia e con l'Inghilterra, col
riconoscimento del nostro primario interesse nella Libia a
compenso del nostro disinteressamento nel Marocco e nell'Egitto,
io non avevo mai perduto di vista la questione nel suo aspetto
diplomatico; ed avevo ottenuto, al tempo della visita dello Czar a
Racconigi, il riconoscimento dei nostri diritti su quella zona da
parte della Russia; mentre poi all'articolo nove della Triplice,
che parlava già di una nostra eventuale occupazione della
Tripolitania, «a titolo di legittimo compenso», in un posteriore
promemoria, relativo al rinnovamento dell'Alleanza, datato del
maggio 1902, era stata aggiunta, per nostra richiesta, una
dichiarazione pura e semplice di disinteressamento della Germania
e dell'Austria-Ungheria per la questione della Libia, senza
nessuna loro riserva di compensi.
Durante poi il mio precedente governo io mi ero direttamente
occupato della eventualità che l'Italia dovesse affrontare
l'impresa di Libia; e col criterio di compiere una preparazione
locale, per profittare dei conflitti e dissensi e malumori
politici dei capi locali con le autorità turche, avevo fatto agire
in Cirenaica e in Tripolitania certi miei agenti, fra cui ricordo
Mohamed Ali Elui Bey, un egiziano che aveva già reso altre volte
servizi all'Italia, e che si mise in relazione col capo dei
Senussi; ed altre persone, che non conviene
nominare perchè essendo ancora vive
potrebbero essere esposte a vendette, le quali
pure si erano affiatate con l'elemento senussita
della università islamica del
Cairo.
Se la soluzione del problema libico non appariva
necessariamente militare mentre durava il regime di Abdul Hamid,
dal quale pareva che si potessero ottenere concessioni, di
carattere economico e giuridico, tali da assicurare gli interessi
italiani contro qualunque altra mira o appetito, le cose avevano
mutato assai con l'avvento del regime dei Giovani Turchi. Costoro
avevano eccitato dovunque il sentimento politico e fanatico delle
popolazioni, indirizzandolo particolarmente contro
quella potenza da cui credevano di avere
sopratutto da temere in una data zona del loro
impero: e per la Libia la potenza tenuta in sospetto era
naturalmente l'Italia.
Il Banco di Roma aveva in quegli ultimi anni stabiliti in
Tripolilania e Cirenaica interessi notevoli, che il Governo
italiano aveva il dovere di tutelare; e se la Turchia avesse avuta
una chiara visione della situazione, si sarebbe ben guardata dal
creare a quegli interessi difficoltà, imbarazzi e minaccie di
rivalità, che dovevano prima o dopo avere l'effetto di costringere
l'Italia a intervenire. Ricordo che quando noi richiamavamo
l'attenzione della Porta su queste cose e sulla necessità di non
ostacolare, anzi favorire gli interessi italiani in
Libia, essa ci rispondeva evasivamente e
facendoci delle offerte che a prima vista parevano assurde; così
una volta, mentre ce le negava in Tripolitania, ci offerse delle
concessioni nientemeno che in Mesopotamia. Non era un'assurdità,
ma una astuzia raffinata, anzi troppo raffinata per avere un
risultato. Con tali offerte la Porta mirava ad imbrogliare le
carte ed a creare dissensi e conflitti fra le Potenze diversamente
interessate nelle varie zone dell'Impero Ottomano; noi infatti in
Mesopotamia ci saremmo urtati con gli interessi tedeschi ed
inglesi, gli inglesi e i tedeschi in Libia si sarebbero urtati con
gli interessi italiani.
Tale era, nelle grandi linee, la situazione del problema della
Libia quando nel 1911 io assunsi nuovamente il governo; cioè una
situazione peggiorata e che rendeva ormai difficile assai, se non
addirittura impossibile, una sua pacifica soluzione, quale forse
anteriormente avrebbe potuto essere accettata. Di tutto questo da
principio non parlai che con quello dei miei colleghi, che era il
più direttamente interessato, e al quale competeva la preparazione
diplomatica iniziale: l'on. San Giuliano. Egli si trovò pienamente
d'accordo meco e mi fu poi validissimo collaboratore per la sua
parte, sia nella preparazione dell'impresa sia nella sua finale
soluzione.
L'on. San Giuliano, di cui ricordo sempre la fidata amicizia e il
grande disinteresse patriottico, era uomo di ingegno pronto,
sottile, ed equilibrato ad un tempo; e che si era fatta
rapidamente per la politica estera una larga e sicura
preparazione, avendo anche coperti i posti di ambasciatore a
Londra e a Parigi. Egli aveva la capacità, piuttosto rara, di
considerare le questioni in tutte le loro faccie prima di prendere
una risoluzione: come pure di fare giusta ragione alle critiche
che si potevano.opporre alle sue vedute, assimilando le opinioni
degli altri. Possedeva poi una singolare facilità, una volta
compresa una questione nel suo complesso, di farne una esposizione
chiara e semplice; e particolarmente felice era nella
redazione di documenti diplomatici, che devono essere compilati in
modo che esprimano tutto ciò che si deve e vuol dire, senza
dare appigli a ritorsioni. Ricordo che spesso,
dopo una conversazione che egli aveva meco, nella quale
esaminavamo una questione nei suoi vari aspetti e prendevamo una
decisione, egli si ritirava in una stanza attigua al mio studio,
ed in pochi minuti compilava la nota diplomatica, che dopo
un'ultima revisione fatta insieme veniva spedita.
Egli mi teneva sempre informato, anche quando eravamo lontani,
minutamente di tutto, e non prendeva alcuna deliberazione senza
prima essersi messo d'accordo con me. Il solo punto in cui io non
ero d'accordo con lui, era una certa tendenza che egli aveva di
spingersi avanti troppo rapidamente; ma bastava poco per fargli
subito riconoscere la convenienza di andare più adagio e ponderare
più lungamente. Ad un certo punto della sua carriera egli si era
disinteressato interamente dalla politica generale e da qualunque
altra questione che non fosse di politica estera, per
la quale intendeva di specializzarsi; ed a questo
scopo appunto mi aveva chiesto di farlo nominare Senatore, perchè
l'ambiente della Camera, con le sue lotte politiche e con le
necessità elettorali, gli impediva di seguire completamente questa
sua inclinazione.
Quando la guerra con la Turchia fu dichiarata, ci fu chi almanaccò
sulle ragioni che potevano avere spinto il governo a questa
decisione, la quale a chi ignorasse i precedenti doveva parere
appunto improvvisata. E si parlò di ragioni segrete, le quali
avrebbero ad un certo punto vinte le mie
esitanze. Niente di vero vi è in tutto questo.
Le ragioni che mi persuasero della necessità di agire, erano
ragioni di carattere politico generale. Una volta risolta la
questione del Marocco da una parte con lo stabilimento del
predominio francese, e quella dell'Egitto dall'altra, col
riconoscimento diplomatico del predominio inglese, stabilitovi di
fatto da lungo tempo, le condizioni di cose in cui rimaneva la
Libia, sotto il dominio ottomano, erano tali da non poter
continuare. Mentre infatti l'Africa occidentale, da Tunisi al
Marocco, e l'Egitto si trovavano sotto l'egida di amministrazioni
europee, nella Libia prevalevano ancora condizioni
straordinariamente arretrate; basta ricordare che a Bengasi c'era
ancora il commercio degli schiavi, che venivano presi con la
violenza; nel centro d'Africa e venduti su quel mercato. Era
impossibile che una simile infamia fosse tollerata
alle porte d'Europa.
Noi, nei negoziati con la Francia e l'Inghilterra per le questioni
egiziane e marocchine, ci eravamo fatti attribuire dei diritti,
dei quali avevamo ottenuto il riconoscimento anche da parte delle
altre maggiori potenze; e doveva venire, e per me era venuto o era
imminente il momento nel quale noi ci trovavamo in questa
alternativa: o esercitare senz'altro questi diritti o rinunciarvi.
Lo stato di cose esistente non poteva durare, e data la condotta
dei Giovani Turchi, se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe
andata qualche altra potenza in qualche modo interessata
politicamente, o che vi avesse creato degli interessi economici.
D'altra parte l'Italia, che si era già così profondamente commossa
per l'occupazione francese di Tunisi, non avrebbe certamente
tollerata una ripetizione di un evento di quel genere per la
Libia; e così noi avremmo corso il rischio di un conflitto con
qualche potenza europea, cosa senza confronto più grave di un
conflitto con la Turchia. Perseverare nella situazione in cui ci
trovavamo, di avere messa una ipoteca sulla Libia, ciò che
impediva agli altri di andarci, senza poi andarvi noi, sarebbe
stata una cosa non seria, e che del resto ci creava difficoltà in
tutte le altre questioni europee, e particolarmente in quelle dei
Balcani.
Un'altra complicazione derivava dal fatto della politica turcofila
in cui si erano impegnati allora i nostri alleati, sopratutto la
Germania, e che si trovava in contrasta con il trattamento che il
governo di Costantinopoli faceva agli interessi italiani; così che
San Giuliano, nelle sue comunicazioni coi governi di Berlino e di
Vienna sosteneva la tesi, in apparenza paradossale, che l'unico
modo per ristabilire l'amicizia fra noi e la Turchia, e rendere
possibile una politica armonica della Triplice Alleanza
nell'Impero Ottomano, era che noi occupassimo la Tripolitania.
Per queste ragioni capitali, appena formato il Ministero, San
Giuliano ed io ci trovammo d'accordo che l'occupazione della Libia
era una questione da tenere di mira. San Giuliano, che per la
Libia sentiva un interesse più speciale, nella sua qualità di
siciliano, aveva maggiore fretta, e riteneva conveniente di agire
prima che fosse risolta la questione grave assai, allora pendente
fra la Francia e la Germania, pel Marocco. Egli sosteneva che se
noi avessimo agito mentre l'opinione pubblica europea era assai
preoccupata dei pericoli della questione marocchina, la nostra
azione avrebbe attratta minore attenzione e sarebbe, come si dice,
passata più facilmente. Tittoni esprimeva una opinione eguale da
Parigi, con argomenti diversi; egli pensava che l'impresa libica
non avrebbe trovate opposizioni in Francia mentre vi perdurava la
preoccupazione della questione marocchina; ma temeva che una volta
quella questione risolta, il governo francese, con tutta la
migliore buona volontà di mantenere gli impegni presi con noi per
la Libia, si sarebbe trovato sotto la pressione del partito
coloniale francese, assai potente, il quale non avrebbe mai visto
di buon occhio che l'Italia s'insediasse vicino alle colonie
francesi nell'Africa settentrionale.
Sulla opportunità di agire subito io ero d'opinione diversa. Io
pensavo che l'Italia non dovesse muoversi fino a che non fosse
risolta appunto la questione marocchina, che nei primi tempi del
mio nuovo Ministero era ancora aperta fra la Francia e la
Germania, e traversava anzi il suo momento più difficile e
pericoloso. Tale questione era infatti di tanta importanza, che
poteva essere la scintilla della conflagrazione europea; ed io
ricordo che in quei giorni l'Ambasciatore di Francia, Barrère, mi
aveva accennato al pericolo che per la questione del Marocco
scoppiasse la guerra fra il suo paese, che non intendeva di subire
più l'umiliazione inflitta al Delcassé, e la Germania, i cui
propositi apparivano oscuri. Ora, finché pendeva questa minaccia
di una guerra europea, noi, a mio parere, nulla dovevamo fare che
potesse complicare la situazione, e sopratutto nei rapporti fra la
Francia e la Germania; sia per non assumere la grave
responsabilità di avere contribuito alla conflagrazione generale;
sia perchè se la guerra europea fosse scoppiata, era nostro
evidente interesse di trovarci interamente liberi, e non impegnati
in una impresa che avrebbe complicata la nostra situazione.
Si aggiunga ancora che, aspettando la fine della questione
marocchina, la questione della Libia si sarebbe presentata sul
campo diplomatico interamente isolata, nel quale caso era assai
più facile ottenere il consenso di tutti; mentre, se noi agivamo
mentre era aperta un'altra questione, che interessava così
profondamente alcune delle maggiori Potenze europee, il consenso
ci sarebbe stato mercanteggiato e condizionato dalle varie parti,
con l'effetto di complicare assai le cose.
Però, oltre a queste, di carattere politico e diplomatico, di
altre complicazioni si doveva tenere conto, di carattere militare.
Noi sapevamo che i porti della Libia non possedevano
fortificazioni o solo fortificazioni invecchiate, tali da non
potere opporre alcuna resistenza all'attacco di una flotta
moderna; e che le guarnigioni turche a Tripoli, Derna, Bengasi,
Tobruk, Misurata, ecc. erano esigue e tali da non potere opporsi
ai nostri sbarchi. La flotta ottomana, costituita di poche e
vecchie navi, non poteva pure fare ostacolo alle nostre
operazioni. Ma era noto però che il governo Giovane Turco stava
lavorando a rimettere in piena efficienza l'assetto militare
dell'Impero, e per la flotta si erano date o si stavano per dare
importanti ordinazioni per dreadnoughts e cacciatorpediniere ai
cantieri inglesi. A parte questi preparativi di carattere
generale, nulla avrebbe impedito al governo ottomano, quando
avesse avuto sentore delle nostre intenzioni, di portare in Libia
forti reparti di truppa, e di rafforzare la resistenza contro
sbarchi con mine e torpedini.
In secondo luogo bisognava tenere conto delle condizioni del mare
nelle diverse stagioni, considerando sopratutto che gli sbarchi
nei porti della Tripolitania e peggio in quelli della Cirenaica,
erano resi assai difficili per la mediocrità dei mezzi di cui quei
porti disponevano. Grossi sbarchi improvvisi, quali si richiedono
per una spedizione militare che deve procurarsi il vantaggio della
sorpresa, non erano possibili, per le condizioni del mare, fra il
dicembre ed il maggio; l'impresa quindi, o doveva farsi in autunno
o rimandarsi all'anno seguente, cosa, per le ragioni dette, assai
pericolosa.
Un'altra considerazione favoriva la scelta della stagione
autunnale, quando cioè si andava verso l'inverno: il nostro
proposito cioè di isolare l'azione libica il più possibile, ed
evitare sopratutto ripercussioni nei Balcani, che l'esperienza
mostrava assai meno probabili nella stagione invernale, quando la
neve rende molto difficili, in quel paese montuoso, i movimenti
militari ed anche le incursioni di semplici bande armate.
Quando dunque la questione marocchina fra la Francia e la Germania
fu pacificamente risolta, io giudicai che fosse giunto il momento
di agire.
La condotta del governo dei Giovani Turchi aveva nel frattempo,
anziché mitigata, aggravata la situazione. A Tripoli
particolarmente, il Vali, istigato e spalleggiato dal comitato
locale «Unione e Progresso», moltiplicava gli atti di dispregio
verso i cittadini italiani, e cercava ogni pretesto per
ostacolarne l'attività e danneggiarli. Le cose erano giunte a tal
punto che il Banco di Boma, che aveva specialmente stesi i suoi
interessi commerciali nella Tripolitania, vedendosi esposto
a gravi danni, parve avesse aperte trattative per cedere tutti
questi suoi interessi ad un gruppo di banchieri austro-tedeschi. E
bisognava per la verità riconoscere che da quasi ormai due anni la
Porta si mostrava affatto sorda a tutti i nostri reclami ed alle
nostre proteste; lasciando anzi intravedere chiaramente il
desiderio di sradicare qualunque influenza italiana dalla Libia,
provocando nello stesso tempo l'entrata in campo di altri
interessi, specialmente tedeschi, con l'evidente intenzione di
crearvi una condizione di cose che alla lunga avrebbe intaccati
gli stessi diritti politici che dalle altre Potenze ci erano stati
riconosciuti.
L'importanza decisiva dell'elemento commerciale nel determinare la
validità degli interessi politici, sia pure tradizionali, è uno
degli aspetti della colonizzazione moderna; e il governo ottomano
con la sua politica intesa ad ostacolare l'affermazione della
nostra supremazia economica in Libia, insidiandola con concessioni
offerte o promesse a cittadini di altre Potenze, e togliendoci
così l'alternativa di una penetrazione pacifica, non solo rendeva
inevitabile, ma affrettava l'occupazione militare italiana, dando
ad essa le migliori ragioni.
Fra l'altro, come esempio di queste macchinazioni contro gli
interessi italiani, va ricordato che, dovendosi in quel tempo fare
l'aggiudicazione per lavori notevoli di estensione ed adattamento
del porto di Tripoli, il governo di Costantinopoli, stabilendo di
bandire un'asta pubblica, aveva lasciato intendere di essere
disposto a fare di tutto per impedire che essa fosse aggiudicata
ad un italiano. Sino dal luglio noi, anche per mezzo dei nostri
alleati, cercammo di fare comprendere al governo turco che
continuando per quella strada avrebbe rese inevitabili nostre
decisioni radicali; e che, per migliorare le relazioni fra i due,
paesi, s'imponevano alcuni provvedimenti, fra i quali la
sostituzione dell'allora Vali, principale persecutore dei nostri
interessi, ed ormai troppo decisamente compromesso in una politica
antitaliana perchè si potesse sperare in un suo ravvedimento
sincero e leale.
L'Aehrenthal, allora alla testa del governo austro-ungarico, e il
Cancelliere tedesco, Kiderlen-Wächter, riconobbero la giustezza
delle nostre lagnanze e la legittimità delle nostre domande; ma,
da certi loro accenni pare che essi pensassero che i Giovani
Turchi dopo gli atteggiamenti nazionalisti che avevano presi, e
sui quali fondavano il loro prestigio, non si trovassero in
condizione di fare reali concessioni, senza esporsi ad un grave
indebolimento di quel prestigio, con la possibile conseguenza
anche di una caduta del loro regime. E che il governo turco non
avesse alcuna volontà di venire incontro alle nostre eque
esigenze, anzi credesse di potersi prendere con noi qualunque
libertà, anche fuori della questione libica, fu in quel torno
dimostrato da un altro fatto diplomatico assai grave.
Avendo bisogno di fondi, la Porta stava negoziando con la Germania
e l'Austria-Ungheria un aggravamento del quattro e mezzo per cento
sulle tariffe doganali; e noi fummo informati che, una volta
ottenuto il consenso delle altre Potenze a tale aumento, esso
intendeva mettere l'Italia di fronte al fatto compiuto, ed
applicare la nuova tariffa alle merci italiane senza alcun
preventivo negoziato. Siccome il consenso delle altre Potenze era
ottenuto in base a compensi ed a concessioni, era evidente che
anche per quella occasione il governo turco, non solo si proponeva
di evitare qualunque discussione di compensi e concessioni
col-l'Italia; ma credeva di poter compiere contro di noi un aperto
atto di dispregio, che avrebbe gravemente danneggiato in tutto
l'Oriente il nostro prestigio, già assai scosso, secondo le
relazioni dei nostri consoli, in Tripolitania, come conseguenza
delle prepotenze a cui vi erano stati sottomessi i nostri
connazionali.
La conclusione della questione marocchina aveva poi avuto notevoli
e inevitabili ripercussioni nell'opinione pubblica italiana, quale
era espressa nella stampa. La stampa si occupava largamente della
questione dell'Africa mediterranea; ed anche giornali cauti e
moderati non nascondevano che la conclusione dell'accordo
franco-tedesco pel Marocco, che dava finalmente, senza più
ostacoli e riserve, alla Francia ciò che le era stato riconosciuto
nella convenzione conclusa con l'Italia, rendeva ormai imperativo
di definire chiaramente, ed una volta per sempre, nella realtà gli
interessi ed i diritti che erano stati riconosciuti anche a noi.
Definizione che avrebbe potuto anche essere pacifica, se a
Costantinopoli si fosse avuto un chiaro concetto della situazione,
e si fosse compreso che l'unico modo di evitare un conflitto, era
di venire incontro lealmente all'Italia. Le lettere e i telegrammi
da Tripoli portavano invece ad ogni momento notizie di nuovi
soprusi, i quali, per quanto mediocri e secondari ognuno per sé
stesso, presi tutti insieme costituivano un grave danno economico
e politico; mentre le notizie da Costantinopoli, riconfermate dai
dispacci della nostra ambasciata, e perfino dalle corrispondenze
di giornali esteri, dipingevano la Porta in atto di spregio e di
sfida verso di noi.
La considerazione generale dei nostri interessi nell'Africa
mediterranea, congiunta, a quelle notizie che dimostravano essere
in pericolo, non solo gli interessi economici, ma anche il nostro
prestigio e la nostra dignità nazionale, finirono per determinare
una vera campagna in molta parte della nostra stampa, che chiedeva
senz'altro la soluzione della questione libica, con largo consenso
da parte della pubblica opinione. La ripercussione del linguaggio
dei nostri giornali, tanto in Tripolitania che a Costantinopoli,
fu assai curiosa e contradditoria. Quel tanto di opinione pubblica
che vi era in Turchia, e che era totalmente dominata dai Giovani
Turchi, cominciò anch'essa ad agitarsi; si tennero sedute dei
Comitati «Unione e Progresso», nei quali si protestava contro
qualunque; concessione all'Italia in Libia; si eccitava il governo
a mandare truppe ed armi a Tripoli e a Bengasi; si minacciava di
istituire un boicotaggio generale in tutto l'Impero contro le
merci italiane; e si accennava persino al proposito, nel caso di
guerra, di espellere tutti gli italiani dai territori dell'Impero.
A Tripoli la situazione era più complicata. I rapporti dei nostri
consoli avevano già richiamata la nostra attenzione al fatto che
il regime turco non era affatto popolare fra gli arabi, che ne
erano continuamente vessati; e non mancavano dei capi influenti,
quale il sindaco di Tripoli, Hassuna pascià, discendente della
antica famiglia reale del paese, che non si mostravano alieni
dall'affiatarsi con noi. I nostri consoli non si fecero però mai
eccessive illusioni in proposito; presumendo che, in caso di
guerra, l'appello al fanatismo islamico ed al nazionalismo non
sarebbero riusciti vani. Infatti i Comitati locali dell'«Unione e
Progresso> iniziarono per tempo una campagna di nazionalismo e
fanatismo, convocando i capi e le popolazioni arabe nelle moschee,
per manifestazioni di protesta contro l'Italia; ottenendo nel
principio una risposta mediocre, che andò però a mano a mano
infervorandosi e aumentando.
Il contegno del governo turco fu assai vario, ed
andò mutando con
lo svolgersi degli avvenimenti.
Esso tentò dà principio la maniera
forte. L'incaricato d'affari turco, il giorno quattro agosto si
presentò alla Consulta, e nell'assenza del San Giuliano
parlò in
modo altero al sottosegretario, lagnandosi
che l'ostilità verso la
Turchia che si andava manifestando nell'opinione pubblica e
perfino nel Parlamento, non fosse moderata da esplicite
dichiarazioni ufficiali del governo italiano; e concluse dicendo
che la mancanza di un'azione energica da parte nostra avrebbe
potuto turbare i rapporti fra i due paesi. Il sottosegretario,
onorevole Di Scalea, premettendo che egli non poteva .accettare
tale intonazione di linguaggio né prendere nemmeno atto di quella
comunicazione, osservò che la Turchia doveva solo a sé stessa la
sollevazione dell'opinione pubblica italiana, per gli innumerevoli
atti di ostilità che essa aveva lasciato compiere da suoi
funzionari, e particolarmente dal Vali di Tripoli.
San Giuliano informò della cosa De Martino, che reggeva
l'Ambasciata di Costantinopoli, dandogli anche incarico di
lasciare chiaramente intendere al Ministro degli Esteri turco, che
se la condotta delle autorità turche verso i nostri interessi in
Tripolitania non fosse mutata, le conseguenze potrebbero essere
più gravi assai che gli articoli dei giornali e i discorsi dei
deputati. Era un parlar chiaro e leale il nostro, che però non
ebbe alcun effetto; ed io tengo a rilevarlo contro l'accusa fatta
a noi di avere consumata una aggressione improvvisa ed
ingiustificata. In fondò la Turchia, come ci comunicava il nostro
addetto militare, riferendo sulla lentezza ed inadeguatezza dei
preparativi militari turchi per la difesa della Libia, non credeva
né alla nostra capacità di agire né alla nostra potenzialità
militare, e calcolava quindi che una nostra spedizione avrebbe
implicata una lunga e visibile preparazione che le avrebbe dato
tutto il tempo necessario per preparare la difesa.
Neanche i moniti di qualche ambasciatore estero ebbero effetto.
Solo all'ultimo momento, anzi quando già la nostra flotta era
davanti a Tripoli ed entrava in azione, rivolgendosi alla Germania
e ad altre potenze perchè intervenissero come pacieri, fece
promesse di concessioni di ogni genere, e si dichiarò disposta a
riparazioni pel passato. Era troppo tardi, e le promesse fatte in
quelle condizioni e circostanze erano la riprova della scarsissima
fede che si poteva avere in quel governo.
D'altra parte, durante tutto questo periodo preparatorio, che andò
dal giugno al settembre, io ritenni conveniente di condurre avanti
un'opera di preparazione diplomatica presso le Potenze in
qualunque modo interessate; opera che fu intensificata quando
l'occupazione della Libia divenne per noi una decisione
irrevocabile, ed anzi di imminente attuazione.
Anche in questo bisognava però procedere con molta prudenza, per
non dare allarmi e non provocare complicazioni. Si trattava di
risolvere la situazione libica, che non poteva più protrarsi senza
danno ai nostri interessi ed al nostro prestigio, senza allarmare
l'Europa riguardo alla questione ottomana, che si temeva potesse
provocare una confagrazione generale. C'era dunque il pericolo, se
le nostre intenzioni diventassero troppo apparenti,
che a qualche potenza venisse l'idea di darci dei consigli, e che
in tal modo s'intavolasse una discussione generale che poteva
compromettere tutto, dando tempo alla Turchia per una forte
preparazione bellica nel territorio che dovevamo occupare. Per
tanto la preparazione diplomatica, che pure era necessaria per
creare intorno alla nostra impresa, quando si iniziasse, un
sentimento di benevolenza o almeno per evitare avversioni troppo
forti ed aperte, doveva consistere nel tenere le Potenze al
corrente della diffìcile condizione in cui la condotta del Governo
turco poneva l'Italia, e lasciare comprendere che noi potevamo
essere costretti, prima o dopo, ad agire, senza però nulla
precisare al riguardo.
Inviammo quindi le opportune istruzioni ai nostri ambasciatori
nelle grandi capitali. Il nostro ambasciatore a Londra, marchese
Imperiali, trovò la strada abbastanza facile presso il Governo,
mentre il contegno della stampa non era ugualmente favorevole.
Parlando con Sir Edward Grey, allora ministro degli Esteri, il
nostro ambasciatore mise in rilievo la longanimità veramente
esemplare di cui il Governo italiano aveva dato prova, pel suo
desiderio di evitare complicazioni, ma senza però riuscire a
persuadere i Giovani Turchi a mutare la loro condotta, ora
nascostamente ora apertamente ostile. Tale ostilità si era andata
anzi sempre più aggravando; così che il nostro governo non si
troverebbe più in grado di resistere alla opinione
pubblica, reclamante la tutela degli interessi e della
dignità nazionale.
Questa comunicazione ebbe luogo il 26 luglio. Grey l'accolse con
molta cordialità. Egli dichiarò che già precedenti accenni
l'avevano reso edotto delle difficoltà della nostra situazione, e
che un esame di questa l'aveva persuaso che le nostre lagnanze
erano pienamente fondate. Se pertanto l'Italia, a tutela dei suoi
diritti conculcati, e fallito ogni possibile tentativo per una
soluzione pacifica della questione, si trovasse costretta ad
agire, l'Inghilterra non solo nulla farebbe contro, ma le
concederebbe l'appoggio della sua simpatia, beninteso solamente
morale, riservandosi, al momento opportuno, di fare sentire a
Costantinopoli che la Turchia non poteva aspettarsi dall'Italia
trattamento diverso dato il suo scorretto procedere verso di essa.
Grey osservò ancora, sempre a titolo di consiglio amichevole e
personale, che gli pareva fosse indispensabile che la nostra
eventuale azione fosse giustificata da una flagrante violazione
dei nostri diritti, o dalla patente dimostrazione del proposito
della Turchia di porci in Tripolitania in condizioni di
inferiorità rispetto alle altre nazioni. Insistette su questo
punto specialmente nel senso di evitare qualunque apparenza che la
nostra azione fosse determinata dal desiderio da parte nostra di
ottenere dalla Turchia una posizione economica basata su
particolari interessi, perchè una tale apparenza gli avrebbe reso
difficile di sostenere davanti al Parlamento la simpatia e
l'appoggio morale che intendeva di concederci; l'Inghilterra
avendo sempre mantenuto intatto il principio della porta aperta in
materia economica anche nei suoi accordi con la Francia per il
Marocco.
Codeste cordiali ed amichevoli disposizioni dell'Inghilterra,
dovute oltre che all'antica amicizia fra i due paesi, ed agli
accordi intervenuti fra loro per l'Africa mediterranea, anche al
riconoscimento, che al governo inglese era agevole per la sua
esperienza di cose coloniali, della impossibilità di altra
soluzione, furono pienamente confermate all'ultimo momento.
Infatti il 26 settembre, nell'imminenza della nostra azione,
avendo l'ambasciatore turco a Londra, per ordine del proprio
governo, fatte preghiere presso il Foreign Office, perchè
l'Inghilterra intervenisse dando a noi consigli di moderazione,
Grey gli fece rispondere che, trattandosi di questione
esclusivamente italo-turco, il Governo britannico non intendeva di
intervenire in alcun modo, anche se l'Italia, andando alle ultime
conseguenze, occupasse la Tripolitania.
Più incerto fu il contegno della stampa inglese. Alcuni giornali
riconoscevano fondate le nostre lagnanze, ma si mostravano
riluttanti ad incoraggiare misure coercitive, per la
preoccupazione delle ripercussioni che esse potevano avere sulla
già precaria situazione interna della Turchia, e si prevedeva
un'aspra resistenza con misure di rappresaglia contro gli
interessi italiani nelle altre parti dell'Impero. Vi erano poi
alcuni giornali liberali ed altri radicali che si mostravano
risolutamente ostili, usando anche un linguaggio violento; e seppi
che erano giornali che risentivano l'influenza tedesca in quanto
sostenevano il progetto, allora patrocinato da alcuni gruppi
politici inglesi, per una intesa con la Germania.
Pienamente cordiale fu pure verso di noi l'atteggiamento della
Francia, alla quale del resto i nostri diritti sulla Libia
dovevano apparire tanto più legittimi, e la nostra azione più
giustificata, in quanto la situazione generale dell'Africa
mediterranea, e la posizione speciale in cui l'Italia si trovava,
erano in buona parte una diretta conseguenza, sia della politica
francese riguardo al Marocco, sia degli accordi intervenuti da
lungo tempo e sempre confermati, fra l'Italia e la Francia. Il
governo francese comprese benissimo ed ammise senza riserve, che
la soluzione definitiva a cui arrivava la questione marocchina con
gli ultimi accordi con la Germania, apriva nettamente il problema
della soluzione del problema libico per l'Italia. Il nostro
ambasciatore, on. Tittoni, che già aveva avuto molta parie nei
negoziati relativi ai nostri diritti sulla Libia quando era
ministro degli esteri, aveva ottenuto recentemente le più
esplicite e categoriche dichiarazioni dai Ministri Pichon e Cruppi
riguardo alla fedeltà della Francia agli impegni conclusi nel
1902. Il 22 settembre egli aveva poi avuta una nuova conversazione
col Ministro degli Esteri De Selves, e questi gli aveva dichiarato
che per la nostra azione in Tripolitania potevamo contare che il
governo francese sarebbe stato con noi incondizionatamente; e
soggiunse anche che siccome si parlava della eventualità del
lanciamento di un nuovo prestito turco
in Francia, il governo non
avrebbe mai data la sua
adesione fino a che la questione tripolina
non fosse
pienamente risolta.
Anche Delcassé dichiarò al Tittoni che tutti i voti e le simpatie
erano per l'Italia.
Tale atteggiamento, così cordialmente
amichevole del
governo francese, fu pure rispecchiato dalla
stampa,
la quale, a parte l'incidente del Manouba e del Carthage,
seguì poi con molto favore e simpatia la nostra
impresa.
Anche il governo russo, informato di una nostra eventuale azione
in Tripolitania verso la fine d'agosto, prese atto amichevole, per
mezzo del Ministro degli Esteri, signor Neratow, delle nostre
comunicazioni, riconoscendo il nostro diritto di agire in base
agli accordi di Racconigi. L'Iswolsky, che di quegli accordi era
stato meco e col Tittoni l'autore nel 1907, trovandosi ora a
Parigi quale ambasciatore, parlò della cosa col Tittoni, ed udite
le spiegazioni di questi, dichiarò che potevamo agire come
credevamo, aggiungendo: — Procurate però di non farci trovare
all'improvviso sulle braccia lo sfacelo della Turchia e la
necessità di un intervento europeo nella Balcania. —
Preoccupazioni di questo genere furono espresse poi da parte della
stampa russa, la quale, considerando che in tre anni di esistenza
il regime giovane-turco non aveva avuto a registrare che degli
insuccessi o dei disastri; nella Bosnia-Erzegovina, in Creta, in
Albania, e dovunque; temeva che l'occupazione della Tripolitania
potesse essere la goccia che facesse traboccare il vaso
dell'indignazione pubblica turca, spingendo il governo a gettarsi
in qualche avventura pericolosa nei Balcani oppure in Persia per
riconquistare il prestigio perduto.
Nel contegno di queste tre Potenze in tale occasione, oltre che la
cordialità verso di noi e il leale adempimento degli impegni
contratti, non era assente forse un qualche risentimento verso il
governo Giovane-Turco, che si era buttato in braccio alla
Germania, e il calcolo della convenienza politica che quel governo
dovesse accorgersi che la protezione germanica potesse riuscire
inefficace anche contro un membro della Triplice Alleanza.
La considerazione della particolare situazione in cui si trovavano
la Germania e l'Austria, e sopratutto la prima, fra l'alleanza con
l'Italia, e l'amicizia e gli interessi con la Turchia, aveva
persuaso me e il San Giuliano della convenienza di ritardare al
più possibile di informare gli alleati delle nostre intenzioni e
della nostra eventuale azione; ragione che noi poi dichiarammo
francamente, e che anche l'Aerenthal riconobbe legittima e giusta,
quando verso la fine di settembre ritenemmo opportuno alla fine di
informarli. Avevamo voluto ad un tempo risparmiare loro un serio
imbarazzo, ed assicurarci contro interferenze le quali, per quanto
bene intenzionate ed amichevoli, avrebbero complicata la nostra
situazione. L'Aerenthal, informato dal nostro ambasciatore
D'Avarna, e messo al corrente delle ragioni dell'azione nostra,
mostrò di rendersene benissimo conto. Egli si mostrò soddisfatto
del proposito, da noi dichiaratogli, di volere localizzare la
questione nel Mediterraneo, e di astenerci, nella misura del
possibile, da azioni tali da provocare ripercussioni nei Balcani;
ma insistette sul pericolo che tali ripercussioni non si potessero
evitare, considerando la situazione interna della Turchia e le
disposizioni dei Giovani Turchi.
Come amico ed alleato dell'Italia egli credeva suo dovere di
richiamare su ciò l'attenzione del nostro governo, pregandolo a
considerare la grave responsabilità in cui poteva incorrere. Del
resto chiese tempo a riflettere, per poi fare il suo rapporto
all'Imperatore, a cui competeva di pronunziarsi, riservandosi di
comunicarci le decisioni che il governo avrebbe prese. Gli
avvenimenti poi posero l'Austria davanti al fatto compiuto; ed il
conte di Aerenthal,dando il 29 settembre la risposta che si era
riservata, dichiarò che il suo governo doveva anzitutto esprimere
il rincrescimento che il governo italiano avesse abbandonato così
presto il terreno diplomatico. Però il governo austro-ungarico
considerava che l'Italia, sua alleata ed amica, aveva diritto di
provvedere come meglio credeva alla tutela dei propri interessi, e
non avrebbe quindi fatta alcuna difficoltà alla sua azione in
Tripolitania. E concludendo richiamava ancora l'attenzione nostra
sulle eventuali ripercussioni della nostra azione nei Balcani, e
ricordando che il Trattato della Triplice era basato sul
mantenimento dello status quo nella Turchia europea, esprimeva la
fiducia che l'Italia avrebbe preso tutti i provvedimenti
convenienti per localizzare la sua azione nel Mediterraneo e
impedire perturbamenti nei Balcani.
Nel fare le nostre comunicazioni all'Austria ed alla Germania, noi
avevamo abbinato in certo modo la questione della Tripolitania col
rinnovamento, ormai prossimo della Triplice, per fare ben
comprendere a Vienna ed a Berlino che un atteggiamento ostile e
poco cordiale verso di noi avrebbe messo in serio pericolo
l'Alleanza.
Più complicata e delicata ancora di quella dell'Austria era la
situazione della Germania, la quale, dopo avere compiuto negli
ultimi anni un lavoro assiduo e fortunato per attrarre la Turchia
nella orbita della Triplice, vedeva ora prossimo a scoppiare un
conflitto fra la Turchia ed una delle antiche alleate. L'amicizia
turco-tedesca era stata opera di un diplomatico tedesco di grande
valore, il barone Marshall, e il governo tedesco contando su di
lui per trovare una soluzione pacifica della questione, noi ci
trovammo in comunicazione più col Marshall a Costantinopoli che
con il Cancelliere a Berlino.
Il giorno 26 settembre il Marshall arrivò a Costantinopoli di
ritorno da Berlino, dove certo aveva avuti affiatamenti ed
istruzioni; ed in alcune conversazioni col nostro reggente
l'ambasciata, Comm. De Martino, fece del suo meglio per
traversarci, sia pure amichevolmente, la strada. Al suo arrivo il
Gran Visir l'aveva subito chiamato, invocando i buoni uffici della
Germania, e nello stesso tempo facendo ricadere su questa la
responsabilità delle cose, e sostenendo che la questione tripolina
non era altro che una conseguenza dell'azione tedesca nel Marocco.
Il Marshall, secondo che egli riferì al De Martino, aveva
energicamente negato, respingendo la responsabilità sui Giovani
Turchi, che non avevano mai seguito i suoi consigli di non
scontentare l'Italia in Tripolitania. Ad ogni modo il Gran Visir
insisteva per l'intromissione di buoni uffici della Germania,
dichiarandosi disposto a fare tutte le concessioni che l'Italia
chiederebbe, per evitare la caduta dei Giovani Turchi. Il Marshall
aveva risposto che avrebbe riferito a Berlino.
Quale fosse la risposta che da Berlino ricevette non sapemmo; ma
in un'altra e decisiva conversazione col De Martino apparve chiaro
che egli aveva promesso al Gran Visir di fare un tentativo per una
intesa sul terreno economico; e si sforzò assai di persuaderlo.
Egli sosteneva che la nostra occupazione della Tripolitania
avrebbe fatto scoppiare una immediata rivoluzione in Turchia, con
la caduta dei Giovani Turchi e conseguenti disordini contro le
colonie europee; che ciò avrebbe reso necessario l'invio di navi e
sbarchi da parte dell'Italia e di altre Potenze, con la
conseguenza ultima che si sarebbe aperta la questione d'Oriente.
Il nostro rappresentante, in base ad altre informazioni raccolte,
dichiarò esagerate quelle preoccupazioni, e i fatti gli dettero
poi ragione; mentre il Marshall viceversa si dichiarava convinto
che gli Stati balcanici non si sarebbero mai mossi, ed in questo
invece ebbe poi torto.
Il Marshall insistè assai nelle sue vedute, dandoci assicurazioni
sulle concessioni economiche; e poiché il De Martino gli
rispondeva che la fiducia dell'Italia era ormai esaurita e che del
resto la questione si era spostata, e che si trattava ormai
dell'equilibrio del Mediterraneo, egli concludeva, sempre
insistendo che noi ci assumevamo una responsabilità assai grave.
Ed anche alla vigilia del giorno in cui si iniziarono le ostilità,
il ministro degli esteri tedesco Kiderlen Wàchter chiamò il nostro
ambasciatore, il Pansa, e cercò di indurlo a persuadere il governo
italiano a non dichiarare la guerra alla Turchia, mettendo
anch'egli avanti il pericolo di perturbazioni balcaniche e dello
sfacelo dell'Impero Ottomano.Questi tentativi di arrestarci sulla
via dell'azione, mi confermarono nel mio proposito di evitare che
fra l'evidente nostra intenzione di agire e l'azione stessa ci
fosse un intervallo che lasciasse tempo all'intervento di consigli
da qualunque parte. La situazione della Germania, ripeto, era
assai delicata, per gli impegni, sia pure generici, di protezione
presi verso i Giovani Turchi, e si comprende e non c'è da fare
obbiezione al suo tentativo di guadagnarsi un gran merito presso
di loro risolvendo amichevolmente la questione della Libia II
Marshall aveva tentata la sua mediazione il 27 settembre, il
giorno dopo la presentazione del nostro ultimatum; tre giorni dopo
venne la risposta insoddisfacente della Turchia
e la nostra dichiarazione di guerra; e dopo il fatto compiuto il
governo tedesco si condusse sempre lealmente con noi.
Una forte parte della stampa tedesca, come pure di quella
austriaca, condusse invece una violenta campagna di denigrazione
contro l'Italia, per quasi l'intera durata della guerra; ed io
ebbi ragione di credere che quella campagna rappresentava un
tentativo di certi interessi che avrebbero voluto sostituire nella
Triplice la Turchia all'Italia. Tali vedute non erano affatte
condivise dal Governo di Berlino, il quale anzi insistette presso
di noi per una rinnovazione anticipata
dell'Alleanza.
A quel segreto, che consideravo necessario per la preparazione
della nostra azione, e che fu benissimo mantenuto sino all'ultimo,
concorse anche la stagione estiva, che allontanando da Roma gli
ambasciatori delle Potenze, evitava le indiscrezioni ed anche quei
contatti nei quali non è sempre possibile non tradire il proprio
pensiero. Io poi m'ero inteso con San Giuliano perchè, col
pretesto delle vacanze egli si tenesse a Fiuggi o a Vallombrosa,
mentre io stavo a Cavour ed a Bardonecchia, per mostrare che nulla
d'insolito era sul tappeto. Ricordo che i giornali più infervorati
per la questione libica mi rimproveravano acerbamente questa mia
lontananza dalla capitale, e la mancanza di contatti col Ministro
degli Esteri e con gli altri membri del Governo in un momento,
simile; ma le ingiurie che mi rivolgevano mi facevano un gran
piacere, perchè dimostravano che il mio stratagemma riusciva
perfettamente, concorrendo anche a dissipare i sospetti presso il
governo turco, che fu poi infatti colto quasi di sorpresa dal
nostro ultimatum.
La preparazione militare fu essa pure condotta segretamente e
rapidamente. L'eventualità che l'Italia potesse avere bisogno di
compiere un'azione d'oltremare era stata considerata nelle nostre
disposizioni militari; e tutti i particolari per la
rapida formazione di un corpo di sbarco erano stati studiati
e fissati già da tempo.
Si trattava quindi di calcolare gli effettivi necessari per una
data operazione e di mettere in moto il meccanismo prestabilito.
Nel mese di agosto io avevo pertanto chiamato a me il nostro Capo
di Stato Maggiore, generale Pollio, e gli avevo dato incarico di
studiare il problema della occupazione della Libia e di fare il
calcolo delle truppe necessarie per effettuarla; e gli raccomandai
di calcolare con larghezza. Le truppe regolari di presidio nei
punti capitali della Tripolitania e della Cirenaica non erano che
tre o quattro mila; ma bisognava tenere conto della popolazione
araba, di carattere assai bellicoso; e specie di quelle tribù
nomadi dell'interno, abituate all'aspra vita del deserto e che
vivevano costantemente in armi ed erano suscettibili agli
eccitamenti fanatici a cui i turchi sarebbero indubbiamente
ricorsi.
Nella Cirenaica poi vi era una vera organizzazione militare, che
faceva capo al Senusso di Kufra e di Giarabub; e se i senussiti
non erano sempre in buone relazioni con i turchi, non c'era su
questo da fare fidanza, non essendo difficile, come provarono poi
gli avvenimenti, che potessero essere rivolti contro di noi.
Era poi mio intendimento, per ragioni di ordine generale, che la
nostra azione fosse fatta con forze talmente preponderanti, da
togliere sino dal principio ogni dubbio sull'esito; pensando che
in tal modo sia le popolazioni locali, sia la Turchia si
rassegnerebbero più facilmente al fatto inevitabile. Pertanto,
quando il generale Pollio mi portò il risultato dei suoi studi, in
base ai quali egli riteneva sufficiente una spedizione di circa
ventiduemila uomini, io gli dissi di raddoppiarla, portandola a
circa quarantamila. In realtà poi, a certo momento, il nostro
corpo di spedizione, durante la guerra, superò gli ottantamila
uomini. Il primo corpo di spedizione fu dunque costituito da un
corpo d'armata e due divisioni e truppe suppletive e servizi di
intendenza in grande abbondanza. Nel formarlo si tenne conto della
convenienza di non turbare un'eventuale contemporanea
mobilitazione generale dell'esercito. I reparti che lo componevano
— cioè reggimenti, squadroni, batterie, ecc. — erano unità
organiche di pace opportunamente rafforzate; le truppe erano
composte di uomini della classe 1890, che avevano compiuta
l'intera istruzione, più quelli della classe del 1888,
appositamente richiamata. Vi furono uomini della classe del 1889,
che si trovavano ormai alla fine del servizio, i quali chiesero di
fare parte volontariamente della spedizione. Si erano pure
provvisti abbondantemente mezzi che consentissero di portarsi a
due o tre giornate di marcia dalla costa, e di spingere,
occorrendo, qualche piccola colonna ad alcune tappe verso
l'interno.
Queste forze furono divise in due scaglioni; il primo, destinato
ad entrare immediatamente in azione, comprendeva una divisione di
fanteria, due squadroni di cavalleria, nove batterie da campagna,
ed aveva per forze suppletive due reggimenti di bersaglieri, tre
batterie da montagna, due compagnie di artiglieria da fortezza ed
i vari servizi. Complessivamente comprendeva 22 500 uomini,
seimila cavalli, settantadue pezzi d'artiglieria ed ottocento
carri. Il secondo scaglione riproduceva, in proporzioni alquanto
ridotte, il primo; contava 13 200 uomini e trenta pezzi di
artiglieria. Il totale del corpo di spedizione fu di trentaseimila
uomini circa. I reggimenti di fanteria e i bersaglieri erano
dotati di mitragliatrici da montagna, ed il corpo aveva a sua
disposizione mezzi aeronautici, fra cui quattro aeroplani; e credo
che tali mezzi militari fossero usati allora per la prima volta. A
base generale del corpo di spedizione fu scelto Napoli; e basi
secondarie furono poi costituite nei luoghi di sbarco.
Il primo scaglione, quando imbarcato, costituì un convoglio di
trentadue piroscafi, ventitré dei quali caricarono a Napoli, e
nove a Palermo. C'erano poi navi sussidiarie; due trasporti per
feriti, due navi ospedali; altre pei rifugiati, altre pel
rimorchio. Pel secondo scaglione si usarono dodici piroscafi, ed
una parte delle sue truppe fu imbarcata a Catania. Abbondantemente
si provvide pei viveri, per le munizioni, pei materiali del genio,
fra cui pontili per lo sbarco, indispensabili in una costa la
quale, tranne a Tripoli, non disponeva quasi di porti; e si creò
un corpo speciale pel servizio dell'acqua con numerosi drappelli
di zappatori e tutto il necessario perchè in quel paese aridissimo
i soldati non dovessero soffrire di una tale
mancanza.
Quando poi il corpo di spedizione si mosse, noi, dopo una rapida
concentrazione a Taranto e a Siracusa mettemmo in azione l'intera
nostra flotta per assicurarne assolutamente l'incolumità e
prevenire qualunque incidente. A questo proposito è opportuno
ribattere una critica errata che si fece allora alla nostra azione
navale da parte di certi spiriti bellicosi a vuoto. Si sapeva, e
noi eravamo stati informati in proposito con precisione dal nostro
console, che allo scoppiare della guerra la flotta turca si
trovava a Beirut, in Siria, da dove però si mosse immediatamente.
Alcuni avrebbero voluto che la flotta nostra l'avesse ricercata
per colarla a fondo; cosa che sarebbe stata assai agevole, tanto
la flotta nemica, composta di due vecchie corazzate, di due
incrociatori e di alcune torpediniere, era inferiore alla nostra.
Ma io consideravo una tale impresa inutile e rischiosa nello
stesso tempo. Entrando in guerra noi avevamo dichiarato
chiaramente alle Potenze interessate nell'Impero Ottomano, che il
nostro unico proposito era l'occupazione della Libia, e che, a
parte ciò, non desideravamo fare alcun danno alla Turchia, ed
intendevamo evitare qualunque azione che potesse condurre a
complicazioni.
Se noi avessimo aperta la campagna andando a cercare e ad
affondare la flotta turca nell'Egeo, lontano dal nostro obbiettivo
dichiarato, ci saremmo esposti all'accusa di mancare sin dal
principio, se non ai nostri impegni, certo alle nostre
dichiarazioni, e ciò avrebbe suscitato indubbiamente dei malumori
ed avrebbe potuto dare a qualche Potenza il pretesto di
complicazioni che era nostro primissimo interesse di evitare in
quel momento, essendo impegnati altrove. In secondo luogo una tale
impresa avrebbe potuto essere rischiosa; non per la minaccia di
quella flotta turca, ma per qualche eventuale incidente indiretto.
Ricordo che da Beirut si ricevette avviso telegrafico che la
flotta turca uscendo da quel porto si dirigeva verso sud-ovest, la
qual cosa faceva supporre che volgesse verso la Cirenaica; si
seppe poi che, mutata la sua rotta, si era diretta ai Dardanelli.
Rintracciare quella flotta nel suo viaggio da Beirut ai
Dardanelli, entro i meandri costituiti dalle isole del Mare Egeo,
a giudizio degli intendenti non era cosa facile; e mentre le
nostre forze navali fossero impegnate in quella caccia, avrebbe
potuto avvenire che il nemico, il quale possedeva dei velocissimi
cacciatorpediniere di recente acquisto, alcuni dei quali si
credeva fossero annidati a Prevesa, quindi non lontano
dalle vie del nostro corpo di
spedizione, tentasse un colpo di mano e riuscisse a colpire
qualcuno dei nostri trasporti o ad affondarlo.
Pure prescindendo dall'effetto che un tale incidente avrebbe avuto
sul pubblico italiano, che metteva allora di nuovo alla prova i
suoi nervi sedici anni dopo il disastro della guerra abissina; un
tale scacco, che sarebbe apparso anche più grave in considerazione
della enorme differenza fra le forze navali nostre e quelle del
nemico, nell'inizio stesso della nostra azione sarebbe stato
deplorevole. Noi eravamo stati costretti, per ragioni
imprescindibili, a turbare la pace europea; e molti occhi non
benevoli erano fissi su di noi; in tali condizioni dovevamo
evitare qualunque incidente che potesse dare ragione di accusarci
di leggerezza e d'incompetenza. Le azioni energiche, come quella
in cui ci eravamo impegnati, anche se spiacciono per gli interessi
che turbano, finiscono per imporre il rispetto quando siano ben
condotte; cosa di cui avemmo appunto un esempio anche in
quell'occasione, nel linguaggio della stampa forestiera, la quale,
dopo averci per qualche giorno accusati ed anche ingiuriati, finì
per cambiare presto tono, quando vide che andavamo diritti per la
nostra strada e che saremmo arrivati alla meta.
Intanto, già nella prima metà di settembre, la situazione in
Tripolitania si andava aggravando, per il crescente sospetto di
una nostra non lontana azione. A Tripoli gli agitatori del
Comitato «Unione e Progresso» compievano una duplice
azione; per una parte si sforzavano di eccitare le popolazioni e
attrarre nella loro orbita i capi delle tribù e dei villaggi, ed a
questo scopo vi tenevano frequenti riunioni; e quantunque
l'elemento migliore del paese, che aveva già con gli italiani
relazioni commerciali, si mostrasse più moderato, si riusciva a
determinare una corrente a noi ostile specie nella bassa
popolazione. Per l'altra parte questi agitatori si tenevano in
continua comunicazione col governo turco e col Comitato centrale
di Costantinopoli, al quale trasmettevano resoconti dei comizi
assicurando la ferma volontà della popolazione di rimanere
nell'Impero Ottomano, pronta e decisa per questo scopo a qualunque
sacrifizio, e si domandava che Tripoli venisse fortificata e si
inviassero armi e munizioni.
Si compilavano pure statistiche delle popolazioni arabe
dell'interno, in base alle quali si calcolava che vi fossero nel
paese circa centomila uomini atti a portare le armi ed a
partecipare ad una energica difesa contro qualunque attacco. Il
governo e il Comitato di Costantinopoli rispondevano incoraggiando
tali preparativi, promettendo di fare avere almeno centomila
fucili e cannoni, e di inviare una commissione, presieduta da
Nasin pascià, ex-valì di Bagdad, per intraprendere immediatamente
l'opera di fortificazione della città e del porto e degli altri
punti più importanti della costa.
Noi dovemmo allora preoccuparci di due cose: e cioè della
sicurezza della numerosa colonia italiana di
Tripoli, come pure degli
altri europei che vi
risiedevano; e d'impedire il minacciato invio di armi
e munizioni.
Non era ancora il caso di fare manifestazioni tali che potessero
fare precipitare le cose;
per tanto io autorizzai la marina a
dislocare alcune navi da guerra a Siracusa, pronte a partire
per
Tripoli al primo cenno. Che la Porta potesse
fare tutto quello che
da Tripoli si chiedeva per la
sua difesa era da escludersi; ma che
qualche cosa
avrebbe pure fatto era egualmente certo. Ed infatti
verso la metà di settembre il nostro addetto
militare a
Costantinopoli;ci informò che si stava caricando il piroscafo
«Derna» con circa diecimila
fucili ed abbondanti munizioni,
qualche cannone, e
viveri e vestiari. Quel piroscafo infatti partì
poi
per Tripoli, e noi demmo ordine di intercettarlo,
cosa che
avevamo ormai diritto di fare perchè il
suo arrivo coincise col
nostro ultirrùaium; ma sfortunatamente esso riuscì a sfuggire alla
nostra vigilanza.
Anche la situazione diplomatica ci consigliava ad affrettare. Era
ormai evidente che la questione del Marocco andava ad una
soluzione pacifica, ed infatti l'accordo preliminare fra la
Francia e la Germania fu firmato il 23 settembre. D'altra parte
c'era sempre da temere di qualche resipiscenza da parte di qualche
Potenza che pure fino allora aveva riconosciuto le nostre buone
ragioni; fra l'altro ci fu riferito da Vienna che lAerenthal,
parlando con alcuni diplomatici esteri, si era mostrato spiacente
di quanto avveniva in Italia al riguardo della questione di
Tripoli, perchè, a suo avviso, il momento per sollevare tale
questione non era opportuno. Io decisi allora di agire.
Dovevo anzitutto parlare col Re ed ottenere la sua autorizzazione
per la chiamata di qualche classe sotto le armi e per un'azione
immediata. Io ero a Cavour ed il Re si trovava a Racconigi; e per
evitare le illazioni che si sarebbero tratte da quella visita, la
quale non sarebbe sfuggita all'attenzione dei giornali se io
passavo per Torino, chiesi che da Casa reale mi fosse mandato a
Cavour un'automobile. Esposi al Re la situazione ed ebbi il
consenso alla nostra azione ed a tutti gli atti relativi.
M'ero incontrato col Re il 17 settembre; il giorno 18, di ritorno
a Cavour telegrafai a San Giuliano, a Spingardi e a Leonardi
Cattolica di affrettare i preparativi, insistendo perchè si
procedesse con la massima segretezza e a mezzo di persone di
sicura fiducia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio,
riteneva indispensabile richiamare sotto le armi la classe del
1888, allora in congedo, per la necessaria elasticità nella
composizione del corpo di spedizione, e perchè i reggimenti che
non partivano non rimanessero stremati di forze; ed io provvidi
alla emanazione del decreto occorrente. Più tardi autorizzai
l'invio immediato di navi a Tripoli per la sicurezza della nostra
colonia e per impedire che si ripetesse l'episodio del «Derna»,
essendo da aspettarsi che, la nostra intenzione essendo ormai
patente, la Turchia tentasse di farvi arrivare nuove armi e
soldati.
Il 24 io arrivavo a Roma, ed il 26 veniva, in seguito a
deliberazione del Consiglio dei Ministri, spedito il nostro
ultimatum alla Turchia. Quel documento fu compilato in modo da non
aprire strada a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga
discussione, che dovevamo ad ogni costo evitare; e fu a questo
scopo ponderato in ogni sua parola. Esso osservava che per un
lungo periodo d'anni il Governo italiano non aveva mai cessato dal
fare constatare a quello turco la necessità che lo stato di
disordine e d'abbandono in cui erano lasciate, la Tripolitania e
la Cirenaica avesse fine, e che quelle regioni fossero poste in
grado di profittare degli stessi progressi conseguiti dalle altre
parti dell'Africa mediterranea. Codesta trasformazione, che
s'imponeva per le esigenze generali della civiltà, costituiva per
l'Italia un interesse vitale, per la breve distanza che separava
quei paesi dalle sue coste. Ma non ostante che il Governo italiano
avesse sempre cordialmente dato il suo appoggio al governo
ottomano in diverse questioni politiche degli ultimi tempi; non
ostante la moderazione e la pazienza, di cui esso aveva dato
finora prova, non solamente il Governo ottomano non aveva tenuto
conto di tali sue vedute, ma, peggio ancora, aveva mantenuto
contro qualunque nostra intrapresa economica in quelle regioni una
opposizione sistematica ed ingiustificata.
Ora la Turchia, con un passo compiuto all'ultimo momento, aveva
proposto all'Italia di venire ad un accordo, dichiarandosi
disposta a qualunque concessione economica compatibile coi
trattati in vigore, e con la dignità e gli interessi suoi
superiori. Ma il Governo italiano non si credeva più in condizione
di iniziare negoziati dimostrati vani dall'esperienza del passato,
e che lungi dal costituire una garanzia pel futuro, non farebbero
altro che moltiplicare le occasioni di irritazioni e conflitti.
Il documento continuava osservando che le informazioni dei nostri
agenti consolari in quei paesi dipingevano la situazione che vi
regnava contro i sudditi italiani, e che era stata apertamente
provocata da ufficiali e da altri organi dell'autorità
governativa. Questa agitazione costituiva un pericolo imminente
non solo per i sudditi italiani, ma anche per quelli di altre
nazioni i quali, giustamente allarmati avevano cominciato ad
imbarcarsi ed abbandonare il paese. L'arrivo a Tripoli di
trasporti militari ottomani, alle conseguenze del cui invio il
Governo italiano non aveva mancato di richiamare l'attenzione
della Porta, non poteva che aggravare la situazione, ed imponeva
all'Italia di provvedere immediatamente ai pericoli che ne
risultavano.
L'ultimatum continuava poi annunciando che il Governo italiano,
vedendosi ormai forzato a tutelare la propria dignità e gli
interessi del paese, aveva deciso di occupare militarmente la
Tripolitania e la Cirenaica, non avendo la scelta di altra azione;
e dichiarava di aspettarsi che il Governo ottomano desse gli
ordini necessari perchè tale occupazione non incontrasse
resistenza da parte dei suoi rappresentanti in quei territori.
Accordi ulteriori fra i due governi potrebbero poi essere presi
per regolare la situazione definitiva che risulterebbe
dall'occupazione militare. E concludeva chiedendo una risposta
entro ventiquattro ore, in mancanza della quale il Governo
italiano procederebbe ad attuare immediatamente le misure
destinate ad assicurare l'occupazione.
La risposta della Turchia al nostro ultimatum fu, come era da
aspettarsi, evasiva e dilatoria. Essa rigettava la responsabilità
delle cattive condizioni in cui si trovavano la Trjpolitania e la
Cirenaica sul precedente regime; sosteneva, contro verità, che il
governo turco era sempre venuto incontro agli interessi italiani e
che le autorità locali li avevano protetti; e rinnovando le
offerte di concessioni, chiedeva che noi indicassimo le garanzie
che ritenevamo necessarie, promettendo di non modificare nel
frattempo la situazione di quei territori, specie nell'aspetto
militare.
La risposta del Governo ottomano ci arrivò il 29 settembre, e il
giorno stesso noi facemmo presentare dal nostro incaricato
d'affari la dichiarazione di guerra.
Rapida azione militare iniziale e seguito di guerriglia —
Complicazioni internazionali — Proteste dell'Austria per
l'Adriatico — Proposta di una azione conciliativa delle Potenze;
diffidenze ed intrighi — Il Decreto della sovranità sulla Libia
— Iniziativa di pace del Sa-zonofF; sue fasi e suo fallimento —
L'incidente del Manouba e del Carthage — La guerra navale nell'
Egeo: proteste e chìcanes austriache — Diuturno dibattito
sull'art. VII della Triplice per l'occupazione delle isole —
L'attacco ai Dardanelli e la loro chiusura — Iniziativa a noi
sfavorevole dell' Inghilterra, e nostra rivendicazione del
diritto di belligeranti — Il partito militare austriaco in cerca
di pretesti per agire — L'espulsione degli italiani dalla
Turchia — Ripresa di operazioni in Tripolitania e
Cirenaica — La piccola, guerra nel Mar
Rosso.
La nostra azione militare per l'occupazione dei territori in
questione, si svolse con precisione e rapidità, quale era stata
preordinata.
Il giorno 1.° ottobre la nostra flotta stabiliva il blocco di
Tripoli; il giorno 4 ne bombardava le fortificazioni,
distruggendole; e subito dopo forze navali, sotto la condotta
dell'Ammiraglio Cagni, compivano un audace sbarco ed occupavano la
città, che le truppe turche avevano abbandonata, ritirandosi al
confine dell'oasi circostante. L'Ammiraglio Borea Ricci, nominato
governatore della città, indirizzava un proclama agli
arabi, che in maggioranza facevano dichiarazioni di fedeltà
ed amicizia e consegnavano le armi.
Il giorno 10, dopo che il Re l'ebbe passato in rivista, partiva da
Napoli il primo corpo di spedizione, e il giorno 11 compiva
felicemente il suo sbarco; ed allargava l'occupazione, strappando
al nemico, con un violento combattimento, i pozzi della Bumeliana,
necessari pel rifornimento dell'acqua.
Il giorno 22 si ebbe una azione pure violentissima, in cui si
combinò un attacco dei turchi con un complotto di arabi della
città e dell'oasi, che attaccarono alcune nostre trincee alle
spalle, fatto che condusse ad una energica repressione. E le
azioni continuarono a svolgersi quasi giornalmente, finché il 6
novembre, con una manovra bene preparata, il generale Caneva
riuscì a scacciare i turco-arabi da Ainzara, donde minacciavano e
tormentavano continuamente la città, e a stendere intorno ad essa
un largo anello di difesa.
Tanto politicamente che militarmente le cose si svolsero secondo
le nostre previsioni, e come avviene quasi sempre nelle guerre
coloniali. I rapporti dei nostri consoli, fra i quali ricordo il
Galli, buon giudice e conoscitore di quelle popolazioni, non
avevano in proposito mai creato illusioni. Fra gli arabi e i
turchi non c'era stato mai buon sangue; ma sarebbe stato
arrischiato calcolare su una defezione generale o quasi, la quale
soltanto avrebbe messo le scarse truppe turche in una posizione
assai grave e forse costrette alla resa. Le cose andarono metà a
metà; gli arabi della città e della costa, che erano a contatto
con noi, in buona parte accettarono la nuova situazione; ma quelli
dell'interno, sia per la suggestione della propaganda fanatica,
sia perchè esposti a immediate rappresaglie, seguirono in buona
parte i turchi. I quali così poterono contare subito su un nucleo
di forze numericamente abbastanza rispettabile e bellicoso, se
pure deficiente di mezzi e di organizzazione. Ne derivò una
situazione comune a quasi tutte le guerre coloniali; che il nemico
non poteva pensare di attaccarci nei punti capitali da noi
occupati, e viceversa noi per colpirlo, avremmo dovuto preparare
ed intraprendere un'azione di guerriglia, particolarmente faticosa
e pericolosa in quel paese privo di risorse.
Insieme a quella di Tripoli si svolse l'azione su gli altri punti
capitali della lunghissima costa. Il giorno 4 la nostra flotta
occupò Tobruk, per ordine mio, perchè mi premeva di assicurarmi
quella importante baia sino dal principio, e non dare ragioni o
pretesti, che la guerra poteva facilmente fornire, data la
vicinanza della frontiera non ben definita, per una occupazione
egiziana. Volevamo pure evitare che, con la sua comoda baia,
Tobruk potesse essere usata per contrabbando d'armi e d'armati
nella Cirenaica. Il giorno 13 fu bombardata e occupata Derna; il
18 Horas; il giorno 20 si ebbe lo sbarco, condotto con grande
audacia e fortuna, a Bengasi; dove, come a Derna, la popolazione
locale si sottomise.
Tali avvenimenti militari rappresentavano la guerra quale si
svolgeva agli occhi del pubblico. Ma accanto a questa noi dovemmo
fronteggiare una successione di incidenti e complicazioni
diplomatiche, che ci erano ragione di continue preoccupazioni, e
dei quali il pubblico non ha conosciuti che i più clamorosi,
o avuto solo notizie frammentarie.
La guerra in cui ci trovavamo involti, era infatti una guerra sui
generis, che paragonerei al ballo delle uova. Il territorio
dell'Impero nemico, in ogni sua parte, si trovava circondato da
una fitta rete di interessi ed ipotecato da aspettative e da
cupidigie che per intanto gli servivano di protezione. Vi erano
gli interessi generali di potenze europee contrastanti fra loro;
gli interessi russi contro gli austriaci; quelli inglesi contro i
germanici; vi erano le ambizioni e le rivendicazioni dei vari
Stati balcanici; e appetiti e pretese e diritti economici e
politici di ogni specie. Ricordo che le nostre operazioni nel Mar
Rosso suscitarono perfino proteste e comizi dei mussulmani
dell'India, con l'accusa che impedissero il pellegrinaggio ai
luoghi santi. L'accusa era falsa e le proteste erano state
indubbiamente provocate dalla Turchia, che cercava di suscitarci
difficoltà da ogni parte. Poi vi era la preoccupazione generale
della pace europea. Ora di tutti questi interessi e preoccupazioni
noi dovevamo tenere conto, sia per cordialità verso le Potenze
amiche e rispetto dei loro interessi, sia anche per interesse
nostro; ma pure cercando di dare ogni possibile soddisfazione
nei casi particolari, noi mantenemmo
sempre intatta la nostra generale libertà d'azione e i
relativi diritti. Devo aggiungere che ogni volta che la
discussione fu portata da noi su questi punti fondamentali, il
nostro diritto fu immediatamente e senza riserva riconosciuto.
Notificando alle Potenze la nostra dichiarazione di guerra alla
Turchia, noi l'avevamo accompagnata con assicurazioni della nostra
intenzione di rispettare al più possibile i loro interessi, e di
evitare qualunque azione che potesse avere ripercussioni sulla
compagine generale dell'Impero Ottomano. E così avevamo subito ed
energicamente rifiutato di aiutare agitazioni o sollevazioni in
Albania, ed avevamo pregato il Re del Montenegro di astenersi da
qualunque azione che potesse turbare la situazione balcanica, ciò
che egli ci aveva promesso. Ritenevamo sopratutto opportuno di
evitare incidenti nell'Adriatico, sapendo che a Vienna c'era un
partito che avrebbe cercato di trarne profitto. Se non che sulla
costa adriatica turca, specie a Prevesa, si trovavano alcune
velocissime cacciatorpediniere, e noi avendo notizie di
preparativi che vi si stavano facendo per attaccare le navi del
nostro corpo di spedizione e compiere raids contro le nostre città
aperte, dovemmo informare le Potenze della assoluta necessità in
cui ci trovavamo di compiere, contro il nostro desiderio, alcune
operazioni navali nelle acque europee. Queste operazioni furono
affidate al Duca degli Abruzzi, il quale efficacemente sventò
tentativi di incursioni delle navi nemiche.
Un suo dipendente, il capitano Biscaretti, avendo percorsa
la costa turca e albanese, visitò alcuni piroscafi austriaci che
gli erano parsi sospetti, e dovette rispondere al fuoco diretto
contro le sue navi da un punto presso San Giovanni di Medua.
L'Austria protestò, subito e vivacemente. Aerenthal il 1.° ottobre
disse al nostro ambasciatore D'Avarna che tali operazioni erano in
flagrante contrasto con le nostre promesse di localizzare la
guerra nel Mediterraneo; che non si poteva ammettere che le
operazioni nell'Adriatico e nel Mar Jonio continuassero; che
bisognava vi fosse posto termine, altrimenti potrebbero venirne
serie conseguenze, ed egli sarebbe costretto a tenerci un diverso
linguaggio. Gli rispondemmo che intendevamo mantenere gli impegni
presi, che corrispondevano anche al nostro interesse; ma che vi
sono esigenze militari imprescindibili, come era il caso delle
operazioni militari intese a liberare i nostri mari dalla minaccia
costituita per noi dalla base navale turca di Prevesa.
Ad ogni modo, siccome non volevo fare il gioco dell'Austria, che
poteva mirare all'occupazione di Durazzo, inviai ordini perentori
al Duca degli Abruzzi perchè le forze del suo comando si
limitassero a vigilare il mare, astenendosi da sbarchi e
bombardamenti terrestri. Il 3 ottobre l'Aerenthal c'informava che
il governo turco era disposto ad entrare in negoziati anche dopo
lo scoppio delle ostilità; e noi cogliemmo l'occasione di tale
dichiarazione per avanzare la proposta di un primo passo, che
consisteva nel neutralizzare per intanto, agli scopi della guerra,
l'Adriatico, e forse, con l'assenso dell'Inghilterra, il Mar
Rosso, riservandoci per tutto il resto del mare e del territorio
nemico quella piena ed intera libertà d'azione militare che era
nei nostri diritti, e che credevamo necessaria anche
nell'interesse generale, per porre fine alla resistenza della
Turchia ed abbreviare la guerra.
II Governo ottomano intanto aveva messo in moto
tutte le sue
ambasciate, facendo pervenire alle capitali di tutte le grandi
Potenze una nota intesa a promuovere un loro intervento amichevole
in favore
della pace. Il primo a comunicare con noi a
questo
proposito fu ancora il governo di Vienna, a mezzo
del suo
ambasciatore, lasciando intendere, in forma
abbastanza moderata,
che la soluzione della situazione
si sarebbe potuta ottenere
conservando una sovranità
nominale del Sultano. San Giuliano, dopo
avere conferito meco, gli rispose che nella nostra opinione
la
nota turca era uno dei soliti artifizi della Porta,
da non
prendersi sul serio, e che noi non potevamo
contentarci di mezzi
termini, il nostro scopo essendo
di risolvere la questione della
Libia in modo da togliere di mezzo una causa continua di attrito
fra noi
e la Turchia, e di complicazioni internazionali. Se
si
fosse mantenuta la sovranità, sia pure solamente
nominale, del
Sultano, tale scopo sarebbe fallito; né
d'altra parte l'opinione
pubblica italiana avrebbe
consentito ad una soluzione che non
comprendesse
lo stabilimento della nostra sovranità in quelle
regioni.
Il Ministro degli Esteri francese, De Selves,
che aveva prima
accennato ad una possibile mediazione francese, informò poi il
nostro ambasciatore Tittoni dell'avviamento ad una mediazione
generale delle Potenze; con l'intesa però che essa dovesse avere
luogo solo come e quando l'Italia lo giudicasse opportuno. Il De
Selves rinnovava la sua assicurazione che nella questione di Libia
la Francia si proponeva per unico scopo di fare cosa gradita
all'Italia, aggiungendo di voler tentare di procedere d'accordo
con la Germania, cercando di portare le Potenze a fare tutte
insieme un passo a Costantinopoli per l'annessione pura e
semplice, dando così anche al governo turco il pretesto di dover
cedere di fronte alla volontà unita dell'Europa.
Questo atteggiamento del De Selves ci dette occasione di fare
sentire a Vienna ed a Berlino, per mezzo dei nostri ambasciatori,
che noi non potevamo supporre che i nostri alleati tenessero verso
noi un contegno meno amichevole, e si mostrassero meno persuasi
delle nostre buone ragioni. E qualche giorno più tardi, per
rispondere ad amichevoli richieste in proposito che ci venivano da
Berlino, il San Giuliano comunicò al Governo germanico uno schizzo
generale delle condizioni in base alle quali l'Italia era disposta
a fare la pace; nel quale schizzo, mentre si manteneva
assolutamente fermo il nostro proposito di non transigere sulla
questione della sovranità, si facevano generose concessioni alla
Turchia nel riguardo di vecchie vertenze ancora sospese; si
prendeva l'impegno di accollarci quella parte del debito ottomano
che potesse attribuirsi alla Libia; si proponeva di regolare la
questione religiosa con rispetto alla qualità di Califfo del
Sultano, in modo però che non nuocesse al nostro prestigio presso
gli arabi, e non apparisse come una forma larvata di sovranità
politica anche nominale, tale da dare appiglio ad attriti e
conflitti fra Italia e Turchia, e ad intrighi turchi nelle due
Provincie che dovevano rimanere definitivamente staccate
dall'Impero Ottomano; ed infine si proponeva di fare precedere il
trattato di pace da uni decreto unilaterale d'annessione da parte
nostra; di modo che nel trattato la Turchia non dovesse fare
cessioni, ma semplicemente regolare le conseguenze di fatti
compiuti.
È interessante rilevare che le condizioni del trattato che fu poi
quasi un anno dopo firmato fra noi e la Turchia a Losanna,
corrispondevano notevolmente a quelle nostre prime proposte. Il
lavorio diplomatico fra le varie capitali continuava sempre assai
intenso; ed il 25 ottobre l'Aehrenthal ci comunicava di avere
ottenuto dai gabinetti di Londra e di Pietroburgo una risposta
favorevole ad una sua proposta perchè le Potenze procedessero ad
uno scambio di idee per addivenire ad una soluzione della
questione di Libia; i due gabinetti di Londra e Pietroburgo
mostravano di accogliere con simpatia la sua iniziativa, ma
aggiungendo di non credere che qualche cosa di preciso si potesse
per allora fare. Questa comunicazione appariva alquanto ambigua,
ma a chiarirla venne una conversazione che il sottosegretario
degli Esteri tedesco, Zimmermann, ebbe col nostro incaricato di
affari. Zimmermann gli aveva dichiarato che le proposte di
Aerenthal erano state bene accette agli altri gabinetti; ma che
però predominava in tutti l'idea che un passo collettivo fosse per
ora inutile, se non addirittura dannoso, se noi non accettavamo
l'alta sovranità del Sultano su l'intera Libia, o almeno non ci
contentavamo di avere in assoluta nostra sovranità la sola
Tripolitania.
In quella conversazione lo Zimmermann si mostrava pure diffidente
assai circa il contegno dell'Inghilterra. Egli osservava che ormai
tutte le speranze della Turchia erano rivolte verso di essa, e che
egli, per sintomi e indizi di vario genere che gli giungevano da
diverse parti, aveva il presentimento che l'Inghilterra, per
riprendere il perduto ascendente a Costantinopoli, sarebbe stata
perfettamente capace di farsi avanti per imporci di accettare
l'alta sovranità del Sultano, ottenendo la pace a tale condizione.
Molti erano secondo lo Zimmermann gli interessi inglesi, in Egitto
ed anche in India, dove essa contava sui mussulmani come sul suo
più sicuro appoggio, che potevano spingerla ad un tale atto; e se
ciò avvenisse, all'Italia non sarebbe rimasto altro che cedere; ed
egli aggiungeva che in tale caso la Germania, per quanto
spiacente, nulla avrebbe potuto fare per aiutarci.
Il nostro ambasciatore a Londra fu subito incaricato di accertare
cosa potesse esserci di vero in tali insinuazioni; ed egli ebbe un
colloquio con Sir Edward Grey, al quale fece presente che noi non
avremmo mai accettata altra soluzione come base di trattative di
pace, che non fosse quella della piena nostra sovranità, e che
qualunque potenza che pensasse a spingerci ad accettarne una
diversa, perderebbe inevitabilmente l'amicizia del popolo
italiano. Il Grey rispose con grande precisione; dichiarando che
alle pressioni fatte dall'Ambasciata turca egli aveva sempre
risposto che qualunque tentativo di mediazione, che non avesse per
base la nostra assoluta sovranità, riuscirebbe vano.
L'insinuazione dello Zimmermann era così pienamente smentita; ma
essa più che un tentativo d'intrigo a nostro danno, rappresentava
lo stato di diffidenza che, riguardo le cose di Costantinopoli,
dominava fra l'Inghilterra e la Germania; la quale ultima, non
potendo fare nulla contro di noi a favore dei turchi, era
preoccupata di perdere la situazione di prevalenza guadagnata in
Turchia a mezzo della politica del Marshall, e temeva che
l'Inghilterra pensasse di profittare delle difficoltà in cui essa
si trovava.
Da una conversazione che il Tittoni aveva avuto a Parigi con
l'Iswolsky risultava che la sospettosa diffidenza tedesca verso
l'Inghilterra aveva la sua contropartita nella diffidenza della
Russia verso l'Austria; e che a Pietroburgo si considerava che la
proposta di Aerenthal per un passo a Costantinopoli era stata
fatta in termini ambìgui e generici, e tale da compromettere la
Potenza la quale, uscendo da quei termini, si fosse mostrata
troppo favorevole all'Italia. Il Marshall poi,avendo condotto
avanti a Costantinopoli un suo lavoro preparatorio per venire alla
pace sulla base del riconoscimento della sovranità nominale del
Sultano, quando, informato del nostro deciso proposito di
annessione, dovette rinunciarvi, aveva ammonito il proprio governo
che alla Germania non conveniva di assumere l'iniziativa in favore
del riconoscimento della sovranità italiana, perchè ciò facendo si
sarebbe esposta al pericolo che altri ne profittasse a pregiudizio
della sua posizione nell'Impero Ottomano. Da una nuova
conversazione che il nostro ambasciatore a Berlino ebbe con lo
Zimmermann apprendemmo poi che i sospetti tedeschi si erano
spostati dall'Inghilterra contro la Russia, temendosi che essa
profittasse dell'occasione per risolvere a proprio favore la
questione degli Stretti.
Ho voluto esporre nei suoi particolari tutto questo incrociarsi di
azioni diplomatiche, per fare finalmente conoscere i precedenti
che mi decisero ad un atto che, nel momento in cui fu compiuto,
apparve a molti, e fu criticato anche in seguito, come prematuro;
voglio dire il decreto di annessione della Libia. Un mese solo di
guerra aveva mostrato entro quale vasta rete di interessi delle
altre Potenze la nostra azione dovesse svolgersi; e pure avendo
ogni fiducia nella lealtà con cui la Francia, l'Inghilterra e la
Russia avrebbero mantenuto gli impegni contratti verso di noi per
la Libia, e che la Germania e l'Austria non sarebbero venute meno
ai doveri dell'Alleanza; c'era sempre da temere che sorgessero fra
le varie Potenze interessate nell'Impero Ottomano, complicazioni
tali da indurle ad esercitare pressioni perchè la guerra si
concludesse, insistendo presso di noi nel concetto che noi
potessimo accettare per la pace generale, quella nominale
sovranità del Sultano, senza la quale il Marshall ammoniva il suo
governo che la guerra si sarebbe trascinata assai lungamente.
Ora, pure prescindendo dalla impressione sulla opinione pubblica
italiana, il mantenimento della sovranità nominale del Sultano in
Tripolitania e in Cirenaica avrebbe avuto molteplici gravi
conseguenze. In primo luogo, una tale soluzione avrebbe diminuito
di assai la nostra autorità sulle popolazioni arabe, le quali
avrebbero continuato a considerare come loro sovrano il Sultano,
che aveva già su di esse tanta autorità come capo religioso.
Imporre a popolazioni nello stato di cultura in cui erano quelle
della Libia, una duplice sovranità; nominale l'una, l'altra
effettiva, avrebbe create confusioni tali da ostacolare gravemente
qualunque azione di governo. In secondo luogo si presentava la
identica questione con la quale l'Austria-Ungheria aveva
giustificata l'annessione della Bosnia-Erzegovina; perchè, quando
la sovranità del Sultano fosse stata in qualsiasi forma mantenuta,
come si sarebbe potuto impedire agli arabi di eleggere il loro
rappresentante nel Parlamento di Costantinopoli; e il mantenimento
di questa rappresentanza quali effetti avrebbe avuto sull'animo
della popolazione? Infine c'era la questione delle capitolazioni,
che avrebbero, in un tale regime per cui la Libia rimaneva legata
all'Impero Ottomano, continuato a sussistere nel rispetto degli
altri paesi, costituendo un'altra fonte di complicazioni,
difficoltà ed attriti nel futuro.
L'Italia dunque, accettando una tale soluzione o una qualunque
altra soluzione che non fosse veramente completa e decisiva, si
sarebbe trovata in una posizione diffìcile, con tutte le passività
dell'impresa compiuta, e nessun vantaggio. Bisognava anche ora,
come nel periodo della preparazione, evitare il pericolo di dovere
ascoltare consigli di amici e di interessati; ed anche questa
volta il modo di tagliare corto a questo pericolo era di mettere
le Potenze davanti al fatto compiuto. E questo fine conseguii col
decreto reale del 4 novembre che proclamava la sovranità assoluta
dell'Italia sulla Libia. La sua accoglienza fu quale l'avevo
preveduta. Ci furono dei brontolamenti, specie da parte di Vienna,
contro quell'atto, ma nessuna protesta.
Il decreto fu poi presentato al Parlamento appena si adunò in
febbraio. Al Senato fu votato ad unanimità; alla Camera ebbe
l'approvazione di tutti, eccetto i socialisti, i quali lo
criticarono con la ragione che esso avrebbe resa più difficile la
conclusione della pace; critica che si spiega, perchè era naturale
che chi non aveva voluto l'impresa non s'interessasse al suo buon
successo. Del resto, chi non è al governo in queste contingenze,
non conoscendo i djetroscena non vede la ragione degli atti
compiuti; e viceversa questa ragione il governo non può dirla. È
infatti evidente che io non potevo spiegare pubblicamente che
avevo proclamata la nostra sovranità sulla Libia per paura di un
intervento da parte delle Potenze alleate o amiche.
Che l'atto irrevocabile da noi compiuto, con la proclamazione
della nostra sovranità sulla Libia, fosse giunto opportuno, lo
provarono poi gli ulteriori tentativi fatti dalla diplomazia
europea per risolvere la guerra; e che, in contrasto con quelli
precedenti, furono basati sull'accettazione del fatto compiuto. A
nessuno infatti poteva ormai passare per la mente che si potesse
ottenere dall'Italia la rinunzia al decreto con cui la sua
sovranità era stata proclamata.
L'iniziativa della nuova campagna di pace, che si prolungò per
parecchi mesi, fu presa questa volta, e con sentimento di grande
amicizia verso di noi, dal Ministro degli Esteri russo, Sazonoff.
Il 2 gennaio l'Ambasciata di Russia a Roma comunicava ai San
Giuliano una idea che il Sazonoff aveva già fatta conoscere ai
rappresentanti delle grandi Potenze a Pietroburgo, e che si
riassumeva presso a poco nei termini seguenti:— Le grandi Potenze,
riconoscendo che l'affrettare la pace fra l'Italia e la Turchia
era un interesse europeo, dovrebbero fare a Costantinopoli un
passo collettivo per convincere la Turchia che la perdita della
Libia era inevitabile, e per indurla ad accettare un armistizio;
durante il quale la Turchia ritirerebbe dalla Libia le sue truppe,
mentre l'Italia studierebbe la misura di un compenso pecuniario
con cui in certo modo indennizzarla. L'Italia non avrebbe
domandato il riconoscimento immediato della sua sovranità da parte
della Turchia, lasciando alle circostanze di regolare il corso
degli eventi; ma le grandi Potenze, per garantire i diritti
dell'Italia, s'impegnerebbero a riconoscere la sua sovranità sulle
due provincie occupate. Alla Francia sarebbe stato dato l'incarico
di parlare a Costantinopoli a nome di tutti. —
Sir Edward Grey, interrogato in proposito dal nostro ambasciatore
si mostrò incerto ed esitante. Le disposizioni delle altre Potenze
gli parevano poco incoraggianti; l'atteggiamento della Turchia gli
pareva negativo, nel qual caso una insistenza troppo viva da parte
delle Potenze gli pareva avrebbe assunto il carattere di una
pressione non in armonia cogli obblighi della neutralità.
In Francia, secondo informazioni del Tittoni, un tale passo non
pareva ancora giustificato dalla situazione da noi conquistata. Il
Sazonoff persistette tuttavia nella sua iniziativa, cercando
specialmente di intendersi con l'Inghilterra. Sir Edward Grey,
ripugnandogli sempre l'idea di parere di violare la neutralità,
proponeva che si facesse un passo contemporaneo a Roma e a
Costantinopoli; ma poi, riconoscendo egli che in tal modo si
sarebbero date false impressioni al governo turco ed incoraggiata
la sua resistenza, fu deciso di fare prima un passo a Roma per
essere informati delle condizioni che l'Italia sarebbe disposta ad
accordare, poi un passo a Costantinopoli per consigliarne
l'accettazione. Il passo a Roma fu compiuto dagli ambasciatori,
ognuno per suo conto, il 9 marzo. Il 15 marzo noi consegnammo agli
ambasciatori la nostra risposta scritta nella quale erano elencate
e spiegate le condizioni alle quali eravamo disposti a concludere
la pace; e che corrisposero poi in grande parte esse pure a quelle
con cui la pace fu conclusa; ciò che dimostra come il Governo
italiano si fosse fino dal principio fatte idee chiare e precise
sul modo con cui la questione doveva essere risolta, mantenendo
fermamente i punti fondamentali, e mostrandosi conciliante per
tutte le condizioni secondarie.
Passò ancora un mese prima che le Potenze si accordassero
pienamente sul passo da compiere a Costantinopoli, sulla base
della nostra risposta. Il passo ebbe luogo il 16 aprile; la
risposta della Turchia fu ritardata ancora sino al 24 aprile
nell'attesa che fossero finite le elezioni, e risultò interamente
negativa, in quanto la Turchia, pure dichiarando di accettare
senz'altro, per deferenza alle Potenze, la loro proposta di
mediazione, aggiungeva di dover avvertire, ad evitare malintesi,
che non le sarebbe possibile di entrare in negoziati se non sulla
base del mantenimento effettivo ed integrale dei diritti del
Sultano, e della rinunzia dell'Italia all'annessione delle due
provincie e del ritiro delle sue truppe.
In tal modo l'iniziativa, perseguita dal
Sazonoff con grande energia, e che aveva raccolto l'adesione
di tutte le Potenze, falliva completamente. E merita rilevare che
solo due mesi dopo la Turchia entrava in negoziati diretti con
noi, essendo chiaramente avvertita che la nostra piena ed
effettiva sovranità sulle due provincie doveva essere fuori di
discussione.
Dopo la nostra occupazione delle città e degli altri punti più
importanti della costa, e dopo l'azione, egregiamente condotta,
con cui il generale Canova aveva cacciati i turchi-arabi da
Ainzara e spazzata l'oasi circostante a Tripoli, non si erano più
avuti né in Tripolitania né in Cirenaica fatti d'armi di carattere
risolutivo. Il nemico era assolutamente incapace di attaccarci nei
punti che noi avevamo occupati e fortificati, ed ogni suo
tentativo di attacco finiva sempre per essere fiaccato con sue
gravi perdite; ma d'altra parte per noi era pure assai difficile e
alle volte anche pericoloso cercare d'inseguirlo nel deserto, dove
le nostre truppe avanzandosi si esponevano a sofferenze ed a
rischi, per le difficoltà del terreno, la penuria d'acqua e la
mancanza di qualunque risorsa, e dove le sue squadre leggere
riuscivano a dileguarsi davanti a ogni nostra mossa. L'opinione
pubblica che non si rendeva abbastanza conto di tali condizioni, e
del fatto che la guerra era ormai degenerata in guerriglia, si
mostrava impaziente. A questa impazienza io non partecipavo; però
mi rendevo conto della convenienza che l'azione militare
procedesse più spedita, allo scopo di dimostrare sempre più ai
turchi ed agli arabi la futilità di qualunque resistenza, e per
evitare il pericolo, che mi era sempre presente e che doveva
essere tenuto d'occhio, di possibili ripercussioni internazionali.
Un incidente assai spiacevole in questo senso si era prodotto alla
metà di gennaio. Una nostra nave da guerra, l'Agordat, che batteva
il Mediterraneo occidentale per vigilare contro il contrabbando
con cui i turco-arabi venivano riforniti di armi e di munizioni,
il giorno 15 gennaio aveva fermato una nave postale francese, il
Carthage, e tre giorni dopo una seconda nave, il Manouba, sulla
quale si trovava una missione della Mezzaluna rossa turca, avviata
al campo nemico in Libia, e l'obbligava a sbarcare in Sardegna. Si
trattava, dopo tutto, di un piccolo incidente che in mie
posteriori conversazioni con l'ambasciatore francese io qualificai
come una causa da pretura; e quando, il mattino dopo avvenuto il
fatto, venne da me, nell'assenza del Barrère, il primo segretario
dell'ambasciata francese, signor Legrand, io gli dissi che a me
l'incidente pareva una delle questioni caratteristiche, da
deferirsi per la sua soluzione al Tribunale internazionale
dell'Aja, essendo quel tribunale particolarmente atto ad impedire
che una piccola questione potesse ingrossarsi e farsi pericolosa.
Il signor Legrand mi chiese se poteva telegrafare al suo governo
che io proponevo tale deferimento; ed io gli risposi
affermativamente, pregandolo anzi di telegrafare subito. Ciò egli
fece, ed all'una dopo mezzogiorno giungeva a Roma un telegramma
dell'agenzia Havas che riferiva quella proposta del Governo
Italiano.
Alle tre pomeridiane il Poincaré, allora Presidente del Consiglio
francese, parlò alla Camera, pronunziando un discorso alquanto
aspro e quasi minaccioso, nel quale della nostra proposta non era
fatto cenno. Io non so se per caso egli non ne fosse stato
informato; ma il suo discorso, che rispondeva un po' alla
irritazione nazionalista, provocò naturalmente una reazione nella
stampa italiana, e parve per un poco che la cordialità dei
rapporti fra i due paesi, che avevano assai beneficiato del
contegno decisamente amichevole tenuto dalla opinione pubblica e
dal governo francese per l'impresa di Libia, ne fosse oscurata.
Ricordo che lo stesso Clemenceau criticò l'atteggiamento assunto
in quel discorso dal Poincaré, con un gioco di parole, dicendo: —
Il pouvait ètre moins carré. — Ma poi le cose si
appianarono, e lo stesso Poincaré cercò di dissipare l'impressione
di quel discorso, conducendosi molto amichevolmente per l'Italia
nelle ulteriori vicende diplomatiche connesse con la nostra
impresa; e si finì per deferire, secondo la mia proposta, la
questione al Tribunale dell'Aja, davanti al quale fu per noi
patrocinata dall'on. Fusinato, e che fu conclusa con una sentenza
conciliante, colla quale l'Italia ne usciva bene. Incidenti come
codesto mostravano però che noi dovevamo preoccuparci, oltre che
della guerra locale, anche della situazione generale.
Nelle mie comunicazioni col Caneva, io mettevo bene in chiaro che
non intendevo affatto di impartirgli ordini, e di dirigere dal mio
gabinetto le operazioni militari, per le quali gli lasciavo con
tutte le responsabilità l'intera liberta di giudizio, limitandomi
semplicemente a richiamare la sua attenzione sul lato generale
della guerra. Il Caneva mandò a Roma il Giardino, allora tenente
colonnello, per spiegarmi le ragioni della lentezza con cui la
guerra procedeva. Poi più tardi, il 7 ed 8 febbraio, venne egli
personalmente, ed ebbi con lui due lunghe conversazioni.
L'impressione che ne riportai fu per un rispetto ottima, come di
uomo capace, intelligente, ed ordinato, che non procedeva se non
rendendosi pienamente conto delle cose; ma mi parve anche che
mancasse alquanto di iniziativa, e che non si rendesse conto
abbastanza delle ragioni di politica estera che consigliavano una
azione più rapida, per evitare complicazioni che potevano nascere
ad ogni momento in una guerra che turbava tanti altri interessi.
Il Caneva invece considerava quasi esclusivamente la situazione
militare locale.
Nelle conversazioni egli mi spiegò con grande chiarezza tale
situazione militare e la difficoltà di azioni risolutive, tanto
che io fui persuaso che molte delle critiche che si rivolgevano
alla sua opera non erano giustificate: egli alla sua volta si
persuase delle ragioni di politica internazionale che
consigliavano di abbreviare al possibile la durata della guerra.
Fu convenuto di accrescere i mezzi militari, specie in vista di
azioni rapide di colonne volanti, che poi furono usate in una
seconda fase della campagna. Io desideravo
insomma di conseguire la maggiore somma di risultati
compatibile con una condotta prudente, che non esponesse a
scacchi, perchè avevo sempre presente l'eventualità di un
intervento amichevole da parte delle Potenze per la risoluzione
della questione e la discussione della pace; e perchè sapevo che
quando si entra in tale discussione si discute sempre in base ai
risultati già ottenuti.
La guerra nel frattempo, e precisamente fra il marzo e il giugno,
entrò in una nuova fase, alla campagna di terra aggiungendosi una
campagna navale, nel Mare Egeo. Varie furono le ragioni che ci
obbligarono a questo nuovo passo. Anzitutto avevamo constatato che
dalla Turchia partivano continuamente ufficiali, armi e munizioni,
e materiale d'ogni genere, che a mezzo di un vasto contrabbando
esercitato traverso l'Egeo, erano sbarcate e fatto arrivare agli
arabi, specie nella Cirenaica; fra l'altro, in tal modo vi era
giunto Enver Bey, che vi aveva assunto il comando delle operazioni
contro di noi. Nei mesi d'inverno l'inclemenza della stagione e la
difficoltà degli sbarchi su quelle coste avevano aiutata la
vigilanza delle nostre navi di crociera; ma con la stagione
primaverile il contrabbando accennava ad intensificarsi assai, e
noi sapevamo di più vasti preparativi a tale scopo. Il Ministro
della Marina, Leonardi Cattolica, mi fece allora presente le
difficoltà della situazione, osservandomi che la nostra vigilanza
avrebbe potuto riuscire assai più efficace se, invece che lungo la
estesissima costa Ubica, avesse potuto esercitarsi agli sbocchi
orientali del Mare Egeo; il
che però avrebbe reso necessaria l'occupazione di qualche punto
d'appoggio nelle isole di quel mare, per dare modo alle nostre
squadre di crociera di rifornirsi senza dovere percorrere la lunga
strada che le separava dalla nostra base navale di Tobruk.
Nello stesso tempo una persona che viveva a Costantinopoli, e che
era assai addentro alle cose della marina turca, ci offriva i suoi
servizi per aiutarci qualora lo credessimo opportuno, a compiere
un colpo di mano contro la flotta turca, che si trovava ancorata e
male vigilata alla punta di Nagara. Ora, se nell'inizio della
guerra per le ragioni già dichiarate, noi credemmo opportuno di
astenerci da un tentativo contro la flotta turca, la situazione
mutata doveva consigliarci ad agire diversamente. La condotta
della Turchia, che pareva quasi disinteressarsi a che la
guerriglia in Libia si protraesse indefinitivamente; come pure
l'insuccesso dei passi compiuti dalle Potenze per persuaderla a
riconoscere il fatto compiuto e ad accettare l'inevitabile, ci
spingeva necessariamente ad entrare in un altro campo di azione,
dal quale ci eravamo fino allora astenuti, per riguardo agli
interessi delle altre Potenze, senza però rinunciare menomamente
ai nostri diritti di belligeranti. Io consideravo insomma che
ormai ci si imponeva di avvicinare la guerra a punti in cui la
Turchia fosse più vulnerabile, per farle capire che essa pure,
ostinandosi a prolungare una guerra la cui sorte era ormai decisa;
si esponeva a nuovi e più gravi rischi.
Era però da aspettarsi che tale spostamento della nostra azione
militare dalla Libia all'Egeo avrebbe moltiplicate le difficoltà
diplomatiche intorno a noi. Già nei primi giorni di febbraio il
nostro ambasciatore a Vienna, Duca d'Avarna, ci avvertiva che
l'Aerenthal, conversando con un personaggio del corpo diplomatico,
aveva lasciato intendere che l'Austria non avrebbe potuto lasciare
passare una qualsiasi azione nella Turchia europea, che egli, con
arbitraria interpretazione, riteneva contraria agli impegni
stabiliti nell'articolo VII del nostro trattato di Alleanza.
Viceversa il Ministro degli Esteri russo, Sazonoff, c'incitava
quasi a fare qualcosa in questo senso, dichiarando al nostro
ambasciatore Melegari che egli sarebbe lieto se noi facessimo
qualche cosa che colpisse la Turchia in una parte vitale, e
dessimo una buona lezione ai Giovani Turchi onde abbattere la loro
ormai insopportabile tracotanza. E l'ambasciatore tedesco a Roma,
conversando col De Martino, e pure premettendo di non parlare come
ambasciatore, ma di esprimere semplicemente una sua personale
opinione, gli diceva che noi dovevamo fare un'azione contro i
Dardanelli, ed all'obbiezione dell'opposizione austriaca,
rispondeva che da quanto gli aveva detto il suo ministro
Kiderlen-Wächter, non risultava che l'Aerenthal fosse veramente
opposto ad una tale azione.
L'Aerenthal però nel frattempo era morto; e siccome con lui non si
era potuto andare a fondo della cosa, c'era da temere che il suo
successore, il conte Berchtold, non volesse rischiare di
mostrarsi, davanti all'opinione pubblica e sopratutto all'elemento
militare, più arrendevole alI'Aerenthal, che godeva di una
autorità molto superiore. Per parte dell'Inghilterra e della
Francia nulla ci era stato detto; ma il resoconto stenografico di
un discorso di Poincaré lasciava credere che noi avessimo
esplicitamente rinunciato a qualunque operazione militare e navale
fuori della Libia; e noi ci affrettammo a smentire subito la cosa,
che fra l'altro avrebbe avuto l'inconveniente di incoraggiare la
Turchia alla resistenza. Ci constava poi che la Turchia, a mezzo
dei suoi ambasciatori, si sforzava di correre in precedenza ai
ripari, minacciando, nel caso di un nostro attacco ai Dardanelli,
non solo di espellere tutti gli italiani dai suoi territori, ma
anche di chiudere gli Stretti al commercio internazionale. Era il
sistema ormai abituale per cui la Turchia cercava la propria
protezione dietro qualche interesse forestiero.
La questione si trascinava così teoricamente negli scambi di
vedute diplomatici, quando occorse un episodio che la mise alla
prova della realtà. Una nostra squadra di crociera, essendosi
presentata, il 24 febbraio, davanti a Beirut, vi trovò due vecchie
navi da guerra turche che vi si erano ricoverate. Avendo esse
all'intimazione di arrendersi, non solo rifiutato, ma aperto il
fuoco contro le navi nostre, queste risposero colandole in breve a
picco, senza del resto fare nessuna azione che causasse il menomo
danno alla città ed al porto. L'Austria protestò immediatamente,
sulla base di informazioni errate che ci accusavano di avere
bombardata una città aperta; e il suo ambasciatore a Roma, il
Merey, a nome del suo governo, richiamò l'attenzione del San
Giuliano sulla responsabilità in cui l'Italia incorrerebbe qualora
si rinnovasse il bombardamento di una città, in cui viveva una
numerosa colonia austriaca. Barrère fece pure un passo a nome del
suo governo, ma in forma assai amichevole; e noi gli facemmo
osservare come fosse in quel momento sommamente necessario di
evitare qualunque espressione di linguaggio che accennasse a
limitazione delle nostre operazioni, con l'effetto di incoraggiare
la Turchia nella sua resistenza.
Ma il fatto diplomatico più grave di quel momento, fu il tentativo
di una iniziativa inglese per determinare una tale limitazione a
mezzo di una azione collettiva delle Potenze. Ne fummo informali
contemporaneamente da Vienna e da Pietroburgo. Il 29 febbraio
l'ambasciatore inglese a Vienna aveva consegnato al conte
Berchtold una memoria così concepita: — «È certo che il commercio
internazionale subirebbe gravi perdite nel caso che il Governo
ottomano decidesse, come misura di difesa, di chiudere con mine
sottomarine i Dardanelli. Sir E. Grey desidera sapere se il
Governo austriaco giudicherebbe opportuno che i rappresentanti
delle Potenze chiedano al Governo italiano se sarebbe disposto ad
assicurare che nessuna operazione sarà intrapresa nei Dardanelli o
nelle acque vicine».
Il Berchtold aveva risposto con disposizioni abbastanza cordiali
verso di noi, dicendo di aver ragione di credere che il Governo
italiano non consentirebbe mai a fare una tale dichiarazione e che
egli non prenderebbe parte al passo progettato se non fosse prima
sicuro che noi non faremmo alcuna obbiezione; ma incaricava
l'ambasciatore Merey di aggiungere che egli era convinto che noi
non pensassimo ad ima azione nei Dardanelli o nelle vicinanze, per
timore delle ripercussioni che essa potrebbe avere nei Balcani.
Più franco e deciso era stato il Sazonoff, il quale, non ostante
le insistenze dell'ambasciatore inglese, aveva categoricamente
rifiutato di partecipare ad un tale passo, come incompatibile coi
doveri della neutralità, ed aveva dichiaralo poi al nostro
ambasciatore che egli considerava la proposta inglese addirittura
indecente. E l'Inghilterra non insistette più oltre.
Non ostante questi intralci e manovre diplomatiche, noi avevamo
deciso di agire, con l'intento sopratutto di colpire la flotta
turca, e l'ammiraglio Thaon de Revel aveva avuto l'incarico chi
concertare tutto il piano d'azione. La concentrazione della
squadra a cui l'esecuzione del piano era affidato aveva già avuto
luogo a Bomba; ma poi il progetto fu pel momento abbandonato, non
in ubbidienza a intimidazioni diplomatiche, ma perchè, a giudizio
della no!-stra marina, esso era diventato inattuabile in seguilo
alle precauzioni prese dalla marina turca, la quale, avendo avuto
sentore della cosa, aveva sbarrato l'entrata dei Dardanelli e
ritirata la flotta nel Mare di Marinara, dove non avrebbe certo
potuto essere raggiunta.
Noi ad ogni modo eravamo ben fermi di mantenere la nostra libertà
d'azione ed i nostri diritti di belligeranti: opinando però nello
stesso tempo che fosse conveniente di tenere informate le Potenze
alleate ed amiche, sia per riguardo ai loro interessi, sia per
impedire che qualcuna di esse, e l'Austria particolarmente,
potesse prendere pretesto da una nostra azione per procedere ad
un'azione propria che riuscisse anche indirettamente a nostro
danno. Sapevamo che il partito militare austriaco spingeva a colpi
di mano in Albania, che potevano essere consumati magari d'accordo
con la Turchia, ed intendevamo di evitare che la nostra condotta
desse a tali progetti qualunque pretesto. Avvertimmo pertanto il
Berchtold che il contrabbando militare turco ci obbligava a
stabilire una crociera allo sbocco dell'Egeo nel Mediterraneo, e
che a tale scopo avremmo dovuto occupare provvisoriamente qualche
isola, indicando Stampalia, Lemno e qualche altra. Informammo di
queste nostre intenzioni anche il Governo di Berlino, che non fece
opposizione, anzi si impegnò di agire a mezzo del suo ambasciatore
presso Berchtold per persuaderlo a non frapporre ostacoli a nostre
eventuali operazioni nell'Egeo e contro i Dardanelli. Anche la
Francia non fece difficoltà, anzi il Poincaré consigliò
apertamente di occupare qualche isola, come mezzo per
impressionare la Turchia ed affrettare la pace.
Ma l'Austria, che si mostrò pure assai piccata che noi le avessimo
fatto parlare dalla Germania, teneva duro; e ne seguì una lunga
conversazione diplomatica, nella quale il San Giuliano controbattè
con grande abilità dialettica le argomentazioni del Berchtold. La
discussione verteva specialmente su due punti. Il Berchtold
sosteneva, seguendo l'interpretazione già data dall'Aerenthal, che
l'articolo VII del Trattato della Triplice, che contemplava i
reciproci interessi dell'Austria e dell'Italia nei Balcani,
vietasse qualunque occupazione, sia pure temporanea ed a scopo
militare, nei territori europei dell'Impero; e fosse anzi
contrario ad una qualunque azione militare, quale sarebbe un
bombardamento di quelle coste. Sosteneva pure che tutte le isole
dell'Egeo dovessero considerarsi come parte della Turchia europea.
San Giuliano rispondeva rifiutando assolutamente di accettare
l'interpretazione arbitraria ed infondata che l'Aerenthal ed il
Berchtold davano all'articolo VII del Trattato, in quanto tale
articolo si riferiva a modificazioni permanenti dello statu quo, e
non già ad occupazioni temporanee consigliate ed imposte da
ragioni militari, e reputava arbitrario l'assunto del Berchtold
che le isole del basso Egeo, che sia nel criterio geografico, sia
nello stesso criterio amministrativo turco facevano parte dei vilayets
dell'Asia, dovessero intendersi contemplate dalle clausole del
Trattato che si riferivano esclusivamente ai territori europei
dell'Impero.
La conversazione diplomatica, diventò a certi momenti assai
serrata; e ad un certo punto noi dichiarammo all'Austria che non
ci saremmo lasciati arrestare da pericoli immaginari e da
interpretazioni infondate; e che una sua opposizione alla nostra
libertà d'azione renderebbe impossibile il mantenimento
dell'Alleanza.
Al 12 aprile noi informammo il Berchtold che non potevamo ormai
più differire, per ragioni militari e politiche, le nostre
operazioni nell'Egeo; ed egli finì per dichiarare che non avrebbe
sollevate difficoltà di fronte ad una nostra eventuale occupazione
di Rodi, Stampalia, ecc., purché noi ci fossimo impegnati a
restituirli a guerra finita. Noi non eravamo alieni di prendere
tale impegno, a condizione che fosse mantenuto segreto; anzi
consideravamo fosse nel nostro interesse di prenderlo, per evitare
che l'Austria, giuocando sulla sua interpretazione dell'articolo
VII dell'alleanza, avanzasse la pretesa di compensi o magari si
prendesse di colpo un compenso in Albania o nel Sangiaccato,
secondo le intenzioni da noi non ignorate del partito militare,
col pretesto della nostra occupazione delle isole. Una nostra
dichiarazione che quella occupazione era solo temporanea toglieva
di mezzo quel pretesto, perchè in tal caso anche il preteso
compenso austriaco avrebbe dovuto essere temporaneo. E di tale
conseguenza forse si accorse il Berchtold, o chi stava dietro di
lui; perchè dopo averci richiesta la formula scritta dell'impegno
di restituzione delle isole alla Turchia, all'ultimo finì per
rinunciarvi, probabilmente per conservare maggiore
libertà d'azione.
Pochi giorni dopo s'iniziava questa nuova fase della guerra.
Una squadra, al comando dell'Ammiraglio Viale, partita da Taranto
si concentrava fra i giorni 15 e 16 aprile a Stampalia, già scelta
come base di rifornimento, e dove fu raggiunta da un nostro agente
forestiero segreto che doveva servire da pilota per qualunque
azione nei Dardanelli. Il suo obbiettivo principale era di
scortare ai Dardanelli una squadriglia di siluranti, le quali,
qualora avessero potuto enti-are di sorpresa, avrebbero tentato di
silurare la flotta turca. La squadriglia arrivò, come stabilito,
davanti ai Dardanelli la notte del 17, ma le pessime condizioni
del mare, e la vigilanza dei riflettori turchi, resero impossibile
la sorpresa. Nella mattinata avanzò una squadra di nostre
corazzate, con l'intento di attrarre quella nemica, mentre
un'altra nostra squadra si teneva nascosta dietro Imbros, pronta a
tagliarle la ritirata. Ma le navi turche non si mostrarono.
Aprirono invece il fuoco contro le nostre squadre i forti delle
due sponde; le nostre artiglierie risposero, cannoneggiando per
due ore, poi si ritirarono per adempiere alle loro altre missioni.
La crociera della nostra squadra non aveva affatto avuto lo scopo
di un attacco ai Dardanelli, ma semplicemente di sostenere un
eventuale attacco di torpediniere contro la flotta turca, e di
compiere una dimostrazione che togliesse alla Turchia la illusione
che la rincuorava alla resistenza, che la nostra libertà d'azione
fosse limitata. Il breve scambio di cannonate coi forti turchi non
poteva essere considerato quale un attacco, ed era stato provocato
dai forti stessi. Ma la Turchia, la cui sola speranza stava nel
provocare complicazioni, colse l'occasione per un atto che
danneggiasse gli interessi commerciali delle altre Potenze e ne
provocasse l'irritazione e forse qualche provvedimento contro
l'Italia; e cioè la chiusura dei Dardanelli alla navigazione
commerciale. Quella decisione turca era insostenibile, ed
inammissibile la tesi su cui si fondava. Il diritto della Turchia
di chiudere gli Stretti, sancito dal Trattato di Londra del 1841 e
confermato da quelli del 1856 e del 1871, si limitava
esplicitamente alle navi da guerra, non essendo ammissibile di
diritto, né il blocco assoluto dei Dardanelli da parte di una
flotta nemica, né la loro assoluta chiusura da parte del Governo
turco.
E il Sazonoff, con la dirittura che mantenne durante tutte queste
vicende, inviò subito alla Porta una energica protesta scritta,
chiedendo l'immediata riapertura degli Stretti e minacciando, in
caso di rifiuto, di esigere risarcimenti. A rendere la chiusura
ingiustificata anche dal punto di vista pratico, stava il fatto
che il grosso della nostra squadra si era già allontanata
rientrando parte a Taranto e parte a Tobruk. Ma gli interessi
commerciali, che esercitandosi nel territorio ottomano,
parteggiavano per la Turchia, facevano sentire il loro peso,
riuscendo a determinare qualche atto diplomatico. Sir Edward Grey,
rispondendo ad una rappresentanza commerciale, aveva dichiaralo
che avrebbe telegrafato a Roma e a Costantinopoli, per ottenere
che le navi commerciali potessero passare liberamente dall'Egeo al
Mar Nero e viceversa. Una tale mossa sarebbe stato un nuovo
attacco ai nostri diritti di belligeranti, con conseguente
incoraggiamento alla Turchia; e noi facemmo sapere al governo
inglese che non avremmo potuto ammettere una qualunque diminuzione
di tali nostri diritti, del resto perfettamente compatibili con
gli interessi commerciali che esso desiderava proteggere, la
Turchia non avendo diritto di chiudere gli Stretti che dopo
iniziato un attacco; aggiungendo che a noi pareva che il miglior
modo di risolvere la questione fosse di fare passi presso la sola
Turchia, appoggiando l'azione della Russia.
Il Berchtold rinnovò le solite lagnanze, qualificando, in una
conversazione col nostro ambasciatore, l'attacco ai Dardanelli
come un atto di provocazione, che egli non si aspettava, e che
stava in contrasto coi nostri amichevoli accordi; che egli non
poteva ammettere che noi in avvenire ripetessimo azioni simili a
quella ora compiuta; e che se un'operazione simile fosse da noi
eseguita, avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Alla fine il
punto di vista russo prevalse, e la Turchia, dopo una certa
resistenza, si rassegnò a riaprire gli Stretti al commercio, ed a
rinunciare a questo ricatto tentato ai danni nostri e degli
interessi generali dell'Europa.
Non ostante queste complicazioni diplomatiche noi
continuammo risolutamente nel programma che ci
eravamo prefisso: ed il 23 aprile una nostra divisione navale, al
comando dell'Ammiraglio Presbitero, occupò l'isola di Stampalia,
stabilendovi una nostra base navale, e facendo prigioniera la
guarnigione turca. II 12 maggio la divisione al comando
dell'Ammiraglio Corsi occupava le isole di Scarpanto e Gos e altre
otto isole; ed il giorno dopo varie nostre navi occuparono le
altre isole del Dodecaneso. L'impresa più importante fu quella di
Rodi, dove si trovava una grossa guarnigione turca. Viale ed
Ameglio vi erano sbarcati il 3 e 4 maggio, alla Baia di Catilla,
senza colpo ferire; la guarnigione turca ritirandosi nell'interno,
dove finì per arrendersi il 17 maggio dopo una piccola battaglia
combattuta a Psitos.
L'occupazione delle isole non dette luogo ad alcuna osservazione
da parte delle Potenze, eccetto l'Austria. Anche per queste
operazioni il Berchtold rinnovò le sue lagnanze, perchè le nostre
occupazioni non si erano limitate alle isole per le quali egli
aveva espresso, sebbene a riluttanza, il suo consenso. Egli
affacciò allora la tesi che le occupazioni italiane dessero
all'Austria il diritto di chiedere compensi, che essa per ora non
desiderava, senza per ciò rinunciare a tale suo diritto. Egli
intendeva però che le occupazioni compiute segnassero l'ultimo
limite. Il San Giuliano, che in tutta questa controversia, mostrò
sempre grande pazienza unita a fermezza, gli rispose che in Italia
si considererebbe come amica ed alleata della Turchia, e come non
amica e non alleata dell'Italia quella potenza la quale, violando
i doveri della neutralità in favore della Turchia ci avesse
impedito di servirci di tutti i mezzi in nostro potere per
obbligarla a cederci.
Osservava che la astensione da operazioni, politicamente e
militarmente necessarie, ma ostacolate dall'Austria, non sarebbe
stata possibile alla lunga senza che il vero motivo di tale
astensione, cioè l'opposizione dell'Austria, finisse per essere
noto, ed anzi il Governo italiano potrebbe trovarsi, ad un dato
momento, nella necessità di dichiararlo. E concludeva che vi era
contraddizione fra il pretesto dell'Austria di non riconoscere la
nostra sovranità in Libia perchè la Turchia era ancora in grado di
resistere, e la pretesa di ostacolarci l'uso dei mezzi per
obbligarla e desistere dalla resistenza.
Io non ho mai avuta occasione di conoscere il Berchtold- ma il San
Giuliano, che poi lo incontrò in un convegno a Pisa, me ne
comunicò una impressione assai mediocre, come di persona senza
idee proprie ed asservita interamente alla camarilla aulica e
militare, alla quale non sarebbe parso vero di profittare della
situazione per svolgere i suoi progetti nell'Albania e nel
Sangiaccato. Ed infatti la sua condotta diplomatica, di perpetue
lagnanze e di mezze minaccie verso di noi, senza che arrivasse mai
ad una conclusione; e la monotonia con cui insisteva in
interpretazioni arbitrarie ed infondate
dei nostri impegni, senza mai tentare di
affrontare le argomentazioni contrarie del San Giuliano,
davano l'impressione di un uomo che non aveva né libertà né
capacità d'azione, e che invece di ragionare con la propria testa
per rendersi conto della realtà delle cose, eseguisse
semplicemente una parte che gli era affidata. La stranezza ed
ambiguità della sua posizione e dei suoi atteggiamenti, risultò in
modo assai curioso nell'ultimo episodio di questa lotta
diplomatica, che merita di essere ricordato.
Lo Stato Maggiore della nostra marina credè ad un certo momento
conveniente che noi occupassimo Chio e due o tre altre isole
minori, per rendere più agevole e meno faticosa la nostra
vigilanza. Siccome il Berchtold riteneva che secondo i trattati
noi fossimo impegnati di preavvisarlo e consultarci seco per
qualunque nostro progetto di occupazione, e ci aveva rimproverata
come una violazione dei nostri impegni il non averlo fatto in
precedenti occasioni, così noi incaricammo il nostro ambasciatore
D'Avarna di informarlo e consultarlo. Il Berchtold mutò allora la
sua tesi, dichiarando che tali nostri preavvisi avevano l'effetto
di associarlo alla nostra azione, e che egli declinava tale
compromissione. Noi agissimo per nostro conto; e se la nostra
azione era contraria agli impegni da noi assunti egli si sarebbe
ritenuto svincolato pure per parte sua dagli obblighi
dell'alleanza e della convenzione segreta dei Balcani del 1909.
Siccome l'occupazione di Chio era conveniente ma non
indispensabile, io e San Giuliano decidemmo di prendere, come si
dice, la palla al balzo, rinunciando alla occupazione progettata;
ma nello stesso tempo avvertimmo il Berchtold che prendevamo nota
che, con la nostra rinuncia, egli riconosceva che i reciproci
impegni rimanevano pienamente validi. E di questa nostra
constatazione demmo pure avviso alla Germania.
La risposta della Turchia alle nostre occupazioni nell'Egeo fu un
decreto di espulsione, già da lungo tempo minacciato, dei nostri
connazionali da tutti i territori dell'Impero. Quella
deliberazione del Governo turco era una rappresaglia abbastanza
grave, non essendoci meno di ventimila cittadini italiani a
Costantinopoli, e cinquantamila nel resto dell'Impero; ma i suoi
effetti sulla guerra erano più che nulli, negativi in quanto che
se quel decreto fosse stato integralmente applicato, e i nostri
porti fossero stati invasi dai profughi, lo spettacolo delle loro
miserie e sofferenze avrebbe irritata sempre più l'opinione
pubblica e spinto il Governo italiano a rispondere alla sua volta
con nuovi attacchi militari alle parti più vitali dell'Impero.
L'Ambasciata tedesca, che aveva assunto la tutela dei nostri
concittadini, non spiegò un'azione protettrice molto vigorosa; il
Marshall essendo assai irritato contro l'Italia perchè considerava
che la nostra impresa avesse gravemente danneggiata la sua opera
politica in Turchia, costrutta col lavoro di un ventennio; ma
l'applicazione del decreto fu assai blanda, anche perchè molti dei
nostri connazionali erano impiegati in imprese europee che non
potevano fare a meno della loro collaborazione.
L'ultima impresa d'una certa importanza della nostra marina
nell'Egeo, fu una scorreria nei Dardanelli,, compiuta da una
squadra di torpediniere al comando dell'Ammiraglio Millo. Avendo
avuta notizia che la flotta turca progettava un colpo di mano
contro qualche nostra nave isolata, fu ordinato di intenisificare
e spingere più al nord le crociere di vigilanza delle nostre
siluranti. Una nostra squadriglia così entrò nei Dardanelli,
spingendosi con grande ardimento per una ventina di chilometri,
fino quasi a Cianak. Giunta colà fu scoperta, e presa sotto un
fuoco incrociato; ma proseguì nella rotta finché, giunta al luogo
d'ancoraggio della flotta turca, e constatando che questa era
sicuramente difesa da reti di acciaio che rendevano impossibile un
attacco, decise di ritirarsi; e la ritirata fu eseguita in
perfetto ordine, senza alcun danno, e senza che il nemico osasse
un inseguimento, quantunque le nostre siluranti non fossero
protette da alcuna nave maggiore. La squadriglia aveva a bordo,
per pilota, uno straniero conoscitore degli Stretti, il quale ad
un certo punto era stato preso da paura, e voleva che si
retrocedesse; ma il Millo, puntandogli la rivoltella alle tempie,
l'aveva obbligato a compiere sino al fondo l'opera per cui si era
profferta ed era stato ingaggiato.
Questa complicata guerra, fra diplomatica e marittima, condotta
nell'Egeo, non aveva affatto distolta ia nostra attenzione dalla
Libia; dove alcuni mesi di sosta ci avevano permesso di riordinare
i nostri corpi di occupazione, rafforzandoli anche con nuovi
importanti contingenti, e con mezzi intesi a renderli atti ad una
serie di operazioni e spedizioni, più rapide e lontane, allo scopo
di debellare i vari nuclei turco-arabi, riaffermando il nostro
dominio e mostrando, alle popolazioni da cui i turchi traevano le
loro reclute, la inutilità di una ulteriore resistenza.
Codeste operazioni furono iniziate con una impresa
contro
Misurata, che era uno dei centri della resistenza nemica e che
serviva particolarmente ai turco-arabi per il contrabbando d'armi
e munizioni nella
Tripolitania. Un corpo di spedizione, al
comando
del Generale Camerana, scortato dalla divisione
dell'Ammiraglio Borea-Ricci, vi effettuò uno sbarco la
sera del 16
giugno, e si impadronì delle principali posizioni dopo un
combattimento accanito. L'operazione
ebbe poi il suo compimento
l'8 luglio, con l'occupazione della città stessa, che si trovava
alcune miglia
all'interno, dopo un altro accanito
combattimento.
Il 21 luglio fu iniziata la avanzata del colonnello
Fara
verso il Garian, che costituiva il principale
punto
d'appoggio del nemico nell'interno; e il 5 agosto
il
generale Garioni, operando con due divisioni sbarcate
dal mare,
occupava, ad occidente di Tripoli, Zuara;
estendendo poi
l'occupazione sino alla frontiera tunisina, anche allo scopo di
mettere fine al contrabbando di armi e munizioni che passava
abbondantissimo traverso quella frontiera.
Il 31 agosto Caneva
lasciava Tripoli e veniva esonerato dal
comando supremo del corpo di spedizione; e i due comandi
della
Tripolitania e della Cirenaica venivano resi indipendenti
sotto i rispettivi generali Ragni e Bricola; tale provvedimento
venendo preso in considerazione del fatto che ormai l'unità del
comando non era più necessaria, anzi avrebbe intralciata quella
particolare opera di polizia militare, rispondente alla nuova fase
della guerra, e che richiedeva libertà e rapidità di iniziativa.
Il generale Reisoli effettuò verso la metà di agosto alcune di
queste operazioni ad occidente di Derna, provocando un grande
attacco da parte del nemico, che fu sconfitto, lasciando oltre un
migliaia di morti sul terreno; e pochi giorni dopo si aveva pure
una notevole battaglia a mezzogiorno di Tripoli, presso Zanzur.
Queste operazioni nella Libia si svolgevano parallelamente ai
negoziati per la pace, già iniziati ufficiosamente ad Ouchy, ed
erano intese, fra l'altro, a fare comprendere alla Turchia che,
quale si fosse l'esito di quei negoziati, noi eravamo ben fermi
nel proposito di andare a fondo in Libia a qualunque costo, fino a
che la nostra autorità vi fosse stabilita e riconosciuta. E del
resto queste operazioni erano pure necessarie per fiaccare la
resistenza locale, che altrimenti avrebbe potuto prolungarsi anche
dopo che la Turchia avesse firmata la pace.
Una terza piccola guerra, oltre a quelle di Libia e dell'Egeo, fu
combattuta in un teatro più lontano, nel Mar Rosso, parte
direttamente a mezzo di una piccola squadra navale nostra, e parte
indirettamente a mezzo di uno sceicco arabo, Said Idriss, col
quale riuscimmo ad assicurarci una specie di alleanza.
Queste operazioni nel Mar Rosso, che richiedevano un'azione tutta
speciale dietro le quinte, furono sempre sotto il controllo del
Ministero degli interni, e dirette da me personalmente.
L'estensione della guerra nel Mar Rosso apparve necessaria e
conveniente sino dal principio, per varie ragioni. Dovevamo
anzitutto proteggere le nostre colonie contro qualche colpo di
mano che la Turchia vi potesse tentare, se non altro per recarci
qualche disturbo; ad evitare la qual cosa sarebbe però bastata la
vigilanza dei nostri incrociatori e delle nostre cannoniere di
stazione a Massaua. Ma vi era un altro più grave pericolo,
connesso con la guerra in Cirenaica, e cioè che traverso il Mar
Rosso e il Sudan i turchi facessero passare armi e capi al
Senusso, che aveva il suo quartiere generale nelle oasi di Kufra e
di Giarabub. Ad impedire questo, la vigilanza delle nostre navi,
su una costa cotanto estesa, sarebbe riuscita assolutamente
insufficiente; e forze maggiori di quelle di cui disponevamo in
quel mare, sarebbero pure occorse per bloccare i porti della costa
araba.
Io giudicai che fosse mezzo di maggiore efficacia, a distogliere i
turchi da tale tentativi, creare loro delle ostilità nel loro
stesso territorio d'Arabia; ciò che appariva anche più agevole in
quanto che Said Idriss, una specie di grande feudatario delle
popolazioni che si trovano fra la Mecca e lo Yemen, era già in
stato di ribellione contro le autorità ottomane, per motivi
religiosi; il linguaggio e le idee occidentali adottate dai
Giovani Turchi apparendo assolutamente eretiche a quegli ortodossi
purissimi dell'islamismo che vivevano nei territori da dove uscì
Maometto, e che furono culla della loro religione. Ricordo che
nella corrispondenza passata fra noi, cristiani, e l'Idriss,
costui ci considerava come strumenti della volontà di Allah, e
qualificava i Turchi di «cani infedeli», accusandoli di avere
introdotte nuove divinità come il Progresso, la Civiltà, ecc.
nella loro religione.
Ad annodare rapporti con Said Idriss, ci aiutò assai il Kedivè di
Egitto, che in quel tempo era ostilissimo ai Giovani Turchi, di
cui temeva le ambizioni e le pretese; e che mostrò, durante
l'intera guerra, grande amicizia per l'Italia, in riconoscenza,
egli diceva, della cortesia di Umberto I, il quale aveva accolto
con cordiale ospitalità in Italia suo padre, quando era stato
privato del trono e bandito dall'Egitto in seguito agli
avvenimenti del 1882, alla rivolta di Arabi pascià ed
all'occupazione inglese. Suoi agenti, venuti appositamente a
Massaua, riuscirono a mettersi in comunicazione, non ostante la
vigilanza turca alla costa, con Idriss, il quale accolse con
entusiasmo la nostra offerta di aiutare la sua guerriglia contro i
Turchi.
Al comando delle nostre forze navali nel Mar Rosso, fu inviato
l'allora capitano di vascello Cerina Ferroni, che condusse
le cose con molta capacità ed
energia, insieme al tenente Rubiolo, che vi si trovava
già ed aveva grande pratica di quei luoghi. Noi aiutammo Idriss
con danaro; poi gli fornimmo circa diecimila fucili e munizioni, e
mettemmo anche a sua disposizione tre batterie da campagna, coi
loro cannonieri, per dargli modo di attaccare i turchi anche nelle
loro fortificazioni, mentre poi le nostre navi bloccavano Hodeida
per impedire che rifornimenti di armi e munizioni arrivassero ai
campi turchi, e partecipavano pure dal mare ai bombardamenti dei
forti lungo la costa. Siccome Idriss mirava ad impadronirsi dei
luoghi santi, scacciandone la guarnigione turca, la qual cosa
avrebbe recato un grave colpo all'autorità del Sultano quale
Kalifa, i turchi si allarmarono assai, e tentarono ogni mezzo per
pacificarlo, o per minacciarlo e creargli difficoltà che lo
forzassero a rinunciare a quell'impresa. Così pensarono di
attaccarlo a tergo, suscitandogli contro l'Iman Jaja, che dominava
nello Yemen; e siccome fra lo Yemen e il territorio di Idriss
c'erano delle popolazioni mezzo selvaggie, noi alla nostra volta
lavorammo a incitarle contro l'Iman Jaja, perchè gli impedissero
di attaccare Idriss alle spalle.
A dare una idea dello stato di ignoranza affatto primitiva di
queste popolazioni, ricordo un curioso episodio. Fra i nostri
ufficiali che si recavano a negoziare coi loro capi, ce ne era uno
che aveva un dente d'oro; e la cosa, che evidentemente esse
credevano naturale, impressionò talmente queste popolazioni che
accorrevano da ogni parte solo per ammirare quel dente.
Quella piccola campagna secondaria conseguì tutti gli effetti che
ci eravamo proposti, e non fu nemmeno senza qualche ripercussione
in Cirenaica, perchè il Said Idriss, col quale eravamo alleati,
era imparentato col capo dei Senussi la cui autorità dominava
nell'intera Cirenaica. Più efficaci ancora furono le sue
ripercussioni, di carattere morale e politico, sull'animo del
governo ottomano e del Comitato «Unione e Progresso», il quale già
da tempo preoccupato delle tendenze separatiste manifestate dagli
arabi, tanto nell'Arabia che nella Siria e nello Yemen, temeva che
questa campagna, insieme all'incapacità mostrata dal governo
ottomano a difendere gli arabi della Libia, portasse ad una
sollevazione generale dei dodici milioni di arabi compresi
nell'Impero.
Ed anche questa campagna, non ostante i limiti modesti entro i
quali era mantenuta, ci suscitò le solite difficoltà diplomatiche;
il governo inglese, a mezzo del Viceré delle Indie avendo ricevute
proteste dei mussulmani dell'India, dell'Afganistan e perfino
della Cina, non ostante che noi avessimo evitato con ogni cautela
di interferire coi pellegrinaggi, guardandoci da qualunque attacco
ai punti di sbarco pei luoghi santi della Mecca e di Medina.
Nuovi passi per la pace e proposte inaccettabili — Nostri
rapporti indiretti col governo turco — Conversazioni di Volpi
con personaggi turchi — Prima proposta di negoziati e successive
complicazioni — La nomina del principe Said Halern a fiduciario
turco; di Bertolini, Fusinato e Volpi per l'Italia — La figura e
i modi di Said Halem —Inizio quasi comico — Si manda un
verbale a Costantinopoli, ma non arriva risposta — Schemi di
compromesso dei nostri delegati, da me non accolti — Faccio fare
nuove domande per potere poi cedere su di esse — Crisi a
Costantinopoli e ritiro di Said Halem —Un cristiano al Ministero
degli esteri turco — Strana condotta dell'ambasciatore tedesco a
Costantinopoli — Una proposta del Gran Visir a mezzo della
Germania da me respinta — I nuovi fiduciari: Nabi e Feredin Bey
— Cinque proposte turche respinte — Convegno di Torino e mio
schema per la pace — Ridda di proposte turche di ogni genere —
La missione dilatoria di Reschid pascià
— Mia minaccia di allargare la guerra ed avvertimento alle
Potenze.
Dopo l'insuccesso del passo collettivo fatto dalle Potenze, a Roma
per conoscere le condizioni alle quali noi eravamo disposti a
trattare la pace, ed a Costantinopoli per comunicare tali
condizioni alla Porta perchè le prendesse in considerazione, nulla
più era stato fatto diplomaticamente per affrettare la pace;
quantunque noi, specie quando le nostre operazioni nell'Egeo
suscitavano un qualche malessere internazionale, lasciassimo
comprendere e dichiarassimo anche apertamente che se le Potenze
temevano complicazioni e desideravano evitarle, cercassero
di persuadere la Turchia a desistere da
una inutile resistenza;
essendo noi sempre disposti
a trattare con larghezza quando il
principio della
nostra sovranità sulla Libia fosse salvo. Ma i
conflitti e le divergenze degli interessi, come pure le
mutue
diffidenze, rendevano difficile una intesa diplomatica a questo
scopo. Solo quando gli approcci
diretti fra noi e il governo
ottomano avevano già
avuto luogo, qualche passo diplomatico fu
fatto, però
sempre con molta peritanza e riserbo, a
Costantinopoli, in ragione anche della crescente preoccupazione
per la situazione che si andava maturando
nei Balcani.
Così ci giungevano di tratto in tratto notizie di proposte
approssimative. Il Marshall, che nel giugno lasciò Costantinopoli
per assumere l'Ambasciata di Londra, in una conversazione col
nostro ambasciatore a Berlino, il Pansa, dichiarò che la Porta era
ormai persuasa che la Tripolitania fosse irremediabilmente
perduta, ma che il riconoscerlo apertamente con una cessione, le
avrebbe arrecati danni ancora maggiori, sia per la perdita di
prestigio nel mondo musulmano, sia per il probabile distacco dello
Yemen. Soggiunse che l'area della nostra occupazione in Libia era
ancora troppo scarsa, perchè si potesse per allora prendere in
considerazione la delegazione dell'autorità del Sultano ad un
qualche ente locale col quale noi potessimo poi venire ad accordi.
Quando la nostra occupazione si fosse maggiormente estesa, la
Turchia forse avrebbe
trattato, a condizione però che noi consentissimo a riservare una
parte del territorio dell'interno per quegli arabi che
preferissero di ritirarvisi in condizione di intera indipendenza;
condizione questa che essa considerava come un debito d'onore.
Un passo di una certa importanza fu fatto a Costantinopoli nella
seconda metà di giugno dall'Austria, con intenti molto amichevoli
verso di noi, forse per riparare alla condotta poco cordiale
seguita per la questione delle nostre operazioni nell'Egeo.
L'ambasciatore Pallavicini, per incarico del Berchtold, chiese una
udienza al ministro degli Esteri, Assim Bey, per insistere sulla
convenienza per la Turchia di porre fine alla guerra, e richiamare
la sua attenzione al pericolo di una protratta occupazione delle
isole, riguardo alla restituzione delle quali la Turchia si era
tenuta fino allora sicura, forse anche per qualche indiscrezione
diplomatica. Un primo progetto affacciato nelle conversazioni
turche-austriache, fu che la Turchia cedesse la Cirenaica al
Kedivè d'Egitto, e la Tripolitania al Bey di Tunisi, che le
avrebbero poi alla loro volta cedute all'Italia, con alcune
clausole a favore delle autorità spirituali del Sultano. Questo
progetto, assai poco pratico, fu subito lasciato cadere. Assim Bey
aveva poi avanzata una nuova proposta: — la Turchia avrebbe
dichiarate indipendenti le due Provincie sotto il regno di un Bey
arabo,- poi le truppe italiane e le truppe turche verrebbero
ritirate e si formerebbe una milizia del paese; e l'Italia infine
potrebbe concludere col governo locale un accordo che le
assicurasse una posizione simile a quella della Francia in
Tunisia. Lo stesso ambasciatore austriaco osservò subito ad Assim
Bey che tali condizioni non potevano essere accettate.
Un'altra proposta, che ci pervenne a mezzo dell'ambasciatore
francese, fu affacciata dal nuovo ministro degli esteri turco,
Noradoughian Effendi, il quale osservando che la prima cosa da
farsi era di cercare di calmare gli arabi, mentre fino allora non
si era pensato che ad eccitarli, proponeva che fosse concesso alla
Turchia di inviare in Tripolitania una missione che li rendesse
edotti della situazione e della necessità per la Turchia di venire
alla pace, e che sentisse da loro a quali condizioni fossero
disposti a deporre le armi.
Un'altra proposta fu che noi ci contentassimo della Tripolitania,
che ci sarebbe stata ceduta in piena sovranità, purché
rinunciassimo alla Cirenaica. Erano tutte proposte vaghe e
inaccettabili, ma che avevano però l'effetto di farci conoscere
che ormai le ragioni della pace si facevano sentire, contro i
propositi di intransigenza assoluta, nello spirito del governo
ottomano.
Non ostante lo stato di guerra, qualche rapporto indiretto e di
carattere assolutamente privato, era sempre stato mantenuto fra
noi e i membri del governo turco, o altri importanti personaggi di
quel regime. A mantenere questi rapporti avevano molto contribuito
il Comm. Volpi, che aveva una larga rete
di conoscenze e relazioni nell'ambiente turco, e il Commi. Nogara
che, quale rappresentante della Commerciale d'Oriente, era rimasto
a Costantinopoli, dove godeva di molta considerazione e
benevolenza da parte di personaggi importanti. Giovandosi di
questa sua speciale condizione, il Comm. Nogara non aveva mancato,
quando gli se n'era presentata l'occasione, d'intrattenersi sulla
situazione e sulla possibilità di venire alla pace, con qualcuno
di questi personaggi; fra l'altro aveva avuta nel principio
dell'aprile una lunga ed importante
conversazione con l'ex-ministro di Giustizia, B.
Halagian, che era magna pars del Comitato
«Unione e Progresso», il quale alla sua volta
esercitava sul governo una influenza decisiva.
Costui, pure ammettendo che la Turchia aveva bisogno della pace,
metteva avanti le gravi difficoltà che si frapponevano a
raggiungere tale scopo. Egli osservava che il governo turco era
riuscito ad organizzare una resistenza militare che avrebbe
immobilizzato il nostro esercito per un tempo
indefinito; per organizzare questa resistenza la Turchia
aveva dovuto fare
appello ai sentimenti religiosi ed
appoggiarsi sul movimento islamitico, ed ora doveva tener conto
dello stato di animo così creato, che vietava di
accogliere, anche indirettamente, la tesi italiana.
Il pericolo di movimenti nei Balcani, secondo
l'Halagian, interessava più le Potenze che la Turchia;
così che i rischi che la Turchia
attualmente correva erano minori proseguendo la guerra che
facendo la pace; perchè
facendo la pace la Turchia avrebbe dovuto abbandonare
gli arabi che combattevano per essa; ciò che avrebbe provocata una
inevitabile reazione con la probabile conseguenza della
proclamazione di un Califfato arabo. Bastava un tale pericolo per
impedire alla Turchia di trattare la pace sulla base voluta
dall'Italia.
Egli riconosceva che il prolungarsi dello stato attuale di cose
era pieno di pericoli; per cui i turchi più illuminati
desideravano di trovare una onorevole via d'uscita; la quale non
avrebbe potuto essere, che o il ritiro del decreto d'annessione da
parte dell'Italia, col mantenimento della sovranità religiosa e
politica del Sultano in Libia; oppure avvenimenti militari così
gravi per la Turchia, o in Libia o altrove, da giustificare
l'abbandono della resistenza da parte del governo turco di fronte
alla opinione pubblica del paese. E concludeva dichiarando che gli
uomini politici turchi più eminenti desideravano di essere forzati
dagli avvenimenti a fare la pace; ma gli avvenimenti diplomatici
da soli sarebbero stati a ciò insufficienti. È da notare che la
nostra azione navale nell'Egeo ebbe inizio poco dopo.
Nel mese di maggio, quando gli avvenimenti dell'Egeo avevano
cominciato a preoccupare il governo turco, il Comm. Volpi venne da
me e mi disse che egli doveva recarsi a Costantinopoli, dove
poteva andare nella sua qualità di console di Serbia, e mi chiese
se io credevo utile che egli si informasse degli intendimenti del
governo turco. Io gli dissi che credevo ciò molto utile;
premendomi molto di sapere quale fosse la condizione di quel
governo e la vera opinione dei più influenti ministri turchi.
Il Comm. Volpi partì il 6 giugno per la capitale turca, dove
giunse il 10 giugno. Pochi giorni dopo che egli era giunto colà si
presentò a me un italiano di origine, ma di nazionalità turca (se
ben ricordo era l'ingegnere Dinari) il quale mi disse che veniva a
nome di Talaat Bey per sapere se potevano i ministri turchi
parlare seriamente col Comm. Volpi. Risposi che sebbene non avesse
mandato dal governo, potevano iniziarsi con lui utili
conversazioni. Il Volpi ebbe subito un abboccamento col Ministro
della Guerra, Machmoud Chefchet Pascià, persona molto autorevole
ed onesta; col Ministro degli Esteri Assim Bey, diplomatico colto
e intelligente; con un membro autorevole del Comitato, Hussein
Djaid Bey, e con Halagian Effendi, deputato di Costantinopoli e
vice presidente della Camera. La impressione complessiva che egli
ritrasse da quelle conversazioni, fu che tanto gli uomini al
governo che quelli del Comitato, preoccupati sopratutto dalle
nostre operazioni nell'Egeo e dall'occupazione delle isole,
fossero persuasi della opportunità di trovare una via di uscita.
Il Ministro della Guerra gli dichiarò che se fosse stato possibile
di trovare una formula onorevole per la Turchia, per finire la
guerra, egli era disposto personalmente ad imporla, anche a
scapito della propria popolarità, ma che egli non sapeva
escogitarne alcuna. Il Ministro degli Esteri, Assim Bey, si
dichiarò convinto della gravità del momento per la Turchia, e del
pericolo della perdita delle isole indipendentemente anche dalla
volontà dell'Italia. Si mostrò fautore di una intesa rapida e
diretta, escludendo una Conferenza internazionale, che gli pareva
impossibile, e che anche se attuata avrebbe avuto il
solito effetto di provocare nuove complicazioni,
e concluse impegnandosi a studiare
una formula, basata su una preventiva dichiarazione di
autonomia o di indipendenza delle due Provincie della Libia, che
avrebbe potuto essere il preludio della fine del conflitto. Ebbe
poi luogo una riunione del Comitato, con la partecipazione
dei più importanti ministri, nella quale fu tracciato un
progetto, che il vicepresidente della Camera, Halagian Effendi,
espose il giorno dopo al .Volpi. La Turchia riconosceva che le due
Provincie africane erano per essa perdute, ma constatava che
l'Italia non le aveva ancora effettivamente
occupate.
In tali condizioni là Turchia era disposta a recedere dalle
dichiarazioni d'intransigenza fatte fino allora; ma anche l'Italia
avrebbe dovuto ritornare sostanzialmente sulle sue decisioni. Il
governo e il Comitato consideravano la possibilità di dichiarare
autonome le due Provincie, facendone uno o due Stati retti da
speciali patti internazionali, e nei quali ogni attività
economica, agricola ed industriale fosse riservata, all'Italia. La
milizia avrebbe dovuto essere locale, inquadrata
forse da ufficiali misti, italiani e turchi, creando così una
specie di condominio effettivo.
Si poteva concedere che le truppe
italiane mantenessero i punti occupati.
Il Ministro degli Esteri, in una nuova conversazione confermava
questi punti, aggiungendo che dal canto suo riteneva possibile di
arrivare anche al riconoscimento della sovranità piena ed assoluta
dell'Italia su Tripoli, il suo porto e il suo dietroterra
immediato; così il governo italiano avrebbe potuto mostrare che si
applicava il Decreto di sovranità ed ottenere una grande base
navale. Tale proposta era pure autorizzata da Talaat Bey pel
Comitato, e dal Presidente della Camera pel Parlamento. E prima
che il Volpi ripartisse il 16 giugno per l'Italia, fu pure
informato che era stata ad ogni modo decisa la nomina di una
Commissione turca, composta di membri influenti del Comitato e
graditi al governo, allo scopo di prendere contatto meco, o con
altri italiani autorizzati, in forma privata, per trovare la base
per la cessazione del conflitto e per un accordo.
Il Comm. Volpi, secondo le istruzioni che gli avevo dato, si
mantenne assai riserbato riguardo a queste proposte, limitandosi
ad opporre ad esse il punto di vista italiano e le sue ragioni; e
seppe disimpegnare con molto tatto ed abilità la sua missione,
evitando la benché menoma compromissione e mantenendo integri i
nostri punti fondamentali. Il fatto solo che, ciò non ostante,
egli fosse stato ricevuto e intrattenuto in lunghi colloqui con
personaggi fra i più importanti del regime, e che questi
avanzassero proposte, sia pure non accettabili, ma già lontane
dalla intransigenza assoluta fino allora dimostrata; insieme alla
proposta di nominare rappresentanti per iniziare
conversazioni, sia pure private, allo
scopo di trovare una via di uscita dalla situazione,
era già un notevole risultato, in quanto
ci mostrava che il desiderio di pace cominciava a maturare
nello spirito dei nostri
nemici.
E per chi conosceva la mentalità orientale, era ben da
aspettarsi che essi non rinunciassero ancora all'illusione
che,-col procrastinare e col ricorrere a formule ambigue,
potessero ancora salvare ciò che era già irremediabilmcnte
perduto. Io consideravo
poi specialmente importante il fatto che il
governo turco avesse riconosciuto la convenienza di negoziati per
una intesa diretta, con l'esclusione di qualunque intervento e
mediazione, che non avrebbero avuto altro effetto che di
complicare il già difficile problema.
Dopo la partenza del Volpi da Costantinopoli, l'incarico di
mantenere i rapporti e continuare le conversazioni con la Porta
per accordarsi su un convegno ufficioso, rimase al Comm.
Nogara. I turchi proposero da prima che a sede del convegno fosse
scelta Vienna, ma io mi opposi subito osservando che a Vienna non
sarebbe mancato al governo austriaco il modo di sapere tutto
ciò che accadeva, mentre era comune intenzione che le cose
procedessero segretamente sino a che si fosse raggiunto l'accordo
sui punti capitali. Proposi la Svizzera, ed allora i turchi
indicarono Lucerna, ma poi condiscesero per Losanna, che a me
pareva più conveniente perchè più appartata. Sorsero però, fra il
16 e la fine del giugno nuove difficoltà.
Il Comitato avendo adottato il principio della intesa diretta, si
era decisa già
la nomina della Commissione e scelti gli uomini;
e
il Gran Visir e il Ministro degli Esteri avevano
data la loro
incondizionata approvazione, indicando
come base dell'intesa, la
proclamazione dell'autonomia, in forma tale che fossero salvi
tanto il prestigio italiano che quello musulmano. Anche
uomini
politici estranei al governo, come Hilmi pascià e
Kiamil
pascià avevano espresso il loro consenso ad
una tale soluzione. Ma
ad un certo momento si ebbe
l'intervento dell'elemento musulmano
più intransigente, delle cui vedute si fece espositore nel
Consiglio
dei Ministri Talaat Bey, il quale dichiarò che
il
Comitato avrebbe perduto ogni appoggio del partito
religioso se
si fosse fatto promotore di una intesa
diretta con l'Italia. Pare
che si studiasse allora il
modo a che la Commissione dei
negoziatori non dovesse essere o apparire l'emanazione diretta né
del
Comitato né del governo, e che in genere l'elemento
musulmano
non figurasse come promotore.
Queste
incertezze erano anche l'effetto delle
complicazioni
albanesi e della crisi latente del gabinetto, che
infatti
si dimise qualche settimana dopo, e dettero luogo
a nuovi
progetti, fra cui quello di cedere a noi la
sola costa e di
negoziare poi l'interno in scambio
delle nostre colonie
nell'Africa orientale. Noi però
tenemmo fermo al principio di non
discutere che
quando la Commissione fosse nominata e sempre
sulla
base del nostro decreto di sovranità; ed infine,
al 2 luglio la
nomina venne, ed a capo della Missione
turca fu scelto Said Haleni
pascià, Presidente del Consiglio di Stato ed ex-presidente del
Comitato «Unione e Progresso», arabo di origine. Delle sue qualità
e posizione avemmo referenze contradittorie; secondo alcune egli
era uomo molto stimato, di grande autorità e superiore ai partiti,
e la scelta di lui si spiegava col desiderio che le conversazioni
con l'Italia fossero affidate ad un personaggio il quale potesse
rimanere e continuarle anche nel caso che il governo che l'aveva
mandato cadesse in crisi; secondo altre egli era uomo di scarsa
importanza ed era stato mandato avanti dal governo allo scopo di
guadagnare tempo senza entrare in compromissioni. Probabilmente il
governo turco intendeva di servirsene o nell'uno o nell'altro
modo, a seconda delle circostanze.
Per parte nostra nominammo nostri rappresentanti, sempre in veste
per allora ufficiosa, l'on. Bertolini, che godeva di grande
autorità politica ed era uomo ponderato e fermo; l'on. Fusinato,
per la sua cultura e pratica di diritto internazionale, e il
commendator Volpi, che aveva mostrato di conoscere a fondo i
turchi, ed aveva il merito di avere promosse le
conversazioni.
I Delegati delle due parti arrivarono a Losanna, ove alloggiarono
all'Hotel Gibbon, molto appartato, fra il 10 e l'il di luglio; ed
il giorno 12 ebbe luogo il primo incontro. Said Halem per
l'importanza che dava alla propria posizione ufficiale di
Presidente del Consiglio di Stato, pretese che i nostri si
procurassero una presentazione ufficiale, il che fu fatto a mezzo
del ministro nostro a Berna, Cucchi Boassi, che per mio ordine si
recò espressamente a Losanna. Di quel primo incontro mi dette una
relazione caratteristica il Fusinato, a mezzo di una lettera che.
riproduco:
«Sua Altezza Said Halem pascià — egli mi scriveva il 15 luglio — è
un omino sui 55; con i capelli corti e quasi del tutto bianchi, e
i baffetti più scuri; ciò che dovrebbe essere un indizio di avere
egli lavorato più con la testa che con la bocca.... In complesso
una fisionomia simpatica, che ricorda quella di V. E. Orlando,
ridotta; tratti e maniere cortesissime e perfette, di signore di
razza; si esprime ottimamente in francese e fuma delle eccellenti
sigarette, fabbricate espressamente per lui dalla regìa ottomana.
Come ben sai, è un grosso personaggio. Ha titolo di Altezza per la
sua parentela col Kedivè di Egitto; è senatore, Presidente del
Consiglio di Stato, e come tale membro di diritto del Consiglio
dei Ministri. Fu del vecchio regime; ma è passato subito e
volontieri al nuovo, e gode la fiducia dei Giovani Turchi. Si
disse anzi, confidenzialmente, che la sostituzione di lui alla
terna prima fissata, sia stata fatta in considerazione della
attuale crisi ottomana: conveniva scegliere una persona che
essendo, in certo modo, fuori e sopra i partiti, potesse venire
riconosciuta e accettata anche nella eventualità di una mutazione
di gabinetto. Io per altro ho in mente che la sua scelta sia stata
determinata piuttosto dal fatto che egli stava già per venire qui,
sul lago, dove ha in affìtto, ad Evian, di faccia a Losanna, una
bellissima villa. Perchè, fra l'altro, il nostro amico-nemico, è
pieno di quattrini.
«Ad ogni modo, tutto ciò poco importa. Indubbiamente egli è qui in
rappresentanza diretta del Governo turco. Il contatto è preso, in
condizioni e forme eccellenti. Qualunque sia per essere lo
svolgimento delle conversazioni, importa io credo, che il contatto
non si perda più.
«Ma se Sua Altezza rappresenta indubbiamente il Governo ottomano,
malauguratamente, a tutt'oggi, ne rappresenta troppo poco le idee.
Mi spiego meglio: ormai ho la persuasione assoluta che egli è
venuto qui privo di istruzioni ufficiali. Ha parlato con Carasso,
il deputato di Costantinopoli; sa all'ingrosso che cosa pensano i
ministri al cui consiglio assistette; ma vere istruzioni, non ne
ha....
«Il nostro contatto si iniziò così. Fissato l'appuntamento, a
mezzo di Nogara, siamo saliti senza farci annunziare. Appena
entrati ci siamo dati la mano; abbiamo preso posto, e Sua Altezza
aprì la conversazione con queste precise parole: — Il fait
chaud aujourd'hut... — dal che capii subito che avevamo da
fare con un fine osservatore. Avrei potuto rispondere che a
Costantinopoli fa più caldo ancora; ma preferii tacere e
consentire. Dopo qualche altra frase dello stesso valore, si
arrivò in Africa. E qui viene il buono. Premessa, da una parte e
dall'altra, qualche opportuna dichiarazione molto amichevole e
fiduciosa, il Pascià disse che «Carasso gli aveva detto che già in
massima si era d'accordo per una soluzione sulla base
dell'autonomia». In sostanza una autonomia delle due Provincie
dichiarata e convenuta dalle due parti, sotto la sovranità
nominale del Sultano, con le coste all'Italia. Così l'Italia (ce
lo lia ripetuto dieci volte) si assicurerebbe tutti i vantaggi
politici che vuol trarre dalla sua intrapresa, e le cose si
accomoderebbero nel miglior modo e col minor tempo. Tutti i nostri
sforzi per persuadere Said pascià che nessun accordo esisteva o
poteva esistere fra i due governi; per fargli precisare i suoi
concetti; per fargli comprendere il punto di vista italiano; per
indurlo ad una discussione pratica e concreta: — tutti questi
nostri tentativi sono riusciti finora, in massima, vani.
Quell'uomo non aveva nel suo bagaglio che una preoccupazione ed
una parola: l'autonomia. Era tutto ciò che gli era rimasto del
discorso del deputato Carasso. Ad ogni nostra perorazione egli
tirava fuori, con una monotonia desolante «l'autonomia». Ai nostri
discorsi più stringenti, quando non sapeva che cosa rispondere,
aveva sempre una frase risolutiva: — Ma che diventa l'autonomia
con queste vostre proposte?
«D'altro canto, se a noi non riusciva di ben comprendere che cosa
voleva Said, egli confidenzialmente dichiarava a Nogara che non
riusciva a capire che cosa volevamo noi.... Non che egli sia uno
stupido; lo giudico anzi uomo di criterio, e che, a buon conto, in
tre giorni di conversazioni è riuscito a dire sempre la stessa
cosa senza menomamente compromettersi. Ma appunto, egli ha messi
tutti e due i piedi sopra un soldo, il soldo dell'autonomia, e non
si muove di lì; e noi consideravamo con preoccupazione che la cosa
poteva così prolungarsi sine die. Fu allora che pensammo di far
telegrafare da Nogara a Carasso per sollecitare vere e precise
istruzioni. Anche questa situazione, per la quale noi, senza che
Said lo sappia, siamo in relazione diretta col Comitato da cui in
sostanza lo stesso Said riceve le sue istruzioni, e gliele
sollecitiamo, non è priva di comicità e non può accadere che coi
turchi. D'altra parte abbiamo imaginato, contemporaneamente,
quella specie di trucco, dirò così, del processo verbale con
l'impegno di trasmetterlo ai rispettivi governi; il che ci
assicura almeno che il nostro punto di vista sarà trasmesso
esattamente a Costantinopoli e provocherà — è da credere — le
desiderate e più precise istruzioni....
«Ecco infine le mie impressioni sintetiche: 1.° I turchi
desiderano veramente la pace, e Said su ciò ne interpreta
fedelmente il pensiero; 2.° Ciò che veramente e sinceramente
arresta i turchi sulle vie della concessione è: a) l'impressione
che l'abbandono degli arabi farebbe nel mondo musulmano; — b) la
difficoltà e forse la impossibilità di fare ingoiare al Parlamento
una pillola troppo grossa; 3.° Con Said sarà difficile, non
ostante tutto, divenire a qualche conclusione pratica. E perciò
per lo stesso tramite Nogara-Carasso, abbiamo suggerito di
rinforzare Said con qualche personaggio più agile; 4.° Malgrado
tutto, questo concetto dell'autonomia può implicare un gran passo
da parte dei turchi. In sostanza è la rinunzia della sovranità
turca; non è ancora il riconoscimento della sovranità nostra, ma è
l'abbandono della loro; ed è anzi il riconoscimento della nostra
dove effettivamente esiste, e cioè sulla costa. Le difficolta a
cui ho accennato, in cui si trovano i turchi, sono vere e sono
superiori alla stessa buona volontà del governo turco. Vediamo se
da parte nostra è possibile di fare qualche cosa per aiutare quel
governo a superarle. Senza qualche cosa di questo genere, non
credo possibile di venirne a capo».
Questa lettera del Fusinato rispecchia perfettamente l'inizio
delle conversazioni diplomatiche di Losanna, ed indica quale fosse
il punto di vista nostro e quello ottomano. Il processo verbale a
cui il Fusinato si riferisce, e che fu il primo documento
diplomatico relativo a quelle trattative, era inteso a stabilire i
rispettivi punti di vista delle due parti. Per parte nostra esso
constatava che l'Italia non domandava il riconoscimento della
sovranità nostra da parte della Turchia; ma che essa non
accetterebbe qualunque formula che la disconoscesse; per parte
della Turchia esso constatava essere impossibile il distacco
assoluto delle due provincie africane dell'Impero, i suoi doveri
di fronte al mondo musulmano impedendole di abbandonare le
popolazioni arabe che avevano per lei combattuto.
Passando alla possibile soluzione, da parte della Turchia si
avanzava il progetto di autonomia sotto l'alta sovranità del
Sultano, riconoscendo però l'occupazione italiana della costa,
così che l'Italia secondo i turchi avrebbe conseguiti gli scopi
della sua impresa. La risposta nostra era che tale soluzione si
accorderebbe col punto di vista italiano solo nel modo seguente: —
Che la Turchia concedesse l'autonomia alle due Provincie con atto
interno emanante dalla sua sovranità; mentre l'Italia, pure con
atto interno, avrebbe determinati nel modo più largo i principi
amministrativi da applicarsi a quei territori. Quindi i due
governi avrebbero proclamata la fine delle ostilità, sia
d'accordo, sia per atti unilaterali contemporanei; ed avrebbero
poco appresso concluso l'accordo pel ristabilimento dei rapporti
politici, giuridici ed economici.
Passando i giorni senza che da Costantinopoli, ove il Governo era
entrato in crisi, venisse nessuna istruzione, e Said pascià non
facendo il menomo passo personalmente per avvicinarsi alle vedute
italiame, i nostri delegati, in corrispondenza alle dichiarazioni
con cui il Fusinato concludeva la lettera sopra riportata, mi
trasmisero alcune loro idee di possibili concessioni per
facilitare alla Turchia la soluzione. Il Bertolini mi esponeva una
sua idea di una soluzione che si prestasse ad una duplice
interpretazione, e che consisteva nel fare un accordo della durata
di trent'anni per l'interno con concessioni minori, quali
l'ammissione di un rappresentante religioso del Sultano in Libia,
pagato coi proventi dei vacufs, o beni religiosi e
l'attribuzione di un quinto dei prodotti doganali pel servizio del
debito ottomano e così via.
Un'altra proposta affaciatami dai nostri delegati, era di lasciare
indecisa la situazione del Fezzan, impegnandoci noi a non
occuparlo per lungo tempo, per dare modo agli arabi che
intendessero di rimanere fedeli al Sultano, di trovarvi un
rifugio. Anche il San Giuliano non era contrario a questa
soluzione, per la quale, a suo parere, il Fezzan si sarebbe
assimilato a quei dietroterra coloniali il cui stato politico
rimane per lungo tempo indefinito, come accadeva anche per noi
nella Somalia. Per il rappresentante religioso e per il concorso
al servizio del debito ottomano, che ci era imposto anche da
considerazioni di carattere internazionale, io diedi il mio
assenso; ma non accolsi le altre proposte.
Al Bertolini osservai che la proposta sua di un accordo
trentennale per l'interno non solo offenderebbe il principio della
sovranità, ma potrebbe riuscire pericoloso nel futuro, e dare
luogo a complicazioni se la Turchia cedesse ad altri i suoi
diritti; e riguardo all'altra proposta del Fezzan dichiarai che io
avevo grandissima ripugnanza ad ammettere che a quel distretto si
facesse un trattamento non perfettamente conforme esso pure al
Decreto di sovranità, ciò che farebbe pessima impressione in paese
e procurerebbe probabili difficoltà internazionali. Io rimanevo
fermo nel concetto che, essendoci assunta la responsabilità
dell'impresa di Libia era nostro dovere di affrontare tutte le
difficolta, senza evitarne alcuna, per non lasciare una eredità di
possibili guai ai successori. E siccome in tali condizioni non si
faceva un passo innanzi, la Turchia non avendo altro da chiedere e
noi altro da offrire, pensai che fosse il caso di mutare tattica,
e di creare noi stessi alla Turchia difficoltà che poi potessimo
rimuovere.
Così scrissi ai nostri delegati che a mio parere non conveniva
ormai più di parlare di ulteriori concessioni; ma che piuttosto
era il caso di porre sul tappeto tutti i punti nei quali potevamo
chiedere qualche cosa, per fare poi qualche concessione riguardo
ad essi. Indicai che si poteva chiedere che al nostro alleato
Idriss fosse fatto nell'Assiz un trattamento eguale a quello fatto
all'Iman Yaia nello Yemen; ed accennare pure alle isole, che
potevamo tenere per diritto di conquista, o restituire solo con
serie garanzie a favore degli abitanti. Un'altra domanda che io
suggerii di avanzare, fu di una indennità per gli italiani espulsi
durante la guerra. Seguendo tale metodo noi avremmo potuto tenere
viva la discussione, ed evitare che si troncassero trattative
dirette, nelle quali avevo grande fiducia, perchè sapevo essere
interesse della Turchia di evitare un intervento delle Potenze che
avrebbe potuto costarle caro; e ci saremmo pure procurato il modo
di fare, al momento decisivo, diverse concessioni secondarie per
guadagnare il punto principale. E così fu fatto.
In una nuova conversazione, tenuta il 19
luglio, i nostri delegati dichiararono a Said
Halem che, nell'attesa della risoluzione della crisi del suo
governo, e dell'arrivo di nuove e più precise istruzioni da
Costantinopoli, pareva loro opportuno di conversare sulle
questioni accessorie, che dovevano pure essere risolte, al momento
della pace, insieme a quelle maggiori. Said pascià si mostrò da
prima riluttante, sostenendo la tesi opposta, che cioè le
questioni accessorie non incontrerebbero difficoltà quando sulla
principale fosse raggiunta l'intesa. Finì però per consentire alla
nuova discussione, e fu posta sul tappeto la questione delle
isole, i nostri delegati spiegando le ragioni che ci avevano
mossi, per l'ostinazione della Turchia, ad occuparle, e
prospettando le diverse soluzioni a cui l'Italia potrebbe
addivenire: e cioè o assumerle definitivamente sotto la propria
sovranità, stabilirvi una forma di autonomia, o retrocederle
pretendendo tuttavia serie garanzie a favore degli abitanti.
Said pascià accolse con malumore quella esposizione, e dette una
risposta singolare: — Io posso intendere le ragioni storiche e
politiche che vi hanno spinto alla vostra impresa di Libia; ma
esse non si estendono alle isole dell'Egeo. Ad ogni modo, se
volete tenervi veramente quelle isole, tenetevele; ma non chiedete
a noi un consenso che non vi daremo mai. Se avete invece
intenzione di restituirle, è inutile parlarne adesso. Per me la
questione delle isole non esiste; voi le avete occupate
temporaneatnente a titolo di azione bellica; quando cessa la
guerra voi le lasciate ed esse tornano sotto la
sovranità nostra. Col creare la questione delle isole voi
aumentate le difficoltà e non date prova di buon volere. —
Anche di questa conversazione sulle isole fu redatto processo
verbale, e spedito a Costantinopoli ed a Roma; e l'irritazione
provocata in Said pascià da questa nuova questione, provò, nel
giudizio dei nostri delegati, che il fine di mettergli una pulce
nell'orecchio era stato raggiunto.
Qualche giorno dopo Said pascià comunicava ai nostri delegati che
essendosi formato un nuovo gabinetto a Costantinopoli senza Tevfik
pascià, col quale egli era assai affiatato, egli si considerava
decaduto dal suo mandato, essendo, col mutamento del gabinetto,
decaduto dalla carica di Presidente del Consiglio di Stato. I
nuovi ministri erano in maggioranza uomini del vecchio regime, non
compromessi nella guerra, di natura conciliante ed abituati ai
sacrifizi della Turchia. Hilmi pascià era un vecchio amico
dell'Italia, e Kiamil, che era stato mantenuto al corrente delle
conversazioni, era propenso alla pace e da tempo non si faceva
illusioni. Pareva poi particolarmente significante il mantenimento
di Noradoughian, armeno cristiano, al ministero degli affari
esteri; il sottosegretario tedesco degli esteri, lo Zimmermann,
disse in proposito al nostro ambasciatore, di pensare che Kiamil
avesse voluto agli esteri questo ministro cristiano per
addossargli la responsabilità della pace e farne il capro
espiatorio per le concessioni repugnanti alla pubblica opinione
ottomana.
Perdurando però il silenzio da Costantinopoli, Said pascià il
giorno 28 luglio prese congedo dalla delegazione italiana, ed
anche i delegati nostri decisero di partire lo stesso giorno,
pronti a ritornare appena la Turchia mostrasse intenzione, come
pareva già certo, di riprendere le conversazioni interrotte.
Sospese così le conversazioni di Losanna, ritenemmo opportuno che
il Comm. Nogara, che aveva già resi servizi importanti per
avviarle, ritornasse a Costantinopoli per rendersi conto, a, mezzo
delle sue numerose conoscenze, della situazione. Egli infatti,
arrivatovi il 30 luglio, ebbe subito una lunga conversazione col
ministro degli Affari Esteri, Noradoughian, il quale impegnossi a
sottoporre subito al Consiglio dei Ministri la nomina di nuovi
delegati. E infatti la sera dello stesso giorno gli comunicò che
il Consiglio aveva deciso di continuare le conversazioni e di
nominare i nuovi delegati, dando loro le istruzioni necessarie. Il
Ministro aggiungeva che il nuovo governo aveva forza ed autorità
sufficiente per imporre la pace ai musulmani recalcitranti; ma che
bisognava però calmarli, ed a tale scopo riteneva fosse d'uopo che
noi ci astenessimo da intraprendere nuove azioni di guerra.
Aggiunse pure che la Camera, dalla quale non si poteva aspettare
un consenso pel suo carattere nazionalista, sarebbe stata sciolta,
come infatti poi avvenne. Dichiarò che ai nuovi delegati avrebbe
dato le istruzioni più utili alla causa della pace; ma per fare
ciò gli occorreva di sapere dove il Governo italiano volesse
arrivare. Concluse che la pace non poteva essere fatta se non
considerando la questione dal punto di vista italiano per parte
della Turchia, e dal punto di vista turco per parte dell'Italia.
Volendo, nei limiti del possibile, facilitare l'opera del governo
turco per la pace, io ordinai di non fare altre operazioni per il
momento nell'Egeo, ma di intensificare la campagna nella Libia, ed
in Cirenaica particolarmente, per togliere ai Turchi l'illusione
che essi nutrivano ancora, in ragione della poca estensione delle
nostre occupazioni in quella provincia, che l'Italia alla
Cirenaica potesse alla fine rinunciare. Qualche giorno dopo
ricevevamo l'informazione che i due nuovi delegati nominati dal
governo turco, erano Nabi Bey, ex-ministro plenipotenziario a
Sofia, e Faredin Bey console generale a Budapest, e che era già
stato in servizio diplomatico a Roma. Dell'uno e dell'altro avemmo
ottime informazioni, come di persone di specchiata onestà, di buon
senso, ed animate da buon volere verso l'Italia; ed in seguito non
avemmo che a lodarci della loro condotta, sempre diritta e leale.
Faredin Bey era un grande estimatore dell'occidente, ma detestava
gli orientali europeizzati.
Una piccola complicazione, che poteva essere indice di cose più
gravi, si rivelò in una conversazione che il Nogara ebbe col nuovo
ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il Waggehheim, succeduto da
poche settimane al Marshall. Pure mostrando la maggiore cordialità
e dichiarandosi desideroso di mettersi a
nostra disposizione, il Waggenheim affacciava la convenienza che
le conversazioni fossero spostate dalla Svizzera a Costantinopoli,
dove, secondo lui, avrebbero avuto maggiore probabilità di
arrivare ad una rapida conclusione. Egli riconosceva poi che la
situazione dei turchi era ormai scossa in Tripolitania, ma che in
Cirenaica si manteneva eccellente, e che l'Italia avrebbe dovuto
contentarvisi di un regime simile a quello degli inglesi in
Egitto, insistendo assai sovra questo punto, che egli diceva
essere quello del Governo ottomano stesso.
Ora noi avevamo già saputo che il Marshall, lasciando
Costantinopoli, aveva promesso al Governo turco di fare il
possibile per salvare per esso la Cirenaica; era dunque evidente
che questo suo progetto egli l'aveva passato in eredità al suo
successore. La cosa era abbastanza grave, perchè questi discorsi
che il Waggenheim andava facendo, probabilmente non a noi soli,
avrebbero avuto l'effetto di creare illusioni nell'animo dei
Turchi ed incoraggiarli alla resistenza, con la credenza anche che
essi rappresentassero il punto di vista del Governo tedesco. Io
feci quindi telegrafare al Nogara perchè avvertisse il Waggenheim
che la piena sovranità sull'intera Libia era per l'Italia una
condizione assoluta, mancando la quale noi rifiuteremmo di
continuare le trattative; ed al Governo di Berlino, per richiamare
la sua attenzione sul linguaggio del suo ambasciatore, che ci
riusciva grandemente nocivo, e che lo mostrava animato da
sentimenti ostili verso di noi, e colsi l'occasione per
riaffermare ancora che l'applicazione integrale del decreto di
sovranità era per noi una necessità assoluta.
Ricevemmo poi da Berlino in proposito assicurazioni soddisfacenti,
e il Waggenheim fu avvertito di astenersi da dichiarazioni ed
opinioni contrarie agli interessi italiani. Ma non ostante questi
moniti, noi dovemmo anche in seguito constatare che
quell'ambasciatore persisteva
ad ostinarsi in quelle sue opinioni, sino al
punto di sostenerle e difenderle in conversazioni che aveva col
Comm. Nogara; ciò che ci costrinse a nuove proteste e richiami,
tanto più che noi lo sapevamo in continui rapporti col capo del
Governo turco. Il Sottosegretario degli Esteri tedesco, lo
Zimmermann ci informava infatti che il Gran Visir, in una sua
conversazione col Waggenheim, gli aveva detto che c'erano
solo due formule possibili di pace e cioè: o cessione
della Tripolitania all'Italia, conservando la Turchia la
Cirenaica; o cessione all'Italia dei punti da essa effettivamente
occupati, lasciando il resto del paese agli indigeni, salvo
all'Italia a regolare poi le cose con costoro.
Il Ministro degli Esteri, Noradoughiam, in nuove conversazioni col
Comm. Nogara, affacciava pure, a nome di Kiamil pascià, una
proposta di armistizio e l'invio di una delegazione in Libia per
persuadere gli arabi ad intendersi con l'Italia; mentre il
rappresentante del Comitato, il deputato Carasso, insisteva
sull'autonomia. Queste proposte vennero poi espresse dal Gran
Visir in una nuova conversazione col Waggenheim, e trasmesse a
Berlino; e lo Zimmermann, parlando al nostro ambasciatore,
mostrava di
ritenere degna di considerazione quella per cui
noi
avremmo tenuta la costa e lasciato il resto del paese
agli
indigeni, coi quali poi, a suo avviso, non ci
sarebbe stato
diffìcile venire ad una intesa.
A San
Giuliano che mi comunicava quella proposta, io risposi che
essa mi pareva pericolosissima, perchè
qualunque distinzione così
pattuita nella Libia, oltre essere contraria al Decreto di
sovranità, avrebbe
potuto involgerci in difficoltà gravissime con
la Francia e con l'Inghilterra, ed anche con gli arabi,
che
sarebbero posti perpetuamente in condizione di belligeranti e
potrebbero anche, secondo il diritto internazionale, invocare
l'aiuto di potenze straniere.
E poiché il San Giuliano, in una
lunga lettera, insisteva nel suo concetto che l'esistenza di un
retroterra
il cui stato politico non fosse per il momento
definito,
non creasse seri inconvenienti, io gli risposi
ancora
che a mio avviso, sul punto di vista della sovranità
la
nostra intransigenza doveva essere assoluta, e che
io non avrei
mai firmato la pace alle condizioni affacciate dal Gran Visir.
Merita rilevare che queste
idee del Governo turco, a cui
l'ambasciatore tedesco a Costantinopoli si mostrava ancora fedele
non
ostante i richiami del suo governo, mi venivano confermate da
un'altra fonte tedesca, e cioè da quell'Hellferich che poi ebbe
tanta parte nell'amministrazione della finanza tedesca durante la
guerra
mondiale.
Questi contatti e queste indiscrezioni avevano
ogni modo il vantaggio di farci prevedere approssimativamente con
quali istruzioni i nuovi delegati turchi sarebbero venuti al nuovo
convegno in Svizzera, che da Losanna era stato trasportato a Caux.
Il punto capitale di queste istruzioni era di non cedere sulla
questione della sovranità nominale del Sultano sui territori che
noi non avevamo ancora militarmente occupati. Per cui, quando i
delegati turchi arrivarono il 12 agosto al luogo del convegno, io
ritenni necessario, e detti istruzioni perchè la nostra azione
bellica in Libia fosse intensificata, specie in Cirenaica; ed
avvertii il Ministro della Guerra che nei suoi progetti tenesse
conto che di pace non si potrebbe veramente parlare prima di tre
mesi. Ai nostri delegati poi ripetei le istruzioni di astenersi
dal lasciare sperare concessioni, ed anzi di affacciare pretese, e
nuove difficoltà; ad esempio proponendo che la questione delle
isole fosse risolta mediante un plebiscito, fra gli abitanti.
La mattina del 13 agosto furono iniziate coi delegati Turchi le
nuove conversazioni, premettendosi che quelle di Losanna si
considerassero come non avvenute e sorpassate.
Poi Naby Bey dichiarò di essere incaricato dal suo governo di
presentarci successivamente cinque proposte scritte, che avrebbero
dovuto formare base delle discussioni. La prima e la seconda
presupponevano appunto una rinuncia nostra a parte del nuovo
possesso africano; e i nostri, delegati le scartarono subito,
perchè in aperta contraddizione con la nostra legge di sovranità.
La terza proposta tendeva a stabilire in Libia un regime simile a
quello della Francia in Tunisia; e i delegati turchi spiegavano
che con essa il Governo ottomano intendeva di lasciarci l'assoluto
ed effettivo dominio delle due provincie, ma che ci si domandava
solamente di consentire ad una formula che servisse a duper,
la parola era usata da Naby stesso, l'opinione pubblica turca e le
suscettibilità musulmane. Alla risposta dei nostri delegati, che
anche una tale soluzione si trovava in contrasto con la situazione
creata dal Decreto di sovranità e non poteva essere accettata, i
delegati turchi dimostrarono un rammarico che ai delegati nostri
parve sincero veramente; e Naby Bey e-Faredin Bey non rifuggirono
allora dal fare una lunga ed aperta esposizione dell'intrico di
difficoltà in cui il Governo turco, preso fra le pretese
dell'esercito, quelle del Comitato e quelle degli arabi, si
sarebbe già trovato per fare accettare una soluzione la quale,
lasciando la sostanza all'Italia, salvasse almeno le apparenze.
Quanto alle altre due proposte, i delegati Turchi si riservavano
di presentarle appena fossero state loro
trasmesse.
Esse arrivarono in fatti a Caux il 27 agosto; l'una proponeva di
concedere l'autonomia, cedendo in piena sovranità all'ltalia due
porti in punti da scegliere che non fossero attualmente abitati ;
e i fiduciari turchi tentavano di persuaderci che essa implicava
virtualmente l'abbandono della Libia all'amministrazione italiana;
l'altra proponeva l'autonomia per la Cirenaica e la cessione
assoluta della Tripolitahia all'Italia, la quale alla sua volta e
per compenso avrebbe ceduto alla Turchia Massaua e l'Eritrea.
Naturalmente esse pure furono immediatamente respinte.
Intanto, siccome da Costantinopoli si insisteva a mezzo dei
fiduciari turchi per conoscere la risposta nostra alle tre prime
formule proposte dei fiduciari ottomani, i nostri fiduciari li
autorizzarono a telegrafare al loro governo in termini precisi,
dettando la risposta essi stessi, «che le tre proposte fatte dal
Governo ottomano erano respinte dal Governo italiano perchè
incompatibili con la sovranità dell'Italia». E su richiesta dei
fiduciari Turchi, consentirono a consegnare loro, perchè fosse
trasmesso al loro governo, un riassunto dei postulati capitali
italiani per la pace, che costituirono il primo schizzo del
trattato di pace che fu poi dalla Turchia finalmente accettato. I
nostri fiduciari ripeterono poi solennemente ai fiduciari ottomani
che, piuttosto che rinunciare anche in minima parte alla legge che
aveva proclamata la sovranità, l'Italia avrebbe combattuto
indefinitivamente, portando la guerra anche in Arabia, nell'Asia
Minore e in Albania, e che le isole non sarebbero mai state
sgombrate fino a che le truppe e gli ufficiali turchi non fossero
stati ritirati dalla Libia.
Fino a questo punto i nostri fiduciari avevano condotte le
conversazioni sulla base della istruzioni ricevute, e che si
potevano riassumere: intransigenza assoluta sul punto capitale
della sovranità, e spirito di conciliazione pel resto, lasciando
però ai Turchi di avanzare le loro domande, e mettendone anzi
avanti essi pure, per stabilire dei punti su cui potessimo fare
concessioni. Altre istruzioni e indicazioni particolari io
trasmettevo a mano a mano che venivano presentate e discusse le
proposte turche, lasciando ai nostri negoziatori la necessaria
libertà di discussione, di cui però essi si valsero sempre con"
grande ponderazione e buoni risultati. Però, siccome qualche
lettera di Bertolini e di Fusinato lasciava travedere una certa
preoccupazione che le conversazioni stessero per arrivare ad un
punto morto, e dovessero essere abbandonate, cosa che io volevo ad
ogni modo evitare, persuaso come ero che prima o dopo, mantenendo
i contatti, si sarebbe arrivati in porto; credetti opportuno di
avere coi nostri delegati uno scambio di idee, per fissare
definitivamente il nostro programma.
Questo incontro ebbe luogo il 25 agosto all'Hotel Bologne a
Torino. Esaminato minutamente il corso delle conversazioni ed i
loro risultati, io proposi il seguente schema: che il Governo
turco proclamasse l'indipendenza delle popolazioni della Libia,
nominandovi un rappresentante religioso del Califa, con un suo
atto unilaterale; l'Italia alla sua volta, senza scriverlo nel
trattato, s'impegnava a fare agli arabi tutte le possibili
concessioni; mentre i turchi alla loro volta, pure senza scriverlo
nel Trattato, farebbero le concessioni necessarie alle popolazioni
delle isole Egee. Dopo ciò si sarebbe passati alla estensione del
Trattato di pace. Con questa formula
si sarebbero evitate al Governo turco molte e gravi
difficoltà, non essendo esso in tal modo obbligato a riconoscere,
neppure indirettamente, la nostra sovranità, e noi non avremmo
avuti vincoli intemazionali né di fronte agli arabi, né di fronte
agli abitanti delle isole Egee.
Questo progetto fu esposto in una nuova conversazione che i
fiduciari nostri ebbero con quelli turchi il 27 agosto, al ritorno
a Caux. Costoro non mostrarono di apprezzare troppo la nomina del
rappresentante religioso; osservando che la nomina di un Muftì e
di altre autorità religiose era una conseguenza necessaria del
culto musulmano, e che implicava la rappresentanza del Califa
anche in territori stranieri, quali l'India, la Bulgaria, la
Russia e dovunque sono dei musulmani. Quindi una tale concessione,
superflua affatto, non rispondeva alle esigenze del Governo turco
per fare accettare dal paese il trattato di pace. Essi proponevano
invece di nominare un Bey, che non sarebbe stato — e lo dicevano
espressamente — che un uomo di paglia, del quale, se ci fosse
riuscito incomodo, avremmo potuto sbarazzarci un anno o due dopo:
la Turchia avrebbe protestato presso noi o presso le Potenze, e
tutto sarebbe finito. Essi osservarono pure che, non riconoscendo
la Turchia la sovranità italiana, non avrebbe potuto nominare un
agente consolare; perchè dunque, anche se non si voleva la nomina
di un Bey, non si permetterebbe al Governo turco di nominare un
rappresentante del Sultano con una formula vaga, la quale senza
indicare una investitura
di podestà politica, gli desse modo di lasciarla interpretare in
tale senso dalla opinione pubblica musulmana; mentre l'Italia,
nell'atto unilaterale suo si limiterebbe a considerarlo come
rappresentante puramente religioso ed amministrativo?
Il tal modo, sia pure lentamente, in queste conversazioni ci
andavamo avvicinando alla via di uscita. Ritengo superfluo entrare
nei particolari di tutte le nuove proposte che ci venivano
affacciate, ora a mezzo del Comm. Nogara; ora a mezzo di un ex
ambasciatore francese, il signor Revoil, che aveva in Turchia una
posizione importante nel mondo degli affari, e il quale ebbe in
proposito uno scambio di idee a Carlsbad col Marchese Garroni; ora
a mezzo dell'ambasciatore .turco a Parigi, in conversazioni con
l'ambasciatore nostro, Tittoni. Di queste proposte ve n'era di
tutti i generi: — ci si chiese che cosa penseremmo se la Turchia
richiedesse i buoni uffici dell'Inghilterra; ci si informò che un
importante personaggio aveva proposto l'arbitrato del Presidente
degli Stati Uniti, assicurando che il Presidente era disposto ad
offrirlo; ed in verità una proposta di mediazione americana era
pervenuta a me pure, ma non aveva avuto seguito dopo la mia
dichiarazione che il nostro proposito di mantenere la sovranità
proclamata era irremovibile. Si propose di mandare un membro del
Governo turco a trattare direttamente meco a Roma; ci si chiese
ancora se l'Italia sarebbe stata disposta a cedere alla Turchia,
come indennità per la perdita della Libia, due
delle migliori navi della sua flotta; proposta quest'ultima di
cui si comprende l'importanza, quando si consideri che c'erano già
nell'aria i primi indizi della guerra balcanica, e che con quella
nostra cessione la Turchia avrebbe guadagnato di colpo la
supremazia sulla flotta greca. Si prospettò di venire ad un modus
vivendi, rimandando ad una conferenza europea la soluzione
definitiva, la Turchia impegnandosi a non fare opposizione al
riconoscimento della nostra sovranità, in, cambio del nostro
appoggio su altri problemi economici e politici.
L'ultima fra queste proposte che ci venivano a mano a mano
presentate dai delegati Turchi, o accennate da qualche membro di
quel governo al commendator Nogara, arrivava all'assurdo di
mantenere in Libia, con gli organi appositi, la sovranità del
Sultano, senza per questo obbiettare alla sovranità dell'Italia,
di modo che quel paese sarebbe stato sottoposto ad una duplice
sovranità, ognuna delle quali avrebbe finto di ignorare l'altra! A
queste proposte, alcune ingenue o fantastiche, altre abili ed
insidiose, io risposi sempre negativamente, e dando a volta a
volta ragione del mio diniego, ed insistendo per la soluzione
unica, e che essa dovesse essere combinata fra i fiduciari nostri
e i fiduciari turchi a Caux. A questo incrociarsi di progetti e di
proposte io non davo alcuna importanza; è però interessante
rilevare come essi indicassero che per la Turchia non si trattava
ormai di una questione di sostanza, ma di forma; e come per essa
fossero in gioco, non già la Cirenaica e la Tripolitania,
irremediabilmente perdute fino dal principio, ma il prestigio
politico interno di fronte al mondo musulmano, ed all'elemento
arabo in particolare.
A questi interessi politici generali altri se ne intrecciavano,
speciali e partigiani; del governo, del Comitato «Unione e
Progresso», dell'esercito, cercando ognuno di scaricare sulle
spalle degli altri la responsabilità della situazione e delle sue
conseguenze. Il governo allora al potere, costituito di elementi
del vecchio regime, si preoccupava di affrettare la soluzione, per
fare comprendere di avere dovuto agire su una situazione da esso
trovata, e fare ricadere sul governo dei Giovani Turchi, che
l'aveva preceduto, la responsabilità della perdita delle provincie
africane; mentre la tattica del Comitato era di fare ricadere
questa responsabilità sul governo attuale, astenendosi dal
concedergli un qualunque appoggio, sino a che la questione della
Libia non fosse tolta di mezzo.
Altri invece, nell'aspettativa dello scoppio della guerra
balcanica, di cui si avevano già molteplici indizi premonitori, e
nella convinzione che quella guerra sarebbe stata vinta facilmente
dalla Turchia, ritenevano inutile fare la pace con l'Italia, e più
conveniente di rimandare la questione della Libia, insieme alle
altre questioni, davanti alla Conferenza europea che avrebbe
dovuto regolare le conseguenze e i risultati della guerra. Si
aggiungano gli intrighi finanziari che non mancano mai in codeste
occasioni; e i colpi di testa di qualche
diplomatico, come quello che, secondo ci informò lo
stesso Presidente del Senato turco, consigliava alla Turchia di
tirare le cose in lungo perchè l'indebolimento dell'Italia era
utile alla situazione politica generale; e si avrà un, quadro
della rete di complicazioni nella quale doveva svolgersi l'azione
nostra; complicazioni che mi confermavano sempre più nel mio
concetto di seguire una linea diritta e precisa.
Uno dei personaggi turchi, che si rendeva meglio conto delle
necessità di porre fine ad una situazione insostenibile, e che si
faceva di più in più pericolosa, era il ministro degli esteri,
cristiano, Noradoughian Bey, uomo abile ed intelligente; ma egli
pure temeva di addossarsi responsabilità che lo esponessero poi a
rappresaglie. Ad ogni modo egli sostenne la opportunità di
accettare le proposte nostre come base dei negoziati; e nello
stesso tempo furono, se non eliminate, assai ridotte le difficoltà
interne mediante un compromesso firmato fra il partito dell'Intesa
liberale, che faceva capo a Kiamil, e il Comitato «Unione e
Progresso»; compromesso col quale si riconosceva che la pace era
un interesse nazionale, e le due parti s'impegnavano a non fare
delle condizioni di pace una piattaforma elettorale o di
opposizione al governo. Si ventilava pure l'idea di mandare,
traverso la Tunisia, missioni pacificatrici in Tripolitania. Ma
altre difficoltà sorsero, in Libia e fra gli arabi.
Il comandante militare in Tripolitania, informato delle
trattative, telegrafò a Costantinopoli che malgrado la conclusione
della pace, egli avrebbe continuata la guerra per suo conto;
mentre il Comitato arabo di Costantinopoli minacciava di
considerare la cessione della Libia come ragione sufficiente per
proclamare la decadenza del Califfatto.
Sorsero così nuove incertezze e titubanze, e noi fummo informati
che il Consiglio dei Ministri turco aveva deciso di incaricare
Reschid pascià, che era già stato ambasciatore a Roma, ed
attualmente teneva il posto di Ministro d'Agricoltura, Industria e
Commercio, di venire a conferire meco; e che la sua missione
doveva essere assolutamente segreta. Secondo i nostri informatori,
Reschid pascià doveva chiedere all'Italia importanti impegni
politici, in vista della crisi balcanica che andava maturando, in
compenso della conclusione della pace secondo le nostre
condizioni. La missione di Reschid poteva essere anche un semplice
espediente dilatorio, o celare la speranza di ottenere qualche
ulteriore concessione. Per ogni buon fine io feci sapere al
governo turco che ero disposto a riceverlo, qui a Roma; ma che per
lealtà dovevo dichiarare che la sua venuta sarebbe stata
assolutamente inutile, se diretta ad ottenere modificazioni della
nostra legge di sovranità; non solo il governo, ma anche il
Parlamento e il popolo italiano essendo irremovibili nel proposito
di mantenerla integra a qualunque costo.
Non ostante questo monito preventivo, la partenza di Reschid da
Costantinopoli ebbe luogo egualmente. Egli
si fermò a Vienna,
dove doveva attendere le ultime
istruzioni, e di là fece sapere che invece che a Roma preferiva
d'incontrarsi meco in una città contigua alla frontiera, da dove
avrebbe proseguito per Losanna, per unirsi agli altri due
fiduciari turchi, A questa richiesta io risposi che il Presidente
del Consiglio italiano non avrebbe mai fatto un viaggio per andare
incontro al Ministro d'Agricoltura della Turchia; ciò che del
resto sarebbe stato futile anche per lo scopo di mantenere il
segreto, io essendo troppo conosciuto in Italia dovunque. Ad ogni
modo, siccome dovevo recarmi e rimanere per una settimana a
Cavour, non avrei avuto difficoltà a che l'incontro avesse luogo
invece che a Roma, a Torino.
Se non che, arrivato il 29 settembre Reschid a Ouchy, vicino a
Losanna, dove i fiduciari nostri e turchi si erano spostati da
qualche giorno, dichiarò di non essere disposto di recarsi a
Torino o in qualsiasi città italiana, perchè il suo Consiglio dei
Ministri lo aveva autorizzato ad incontrarsi col Presidente del
Consiglio italiano solamente fuori della nostra frontiera. Questa
sua dichiarazione era in contrasto con le comunicazioni fatte in
proposito dai fiduciari turchi ai fiduciari nostri, secondo le
istruzioni che quelli avevano ricevuto dal loro Ministro degli
Esteri. Ma Reschid replicò che le istruzioni del Ministro degli
Esteri erano per lui insufficienti, se non fossero accompagnate da
esplicita deliberazione del Consiglio dei Ministri, e promise che
l'avrebbe per parte sua provocata. Io ebbi subito l'impressione
che il contegno di Reschid dimostrasse il proposito del Governo
turco di guadagnare semplicemente tempo; impressione che fu
apertamente comunicata dai nostri negoziatori nelle conversazioni
avute con lui. Le risposte sue, vaghe e generiche, confermarono
nei nostri negoziatori codesto sospetto, anzi lo posero fuori
dubbio; la cosa essendo d'altronde in piena corrispondenza con la
situazione.
La Turchia era sotto la minaccia, o della guerra balcanica, che
poi scoppiò effettivamente, o di una Conferenza europea; ed era
ovvio che, aspettando di vedere quale corso gli avvenimenti
prenderebbero, fosse suo interesse di tenere a bada l'Italia.
Essendo Reschid una vecchia conoscenza di Fusinato, che aveva
avuti rapporti abbastanza famigliari con lui quando era
ambasciatore a Roma, il Fusinato cercò di cavarne fuori qualche
cosa di più in un abboccamento strettamente privato; ma finì per
persuadersi che Reschid non aveva altra missione se non di
implorarmi a nome dei supremi interessi dell'Impero ottomano,
perchè noi prestassimo alla Turchia una nostra collaborazione
diplomatica nei Balcani. Si voleva cercare insomma, profittando
della situazione speciale in cui l'Italia si trovava per la
guerra, di attirarla ad impegni che avrebbero potuto trovarsi in
contrasto con l'azione generale della diplomazia europea, ciò che,
oltre a non corrispondere ai nostri impegni diplomatici
precedenti, ci avrebbe messo in una situazione pericolosissima.
Per tanto, il 1 settembre, telegrafai ai nostri fiduciari per
avvertirli che sarebbe stato bene fare intendere subito e
chiaramente ai fiduciari turchi, che se scoppiasse un conflitto
nei Balcani, io avrei rotto immediatamente ogni trattativa, perchè
ad ogni buon fine converrebbe all'Italia che la sistemazione
balcanica avvenisse mentre eravamo ancora nel pieno possesso delle
isole Egee; e che d'altronde non era consentaneo con la nostra
dignità il prolungare negoziati con un governo che dimostrava di
non avere altro scopo che di farci perdere tempo.
Incaricai nello stesso tempo San Giuliano d'informare le Potenze
dello stato delle cose, e di fare loro sapere che, avendo ormai
acquistata la certezza che il Governo turco non si proponeva altro
che di tergiversare, noi eravamo decisi a rompere le trattative e
riprendere con maggiore energia la guerra, e non più nella sola
Libia, ma contro le parti più vitali dell'Impero ottomano. Monito
questo alle Potenze che era tanto più giustificato, in quanto che,
quantunque avvertite da noi del corso dei negoziati, e richieste
di aiutarlo con qualche consiglio dato alla Porta, nell'interesse
generale della pace europea, esse, con una ragione o un'altra, se
ne erano fino allora astenute.
Ultimatum di otto giorni alla Turchia — Il governo turco
dichiara di accettare lo schema da noi proposto — Nuovi
espedienti turchi — Invio della flotta italiana nell'Egeo —
Ordine di attaccare Smirne e Dedeagatch — La pace alfine firmata
— Critiche diverse mosse contro la guerra e la sua condotta
diplomatica e militare — I pacifisti ad ogni costo, gli
umanitari ed i nazionalisti — Una critica postuma: la guerra di
Libia spinse alla guerra europea?
Il contegno e la condotta di Reschid pascià, insieme al fatto che
da Costantinopoli non si rispondeva
nemmeno più alle osservazioni
ed alle richieste di
istruzioni da parte degli stessi fiduciari
turchi, mi
persuasero della necessità di far sentire al
Governo
ottomano una più energica pressione. Degli imbarazzi e
delle reali difficoltà in cui quel governo si trovava, fra la
questione della nostra pace e la già
imminente minaccia della
guerra balcanica, io mi
rendevo conto; ma era pure evidente che i
vari poteri
e uomini del regime cercavano di evadere tutti
insieme, ed anche ognuno per conto proprio, qualunque
responsabilità a spese nostre, non rifuggendo
di ricorrere agli
espedienti della più flagrante malafede. Era dunque ormai
necessario di fare loro sentire che la nostra pazienza e
longanimità aveva un
limite, e che noi non eravamo affatto
disposti a prestarci indefinitamente al loro gioco.
Nel corso delle conversazioni passate fra i nostri fiduciari e i
due fiduciari turchi, che personalmente si comportarono sempre con
lealtà, rendendosi pienamente conto della situazione e
collaborando del loro meglio per trovare una soluzione, un punto
di accordo era stato raggiunto nella prima metà di settembre. Il 6
di quel mese, e dopo già venticinque giorni di discussione, la
delegazione ottomana aveva comunicato alla nostra una nuova
proposta del suo governò; e il giorno 10 la nostra delegazione
aveva risposto, dopo essersi affiatata meco, che il Governo
italiano era disposto a discutere sulla base di quella proposta,
condizionando il suo consenso con la modificazione di alcuni punti
incompatibili coi nostri postulati. In tal modo era stato
compilato uno schema di accordo segreto, la cui firma avrebbe
dovuto precedere quella del trattato di pace pubblico, e di cui
era stata inviata copia al Governo ottomano. Da quel giorno erano
passate tre settimane senza che gli stessi fiduciari turchi
riuscissero ad ottenere risposta in proposito dal loro governo. Io
pensai che questo stato di fatto potesse servire di base ad una
ulteriore nostra azione, e mi accordai coi nostri delegati perchè
fosse fatta una dichiarazione ai fiduciari turchi, all'effetto che
se quell'accordo segreto non fosse firmato entro otto giorni, cioè
entro il 10 ottobre, i negoziati sarebbero stati sospesi,
riserbandoci noi piena libertà d'azione.
Suggerii che tale dichiarazione fosse fatta a mezzo di una breve
nota, la quale mettesse in evidenza la longanimità nostra e le
tergiversazioni a cui la Turchia era ricorsa dopo la venuta di
Reschid. Nello stesso tempo, da Cavour dove mi trovavo ancora,
telegrafai a San Giuliano perchè, mettendo in rilievo che le
dilazioni e tergiversazioni turche erano aumentate dopo la venuta
di Reschid, facesse conoscere alle Potenze la probabilità che i
negoziati fossero interrotti per colpa della Turchia, ed il
conseguente nostro proposito di riprendere con maggiore energia, e
senza più riguardo pel nemico, la nostra azione militare. Questa
azione avrebbe dovuto svolgersi nell'Egeo, ed io mi riservavo di
studiarne e concretarne i particolari al mio ritorno a Roma fra
due giorni, tenendo conto delle necessità e degli accordi
internazionali allora in discussione, perchè volevo evitare che
noi apparissimo in qualunque modo provocatori di una guerra
europea.
La comunicazione di questa nota fece molta impressione sui
delegati turchi, i quali telegrafarono subito e lungamente a
Costantinopoli. Reschid confessò anche che egli era stato bensì
invitato dal suo Ministro degli Esteri a recarsi a Torino, ma non
aveva avuto formale mandato dal governo; aggiunse che il Ministro
degli Esteri era decisamente favorevole alla pace, secondato in
ciò dal Gran Visir e da Kiamil pascià, ma ostinatamente
contrastato dallo Sceicco dell'Islam in nome dell'elemento
religioso. I delegati turchi vollero pure riprendere la
discussione dello schema d'accordo
segreto, sollevando nuove obbiezioni e chiedendo altre
concessioni; ma io avvertii i nostri che era bene di fare
comprendere ai turchi che le concessioni nostre erano giunte ormai
all'ultimo limite, e che non saremmo andati oltre a qualunque
costo; e che ormai la Turchia doveva rispondere con un semplice sì
o no; di osservare loro che se gli avvenimenti portassero ad una
Conferenza europea, a noi sarebbe stato molto utile il possesso
delle isole; e che se fosse scoppiata la guerra fra la Turchia ed
i paesi balcanici, noi, essendo già in stato di guerra, ci saremmo
trovati liberi di spingerla alle ultime conseguenze. E feci
avvertire anche che sino da allora la nostra marina aveva ordini
di impedire qualunque trasporto di truppe turche per mare,
sequestrando le navi che a tali trasporti fossero adibite.
Questa mossa energica ebbe l'effetto che mi ero proposto. Da
Costantinopoli, a mezzo dei nostri agenti, fummo avvertiti che un
corriere di gabinetto era partito immediatamente portando ai
delegati turchi nuove istruzioni, e che nello stesso tempo i
fiduciari turchi di Ouchy avevano chiesto telegraficamente i pieni
poteri. Apprendemmo pure che il Governo tedesco in seguito al
nostro avvertimento, aveva dato al suo ambasciatore istruzioni di
consigliare il governo turco di desistere da ulteriori
tergiversazioni; e che l'ambasciatore francese a Costantinopoli
informava il suo governo che la Porta aveva autorizzato Reschid a
cedere sulla questione della sovranità. E il giorno 4 i fiduciari
turchi comunicavano ai nostri che lo schema di accordo segreto era
stato approvato dal Consiglio dei Ministri turco senza sostanziali
modificazioni.
Lo schema dell'accordo segreto era presso a poco nei termini
seguenti. Anzitutto il Sultano, con un atto spontaneo e
unilaterale, doveva pubblicare un firmano che accordava la piena
autonomia alla Libia, nominando un suo rappresentante, già scelto
nella persona di Chemseddin Bey, uomo mite e pio, di cui avemmo
buone informazioni. All'atto del Sultano doveva seguire un atto,
pure unilaterale, dell'Italia la quale, in base alla sua legge di
sovranità accordava amnistia agli arabi combattenti, e riconosceva
agli effetti religiosi il rappresentante del Sultano, accordando
anche piena libertà religiosa. Il terzo atto consisteva in un iradè
col quale il Sultano accordava amnistia e riforme radicali alle
isole dell'Egeo da noi occupate.
Seguiva infine un atto comune che ristabiliva la pace e lo statu
quo ante bellum fra l'Italia e la Turchia. Lo sgombero delle
truppe turche dalla Libia doveva precedere il nostro ritiro dalle
isole dell'Egeo. Non volendo abbandonare Idriss, che aveva
combattuto al nostro fianco, io chiedevo che gli fosse concessa
ampia amnistia ed una posizione nei suoi territori eguale a quella
goduta dall'Iman Yaja nello Yemen; e la Turchia chiedeva alla sua
volta che noi pagassimo al debito ottomano la somma che questo
traeva annualmente dalla Libia.
Non ostante però le informazioni e le assicurazioni che avevamo
ricevuto da varie parti, presto apparve
che le tergiversazioni turche non erano ancora finite. Il giorno
8 venivamo informati da Costantinopoli che, essendo riunito il
Consiglio dei Ministri per deliberare sulla pace con l'Italia,
intorno alla Sublime Porta si era raccolta una clamorosa
dimostrazione la quale reclamava la continuazione della guerra ed
il ritiro del Gabinetto pacifista. Si temevano pronunciamenti
militari ed era stato dichiarato lo stato d'assedio. Il Ministro
degli Esteri aveva ricevuto minaccie di morte ed era assai
impaurito ed abbattuto. E il comm. Nogara il giorno 10 ci
telegrafava confermando che il governo era sinceramente deciso a
concludere subito la pace; ma che per ragioni costituzionali e per
difficoltà insormontabili interne era costretto ad invertire la
procedura già approvata nell'accordo segreto.
Che cosa fosse questa inversione così preannunciata da
Costantinopoli, l'apprendemmo in riassunto il giorno 11, dopo
l'espirazione del nostro ultimatum, e in tutti i suoi particolari
il giorno dopo, a mezzo di una lunghissima comunicazione che i
delegati turchi ricevettero dal loro governo. Lo schema
dell'accordo segreto vi era interamente sconvolto. Mentre si
doveva, secondo quest'ultima proposta turca, firmare un trattato
di pace che fosse immediatamente effettivo, l'emanazione del
firmano col quale il Sultano doveva accordare la piena autonomia
alla Libia, come pure il ritiro delle truppe turche, venivano
rimandate a dopo che il trattato di pace fosse stato approvato dal
Parlamento ottomano. Si domandava inoltre che l'Italia rinunciasse
ai diritti di tutela degli abitanti della Libia quando questi si
trovassero in territorio ottomano ; cosa questa che ci avrebbe
fatto perdere ogni prestigio presso gli arabi; ed infine si
pretendeva che noi rinunciassimo all'articolo dell'accordo che
imponeva al Governo ottomano di impedire che dal suo territorio
fossero spedite armi agli arabi i quali persistessero a combattere
contro di noi.
Io telegrafai immediatamente ai nostri delegali di respingere
senza la menoma discussione tali proposte, tutte assolutamente
inaccettabili; facendo osservare fra l'altro che la mancata
pubblicazione del firmano accordante l'autonomia agli arabi
avrebbe reso impossibile alle potenze di riconoscere la nostra
sovranità; e che un trattato di pace concluso su quelle basi si
ridurrebbe sostanzialmente a questo: che noi daremmo denari alla
Turchia permettendole anche di usare liberamente della sua flotta
e di spostare le sue truppe per mare, ricevendo in compenso la
semplice promessa del ritiro dalla Libia delle sue truppe le
quali, istigate sottomano, potrebbero anche rifiutare di obbedire.
Nello stesso tempo, avvertendone il Re, facevo mandare ordine alla
squadra dell'Ammiraglio Amero d'Aste di tenersi pronto per una
energica azione, ed alla squadra dell'Ammiraglio Viale, che era a
Taranto, di preparasi a partire per le acque ottomane.
Avvisammo pure le Potenze che la nuova tergiversazione dei turchi
rendeva ormai inevitabile l'azione militare da cui ci eravamo
astenuti oltre il limite fissato dal nostro ultimatum, e per la
quale, dopo lo scoppio, avvenuto in quei giorni, della guerra
balcanica, non c'era più ragione di alcuna limitazione. La nostra
intenzione, nel caso la guerra fosse ripresa, era di attaccare le
fortificazioni di Smirne, e di tagliare, nella Turchia europea, il
nodo ferroviario di Dedeagatch , il che avrebbe creato imbarazzi
gravissimi alla Turchia nella sua mobilitazione per fronteggiare
l'attacco della Bulgaria e della Grecia, in quanto sarebbero state
rotte tutte le comunicazioni fra Costantinopoli
e Salonicco.
I nostri delegati ad Ouchy, che sino dal primo momento, ricevendo
la nuova comunicazione dei delegati ottomani, avevano protestato
dichiarando inaccettabili le nuove proposte, essendosi fatta la
convinzione che all'ultimo la Turchia avrebbe ceduto, mi chiesero
la facoltà di dare un altro brevissimo termine alla Turchia per la
firma del trattato. Io consentii di concedere un ultimo termine
sino alla mezzanotte del 15, senza impegnarmi però a sospendere
una eventuale azione della nostra flotta. Questa volta i dispacci
dei suoi fiduciari al Governo turco ebbero finalmente l'effetto di
persuaderlo che l'ultimo limite delle tergiversazioni era
raggiunto. Un Consiglio dei Ministri, convocato la mattina del 14,
riesaminò, sotto l'impressione del nostro nuovo ultimatum, la
questione costituzionale che era stata sollevata a pretesto delle
antecedenti tergiversazioni, e fu scoperta che un articolo della
costituzione turca dava facoltà al governo, in caso di pericolo
nazionale, di fare la pace per decreto-legge, senza
aspettare l'approvazione del Parlamento. Ed alla sera dello stesso
giorno i delegati turchi annunciarono ai nostri di avere ricevuto
dal loro governo istruzioni di firmare il testo nostro
dell'accordo preliminare, avanzando però ancora a quell'ultimo
momento, qualche richiesta di modificazioni, alcune ragionevoli,
altre insidiose.
Si proponeva di togliere dal firmano il preambolo col quale il
Sultano riconosceva di non potere più difendere la Libia; ed io
risposi che consentivo a modificare le frasi che potessero parere
offensive al decoro militare turco, conservando però la sostanza,
e sopra tutto l'esortazione agli arabi di fare la pace; in caso
diverso avrei abolito anche l'annunzio della nomina del
rappresentante del Sultano. Si domandava che nel nostro decreto di
amnistia agli arabi fosse cancellato il riferimento alla nostra
legge di sovranità del 5 febbraio; e l'insidia di tale proposta,
la cui accettazione sarebbe stata per noi vergognosa, non ha
bisogno di spiegazione. Si obbiettava a che fosse introdotta nel
trattato la questione di Idriss, apparendo umiliante che il
Governo turco dovesse prendere impegni con un'altra Potenza pel
trattamento di un ribelle; ed io consentii a che la questione di
Idriss fosse risolta con un atto spontaneo di amnistia da parte
del Sultano. Si chiedeva ancora che l'annualità del debito
ottomano da trarsi dai redditi della Libia fosse capitalizzata in
una somma pagabile immediatamente, ed a questo anche consentii,
preferendo anzi io stesso di liquidare senz'altro
questa pendenza, perchè non ci
fosse poi l'apparenza che noi pagassimo annualmente un
tributo.
Poi si avanzava una domanda di carattere politico assai
importante, e cioè che noi c'impegnassimo a sostenere la Turchia
nella sua politica balcanica; domanda che in quella forma, e di
fronte alla situazione che ormai precipitava, era inaccettabile,
perchè ci avrebbe potuto mettere in seri imbarazzi con le altre
Potenze; ed io risposi limitandomi a dare assicurazioni del nostro
buon volere riguardo al problema della integrità dell'Impero
ottomano in Europa ed in Asia, sempre subordinatamente agli
avvenimenti. E la discussione giunse così, per quanto riguardava
la sostanza del trattato, al suo termine, i delegati turchi avendo
del resto istruzioni di tentare sì di ottenere codeste ultime
concessioni, ma alla fine di firmare in ogni caso.
Devo pure ricordare che, in quell'ultimo momento, alcune, delle
Potenze credettero finalmente conveniente di esercitare la loro
influenza per la pace. L' ambasciatore tedesco Waggenheim, e
quello austriaco Pallavicini, ricevettero istruzioni, per
iniziativa della Germania, e dopo uno scambio di vedute fra
Berlino e Vienna, di agire fermamente presso la Porta; ed in tale
senso agì pure, quantunque in maniera indipendente, l'ambasciatore
americano. L'Inghilterra si astenne, sopratutto per lo scrupolo
personale dei doveri della neutralità, che era fortissimo in Sir
Edward Grey, ed anche per la preoccupazione di possibili
ripercussioni di malcontento nel vasto mondo ottomano, sottoposto
al dominio inglese in India ed altrove.
Anche dopo questo non ci trovammo del tutto fuori dagli imbrogli e
dalle insidie; perchè si scoperse che, o per disordine o per
malafede, i poteri inviati da Costantinopoli ai delegati turchi
non erano validi, recando solo la firma del Ministro degli Esteri:
al che potemmo rimediare senza ulteriore perdita di tempo, facendo
depositare il documento genuino dei pieni poteri presso
l'ambasciata di Germania a Costantinopoli, che lo prese in
consegna e lo verificò, dandocene notifica ufficiale. E così, la
sera del 15 ottobre, alle, ore diciotto, prima che spirasse
l'ultima dilazione da noi accordata, l'accordo preliminare della
pace fu finalmente e regolarmente firmato. E la sera stessa, per
richiesta dei delegati turchi, noi ordinammo in Libia la
sospensione delle ostilità, mentre alla loro volta i delegati
turchi telegrafarono a Costantinopoli di applicare nuovamente il
regime doganale normale alle merci italiane.
Il firmano del Sultano, contenente la proclamazione dell'autonomia
della Libia, e l'iradè riguardo le isole e quello per
Idriss furono firmati dal Sultano il giorno 16 e promulgati il
giorno dopo; nel qual giorno fu pure firmato dal Re d'Italia il
decreto di amnistia agli arabi e la proclamazione della libertà
religiosa per la Libia. Il giorno 18, alle ore 15,45 fu infine
firmato ad Ouchy il trattato di pace. Lo stesso giorno io
deliberai, informandone il Re, di istituire il Ministero delle
Colonie, e telegrafai a Bertolini pregandolo di accettarlo, come
poi egli fece. Seguì il riconoscimento, da parte delle Potenze,
alla nostra sovranità sulla Libia. La prima a dichiararlo fu la
Russia, il giorno 16 ottobre, il 17 e il 18 seguirono l'Austria e
la Germania; il 19 l'Inghilterra, e qualche giorno appresso la
Francia. Il giorno 20 i nostri delegati giunsero a Roma portando
il testo del Trattato; ed il giorno 22 il generale Tassoni inviò
da Zuara al campo turco di Garbia il capitano Camera pel disarmo
delle truppe turche, che fu effettuato senza alcun incaglio. E
verso la fine di novembre il Trattato fu ratificato dal
Parlamento.
La condotta, sia politica e diplomatica, sia militare di questa
singolare guerra svoltasi in condizioni veramente eccezionali;
come pure la conclusione della pace dettero luogo a critiche di
ogni genere, alle quali io risposi, nei limiti allora consentiti
dalle convenienze internazionali, in un discorso che chiuse una
lunga discussione parlamentare nei primi giorni del marzo 1914.
Oggi, che molte delle ragioni di riserbo diplomatico sono venute
meno, quelle critiche possono essere esaminate alla luce di più
larghe e precise informazioni.
Come avviene sempre in tale genere di cose, le critiche si
contradicevano; alcune accusandoci addirittura di avere fatto la
guerra o di avere fatto troppo, e di non avere scelto il momento
opportuno; mentre altre ci accusavano di essere stati incerti e
timidi e di avere fatto
troppo poco.
I critici del primo gruppo ci rimproveravano di
avere dichiarata formalmente guerra alla Turchia, sostenendo che
avremmo dovuto semplicemente occupare i territori in questione,
come si sarebbe potuta compiere una qualunque occupazione
coloniale. Al che si risponde, in primo luogo che la Libia formava
parte integrale dell' Impero ottomano, e che l'occupare un
territorio di una grande Potenza senza previa dichiarazione di
guerra avrebbe costituita una violazione del diritto
internazionale; e in secondo luogo che se non avessimo fatta la
formale dichiarazione di guerra, non avremmo avuto il diritto di
impedire il contrabbando, per l'esercizio del quale diritto Io
stato di guerra è necessario. Gli stessi critici ci rimproveravano
di non avere scelto il momento opportuno, sostenendo la tesi che
prima di agire avremmo dovuto aspettare almeno di vedere se
qualche altra Potenza tradiva l'intenzione di prevenirci; ci.
accusavano pure di non avere fatta la necessaria preparazione
diplomatica, e sopratutto insistevano sulla intempestività della
proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, la quale, a loro
avviso aveva avuto l'effetto di prolungare la guerra e di renderne
più diffìcile la soluzione. Alla maggior parte di queste critiche
ho già incidentalmente risposto con la precedente narrazione dei
dietroscena diplomatici degli avvenimenti, che fino ad ora erano
rimasti in massima parte ignoti o erano conosciuti solo in modo
frammentario.
Alla luce di codesta narrazione cadono anche
quelle critiche le quali, nell'ignoranza
dei fatti, potevano apparire più plausibili; dovendo oggi essere
evidente ad ognuno che l'omissione o il ritardo della
proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, avrebbe forse
risparmiate parecchie difficoltà a quel governo che si fosse
contentato di concessioni secondarie; ma avrebbe tramandato ai
suoi successori difficoltà assai più gravi di quelle che io avevo
creduto doveroso affrontare per risolvere radicalmente il
problema. E c'era infine un'ultima critica, che traeva apparenza
di fondamento dalle difficoltà che rimanevano ancora per stabilire
la nostra autorità sull'intero territorio conquistato; e della
quale si era fatto portavoce l'on. Bissolati, che pure era stato
un genuino fautore dell'impresa. Il Bissolati sosteneva insomma la
tesi che noi avremmo dovuto limitare la nostra occupazione alla
costa, aspettando che le popolazioni dell'interno venissero poi a
noi spontaneamente. Nel mio pensiero, se avessimo fatto ciò, la
nuova colonia sarebbe stata per noi pressoché inutile, ed avremmo
avuto uno stato permanente di guerra con gli abitanti
dell'interno, che non si sarebbero resi conto di quella nostra
condotta. Peggio ancora; essendo stati quei territori proclamati
da noi e riconosciuti da tutte le Potenze come territori italiani;
se le popolazioni dell'interno, abbandonate a se stesse, avessero
fatto, come era da aspettarsi, incursioni a danno dei paesi
vicini, o dalla parte della Tunisia o dalla parte dell'Egitto,
quei governi avrebbero avuto il diritto di porci questo dilemma: o
provvedete perchè la sicurezza sia mantenuta nella frontiera, o
avremo diritto di provvedere noi.
Più vivace e clamorosa, e forse più ascoltata dalla opinione
pubblica, era quell'altra schiera di critici che ci rimproveravano
di avere fatto troppo poco. E che si suddividevano poi in due
specie: quella degli umanitari, che avrebbero voluto che noi
coglies-simo quell'occasione per una universale crociata di
liberazione delle popolazioni cristiane e delle nazionalità
oppresse che rimanevano ancora sotto il giogo ottomano; e quella
dei nazionalisti, secondo i quali si sarebbe dovuto fare una
grande guerra, che dimostrasse tutta la forza dell'Italia, e che
fosse sino dall'inizio diretta a colpire la Turchia nei suoi punti
più vitali.
Anche la risposta a tale critica è contenuta in grande parte nella
narrazione da me fatta dei dietro-scena diplomatici, i quali
mostrano fra quali difficoltà noi dovemmo muoverci, e con quanta
prudenzja dovemmo manovrare per evitare che quella ostilità
universale che la nostra impresa incontrò sino dal principio da
parte dell'alta banca, e per riflesso nella massima parte della
stampa e della pubblica opinione europea, non finisse per
travolgere anche i governi i quali, pure sollevandoci di tratto in
tratto difficoltà, non ci crearono mai dei veri e seri imbarazzi.
Del resto, attaccare la Turchia nelle parti vitali, era una bella
frase che non trovava però corrispondenza nella realtà; perchè,
anche quando noi ritenemmo conveniente di spostare la guerra dalla
Libia all'Egeo, da qualunque parte ci rivolgevamo ci trovavamo di
fronte interessi inglesi, tedeschi, russi, francesi, e perfino
americani; ma interessi turchi, mai. La Turchia era, per così
dire, corazzata dai debiti di ogni specie che aveva verso tutti i
grandi Stati ed i loro cittadini. Questa condizione di cose
c'imponeva dei riguardi; ma debbo aggiungere che tali riguardi
coincidevano coi nostri stessi interessi, essendo evidente che a
noi non conveniva, né che la questione di Oriente si aprisse
mentre eravamo impegnati nella Libia, né che una qualunque nostra
azione desse pretesto ad altri, e particolarmente all'Austria, di
avanzarsi nei Balcani.
La storia diplomatica della guerra, quale ho narrata, mostra come
noi dovessimo avere sempre, occhio a che l'Austria non profittasse
della situazione per risolvere a nostro danno il problema, per noi
di primissima importanza, dell'Albania. Questi critici avrebbero
pure, voluto che noi avessimo spinto avanti con maggiore rapidità
ed energia le operazioni nell'interno della Libia. Ma ad una tale
più rapida azione avrebbe, corrisposto un assai maggiore
sacrifizio di vite umane. Ora, se in una guerra nazionale, per la
difesa del suolo della patria, non si deve guardare al numero
delle vittime, io penso che invece in una guerra coloniale si
adempia ad uno stretto dovere, evitando un inutile spargimento di
sangue.
Io pensavo, e mantengo questo convincimento, che il successo di
una impresa non debba misurarsi affatto dalla teatrale grandiosità
dei mezzi e dei modi con cui viene conseguito; ma anzi dall'uso
sobrio
dei mezzi atti al suo conseguimento. Noi ci
eravamo
proposta semplicemente la conquista della Libia, ed
a tale
scopo avevamo predisposti tanto i mezzi diplomatici quanto quelli
militari; l'esserci riusciti senza bisogno di ricorrere a colpi di
audacia che implicavano rischi corrispondenti, e senza
provocare
l'apertura di altre questioni e di altri conflitti,
conseguendo all'ultimo precisamente gli scopi che ci eravamo
proposti sino dal primo giorno, fu, amio parere,
il merito
maggiore del governo.
Malauguratamente
pochi sono coloro che riescono a mantenersi
immuni dall'eccitazione particolare che. accompagna
qualunque
guerra; e come, esempio di ciò, io ricordo una strana proposta che
mi fu fatta, ad un certo
momento, dal nostro Capo di Stato
Maggiore, il generale Pollio, che pure, era uomo di molto e
ponderato ingegno. Egli mi trasmise un documento in
cui, dopo
avere esaminati i vari aspetti della situazione e la difficoltà di
risolverla, proponeva che,
per trovare una soluzione decisiva, noi
facessimo
una grande spedizione militare nell'Asia Minore,
sbarcando a Smirne. Attaccare così l'Asia Minore significava
impegnarci là dove la Turchia aveva la sua massima forza, e,
prescindendo dalle difficoltà militari
dell'impresa, che avrebbe
richiesto l'impiego di almeno centomila uomini, c'era la questione
politica internazionale da considerare. Il generale Pollio se
ne
sbrigava osservando che, qualora quella nostra mossa
avesse
sollevata l'ostilità delle Grandi Potenze, l'Italia
avrebbe potuto
abbandonare l'impresa e rimbarcare le sue truppe senza
umiliazione, cedendo alla forza maggiore!
La pace fu generalmente bene accolta, nel Parlamento, nella stampa
e nel paese. Non mancarono però le critiche anche per essa,
specialmente da parte di coloro che avrebbero voluto che,
scoppiata la guerra balcanica, noi avessimo colta l'occasione di
una maggiore guerra, mettendoci alla testa dei nuovi nemici della
Turchia, o almeno aspettandone la soluzione. Per me invece lo
scoppio della guerra balcanica era una nuova e potente ragione
perchè noi dovessimo procurare in ogni modo che la questione
nostra fosse liquidata prima ed a parte, affinchè la fine di
quella guerra ci trovasse, fra i giudici e non fra coloro
che dovevano essere giudicati.
Infine c'è stata una critica postuma, che vorrebbe attribuire alla
guerra di Libia la prima responsabilità della catastrofe
consumatasi negli anni susseguenti, quasi che essa fosse stata il
primo anello della catena di avvenimenti che condusse alla guerra
europea e mondiale. Ma non c'è alcuna ragione perchè in quella
catena non si risalga ad avvenimenti anteriori, quali la lunga
questione del Marocco e quella della Bosnia Erzegovina, le quali
minacciarono di per sé stesse di fare, scoppiare la guerra
europea, tenendo preoccupata per più anni la pubblica opinione ed
i governi; mentre la guerra nostra fu giustamente considerata sino
dal principio come un episodio distaccato. Del resto i germi della
guerra balcanica erano già da parecchi anni contenuti nella
situazione formatasi in quel paese, e che dovesse scoppiare era da
tempo preoccupazione generale; soltanto si pensava che la Turchia
avrebbe avuto facilmente ragione dei piccoli Stati balcanici, e la
situazione avrebbe poi dovuto essere regolata da una Conferenza
europea.
La rinnovazione della Triplice Alleanza e le sue ragioni — La
grave questione albanese — Le aggressioni
serbo-montenegrine e greche —Scutari ed il Canale di Corfù —
Pericoli e minacce fra l'Austria e la Russia — Proposta
austriaca all' Italia contro il Montenegro — Mio rifiuto
motivato dalla convinzione che quell'azione avrebbe portato alla
guerra europea — Scambio di dispacci e lettere fra me e San
Giuliano — Pressioni dell'Imperatore Guglielmo — La Conferenza
degli ambasciatori — La questione del Dodecaneso: rigido
atteggiamento dell' Inghilterra — Compromissione della Francia
per la Grecia — Mantengo fermo il punto di vista italiano, che è
accettato — Secondo tentativo di aggressione dell'Austria contro
la Serbia —Io nego l'intervento italiano mancando il casus
foederis — Gli accordi per l'Asia Minore — Il pacifismo
dell'Imperatore Guglielmo.
Circa due mesi dopo la fine della guerra di Libia e la conclusione
della pace con la Turchia, e precisamente il 5 dicembre 1912, noi
addivenimmo al rinnovamento della Triplice Alleanza, in anticipo
di alcuni mesi sulla data valida per la denunzia.
Già durante la guerra libica la Germania e l'Austria avevano
avanzata la proposta del rinnovamento anticipato; e quella loro
proposta ci era pervenuta appunto subito dopo gli incidenti sorti
fra noi e la Francia per il fermo e la visita del Manouba e del
Carthage. Quegli incidenti in verità avevano fatta una forte
impressione sulla pubblica opinione, spegnendo in buona parte quei
sentimenti di più viva cordialità verso la Francia, che il suo
contegno amichevole verso di noi in relazione alla guerra di Libia
aveva nei primi mesi diffuso nel pubblico italiano; e si comprende
che le nostre antiche alleate ritenessero opportuno di profittare
di quella occasione per avanzare la loro proposta. Quella offerta
ad ogni modo costituiva un atto molto amichevole verso di noi,
perchè rinnovare l'alleanza in un momento in cui l'Italia era
impegnata in una guerra, assumeva un notevole significato
politico, ed equivaleva a fare sapere a tutto il mondo che la
Germania e l'Austria, non ostante i loro particolari interessi
nella Turchia, erano d'accordo con noi.
La importanza di questo aspetto dell'offerta fattaci non poteva
certo essere disconosciuta, ed io risposi ai due governi che
apprezzavo assai il sentimento amichevole che li induceva alla
loro proposta; ma osservavo che avendo noi già emanato il Decreto
di sovranità della Libia, era per noi condizione sine qua non che
nel rinnovamento del Trattato d'alleanza, questo nostro possesso
venisse esplicitamente riconosciuto. La Germania e l'Austria
risposero che, avendo esse dichiarato allo scoppio della nostra
guerra con la Turchia la loro neutralità, non avrebbero potuto,
senza venir meno ai loro obblighi, stipulare un trattato in cui
fosse riconosciuto come già a noi appartenente ciò che formava
l'oggetto della contestazione ed era stato la ragione della
guerra. A mia volta dovetti riconoscere la giustezza di codeste
obbiezioni; e rimase convenuto che si sarebbe proceduto al
rinnovamento dell'Alleanza appena la Germania e l'Austria avessero
potuto riconoscere la nostra sovranità secondo il diritto
internazionale. E così, appena la guerra fu conclusa, l'Alleanza
fu rinnovata senza alcuna modificazione.
Io veramente avrei voluto introdurre nel corpo del trattato gli
altri accordi che avevamo concluso con l'Austria nell'intervallo
intercorso dopo l'ultimo rinnovamento; uno dei quali si riferiva
espressamente all'Albania e l'altro, concluso nel 1909 e mantenuto
segreto, contemplava gli interessi generali delle due Potenze nei
Balcani e stabiliva reciproci impegni; perchè mi pareva
conveniente che tutti gli accordi esistenti fra gli alleati
fossero contemplati in un unico trattato. Ma l'Austria e la
Germania non accedettero a questa mia proposta, avanzando
l'obbiezione che esse desideravano di trovarsi in condizione, sia
per ragioni di politica interna che di politica estera, di potere
dichiarare che il trattato era rimasto inalterato, per non fare
nascere dei sospetti che qualche cosa vi fosse stato introdotto
che ne snaturasse il carattere, già ben noto, di trattato
puramente difensivo; ed io non
insistei.
Al rinnovamento della Triplice Alleanza, fatto un anno e mezzo
circa avanti lo scoppio della guerra europea, e contro il quale al
momento in cui ebbe luogo non furono fatte obbiezioni di qualche
peso né all'interno né all'estero, se non da parte di coloro che
erano stati sempre nemici dichiarati
di quell'alleanza, sono state fatte in seguito critiche
postume, dal punto di vista degli avvenimenti capitati poi; e fra
l'altro si è detto che il rinnovamento dell' alleanza con gli
Imperi centrali fu un errore, perchè sino da allora non mancavano
indizi di un grave pericolo di guerra. Coloro che ragionano a
questo modo, confondono la situazione dell'uomo politico che deve
agire sulla realtà immediata, e dal quale non si può pretendere la
qualità del profeta, con quella del critico e dello storico, che
si trovano nella condizione assai più comoda di giudicare sui
fatti compiuti. È assai facile, fra l'altro, dopo che gli
avvenimenti si sono compiuti, trovare anche in incidenti mediocri
e trascurabili gli indizi di ciò che doveva avvenire; quegli
incidenti ricevendo nuova luce ed assumendo una nuova importanza
per ciò che è poi avvenuto. Ma, a chi si metta nella giusta
prospettiva apparirà che, non ostante le innegabili velleità
aggressive del partito militarista austriaco, propositi e minacce
di guerra non si erano in quel tempo manifestati, e che anzi si
poteva avere giusta ragione di sperare in un periodo di pace, in
quanto non poche delle situazioni minacciose, che negli anni
precedenti avevano preoccupata l'Europa, si erano risolte: basta
nominare fra le altre la questione della Bosnia-Erzegovina e
quella del Marocco.
La stessa situazione balcanica che da sì lungo tempo aveva tenuta
inquieta l'Europa, specialmente orientale, aveva avuta con la
vittoria degli Stati balcanici alleati contro la Turchia, una
soluzione rispondente nella massima parte ai diritti delle
nazionalità, con la quasi totale cacciata della Turchia
dall'Europa. Quella soluzione era indubbiamente contraria alle
ambizioni austriache, donde gli incidenti a cui ora si dà
l'importanza di indizi infallibili; ma bisogna pure aggiungere che
la Germania, senza il cui beneplacito l'Austria non avrebbe certo
potuto assumersi la responsabilità di provocare una guerra, era
sempre intervenuta con propositi e risultati pacifici.
D'altra parte è d'uopo tenere bene presente che i rapporti fra
l'Austria e l'Italia, sia per la questione delle provincie
irredente, sia pel contrasto degli interessi nostri con quelli
austriaci nei Balcani ed in Albania specialmente, erano tali, che
un dilemma si poneva rigidamente: i due paesi dovevano essere o
alleati o nemici decisi; ed un nostro rifiuto di rinnovare
l'Alleanza sarebbe apparso come un proposito da parte dell'Italia
di mettersi di fronte all'Austria in una posizione di ostilità
dichiarata; ed in tal caso c'era ogni ragione di temere che
l'elemento militare austriaco, che verso di noi era stato sempre
nemico, non avrebbe mancato di profittare del pretesto del nostro
rifiuto, per dare seguito ai suoi propositi ostili verso l'Italia,
Per la stessa ragione, dunque, per la quale, come vedremo qui
appresso,, io mi ero costantemente adoperato a impedire che
l'Austria ci impigliasse in una qualunque avventura che potesse
precipitare ad una guerra, io dovevo pure procurare che una
situazione pericolosa non si formasse fra l'Austria e noi.
D'altra parte è bene qui ricordare che sino da quando io assunsi
per la prima volta la responsabilità della politica italiana, mi
ero adoperato con ogni mezzo a togliere alla Triplice Alleanza,
per quanto spettava all'Italia, qualunque aspetto pure
lontanamente aggressivo; ed a questo scopo avevo lavorato a
migliorare i nostri rapporti con la Francia, poi a stringere
rapporti con la Russia, mantenendo sempre la tradizionale nostra
amicizia con l'Inghilterra. Codesta politica italiana conciliante
e pacifica era stata sempre condotta apertamente; ed il fatto che
essa non avesse dato mai ragione o occasione ad obbiezioni da
parte della Germania e dell'Austria riconfermava nel modo più
autorevole la legittimità della nostra interpretazione della
Triplice, come di un'alleanza pacifica ed essenzialmente
difensiva.
Come ho già accennato, le ultime giornate delle trattative nostre
con la Turchia per la conclusione della guerra di Libia,
coincisero con lo scoppio della prima guerra balcanica. Che
qualche azione decisiva nella Balcania si stesse da tempo
preparando, noi avevamo avuto informazioni dai nostri
rappresentanti; già alcuni mesi avanti il Venizelos ci aveva fatta
la proposta di unirsi a noi nella guerra contro la Turchia,
proponendoci di invadere la Macedonia con centocinquantamila
uomini. I nostri impegni ed i nostri interessi erano contrari in
quel momento a che venisse sollevata la questione ottomana, e non
solo avevamo rifiutata l'offerta, ma avevamo anche dato a
Venizelos consigli di prudenza e di pace.
Le Potenze più interessate nei Balcani, avendo a mente le gelosie
e le rivalità fra gli Stati balcanici, che la Turchia aveva sempre
saputo abilmente sfruttare, non credettero, fino quasi all'ultimo,
alla possibilità che si formasse la Lega balcanica contro la
Turchia. Quelle loro impressioni furono smentite in una prima fase
dai fatti, perchè la Lega si formò e riuscì, pure contro le
aspettazioni quasi generali, ad abbattere la potenza militare
turca; ma poi in una seconda fase furono confermate dallo scoppio
della seconda guerra balcanica, suscitata appunto dalle rivalità e
gelosie fra i vincitori.
La diplomazia europea, che prima che la guerra scoppiasse si era
limitata a fare dei moniti e delle riserve, finì per accettarne
complessivamente i risultati, intervenendo con decisioni
particolari su un solo punto; la questione dell'Albania. Gli
albanesi avevano combattuto lealmente a fianco dei turchi; ma dopo
la sconfitta si trovavano separati a grande distanza dal centro
dell'Impero ottomano, ed era ovvio che la costituzione di uno
Stato albanese autonomo s'imponeva. Per questo rispetto le Grandi
Potenze erano d'accordo e per conto nostro ci trovammo anzi
ravvicinati all'Austria per la difesa di un comune interesse. Le
difficoltà però sorgevano riguardo alla delimitazione delle
frontiere albanesi, che erano attaccate, da settentrione ed
oriente dalla Serbia, che voleva avere Giacova ed un porto
sull'Adriatico, e dal Montenegro che mirava ad impadronirsi di
Scutari; ed a mezzogiorno dalla Grecia, che cercava di allargare
oltre ogni limite le frontiere dell' Epiro. Queste ambizioni erano
sostenute per la Serbia ed il Montenegro dalla Russia, che
perseguiva la sua politica slava, e per la Grecia dall'Inghilterra
e con maggior fervore dalla Francia.
Ora, siccome continuava lo stato di guerra contro l'Albania, quale
parte dell'Impero ottomano, la Grecia l'invadeva nel mezzogiorno,,
e la Serbia e il Montenegro nel settentrione; la prima cercando di
arrivare al mare e il Montenegro particolarmente tentando con ogni
sforzo di impadronirsi di Scutari. L'Italia e l'Austria invece si
trovavano d'accordo nel difendere l'integrità dell'Albania, la
quale non avrebbe potuto costituire uno Stato vitale se fosse
stata troppo mutilata; l'Austria preoccupandosi sopratutto di
impedire l'avanzata verso l'Adriatico della Serbia e del
Montenegro, e noi di evitare che entrambe le sponde del canale di
Corfù cadessero nelle mani della Grecia; il che avrebbe peggiorata
assai, secondo il giudizio della marina, la nostra situazione
strategica nel mar Jonio. La Germania appoggiava l'Austria e
l'Italia, pure mostrando una certa benevolenza verso la Grecia,
parte per ragioni dinastiche, una sorella del Kaiser avendo
sposato l'erede del trono di Grecia, che poi è stato Re
Costantino, e parte perchè sperava di distogliere la Grecia dalla
Triplice Intesa e di attrarla nell'orbita sua.
Già sin d'allora, secondo nostre informazioni, pareva che
Costantino fosse personalmente assai favorevole a questo mutamento
nell'orientamento della politica greca e che la Germania vi
contasse sopra; e la guerra europea mostrò poi che quelle
informazioni non erano infondate.
Da questa complicata condizione di cose, risultava una situazione
assai pericolosa, e che, a certi momenti appariva quasi
insolubile. Fortunatamente i consigli di moderazione e la buona
volontà di evitare guai peggiori avevano allora la prevalenza, non
ostante il contrasto delle tendenze e degli interessi, in entrambi
i gruppi delle Grandi Potenze; e si finì per deliberare che la
soluzione delle questioni più intricate e minacciose fosse
affidata ad una Conferenza di Ambasciatori, convocata a Londra nei
primi mesi del 1913.
Le discussioni di quella Conferenza procedettero in modo assai
amichevole; l'Austria, per dare soddisfazione alla Russia, finì
per rinunciare alla sua opposizione contro l'assegnazione di
Giacova alla Serbia; ed alla sua volta la Russia riconobbe che
Scutari, assediata e bombardata dai montenegrini, dovesse rimanere
all'Albania. Ma il Montenegro, non solo si ostinava a non cedere
alla volontà unanime delle Potenze, ma assumeva pure un
atteggiamento provocatore contro l'Austria, tanto da ingenerare
anche il sospetto che volesse suscitare un conflitto che gli desse
modo di uscire dalla insostenibile situazione in cui si era messo.
Tale atteggiamento del Montenegro faceva d'altra parte il giuoco
del partito militarista e di altri interessi austriaci, i quali
avevano subito mal volentieri la nuova situazione creatasi nei
Balcani per la vittoria, prima dei piccoli Stati contro la
Turchia, poi della Serbia, Rumenia e Grecia contro la Bulgaria; in
quanto i risultati di quegli avvenimenti sembravano tagliare la
strada al vecchio programma austriaco di espansione orientale e di
discesa al Mare Egeo per la via di Salonicco.
Il partito militarista, dopo la morte dell'Aerenthal e l'avvento
del Berchtold, che non possedeva né autorità nò prestigio, faceva
sentire assai la sua influenza al Ministero degli Esteri
austroungarico; ed indubbiamente furono dovuti alla sua azione due
gravi tentativi di aggressione dell'Austria, prima contro il
Montenegro, poi contro la Serbia, e nei quali si tentò di
coinvolgere l'Italia. All'infuori di una mia breve dichiarazione
fatta quando era già scoppiata la guerra europea, ma durava ancora
la neutralità italiana, al Parlamento italiano nel novembre del
1914, niente si è risaputo di quegli episodi diplomatici, che se
non fossero stati sventati avrebbero condotto allo scoppio della
guerra europea un anno avanti. Credo opportuno e interessante
raccontarne ora l'intera storia, tanto più che la contingenza che
in entrambi quei momenti io mi trovassi fuori di Roma, ha portato
che ne sia rimasta nelle mie mani l'intera documentazione. E che
essi fossero compiuti durante la mia assenza da Roma, non era un
semplice caso.
L'ambasciatore austro-ungarico di quel tempo a Roma, conte Merey,
era uno strano personaggio, che si permetteva spesso l'uso di modi
e di un linguaggio non troppo diplomatici. Di quella sua
inclinazione, che poteva anche corrispondere ad istruzioni
trasmessegli da Vienna, egli aveva abusato durante la guerra,
facendo nascere in quelli con cui trattava, e cioè in me e San
Giuliano, la velleità di metterlo alla porta. Siccome però in
quella situazione non era il caso di provocare uno scandalo
diplomatico, io, in risposta alle sue burbanze, avevo adottato il
sistema di mostrargli chiaramente che non lo prendevo sul serio.
Così ricordo che una volta egli mi aveva chiesto un colloquio di
urgenza, ed arrivando nel mio ufficio mi aveva fatta una protesta
perchè in Corso Vittorio Emanuele era stato aperto un negozio con
la scritta «Trento e Trieste». Io gli avevo risposto che se egli
avesse spinto più avanti la sua passeggiata, avrebbe trovato un
altro negozio intitolato «Alla Città di Vienna». Per queste
ragioni il Merey evitava di trattare meco, lamentando che io lo
prendessi in giro, e non c'era da meravigliarsi che egli, per
eseguire certe istruzioni che gli venivano dal suo governo,
profittasse dei momenti in cui ero lontano da Roma.
Ecco ora come si svolsero le cose. Il nostro ambasciatore a
Londra, Marchese Imperiali, ci aveva informati che l'ambasciatore
tedesco, di ordine del suo governo, aveva presentato a Sir Edward
Grey un memoriale per attirare la sua attenzione sulla necessità
di una pronta ed energica azione collettiva, allo scopo di
costringere la Serbia e il Montenegro ad inchinarsi
dinanzi alle decisioni delle Potenze
sulla questione dei confini albanesi. Quel pro-memoria, dopo un
esame della situazione, accennava, sebbene in tono dubitativo,
alla convenienza di affidare eventualmente ad una o più potenze il
mandato di fare rispettare dalla Serbia e dal Montenegro le
decisioni delle Grandi Potenze. Grey aveva risposto che egli pure
aveva dati dei moniti, ma che non credeva si potesse procedere a
un passo collettivo quando la Russia si mostrasse contraria. Ed
aveva aggiunto non essere sicuro sino a che punto l'Italia
accetterebbe il mandato proposto, o gradirebbe che fosse dato
all'Austria.
San Giuliano, in relazione, all'eventualità di un mandato
all'Austria, aveva subito incaricato il nostro ambasciatore a
Berlino, il Bollati, di dichiarare a Von Jagow che l'Italia si
sarebbe opposta recisamente a tale mandato, anche a costo di
votare con la Triplice Intesa contro gli alleati, perchè nelle
circostanze il mandato sarebbe risultato in pratica nella
conquista da parte dell'Austria di territori balcanici; ed io
avevo approvato tale dichiarazione. Il giorno slesso il Merey
aveva portata al San Giuliano la proposta di una dimostrazione
navale contro il Montenegro, chiedendo che l'Italia si associasse
all'Austria in questa dimostrazione. Il San Giuliano, nel darmi
comunicazione di questo passo, pure dichiarando che una
occupazione territoriale, anche provvisoria, da parte dell'Austria
dovesse evitarsi ad ogni costo, osservava che per evidenti ragioni
poteva essere necessario di partecipare alla dimostrazione navale.
Io, pensando che una dimostrazione navale contro un paese
di
montagna sarebbe finita necessariamente con uno
sbarco, risposi
a San Giuliano nei termini seguenti:
— Sono assolutamente
contrario a partecipare ad
una dimostrazione navale. Questa, o
finisce nel ridicolo se non è seguita da sbarco di truppe, o
costituisce l'inizio di una guerra europea se si sviluppa in una
vera azione militare. Questo nuovo atteggiamento dell'Austria
significa che in essa ha
preso il sopravvento l'elemento
militare, e il suo
invito tende a pregiudicare la nostra libertà
di azione e a metterci mani e piedi legati al servizio di
essa.
Il mandare navi da guerra a Scutari costituisce qualche cosa di
più che una semplice dimostrazione, perchè per trasportare gli
abitanti di Scutari
bastano navi commerciali. Quindi sono
d'avviso che
si debba rispondere negativamente. —
Il San Giuliano, che si preoccupava assai di contrastare
l'influenza austriaca nell'Albania, nella stessa giornata
mi
telegrafò ancora richiamando la mia attenzione
sul danno che
deriverebbe alla influenza nostra, se
l'Austria, agendo da sola,
si guadagnasse sola la riconoscenza degli albanesi. Aggiungeva che
la Germania non voleva la dimostrazione navale; ma che
se questa
dovesse avere luogo, desiderava che vi partecipasse pure l'Italia.
Io gli risposi ancora con questo
telegramma: — Nel giudicare
la condotta da tenere
nei rapporti con l'Austria, occorre tenere
conto del
fatto che il Merey fa quanto può per spingere
alla
guerra. La dimostrazione militare, se fatta seriamente
costringerebbe la Russia ad attaccare l'Austria, e, se noi
avessimo partecipato alla dimostrazione saremmo fatalmente
costretti a partecipare alla guerra. Questo è il fine
dell'azione del Merey. Se l'Austria non è certa della nostra
partecipazione, eviterà ad ogni costo la guerra. La, Germania
vuole la pace e quindi non vuole la dimostrazione navale; ma se
questa ha luogo desidera che noi vi partecipiamo per avere la
certezza che. in ogni caso saremo costretti a partecipare alla
guerra. L'umanitarismo dell'Austria è molto sospetto,, tanto più
che secondo il diritto delle genti, il Montenegro che è in
guerra con la Turchia, ha diritto, di attaccare le fortezze
turche. Quanto alla, considerazione che se, l'Austria agisce
sola, l'Albania sarà riconoscente a lei sola, io non vi do
importanza alcuna perchè la gratitudine fra i popoli non esiste;
o. almeno tale considerazione è affatto secondaria di fronte
alla quasi certezza che la nostra azione scatenerebbe la guerra
europea, mentre l'Austria, se lasciata sola, forse se ne asterrà».
Questo scambio di telegrammi fra me e il San Giuliano continuò nei
giorni seguenti; perchè egli si rendeva perfettamente conto della
gravità delle obbiezioni mie, ma si allarmava pure all'idea che
l'Austria, agendo da sola, creasse un pericoloso precedente a
nostro danno nell'Albania. Lo svolgersi, assai rapido, degli
avvenimenti avvalorò tuttavia sempre maggiormente la mia tesi.
Anzitutto la Conferenza degli Ambasciatori a Londra aveva presa
all'unanimità una deliberazione che doveva dare piena
soddisfazione
alle apprensioni che l'Austria ostentava, in quanto che essa
aveva deciso, in base ad una proposta di Sir Edward Grey, che le
Potenze, a mezzo dei loro rappresentanti a Cettigne ed a Belgrado
facessero un passo collettivo per dichiarare che la delimitazione
delle frontiere dell'Albania era riservata alle Grandi Potenze, e
che sino a che tale delimitazione fosse fatta, nessuna azione
della Serbia e del Montenegro in Albania avrebbe l'effetto di
creare dei diritti acquisiti; aggiungendo più particolarmente
riguardo a Scutari che il suo destino, anche se essa fosse caduta,
sarebbe deciso dalla volontà delle Potenze e non già dal fatto
della occupazione montenegrina.
Ora, io osservavo che, dopo tale unanime deliberazione delle
Potenze, una qualsiasi azione militare da parte dell'Austria
sarebbe stata un'aggressione ingiustificabile, che avrebbe
provocalo inevitabilmente l'intervento militare della Russia. Ed
infatti un telegramma di qualche giorno dopo del nostro
rappresentante a Pietroburgo, marchese Carlotti, ci avvertiva che
il primo effetto di una dimostrazione navale austriaca contro il
Montenegro sarebbe stato di provocare la caduta di Sazonoff, pel
fallimento della sua politica di conciliazione, e l'assunzione al
suo posto di persona la quale, per soddisfare all'opinione
pubblica avrebbe dovuto assumere verso l'Austria l'atteggiamento
più energico, moltiplicando i pericoli di guerra.
Il ministro degli Esteri tedesco, Von Jagow, dichiarava poi alla
sua volta al nostro ambasciatore, che egli aveva già dovuto
intervenire più volte a Vienna perchè si astenessero da ogni
risoluzione precipitosa, e che egli aveva ciò fatto, oltre che
nell'interesse della pace generale, anche per una speciale
considerazione della situazione particolarmente delicata e
diffìcile nella quale, in certe eventualità, si sarebbe potuta
trovare l'Italia. Ma ormai, egli soggiungeva, non era più
possibile fare ulteriori pressioni sull'Austria; al punto in cui
erano giunte le cose una ritirata da parte sua avrebbe nociuto
immensamente tanto al suo prestigio quanto alla situazione
internazionale della Triplice Alleanza, che ne sarebbe stata
irreparabilmente compromessa. Aggiungeva di opinare che un
atteggiamento fermo e risoluto della Triplice in quel momento
poteva procurarle un successo positivo, e riaffermare durevolmente
la sua influenza in Europa imponendosi agli avversari. Con tali
vedute egli aveva fatto sentire a Londra che, a suo avviso, un
mandato dell'Europa alle Potenze più interessate, per fare
eseguire le sue decisioni, gli sembrava opportuno.
Egli aveva continuato dicendo di avere fatto domandare al nostro
governo, a mezzo dell'ambasciatore a Roma, se l'Italia fosse
disposta a partecipare all'azione che poteva rendersi necessaria
nell'Adriatico, e pure non dissimulandosi le nostre difficoltà,
egli era convinto che fosse nostro interesse partecipare a
quell'azione, e che la partecipazione dell'Italia poteva
facilitare una soluzione e diminuire i pericoli di più gravi
complicazioni. Tale, egli aggiungeva, era pure l'avviso
dell'Imperatore Guglielmo, il quale gli aveva espressa la speranza
che, grazie al concorso dell'Italia, la situazione si sarebbe
definita con un successo per la Triplice Alleanza. A tutto questo
io risposi che solo nel caso che il mandato di una dimostrazione
navale fosse affidato da tutte le Potenze a noi ed all'Austria, si
sarebbe potuto accettare; ma che preferivo sempre che le Potenze
facessero un'azione comune, o almeno che vi partecipasse una delle
Potenze della Intesa, che avrebbe potuto essere l'Inghilterra.
Il 23 marzo Sazonoff, in una conversazione col nostro
ambasciatore, dichiarava essere principio acquisito che le Potenze
procedessero solidariamente negli affari balcanici, e non essere
quindi ammissibile che una di esse agisse isolatamente per gli
incidenti montenegrini; ed aggiungeva che nel fare rispettare tale
principio la Russia non si troverebbe sola. Aggiunse pure di aver
fatto osservare all'Austria che un'azione isolata contro il
Montenegro sarebbe dalla Russia considerata assai grave, e che
Berchtold aveva risposto che vi sarebbe stato costretto se il
Montenegro non dava all'Austria giusta soddisfazione. Alla domanda
se egli considerasse la situazione allarmante, il Sazonoff aveva
risposto che pendevano trattative fra la Russia e l'Austria,
perchè la prima si associasse all'assegnazione di Scutari
all'Albania e la seconda all'assegnazione di Giacova alla Serbia;
e fortunatamente lo stesso giorno la Conferenza degli Ambasciatori
decise all'unanimità in tale senso, invitando in pari tempo il
Montenegro a levare l'assedio di Scutari.
Il Montenegro però non voleva assolutamente piegarsi ad obbedire a
tale invito, rifiutando perfino di ascoltare i consigli di
moderazione che gli venivano anche da Belgrado. Io non credevo
però che ciò dovesse in alcun modo mutare le nostre risoluzioni, e
telegrafavo a San Giuliano «che la pazzia ed anche i delitti di
uno slaterello destinato, a scomparire, erano cosa assai meno
grave e non paragonabile col pericolo di provocare una, guerra
europea per l'ansia di ridurlo al più presto alla ragione».
Il San Giuliano, che ormai era pienamente d'accordo meco, lavorava
intanto a Parigi ed a Londra perchè invece che ad un mandato da
conferirsi all'Austria ed all'Italia, fosse data la preferenza ad
un'azione collettiva; come infatti fu poi deciso.
Ma il pericolo non era per questo ancora del tutto passato.
Trascorsero, fra il 24 marzo e il 5 d'aprile, alcune giornate più
tranquille, durante le quali intervennero fra le Potenze scambi di
vedute e furono avanzate varie proposte sul modo con cui la
dimostrazione collettiva avrebbe dovuto farsi; quando
improvvisamente a Vienna si prospettò nuovamente la necessità di
un'azione austro-italiana che andasse più a fondo, nel caso che la
dimostrazione collettiva fallisse ai suoi fini di ricondurre il
Montenegro Alla ragione. Ecco la lettera, datata 5 aprile, con cui
San Giuliano mi dette notizia di questo nuovo e pericoloso
tentativo:
«Merey, a nome di Berchtold, mi ha detto in via ufficiale che, in
vista della possibilità che la dimostrazione navale internazionale
non raggiunga il suo scopo, Berchtold crede venuto il momento che
l'Austria e l'Italia si mettano d'accordo per un'azione comune,
per far valere in pratica i principii sanciti dai vigenti accordi;
e ciò solidalmente ed egualmente per l'intera Albania, e non già,
come alcuni nella stampa sostengono, l'Italia per il sud e
l'Austria per il nord.
«È ormai necessario dare all'Austria una risposta precisa.
«A me pare che noi potremmo rispondere che anzitutto bisogna
esaurire tutti i mezzi per raggiungere lo scopo stesso, o con
mezzi conciliativi (per esempio, compensi finanziari e forse
territoriali al Montenegro, ecc.) o con l'azione
internazionale.
«Aggiungerei che è solo dopo che sia ben dimostrato che si sono
fatti inutilmente tutti questi tentativi che si potrebbe chiedere
un mandato europeo per l'Italia e l'Austria; un tal mandato non
dovrebbe essere limitato alla sola eventuale azione per Scutari,
bensì verso qualsiasi Stato balcanico che si ribellasse alla
volontà dell'Europa nella questione dei confini dell'Albania tanto
a nord quanto a sud.
«Io ho detto a Merey che avrei scritto subito a te per dare una
risposta. Nel darla dobbiamo tener conto della possibile necessità
di un'azione comune italo-austriaca nella questione dello Stretto
di Corfù, che c'interessa in modo speciale. Cordiali saluti.
Tuo aff.mo San Giuliano ».
A questa lettera io risposi immediatamente con la seguente:
«Ricevo la tua lettera di oggi, ore 18,40, mentre sto per
partire.
«Salvo a specificare poi meglio quando occorrono risposte
più precise, ritengo intanto:
«1.° che non dovremo mai, per nessuna ragione, fare azione né
soli né con l'Austria senza un mandato da tutte le Potenze
europee;
«2.° che dovremo cercare con tutti i mezzi di evitare questo
mandato, procurando che si continui sempre l'azione europea, o
per lo meno con l'intervento dell'Inghilterra;
«3.° che né Scutari nò lo Stretto di Corfù valgono una guerra
europea, e che in questa non ci lasceremo involgere se non vi è
un nostro gravissimo interesse o si verifichi rigorosamente il
casus foederis;
« 4.° che l'Austria cercherà di comprometterci per avere la
sicurezza del nostro intervento, ma che dobbiamo evitare ciò in
modo assoluto;
«5° che tutte le considerazioni partenti dal punto di vista di
procurarci la riconoscenza dell'Albania non hanno valore alcuno.
L'Albania come Stato è così di là da venire, che nessun calcolo
si può fare su coloro che vi occupano qualche posto, trattandosi
di gente poco fida, e che agirà sempre secondo i suoi interessi
caso per caso, e non per altri sentimenti.
«Insomma il nostro fine, a mio avviso, deve essere solamente
questo: evitare che avvenga una guerra, europea; e se questa
avvenisse non averne la responsabilità e non esservi implicati.
Tutto il resto per noi
non ha valore alcuno, e non mi permetterei mai di cavare le
castagne dal fuoco per gli altri.
«Coi più cordiali saluti. — Giolitti».
«P.S. — Quanto a qualche spesa ora, per gli albanesi, puoi
prendere accordi con Tedesco, ma tenendo presente che sono
danari buttati; non escludo che qualche volta occorra buttar via
qualche cosa».
Merey tornò ad insistere il 7 aprile per avere una risposta
precisa; ma il giorno 8 la Serbia si ritirava dalle operazioni
contro Scutari, nelle quali aveva aiutato il Montenegro; ed il
pericolo, prolungatosi dal 19 marzo in poi, che per la pace
europea costituiva l'eventuale caduta di Scutari, fu per allora
scongiurato. L'Austria, la quale temeva anche l'eventuale
assorbimento del Montenegro nella Serbia, vedendo fallire il suo
progetto di aggressione pensò che le convenisse di aiutare la
dinastia montenegrina allo scopo di tenere separati i due paesi
slavi, e ci propose di partecipare ad aiuti finanziari al
Montenegro. San Giuliano, nel comunicarmi questa proposta, mi
descriveva anche l'abbattimento del Merey perchè la sia pure
tardiva ubbidienza della Serbia alle ingiunzioni delle Potenze
aveva fatto perdere all'Austria l'occasione di aggredirla e di
metterla a posto definitivamente.
Io, in data dell'11 di aprile, gli risposi dando il mio assenso
alla proposta austriaca con questo dispaccio: — «Credo che la
caduta della dinastia del Montenegro sia inevitabile
nell'avvenire; ma è bene non avvenga ora per evitare un ritardo
nella conclusione della pace. L'Italia, potrà concorrere agli
aiuti finanziari nelle stesse proporzioni dell'Austria e non
più, perchè un maggiore nostro concorso sarebbe ingiustificabile
davanti al Parlamento. Non posso partecipare al dolore di
Merey. Cordiali saluti. — Giolitti».
Il partito militarista di Vienna, che questa volta aveva subito
uno scacco, stava però fermo nelle sue mire; ed il proposito di
aggressione alla Serbia con partecipazione nostra venne fuori una
seconda volta, a pochi mesi di distanza, e cioè nella prima metà
dell'agosto del 1913, mentre la Conferenza degli Ambasciatori a
Londra era nuovamente adunata per importanti deliberazioni.
Due problemi di notevole importanza per noi si trovavano allora in
discussione: quello delle isole del Dodecaneso e quello dei
confini della Grecia con l'Albania, col quale ultimo si connetteva
la questione del canale di Corfù. Ho già accennato che noi
difendevamo per questo rispetto i diritti incontrastabili degli
albanesi al possesso di Coritza e di tutto il territorio da quella
parte sino a capo Stilos, quei diritti collimando anche con un
nostro vitale interesse: di impedire cioè che la Grecia, entrando
in possesso della costa albanese che stava dirimpetto all'isola di
Corfù, si assicurasse nel canale di Corfù una forte base navale la
quale avrebbe potuto essere usata contro di noi in caso di guerra
nell'Adriatico.
L'Austria aveva in ciò i nostri medesimi interessi; mentre non
solo le Potenze dell'Intesa, Inghilterra, Francia e Russia,
sostenevano fermamente la Grecia, ma sentimenti favorevoli ad
essa, per ragioni dinastiche, e pel segreto proposito di attrarla
nella sua orbita, mostrava pure, come ho già accennato, la
Germania.
La questione delle isole era più complicata ancora. Noi, pel
Trattato di Losanna, eravamo impegnati a restituirle alla Turchia
quando questa avesse adempiute a tutte le condizioni poste a suo
carico da quel Trattato, ed alle quali essa era inadempiente sopra
tutto nei riguardi della Cirenaica, forse anche per impedimenti
sopravvenutile con la guerra balcanica. Ma, a parte questi impegni
con la Turchia, noi ne avevamo con l'Austria-Ungheria, in base
all'art. 7 della Triplice Alleanza, e ad altri accordi speciali
che vietavano ad ognuno dei due contraenti di impossessarsi di
territorio ottomano — sempre esclusa la Libia — senza compensi per
l'altro; a cui dovevano aggiungersi gli altri impegni, rimasti
casualmente solo verbali, che noi, occupando le isole durante la
guerra di Libia, avevamo assunti con Berchtold. D'altra parte
l'Inghilterra, la quale temeva che le isole derEgeo, restando in
nostra mano, potessero servire di base alle flotte della Triplice
Alleanza, in caso di guerra, nel Mediterraneo orientale, aveva
fatto chiaramente intendere, che anche a costo di una guerra essa
non avrebbe consentilo che nessuna delle isole dell'Egeo rimanesse
nel possesso di una Grande Potenza, ed in ciò era seguita dalla
Francia. La Triplice Intesa, e più particolarmente l'Inghilterra e
la Francia, volevano, dopo il risultato della guerra balcanica,
che le isole del Dodccaneso passassero alla Grecia, fondando
questo loro proposito sul fatto che la grande maggioranza delle
loro popolazioni era greca.
Appena la Conferenza di Londra, il 2 agosto, iniziò l'esame di
queste questioni, noi fummo informati che Sir Edward Grey aveva
espressa l'intenzione di abbinare la questione del confine
meridionale albanese con la questione delle isole — intendendo con
ciò le altre isole dell'Egeo oltre a quelle da noi occupate. — Il
pensiero di Sir Edward Grey era che Coritza e il capo Stilos
fossero aggiudicati all'Albania, incaricando una Commissione
internazionale di decidere del territorio intermedio sulla base
del suo carattere etnico; e che tutte le isole fossero da dare
alla Grecia tranne Imbros e Tenedos, che per la loro posizione
dovevano restare alla Turchia, e Tasso e Samotracia delle quali si
doveva decidere più tardi nel regolamento territoriale generale.
Per quanto concerneva le isole da noi occupate, si proponeva che
l'Italia le restituisse, senza tener conto se fossero o no state
adempiute le condizioni del trattato di Losanna, nello stesso
momento in cui Coritza e Stilos sarebbero state consegnate agli
albanesi; e Sir Edward Grey lasciava intendere all'ambasciatore di
Germania, Lichnowsky, in una conversazione avuta con lui, che
soltanto a queste condizioni l'Inghilterra e la Francia avrebbero
dato il loro consenso alla delimitazione del confine albanese
desiderata dall'Austria e dall' Italia.
Ora, siccome questa proposta di abbinamento portava che le isole
da noi occupate sarebbero andate alla Grecia, in contrasto con
l'impegno da noi assunto col Trattato di Losanna di restituirle
alla Turchia, io non potevo accettarla; perchè, fra l'altro, una
nostra infrazione del Trattato di Losanna avrebbe giustificato la
Turchia a mancare agli obblighi per parte sua. Io potevo dare
assicurazioni, e le avevo date, che noi non intendevamo di
annettere alcuna di quelle isole, che anche come base navale non
avrebbero avuto valore senza un grave dispendio; ma esse erano in
nostra mano come un pegno, e come tale dovevano rimanere sino a
che gli obblighi che il Trattato di pace imponeva alla Turchia
fossero pienamente assolti.
Il San Giuliano, che in un suo memoriale con cui m'esponeva
l'intera questione si preoccupava che un eccessivo prolungamento
della nostra occupazione potesse dare luogo ad una situazione che
rischiasse di risolversi, data la speciale mentalità degli
inglesi, anche senza alcuna intenzione da parte loro di
danneggiarci od offendere, in uno scacco diplomatico per noi o in
gravi complicazioni, ricordando in proposito anche speciali
dichiarazioni fatte da Sir Edward Grey al nostro ambasciatore
marchese Imperiali; avanzava pure la congettura che con la
cessione delle isole alla Grecia si potesse aiutare il lavoro che
la Germania slava compiendo per attrarla nella Triplice Alleanza.
Ma per me il nostro impegno del Trattato
di Losanna aveva la prevalenza su qualunque altra considerazione,
ed al San Giuliano risposi in questi termini: — «Credo che a noi
convenga insistere sulla pregiudiziale del Trattato di Losanna che
ci obbliga a restituire le isole alla Turchia, e perciò ci vieta
dì partecipare ad accordi destinati a consegnarle ad altre
Potenze. La nuova guerra tra gli alleati balcanici e la necessità
di trovare compensi alla Turchia per indurla ad abbandonare
Adrianopoli rendono utile anche per la pace europea questa nostra
insistenza».—
E che noi avessimo ragione nel sostenere questo punto, fu subito
dopo dimostrato da un telegramma che la Turchia diramò ai suoi
ambasciatori, col quale dichiarava che l'Italia, non essendo che
depositaria delle isole del Dodecaneso, non poteva prendere alcun
impegno a loro riguardo senza il suo previo consenso, e che agendo
altrimenti essa si sarebbe esposta per parte della Turchia alla
denuncia del Trattato di Losanna ed alla rivendicazione dei
diritti turchi sulla Cirenaica.
La questione dette luogo, nella Conferenza degli Ambasciatori, ad
una discussione che si prolungò parecchi giorni, in ragione delle
sue stesse difficoltà, perchè fra l'altro il Ministro degli Esteri
francese, il Pichon, avendo creduto in buona fede, in un primo
momento, che noi avessimo accettato l'abbinamento, aveva dati al
governo greco degli affidamenti riguardo il Dodecaneso, dai quali
gli era malagevole recedere. La discussione procedette però sempre
nel modo più amichevole verso di noi, le buone ragioni della
nostra tesi essendo state cordialmente riconosciute. Si finì per
accettare una nostra dichiarazione, la quale diceva: — Il Governo
italiano considera che la questione del Dodecaneso, la quale deve
la sua origine alla guerra italo-turca, è giuridicamente regolata
dalle disposizioni del Trattato di Losanna. Ciò stante il Governo
italiano ripete che renderà quelle isole alla Turchia appena il
Governo ottomano avrà da parte sua eseguiti integralmente gli
ohblighi che gli incombono in forza dell'art. 2 del detto
Trattato. —
Nel testo dell'accordo seguiva poi una dichiarazione proposta dal
Cambon, secondo la quale, .quando il Trattato di Losanna fosse
stato integralmente eseguito dai due contraenti, le cinque
Potenze, al momento del regolamento finale di tutte le questioni
pendenti, avrebbero deciso della sorte finale delle isole del
Dodecaneso; nella quale formula l'Italia veniva lasciata in
disparte come se per la questione delle isole in forza della sua
occupazione il suo giudizio fosse compromesso. Ma una tale
esclusione non avrebbe avuto più ragione di essere dopo che le
isole fossero state da noi restituite, e sarebbe riuscita ad una
diminuzione della nostra dignità; ed a nostra richiesta, e dopo
cordiali spiegazioni intervenute fra il nostro ambasciatore a
Parigi, Tittoni, e il Pichon, fu accettata una nostra
modificazione che attribuiva a tutte le sei Potenze il compito
della finale decisione, e senza alcuna compromissione preventiva.
Ora, fu appunto durante questa sessione della Conferenza degli
Ambasciatori, la quale dava pure larga
soddisfazione alle esigenze austriache e nostre riguardo
all'Albania, che si manifestò di nuovo, ed anche in forma più
precisa, il proposito austriaco di aggressione, questa volta
contro la Serbia; che appare indubbiamente connesso coi risultati
della seconda guerra balcanica, scoppiata il 30 giugno, fra la
Bulgaria da una parte, e la Serbia, Rumenia e Grecia dall'altra, e
che finì rapidamente con la totale disfatta della Bulgaria. Io non
so e non ho modo di sapere se qualcosa di vero ci fosse nelle voci
che allora corsero, che l'aggressione della Bulgaria contro
l'esercito serbo, che dette occasione a quella guerra, fosse stata
segretamente istigata da Vienna; ma indubbiamente i suoi
risultati, col rafforzamento della Serbia, e l'assegnazione
definitiva di Salonicco alla Grecia, costituivano un nuovo scacco
al partito militarista austriaco, e nuovi ostacoli alle sue mire
ed ambizioni.
Il 9 agosto, essendo io assente da Roma, ricevetti dal San
Giuliano il seguente telegramma: — L'Austria ha comunicato a noi
ed alla Germania la sua intenzione di agire contro la, Serbia, e
definisce tale azione come difensiva, sperando di applicare il
casus foederis della Triplice Alleanza che io credo inapplicabile.
«Io cerco di concertare con la Germania sforzi per impedire
tale azione austriaca; ma potrà essere necessario il dichiarare
apertamente che noi non consideriamo tale azione come difensiva
e perciò non crediamo che esista il casus foederis.
«Pregoti di telegrafarmi a Roma se approvi.
San Giuliano».
A questo telegramma io risposi:
«Se l'Austria attacca la Serbia è evidente che non si verifica
il casus foederis. È una, azione che essa compie per conto
proprio, perchè non si tratta di difesa, poiché nessuno pensa ad
attaccarla. È necessario che ciò sìa dichiarato all'Austria nel
modo più formale, ed è da augurarsi una anione della Germania
per dissuadere l'Austria dalla pericolosissima avventura».
La cosa non ebbe più seguito. Per due volte dunque il partito
militarista di Vienna, che aveva preso sempre maggiore prevalenza
sul Governo, aveva complottata l'aggressione alla Serbia,
procurando di involvervi la prima volta l'Italia, e la seconda
anche la Germania, andando a cuor leggero contro il pericolo della
guerra europea. Per due volte il tentativo fallì; ma la terza, col
pretesto dell'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando, non
incontrando più la resistenza, o essendosi assicurata la
approvazione della Germania, riuscì malauguratamente al suo scopo,
provocando, come io avevo previsto, una delle più immani
catastrofi che ricordi la storia.
La narrazione che ho qui fatta di tali eventi, in gran parte
sconosciuti, darà ad ogni modo ragione della politica che io
seguii o consigliai quando la guerra europea fu scoppiata, e dei
motivi e principi di cui quella mia politica era informata.
Prima di chiudere con questo capitolo il ricordo di quei mesi, che
oggi apparirebbero fortunosi, se l'impressione di quegli
avvenimenti non fosse stata soverchiata da quelli assai più vasti
e gravi che seguirono poi, devo fare menzione di alcune altre cose
secondarie.
Una volta assicurata, entro confini ragionevoli, l'esistenza
dell'Albania come Stato indipendente, bisognò pensare a trovare un
capo pel nuovo Stato. Non era il caso di cercarlo fra le antiche e
più insigni famiglie albanesi, che si trovavano in una continua e
brutale lotta di rivalità ed erano estraniate l'una dall'altra da
odi e competizioni ereditarie; e fra noi e l'Austria, come le due
Potenze più interessate, si convenne di tentare la prova di
mettere sul trono albanese un qualche personaggio di illustre
famiglia forestiera. Fra gli aspiranti c'era Fuad pascià della
famiglia Kediviale egiziana, che io conobbi e che mi parve avesse
non poche delle qualità adatte al governo di un tale paese; ma la
sua candidatura fu scartata dall'Austria, perchè Fuad era
musulmano. Un secondo candidato fu il principe Napoleone,
secondogenito di Girolamo e della principessa Clotilde di Savoia,
e che sposò poi Clementina del Belgio; e che io sostenni pure, ma
che fu scartato dall'Austria forse per sospetto della sua
parentela con Casa Savoia. Si finì per
accordarsi sul principe di Wied, uno junker prussiano,
il quale, venuto a Roma nel suo viaggio per l'Albania, non fece né
a me né a San Giuliano l'impressione che fosse persona adatta pel
difficile compito che gli era affidato. Insediato infatti come
Principe d'Albania nei primi di marzo del 1914, pochi mesi dopo
doveva abbandonare il paese, in cui non era riuscito a farsi amici
e a trovare appoggi.
Un altro evento che devo ricordare, è la concessione, di carattere
economico e commerciale, che, a mezzo del Nogara prima e poi del
Garroni nostro ambasciatore, noi ottenemmo dal Governo turco
nell'Asia Minore, nella regione di Adalia. Codesta concessione
aveva per noi un valore più eventuale che immediato, ed una
ragione più politica che economica; perchè nell'eventualità di una
dissoluzione dell' Impero ottomano, già così gravemente colpito,
era utile stabilire dei nostri diritti, che ci permettessero poi
di mantenere l'equilibrio nel Mediterraneo orientale. Quando la
concessione fu conosciuta, provocò obbiezioni da parte
dell'Austria col pretesto di sue domande anteriori per la stessa
concessione. San Giuliano, pel quale il problema delle nostre
relazioni con l'Austria era ragione di continue e giustificate
preoccupazioni, propose di trarre profitto da tali obbiezioni nel
senso di andare incontro ai desideri dell'Austria e di venire con
essa ad accordi per una spartizione della concessione stessa, col
concetto che se l'Austria avesse nuovi interessi fuori
dell'Adriatico che richiamassero la sua
attenzione e la sua attività, la sua pericolosa rivalità con
noi in quel mare ne sarebbe attenuata. Quindi, dopo accertato a
Berlino quali fossero i limiti della sfera di influenza che la
Germania intendeva riservata a sé stessa nell'Asia Minore, noi
iniziammo a Vienna, per la delimitazione delle due sfere
d'influenza austriaca ed italiana, conversazioni che non ebbero
poi seguito pei sopravvenuti avvenimenti.
A chiudere questi ricordi di eventi diplomatici che precedettero
la guerra, credo interessante riportare alcune informazioni ed
impressioni raccolte da San Giuliano nel viaggio a Berlino da lui
fatto nei primi di novembre del 1912, e trasmessemi per dispaccio.
Il 6 novembre egli era stato ricevuto con molta affabilità
dall'Imperatore Guglielmo, che aveva conversato a lungo con lui
sulla situazione europea, esprimendo giudizi che non collimavano
sempre con l'azione svolta dal suo governo. Così egli dichiarava
di credere utile la completa liquidazione della Turchia europea,
con piena soddisfazione degli Stati balcanici, di cui preconizzava
una Confederazione che sarebbe stata un nuovo elemento di
equilibrio e di pace. Voleva la soluzione definitiva della
questione orientale e l'entrata dei bulgari in Costantinopoli. Si
mostrò preoccupato delle insistenze della Serbia, appoggiata dalla
Russia, per un porto nell'Adriatico, a cui l'Austria non avrebbe
consentito mai. Sperava che tale difficoltà sarebbe eliminata col
dare alla Serbia un porto nell'Egeo, e che in tal modo il pericolo
di complicazioni europee sarebbe stato allontanato. Ed aveva
infine espresso il desiderio della rinnovazione della Triplice
Alleanza, che infatti ebbe luogo in quei giorni. Ed anche fra gli
uomini principali del governo, quali Kiderlen Wãchter e Bettmann
Holwegg, il San Giuliano trovò allora prevalenti i sentimenti di
fiducia nel mantenimento della pace europea, e di conciliazione
degli interessi divergenti e contrastanti delle Grandi Potenze.
La crisi e il Ministero Salandra — Lo scoppio della guerra mi
trova a Londra — Esprimo l'opinione della mancanza del casus
(oederìs e della convenienza della neutralità — Lettere di San
Giuliano e Salandra — Miei giudizi, apertamente espressi, della
lunghezza, difficoltà e sacrifìci della guerra — Polemiche fra
neutralisti e interventisti — Accuse smentite su
l'impreparazione militare — Leggende sui miei rapporti con Bùlow
e sulla mia neutralità assoluta — L'azione del Governo per
ottenere concessioni dall'Austria e mio appoggio — Una mia
lettera ad un personaggio tedesco — Allarmi ai primi di maggio
sulla condotta del Governo — Vengo a Roma per la riapertura
della Camera: dimostrazioni ostili — Trecento deputati approvano
le mie opinioni — Conversazioni con Carcano, Salandra, Marcora —
Non sono informato del Patto di Londra — Altre minacce ed accuse
contro me — Il Ministero Salandra riconfermato dopo le
dimissioni — Mia condotta durante la guerra per non provocare
dissensi — Ritorno al Parlamento dopo Caporetto.
Al Governo che aveva fatto votare la legge della riforma e
dell'allargamento del suffragio, competeva necessariamente di
farne la prima applicazione. La quale, in circostanze ordinarie,
avrebbe dovuto seguire poco appresso all'approvazione della legge,
specie in un caso nel quale, da un suffragio teoricamente largo,
ma nella pratica assai ristretto e quasi di classe, si passava al
suffragio quasi universale; in quanto la Camera eletta col
suffragio ristretto non poteva più ritenersi come la adeguata
rappresentanza del
paese.
Ma il prolungarsi della guerra balcanica, con
tutte le conseguenti
complicazioni e preoccupazioni
internazionali, ritardarono lo
scioglimento della Camera e l'appello agli elettori, che ebbe
luogo solamente
nell'autunno del 1913. I risultati delle elezioni
smentirono le preoccupazioni dei conservatori che, pure
non osando
di oppugnare apertamente la riforma,
l'avevano segretamente
osteggiata. I socialisti tornarono in numero notevolmente
accresciuto, ma non
tanto da dare loro altro che la forza di una
piccola
minoranza; ed i cattolici fecero sentire più largamente la
propria influenza, specie nelle campagne;
ma nel complesso la
nuova rappresentanza nazionale,
sia pure con un largo mutamento
d'uomini, mantenne
l'antica fisonomia, con la prevalenza assoluta
dei partiti liberali. Gli uomini più cospicui delle varie
parti
furono quasi tutti rieletti.
Ogni Camera nuova è sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte
salutare, di provocare una crisi. La spinta alla crisi, in quella
occasione, venne dai radicali, nel cui gruppo, pure notevolmente
accresciuto, si manifestò un movimento di fronda contro i propri
rappresentanti al governo, e la direzione del partito deliberò di
passare all'opposizione. Il distacco dei radicali dalla
maggioranza, che metteva la coalizione di Sinistra nella
condizione di non potere reggere un governo, portava logicamente a
che il potere passasse a quegli che si presentava come il capo dei
gruppi di Destra. Il gruppo che per tanti anni aveva tatto capo,
con molta devozione e disciplina all'on. Sonnino, si era disciolto
dopo la guerra di Libia, constatando che le ragioni che lo avevano
tenuto unito in un programma generale, erano ormai venute meno, i
suoi componenti riprendendo piena libertà di azione; in seguito a
ciò la persona più in vista era il Salandra, che effettivamente fu
indicato al Re da me e dalla maggioranza delle persone consultate.
Il Salandra venne da me perchè l'aiutassi a comporre il Ministero,
e sopratutto perchè persuadessi il San Giuliano a rimanere come
Ministro degli Esteri; al che il San Giuliano opponeva molta
resistenza, non inducendosi ad accettare se non dopo che io lo
ebbi vivamente pregato di farlo, per la continuità della politica
estera, che in quegli anni aveva avuta una così essenziale
importanza anche per l'Italia.
Il nuovo Ministero, appena insediato dovette affrontare alcune
difficoltà, fra cui una specie di agitazione semi-anarchica
nell'Italia centrale, ed uno sciopero parziale di ferrovieri, ciò
che il Salandra fece con fermezza, senza precipitare a misure di
reazione, cercando di contempcrare le proprie tendenze
conservatrici con la pratica liberale ormai compenetrata nella
vita del paese.
Quando, in seguito all'assassinio dell'Arciduca Ereditario
Ferdinando e della sua consorte, consumato a Serajevo per mano di
serbi, scoppiò la questione fra l'Austria e la Serbia, io non
potei credere, sino all'ultimo, che quella questione, per quanto
grave, potesse
essere ragione di una guerra europea. Ricordavo i
due
tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare,
per
aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che
il partito militare austriaco mirava
ostinatamente a tale scopo;
ma io confidavo che le
ragioni della pace, che erano così grandi e
universali,
avrebbero prevalso contro quella criminale
infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi
austriaci come mezzo per sanare le discordie
interne, con
l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che
le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano
farsi illusioni sul
contegno della Russia di fronte ad una tale
provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del
disastro che la guerra europea sarebbe stata
per tutti, avrebbero
all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse
l'immane rovina.
Nel mese di luglio ero stato a Vichy, poi a Parigi ed a Londra; e
in questa città mi trovavo negli ultimi giorni di quel mese, e
seguivo sui giornali le notizie del conflitto diplomatico, sempre
sperando che la guerra sarebbe stata evitata. Ma quando vidi
l'intimazione della Germania alla Russia di disarmare entro dodici
ore, ed alla Francia entro ventiquattro , capii che oramai la
guerra era decisa e partii immediatamente per l'Italia. Passando
per Parigi, il 1.° agosto, mi fermai, e mi recai immediatamente
all'Ambasciata d'Italia, dove non trovai Tittoni, che era in
viaggio di congedo nel Mare del Nord. C'era invece il primo
Segretario di Ambasciata, principe Ruspoli, al quale espressi la
mia opinione, che l'Italia non avesse obbligo, pel Trattato della
Triplice, di entrare in guerra, visto che l'Austria aggrediva la
Serbia, mentre il Trattato era puramente difensivo, e prescriveva
il nostro intervento a fianco delle alleate solo nel caso che esse
fossero aggredite. E realmente si ripeteva il duplice caso del
1913, quando io avevo fatto dire all'Austria che se essa aggrediva
la Serbia, noi non avevamo l'obbligo di intervenire, anzi avremmo
protestato. Ed aggiunsi che, a mio avviso, l'Italia doveva
dichiarare senz'altro la propria neutralità. Il principe Ruspoli,
di sua iniziativa, credette bene di comunicare subito questa mia
opinione al San Giuliano. Ritornato in Italia, e fermatomi a
Bardonecchia, dove era la mia famiglia, ricevetti una lettera di
San Giuliano ed una di Salandra, entrambe con la data del 3
agosto. San Giuliano mi scriveva:
«Ruspoli mi telegrafa la tua opinione sulla politica da seguire in
questi gravi momenti. È appunto quella che sino dal primo momento
io ho proposta a Salandra ed a S. M. il Re, e che è stata
adottata. Anche questa volta tu ed io abbiamo avuto lo stesso
pensiero senza avere avuto modo di scambiare le nostre idee.
Salandra ti ha fatto cercare per avere il tuo consiglio, e sarà
lietissimo ora di sapere che è conforme
all'attitudine adottata. Spero
di tutto «cuore che la tua salute sia buona.
«Saluti cordiali, con devota amicizia del tuo
aff.mo di San Giuliano».
A questa lettera io risposi, il 5 agosto, nei termini seguenti:
«Carissimo Amico,
«Sono stato a Vichy, poi a Parigi e Londra e devo confessare che
non credevo alla possibilità che con tanta leggerezza si
provocasse una guerra europea. Non vi credei che il 31 luglio, ed
il 1.° agosto partii precipitosamente da Londra per l'Italia.
«Il modo con cui l'Austria provocò la conflagrazione fu veramente
brutale, e rivela o una incoscienza o il deliberato proposito di
volere una guerra europea. Sbaglierò, ma la mia impressione è che
essa, più di tutti, ne pagherà le spese.
«Per fortuna la cosa fu condotta in modo da giustificare la nostra
neutralità. Non mi nascondo che questa potrà avere anche
conseguenze non buone per noi, ma il Governo ora non poteva
seguire altra via. Un conflitto dell'Italia con l'Inghilterra non
è possibile, e il modo come la guerra fu provocata dall'Austria
avrebbe reso molto difficile persuadere il nostro paese a
parteciparvi con entusiasmo. Aggiungasi che evidentemente
l'Austria si propone fini che non concordano coi nostri interessi.
«Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare i nostri buoni
rapporti con l'Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per
limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto.
Come ritengo pure che dobbiamo tenerci militarmente pronti.
«Ti auguro buona fortuna, perchè ciò significa anche la fortuna
d'Italia; ti prego di salutare da parte mia l'on. Salandra, e ti
stringo cordialmente la mano
aff.mo Giolitti».
La lettera dell'on. Salandra, che riproduco integralmente, diceva:
«Caro Giolitti,
«Nei giorni scorsi, quando diventarono improvvisamente imminenti
le gravi decisioni circa l'atteggiamento dell'Italia nella
conflagrazione europea, che non si è potuta evitare nonostante i
nostri sforzi, avrei voluto sentire, nell'interesse dello Stato,
il tuo consiglio. Ma il prefetto di Cuneo, al quale chiesi dove tu
ti trovassi, mi rispose che eri a Londra, prossimo a ritornare,
aggiungendo che il tuo indirizzo non era noto.
Incalzarono intanto gli avvenimenti, ed ora apprendo quasi
contemporaneamente il tuo passaggio per Parigi ed il tuo arrivo a
Bardonecchia.
Ho saputo pure che a Parigi hai espresso parere favorevole alla
interpretazione da noi data al Trattato della Triplice,
interpretazione che oltre all'essere, a senso mio, giuridicamente
esatta, corrispondeva al sentimento prevalente nella grande
maggioranza del paese. E la tua opinione conforme è per me di
grande importanza.
Non mi nascondo però le gravi ragioni che militavano per una
diversa risoluzione; e so bene che gli avvenimenti, i quali si
svolgeranno nessuno può dir come, faranno sorgere altri problemi e
imporranno altre risoluzioni; le quali, oltre che sulla politica
estera, avranno conseguenza di massima importanza sulla politica
interna e sulla politica economica del paese.
Mi sarebbe perciò gratissimo giovarmi della tua lunga esperienza
di governo e discorrere con te sulle più probabili ipotesi per
l'avvenire, nonché sui provvedimenti più urgenti; e cercherei ben
volentieri il modo d'incontrarti anche fuori di Roma, se nei
momenti presenti non mi fosse impossibile lasciare la «Capitale
anche per un giorno.
Non posso quindi se non pregarti di tenermi informato del tuo
sicuro recapito nel prossimo periodo, affinchè io, se possibile,
abbia modo di prendere un contatto con te.
Ti stringo cordialmente la mano
iaff.mo A. Salandra».
A questa lettera io risposi, il 6 agosto:
«Caro Salandra,
«Io resto a Bardonecchia domani; vado a Torino il giorno 8, e poi
il 9 a Cuneo per il Consiglio provinciale, e dopo torno qui a
Bardonecchia, dove conto restare sino alla fine del mese.
Sono però a piena disposizione tua. Tu non puoi muoverti da Roma,
e quindi verrò io a Roma ogni qual volta tu possa desiderarlo.
Scrissi ieri a San Giuliano le ragioni per le quali sia da
approvare la deliberazione presa.
Disponi dunque di me per qualunque cosa che tu creda io possa
fare.
Con una cordiale stretta di mano
aff.mo Giolitti».
All'adunanza del Consiglio provinciale di Cuneo a cui nella
lettera all'on. Salandra accennavo, io, prendendo la presidenza,
pronunciai le seguenti brevi parole:
«Noi ci riuniamo in un momento angoscioso per tutta l'Europa, e
grave per il nostro paese.
Il Consiglio Provinciale, corpo amministrativo, non può
pronunciarsi su questioni politiche. Ma io sono certo di
interpretare il pensiero di tutti i colleghi e dell'intera
provincia, affermando che, di fronte ai pericoli che possono
minacciare l'Italia, un solo pensiero ci anima: la solidarietà col
Governo, che, senza distinzioni di parti politiche, appoggeremo
lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la
tutela dei nostri diritti e per assicurare all'Italia il posto che
le spetta nel mondo.
Noi guardiamo sicuri all'avvenire, forti della concordia di tutto
il popolo e della fiducia assoluta nell'amato nostro Re».
Il giorno dopo ricevetti dall'on. Salandra il seguente
telegramma:
«A nome del Governo e personalmente ti ringrazio delle nobili
parole che tu pronunziasti iniziando i lavori di codesto Consiglio
Provinciale. Esse inciteranno autorevolmente gli italiani alla
solidarietà, alla fermezza, alla calma, così necessarie nel
gravissimo momento che attraversiamo. — Salandra».
Per concludere la rassegna delle opinioni allora manifestate,
pubblicamente o privatamente, dagli uomini politici più in vista,
posso ricordare di avere saputo poi, da fonte sicurissima, che
l'on. Sonnino, allo scoppio della guerra europea, era
dell'opinione che noi dovessimo seguire gli alleati; e che tale
opinione egli manifestò apertamente agli amici arrivando a Roma,
dove il Salandra l'aveva pure chiamato per sentire il suo avviso,
troppo tardi e quando la deliberazione della neutralità era già
stata presa. Molti altri, specie fra i nazionalisti, che poi
furono fra i più accesi fautori della guerra contro gli Imperi
centrali, accusando di tradimento chi da loro dissentiva, in quel
primo momento avevano espresso e sostenuto il concetto che noi
dovessimo schierarci a fianco degli alleati, e biasimavano il
Governo per la sua decisione neutralista.
Nel mese di settembre io dovetti entrare nell'Ospedale Mauriziano
di Torino per sottopormi ad una piccola operazione, che fu fatta
dal mio amico senatore Carle. In seguito a quella operazione, mi
si sviluppò una polmonite che mi tenne all'ospedale per una
ventina di giorni, ed alquanto debole per alcune settimane
susseguenti, che passai nella mia residenza di Cavour. Per tutto
quel tempo io rimasi affatto estraneo a discussioni, né ebbi
informazioni particolari da alcuna parte; solo nelle conversazioni
che avevo con amici che venivano a trovarmi, io manifestavo la mia
soddisfazione che l'Italia fosse rimasta neutrale.
Venni poi a Roma per l'apertura della Camera, in ottobre; e
siccome sapevo da sicura fonte che negli stessi paesi che dalla
nostra neutralità erano stati beneficati e forse salvati nel primo
urto dell'immane conflitto, vi erano molti che non nascondevano
l'opinione o almeno il dubbio che la nostra condotta, astenendoci
dall'intervenire nella guerra a fianco dei paesi coi quali eravamo
legati da così lunga alleanza, non fosse perfettamente leale, io
colsi l'occasione della discussione parlamentare per fare
dichiarazioni e ricordare quell'episodio del tentativo di
aggressione dell'Austria contro la Serbia, narrato in tutti i suoi
particolari nel precedente capitolo di queste «Memorie», e
l'atteggiamento allora assunto dall'Italia, che giustificava
pienamente la nostra condotta allo scoppio della guerra, in quanto
dimostrava che tale interpretazione dei nostri obblighi
nell'alleanza era stata già chiaramente espressa in altra
occasione, senza che né Austria né Germania avessero fatta la
menoma obbiezione.
È assai curioso il fatto che, mentre quelle mie dichiarazioni e
rivelazioni tornavano a tutto vantaggio dell'Italia, ci fossero
dei deputati e dei giornali, amici del Governo, i quali tentarono
di smentire la cosa. Della quale però, per la ragione della mia
lontananza da Roma quando quel tentativo austriaco di involgerci
in una guerra balcanica fu compiuto, esisteva una intera
documentazione nei telegrammi e lettere scambiati in
quell'occasione fra me e San Giuliano, solo alcuni dei quali ho
riportato nel capitolo precedente e che furono poi trovati anche
alla Consulta. Non capii allora e non ho mai capito perchè certi
amici del governo dell'on. Salandra si risentissero di quelle mie
dichiarazioni che pure giustificavano le sue decisioni, e
cercassero di svalutare un fatto che dimostrava agli occhi di
tutta l'Europa la perfetta correttezza nostra nel mantenere la
neutralità allo scoppio della grande guerra.
In tutto quel periodo e sino alle vacanze di Natale io non ebbi
con l'on. Salandra e con altri uomini del governo alcun
particolare rapporto. Trovai che nei circoli politici e nella
stampa la discussione sulla neutralità si andava facendo sempre
più ardente ma in un altro senso; discutendosi se a noi convenisse
o no di intervenire insieme alle Potenze dell'Intesa contro i
nostri vecchi alleati. Alle discussioni che si facevano nei
corridoi della Camera io allora partecipai, manifestando
apertamente le mie opinioni e dandone le ragioni.
I fautori della guerra sostenevano allora l'urgenza di
prendervi parte, ritenendo che essa sarebbe stata di
breve durata; temevano che, venendo a finire senza il nostro
intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere
l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro,
rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra
in tre o quattro mesi. E che anche il Governo prevedesse allora
una guerra brevissima è provato da molti indizi, e sopratutto dal
testo del Patto di Londra, col quale l'Italia si obbligava di
entrare in guerra. In quel Patto infatti, per la parte
finanziaria, si era stipulato solamente l'obbligo dell'Inghilterra
di facilitare all'Italia un prestito di cinquanta milioni di
sterline, somma inferiore a quanto abbiamo poi speso in ogni mese
di guerra; inoltre in quel Patto non si era fatto
accordo alcuno per i noli marittimi, né per gli
approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie
che a noi mancano, e che erano indispensabili per una guerra che
non fosse brevissima. Anche i provvedimenti finanziari interni
erano stati ordinati solo per alcuni mesi; ed alcuni dispacci
diplomatici, pubblicati nel Libro Verde distribuito al Parlamento
alla nostra entrata in guerra, e che preannunciavano
come imminente l'uscita dell'Austria dal conflitto e
la sua pace separata con la Russia, mostravano, pel l'atto stesso
della loro pubblicazione in quel momento, che il Governo pensava
che qualunque ritardo potesse essere pericoloso.
Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata
lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente; a tutti i
colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discorrerne. A
chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe
durata almeno tre anni, perchè si trattava di debellare i due
Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre
quarantanni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una
popolazione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le
armi sino a venti milioni di uomini; che l'esercito
dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in piena
efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente
nel 1917; che il nostro fronte, sia verso il Carso, sia verso il
Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra
parte che atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la
guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli
italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di
popolazione, si avevano l; maggiori probabilità che trattative
bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più
consideravo che; l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra
l'Austria ed Ungheria, e sopratutto perchè minato dalla ribellione
delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi,
czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne
formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a
dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe
pacificamente unita all'Italia.
Inoltre, ricordando le peripezie della Russia durante la guerra
col Giappone, e la violenta rivoluzione scoppiata dopo quella
guerra, a me pareva
dubbio che ad una guerra di molti anni
quell'Impero
potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti
di
America, che fu poi la vera determinante di una più
rapida
vittoria, allora nessuno pensava, né poteva
pensare.
Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini
che avrebbe imposti la guerra per la terribile sua violenza, dati
i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa che la
scienza e la tecnica moderna avevano inventati e che allora erano
già messi in opera sul fronte francese e sul fronte russo; come
era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe
segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse arriso
una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe
richiesto colossali sacrifizi finanziari, specialmente gravi e
rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali,
con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione.
Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere
di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze
belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio
europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente
serbando intatte le sue forze.
I fautori della guerra facevano anche appello al sentimento
popolare offeso dalla violazione della neutralità del Belgio; ma
l'Italia, come l'America, non era fra le Potenze che avevano
garantita quella neutralità, e l'America non si mosse se non
quando il suo intervento era richiesto dall'interesse del suo
popolo. In una lettera pubblicata nei giornali il 1915, e che più
avanti riporto, io osservavo che non si può portare il proprio
paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma
solo per la tutela del suo onore e dei suoi primarii interessi.
Tali sono le ragioni pratiche, che possono essere ricordate da
amici ed avversari, per le quali io esprimevo parere contrario
all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda
le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e
dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono
poi pienamente confermate dagli avvenimenti.
Nel mese di dicembre del '14, mentre la Camera era ancora aperta,
era venuto a Roma, quale inviato speciale della Germania, il
Principe di Bülow, riguardo ai miei rapporti col quale si crearono
e diffusero malignamente le più strane leggende. Ecco a che cosa
quei rapporti si erano ridotti: un giorno io l'avevo casualmente
incontrato in Piazza del Tritone; ci fermammo un momento, ed egli
mi disse che sarebbe venuto a trovarmi. Gli risposi che sarei
passato io da lui. E così feci. La conversazione che avemmo in
quella occasione fu in termini affatto generici, sulla situazione
generale d'Europa; da una parte e dall'altra cercando di evitare
di entrare in materie delicate.
Io non intendevo assolutamente di entrare a
parlare di cose che
erano di competenza esclusiva del
governo, ed egli, che mi
conosceva da lunghi anni,
si rendeva certamente conto di questo
mio atteggiamento. Ricordo che, quasi per un complimento, io
gli
dissi che se egli fosse stato alla testa del governo
tedesco,
probabilmente la guerra si sarebbe evitata,
perchè egli avrebbe
procurato di non avere contro
nello stesso tempo l'Inghilterra e
la Russia; — egli
sorrise ma non rispose. Due giorni dopo egli
venne
per restituirmi la visita, e non avendomi trovato in
casa,
mi lasciò la sua carta; e dopo d'allora io non
ebbi più occasione
di vederlo, né ebbi con lui rapporti di alcun genere, né diretti
né indiretti. L'ho
poi rivisto solo quest'anno (1922)
incontrandolo al
Pincio.
I giornali amici del Ministero Salandra avevano cominciato a
muovermi attacchi ed accuse sino dal principio dell'autunno; fra
l'altro avevano messo in giro la voce che il governo era stato
costretto ad ogni modo a proclamare la neutralità pel grave stato
di impreparazione e debolezza in cui i Ministeri da me presieduti
avevano lasciato l'esercito e la marina, e perchè con la guerra di
Libia si erano esauriti i magazzini militari, senza poi provvedere
a reintegrarli. La prima accusa, assolutamente assurda, ripetuta
anche alla Camera, fu facilmente smentita e dimostrata falsa
dall'on. Tedesco, già mio Ministro del Tesoro, in un discorso
pronunciato il 4 dicembre, recando cifre che non ammettevano
replica e che infatti fecero tacere gli accusatori, alla testa dei
quali si trovava l'on. Colajanni, cioè uno di quei deputati che
avevano più costantemente avversate le spese militari, e che poi
erano diventati improvvisamente guerrafondai.
L'on. Tedesco potè infatti dimostrare che nel sessennio occupato
specialmente dai miei due Ministeri, e cioè fra il 12 luglio 1907
e il 30 giugno 1913, le spese annue per l'esercito e la marina
erano state quasi raddoppiate, salendo da 474 a 821 milioni;
mentre nel sessennio precedente, e cioè dal 1901 al 1907,
l'aumento era stato solo di 45 milioni; e che l'incremento
maggiore, e cioè di 173 milioni, si era ottenuto appunto
nell'ultimo biennio. Nella marina poi, in un solo quinquennio, dal
1909 al 1913 si era assegnatala somma di un miliardo e cento
milioni per la rinnovazione della flotta. E negli ultimi mesi del
mio Ministero, fra me e il Ministro del Tesoro, il Ministro della
Marina ed il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, si era
stabilito un piano di provvedimenti che importava una spesa
straordinaria di 500 ed ordinaria di 70 milioni da portare in
aumento al bilancio nello spazio di quattro anni; alcuni dei quali
provvedimenti, ed i più costosi, erano stati anche annunciati dal
Ministro del Tesoro nell'esposizione finanziaria fatta il 20
dicembre 1913.
E passando dalle spese agli uomini, era da osservare che la forza
bilanciata, che con la legge di bilancio dell'esercizio 1909-10
era fissata in 205 mila uomini, era stata portata a 275 mila
col progetto del bilancio presentato dal mio Ministero nel
novembre del 1913. Ed a tutto questo si deve aggiungere che
appunto sotto i Ministeri da me presieduti si erano costruite, con
spesa ingente, le fortificazioni verso la frontiera austriaca,
prima disarmata.
Quanto alla seconda accusa, che non fossero stati ricostituiti i
magazzini militari dopo la guerra di Libia, io scrissi subito allo
Spingardi, al quale competeva una speciale responsabilità, non
solo per la sua qualità di Ministro della Guerra all'epoca della
guerra di Libia, ma perchè già aveva date precise assicurazioni in
proposito al Parlamento. Lo Spingardi non volle entrare in
polemiche pubbliche, ma poi più tardi, e poco prima della sua
morte, si fece chiamare dalla Commissione d'inchiesta istituita
dal Governo per accertare le responsabilità del disastro di
Caporetto, e vi fece una ampia e documentata esposizione delle
condizioni in cui era l'esercito dopo la guerra libica, dalla
quale risulta quanto fossero ingiuste le accuse mosse al Ministero
di cui egli era parte. La Commissione infatti pronunciò questo
giudizio sulle condizioni dell'esercito prima della guerra: — «Non
si può negare che esso corrispondeva ad una condizione comune
degli Stati dell'Intesa, alieni da intenzioni aggressive, e che
con tutto ciò costituiva già un non lieve aggravio per l'erario,
assorbendo nel 1914 per il solo esercito (esclusa cioè la marina)
un quinto del bilancio passivo, e cioè 450 milioni su 2522.
Ingiuste per tanto debbono ritenersi le voci che eccessivamente
hanno insistito (e talune forse per dare risalto all'opera di
ricostruzione) sulla nostra impreparazione alla guerra».—
Infine, per dare una cifra, va ricordato che, sempre nel sessennio
1907-1913, durante il quale la responsabilità del governo fu
sopratutto mia, il valore della consistenza patrimoniale dei
magazzini militari era salito da 837 milioni a un miliardo e 263
milioni, con un aumento di 426 milioni, cioè di oltre il cinquanta
per cento. E sino dai primi mesi della guerra di Libia si era dato
ordine per la reintegrazione dei magazzini e la ricostituzione
sollecita delle scorte, adibendovi la somma di 162 milioni,
inscritta ai fondi speciali della guerra di Libia. Per la marina
basterà una cifra: al principio della guerra italo-turca la
quantità di carbone esistente nei depositi della marina era di
1.24 mila tonnellate; alla fine della guerra era più che
triplicata, ammontando a 395 mila tonnellate.
Messe a posto queste accuse, e chiusa questa polemica diretta
contro di me, un'altra, e sempre dalla stessa parte, fu suscitata,
facendosi circolare la voce che io intendevo di abbattere il
Ministero e di crearne ,un altro da me presieduto, col programma
della, neutralità assoluta. Di queste voci ebbi avviso per lettere
di amici, fra gli altri Peano, Malagodi e Co-losimo. A queste
lettere risposi, esprimendo le mie opinioni, e respingendo
qualunque idea di una crisi, anzi dichiarando espressamente «che
sarebbe molto male fare una opposizione al Ministero; che il paese
giudicherebbe male tale contegno, e che era bene che in momenti
così difficili il governo avesse piena autorità». Ed aggiungevo:
«Sono del resto persuaso
che se la situazione europea non si muta
sostanzialmente, il Governo non impegnerà il paese in una
guerra
difficile, sanguinosa, costosissima, e non voluta
dalla immensa
maggioranza». E poiché si continuava
a parlare di intrighi
politici, mischiandovi il mio
nome, io scrissi al Peano dicendogli
che, a mettere
ad essi fine, la miglior cosa era di fare
pubblicare
nella Tribuna, che si era già espressa chiaramente
e
per conto suo in tale senso contro le voci tendenziose, una
lettera che io gli avevo scritto alcuni giorni
avanti. E così fu
pubblicata quella lettera, che qui
riproduco: ,
«Cavour, 24 gennaio 1915.
Caro Amico,
È stranissima la facilità con la quale, parte in buona, parte in
mala fede, si formano le leggende. Ora due tendono a formarsi; una
di pretesi miei rapporti col Principe di Bülow, l'altra la
opinione che mi si attribuisce che si debba mantenere in modo
assoluto la neutralità in qualunque caso.
Conosco il Principe Bülow da molti anni; ho
grande stima del suo
ingegno e del suo carattere;
l'ho sempre trovato amico
dell'Italia, beninteso mettendo sempre in prima linea il suo
paese, come è
suo dovere.
Egli quando era a Roma come semplice privato veniva spesso a
trovarmi. Ora, che venne a Roma come ambasciatore, lo incontrai
per caso in piazza del Tritone; egli mi disse che voleva venire a
trovarmi; io gli risposi che essendo io un disoccupato sarei
andato da lui, e così feci l'indomani. Si parlò in modo affatto
accademico dei grandi avvenimenti; ma mi guardai bene dall'entrare
nell'argomento del contegno che debba tenere l'Italia. Avrei
mancato al mio dovere, ne egli entrò in tale argomento, perchè
egli è uomo che non manca mai alle convenienze.
Alcuni giorni dopo venne a rendermi la visita; io non ero in casa,
mi lasciò una carta da visita e non lo vidi più essendo io partito
da Roma.
La mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra
leggenda.
Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i
nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare
solo quando è necessario per l'onore e per i grandi interessi del
paese.
Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per un
sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento ognuno può
gettare la propria vita, non quella del paese. Ma quando fosse
necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho
provato.
Credo molto, nelle attuali condizioni dell'Europa, potersi
ottenere senza guerra, ma su di ciò chi
non è al governo non ha
elementi per un giudizio
completo. .
Quanto alle voci di cospirazioni e di crisi non le credo
possibili. Ho appoggiato ed appoggio il Governo,
nulla importandomi delle insolenze di chi si professa suo amico ed
invece è forse il suo peggior nemico.
«Gradisca i miei più cordiali saluti
aff.mo Giolitti»
.
Quantunque quella lettera esprimesse idee che corrispondevano
pienamente all'azione che il Governo aveva cominciato a svolgere
sino dal 9 dicembre con la prima Nota all'Austria, stampata poi
nel Libro Verde, e che continuò a svolgere ancora per alcuni mesi;
e quantunque essa si opponesse decisamente alle velleità di crisi
e di opposizione, le malignazioni ed insinuazioni continuarono.
Per cui io., rispondendo ancora, il 3 aprile, ad un'altra lettera
dell'onorevole Peano, scrivevo: «Lo spettacolo più doloroso è
quello che danno molti uomini politici, i quali cercano di
risuscitare le antiche gare, che furono la vera peste dell'Italia,
parteggiando per nazioni straniere, anziché pensare agli interessi
veri del nostro paese. Io conto di restare qui a Cavour per molto
tempo, per evitare la nausea di pettegolezzi che, a Camera chiusa,
infestano la vita politica».
E così feci; e per tutto quel periodo non ebbi rapporti di alcun
genere con nessuno; solo constatavo che la corrente contro la
guerra andava diventando in tutto il Piemonte predominante in
misura straordinaria, e che tutti gli uomini politici di quella
regione si mostravano apertamente e decisamente contrari al nostro
intervento nell'immane conflitto.
Tornai a Roma nel mese di marzo, per la riapertura della Camera.
Trovai l'ambiente assai agitato, anche per ragione del ritardo dei
soccorsi, e dell'azione, che pareva poco efficace, compiuta dal
Governo pel terremoto della Marsica. Molti deputati mostravano
apertamente di non fidarsi della condotta del governo, temendo che
si lasciasse trascinare alla guerra, e molti dei miei amici
politici credevano opportuno provocare una crisi. Io ero invece di
contrario avviso, perchè si sapeva ormai che trattative erano
avviate fra il governo e l'Austria,
ed io pensavo che non si dovesse in alcun modo
disturbare tale azione, avendo io piena fiducia che il Governo
comprendesse la convenienza di ottenere dall'Austria le
maggiori concessioni evitando di portare
il paese al rischio della guerra.
Queste mie convinzioni e sentimenti io
procurai di fare prevalere presso i miei amici;
mentre nelle conversazioni che in quei giorni ebbi assai
frequenti, nelle sale del Parlamento, specie con gli uomini
politici che volevano la guerra e si industriavano a
persuadermi della sua convenienza, sostenendo sempre che sarebbe
stata brevissima, e che il nostro intervento sarebbe riuscito
decisivo; io sostenevo il mio punto di vista, già espesto, sulle
difficoltà ed i sacrifizi a cui si sarebbe andati incontro; e
ricordo che dicevo loro che, lungi dal credere ad una prossima
fine, io ero d'avviso che la guerra fosse appena incominciata, e
che quindi ad ogni modo non c'era ragione di avere fretta.
Il Governo intendeva di domandare un
voto di fiducia, con piena
libertà d'azione, riferendosi
ai negoziati, ormai a tutti noti, che stava conducendo, L'on.
Salandra, qualche giorno avanti questo voto e prima che il
Parlamento si chiudesse per le vacanze di Pasqua, desiderò di
avere un colloquio meco, e venne a trovarmi a casa mia. Avemmo una
conversazione nella quale egli mi confermò le voci che il
Governo stesse trattando con l'Austria, senza però entrare
in particolari. Io gli dissi che era mio desiderio che il
Parlamento gli desse modo di premere sull'Austria tanto da potere
ottenere le massime concessioni possibili. Questa conversazione mi
persuase sempre più della necessità di lasciare mano libera al
Governo, e mi convinse pure che non c'era affatto ragione di
allarmarsi per i provvedimenti militari che il Governo stava
prendendo, i quali, mentre erano generalmente giustificati dalla
situazione, dovevano sopratutto servire a dimostrare all'Austria
la necessità per essa di affrettarsi a fare serie concessioni.
Da questa conversazione io avevo del resto ritratta la precisa
impressione che il proposito del Governo non era di entrare
in guerra, ma di premere con tutti i mezzi per
persuadere l'Austria a mettere fine alle sue tergiversazioni, ed a
decidersi a soddisfare alle giuste esigenze italiane, in base
all'art. 7 del Trattato di alleanza ed alle convenzioni
particolari pei Balcani; e questa
mia impressione io la manifestai apertamente a molti
amici. Il contrasto voluto poi stabilire fra la mia
cosidetta politica neutralista e delle concessioni, e la politica
del Governo, non ha ragione di essere, ed è anzi smentito
decisamente dalla stessa pubblicazione del Libro Verde; la quale
dimostra come il nostro Governo trattasse lungamente con Vienna
per ottenere delle concessioni, appoggiato in ciò dalla Germania;
e come anche all'ultimo fossero fatte delle richieste moderate, e
quindi intese evidentemente a che fossero accettate, fra l'altro
rinunciando alla aspirazione, pure giustificatissima, che la città
italiana di Trieste fosse inclusa nei confini del Regno.
E certo il torto del fallimento di quelle trattative, fu
principalmente dell'Austria, col respingere, sino a quando apparve
poi essere troppo tardi, le domande che il Governo italiano aveva
avanzate con spirito di equità e di moderazione.
Dopo la mia conversazione con l'on. Salandra, io esortai
caldamente i miei amici, pure ancora dubitosi, a votare pel
Governo. Una crisi in quel momento, nel mio pensiero, avrebbe
avuta una di queste due conseguenze: —o sarebbe venuto un
Ministero propenso alla guerra, e questo io non potevo approvare;
o veniva un Ministero a tendenze troppo evidentemente neutraliste,
ed allora non si sarebbero ottenute dall'Austria le concessioni,
senza le quali la guerra non avrebbe potuto essere evitata. Le mie
argomentazioni persuasero i miei amici, e il Ministero ottenne il
voto di fiducia, per la piena libertà d'azione, che aveva
richiesto.
Durante il mese di aprile ricevetti da amici ed anche da altre
persone del mondo politico con le quali ordinariamente non avevo
domestichezza, lettere di più in più allarmanti, che mi
segnalavano il pericolo che l'Italia fosse trascinata di sorpresa
alla guerra, indicando indizi e raccogliendo voci, ma senza niente
di veramente preciso. Erano preoccupazioni ed allarmi che potevano
rispondere semplicemente alla polemica, che si agitava sempre più
vivace nei giornali, fra le due schiere degli interventisti e dei
neutralisti, in cui si era ormai divisa la pubblica opinione. Un
solo fatto mi fu segnalato che avrebbe potuto essere assai
significante, e che cioè alla cerimonia di Quarto, per la quale
era stato chiamato come oratore il D'Annunzio, che aveva già
manifestato in modo acceso la sua convinzione che l'Italia dovesse
partecipare alla guerra, sarebbe intervenuto il Re; ma ciò poi non
avvenne.
Il 29 aprile ricevetti una lettera di un notevole personaggio
tedesco, amico del Principe di Bülow, e che io avevo già
conosciuto ad Homburg nella occasione del mio incontro colà col
Principe stesso, parecchi anni avanti; il conte von Hutten
Czapxski, il quale mi scriveva da Milano dicendomi di essere
venuto direttamente dalla Germania, e di parergli suo dovere di
chiedermi il grandissimo favore di un colloquio, nella speranza di
rendere un servizio ai nostri due paesi. A quella richiesta io
risposi con la lettera seguente:
«Cavour, 29 aprile, 1915.
Onorevole Signor Conte,
Ella non può dubitare che con gran piacere avrei una conferenza
con Lei; ma le circostanze attuali sono tali che ho dovuto
prendere la decisione di astenermi da qualunque atto che sia o
possa appjarire ingerenza mia nelle questioni di politica estera.
Con la migliore intenzione potrei produrre un effetto contrario ai
miei desideri.
Questo posso dirle, che l'Austria, con la sistematica persecuzione
d'egli italiani suoi sudditi, ha creato in Italia una opinione
pubblica ostilissima ad essa, e di ciò credo sia anche Ella
informata.
Quanto alle trattative in corso, mi consta che le ottime
intenzioni della Germania incontrano ostacolo insuperabile nella
mala volontà dell'Austria, la quale fa offerte assolutamente non
tali che possano condurre ad una soluzione pacifica.
Anche ora l'Austria arriverà troppo tardi, perchè la sua mentalità
non le permette di comprendere la mentalità e i sentimenti degli
italiani.
So che il Governo italiano fa domande ragionevoli,, e chiede il
minimo occorrente ad una soluzione pacifica; la sola opera che
praticamente possa conservare la pace deve essere rivolta a
persuadere l'Austria a cedere ciò che non potrà a meno di perdere,
e che per essa oramai non costituisce più che una debolezza,
poiché non potrà contare mai sulla devozione degli attuali suoi
sudditi italiani.
Sono proprio dolente di non potere avere una conversazione con
Lei; ma da un lato non potrei dirle che ciò che Le scrivo, e
dall'altro ogni mia anche indiretta ingerenza potrebbe avere per
effetto di creare equivoci dannosi.
Gradisca, signor Conte, gli attestati della più distinta stima
Giovanni Giolitti».
Questi, furono i cosidetti obliqui contatti che io ebbi coi
rappresentanti e personaggi austriaci e tedeschi in quei mesi
della neutralità italiana.
Altre lettere ricevetti da Roma, nei primi giorni di maggio, da
parte di amici che insistevano sugli indizi che ormai il Governo
fosse deciso alla guerra. Sino all'ultimo io non avevo però avuta
notizia alcuna di impegni che il Governo avesse preso, o anche
soltanto di deliberazioni in tale senso; e quando partii da Torino
per Roma, io non venivo che per la prossima apertura della Camera,
ed anche per rendermi conto da vicino di ciò che stava accadendo.
Alla partenza da Torino ci fu un primo episodio di tentata
intimidazione, evidentemente preordinato; un certo numero di
giovanotti vennero a fischiarmi alla stazione, e furono redarguiti
dagli amici che mi accompagnavano. Arrivando a Roma, la cosa si
ripetè in maggiori proporzioni.
Alla stazione fui avvertito che una folla di nazionalisti mi
attendeva per farmi una dimostrazione ostile, e fui consigliato di
uscire, non dalla porta solita, ma da una di passaggio; ma io
rifiutai, rispondendo che volevo passare per dove ero passato
sempre, e che se c'era una dimostrazione contro di me era bene che
io la vedessi. E infatti un gruppo di dimostranti attorniò me e
gli amici che erano venuti ad incontrarmi, e mi accompagnò sino a
casa mia, fischiando e gridando abbasso. Quando io fui al portone,
mi rivolsi e dissi loro: — Ma almeno per una volta tanto gridate
«viva l'Italia!» —
Nella giornata e nella mattinata seguente ricevetti oltre trecento
biglietti da visita e lettere di deputati che si dichiaravano
d'accordo con l'opinione, da me sempre apertamente manifestata,
che non si dovesse allora entrare in guerra; e pure molte lettere
e biglietti di Senatori. Erano una dimostrazione del sentimento e
del pensiero della maggioranza parlamentare. Quei deputati e
senatori furono poi accusati di faziosità, e di avere tentato di
sovrapporsi alle prerogative della Corona, a cui compete nello
Statuto la decisione per la guerra e per la pace. Ora io ricordo
in proposito che quando la Germania dichiarò la guerra alla
Francia, Asquith, dopo avere convocato il Consiglio dei Ministri,
chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: — Il
Governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia
nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa
decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo
l'approvazione del Parlamento. — La Costituzione nostra è in ciò
simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della
guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito
senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al
Parlamento.
La mattina del giorno 7 ricevetti un biglietto di Carcano, allora
Ministro del Tesoro, che mi diceva di avere bisogno di parlarmi
nella giornata. Io gli fissai un appuntamento per le quattro e
mezza del giorno dopo, perchè nel pomeriggio mi recavo a Frascati,
dove era mia moglie, e dove intendevo trattenermi sino al
pomeriggio dell'indomani. Il Carcano venne all'appuntamento
fissato, ed avemmo una lunga conversazione, nella quale egli mi
espose largamente le ragioni per le quali il Governo credeva
necessario di entrare allora in guerra. Io ribattei pure
lungamente le sue argomentazioni, dimostrandogli tutti i pericoli
ai quali l'Italia sarebbe andata incontro. Il Carcano si commosse
molto alle mie parole, e gli vennero le lacrime agli occhi; ma
concluse che ormai la decisione del Governo di entrare in guerra
era definitiva. Egli non mi parlò però in alcun modo, né fece il
menomo accenno di un trattato che fosse stato sottoscritto; e il
suo silenzio su questo punto lo compresi solo qualche anno dopo
quando, il Trattato di Londra essendo stato pubblicato dai
bolscevichi, vidi che c'era in esso l'impegno formale di tenerlo
segreto. Prima che mi spiegassi il suo silenzio per tale ragione,
era perfino sorto in me il dubbio che egli non ne avesse
conosciuta l'esistenza, perchè fra lui e me vi era tale intimità,
sino dal tempo che egli era stato mio sottosegretario nel 1893,
che senza quell'obbligo del segreto non avrei capito che egli non
me ne avesse parlato più apertamente e non me l'avesse confidato,
sapendo che poteva fare pieno assegnamento sul mio silenzio.
Ricevetti poi l'invito di recarmi da Sua Maestà il Re, che vidi il
mattino del giorno appresso, ed al quale io esposi tutte le mie
ragioni contrarie alila guerra; ma anche in quella conversazione
l'obbligo del segreto, scritto nel Trattato, impedì che io ne
fossi informato. Più tardi, verso mezzogiorno, venne da me
Bertolini, che mi aveva già informato delle offerte fatte
dall'Austria con la garanzia della Germania, e le quali del resto
erano state messe largamente in circolazione negli ambienti
italiani dal deputato tedesco Erzberger, e che si avvicinavano
assai alle domande fatte dall'Italia, come apparve poi con la
pubblicazione del Libro Verde; per dirmi che Salandra desiderava
vedermi. Io gli risposi che non avevo nessuna difficoltà; e
siccome il Salandra, nell'ultimo nostro incontro era venuto a casa
mia, così mi proposi di recarmi questa volta a casa sua. E vi
andai alle quattro dello stesso giorno.
Salandra mi disse .che sapeva della mia conversazione col Re; io
ripetei a lui tutte le ragioni per le quali credevo che l'Italia
avrebbe commesso un errore entrando in guerra nelle condizioni in
cui la guerra si presentava allora; e nessuno certo allora
immaginava nemmeno che potessero intervenire gli Stati Uniti.
Salandra mi rispose che il Governo aveva ormai presa la
deliberazione di entrare in guerra; che gli era impossibile di
tornare indietro, e che se non avesse potuto dichiarare la guerra
per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe dovuto dimettersi.
Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati
avevano espresso al mio punto di vista, donde desumeva la
possibilità che il Parlamento potesse votargli contro. Queste
stesse dichiarazioni dell'on Salandra escludono che io venissi
informato dell'esistenza del Trattato di Londra, perchè altrimenti
la conversazione e la discussione si sarebbero rivolti ad altri
punti ed avrebbero preso altro corso. Anche per lui si comprende
che l'obbligo del segreto valse ad impedirgli di darmi intera
notizia del come stessero le cose.
E dopo compresi pure che il Governo aveva un'altra e specialissima
ragione per mantenere il segreto più assoluto. L'articolo secondo
del Trattato disponeva infatti così: — L'Italia da parte sua
s'impegna a condurre la guerra con tutti i mezzi a sua
disposizione d'accordo con la Francia, la Gran Bretagna e la
Russia, contro gli Stati che sono in guerra con esse. — La guerra,
per l'articolo ultimo, doveva iniziarsi entro il 26 maggio. Per
effetto di questi patti l'Italia avrebbe dovuto entrare in guerra
nello stesso tempo contro l'Austria e contro la Germania: invece
il Ministero di quel tempo parlò sempre esclusivamente di guerra
all'Austria per la liberazione delle terre italiane irredente;
Parlamento e Paese non seppero, come non seppi io, che si entrava
in guerra contro la Germania, alla quale la guerra infatti non fu
dichiarata finché rimase al potere quel Ministro, che mancava così
al patto, destando nei paesi alleati diffidenze che cessarono
solamente quando, oltre un anno dopo, il Ministero Boselli
dichiarò la guerra alla Germania.
Tutto questo spiega perchè a me non si parlò nel maggio del 1915
del Patto di Londra.
Ad ogni modo, ritornando agli avvenimenti di quei giorni, il
Salandra parve rendersi conto delle difficoltà della situazione,
ed all'indomani, 11 maggio, presentò le sue dimissioni, lo fui
chiamato nuovamente dal Re per le consultazioni d'uso che si fanno
quando avviene una crisi ministeriale. Sempre nell'ignoranza degli
impegni formali che l'Italia aveva assunti verso le potenze
dell'Intesa, io espressi l'avviso che non potesse essere
incaricato del Governo un uomo il quale fosse ritenuto come
avverso all'entrata dell'Italia in guerra, e suggerii i nomi di
Marcora o di Carcano, i quali essendo conosciuti come uomini che
in caso di necessità sarebbero arrivati anche alla guerra si
trovavano in condizioni di ottenere dall'Austria le maggiori
concessioni.
Il Marcora, dopo essere stato in udienza dal Re, mi scrisse che
desiderava di vedermi, e venne effettivamente a trovarmi, il
giorno 14, e mi dichiarò che egli pure era d'opinione della
necessità di entrare in guerra senz'altro. Carcano non lo rividi
più. L'indomani il Re non accettò le dimissioni dell'on. Salandra;
ed io, avendo considerata finita la mia missione, il giorno 17
partii per Cavour. Per tutti quei giorni che fui a Roma,
nell'intervallo fra le dimissioni e la riconferma del Ministero
Salandra, si promossero per la città dimostrazioni e comizi,
diretti contro di me particolarmente e contro il Parlamento, senza
che la polizia intervenisse anche quando le cose passavano la
misura.
Ricordo che in un comizio tenuto al teatro Costanzi, vicino a casa
mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la
folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa
mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone
di cavalleria ed un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise
che arrivasse fino a me. La sera dopo, quando non c'era più alcuna
minaccia, si fece intorno a casa mia uno spiegamento enorme di
forze, bloccando tutte le strade che conducevano a Piazza
Esquilino. In quei giorni ricevetti un'immensa quantità di lettere
anonime, direttemi da ogni parte; erano tante che ne riempii due
volte il cestino della cartaccia. Il fatto più curioso e
caratteristico di quelle lettere anonime, provenienti da paesi
lontani l'uno dall'altro, dal Veneto, dalla Sardegna, dalla
Toscana, dalla Sicilia, era che tutte contenevano la stessa
formula, e cioè l'accusa che io avessi presi venti milioni
dall'Austria e dalla Germania per cercare di impedire la guerra.
Alcuni degli anonimi scrittori, trovando forse la cifra troppo
modesta, l'avevano raddoppiata.
Questa strana coincidenza della identità di un'accusa fantastica e
canagliesca, mi fu di conforto in quei torbidi gioirai; perchè
capii che essa non era la spontanea espressione di cittadini che
ragionassero con la propria testa, ma una cosa
preordinata ed organizzata dai fautori e dagli interessati alla
guerra ad ogni costo.
Mi ritirai a Cavour; e poiché, dopo dichiarata la guerra, ogni
cittadino, qualunque sieno le sue opinioni, ha il dovere di fare
quanto può per assicurare la vittoria, da quel giorno non una
parola uscì dal mio labbro che potesse generare sconforto o
turbare la concordia cittadina, prima necessità per un paese in
guerra. Per cui mi astenni anche dal rilevare gli insulti e dal
rispondere alle più assurde calunnie di giornali i quali, in nome
del patriottismo, seminavano la discordia. Era evidente che non
mancava chi cercava di sfruttare quella situazione agli effetti
della politica interna; e ci furono parecchi che, pretendendo di
fare del super-patriottismo accusando gli altri, in realtà
compivano una pericolosissima opera di disgregazione.
Ebbi occasione di parlare della guerra poco dopo, il 5 luglio del
1915, al Consiglio Provinciale di Cuneo, e così mi espressi: — «I
sentimenti della rappresentanza di una provincia come la nostra,
la cui storia è da secoli una serie non interrotta di lotte per
l'indipendenza dallo straniero e di devozione alla Monarchia di
Savoia, non possono essere dubbi. Quando il Re chiama il paese
alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzione di partiti e
senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell' appoggio
incondizionato al Governo, nella illimitata fiducia nell'esercito
e nell'armata. L'impresa alla quale l'Italia si è accinta è ardua
e richiederà gravi sacrifizi; ma nessun sacrifizio ci parrà troppo
grave se ricorderemo sempre che dall'esito di questa guerra, dalle
condizioni della pace che vi porrà termine, dalla situazione
politica nella quale ci troveremo a pace conclusa, dipenderà
l'avvenire dell' Italia per un lungo periodo della sua storia». —
E terminavo con un appello alla concordia.
Tale appello, fatto anche da altre parti, rimase inascoltato da
molti che del patriottismo volevano il monopolio per poterlo
meglio sfruttare, ed io, che per la saldezza del paese credevo
necessario evitare perfino qualunque apparenza di discordia, mi
astenni per molto tempo dall'intervenire alla Camera. Nella
condizione che mi era stata creata, era quello l'unico servizio
che io potessi allora rendere al mio paese.
La notizia delle infauste giornate di Caporetto, io la ebbi a
Cavour da un tenente degli alpini, Palazzoli, che fu mandato a me
da Bissolati per dirmi se io avevo modo di fare qualche cosa per
sostenere lo spirito pubblico. Io risposi che non potevo prendere
una iniziativa individuale; ma siccome si sarebbe certo convocato
il Parlamento, io non avrei mancato di intervenire e di fare la
parte che si fosse creduta più utile. Ricevetti quasi subito dopo
una lettera del Presidente del consiglio Orlando ed una del
Presidente della Camera Marcora che mi chiedevano di intervenire
all'apertura della Camera. Giunto a Roma fu convocata presso il
Presidente della Camera una riunione degli antichi Presidenti del
Consiglio; cioè Salandra, Boselli, Luzzatti ed io. Ricordo che
appena entrato nella sala fui io il primo a stendere la mano a
Salandra, per dimostrare che, in quel momento non doveva esserci
alcuna divisione di persone.
In quella riunione, in cui intervenne anche Orlando, che pochi
giorni prima di Caporetto aveva assunto la Presidenza, si accennò
di dare ad uno solo l'incarico di parlare alla Camera, e capii che
si voleva evitare che parlassi io, pel timore di qualche
dimostrazione il cui significato potesse parere ambiguo. A questo
io non potevo consentire, non volendo parere che ad intervenire al
Parlamento io fossi stato trascinato quasi riluttante, e dichiarai
che avrei parlato, in forma brevissima, e procurando che per parte
dei miei amici nessuna dimostrazione fosse fatta che potesse dare
luogo ad ambigue interpretazioni. Allora si convenne che ognuno di
noi avrebbe parlato; ed io feci infatti nella solenne seduta
dell'11 novembre 1917 una brevissima dichiarazione.
Questo, e i discorsi che pronunciai alle aperture annuali del
Consiglio Provinciale di Cuneo, alcuni dei quali riguardavano
anche il futuro e causarono viva impressione, furono i soli miei
atti pubblici durante la guerra. Privatamente, nella
corrispondenza con amici e con persone, fra le quali anche alcuni
che nel maggio del '15 si erano da me distaccati, io sostenni
sempre la necessità della resistenza e della lealtà verso i nuovi
alleati sino all'ultimo, quantunque le mie più gravi
preoccupazioni sulla lunghezza del conflitto, sulle sue difficoltà
e l'enormità dei sacrifizi si fossero purtroppo avverate. La
caduta della Russia, che già io avevo prevista nelle conversazioni
e nelle lettere scambiate durante il periodo della nostra
neutralità, e la cui previsione era stata una delle maggiori
ragioni per cui io avevo raccomandata la prudenza, non mi giunse
naturalmente inaspettata. Per fortuna ci fu la coincidenza
dell'intervento americano, che io consideravo decisivo, sopratutto
perchè mentre assicurava a noi i mezzi finanziari ed i
rifornimenti necessari, rendeva assolutamente impossibile
qualunque ulteriore rifornimento del nemico, col conseguente
effetto morale.
Io avevo sempre, sino dall'inizio, considerata la guerra come uno
di quei supremi conflitti storici nei quali vengono poste a
repentaglio le intere fortune ed i destini secolari delle nazioni;
per cui le nazioni che vi sono impegnate non cedono e non si
rassegnano sino a che tutti i loro mezzi di resistenza non siano
esauriti. Trattandosi quindi di una guerra di esaurimento,
l'intervento americano, chiudendo qualunque sia pure indiretta
strada ai rifornimenti nemici, ed assicurando i rifornimenti
nostri, segnava già la decisione finale del conflitto.
Quanto alle cose interne, io seguii sempre con grande ammirazione
lo spirito di sacrifizio e il valore dei soldati, come pure la
resistenza e la fermezza del paese; ma non potei non constatare
anche la deplorevole avidità di soverchi guadagni in molti che
avevano rapporti d'interesse con lo Stato, e l'ostentazione di
lusso e di divertimenti degli arricchiti della guerra, che
facevano una sinistra impressione sui soldati che venivano dalle
trincee pei loro brevi congedi presso le loro famiglie.
Caporetto fu una grande sventura, ma servì però anche a
risvegliare in tutto il paese la coscienza della gravità della
situazione e della necessità di affrontarla con sentimento più
austero. E le cose migliorarono, non solo nell'opinione pubblica,
ma anche nell'esercito, con la sostituzione nel Comando Supremo
del generale Diaz al Cadorna, che aveva lanciata la indegna accusa
di viltà ai nostri soldati, i quali pure avevano risposto con così
esemplare abnegazione e cruenti sacrifici per due anni e mezzo a
tante sue richieste.
Gli effetti del mutato indirizzo nel trattamento dei soldati, si
videro poi nella gloriosa battaglia del Piave, che pel momento in
cui venne combattuta e vinta dai soldati italiani, fu una delle
più importanti battaglie della guerra europea, e fu preludio alla
grande vittoria di Vittorio Veneto, che segnò la definitiva
sconfitta dell'esercito austriaco e la distruzione dell'Impero
degli Asburgo.
Nessuno potè sentire per la definitiva vittoria una gioia più viva
di me, che avevo avuto chiara la visione delle spaventevoli
conseguenze che per l' Italia avrebbe avuta la guerra, se non
fosse terminata con una vittoria completa e definitiva.
Non ebbi alcuna parte nella pace, e non fui richiesto da alcuno.
Io considerai però che alla grandezza della vittoria non
corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle
trattative diplomatiche; e particolarmente ingiusto mi parve il
rifiuto di riconoscere alla città di Fiume il diritto di
ricongiungersi alla madre patria. Bisogna però riconoscere che la
responsabilità di ciò risaliva a quel Governo che nel Trattato con
cui eravamo entrati in guerra aveva scritta una clausola nella
quale era detto espressamente che Fiume doveva essere data alla
Croazia. Questa rinuncia, ingiustificabile perchè fatta in un
momento in cui i futuri alleati nulla avrebbero negato all'Italia,
fu la prima fonte delle difficoltà che si incontrarono nelle
trattative di Parigi. Nessun argomento, per negare Fiume
all'Italia, avrebbe potuto trovare il Presidente Wilson, che fosse
così forte come la esplicita adesione del Governo italiano di
consegnarla ai Croati.
Ed altro grave errore era pure stato commesso quando, entrando in
guerra, il Wilson aveva dichiarato che gli Stati Uniti non
avrebbero riconosciute le stipulazioni dei trattati segreti. Il
ministro degli esteri italiano avrebbe dovuto fare subito fronte a
quella dichiarazione del Presidente americano, mettendolo al
corrente del nostro Trattato con gli altri alleati, per togliergli
lo stigma della segretezza, e per provocare spiegazioni che
potevano riuscire più favorevoli mentre la guerra durava, anzi
doveva affrontare ancora alcune delle più aspre prove, che non a
guerra finita. Ed è a ricordarsi che nelle polemiche diplomatiche
che seguirono poi fra Wilson, l'Italia e gli Alleati, il Wilson si
lagnò appunto, e con asprezza, del segreto mantenuto verso di lui,
su gli accordi intervenuti fra gli Alleati e l'Italia.
Con l'avvento della pace, anche a parte le difficoltà
internazionali per la soluzione dei problemi del nostro confine,
io prevedevo pure gravi difficoltà •interne» e ritenevo opportuno
che al più presto si rafforzasse l'autorità del Governo e del
Parlamento, con elezioni che portassero alla Camera una
rappresentanza che fosse in piena corrispondenza con il sentimento
ed il pensiero del paese; tanto più che per le necessità della
guerra, la Camera eletta con i comizi dell'ottobre 1913, aveva
sorpassati i limiti fissati alla sua vita dallo Statuto, e non
possedeva più alcuna autorità, essendo effettivamente una Camera
di semplici futuri candidati. E credevo pure opportuno che la
nuova Camera fosse eletta quando l'entusiasmo della vittoria non
fosse stato troppo attenuato ed oscurato dalla constatazione delle
nuove, gravissime difficoltà che l'Italia doveva affrontare pure
nella pace, col conseguente malcontento. Quindi nel mese di aprile
del 1919, scrissi due volte al mio amico Facta, che era Ministro
Guardasigilli con Orlando, esponendogli le ragioni per cui
conveniva che si procedesse al più presto alle elezioni politiche.
Orlando conveniva pienamente con me, riconoscendo la giustezza
delle mie osservazioni; ma impegnato nelle trattative
internazionali, non si decise a tempo a interrogare il paese.
Chiusasi la Conferenza senza che le aspirazioni dell'Italia
fossero soddisfatte, Orbando cadde e gli successe l'on. Nitti.
Per quanto concerne l'opera compiuta dall'onorevole Orlando,
durante il suo Ministero che s'iniziò con l'avvenimento più
infausto della guerra, e finì con la vittoria completa, io
riconobbi sempre il grande merito che egli ebbe nel sostenere, con
incrollabile fervore, lo spirito pubblico dopo Caporetto. Sul modo
con cui egli condusse poi a Parigi le trattative, nessun giudizio
posso esprimere, mancandomene i necessari elementi.
Il Ministero Nitti; sue incertezze e sua caduta— Il programma
con cui assunsi il governo — Necessità di risolvere le questioni
internazionali e quella di Fiume — Progetti radicali presentati
al Parlamento per la politica estera e finanziaria — L'episodio
di Ancona — Perchè sgomberai Vallona — Mio incontro con Lloyd
George a Losanna e con Millerand a Aix-les-Bains — Il progetto
del governo per la soluzione della questione jugoslava —
Abbandono dei progetti antecedenti per chiedere il confine
naturale — Rapida conclusione dal trattato di Rapallo — Vani
tentativi per persuadere D'Annunzio — L'azione per ristabilire
la situazione normale a Fiume.
Il primo Ministero dell'on. Nitti aveva cominciato abbastanza
bene, fronteggiando le agitazioni della piazza, provocate
sopratutto dal rincaro del costo della vita, che i socialisti
rivoluzionari tentavano di volgere a fini politici, con una certa
fermezza che valse per un momento a vincere le diffidenze con cui
era stato accolto, e gli assicurò larghi suffragi tanto alla
Camera quanto al Senato. Questo suo atteggiamento però non fu
duraturo; presto, e sopratutto dopo le elezioni del 1919, egli
cedette sempre più alle imposizioni dei partiti estremi, dando
l'impressione di credere che ormai le sorti dell'Italia e dello
Stato fossero irrevocabilmente nelle loro mani. Per la politica
estera non riuscì a risolvere la nostra questione con lo Stato
Jugoslavo e ad assicurarsi il cordiale appoggio degli Alleati,
vedendo l'una dopo l'altra le sue troppo frettolose e mutevoli
proposte respinte; per le questioni interne si ridusse a ripetere
continuamente la raccomandazione della necessità dell'ordine e
della parsimonia; ma nella storia politica non c'è esempio che le
prediche abbiano mai avuto grande effetto, richiedendosi dall'uomo
di Stato non il sermoneggiare, ma l'agire.
Riuscì a lanciare l'ultimo prestito nazionale con notevole
successo, la borghesia italiana rispondendo con larghezza alle
domande dello Stato nella persuasione che con quel prestito si
riuscisse a sanare la situazione; ma invece i proventi, che in
danaro ammontavano a sette miliardi effettivi, furono divorati dai
disavanzi, specie per l'assurda politica del prezzo del pane che
portava via all'erario oltre sei miliardi all'anno.
L'on. Nitti ebbe la debolezza di lasciarsi imporre, pel timore di
una crisi, a proposito del prezzo del pane, l'ordine del giorno
Casalini, che stabiliva che tale prezzo non fosse modificato se
non dopo che fossero tassati tutti i generi di lusso e solo col
consenso della Camera; mentre la responsabilità della
eliminazione, sia pure graduale, di quel prezzo politico, adottato
d'autorità dal governo per le ragioni della guerra, competeva
interamente al governo stesso. Poi, disperando di ottenere il
consenso parlamentare di fronte all'opposizione socialista, che
minacciava tumulti ed ostruzionismo, e rendendosi pure conto
del baratro che quel prezzo
assurdo apriva nel bilancio dello Stato, tentò di
abolirlo mediante un decreto legge, che viceversa dovè poi
ritirare, quando il suo terzo Ministero si presentò già
dimissionario.
L'unica legge che l'on Nitti riuscì a far votare dal Parlamento,
fu quella del mutamento del sistema elettorale, dal collegio
uninominale alla proporzionale. È giusto riconoscere che
l'infatuazione per questa riforma fu in quel momento quasi
universale, alcuni vedendovi in buona fede un progresso; altri, e
forse i più, quelli che erano sicuri di avere perduto l'antico
collegio, accettandola con la speranza di migliore fortuna. Per
conto mio, agli amici che mi scrivevano magnificandola ed
invitandomi a venire a Roma per dare ad essa anche il mio voto,
io, limitandomi quanto al merito ad esprimere gravi dubbi, avevo
risposto che a mio avviso una Camera, la quale aveva già da tempo
oltrepassati i cinque anni, termine massimo fissato dallo Statuto,
e che quindi non era più la rappresentante della volontà degli
elettori, non aveva il diritto di mutare così in fretta e furia
una delle fondamentali leggi politiche dello Stato.
Alla caduta del terzo Ministero Nitti, io fui indicato alla Corona
dalla unanimità degli uomini politici consultati, ed assunsi il
Governo.
Quali fossero le mie idee riguardo il compito che spettava ai
governi dell'immediato dopo guerra, io l'avevo già largamente
indicato col discorso pronunciato a Dronero per le elezioni
dell'ottobre 1919, tanto nei riguardi finanziarii, quanto in
quelli politici, interni ed internazionali.
Per la politica finanziaria io avevo rilevato l'enorme aumento del
debito dello Stato, che si poteva allora calcolare in circa
novantaquattro miliardi, ai quali altri poi se ne sono aggiunti
per il mancato raggiungimento del pareggio del bilancio. Per
questo bilancio io constatavo in quel discorso un disavanzo di
almeno quattro miliardi, che il mantenimento dell'assurda politica
del prezzo del pane, ed altri coefficienti derivati dalla
svalutazione della moneta, avevano poi portato rapidamente ad
oltre quindici miliardi.
Per la politica estera io insistevo sulla necessità di assicurare
la pace, ancora assai dubbia per noi per la mancata soluzione del
problema dei nostri confini orientali; e rilevavo la strana
contraddizione dei nostri ordinamenti politici, pei quali, mentre
il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare
in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, né creare o abolire
una Pretura o un semplice impiego d'ordine, senza la preventiva
approvazione del Parlamento; può invece, a mezzo di trattati
internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili
impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo
senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né il Parlamento
né il Paese ne siano o ne possano essere in alcun modo informati.
Ed avevo osservato che un tale stato di cose andava radicalmente
mutato, dando al Parlamento, riguardo alla politica, estera, gli
stessi poteri che esso ha riguardo alla politica finanziaria ed
alla politica interna, prescrivendo cioè che nessuna convenzione
internazionale possa stipularsi, nessun impegno si possa assumere
senza l'approvazione del Parlamento.
Avevo pure richiamato l'attenzione sulla necessità di accrescere
l'autorità del Parlamento contro il quale i partiti reazionari
avevano condotta una campagna di diffamazione, a cui si era
aggiunto il fatto che quattro anni di pieni poteri governativi
avevano di fatto soppressa l'azione del Parlamento italiano, in un
modo che non aveva avuto riscontro negli altri Stati alleati. Per
noi ogni discussione di bilancio, ogni controllo sulle spese dello
Stato e sulle operazioni finanziarie era stato soppresso; il
Parlamento era tenuto all'oscuro circa gli impegni finanziari che
si andavano assumendo, come di ogni provvedimento militare e di
ogni atto diplomatico; l'azione legislativa era stata
assolutamente nulla, sostituita anche in materie estranee alla
guerra da innumerevoli decreti luogotenenziali, preparati senza
discussione, nel chiuso degli uffici, spesso da persone
incompetenti, ignare delle vere condizioni del paese; ispirati
talora a concetti contraddicentisi e che spesso aggravarono i mali
a cui intendevano portare rimedio, producendo lo spreco di
miliardi.
A ristabilire l'autorità del Parlamento, io osservavo che non
basterebbe ora aumentarne i poteri; ma occorreva che il Parlamento
stesso dimostrasse coi fatti di volerli efficacemente esercitare.
La pace doveva chiudere quel periodo così deleterio
pel prestigio del Parlamento e così dannoso al
Paese, ed aprirne uno nuovo di attività eccezionale. La
rappresentanza nazionale, dopo così grave esperimento di governi
senza controllo, avrebbe dovuto sentire fortemente l'autorità
sovrana che le è delegata dal paese; ed a mio parere, come suo
primo atto, essa avrebbe dovuto deliberare inchieste solenni per
accertare le responsabilità relative alla guerra; esaminare il
modo, con cui erano stati esercitati i pieni poteri; come erano
stati stipulati ed eseguiti i grandi contratti di forniture tanto
all'interno quanto all'estero, e fare conoscere chiaramente al
paese come erano state spese le immani somme di decine di
miliardi, delle quali fino allora nessun conto era stato dato.
E riguardo al risanamento del bilancio dello Stato, riconoscevo
che esso avrebbe richiesto, oltre le economie nuove, ingenti
entrate. Ora queste si possono ottenere in due modi, o portando il
peso delle imposte sui consumi, o coll'imporre maggiori oneri
sulla ricchezza accumulata. La mia tendenza a questo riguardo non
poteva essere dubbia, avendo già per tre volte, quando ero al
governo, proposta l'imposta progressiva sui redditi e le
successioni. Considerando però che tanto alla imposta sul reddito
che a quella di successione sfuggivano quasi per intero i titoli
al portatore, che costituiscono grande parte della ricchezza
mobiliare, e che a nulla gioverebbe l'inasprimento delle aliquote
quando non si impedissero le evasioni, avanzavo la proposta che
tutti i titoli di azioni e di obbligazioni dovessero farsi
nominativi.
Infine, nel riguardo economico, io dichiaravo che l'Italia non
avrebbe potuto trovare la salvezza al di fuori di una austera
politica di lavoro, con l'intelligente utilizzamento di tutte le
sue risorse materiali e morali, tanto nell'agricoltura che nelle
industrie e nei commerci. E concludevo che se il paese,
lasciandosi addormentare da quella vuota retorica che tanto danno
aveva già recato all'Italia, non si rendesse conto delle vere sue
condizioni; seguisse la facile via degli sperperi e dei debiti;
non reagisse energicamente contro lo spirito imperialista,
iniziando una forte politica di lavoro e di sacrifizio, sarebbe
andato incontro al fallimento dello Stato, al discredito nel mondo
ed alla rovina economica e politica.
Se invece, seguendo la via del dovere, avesse guardato arditamente
alla realtà, affrontando energicamente le gravi difficoltà della
situazione e dimostrando in pace quella magnifica resistenza e
quel mirabile spirito di sacrificio che in guerra lo avevano
portato alla vittoria, esso avrebbe vinto anche le difficoltà
presenti, riprendendo le vie del progresso.
Sette mesi dopo, constatando che la situazione rimaneva purtroppo
immutata, anzi peggiorava; che la Camera si perdeva in vane
declamazioni, senza che il Governo riuscisse a indirizzarla ai
suoi compiti, così che anche a guerra finita, si aveva l'ironica
situazione che si aspettava che la Camera fosse chiusa, per
emanare le leggi a mezzo di decreti; che il disavanzo del bilancio
diventava sempre più pauroso e si viveva sui debiti, niente
facendosi d'altronde per recuperare il danaro mal tolto allo Stato
durante le necessità della guerra; in una intervista, pubblicata
sulla Tribuna, io avevo ribadito ancora questi concetti,
adattandoli al momento.
Ed avevo detto:
«Nelle gravissime condizioni nelle quali si trova l'Italia,
occorre, a mio avviso, un programma di vera ricostruzione, che
necessariamente sarà assai complesso, molte essendo le riforme
sociali indispensabili, e specialmente riguardo ai lavoratori
della terra; ma pure nei provvedimenti necessari vi è una
gradazione di urgenza, ed è mio fermo convincimento che due
pericoli sopratutto minacciano ora la compagine dello Stato; il
discredito del Parlamento e la disastrosa condizione della
finanza.
Il prestigio del Parlamento è profondamente scosso nella pubblica
opinione per l'assenza assoluta di qualsiasi attività legislativa,
avendo esso abdicato ai suoi poteri che da molto tempo vengono
esertati dal governo sotto forma di decreti legge. A questo
sistema incostituzionale, e che toglie ogni serietà al lavoro
legislativo, si deve rinunciare; e non solamente si deve ridare al
Parlamento il pieno esercizio del potere legislativo, il controllo
effettivo sulle pubbliche spese e sull'ordinamento dei pubblici
servizi; ma gli si devono dare anche nella politica estera poteri
eguali a quelli che gli spettano sulla politica interna e
finanziaria, modificando l'art. 5 dello Statuto, e istituendo nei
due rami del Parlamento commissioni permanenti di controllo sulla
politica estera.
È necessario inoltre che cessi la facoltà nel potere
esecutivo di prorogare le sessioni
del Parlamento, poiché tale illimitata facoltà pone il
Parlamento in condizioni di vera dipendenza del governo.
Quanto alla condizione della finanza dello Stato, per dimostrare
l'imminente pericolo che le sovrasta, basta considerare che nei
dodici mesi dell'esercizio in corso si avrà un disavanzo non
inferiore a 18 miliardi, il quale si copre con debiti e in parte,
pur troppo, con emissione di altra carta moneta. L'ultimo grande
prestito ha dato, in denaro, 7 miliardi che bastano appena a
coprire il disavanzo di cinque mesi.
«Mentre dal 1860 al 1914, in cinquantaquattro anni l'Italia ha
fatto appena 14 miliardi di debiti, ora in un solo anno, a guerra
finita, ne fa 18. Se non fosse mancato il controllo del
Parlamento, ciò non sarebbe avvenuto.
Così si cammina a gran passi verso il fallimento se non si dà,
subito, un potente colpo di arresto alle spese, e se non si
procurano, senza ritardo, così forti entrate al Tesoro, da
escludere in modo assoluto ogni ulteriore aumento di circolazione
cartacea, aumento che necessariamente importerebbe una nuova
svalutazione della moneta, e quindi un ulteriore aumento del costo
della vita.
Per procurare al Tesoro questo forte aumento di entrata due mezzi
principalmente si offrono: la revisione dei contratti stipulati
dallo Stato durante e dopo la guerra, allo scopo di ricuperare
quanto sia stato pagato al di là di una equa misura; e la rigida
applicazione della imposta sul capitale.
Questa imposta può dare grandi risultati se si
riesce a colpire
tutta la ricchezza mobiliare, poiché
il contributo della proprietà
fondiaria, come fu determinato con decreto legge, sarà molto
limitato. Ora
la ricchezza mobiliare sfuggirà in molta parte
all'imposta se non si disporrà, immediatamente per legge,
che
tutti i titoli al portatore, di qualsiasi specie,
azioni,
obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di debito
pubblico, ecc., debbano essere convertiti in titoli
nominativi.
Il valore complessivo dei titoli al portatore sale ad oltre 70
miliardi, i quali sfuggono ora per la maggior parte alla tassa
sulle successioni e sfuggirebbero egualmente alla imposta sul
capitale, e alla imposta progressiva sul reddito.
Quei 70 miliardi sono in buona parte concentrati nelle grandi
fortune, le quali dovrebbero pagare il venti, il trenta, il
quaranta e fino il cinquanta per cento, e quando si trattasse di
patrimoni formati da profitti di guerra dovrebbero pagare aliquote
ancora maggiori; è quindi evidente quanto grande sia il contributo
che può averne il Tesoro; ciò però a patto che la nominatività dei
titoli renda impossibile la frode.
Il provvedimento è necessario alla finanza, ed è imposto da
un'alta considerazione morale, per imprimere nelle masse popolari
la sicurezza che gli oneri fiscali sono distribuiti con giustizia,
e che non vi possono sfuggire appunto le maggiori ricchezze; ed è
consigliato anche da considerazioni di giustizia regionale, in
quanto quei 70 miliardi di titoli si trovano per la maggior parte
nell'Alta Italia, e solo in piccola parte nel Mezzogiorno.
Una giusta repartizione degli oneri fiscali è condizione
indispensabile per ottenere che il Paese li
accetti.
Ho fiducia che gli uomini politici i quali hanno la responsabilità
del governo, in tempi così difficili, sentiranno il dovere
indeclinabile di rialzare il prestigio del Parlamento,
restituendogli l'esercizio dei suoi poteri, e di evitare, con
radicali e immediati provvedimenti, il fallimento dello Stato che
travolgerebbe in una comune rovina tutte le classi sociali.»
Tutte queste pubbliche manifestazioni del mio pensiero sulle
principali questioni non potevano lasciar dubbio sul programma che
avrebbe informata l'azione di un Ministero da me presieduto.
Io formai senza difficoltà il nuovo Ministero, chiamandovi uomini
di tutti i partiti costituzionali, per stabilire un accordo su un
programma preciso e concreto, che mirasse a risolvere le questioni
di maggiore urgenza per far salvo il credito e la compagine dello
Stato. Affidai il ministero degli Esteri ad un giovane diplomatico
che aveva già fatta ottima prova nella sua carriera ed anche
reggendo il sottosegretariato di quel dicastero nel governo
precedente, il Conte Sforza; al Tesoro chiamai l'on. Meda; alle
Finanze l'on. Tedesco; alla Guerra l'on. Bonomi; alle Colonie
l'on. Luigi Rossi; all'Istruzione il Senatore Benedetto Croce,
come rappresentante della più alta cultura; alle Poste l'on.
Pasqualino Vassallo; alle Terre Liberate l'on. Raineri; ai Lavori
Pubblici l'on. Peano; ed alla Marina mantenni il Senatore Sechi.
Affidai la gestione dell'Ente degli approvvigionamenti e consumi,
che doveva essere liquidato, all'on. Soleri. E sino dal primo
Consiglio dei Ministri, distribuii ai miei colleghi una serie di
progetti di legge, che dovevano essere immediatamente sottoposti
alla discussione parlamentare.
II Ministero si presentò al Parlamento il 24 giugno. Nel discorso
con cui esposi il mio programma, ripresi e riaffermai i concetti
sopra indicati. Per la politica estera indicai chiaramente che il
nostro proposito era di condurre a termine la conclusione della
pace, ristabilendo rapporti amichevoli con tutti i popoli;
dichiarando che come salda garanzia di pace il Parlamento doveva
avere nella politica estera la stessa autorità che aveva nella
politica interna e in quella finanziaria. E per la completa
applicazione di quel principio presentai un disegno di legge, il
quale, modificando l'art. 5 dello Statuto, disponeva che i
trattati e gli accordi internazionali, quale si fosse il loro
oggetto e la loro forma, non sarebbero validi senza l'approvazione
del Parlamento, e che senza la preventiva autorizzazione del
Parlamento non potesse essere fatta dichiarazione di guerra. E
perchè tale controllo parlamentare sulla polilica estera potesse
essere esercitato, io proponevo pure la creazione di
Commissioni permanenti presso i due
rami del Parlamento, alle
quali dovevano essere comunicati immediatamente i documenti
relativi alle
questioni in corso, fra le quali quella
dell'Adriatico
predominava.
Per la politica interna io proclamavo il concetto già esposto
della necessità di ritornare all' osservanza dello Statuto; al
quale scopo bisognava anzi tutto bandire l'uso dei decreti legge,
con le sole eccezioni che si riferissero alla revoca o
modificazione di decreti legge non ancora convertiti in legge,
alla soppressione di istituti e di impieghi divenuti inutili, ed
ai provvedimenti necessari per le terre redente, fino a che non
fossero legalmente annesse al Regno. E prospettavo poi
provvedimenti minori per le rappresentanze operaie in corpi
deliberanti o consultivi; per l'incremento della cooperazione; per
le autonomie amministrative basate sul referendum; e per l'esame
di Stato, che io consideravo come unico mezzo serio ed efficace
pel controllo non solo del profitto degli allievi, ma anche
dell'operosità e della attitudine dei professori all'insegnamento.
Per la politica economica richiamavo la necessità di frenare
l'aumento del costo della vita, contro esose speculazioni,
sostenendo però il concetto che la vera e permanente causa di
quell'alto costo, era il deprezzamento della moneta, dovuto
all'eccessiva circolazione ed al grave squilibrio fra esportazione
ed importazione, e che contro queste cause bisognava indirizzare i
rimedi. Per cui era d'uopo estendere la cultura di quelle materie
per le quali eravamo più gravemente tributari dell'estero, come il
grano, chiedendo al Parlamento poteri speciali per costringere a
coltivare a grano tutte le terre suscettibili di tale cultura; di
ridurre la necessità delle importazioni di carbone mediante un più
vasto utilizzamento delle forze d'acqua, e di iniziare una
razionale esplorazione del nostro sottosuolo per lo sfruttamento
delle sue ricchezze minerarie.
E per la politica finanziaria proponevo di avocare totalmente allo
Stato i sopraprofitti di guerra, in quanto che è ingiusto e
immorale che la guerra possa essere fonte di guadagno; di
procedere ad una inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e
per la revisione dei relativi contratti; di rendere più fortemente
progressiva la tassa sulle successioni; di aumentare di molto
l'imposta sulle automobili private e di imporre l'obbligo di
rendere nominativi i titoli al portatore, che rappresentavano
almeno settanta miliardi, la maggior parte dei quali sfuggiva alle
tasse sulle successioni, a quella sui redditi ed a quella sul
capitale.
E disegni di legge riferentisi a tutti questi punti furono da me
in quella stessa prima seduta presentati; perchè il mio primo
pensiero era di ridare al Parlamento quell'autorità che solamente
poteva venirgli dalla dimostrata capacità di riprendere con ogni
energia il suo compito essenziale, e cioè l'opera legislativa, e
di dare all'interno e all'estero la prova del fermo proposito di
ristabilire l'equilibrio del bilancio.
Assumendo il governo io trovai una situazione gravissima sotto
tutti i rapporti. Nella politica estera, i cui problemi dovevano
essere per primi risolti, perchè l'attenzione e l'opera del
governo potesse poi portarsi tutta alla politica interna e di
ricostruzione economica e finanziaria, trovai aperta una guerra in
Albania, dove morivano oltre cento soldati al giorno di febbre
malarica, e Vallona minacciata e stretta d'assedio, perchè lo
sgombero e la ritirata dai territori dell'interno, in se stessa
una buona decisione, era stata condotta con troppa manifesta
fretta e con conseguente disordine; trovai Fiume occupata da
D'Annunzio, con una situazione che costituiva una minaccia
continua di guerra; trovai che i negoziati con la Jugoslavia per
la definizione del nostro confine orientale erano arenati, perchè
tutte le proposte e richieste avanzate dal nostro Governo per una
soluzione erano state costantemente respinte.
All' interno l'irrequietezza dei partiti estremi era giunta al
colmo; non solo, ma era cominciato un disgregamento negli stessi
organi dello Stato, tanto che non si poteva fare viaggiare la
forza pubblica senza che i ferrovieri arrestassero immediatamente
i treni, e contro un tale stato di cose non era stata tentata la
menoma reazione o preso alcun serio provvedimento.
Nel rispetto della politica finanziaria trovai un disavanzo di
quattordici miliardi nel bilancio dello Stato, sei dei quali
dovuti, come ho già detto, al prezzo politico del pane, ciò che
avrebbe in breve volgere di tempo condotto al fallimento.
Tutti questi problemi, ognuno di per sé gravissimo, e che tutti
insieme formavano una situazione piena di pericolo, dovevano
essere risolti. Il primo che affrontai per forza delle cose fu
quello dell'Albania. Le tremende condizioni sanitarie in cui si
trovavano le truppe nell'Albania erano note nell'esercito, anche
per il rimpatrio continuo dei soldati colpiti dalla malaria; e la
notizia che un reggimento di bersaglieri, che si trovava
acquartierato ad Ancona, sarebbe stato inviato in Albania per
rafforzare la guarnigione di Vallona, provocò una sedizione
militare, a cui concorse la sobillazione di elementi anarchici,
allo scopo di provocare un movimento insurrezionale. In quella
occasione io percepii in tutta la gravità le condizioni del paese,
in quanto non si poterono trasportare con la ferrovia le truppe e
i carabinieri necessarii a domare la rivolta ed a ristabilire la
disciplina e l'imperio della legge; e per l'urgenza della
situazione dovemmo provvedere al trasporto delle truppe a mezzo di
camions. Che un tale stato di cose fosse in buona parte effetto di
inerzia e troppa paura da parte del precedente governo, che nulla
aveva fatto per impedire che si formasse, o per arrestarlo alle
sue prime manifestazioni, fu poi mostrato dal fatto che per
rimettere un po' di disciplina fra i ferrovieri, non fu necessario
ricorrere a mezzi eccezionali; e che in breve tempo si riuscì,
parte con la persuasione ed il richiamo al dovere, e parte con la
ferma applicazione delle punizioni comminate dai regolamenti, ad
ottenere che le ferrovie servissero da allora in poi all'interesse
dell'ordine pubblico, né si ebbe più alcun caso di rifiuto pel
trasporto di truppe, guardie e carabinieri.
Per quanto concerneva l'Albania io ero venuto immediatamente ad
una decisione radicale, e l'avevo comunicata ai miei colleghi,
dandone le ragioni che avevano ottenuta la loro piena
approvazione. A mio parere la questione dell'Albania e di Vallona
era profondamente mutata per noi dopo la caduta dell'Impero degli
Asburgo. Fino a che esisteva quell'impero militare, le cui coste
si estendevano per così grande tratto lungo l'Adriatico, noi
avevamo un primario interesse a che esso, penetrando nel
territorio albanese, non creasse una situazione per noi ancora più
diffìcile, diventando padrone dell'entrata di quel mare; donde gli
accordi speciali intervenuti fra l'Austria e noi, allo scopo di
evitare gravi conflitti. Dopo la guerra balcanica e la quasi
totale rovina del dominio turco in Europa, la nostra politica,
nella quale avevamo pure potuto procedere abbastanza d'accordo con
l'Austria, era stata di assicurare l'autonomia del territorio
albanese, impedendo che la Serbia l'invadesse da settentrione e la
Grecia da mezzogiorno. Nelle nuove condizioni sortite dalla guerra
europea, l'interesse nostro era pure che l'Albania fosse autonoma,
e che nessuno potesse insediarsi nelle sue coste e nei suoi porti;
sicuri che l'Albania per conto proprio non avrebbe avuta mai una
flotta che potesse essere una minaccia alle nostre coste ed alla
nostra libertà di traffico in questo mare.
Riguardo poi a Vallona, io facevo questo ragionamento: che in caso
di guerra, se noi fossimo i più forti in mare
non avremmo avuto bisogno di Vallona; se fossimo i più deboli, non
potendo difenderla e rifornirla per mare, saremmo costretti
ad abbandonarla. E ciò prescindendo anche dalla considerazione
della radicale trasformazione che il più largo uso dei sottomarini
e degli idrovolanti porterà, secondo i tecnici, nella guerra
navale del futuro. Ad ogni modo, ciò che veramente ci interessa è
che Vallona non possa costituire una base di operazioni contro di
noi; e questo scopo è raggiunto con l'occupazione dell'isolotto di
Sasseno, che sta all'imboccatura della baia stessa. Per fare di
Vallona una base navale nostra, data la enorme portata delle
artiglierie moderne, sarebbe necessaria una occupazione
territoriale estesissima perchè il porto non fosse esposto al tiro
delle artiglierie nemiche; il che avrebbe importato non solo spese
ingenti e continuative, ma, in caso di guerra, l'immobilizzamento
di nostre considerevoli forze, che verrebbero sottratte al teatro
principale della guerra ed alla difesa del territorio nazionale.
Per tutte queste ragioni io decisi di rinunciare al mandato,
conferitoci dalla Conferenza di Parigi, sull'Albania, che avrebbe
rappresentata una enorme passività senza alcun utile, e di
limitare la nostra azione alla protezione diplomatica dell'Albania
contro le mire di altri Stati, e di abbandonare Vallona,
assicurandoci però il riconoscimento del possesso di Sasseno; ed
inviai in Albania il Barone Alliotti, con tutti i poteri per
trattare col governo albanese a questo scopo. Si venne facilmente,
come era da presumere, all'accordo, e Vallona fu sgombrata. Io
definii quella decisione e la sua esecuzione, l'estirpazione di un
dente, per la quale il paziente esita e ritarda, ma di cui poi
alla fine è lieto di essersi liberato.
Assai più difficile si presentava la soluzione della questione dei
nostri confini orientali col nuovo Stato della Jugoslavia, tanto
più che essa era stata in certo modo compromessa dal Ministero
precedente, con negoziati che non avevano approdato a nulla. Il
che però era stata anche una fortuna, perchè in quei negoziati era
stata da parte nostra richiesta e non ottenuta, una linea di
confine non conveniente, in quanto non corrispondeva al confine
naturale. Quella nostra domanda costituiva una grave
compromissione, che rischiava di fare sentire i suoi effetti anche
su trattative nuove, intralciando l'opera dei nuovi negoziatori.
Per questa ragione io mi astenni per parecchi mesi dall'entrare in
rapporti col governo di Belgrado, premendomi di fare ben capire
che le nostre eventuali trattative non dovevano in nessun modo
considerarsi come una ripresa o continuazione di quelle
precedenti, ma come trattative ex-novo. Resistei perciò anche alle
pressioni, che ricevevo da alcune parti, perchè io mi affrettassi
a risolvere quella questione, che pure io stesso giudicavo
pericolosa.
Ricordo a questo proposito che, nei primi giorni di agosto, da
parte inglese ci si manifestò una certa ansietà per la ripresa
delle trattative nostre con la Jugoslavia. Al Foreign Office si
temeva che i serbi, incoraggiati dagli avvenimenti di Albania, che
naturalmente essi interpretavano dal loro punto di vista, fossero
tentati a seguire lo stesso sistema usato dagli albanesi; e, a
riprova di questi timori, e come un indizio di tali disposizioni
da parte dei serbi, ci si indicava l'ammassamento di truppe serbe
che si calcolava a trentasei divisioni, pronte a marciare contro
di noi. Si lasciava intendere di temere che potesse nascere,
provocato dalla Serbia, un conflitto, con le più gravi
conseguenze, fra Serbia ed Italia; ma noi avevamo qualche ragione
per ritenere pure che il Trumbic facesse pressioni a Londra perchè
noi fossimo indotti alla ripresa dei negoziati, in un momento che
a lui pareva specialmente opportuno, con la preoccupazione
evidente di giungere ad un risultato prima che il Presidente
Wilson, della cui protezione la Jugoslavia aveva particolarmente
goduto, lasciasse il potere; mentre l'interesse nostro era
l'opposto.
Non credetti poi, né allora né dopo, opportuno di invocare il
Trattato di Londra, per l'altra compromissione che esso conteneva
riguardo alle sorti della città di Fiume.
Io giudicavo poi opportuno, prima di riprendere quelle trattative,
di mettermi in rapporti diretti prima con Lloyd George, poi con
Millerand. Lloyd George mi aveva già fatto sapere che riteneva
utile d'incontrarsi meco; e si convenne che io mi sarei recato a
visitarlo a Lucerna nel periodo in cui egli si sarebbe trovato
colà per le sue vacanze. Così c'incontrammo nella seconda metà di
agosto. Le lunghe conversazioni che io ebbi seco nei tre giorni
che restai a Lucerna, ebbero sempre per principale obbiettivo lo
studio dei mezzi coi quali si sarebbe potuto ottenere il più
rapidamente possibile la pacificazione dell'Europa. Io rilevai che
fra i punti che più urgeva di sistemare, era la questione dei
confini fra l'Italia e la Jugoslavia. Io partivo, in questo, dallo
stesso punto sostenuto nel Parlamento, e cioè la necessità della
pacificazione definitiva fra i due paesi. Io feci conoscere a
Lloyd George quali erano i punti dai quali l'Italia non poteva
assolutamente recedere, senza però entrare con lui in alcuna
discussione su tutte le varie questioni che concernevano
semplicemente i rapporti fra noi e la Jugoslavia; e Lloyd George
pure, per parte sua, si astenne dal discutere la ragionevolezza di
ciò che noi chiedevamo; limitandosi a manifestare cordialmente il
proposito di adoperarsi perchè la Jugoslavia entrasse in
trattative con noi con la stessa intenzione di giungere ad una
pace conclusiva.
E mi risultò in seguito che, entro questi limiti di un intervento
generico inteso a favorire la soluzione del problema, egli aveva
poi fatta opera molto amichevole verso l'Italia. La mia ferma
intenzione, insomma, era che i negoziati per le decisioni
sostanziali dovessero svolgersi unicamente fra noi e gli
jugoslavi, convinto come ero e come sono tuttavia, che comune
interesse dei due popoli fosse di stabilire e mantenere amichevoli
rapporti, sia politici che commerciali; e che, in genere, sia
assai preferibile che qualunque negoziato si svolga direttamente
ed unicamente fra le parti interessate; l'intromissione di un
terzo, sia pure con le migliori intenzioni, avendo spesso
l'effètto di introdurre nella questione altri interessi, che la
rendono più complicata e di più difficile soluzione.
Passando alla situazione generale, Lloyd George, mostrandosi
sopratutto ansioso del ristabilimento di una pace sicura per tutto
il mondo, osservava che la prima garanzia di tale pace doveva
trovarsi nei trattati firmati, e nel modo della loro applicazione.
I vincitori, secondo lui, dovevano mostrare uno spirito di
moderazione, ed i vinti uno spirito di lealtà nel metterli in
esecuzione. A parte però le questioni risolte coi trattati, vi
erano pure numerose questioni pendenti, la maggioranza delle quali
indissolubilmente connesse con gli avvenimenti della Russia. Egli
osservava che finché la pace non fosse stata raggiunta fra la
Russia e gli altri paesi, l'atmosfera internazionale rimarrebbe
sempre torbida e minacciosa. Qualunque attacco della autocrazia
soviettista russa contro l'indipendenza nazionale dei suoi vicini,
renderebbe impossibile la pace con la Russia, e gli Alleati
avrebbero dovuto opporvisi con tutti i loro mezzi, tenuto conto
degli altri loro obblighi. Qualunque tentativo d'imporre ad un
altro paese qual si voglia forma di governo, costituirebbe una
violazione della sua indipendenza.
Noi ci trovammo quindi d'accordo nel compiacerci che nulla di
simile si trovasse nelle condizioni allora in discussione per la
conclusione della pace fra Russia e Polonia. Constatammo pure che
l'esperienza aveva dimostrato che qualunque tentativo esteriore di
intervenire nella lotta interna russa, avrebbe avuto il solo
effetto di prolungare lo spargimento di sangue e di ritardare la
soluzione pacifica desiderata.
L'impressione della personalità di Lloyd George,, che io ritrassi
da quelle conversazioni, fu di un ingegno grande e vivido, e di
una straordinaria prontezza ad afferrare tutti i lati di una
questione; come pure di una sincera e passionata volontà per la
reale pacificazione dell'Europa, dopo le tremende rovine della
guerra. Il mio pensiero in ciò coincideva pienamente col suo, come
pure coincidevano gli interessi dei due paesi, e noi lo
constatammo su tutti i punti in discussione con la più viva,
reciproca soddisfazione.
Nel mese di settembre ebbi pure un convegno col Millerand,
presidente del Consiglio dei ministri francese, avendo entrambi
ritenuta opportuna una intervista personale. Siccome allora io ero
a Bardonecchia, il Millerand, con molta cortesia, fece fissare il
luogo del convegno ad Aix-les-Bains, che è a poca distanza dal
confine. Vi restai due giorni, ed anche con lui si parlò di quasi
tutte le questioni generali europee, ma in modo più speciale di
quelle che riguardavano i rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia ed
anche la Grecia, come pure dei rapporti di carattere economico fra
l'Italia e la Francia.
Le conversazioni si svolsero sempre nel tono più cordiale; ed a
lui pure esposi, come avevo fatto con Lloyd George, quali fossero
i punti sui quali l'Italia non poteva transigere nella soluzione
della nostra questione cogli jugoslavi. Ci fermammo sopratutto
sulla questione dei nostri confini orientali; esaminando sopra una
carta le varie linee, inaccettabili, proposte dal Presidente
Wilson, e quella, pure non conveniente, che si denominava la linea
Nitti. Io insistetti che l'Italia, per necessità strategiche,
doveva possedere la linea del Monte Nevoso; cosa che era stata
pure riconosciuta autorevolmente, in una sua conversazione con
Badoglio, dal Maresciallo Foch. Aggiunsi che, non avremmo
insistito per il possesso della Dalmazia, la popolazione della
quale era nella immensa maggioranza slava, salvaguardando però la
città di Zara, che doveva essere italiana, e chiedendo garanzie
per gli altri centri in cui fossero elementi italiani.
Millerand, senza entrare nell'esame delle singole questioni,
discussione che dovevamo fare direttamente con la Jugoslavia,
manifestò il fermo proposito di adoperarsi per una soluzione che
corrispondesse ai giusti desideri dell'Italia; e tali buoni uffici
in favore dell'Italia furono poi da lui cordialmente fatti, sia
quando era ancora Presidente del Consiglio, sia dopo quando
assunse la Presidenza della Repubblica. S'informò
poi delle nostre intenzioni riguardo l'Albania,
ed io gli risposi che l'Italia aveva rinunciato già ad ogni
possesso diretto in Albania, come pure a qualunque mandato o
protettorato; ma che avrebbe sostenuto costantemente il diritto
dell'Albania all'indipendenza entro i confini segnati dalla
Conferenza di Londra, e che non dovevano essere violati né dalla
Serbia né dalla Grecia.
E siccome il Berthelot, segretario generale del Ministero degli
esteri francese, mi chiedeva se l'accordo concluso fra Tittoni e
Venizelos, durante la permanenza del Tittoni nel Ministero Nitti,
— accordo che fra l'altro implicava la cessione delle isole del
Dodecaneso — non fosse d'ostacolo all'indipendenza ed integrità
albanese, io gli risposi che quel trattato era stato da me
denunciato appena avevo assunto il governo ed aveva cessato
d'esistere, checché se ne potesse pensare ad Atene. Al che il
Berthelot esclamò: — Politis sera désespéré quand il le saura.
—
Si parlò poi della pace fra la Russia e la Polonia; dei rapporti
fra gli Alleati e la Russia; dell'applicacazione dei trattati;
della pace colla Turchia, ecc.; ed in tutte queste questioni,
anche dove vi era divergenza di vedute, io ebbi a notare nel
Millerand un grande senso di responsabilità e di moderazione. Pure
denunciando lo spirito pericoloso che, secondo lui, permaneva in
Germania, ove il popolo pareva ancora persuaso di essere stato
aggredito e di avere subito una guerra difensiva, si mostrava
disposto ad applicare i trattati con moderazione.
Parlando della Russia, io gli dissi essere mia convinzione che,
lungi dall'impedirlo, convenisse incoraggiare i socialisti
nostrani a visitare la Russia, donde sarebbero ritornati
disgustati in modo da fare esitare i più esaltati, e convinti che
il paese dei soviety non è un paradiso terrestre; come infatti è
poi accaduto. Millerand mi rispose che non voleva in Francia un
rappresentante dei soviety, che si dedicherebbe certamente alla
propaganda sovversiva ed alla corruzione.
Discutemmo poi della questione del tonnellaggio austro-ungarico a
noi dovuto; di quella del carbone, dei fosfati, dell'emigrazione e
delle relazioni commerciali generali fra i due paesi, arrivando su
ogni punto a ragionevoli intese o ad impegni di studio pel futuro.
Del Millerand ebbi una impressione simpaticissima, pel suo
carattere evidentemente franco e leale, e per le buone
disposizioni che egli mostrava verso l'Italia.
Qualche tempo dopo il governo di Belgrado, a mezzo
dell'Inghilterra, ci fece sapere che avrebbe volontieri ripreso le
trattative. Lloyd George esprimeva però, in una conversazione col
nostro ambasciatore, qualche dubbio sui possibili risultati
pratici dei negoziati, data la complicata situazione del regno
Jugoslavo. Una carta in nostro favore, a suo avviso, era però il
quasi certo trionfo dei repubblicani nelle elezioni presidenziali
americane; ciò che produrrebbe un grande abbattimento fra gli
jugoslavi, per la scomparsa dell'uomo che li aveva così
pertinacemente sostenuti nelle loro pretese. Ed aveva aggiunto
che, se egli fosse stato al mio posto, qualora questi negoziati
definitivi fallissero, procederebbe senz'altro ad occupare ciò che
volevamo mantenere, e ad evacuare il resto. Ad ogni modo io,
d'accordo con Sforza, aderii volentieri alla richiesta di
Belgrado, e fu stabilito che il convegno dei plenipotenziari
avrebbe avuto luogo a Santa Margherita.
Intanto io e Sforza, insieme anche a Bonomi ministro della guerra,
avevamo esaminato accuratamente l'intero problema, ed avevamo
fissati i punti seguenti:
1.° Una frontiera terrestre sicura, che non poteva essere, come si
era tentato nei vari progetti antecedenti, una semplice correzione
della linea di Wilson. Il confine doveva essere al Monte Nevoso,
ed includerlo, saldandosi ai massicci montuosi settentrionali
secondo una linea prossima a quella del Patto di Londra,
escludendo solo quei territori che non fossero indispensabili alla
nostra difesa;
2.° Indipendenza dello Stato di Fiume (Corpus separatimi) senza
ingerenze o controllo della Società delle Nazioni. Tale Stato
doveva risultare contiguo al territorio italiano, o adottando il
confine del Patto di Londra, o attribuendo allo Stato di Fiume
alcuni dei territori intermedi;
3.° Annessione all'Italia delle isole di Cherso e di Lussino;
4.° Rinuncia a favore della Jugoslavia delle altre isole e della
Dalmazia del Patto di Londra, ad eccezione di Zara, con inoltre
garanzie per la cultura italiana, e col diritto dei dalmati di
optare per la cittadinanza italiana, conservando il loro domicilio
ed i loro beni.
Nel caso che i negoziati fossero falliti, sarebbe seguita una
azione decisa da parte nostra, per l'annessione dei territori
sopra indicati, e col mantenimento della occupazione militare, in
virtù dell'armistizio, delle isole e della Dalmazia, e con la
dichiarazione che saremmo stati pronti a negoziare la sorte
definitiva di quei territori in relazione al riconoscimento
internazionale della indipendenza di Fiume.
Le linee di questo programma furono poi da noi esposte nel
Consiglio dei Ministri, ed ebbero l'unanime approvazione; tutti
convenendo che, a parte Zara, non convenisse di insistere per la
Dalmazia, l'immensa maggioranza della sua popolazione non
essendo italiana.
Prima che i delegati jugoslavi venissero a Santa Margherita, non
ci fu alcun scambio di idee, né di domande, né direttamente né a
mezzo di intermediari di qualunque genere, fra una parte e
l'altra. La delegazione jugoslava che arrivò in Italia per la data
convenuta, era composta dei signori Vesnic, Trumbic e Stoianovich;
per l'Italia c'eravamo io, Sforza e Bonomi. Prima andarono Sforza
e Bonomi, io riservandomi d'intervenire se dalle prime
conversazioni apparisse la possibilità di giungere ad un accordo.
Ed infatti partii appena essi mi telegrafarono che le cose
parevano bene avviate, e la delegazione jugoslava sinceramente
volonterosa di giungere ad una soluzione. I negoziati procedettero
infatti assai rapidamente.
Arrivando ed intervenendo nel dibattito, io sostenni
immediatamente la necessità di non lasciare
che la discussione divagasse, e di venire subito alle questioni
precise. La seconda giornata dopo il mio arrivo, i negoziati
cominciarono alle nove del mattino; lavorammo tutto il giorno, ed
alla sera si arrivò alla conclusione. Io volli che si procedesse
senz'altro alla compilazione del trattato, che fu firmato alle due
dopo mezzanotte. La discussione fu molto serrata, ma pure sempre
amichevole. Uno dei fattori che concorse maggiormente a tale
rapido raggiungimento dell'accordo, fu la convinzione, che era in
entrambe le parti, della convenienza di stabilire fra i due paesi
rapporti commerciali molto intimi; in quanto la Jugoslavia poteva
trovare sul mercato italiano un largo sfogo della sua abbondante
produzione agricola, e noi potevamo rifornirla di prodotti
industriali, e specialmente di macchinario ferroviario e per
l'agricoltura. Quando ci separammo, Vesnic mi disse: — Le farà
molto piacere di apprendere che anche qui abbiamo ricevute delle
premure di Millerand perchè arrivassimo ad una conclusione. —
Il testo del Trattato fu redatto in italiano, poi in serbo; però
io insistetti che dovesse fare testo la versione italiana; perchè
i delegati serbi conoscevano benissimo l'italiano, mentre il serbo
non era conosciuto da alcuno di noi.
Concluso il Trattato di Rapallo, che fu approvato-dal Parlamento
ed accolto con soddisfazione dalla grandissima maggioranza
dell'opinione pubblica, bisognava eseguirlo; e ciò importava
anzitutto che Fiume si costituisse come Stato indipendente, e
quindi ne uscisse un Comando che era italiano e non fiumano.
Avevo già dichiarato, in discorsi pubblici, il mio rammarico che
la Conferenza di Parigi avesse rifiutato di riconoscere il
carattere italiano di Fiume, e di soddisfarne le aspirazioni; e
nei negoziati di Rapallo mi ero proposto ed ero riuscito a
salvarne l'indipendenza contro l'assegnazione che nel Trattato di
Londra ne era stata fatta alla Croazia. I miei sentimenti in
proposito non erano dubbi; ed io avevo potuto comprendere l'atto
compiuto dal D'Annunzio e dai suoi compagni con l'occupazione di
Fiume in un momento in cui la sua sorte pareva minacciata. Ma
quell'atto aveva però un lato oscuro e deplorevole per le
infrazioni che aveva portato alla disciplina dell'esercito,
inducendo dei soldati a venire meno al loro giuramento ed al loro
dovere; e qui va ricordato che il più glorioso condottiero
popolare della nostra storia, Garibaldi, anche quando credette,
nel fervore della ricostituzione nazionale dell'Italia, di dovere
compiere un' azione distinta ed anche contraria a quella a cui il
Governo era obbligato per i suoi impegni e le necessità
internazionali, non fece mai appello all'esercito, e non volle mai
che la compagine morale dell'esercito fosse in alcun modo offesa.
Il D'Annunzio ed i suoi, d'altra parte, una volta occupata Fiume,
non si tennero entro i limiti degli scopi che al primo momento li
avevano mossi ed avevano procurato loro l'approvazione di molta
parte dell'opinione pubblica, irritata pel modo con cui la
questione di Fiume era stata trattata nella Conferenza della pace,
e fermamente decisa a non consentire che quella città italiana
cadesse nelle mani dei croati, con violazione dei diritti che
erano ad essa riconosciuti anche nel regime imperiale
austroungarico; ma avevano concepito ed annunziati, più o meno
apertamente, ogni sorta di grandiosi e fantastici progetti, sia di
politica internazionale, sia nei riguardi della politica interna
italiana; mentre, per rifornirsi di mezzi e di armi, avevano di
fatto consumata una quantità di atti illegali, rasentanti la
pirateria.
In tali condizioni Fiume era diventata un centro di turbamento per
la vita italiana, ed anzi di pericolo, anche per l'enorme quantità
di armi e munizioni che vi erano state adunate; basti dire che
quando noi la occupammo, solo nella prima settimana ne caricammo
diciotto piroscafi per trasportarli a Pola e si continuò anche
dopo, per parecchio tempo, a scoprirvi depositi clandestini.
Io dunque, sia per gli impegni presi col Trattato
di Rapallo,
divenuto, dopo la approvazione del Parlamento, un solenne impegno
internazionale, sia per
ovviare a nuovi pericoli, avevo il preciso
dovere
di agire e di ristabilire a Fiume una situazione
normale.
Il pericolo più imminente, di cui avemmo
poi sentore, era che il
D'Annunzio e i suoi precipitassero le cose compiendo un atto di
aggressione
verso la Jugoslavia; il che avrebbe involta
l'Italia
in nuovi guai e nella peggiore delle umiliazioni;
perchè
niente vi è di più umiliante per un paese, e niente può più
gravemente ferire la sua dignità, che il dimostrarsi incapace di
tenere fede ai propri impegni internazionali, ed il venir meno
alle norme dei diritti delle genti.
Io sperai per qualche tempo che queste ragioni decisive sarebbero
state comprese e sentite dal D'Annunzio, e che la situazione
avrebbe potuto risòlversi senza che io dovessi compiere un
doloroso dovere ricorrendo alla forza. E contavo che, dopo i
risultati raggiunti a Rapallo, fra l'altro col conseguimento di un
confine che dava all'Italia, nel giudizio dello Stato Maggiore
dell'esercito, la piena sicurezza, il D'Annunzio, ascoltando il
consiglio dei suoi amici più autorevoli, non avrebbe turbata la
concordia del paese, che si mostrava sempre più necessaria per il
nostro prestigio fra le nazioni, e per l'urgente opera di
ricostruzione morale ed economica. Ed infatti questi migliori
amici del D'Annunzio, fra cui l'Ammiraglio Millo che era allora
governatore di Zara, fecero a questo scopo del loro meglio. Il
Millo, richiesto dal D'Annunzio stesso, l'incontrò in mare ed ebbe
con lui una lunga conversazione, dissuadendolo sopratutto dal
tentare una qualche azione in Dalmazia, di cui in quei giorni era
corsa la voce; ma neanche egli riuscì ad ottenere precise
assicurazioni o a rendersi chiaramente conto delle sue intenzioni.
Anche alcuni dei compagni che erano stati seco alla spedizione di
Fiume, se ne uscirono dichiarando di riconoscere che
col Trattato di Rapallo i destini di Fiume
erano ragionevolmente salvaguardati. Il governo fu pure richiesto
di fare il possibile per rispondere alle domande che D'Annunzio
avanzasse per i bisogni di Fiume dal punto di vista economico, e
per questo riguardo io detti pieno affidamento.
Ma tutto questo a nulla valse; e si mettevano avanti sempre nuove
pretese o questioni, intese a condurre le cose per le lunghe e a
intorbidire la situazione. Si giocò sopratutto sulla questione di
Porto Baros. Ora io avevo dovuto riconoscere che Porto Baros era
fuori dal Corpus separatum di Fiume, nel cui statuto noi avevamo
l'appoggio diplomatico e storico alla nostra tesi della
indipendenza della città; e che Porto Baros apparteneva
effettivamente ai croati, ai quali serviva pel commercio del
legname; ed in questo senso io avevo fatto nelle dichiarazioni
davanti alla Commissione parlamentare degli esteri. Ma del resto
tutto questo era una quisquiglia; il problema dovendosi
considerare sotto un aspetto ben più alto.
Il porto di Fiume aveva un grande valore per i paesi del
retroterra, e specie per la Croazia e per l'Ungheria, come lo
sbocco più prossimo e naturale per il loro, movimento commerciale;
ma viceversa il porto per sé stesso sarebbe stato morto, senza la
disposizione dei paesi del retroterra a servirsene, e senza l'uso
delle ferrovie che a quei paesi appartenevano. Era dunque il caso
di interessi reciproci, che avrebbero trovato la loro
soddisfazione in un accordo fatto con spirito cordiale e con
larghe vedute. La vita di Fiume è nel suo porto, ed era quindi
precipuo interesse dei fiumani di evitare qualunque rottura su
questioni secondarie, e trovare coi popoli del retroterra un largo
accordo di carattere commerciale, ed evitare fra l'altro che essi
cercassero altri sbocchi o si procurassero un altro porto.
Quando compresi che oramai era inutile cercare di indurre alla
persuasione il D'Annunzio e i suoi compagni della necessità e del
dovere di inchinarsi alle disposizioni del Trattato di Rapallo, e
di permettere che esse fossero eseguite riguardo a Fiume, dovetti,
con mio rammarico, decidermi ad agire. Io quindi detti incarico al
Generale Caviglia, che aveva il comando delle truppe della regione
Giulia, di fare comprendere definitivamente al D'Annunzio che il
Trattato doveva essere eseguito, e che egli e i suoi dovevano
sgomberare da Fiume. Ritardare più oltre questa esecuzione sarebbe
riuscito ad avvilire l'Italia agli occhi del mondo.
Alla Camera ed al Senato vi fu una certa agitazione fra i deputati
combattenti e nazionalisti, e si formò una commissione per recarsi
a Fiume a persuadere il D'Annunzio a non opporsi ormai
all'esecuzione del Trattato. Questa missione si mise prima in
contatto meco, offrendo la sua opera per evitare incidenti certo
dolorosi per tutti; ma io, pure apprezzando Io spirito da cui era
mossa, dovetti dichiarare che non potevo dare ad essa alcun
incarico, in quanto l'incaricato del Governo era il Generale
Caviglia, la cui autorità e la cui libertà d'azione, nei termini
assegnati, non dovevano essere in alcun modo diminuiti. Anzi,
perchè non nascesse nessun dubbio, e ad evitare qualunque
equivoco, io telegrafai al Caviglia per avvertirlo che i deputati
e senatori che si recavano a Fiume facevano ciò per conto proprio
e con la propria responsabilità personale e non avevano alcun
incarico, ne dal Governo, né dal Parlamento. Questo mio
telegramma, a scanso di ogni equivoco, io partecipai ai deputati
che andavano a Fiume.
Pur troppo essi pure non riuscirono a smuovere dai suoi propositi
il D'Annunzio, il quale, come apparve poi dopo, si era fatta
qualche illusione che l'esercito e la marina non avrebbero agito
contro di lui, o che almeno vi sarebbero state defezioni, e che
l'opinione pubblica si sarebbe commossa ed agitata in suo favore.
Nulla invece di ciò avvenne: i soldati e i marinai d'Italia
compirono, come sempre, austeramente il loro dovere, non ostante
il rammarico di dovere agire contro dei loro concittadini e
commilitoni; e l'opinione pubblica, anche nella maggioranza di
coloro che avevano innanzi approvata l'opera del D'Annunzio, non
lo seguì affatto in questa sua ultima azione. Segno codesto che in
tutti era l'intima convinzione che essa, in quella sua ultima fase
di opposizione alla volontà del paese, espressa nel Governo e nel
Parlamento, ed agli impegni del Trattato, non rispondeva più agli
interessi ed alla dignità della Nazione.
La restaurazione finanziaria dello Stato — Necessità di
cominciare col colpire la ricchezza — La nominatività dei titoli
e i creditori dello Stato — La legge sul pane e l'ostruzionismo
socialista — L'occupazione delle fabbriche e la condotta del
governo — Azione di polizia ed azione politica — I progetti di
controllo delle fabbriche — La crisi industriale — Perchè
indissi le elezioni e il loro risultato — Dissoluzione della
maggioranza e la crisi.
Il compito del Ministero da me presieduto in questo fortunoso e
difficile periodo del dopo guerra, oltre la soluzione delle
questioni di politica estera, e cioè dell'Albania, dei confini con
la Jugoslavia e di Fiume, comprendeva, secondo ho già accennato,
numerose questioni di politica interna, la cui soluzione, o almeno
l'avviamento ad essa, non era meno urgente per la salute del
paese. Erano questioni di ordine, di finanza e di rapporti fra le
classi sociali, strettamente connesse le une alle altre, e che
richiedevano quindi un'azione parallela e contemporanea, non
essendo presumibile di risolvere una di esse senza tenere conto
delle altre e lasciandole pel momento sospese. La più grave ed
urgente di tali questioni era, per me, quella delle finanze dello
Stato, il cui bilancio aveva una perdita di non meno di
quattordici miliardi. Se non si rimediava a un tale stato di cose,
riducendo in notevole parte tale enorme deficit, si sarebbe andati
rapidamente incontro al fallimento; o ad evitarlo si sarebbe
dovuto ricorrere ad un continuo aumento della circolazione, già
larghissima in confronto a quella di avanti la guerra, con la
immancabile conseguenza del rinvilio della moneta e di una crisi
generale della economia nazionale, come mostra l'esempio dei paesi
vinti che si sono lasciati scivolare per questa china pericolosa,
nella quale a un certo punto non è più possibile fermarsi.
Uno dei fattori più gravi nello spareggio del bilancio era
costituito dal prezzo politico del pane, che imponeva allo Stato
una perdita di sei miliardi all'anno; ma era pure evidente che
nessun governo avrebbe potuto affrontare con vera autorità morale
questo problema che toccava le masse, se non avesse prima
dimostrata la sua capacità a imporre i sacrifizii, necessarii al
bilancio dello Stato, alle classi più fortunate, e specialmente a
coloro che avevano fatta la loro fortuna nella guerra; questo
esempio di giustizia sociale essendo necessario per acquetare le
masse, e togliere gli argomenti più impressionanti alla propaganda
dei loro agitatori.
Per queste considerazioni, nell'opera legislativa intesa a
restaurare nei limiti del possibile le finanze dello Stato, alla
legge che doveva condurre all'abolizione del prezzo politico del
pane, io feci precedere i progetti intesi a colpire la ricchezza.
E il Parlamento, ritornando finalmente alla sua più alta funzione,
rispose nel modo più soddisfacente ai miei scopi. Tutti quei
progetti, che più sopra ho enumerati, furono infatti discussi fra
il giugno, il luglio, e la prima metà di agosto ed approvati, e
non solo dai gruppi costituzionali che avevano la loro
rappresentanza nel governo, ma anche dal partito socialista, che
pure nei sei mesi precedenti si era mostrato insofferente di
qualunque seria discussione.
Più tardi, quando anche la legge sul pane fu approvata, ed il
disavanzo del bilancio ridotto a meno di un terzo di quello che io
avevo trovato assumendo il potere, si cominciò a lamentare che i
provvedimenti da me proposti e che avevano ottenuta la quasi
unanime approvazione del Parlamento, in entrambi i suoi rami,
fossero troppo gravosi, ed una campagna fu iniziata specialmente
contro la nominatività dei titoli, non ancora in gran parte
applicata, per la evidente preoccupazione dei detentori di tale
forma di ricchezza, di trovarsi poi obbligati a pagare l'imposta
sul reddito, quella sul capitale e quella sulle successioni, alle
quali con l'espediente dei titoli al portatore, erano fino allora
in gran parte sfuggiti.
Codesta preoccupazione è figlia dell'ignoranza, in quanto mostrava
e mostra che costoro, pure di non sottomettersi, a vantaggio dello
Stato, ad un certo sacrifizio, non si peritano di andare incontro
a danni ben maggiori, se non alla totale rovina. Nessuno dovrebbe
essere infatti più interessato alla salute del bilancio dello
Stato che i detentori dei suoi titoli, cioè i suoi creditori;
perchè, a prescindere dalla ipotesi del fallimento, se si fosse
prolungata una condizione di cose, nella quale lo Stato si fosse
trovato costretto a provvedere al disavanzo mediante l'aumento
continuo della circolazione, ne sarebbe seguito un correlativo
rinvilio della moneta, che avrebbe ridotto a poco o niente il
valore della ricchezza a reddito fisso, quale è appunto la
ricchezza costituita da crediti, sia verso lo Stato che verso i
privati, nella forma di titoli, ipoteche ed obbligazioni.
In Inghilterra, dove la quasi totalità dei valori privati o di
Stato sono nominativi, e non possono quindi sfuggire all'imposta
sul reddito, mirabilmente congegnata, quella imposta durante la
guerra e dopo fu portata a percentuali che arrivano sino al
sessanta per cento. Ma mediante quel sistema, che ha rapidamente
assicurato il pareggio al bilancio, il valore della moneta inglese
è stato presso a che interamente salvato, con vantaggio appunto
dei detentori di titoli pubblici, che pagano le imposte come gli
altri, ma ricevono i loro interessi in una moneta non deprezzata.
Non occorre una eccezionale perizia finanziaria per rendersi conto
di come sia più vantaggioso pagare dal trenta al cinquanta per
cento d'imposta allo Stato, e ricevere da esso gli interessi in
moneta alla pari, che sfuggire all'imposta ed essere viceversa
pagato con moneta che perda, come ora la nostra, il settantacinque
per cento del suo valore.
L'interesse dello Stato e l'interesse dei suoi creditori sono
strettamente connessi; per cui costoro, anziché cercare di non
adempiere i loro obblighi di contribuenti, dovrebbero essere i
primi a dare l'esempio del dovere compiuto, per potere poi
esigere, anche a sicurezza del proprio capitale, l'adempimento
degli obblighi tributari da parte di tutti.
La legge sul pane fu da me presentata quando la Camera si riaperse
nel novembre, con lo scopo che si arrivasse a sopprimere ogni
intervento statale nella produzione e vendita del pane, ed a
ristabilire pei cereali e la loro macinazione la piena libertà di
commercio. Il progetto era congegnato in modo che l'aumento del
prezzo del pane, che sarebbe derivato da tale ritorno alla
libertà, avvenisse gradatamente, perchè il divario era in quel
momento altissimo, e per colmarlo il prezzo avrebbe dovuto essere
di un colpo pressoché triplicato. Ma una notevole parte del costo
del frumento d'importazione, che costituiva circa la metà del
fabbisogno, veniva dai noli marittimi, ancora assai alti; e si
aveva quindi la ragionevole persuasione che col miglioramento dei
mezzi di trasporto, dei quali vi era un enorme tonnellaggio in
costruzione in tutti i cantieri del mondo, il costo dei noli
dovesse rapidamente abbassarsi, con una correlativa diminuzione
nel prezzo dei cereali; come poi è avvenuto.
E intanto, per coprire la differenza transitoria, che non poteva
prolungarsi, secondo i calcoli fatti, oltre un anno, nel mio
progetto si stabilivano alcune imposte speciali, la più importante
delle quali era quella sul vino; parendomi giusto e conveniente
che chi, anche nelle classi popolari, volesse usare ed anche
abusare di un genere di lusso, quale è il vino, dovesse
contribuire a diminuire il costo di quella che è la base
dell'alimentazione per tutti.
La discussione di questa legge fu assai lunga. Vi era, a proposito
del prezzo del pane, una duplice compromissione: quella che il
Ministero precedente si era lasciato imporre dai socialisti, sotto
forma di ordine del giorno, accettato dal governo e votato dalla
Camera, che impegnava a non mutare il prezzo del pane se non con
legge approvata dal Parlamento; impegno che io avevo ereditato e
che per ogni verso era conveniente mantenere, perchè la
discussione e l'approvazione parlamentare avrebbe aiutato assai a
disarmare, o a togliere forza a quella opposizione che vi potesse
essere nelle classi popolari; l'altra, che i socialisti, con la
politica eccessivamente demagogica a cui si erano lasciati andare
nel dopoguerra, avevano assunta verso le masse.
Quegli impegni e quelle compromissioni non avevano nemmeno
un'ombra di ragionevolezza; volere mantenere il prezzo del pane di
prima della guerra con una moneta svalutata, quando in ragione
appunto di tale svalutazione i salari erano stati presso che
ovunque più che quadruplicati, sarebbe equivalso a pretendere di
dare il pane, prima della guerra, al prezzo di quindici centesimi
al chilo, cioè per due terzi gratis. Ora, se le distribuzioni
gratuite di grano e farina si potevano fare qualche volta alle
popolazioni povere delle città antiche o delle repubbliche
cittadine medievali; non ci poteva essere chi non sentisse
l'assurdità, anzi l'impossibilità economica di tali disposizioni
per un paese di quaranta milioni di abitanti.
Quel socialismo granario delle repubbliche cittadine di un tempo,
aveva la sua base sui tributi riscossi dai popoli soggetti; ma lo
Stato italiano, per pagare il pane gratuito avrebbe dovuto
stabilire tributi interni, che sarebbero ricaduti su tutti
egualmente, creando un semplice circolo vizioso, con di più il
danno degli inevitabili sprechi di tali amministrazioni a cui lo
Stato non è assolutamente adatto. Tali ragioni erano perfettamente
comprese dagli stessi capi socialisti più serii; ma essi poco
potevano fare contro la deliberazione dell'ostruzionismo presa
dalla direzione del Partito; in obbedienza alla quale ogni
deputato socialista era impegnato a presentare un ordine del
giorno ed a svolgerlo e sostenerlo con un lungo discorso.
Ma l'ostruzionismo può essere una valida arma di lotta quando
abbia dietro di sé ragioni serie e salde convinzioni; quando
invece esso non è che un artificio ed un pretesto, alla lunga non
riesce a sostenersi. Ed infatti l'ostruzionismo socialista contro
la legge del pane, fu lungo, in ragione al numero grande di
oratori iscritti a parlare contro, ma non energico; ed a vincerlo
bastò molta pazienza da parte del governo e dei partiti che lo
sostenevano. Con l'approvazione di quella legge il bilancio dello
Stato fu sgravato di sei miliardi, e con gli altri miliardi
forniti dalle nuove imposte sui guadagni di guerra, sulla
ricchezza e sul lusso, e le riduzioni di spese, il disavanzo, che
minacciava di travolgere l'intera amministrazione statale, fu
ridotto a circa quattro miliardi e mezzo, ai quali poteva
sopperire per un certo tempo il risparmio normale del paese.
Se l'opera di risanamento del bilancio dello Stato fosse poi stata
continuata con pari energia, le condizioni della nostra finanza
sarebbero ora assai migliori; ma pur troppo i piccoli interessi
riuscirono a prendere il sopravvento sui grandi interessi del
paese.
Qualche settimana dopo la chiusura del Parlamento, che fra il
maggio e la metà d'agosto aveva lavorato con efficacia ad un
programma di restaurazione e di giustizia, imponendo quasi una non
patteggiata collaborazione agli stessi socialisti, si ebbe, nel
settembre del 1920, l'episodio cosiddetto della occupazione delle
fabbriche, che causò impressione vivissima non solo all'interno,
ma anche all'estero, e fu considerato quasi come l'inizio di un
grandioso movimento rivoluzionario, consapevolmente condotto. In
realtà quell'occupazione, con tutti i suoi episodi concomitanti,
non rappresentò che lo sfogo supremo di quella situazione,
rivoluzionaria sì, ma disordinata, che si era lasciata formare
sotto il precedente Ministero. E che nell'occupazione delle
fabbriche ci fosse una vera preparazione a scopo rivoluzionario,
per parte almeno dei suoi più immediati istigatori, fu poi provato
dal fatto che, dopo terminata l'occupazione furono sequestrate in
molte delle fabbriche occupate, ed in ogni parte del paese, oltre
a parecchie migliaia di fucili e rivoltelle e bombe a mano ed armi
bianche di ogni genere, circa cento tonnellate di cheddite e di
nitroglicerina.
Ed essendo da presumersi che molta parte delle armi e degli
esplosivi fossero portati via nello sgombero, che fu compiuto
dagli operai volontariamente e senza contrasti, quel notevole
residuo così abbandonato può dare la misura della mole di quella
preparazione. A un certo momento, durante l'occupazione, in un
convegno indetto a Milano dalle varie organizzazioni socialiste,
fu apertamente discusso se il movimento dovesse essere spinto ad
una decisiva azione rivoluzionaria, e fu fortuna che prevalesse il
buon senso, specie da parte delle organizzazioni che
rappresentavano in modo più genuino le masse lavoratrici, evitando
al paese episodi sanguinosi.
L'occupazione delle fabbriche, per il modo con cui era avvenuta,
presentava al governo tutta una serie di problemi, immediati e
lontani; da quelli di semplice polizia a quelli di politica
sociale. Gli operai che avevano effettuata l'occupazione, in ogni
parte d'Italia, ma prevalentemente nella zona industriale della
Lombardia, del Piemonte e della Liguria, non erano meno di
seicentomila; e l'occupazione, provocata da una intempestiva
minaccia di serrata da parte di alcuni industriali, che non
avevano bene misurata la situazione ed i suoi pericoli, era basata
sul concetto, da parte della massa degli operai, di poter essi
gestire ed utilizzare le fabbriche senza intervento di capitalisti
e dirigenti; mentre i caporioni comunisti si ripromettevano di
fare uscire da quel movimento la vera e propria rivoluzione
sociale, come era avvenuto in Russia, contrastati però in ciò dai
socialisti laboristi più moderati, che in recenti visite avevano
già potuto rendersi conto della reale situazione russa e dei mali
infiniti che quella rivoluzione aveva inflitto non solo ai vinti,
ma anche a quelli che parevano i vincitori.
Io ebbi, sino dal primo momento, la chiara e precisa convinzione
che l'esperimento non avrebbe potuto a meno di dimostrare agli
operai l'impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi
capitali, istruzione tecnica ed organizzazione commerciale, specie
per l'acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti
che pure fossero riusciti a fabbricare. Per tale aspetto dunque
questo episodio rappresentava per me, in altre forme e condizioni,
la ripetizione del famoso esperimento dello sciopero generale del
1904, che aveva prodotto tanto spavento, per poi dimostrare la
propria inanità; ed io ero fermamente convinto che il governo
dovesse anche questa volta condursi come si era condotto allora;
lasciare cioè che l'esperimento si compiesse sino a un certo
punto, perchè gli operai avessero modo di convincersi della
inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il
modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento.
Questa convenienza politica più larga e lontana coincideva del
resto con le convenienze immediate di polizia.
Io fui allora accusato di non essere ricorso all'uso della forza
pubblica per fare rispettare la legge ed impedire la violazione
del diritto privato; di non avere, insomma, né
impedito
l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai,
nò
provveduto a cacciarli in ogni modo dopo che
l'occupazione era
avvenuta. Ma ammettendo anche
che io fossi riuscito ad occupare le
fabbriche prima
degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno
assai diffìcile considerata la ampiezza e universalità
del
movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco
comoda condizione
di avere pressoché la totalità della
forza pubblica di polizia,
Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi
i mezzi di
mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè
nelle
strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero,
rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei
rivoluzionarii, che non avrebbero
domandato niente di meglio. Se
poi, più tardi, fossi
ricorso alla forza pubblica per costringere
gli operai a lasciare le fabbriche occupate, ne sarebbe nato
un
vasto e sanguinoso conflitto, e con ogni probabilità le masse
operaie che le occupavano, prima di
cederle alla forza pubblica le
avrebbero devastate.
Quindi, tanto le ragioni politiche quanto quelle economiche, e le
convenienze immediate e quelle lontane,
coincidevano a consigliare
quella linea di condotta
che io ho allora seguita. Quella mia
condotta sul momento suscitò grandi allarmi e preoccupazioni;
ed
ebbi pressioni di ogni genere perchè adottassi misure più
energiche e mettessi fine con la forza ad
uno stato di cose che si
considerava assai pericoloso.
A cose finite ebbi poi la soddisfazione che gran parte di quegli
stessi che mi spingevano per quella via, riconobbero che quella da
me seguita era la sola che potesse ricondurre alla tranquillità;
con l'ulteriore vantaggio di togliere agli stessi operai molte
illusioni pericolose inducendoli a cominciare a diffidare delle
parole lusinghiere di chi li spingeva ad esperimenti che avevano
dati risultati ad essi dannosi. Ho poi saputo con sicurezza che
chi deplorò più vivamente la mia condotta, furono appunto quegli
agitatori che avevano calcolato di prendere le mosse
dall'occupazione delle fabbriche per arrivare ad un movimento
rivoluzionario generale.
Non occorse molto tempo perchè gli operai ed i loro capi più
autorevoli e ragionevoli si rendessero conto che la posizione da
essi assunta non poteva essere mantenuta; che le fabbriche venute
in quel modo nelle loro mani, senza direzione tecnica ed
amministrativa, e senza rapporti col mercato, non servivano a
nulla; e in alcuni casi si ebbero curiosi episodi che confermavano
questa dimostrazione; gli operai tentando di rapire nelle loro
case quei direttori ed industriali che avevano voluto mettere
fuori delle officine, per obbligarli a riassumere la direzione. Ma
la situazione non poteva prolungarsi, e gli stessi dirigenti degli
operai presero l'iniziativa e fecero passi per venire ad una
soluzione, con lo sgombero delle fabbriche occupate. Le trattative
a tale fine furono condotte fra i rappresentanti della
Confederazione del lavoro da una parte, e quelli della
Confederazione degli "industriali dall'altra; e furono iniziate a
Torino personalmente da me, con l'intervento dei due prefetti di
Torino e Milano, senatori Taddei e Lusignoli, e furono poi
concluse a Roma, in una lunga riunione, i cui risultati furono da
me riassunti col prò memoria seguente:
«— Premesso che la Confederazione Generale del Lavoro ha formulata
la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori
di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi, — traverso i loro
Sindacati — siano investiti della possibilità di un controllo
sulla industria, motivandola con l'affermazione che con simile
controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento dei
rapporti disciplinari fra datori e prenditori d'opera ed un
aumento della produzione, al quale è a sua volta subordinata una
fervida ripresa della vita economica del paese;
«Premesso che la Confederazione Generale della Industria non si
oppone a sua volta che venga fatto l'esperimento di introdurre un
controllo per categorie di industrie, ai fini di cui sopra;
«Il Presidente del Consiglio dei Ministri prende atto di questo
accordo e decreta:
«Viene costituita una Commissione paritetica, formata da sei
membri nominati dalla Confederazione Generale della Industria e
sei dalla Confederazione Generale del Lavoro, fra cui due tecnici
o impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che
possano servire al Governo per la presentazione di un Progetto di
Legge, allo scopo di organizzare le industrie sulla base
dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o
all'amministrazione dell'azienda.
«La stessa Commissione proporrà le norme per risolvere le
questioni relative alla osservanza dei regolamenti e
all'assunzione e al licenziamento della mano d'opera.
«Il personale riprenderà il suo posto. —»
I rappresentanti degli operai avevano insistito con molta energia
su questo principio che l'operaio fosse messo in grado di
controllare in qualche modo l'andamento della industria, per
accertarsi sopratutto che la sua rimunerazione fosse proporzionata
ai guadagni che l'industria conseguiva; ed anche i più avveduti
fra gli industriali, che sentivano già avvicinarsi la grave crisi
industriale che ha poi colpito tutto il mondo, e che sapevano che
le industrie generalmente non avrebbero potuto rispondere nel
futuro immediato alle continue domande di aumento dei salari, e
neppure mantenere i salari vigenti, non vedevano di mal'occhio che
agli operai fosse dato il modo di constatare quale fosse veramente
la condizione delle industrie.
La Commissione fu poi composta; ma, come non era difficile
prevedere, le due parti non riuscirono ad accordarsi su un
progetto comune, e finirono per presentare due progetti fondati su
principii diversi; gli operai per una parte sforzandosi di
estendere il principio del controllo e gli industriali di
limitarlo. Siccome io avevo assunto l'impegno di investire il
Parlamento dell'arduo e complesso problema, nella mancanza di un
progetto nel quale le due parti si fossero accordate, compilai io
stesso un disegno di legge che fu subito presentato alla Camera,
ed al quale io aggiunsi come allegati i progetti presentati dalle
due parti, ed inoltre un terzo, compilato dal Partito popolare
sullo stesso argomento, e fondato sul principio della
partecipazione degli operai agli utili dell'azienda, senza però
alcun accenno di controllo. A questo riguardo però io avevo
osservato che quando si ammette il principio che l'operaio abbia
diritto ad una quota degli utili, non gli si può negare di
controllare quale sia il vero utile a cui ha diritto di
partecipare, diventando egli in qualche modo un azionista.
Questo progetto presentato alla Camera, secondo l'impegno che io
avevo assunto, fu però lasciato in disparte, e neanche il partito
socialista ebbe più ad insistere per la sua discussione. Il che si
spiega con la grave crisi industriale, la quale, già assai
avanzata pure nei maggiori paesi industriali, quali l'Inghilterra
e gli Stati Uniti, cominciò a farsi sentire in Italia appunto
nella seconda metà del 1920, e si è poi sempre più incrudita.
Le organizzazioni operaie dovettero riconoscere la realtà di
questa crisi, che non potrà essere superata che fra lunghi anni,
col riassetto generale dell'economia mondiale; e preoccuparsi, più
che delle tendenze ideali, dei problemi immediati della
disoccupazione e della riduzione delle giornate di lavoro, con
conseguente diminuzione di salari.
A mio avviso, il concetto del controllo o di un più diretto
interessamento degli operai nelle vicende delle industrie in cui
sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non è che una
estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra
sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti
di lavoro e per la determinazione della misura dei salari; ma
l'introduzione o l'estensione di riforme di tale carattere nella
vita economica richiedono condizioni floride e non già tempi di
crisi, più adatti a promuovere agitazioni e aspirazioni vaghe, che
a fornire gli elementi per solide
costruzioni.
Dopo la firma del Trattato di Rapallo, che con l'assetto
definitivo delle nostre frontiere, lasciato sospeso nella
Conferenza di Parigi, compiva l'unità nazionale entro i confini
segnati dalla natura, s'imponeva al governo il dovere di chiamare
i cittadini delle nuove Provincie a partecipare pienamente alla
vita politica della nazione, eleggendo i loro rappresentanti al
Parlamento.
A questo fine si poteva giungere in due modi; o facendo elezioni
parziali per le nuove Provincie, chiamando i loro rappresentanti a
fare parte della Camera eletta nelle altre provincie del Regno coi
Comizii del 1919; o indicendo elezioni generali che chiamassero
contemporaneamente l'intero popolo italiano a determinare
l'indirizzo politico, economico, culturale ed amministrativo che
doveva essere dato al paese nel nuovo periodo storico che col
grande avvenimento del compimento della unità nazionale si
iniziava. Questo secondo modo appariva più degno, ed era inoltre
confortato dai precedenti.
Nel 1866 si erano veramente fatte elezioni parziali, dopo
l'annessione del Veneto, alla fine di novembre; ma poi soli tre
mesi dopo la Camera, che pure non aveva che un anno e quattro mesi
di vita, era stata sciolta, ed erano state indette elezioni
generali, con che le nuove Provincie avevano avuto l'inconveniente
di due elezioni politiche a tre mesi di distanza. E quattro anni
più tardi, per l'occasione dell'annessione di Roma, si indissero
le elezioni generali. Ma a queste considerazioni di carattere
storico e morale, se ne aggiungevano altre di carattere politico,
di più sostanziale importanza.
Le elezioni del 1919 erano state tenute in condizioni estremamente
sfavorevoli, quando, sia per le difficoltà interne, sia per gli
scacchi subiti nella Conferenza della pace, all'entusiasmo della
vittoria era succeduto un grave periodo di agitazioni e di
malcontento. Nell'autunno del 1919 l'Italia era ancora impegnata
in guerra nell'Albania; la nostra posizione nell'Adriatico
appariva debole e precaria, tanto che c'era da temere che gravi
difficoltà di ordine internazionale, che non si era riusciti a
superare, ci imponessero una soluzione del problema dei nostri
confini orientali contraria ai nostri più vitali interessi; a
Fiume si era creata una situazione che minacciava di dare origine
a nuovi conflitti; lo Stato era sempre sul
piede di guerra.
perchè vi era armistizio, non pace; e questa condizione di cose
imponeva alla sua volta un regime di monopolio e di ingerenze
statali di così vaste proporzioni da sopprimere quasi ogni libertà
commerciale; infine la finanza dello Stato, con un disavanzo di
almeno quattordici miliardi, poneva innanzi al Paese lo spettro
del fallimento, con le terribili conseguenze che ne sarebbero
derivate dalla completa svalutazione della moneta, dal fantastico
aumento del costo della vita, dalla caduta di Istituti di credito
e delle principali industrie; disastri questi che avrebbero
colpito tutte le classi sociali, ma sopratutto, e in modo più
duro, le classi lavoratrici.
Ed infatti codesta situazione, materiale e morale, del paese, ebbe
appunto la sua espressione nella Camera uscita da quelle elezioni;
non tanto pel gran numero dei deputati dei partiti estremi che
erano stati eletti, quanto per lo spirito generale da cui era
dominata, come apparve dalla sua stessa prima seduta pel discorso
della Corona, che risultò in una affermazione tracotante degli
elementi sovversivi, senza che gli elementi costituzionali si
mostrassero disposti e pronti a presentare una energica
resistenza.
Le condizioni generali del paese in un anno e mezzo di tempo erano
naturalmente mutate. Per il problema albanese si era ritornati
alla nostra migliore tradizione, intesa ad assicurare le
indipendenza dell'Albania, senza mire di dominio; il trattato di
Rapallo ci aveva alfine data la pace, assegnando all'Italia i suoi
confini naturali ed iniziando una politica di cordiali rapporti
non solo coi jugoslavi, ma anche con gli altri popoli che avevano
formato parte della Monarchia asburgese; la situazione di Fiume
era stata risolta, assicurandone l'indipendenza e l'italianità ed
eliminando i pericoli che potevano sorgere dalla irregolare
posizione in cui quella città si era trovata per oltre un anno e
mezzo.
All'interno lo stato di pace con tutte le sue conseguenze aveva
ormai sostituito lo stato di guerra; al regime del monopolio
statale succedendo quello della piena libertà commerciale. Infine,
mercè l'eliminazione del sistema del prezzo politico del pane, e
con l'applicazione delle imposte sui profitti di guerra, sulla
ricchezza e sul lusso, il disavanzo del bilancio era disceso da
quattordici a poco più di quattro miliardi; ad una cifra cioè che
con la rigida applicazione delle imposte vigenti, con migliori
ordinamenti che ne rendessero più efficace la riscossione, e con
una forte politica di economie si aveva ragione di sperare che
potesse in un tempo non remoto
essere pareggiata.
Era sempre stato, nel passato, mio fermo concetto che ogni
legislatura debba compiere il ciclo consentito dallo Statuto, per
poter così svolgere il programma pel quale il Paese ha affidato ai
deputati la sua rappresentanza; ed a questo concetto io avevo
sempre conformata la pratica nella mia opera di governo. Le
ragioni sopradette mi persuasero però della convenienza, anzi
della necessità, nel caso attuale, di derogare da tale pratica, e
di chiamare, alla distanza di circa un anno, e mezzo dalle
elezioni precedenti, il
paese a manifestare le proprie tendenze politiche nelle
condizioni di cose notevolmente mutate; tanto più che per certi
problemi che io consideravo di primo ordine, e che erano parte
integrale del programma con cui avevo assunto il governo, quale il
problema della libertà della scuola e dell'esame di Stato, si
erano manifestate, fra gli stessi partiti costituzionali dal cui
appoggio il governo dipendeva, contrarietà ed incertezze che solo
dal responso dei comizii generali potevano essere risolte.
Il programma col quale il governo si presentò alle elezioni non
era che un proseguimento di quello annunciato e in parte attuato
nei mesi precedenti, con più particolari richiami alle necessità
di riforme nell'amministrazione dello Stato e ad una politica
sociale intesa ad aprire nuovi campi di attività ed a dare nuovi
mezzi di graduale elevazione alle masse popolari. Per lo
svolgimento della lotta elettorale, considerando che la più grave
debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro
frazionamento, in confronto alla unione e compattezza dei
socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi
in cui tutte le forze dei vecchi, partiti liberali e democratici
fossero raccolte.
Le elezioni furono indette per il 15 maggio. Negli ultimi giorni
non mi fu più possibile occuparmi del mio ufficio perchè colpito
da atroce sventura, la morte di mia moglie Rosa Sobrero già da
tempo malata, che morì il 10 maggio a Torre Pellice, dopo 52 anni
di matrimonio passati nella più completa concordia. La stima
universale che essa godeva per il suo elevato carattere diede
luogo alle più commoventi manifestazioni di sincero cordoglio.
Contro le elezioni si erano dichiarati violentemente i socialisti
e il un gruppo di deputati che facevano capo all'on. Nitti,
pronunciando perfino minaccie contro la Corona. Fra l'altro era
stato addotto come argomento per ritardare le elezioni, le
condizioni alquanto turbate di alcune provincie; ma a mio avviso
la irrequietudine, che si manifestava appunto in episodi
riprovevoli e dolorosi, era una ragione di più per accelerarle,
perchè la manifestazione solenne della volontà del paese è la più
grande delle forze morali per imporre a tutti di cessare dalle
violenze ed inchinarsi alla legge.
Ad elezioni compiute, quegli stessi che le avevano deprecate
credettero di trovare nei loro risultati la conferma della
giustezza del loro punto di vista, in quanto che tali risultali
non rappresentavano spostamenti di numeri tali da mutare
decisamente la situazione. Tale giudizio era però assolutamente
erroneo; né io mi ero ne proposto né aspettato un capovolgimento
della situazione in tale senso, a cui fra l'altro si opponeva il
sistema elettorale della proporzionale, che pare appunto sia stato
inteso sopratutto, da parte dei suoi ideatori, ad impedire tali
bruschi e radicali mutamenti, che venivano qualificati come
rivoluzioni parlamentari, a cui appunto si prestava troppo,
secondo loro, il sistema maggioritario.
Infatti, in confronto di quelle del novembre 1919 le elezioni del
maggio 1921, dettero, su circa otto milioni di
votanti, uno spostamento di oltre mezzo milione di voti dai
partiti sovversivi a quelli costituzionali; proporzione certo
assai alta in così breve volgere di tempo, e che col sistema
maggioritario e il collegio uninominale sarebbe stata sufficiente
a ridurre di più della metà il numero dei deputati socialisti,
comunisti e repubblicani eletti nei Comizi antecedenti; mentre
tale spostamento di voti, col sistema proporzionale non poteva
portare che allo spostamento da venti a trenta seggi, quale
appunto si ebbe.
Ma, specie con l'uso di tale sistema, il risultato elettorale non
va misurato solo col numero dei seggi guadagnati o perduti dai
varii partiti, ma anche col carattere generale della nuova Camera
che ne deriva. Ora indubbiamente la Camera eletta nel maggio del
1921, riuscì ed apparve subito assai diversa, nel suo spirito, da
quella uscita dalle elezioni del 1919. A parte la perdita di
ventiquattro seggi da parte dei socialisti e comunisti, si ebbe in
quelle elezioni un notevole miglioramento nella qualità degli
eletti. In quelle elezioni entrò pure nel parlamento, con un
manipolo di una trentina di deputati, la più parte giovani ed
animati da spiriti combattivi, il partito fascista; ciò che io
considerai cosa vantaggiosa, perchè il fascismo costituendo ormai
una reale forza nel paese, era bene avesse la sua rappresentanza
parlamentare, secondo il mio antico concetto che tutte le forze
del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi il
loro sfogo.
Complessivamente la nuova Camera rappresentò anzi tutto una
rianimazione delle forze costituzionali, che nella Camera
precedente, specie nei primi mesi, erano apparse assai disanimate.
La nuova Camera fu convocata per l'11 giugno, pel discorso della
Corona, che ribadì nelle sue linee generali il programma che io
avevo annunciato assumendo il governo un anno innanzi.
Nei giorni seguenti si venne ad una discussione generale, nella
quale il governo si trovò di contro, oltre i socialisti e gli
altri elementi di costante opposizione, che gli rimproveravano le
elezioni e la costituzione dei blocchi, anche i nazionalisti e la
destra, che lo attaccavano per la politica estera e specie per la
meschina questione di Porto Baros. Venuti ad un voto di fiducia,
il governo ottenne una maggioranza di trentaquattro voti,
infirmata però da una dichiarazione fatta dall'on. Girardini a
nome del gruppo della Democrazia sociale, il quale, pure votando
pel governo, faceva delle riserve sul significato del suo voto.
Ora, è stata sempre mia abitudine di contare i voti di favore,
dati con limitazioni e riserve, come dei voti contrari, quali essi
diventano sempre, prima o poi, in una qualche successiva
votazione, perchè chi vota con riserva ha già ragioni o la
disposizione a votare contro. Nel caso attuale poi, il governo che
io presiedevo essendo un governo di coalizione costituzionale,
formato essenzialmente per l'attuazione di un programma, era
evidente che il distacco di gruppi costituzionali importanti,
toglieva ad esso l'autorità necessaria per compiere l'opera che si
era proposta.
Nei giorni che avevano preceduto il voto, io mi ero poi trovato
personalmente in contatto con rappresentanti o porta voce dei
varii gruppi costituzionali, dai quali avevo avuto vive premure
perchè mi decidessi ad un rimpasto del Ministero. Io ho già
espresso, in queste mie memorie, la mia ripugnanza a tale sistema
dei rimpasti, che non mi è mai apparso ne politicamente utile, né
leale verso i miei collaboratori. Nei Ministeri che ho presieduti
io sono sempre stato, in tutto e per tutto, senza riserve e
limitazioni, consenziente e solidale con la politica svolta dai
miei colleghi, e non ho mai ammesso che si possa esimere il capo
del governo delle responsabilità che toccano i suoi colleghi; ciò
che non sarebbe nemmeno suo onore, perchè farebbe supporre che
questi colleghi agiscano contro la sua volontà o a sua insaputa.
Tutte queste ragioni, come erano valse per il passato, valsero
anche questa volta a farmi dichiarare esplicitamente e formalmente
a coloro che insistevano, esprimendomi fiducia personale, che io
salvassi la situazione mediante un rimpasto, che ciò non intendevo
di fare; aggiungendo che la politica del Ministro degli esteri,
del quale più specialmente si chiedeva la sostituzione, era stata
condotta in tutte le sue parti in pieno accordo con me.
Aggiungo che se anche io avessi accettata come sufficiente, per
restare al governo, quella maggioranza apparente di treutaquattro
voti, avrei poco dopo incontrato un altro ostacolo, tale da
determinare da solo la crisi ministeriale.
Io avevo presentato un disegno di legge, approvato ad unanimità
dal Consiglio dei Ministri, coi quale chiedevo i pieni poteri per
effettuare la riforma burocratica, resa necessaria per le
condizioni del bilancio, per l'enorme numero di impiegati e di
istituti inutili, e per la convenienza di dare maggiore efficacia
e più sicuro indirizzo a molti servizii pubblici. A far ciò
ritenevo indispensabili i pieni poteri, unico mezzo per superare
la resistenza degli interessi di classe degli impiegati, e degli
interessi locali, ai quali i deputati difficilmente possono
resistere, e che uniti nella resistenza creano nella situazione
parlamentare difficoltà invincibili. Io comprendevo perfettamente
che il Ministero, quando avesse compiuta seriamente tale opera,
avrebbe dovuto lasciare il potere con molte maledizioni di
interessi privati offesi, ma, convìnto di rendere un servizio al
paese, ero deciso ad affrontare così grave responsabilità. Però in
quei giorni la direzione del partito popolare aveva deciso di
negare al Ministero i pieni poteri, e l'opposizione già era
incominciata nella Commissione incaricata di esaminare quel
disegno di legge. Ora, senza il voto dei deputati popolari il
disegno di legge non poteva essere approvato; e senza i pieni
poteri una riforma seria era, a mio avviso, impossibile. Data una
tale situazione, se anche la crisi non fosse avvenuta subito dopo
il voto della
Camera, sarebbe avvenuta pochi giorni dopo sulla questione della
burocrazia, lasciando ai successori definitivamente compromessa la
questione stessa.
Quindi, la mattina dopo il voto, io convocai il Consiglio dei
Ministri, ed osservai che dopo il distacco della destra e le
riserve della democrazia sociale, il Gabinetto non poteva
evidentemente contare più su una sicura maggioranza parlamentare,
che gli desse modo di esplicare il concreto programma di riforme
richiesto dalla situazione generale, economica e politica del
paese. I miei colleghi approvarono unanimamente la mia
interpretazione della situazione e le conseguenti decisioni, e
dopo quindici minuti il Consiglio fu sciolto.
Io mi recai immediatamente da Sua Maestà, a cui riferii le
decisioni prese dal gabinetto di presentare le dimissioni. Ed alle
tre dei pomeriggio il Ministero si presentò alla Camera, dove io
lessi la seguente dichiarazione: — «Ho l'onore di annunciare alla
Camera che, in seguito al voto di ieri, il Ministero ha
considerato che la piccola maggioranza riportata dal Ministero,
maggioranza il cui valore politico è diminuito da riserve fatte
nel corso della discussione, non dà al governo la forza necessaria
per affrontare le gravi questioni che si devono risolvere; e
quindi ha presentate a Sua Maestà le dimissioni. Sua Maestà si è
riservata di deliberare». —
Quando mi recai al Senato a ripetere tale dichiarazione, fui
accolto dall'alto consesso con un applauso quasi unanime, che, lo
confesso, mi fu di grande soddisfazione.
Nei giorni seguenti mi furono rinnovate da ogni parte premure
perchè io assumessi l'incarico della formazione del nuovo
Ministero; ma mantenni il mio rifiuto, ed indicai al Re gli on. De
Nicola e Bonomi, il quale ultimo formò poi effettivamente il nuovo
governo.
Nell'ultima adunanza del Consiglio dei Ministri,
tenuta il 1.°
luglio 1921, avanti la consegna del governo al nuovo Ministero, i
miei Colleghi mi presentarono, con grande cortesia, una specie di
ben
servito, scritto da Benedetto Croce, e recante la loro
firma,
e col quale mi è grato chiudere queste memorie della mia
vita.
«Al nostro illustre Presidente, in questa ultima riunione del
Consiglio dei Ministri, non abbiamo bisogno di dire con quanto
desiderio ci separiamo da lui. Il nostro sentimento risponde a
quello di tutto il popolo italiano, che in questi giorni mostra
con mirabile unanimità di sapere ricordare e riverire. Ma ha anche
qualcosa di particolare e di proprio: l'orgoglio di essere stati,
in un periodo difficile e storico della vita nazionale, suoi
collaboratori.»
Raineri — Croce — Luigi Rossi — Facto. — Giulio Alessio — Sechi —
Peano — Carlo Sforza — Luigi Fera — Pasqualino Vassallo — Marcello
Soleri — Antonio Labriola — G. Micheli — Giulio Rodino.