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GIOVANNI GIOLITTI

MEMORIE DELLA MIA VITA

Con uno studio dì
OLINDO  MALAGODI
MILANO
Fratelli  Treves,   Editori
1922

VOLUME  PRIMO.



I.

La famiglia e l'educazione.

La mia famiglia e la sua origine — Una democrazia medievale — La famiglia di mia madre: i Plochiù — La mia prima educazione in  montagna —  Gli  studi  a Torino:  letture  letterarie,  storiche  e filosofiche — Esercizii fisici: le escursioni e la scherma.

Le memorie della mia vita di famiglia nella fanciullezza, e della mia educazione sono semplici assai
e di tipo comune, senza niente di particolare o di
eccezionale. Sono nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì,
dove mio padre, Giovenale, teneva il posto di Cancelliere di quel Tribunale, e dove morì un anno appena
dopo la mia nascita, di una polmonite presa in una
gita di montagna. La famiglia di mio padre era originaria di Val di Macra; una delle vallate delle Alpi
Occidentali che da occidente a oriente confluiscono
al Po. Mio nonno paterno, che io non ho conosciuto,
era notaio a San Damiano di Macra, e faceva da
segretario e un po' da factotum a tutti quasi i Comuni della vallata. Le memorie della famiglia risalgono sino al nonno di mio nonno, del quale si
sapeva che era venuto da Acceglio, il Comune più
alto della Valle, sui 1500 metri, e propriamente dalla
borgata Lausetti, da cui vennero pure i Ponza di
 San Martino.

La nostra insomma era una famiglia di contadini-montanari, che deve avere vissuto per secoli in quella vallata che ebbe sempre una fiera indole democratica. Infatti la Val di Macra, da San Damiano in su, e sino al 1427, era stata, una piccola repubblica indipendente, retta da suoi speciali statuti, che ancora si conoscono. I capi di famiglia si radunavano annualmente ad Acceglio, e nominavano due consoli e due giudici per la durata d'un anno. Per un esempio della semplicità dei suoi statuti, valga la legge della istruzione pubblica, che si compendiava tutta in questa frase latina: — Quod quisquis possit tenere scholas, et quisquis adire scholas sine ulla molestia.

Questo istinto democratico si mantenne nonostante le mutate condizioni ed istituzioni. Nel 1427 la minuscola repubblica montanara fece un accordo coi marchesi di Saluzzo, accettandone la signoria, ma assai nominalmente; infatti i valligiani si riservavano la nomina dei giudici e pattuivano che nella valle non dovessero mai essere introdotti né il feudalismo né l'inquisizione religiosa; ciò che era notevole assai per quei tempi. Quando il Marchesato di Saluzzo si unì con la Casa di Savoia, questa si obbligò a mantenere tutte le concessioni già fatte. Ma quando essa, mancando agli impegni, iniziò persecuzioni contro i protestanti, dei quali erano nella valle alcuni nuclei, i valligiani tutti si sollevarono, e verso il 1550 ne nacque una guerra dichiarata. Il primo anno i valligiani ebbero la meglio, ma l'anno appresso furono battuti; e la Casa di Savoia, a compensare gli ufficiali che avevano condotto la piccola guerra, attribuì loro titoli di nobiltà presi da quei Comuni; e nacquero così le famiglie dei La Marmora, degli Stroppo, dei Paglieres e degli Acceglio.

I valligiani, battuti ma non disanimati, si opposero, ricorrendo alla Camera dei Conti e sostenendo che la Casa di Savoia non avesse diritto di dare titoli di nobiltà nella valle, il suo dominio essendo stato accettato col patto che non vi sarebbe mai introdotto il feudalismo. La Camera dei Conti respinse l'istanza; ma i valligiani, raccoltisi ad Acceglio, deliberarono che il primo dei nuovi feudatari che mettesse piede nel paese fosse ammazzato. E nessuno tentò mai l'avventura, restando così i soli titoli, senza alcuna effettiva applicazione dei diritti feudali in essi implicati. La valle così salvò e mantenne la sua democrazia.

Mia madre, di nome Enrichetta, era di una vecchia famiglia, i Plochiù, che si era distinta per il suo liberalismo. Suo padre, che aveva accolte le idee nuove, era stato Procuratore generale a Torino sotto il governo francese. Con l'avvento della restaurazione, nel 1814 egli si ritirò; e pochi anni dopo, nei moti del 1821, fu alla testa del movimento rivoluzionario nella provincia di Pinerolo. Domata l'insurrezione dovette riparare all'estero; ma poi gli fu concesso di rientrare nel regno con la esplicita condizione che vivesse in campagna; ed egli scelse a sua residenza Cavour, dove aveva preso moglie, che gli aveva fra l'altro recato in dote una casa; la stessa vecchia casa nell'interno del paese, dove io risiedo l'inverno. Oltre mia madre egli aveva avuto due altre figlie e quattro figli maschi; l'uno di essi, il medico Giuseppe Plochiù fu il primo deputato di Cavour, dove fu eletto nella prima Legislatura piemontese, nel 1848. Altri due suoi figli, Luigi e Melchiorre, furono magistrati, ed un quarto infine, Alessandro, fu fatto generale sul campo di battaglia di San Martino, dove aveva combattuto come colonnello alla testa del 6.° reggimento, che aveva prese le alture di San Maritino nel momento decisivo della battaglia. Tutti e quattro quei miei zii materni sono morti senza famiglia. Le due sorelle di mia madre sposarono una il colonnello Danesi, l'altra  il  Cav. Vaccaneo.

Con la morte precoce di mio padre, mia madre lasciò Mondovì e ritornò nella casa della madre sua e dei fratelli a Torino. Passai così fra questi quattro scapoli i primi anni della mia vita; essendo l'unico nipote con loro convivente ero naturalmente il beniamino della casa. Scarsi ricordi ho di quel periodo della mia vita che va fino  ai  sei anni; uno dei più vividi ricordi si riconnette agli avvenimenti del   1848-49. I  miei  zii mantenevano  calorosamente la tradizione liberale della famiglia, trasmessa loro dal padre ed accolsero quindi con grande fervore la concessione dello Statuto fatta da Carlo Alberto; ed io ricordo di essere stato condotto a vedere la partenza del Re per la guerra, con una grossa coccarda appuntata sui miei abiti infantili.

Come io apparivo di costituzione assai gracile, e la mia salute dava apprensioni a mia madre, che nella sua precoce vedovanza si era tutta consacrata alla mia educazione, mio zio medico la consigliò di portarmi in montagna; e mia madre lasciò Torino dove aveva la madre, le sorelle e i fratelli ai quali era profondamente affezionata e andò a stabilirsi da sola con me per tre anni, estate e inverno, a San Damiano, paese nativo di mio padre, piccolo comune della valle Macra a dieci chilometri sopra Dronero. Mio zio, per prescrizione medica, aveva aggiunto che mi si lasciasse trastullare come volevo con l'acqua e con la neve, e non mi si desse mai nessuna medicina. Prescrizione che ho fatto poi mia per tutta la vita; poiché a quasi ottant'anni a cui sono arrivato, io ho conservata una vera avversione alle medicine. Anche quando soffrii di una grave malattia di depressione nervosa, questa avversione alle medicine non mi si attenuò, e quando i medici me le ordinavano, io le discutevo, insistendo se fosse proprio necessario di prenderle, con l'effetto che non ne ho prese quasi mai....

In quel paese di montagna, a quei tempi incomparabilmente più appartato che tali paesi non siano ora, io fui pure iniziato alla scuola classica. Avevo già appreso a leggere e scrivere e presso a che compiuta la mia istruzione elementare sotto la guida di mia madre; a San Damiano cominciai l'istruzione ginnasiale, unicamente impersonata in un prete che godeva  di  un  beneficio   ecclesiastico   con  l'obbligo di fare i primi tre anni di Ginnasio pei ragazzi paesani. Lo ricordo ancora: si chiamava Don Bernardo Aymar, ed era un tipo singolare, intelligentissimo, poeta improvvisatore, conosciuto, e popolarissimo per tutta la vallata. Fui alla sua scuola, assieme ad altri cinque o sei ragazzi del paese, dai sette ai dieci anni, e feci qualche strada nell'apprendere il latino; ma il meglio del tempo passato lassù nei monti lo spesi a giocare e a rinforzarmi la salute.

A diedi anni, quando tornai a Torino, mi contarono quei tre anni di Ginnasio montanaro per uno, e mi ammisero alla seconda classe nel Ginnasio San Francesco da Paola, che poi mutò il vecchio nome in quello attuale di Ginnasio Gioberti.

In quella scuola non mi distinsi particolarmente, se non forse pel fatto che fui scolaro poco disciplinato. Nello studio ero fra i buoni, ma non fra i diligenti e primissimi. Lo studio a cui mi sentivo più invogliato era quello della storia, e negli esami dj storia prendevo spesso il premio. Ma lo studio delle lingue antiche, condotto anche allora con metodo grammaticale ed astratto, tutto fatto di regole e di eccezioni alle regole, mi repugnava; così pure poco mi attraevano le matematiche. Le mie preferenze erano per le materie più concrete. Ero attratto anche dalla lettura, e negli anni del Liceo feci un gran leggere di cose letterarie, specie dei nostri poeti dal trecento in poi. Poco lessi di autori stranieri, e di romanzi; preferii quelli di Walter Scott e di Balzac, per le loro connessioni con la tradizione storica o con la realtà attuale. I romanzi di intrigo o di passione non mi interessarono mai. Lessi e studiai molto di filosofia, specie dei filosofi allora celebrati, che erano il Rosmini ed il Gioberti; ma di questa passione filosofica fui poi guarito ad un tratto, ed una volta per sempre, dalla lettura della «Teorica del sovranaturale»  del Gioberti.

Passato alla Università, entrai nel corso di legge. Feci i due primi anni di quegli studi secondo il sistema antico, col quale il curriculo di legge era diviso in cinque anni; poi, introdotto il sistema nuovo, compiei tre anni in uno solo, prendendo dieci esami e la laurea in poche settimane, parendomi che nella Università si andasse a rilento e si perdesse tempo. Meco presero pure la laurea il Malvano, quello che poi fu Segretario Generale degli Affari Esteri e Senatore, ed il Senatore Bertetti. Negli anni d'Università m'interessai allo studio del Diritto; e particolarmente Diritto romano e Diritto civile e loro storia. Il maggiore o minore interesse che si può prendere in quegli studi molto dipende dai professori, e in quegli anni la Università di Torino non ne aveva di insigni. C'era veramente di uomini insigni il Mancini, o meglio avrebbe dovuto esserci; perchè in tutti i miei anni universitarii, non che sentirlo, non l'ho visto mai.

In quegli anni, cioè fra il '57 e il '60, io non ho conosciuto nessuno degli uomini politici in vista. Vidi spesso il Cavour ed ascoltai i suoi discorsi alla Camera, ma non ebbi rapporti con lui.

Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla. Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna; andavo a caccia e tiravo di scherma. Mia madre, che era donna di carattere molto energico, tanto che mio zio il generale soleva dire che avrebbe potuto comandare bene un reggimento, mi teneva sempre in moto. Nella scherma, alla quale mi dilettavo molto, ebbi maestro Achille Parise, padre del famoso schermitore Masaniello, poi Gandolfi e Sprani. Seguitai ad esercitarmi anche dopo, quando ero impiegato a Firenze, dove ebbi maestri Enrichetti, Borelli, Sampieri, Bellincioni. Ero diventato espertissimo e famoso; in accademie pubbliche avevo battuto anche dei maestri di professione. Credo che quell'esercizio giovanile mi abbia servito poi anche alla scherma parlamentare.

Ricordo in proposito un episodio curioso. Quando appartenevo al Ministero Crispi quale Ministro del Tesoro, un giorno, essendo assente Crispi, dovetti rispondere ad una interpellanza di politica estera presentata dall'Alfieri, che aveva dette parecchie corbellerie. Risposi con molta verve ed ironia, e quando ebbi finito, Farmi, presidente del Senato, mi disse: — Lei, nella sua giovinezza deve avere studiato e praticato assai bene di scherma; me ne sono accorto dal come ha risposto.

Ho detto che non ho mai avuti rapporti personali con Cavour. Egli era però molto amico del mio zio materno Melchiorre, che era anche azionista del suo giornale Il Risorgimento. E fu a mezzo di quel mio zio, il quale aveva molta influenza nel paese, che Cavour fece eleggere deputato al collegio di Cavour-Vigone, il famoso Gallenga, perchè, essendo il Gallenga corrispondente del Times, Cavour che conosceva la grande influenza di quel giornale nella vita politica inglese d'allora, teneva ad averlo alla Camera. A quell'elezione seguì poi il famoso episodio Gallenga-Mazzini. Il Gallenga infatti aveva rivelato come il Mazzini avesse tramata l'uccisione di Carlo Alberto,, che doveva essere consumata a mezzo di un pugnale ornato di lapislazzuli, da un certo Mariotti. Il Mazzini, irritato, rispose in modo fulmineo, rivelando alla sua volta che il nominato Mariotti altri non era che il Gallenga stesso, il quale per questo scandalo dovette dimettersi da deputato.

II.
La carriera amministrativa.


Entro al Ministero di Grazia e Giustizia — La mia prima caricatura —La morte di mia madre e il mio matrimonio — Mia opera pel riordinamento della riscossione delle imposte — La figura e l'opera di Sella e di Lanza — Entro segretario generale alla Corte dei Conti—Sono  nominato  consigliere   di  Stato — La mia candidatura  e l'elezione a deputato.


Così, a poco più di diciotto anni, avevo compiuti tutti i miei studi, ed ero fornito di laurea per entrare nella vita pratica. Ma per l'avvocatura, a cui avrei dovuto avviarmi, non avevo alcuna simpatia; feci un po' di pratica nello studio dell'avvocato Marini, che allora era uno dei più rinomati avvocati di Torino, ed all'Ufficio dell'avvocatura dei poveri; ma per poco tempo, poiché ai primi di febbraio del 1862 fui chiamato, con niente meno che il grado altissimo di «aspirante al volontariato» nel Ministero di Grazia e Giustizia dall'allora ministro Miglietti, principale autore del nuovo Codice Civile. Egli mi applicò al suo Gabinetto. Poi passai, per esame, volontario e uditore in magistratura. Al Miglietti successe poco dopo Raffaele Conforti. Eravamo nell'anno 1862, e si doveva nominare tutta la nuova magistratura napoletana dopo  l'annessione. 

Il Conforti, che era napoletano, domandò per procedere a questo compito delicato e pieno di possibili insidie, che gli si desse un impiegato che non solo non fosse napoletano, ma non conoscesse nessun napoletano; e gli fui indicato io, appunto per la mia giovinezza; ed in quel posto mi passarono per le mani tutti i rapporti riservati e le informazioni più gelose. Successero poi al Conforti il Pisanelli, il Vacca, il Cortese, il De Falco, tutti napoletani; poi il Borgatti, di Cento di Ferrara, che mi fece suo segretario particolare. Ricordo che Segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia era allora l'Eula, sotto i cui ordini io lavoravo; e poi circa trent'anni dopo l'Eula, che era diventato Presidente della Cassassione di Roma, accettò di entrare quale Ministro di Grazia e Giustizia nel mio primo Ministero, avendo prima rifiutato l'offerta di quel dicastero da parte di altri uomini politici.

Nei cinque anni che passai al Ministero di Grazia e Giustizia ed al Gabinetto del Ministro, oltre il lavoro ordinario, io fui occupato più specialmente a raccogliere elementi e materiali per la grande Commissione, nominata da Miglietti, che preparava la compilazione del Codice Civile. Avevo a mia disposizione la biblioteca, con tutti i principali autori italiani e forestieri; e quel lavoro e quello studio servirono assai a formarmi una cultura giuridica, che mi fu poi sempre di grande aiuto.

Il Governo era in quegli anni passato a Firenze, ed io l'avevo seguito, essendo sempre addetto alla Segreteria Generale, tenuta ancora dal Borgatti, e lavorando in una stanza accanto alla sua. Il Borgatti era uomo di molto valore, ma assai modesto. Ora nel '66, quando scoppiò la guerra, e La Marmora dovette partire pel campo, Ricasoli, assumendo la Presidenza, avvertì il Borgatti di avere bisogno d'un Ministro di Grazia e Giustizia, e l'incaricò di trovarglielo. La cosa dovette esser risaputa, e parecchi aspiranti vennero a cercare il Borgatti ed a raccomandarglisi, facendo valere i loro titoli e benemerenze. Il Borgatti, molto conscienziosamente, fece una terna di nomi e la presentò al Ricasoli, il quale gli rispose: — Ma come: non avete ancora capito che il Ministro dovete essere voi? — Così avvenne che quando qualcuno degli aspiranti si ripresentò, Borgatti non potè a meno di avvertirlo che non sarebbe stato incluso nel ministero; ed io ricordo di avere sentito dalla mia camera attigua, uno di essi scoppiare in singhiozzi alla notizia dolorosa. Tanta era, già allora, la passione di ornarsi del nome di Ministro.

Intanto, mia madre che era venuta con me a Firenze era caduta malata e desiderava tornare a Torino dove aveva i fratelli e le sorelle; ed io, avendo già preso da tempo l'esame di Magistratura, e avendo titolo per la nomina a sostituto Procuratore del Re, chiesi di essere destinato a Torino. L'istanza fu accolta ed io vi andai quale sostituto Procuratore del Re a quel Tribunale. Ero allora sui ventiquattro anni, ed avevo la disgrazia di parere ancora più giovane; e la mia giovane età e quella apparenza dettero occasione alla mia prima caricatura, stampata nel Fischietto, che mi raffigurava nella veste di Magistrato, con la toga e col tocco, fra le braccia della balia.

Allora a Torino c'era un foro molto rumoroso; ed io venivo mandato in Tribunale a fronteggiare gli avvocati più battaglieri, nei processi più agitati, come i processi di stampa.

La salute di mia madre si era intanto andata aggravando, tanto che essa morì nell'agosto 1867.

Due anni dopo morì mio zio medico Plochiù. Mio zio generale morì più tardi assai, nel gennaio 1888, ad ottantadue anni; mio zio Luigi magistrato morì pure nel febbraio di quell'anno, avendo compiuti gli ottantasei anni; e mio zio Melchiorre morì poi a settantasette anni, nel   1894.

Nel febbraio del 1869 il Senatore Pallieri, Presidente della Commissione centrale delle Imposte dirette, mi chiese se fossi disposto a ritornare a Firenze, come membro e segretario capo di quella Commissione. Dopo la morte di mia madre nessuna ragione particolare mi tratteneva a Torino, dove ero tornato solo per cagione sua; così io accettai volentieri, :e prima di partire per Firenze, il 31 marzo del 1869 presi moglie. Mia moglie, Rosa, era di una famiglia Sobrero. Suo padre era stato sostituto Procuratore Generale della Cassazione di Torino, ma era morto da molti anni in giovane età; egli era fratello di Ascanio Sobrero, il celebre chimico che inventò la nitroglicerina. Un altro fratello di suo padre
era generale del Genio ed era stato il disegnatore e
costruttore della fortezza di Alessandria.

Io vidi per
la prima volta quella che fu poi mia moglie, l'8 gennaio 1869 e ci sposammo il 31 marzo dello stesso
anno.    ,

Ritornai così a Firenze, dove fui subito occupato da quel nuovo lavoro che era di grande importanza per l'ordinamento dello Stato, e che richiedeva da parte mia tutta una nuova preparazione. Sulla fine di quell'anno la mia posizione cambiò ancora, mettendomi a contatto con un uomo di grande valore, a cui devo molto per la mia cultura amministrativa; Quintino Sella. Questi, avendo assunto, in una crisi ministeriale, il dicastero delle Finanze, a cui intendeva dedicare tutto il suo studio e la sua opera, chiese al Senatore Pallieri se nella Commissione da lui presieduta ci fosse qualcuno che avesse speciale conoscenza di cose legali. Il Pallieri gli fece il mio nome, e mi mandò dal Sella, che mi incaricò subito di un certo lavoro, che io finii e portai subito l'indomani. Me ne diede un altro, che fu subito compiuto; e di lì a qualche giorno il Sella mi richiamò ancora offrendomi il posto di Capo sezione alle Finanze. Accettai, e lavorai secolui, come segretario particolare, tutto il '70 e il '71. La capitale essendosi trasferita a Roma, il Sella venne pure a Roma; ma il Ministero rimase a Firenze, attendendosi la costruzione del palazzo, che fu finito solo nel '76.

Poco dopo, all'inizio del '72 il Sella pensò di porre mano a riordinare la Direzione generale delle imposte, che si trovava in grave stato di disordine, affidandola al deputato Giuseppe Giacomelli, di Udine, che si era già occupato, quale membro di una Commissione, di studi finanziari in quel Ministero stesso. Il Giacomelli, col quale io mi trovavo già in contatto, si dichiarò disposto ad assumersi quell'incarico, col patto però che io andassi con lui. Col consenso del Ministro, io accettai. Il Sella attribuiva a quel riordinamento una primaria importanza, specie per l'applicazione della nuova legge generale per la riscossione delle imposte. Eravamo ancora nel periodo costruttivo del nuovo Stato; e per la riscossione delle imposte vigevano sette sistemi diversi, ereditati dagli Stati scomparsi. Eccetto che nel LombardoVeneto, dove il sistema austriaco era affine al nuovo nostro, vi era tutto da mutare; in alcune regioni si riscoteva direttamente, in altre per appalti; in Toscana la riscossione della parte erariale era fatta a mezzo dei Comuni, i quali si erano trattenuti trenta milioni, dovuti allo Stato. Ne seguiva una grande confusione, con effetti rovinosi per l'entità stessa delle riscossioni, che avevano dietro una grande massa di arretrati. Occorreva compiere dunque una duplice opera; ricuperare questi arretrati, che sommavano alla cifra, stupenda per quei tempi, di duecento milioni, impiantando ad un tempo il nuovo sistema di riscossione, efficace ed uniforme per tutto il paese.

E questa opera doveva compiersi contro l'opposizione e l'ostilità degli interessati, i quali non volevano saperne di pagare gli arretrati ed ostacolavano l'impianto del nuovo sistema che non avrebbe permessi più gli antichi abusi. A. Messina e altrove furono uccisi degli esattori; i Comuni stessi che dovevano dare gli appalti vi si rifiutavano, e bisognava fare le aste d'ufficio, a mezzo dei prefetti. Vi era anche il lato comico; siccome in alcune provincie gli antichi regolamenti per la riscossione delle imposte davano facoltà alla direzione delle imposte di sospendere il versamento, da parte degli esattori, delle quote dovute da contribuenti irreperibili, così gran numero di questi, anche fra i maggiori, erano fatti apparire irreperibili. Ricordo che fra gli irreperibili apparvero alti funzionarli; irreperibili si dichiararono per fino degli stessi percettori delle imposte; e come irreperibile fu classificato per fino il municipio di Catania.

L'impianto del nuovo sistema, fronteggiando tutte queste difficoltà, fu un lavoro diabolico. Per condurlo a termine mi erano stati assegnati quattro funzionari, due dei quali erano ispettori superiori, e due caposezioni di prima classe; così che io, che dovevo comandarli, ero un funzionario di grado inferiore, essendo solo caposezione di seconda classe. Prevedendo le difficoltà che potevano risultare da questa curiosa situazione, posi per condizione che mi fossero dati i poteri necessari; e poi chiamati i miei collaboratori designati tenni loro un breve discorso, avvertendoli che bisognava lavorare sul serio, e che chi mancasse al proprio dovere sarebbe stato licenziato. Non ebbi poi che a lodarmi della loro collaborazione, e diventammo buoni amici.

Al principio dell'anno in cui avevo dato inizio a quel lavoro, il presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Lanza, al quale dovevo spesso rivolgermi perchè il collocamento delle esattorie si faceva per mezzo delle prefetture, un giorno mi aveva detto che, se alla fine dell'anno medesimo, delle cinquemila esattorie che si dovevano impiantare, ne rimanessero ancora vacanti cinquecento, il governo avrebbe potuto considerarsi soddisfatto. E l'ultimo giorno dell'anno io gli potei dare la notizia che non ne restava vacante che una sola, e anche questa solamente perchè l'assuntore era morto in quei giorni.

Quella mia lunga collaborazione con Quintino Sella, oltre che giovare grandemente alla mia educazione amministrativa, mi pose sotto gli occhi l'esempio di una capacità ed attività politica superiore. Il Sella infatti era indubbiamente un uomo di primo ordine, e che ha resi all'Italia, con un lavoro duro e continuo, servizii maggiori che non gli siano generalmente riconosciuti. Intelligentissimo e coltissimo, era sopratutto dotato di una sorprendente prontezza ad afferrare qualunque questione gli fosse presentata. Era poi un grande lavoratore; ricordo che quando io mi recavo da lui al mattino lo trovavo che era già da qualche ora al suo lavoro, perchè si alzava e vi si metteva regolarmente alle cinque. Di studio e professione era ingegnere delle miniere, e la sua opera in questo campo ha avuto per l'Italia una importanza classica; ma poi si era assimilato altre materie,  e specie nel  campo  finanziario, nel quale aveva già fatta esperienza come ministro nel 1862 e nel 1864. La sua benemerenza capitale nella costituzione del nuovo Stato italiano, fu appunto la rigidezza e la fermezza con cui ne amministrò le finanze nei  primi,  difficilissimi  tempi.

Era fermissimo di carattere sempre, ma in special modo quando si trattava di difendere l'erario dello Stato. Ricordo in proposito un curioso episodio. Era allora in funzione la Commissione per la perequazione dell' imposta fondiaria presieduta dal Menabrea, la quale, volendo affrettare l'adempimento del compito ad essa affidato, prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i commissarii si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei commissarii, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio esclamò: — Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio, verrò a lavorare con due candele in tasca. — Bravo! — gli rispose il Sella, — così mi risparmi anche il petrolio! — E rifiutò la piccola concessione.

Altra grande benemerenza del Sella, fu la sua insistenza, che valse moltissimo, perchè si andasse a Roma. L'opinione in proposito non era unanime nel Ministero; alcuni degli uomini più autorevoli della Destra, specie quelli di origine neoguelfa, erano titubanti; fra gli altri Cesare Correnti, contro il quale Sella si scaldava, qualificandolo «quel benedetto canonico!» La sua energia vinse le incertezze, e fu fortuna; perchè se non si coglieva quel momento chi sa quali altre difficoltà nell'interno e dall'estero  si  sarebbero  sollevate.

Col nome del Sella si accoppia quello del Lanza, che era Presidente del Consiglio del Ministero in cui il Sella teneva le Finanze. E i due uomini si rassomigliavano assai, per la semplicità ed austerità della vita; per la grande onestà, e pel carattere dell'intelligenza. Il Lanza era meno vivo e meno ricco di pensiero e di cultura del Sella; per me egli rimane il tipo perfetto dell'uomo di buon senso, fermissimo e rettissimo. La modestia della sua vita famigliare è rimasta proverbiale; ed in questo egli era grandemente coadiuvato dalla moglie, la quale attendeva agli affari della loro piccola proprietà campagnola, mentre il marito occupava il primo posto al governo. Quando il Lanza morì il Re volle offrire alla vedova una pensione come collaressa dell'Annunziata, al cui ordine il Lanza apparteneva. Ma essa rifiutò dicendo: — Se con quello che avevamo abbiamo vissuto in due, posso tanto meglio vivere io, ora che sono sola. —

Poco dopo fui nominato capo divisione. Si ebbe una crisi ministeriale (luglio 1873); il Sella cadde e gli successe Minghetti, il quale con la Presidenza prese le Finanze. Il Giacomelli, che aveva accettata la Direzione generale delle imposte dirette solo per deferenza al Sella, si dimise. Nel frattempo Desambrois, di Oulx, che era stato nel 1848 uno dei firmatari dello Statuto e poi Presidente del Senato, e che teneva il posto di Primo Presidente del Consiglio di Stato, senza che io l'avessi mai conosciuto mi mandò a chiamare, e mi chiese se avrei accettato il posto di referendario al Consiglio di Stato; posto che veniva lasciato da Angelo Fava, lo scrittore, che andava a riposo. Io avevo accettato; ma nel frattempo il Minghetti, dopo le dimissioni del Giacomelli, aveva offerto il posto lasciato da costui ad Enrico Pacini, il quale da prima rifiutò, rincrescendogli di allontanarsi da Firenze; ma poi finì per cedere, mettendo la condizione che io fossi Ispettore generale con lui, e Minghetti gli rispose annunciandogli di avere già mandato alla firma il decreto suo ed il mio.

Rimasi con Minghetti per tutta la durata al suo ministero, che andò dal 10 luglio del '73 al 18 marzo '76, e fu l'ultimo ministero di Destra. Ebbi quindi occasione di apprezzare l'uomo, che per molti rispetti meritava tutta la stima che gli fu tributata, e della quale rimane ancora il ricordo. Le sue qualità precipue erano una eccezionale facilità a capire subito qualunque problema, ed una straordinaria facoltà di assimilazione. Ricordo in proposito che, quando egli era alla Camera, io dovevo stare in una tribuna per essere pronto a fornirgli le informazioni e gli elementi di cui avesse immediato bisogno nella discussione parlamentare, che era allora vivace assai,
ma anche concreta. Era fra noi convenuto un segnale; egli alzava un foglio rosso, ed io allora discendevo e l'incontravo nel suo Gabinetto di Presidente, e gli fornivo gli elementi tecnici che servivano per la sua risposta; e su quei dati, comunicatigli in fretta, egli svolgeva subito, e con signorile facilità, un bel discorso. Era signorile in tutto, nei modi e nella cultura, e questa sua qualità era molta parte del fascino  che egli esercitava su tutti.

Aveva poi certi suoi espedienti, affatto particolari. Eccone un caso. Si stava studiando la perequazione della imposta fondiaria, ed una Commissione di venticinque Senatori e Deputati, presieduta dal Menabrea, dopo lunghi studi aveva presentato un progetto di nientemeno che centosessanta articoli. Il Minghetti mi chiamò e mi disse: — Non mi è possibile di presentare un progetto talmente farraginoso; vuole esaminarlo lei procurando di abbreviarlo e semplificarlo ? — Quando poi, qualche settimana dopo, gli annunciai che il mio lavoro era compiuto, egli mi fissò un giorno ed un'ora per portarglielo. Quando mi recai all'udienza, nell'anticamera del Ministro trovai il Caneva, capogiunta del censimento a Milano, e il Baravelli, ispettore generale delle Finanze; ed allora io appresi, o meglio tutti e tre apprendemmo che lo stesso incarico era stato dato ad ognuno di noi, ad insaputa gli uni degli altri. Quando fummo ricevuti da Minghetti, il Caneva annunziò, con la sicurezza di avere compiuto un tour de force, che gli era riuscito di ridurre il progetto, dai centosessanta articoli originarli a soli sessanta. Il Baravelli presentò allora il progetto suo che la vinceva su quello del collega, gli articoli essendovi ridotti a quarantacinque. — E il suo? — chiese Minghetti a me. Glie lo presentai; io aveva ridotti gli articoli a tredici in tutto. Minghetti prese il progetto mio per base, e mi incaricò di compilare la relazione per la Caniera, che condussi a termine di lì a sei settimane.

Quando, con quella che fu chiamata la rivoluzione parlamentare del 1876, venne al potere la Sinistra, e Minghetti cadde, Depretis, formando il primo Ministero di Sinistra, prese il portafogli delle Finanze; segno che gli uomini più ponderati della Sinistra si rendevano anch'essi conto della preponderanza del problema finanziario, che aveva tanto preoccupata la Destra. La Direzione delle Finanze, essendo ormai finito il palazzo di sua sede, si trasferì allora da Firenze a Roma; e siccome il Pacini non volle lasciare Firenze, così io nel settembre del 1876, venendo a Roma, fui da Depretis incaricato di continuare a reggere quella Direzione. Vi rimasi circa un anno. Depretis aveva seco, quale Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri, senza però la facoltà, che fu data poi, di parlare e rispondere alla Camera ed al Senato a nome del Governo), il deputato Sesmit Doda, che gli era stato imposto dagli elementi estremi del partito. Il Sesmit Doda   era  un  brav' uomo,  ma  alquanto   fantasioso, «furioso» come lo chiamava Depretis; non aveva pratica di amministrazione e aveva chiamati al suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge, che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì, ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che nel dicastero «si congiurava». Io capii l'allusione, e gli risposi che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo, del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò : — Dica, dica. — Allora io dissi: — Se io volessi congiurare contro il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi dà,.... — Depretis scoppiò in una risata, e Sesmit Doda, furioso, prese il cappello e se ne andò. Io allora osservai al Depretis che in quelle condizioni di malinteso, di contrasto e di sospetto col Segretario generale non sarei rimasto, e gli presentai le dimissioni; accettando, solo, su sua richiesta, di rimanere provvisoriamente.

Pochi giorni dopo, ebbi dal Presidente della Corte dei Conti, il senatore Duchoquet, l'offerta di andarvi come Segretario generale; posto che era di nomina della Corte stessa. Depretis acconsentì, col patto che quando avesse bisogno di me mi avrebbe chiamato, come fece effettivamente molte volte, e ricordo in specie per farmi esaminare i progetti delle Convenzioni  ferroviarie.

Alla Corte dei Conti rimasi cinque anni, con l'intervallo di sei mesi nel '79, quando ebbi dal Depretis l'incarico di Regio Commissario delle Opere Pie di San Paolo in Torino, la cui amministrazione era stata sciolta. Trovai allora che molti milioni erano impiegati in azioni di banche fortemente impegnate in speculazioni edilizie. Prevedendo che sarebbero finite male, come avvenne infatti pochi anni dopo, vendei tutte quelle azioni investendo il prezzo in obbligazioni ferroviarie garantite dallo Stato. E non contento di ciò feci inserire in un nuovo statuto da me proposto un articolo che proibiva l'acquisto di azioni speculative nel futuro. A mio avviso quella importante Opera Pia doveva sopratutto avere di mira la sicurezza dell'impiego, ed infatti seguendo quel sistema non ebbe mai alcun danno.

Avevo da poco tempo condotta a termine quella mia missione, quando, nel settembre del 1879 mi colpì una terribile disgrazia, la tragica morte del mio figlio primogenito, Lorenzo, di sette anni, un bimbo intelligentissimo. La mia famiglia si trovava a Chiomonte, in Val di Susa, a villeggiarvi, ed io ero andato per due giorni a Cavour. Mio figlio, giocando con altri ragazzi, al primo piano di una casa rustica, posta di fronte alla mia abitazione, non vide una botola aperta nel pavimento, e precipitò nel piano di sotto, battendo la testa, e rimase morto sul colpo. Mia moglie accorse subito, Io trovò e lo raccolse cadavere; poi mi telegrafò che il ragazzo era malato, e quando alla sera arrivai ella ebbe la forza di animo di venirmi incontro a darmi essa stessa la triste notizia e a confortarmi.

Voglio qui ricordare che per tutta la sua vita mia moglie fu per me, oltre che compagna affettuosa, un grande aiuto morale. Era dotata d'intelligenza vivissima e s'interessava assai della mia opera politica, e nelle discussioni con famigliari ed amici aveva osservazioni e motti pronti e geniali; ma nello stesso tempo manteneva il più assoluto riserbo, non cercando in alcun modo di mescolarsi nella mia azione pubblica. Preferiva che io non fossi occupato nelle responsabilità politiche e mi riposassi nella vita privata; ma ogni qual volta una responsabilità precisa si affacciava, era essa stessa la prima ad incoraggiarmi ad affrontarla ed a compiere, come uomo pubblico, tutto il mio dovere.

Alla Corte mi occupai particolarmente del controllo, esaminando i decreti che venivano dai vari Ministeri e riferendone al Presidente. Intervenivo come segretario alle sezioni del controllo e alle sezioni riunite; e in quistioni di controllo stendevo io le decisioni motivate. Quel lungo lavoro, col controllo di tutti i decreti, è stato per me una educazione amministrativa efflcacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso.

Nel luglio dell'82 il Depretis mi offerse il posto di Consigliere di Stato, che accettai volontieri. La prima volta che intervenni al Consiglio, parecchi Consiglieri mancavano, ed  io  chiesi al Presidente che mi desse da lavorare. L'indomani ricevetti un pacco, poi ogni giorno un altro; più di un'ottantina di grossi affari. Mi misi all'opera giorno e notte, e quando dopo una settimana gli riportai l'intero lavoro finito, il Presidente della mia sezione non poteva crederlo, ed esclamava: — Ma quello era l'arretrato di tre mesi! — Il senatore Ghivizzani che reggeva la Presidenza del Consiglio mi chiamò poi, e mi fece un elogio, aggiungendo però: — Ma per carità non lo dica, che non si venga a sapere che si può sbrigare in una settimana l'arretrato di tre mesi! —

Poco dopo entrai nella vita politica. Già alcuni anni avanti, nel 1877, mi era stata offerta la candidatura nel collegio di Pinerolo, che allora avevo rifiutato, non volendo abbandonare la carriera. Come Consigliere di Stato ora ero eleggibile; ed essendosi aperta la campagna elettorale col nuovo scrutinio di lista, mi fu offerta la candidatura nel collegio di Cuneo, che comprendeva i tre collegi di Cuneo, Dronero e Borgo San Dalmazzo. I tre deputati uscenti, Riberi Antonio, Riberi Spirito e Ranco si ritiravano, i due ultimi andando al Senato; e Riberi Antonio scrisse una lettera agli elettori in cui, dichiarando di non presentarsi più, proponeva la mia candidatura. Era un mio vecchio amico, figlio di un bizzarro spirito, un montanaro all'antica, Martino Riberi, che faceva il mulattiere,  ed era ostinato che suo figlio seguisse lo stesso mestiere, quantunque avesse un fratello, distinto chirurgo, professore, senatore, medico capo nell'iesercito, assai arricchito, che gli proponeva di farlo studiare a sue spese, e di lasciargli la sua fortuna; così che il figlio aveva dovuto seguire il padre nel suo mestiere, e non aveva potuto mettersi agli studi che dopo la sua morte.

Il Riberi aveva agito di per se stesso, senza dirmi niente; così che la notizia della mia candidatura l'ebbi io pure da una copia stampata della sua getterà circolare, che mi fu mandata. Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano; ma non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di campagna elettorale. Il Sindaco di Cuneo, che era il capoluogo, insistè che facessi almeno una visita al collegio; ed io gli risposi che per cortesia avrei fatto una visita a lui; partii per Cuneo, arrivando alle undici di sera; feci la mia visita alle dieci del mattino appresso e ripartii alle undici, lasciando il mio indirizzo solo a tre persone: al Procuratore del Re, antico amico; al Sindaco di Cuneo, ed al Sindaco dì Dronero, mio cugino. C'erano tre liste, ero portato in tutte e tre e riuscii capolista. Ricordo un curioso episodio; a Peveragno ebbi l'unanimità dei voti. Non capivo come fosse avvenuto, ma una mia zia, che ricordava le vecchie storie della famiglia, me ne trovò la spiegazione. A San Damiano mio nonno, che era uomo popolarissimo, teneva la sua casa aperta a tutti, e la gente di passaggio vi prendeva alloggio. Il padre del Sindaco di Peveragno vi aveva pernottato una notte con la moglie incinta, che era stata presa dai dolori e vi aveva partorito, rimanendo poi ospite oltre un mese, sino a quando si era rimessa. Il Sindaco si era ricordato d'esser nato nella casa, della mia famiglia, ed aveva voluto compensarmi della antica ospitalità facendomi dare l'unanimità dei voti.

III.

Da deputato a ministro.

Il passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra — L'opera della Destra; i suoi meriti e i suoi difetti — Che cosa rappresentò la vittoria della Sinistra — La personalità di Depretis e il trasformismo — Le divisioni della Sinistra: la Pentarchia e i «dissidenti» — La lotta contro la finanza del Magliani e il mio primo discorso parlamentare — Come Crispi formò il suo primo ministero — La mia entrata nel ministero Crispi — Le difficoltà politiche e la mia prima politica sociale — Perchè mi dimisi — Il ministero Rudinì, i suoi travagli e la sua caduta — Personalità del tempo: Crispi, Zanardelli, Nicotera, Magliani e di Rudinì.


Quando entrai nella Camera, nel 1882, era al potere Depretis, che a quel tempo aveva già iniziata quella sua particolare azione politica, che ebbe il nome di trasformismo,. Ma per farsi una chiara idea di tutta quella situazione, e degli uomini che operavano in essa e ne rappresentavano le varie faccie, bisogna retrocedere alquanto, e vedere quale fosse stata l'opera della Destra e l'indole della politica da essa svolta per sedici anni, e le ragioni della sua decadenza e della sua caduta.

Gli uomini che avevano formata e dominata l'antica Destra erano stati indubbiamente uomini egregi, ed anche di grande valore; veri patrioti la cui condotta era dettata da austeri sentimenti civici e da motivi superiori. Erano anche gente seria e che possedeva notevole competenza per il governo della cosa pubblica nei suoi varii campi. Siccome, dopo compiuta l'unità della patria con Roma capitale, il problema più grave che si affacciò subito nel nuovo Stato era indubbiamente il problema, finanziario, essi si preoccuparono precipuamente di dare allo Stato una finanza solida e sincera, che sola poteva cementarlo ed assicurarne l'avvenire. Si trovarono in questa opera di fronte a difficoltà ed ostacoli di ogni sorta, ai quali ho già parzialmente fatto accenno; e ad ottenere il pareggio, che era la meta dei loro sforzi, aggravarono le imposte sino al limite consentito dalle condizioni del paese, riscuotendole con energia, e nello stesso tempo si sforzavano di fare argine alle spese.

Ebbero però il torto di non preoccuparsi sufficientemente delle condizioni delle provincie più povere ed arretrate, e specie del Mezzogiorno. Già anzitutto avevano fra loro pochi meridionali, essendo quasi tutti piemontesi e lombardi con un po' di emiliani, come il Minghetti, e di toscani, quali il Ricasoli ed il Peruzzi; ed anche quei meridionali che erano con loro, non potevano portare loro le voci del loro paese, perchè erano stati o degli esiliati, che avevano vissuto a lungo in Piemonte, quali lo Scialoia, il Mancini, il De Sanctis, o come lo Spaventa erano stati racchiusi lunghi anni nelle carceri borboniche, perdendo il contatto con la realtà immediata. Erano poi tutti degli idealisti, le cui concezioni si fondavano su una cultura generale europea, lontana dalle miserie materiali e morali delle popola
zioni da cui erano usciti.

Ho detto che la Destra,
nella sua preoccupazione, del resto giustissima, del
bilancio, metteva imposte dove poteva, curando una
rigorosa riscossione; e, si sa, il mettere imposte e
riscuoterle severamente non concilia la popolarità.
Uno dei fatti che concorse in quel torno a indebolire
la Destra, fu l'imposta sul macinato, odiatissima specie nelle campagne, tanto che vi suscitò tumulti; la
quale era stata fatta approvare con legge da Cambrai
Digny ed applicata poi molto energicamente da Sella
e Minghetti. Altro coefficiente nella caduta della Destra era stato il trasporto della capitale da Firenze
a Roma. Firenze, danneggiata, reclamava indennizzi,
ed il governo, pure riconoscendo le ragioni della città,
andava a rilento nel concederli, perchè appunto non
voleva compromettere il pareggio, a cui si era sforzato per tanto tempo e con tanta industria, ed il
cui raggiungimento appariva molto prossimo. Allora
i toscani, con alla testa il Peruzzi, fecero l'accordo
con Nicotera per abbattere il governo. Raggiunto
questo accordo, Nicotera e gli altri condussero subito
alla Camera attacchi violenti.

Ricordo che, quando
la legge, di rigido carattere fiscale, proposta dal governo per la nullità degli atti non registrati fu re
spinta per un voto, Minghetti mi chiamò e mi condusse seco per andare a consultare il Ricasoli, che
viveva fuori Porta San Pancrazio, e non prendeva
più parte diretta alla politica, ma era sempre una
specie di gran consulente della Destra....

In conclusione questo si può dire, che la Destra cadde parte per ragione delle sue stesse virtù, parte per certe sue deficienze. Essa aveva lavorato lungo tempo per dare al nuovo Stato un bilancio in pareggio e metterlo al sicuro dalla minaccia del fallimento; il raggiungimento stesso di questo scopo fu per un verso ragione della sua caduta; in quanto sorse allora il concetto che si potesse iniziare una politica economica nuova, cioè una politica di spese per le regioni che ne avevano più bisogno; concetto il quale entro certi limiti era pure giustificato. Come però avviene sempre, in tali rivolgimenti la tendenza dei nuovi venuti era di sorpassare questo limite; ma i più prudenti di essi si mostrarono subito preoccupati di mettere dei freni. Così il Depretis, formando nel marzo del '76 il primo Ministero di Sinistra, prese per sé il Dicastero delle Finanze, certo per vigilare efficacemente sulla situazione finanziaria.

Alla formazione della Sinistra trionfatrice avevano concorso in prima linea i meridionali, specie sotto l'impulso del Nicotera. che fu uno dei primi capitani nella grande battaglia; poi i toscani secessionisti dal loro vecchio partito, poi i garibaldini, gli zanardelliani ed in genere tutti gli elementi di temperamento e di tendenze culturali democratiche, sino ai radicali, che rappresentavano allora l'estremismo. Questo movimento della Sinistra, oltre che motivi di carattere personale e di rivalità di capi, aveva anch'esso le sue profonde ragioni politiche; mentre la Destra rappresentava una  cultura  astratta  ed  una competenza particolare più alta, il pregio della Sinistra e la sua forza stavano nel fatto di meglio rappresentare lo stato d'animo delle masse popolari, che cominciavano a risvegliarsi contro il dominio degli ottimati, sia pure degnissimi, e mostravano di volere prendere maggior parte nella cosa pubblica, adottando le dottrine e seguendo gli uomini ed i partiti che aprivano loro la strada.

Del resto si comprende che un partito il quale aveva governato per sedici anni in mezzo a gravissime difficoltà di ogni genere si fosse logorato e indebolito; fra l'altro gli riusciva difficile di raccogliere reclute nuove di valore; i giovani di ingegno più vivace essendo attratti, come accade sempre, verso i partiti di opposizione. Infine vi erano i dissensi interni, fra i conservatori rigorosi, di vecchia scuola, quali il Cantelli e il Cambrai Digny, ed uomini di spirito più democratico e più aperti alle idee nuove, quali il Sella ed il Lanza. Ricordo anzi in proposito un episodio assai significativo. Quando, nel luglio del '73, cadde il Ministero Lanza-Sella, insidiato e minato dagli stessi conservatori, Costantino Perazzi, deputato del novarese e segretario generale di Sella, lo consigliava di passare a sinistra, fondando il suo concetto su questo: che egli aveva voluta la venuta a Roma d'accordo con la Sinistra; che egli rappresentava idee più avanzate del resto della Destra, e che il ministero a cui apparteneva era stato abbattuto col concorso aperto della parte più conservatrice della Destra. Se il Sella avesse ascoltato quel parere, probabilmente sarebbe diventato il capo della Sinistra; il che avrebbe parzialmente modificato il corso degli eventi di poi. Ma mi risulta che gli uomini più autorevoli della Destra avevano fatto ogni sforzo per dissuaderlo dall'accettare quel consiglio, e c'erano riusciti.

Quando io entrai nella Camera, la Sinistra aveva già cominciato a decadere. La sua popolarità nel periodo di opposizione, che l'aveva poi condotta al potere, era dovuta ad una ricetta infallibile: opporsi alle nuove imposte e chiedere nuove spese. Ma questi due termini sono inconciliabili: se essi possono servire nella polemica, falliscono quando si viene alla pratica politica. Servono insomma all'opposizione per attaccare il governo avversario; ma non per governare. Ho già detto che gli elementi più prudenti della Sinistra sentivano la necessità, pure consentendo nuove spese per le regioni bisognose, di non compromettere troppo la restaurazione finanziaria a cui il partito avverso era pure pervenuto. Queste ed altre ragioni di carattere politico, specie l'incompatibilità fra il suo temperamento pratico e positivo, e le ideologie sentimentali e fantasiose; il contrasto fra il suo sentimento dello Stato e il demagogismo di certi elementi della Sinistra, avevano portato il Depretis, traverso a quattro suoi ministeri, intramezzati da due brevi ministeri Cairoli, a cercare appoggi a Destra ed al Centro, e così era nato il trasformismo.

La parola ha avuto cattiva fama che si è ripercossa sull'uomo, che fu accusato di scetticismo e di cinismo. Ma né al trasformismo mancarono profonde ragioni politiche, ne il Depretis meritava quei giudizii. Egli era un uomo in cui era assai sviluppata una delle principali doti dell'uomo di governo: il buon senso. Non possedeva forse altre qualità eccezionali; conosceva bene l'amministrazione; sapeva esaminare a fondo le questioni, ed era uomo fermo e deciso. Era grande lavoratore, e lo si trovava sempre in mezzo a fasci di carte, Quando c'erano delle cose che non voleva risolvere, le metteva a parte, e ne aveva fatta una pila che saliva sempre più alta; e con quel suo fine sorriso ironico vi accennava come al reparto delle cose che vanno studiate lungamente. Non era affatto uno scettico o un cinico; odiava le vane declamazioni, ma s'interessava profondamente alle cose dello Stato, a cui dedicava tutta la sua attività ed energia. Combatteva apertamente gli avversari, ma era bonario, senza ombra di astio verso nessuno.

Quando io cominciai a votargli contro, egli un giorno mi domandò perchè fossi passato all'opposizione. Gli risposi adducendo molti motivi, e poi aggiunsi che non mi persuadeva che il ministero si appoggiasse specialmente su alcuni tipi poco raccomandabili. Al che egli osservò: — Ma è sicuro che persone dello stesso tipo non ci siano anche fra i suoi amici dell'opposizione? — Probabilmente ci sono, — gli replicai; — ma all'opposizione noi siamo solo d'accordo per dire di no, non per governare il paese.  — Quanto all'accusa  che  egli  fosse  un  furbo,  è  proprio   obbligatorio per un uomo di Stato di essere un ingenuo ?

Poco dopo che io ero entrato nella Camera, questa dissoluzione della Sinistra come partito unito di governo fece un altro passo, col ritiro, nel maggio 1883, di Zanardelli e di Baccarini dal Ministero, e la costituzione della famosa Pentarchia, che aveva a capo Cairoli, Crispi, Nicotera, Baccarini e Zanardelli, e che riuniva in un fascio di opposizione buona parte degli uomini di Sinistra. Pure contro il Ministero, ma separato dalla Pentarchia, vi era il gruppo detto dei «dissidenti», che combattevano il Ministero sopratutto per la finanza del Magliani, ma si tenevano distaccati dalla Pentarchia per viarie ragioni, ma sopratutto perchè temevano quella politica estera, così detta delle «mani nette» con la quale il Cairoli, capo riconosciuto della Pentarchia, ci aveva condotti al grave scacco di Tunisi. A questo gruppo, a cui io mi ascrissi quando passai all'opposizione, appartenevano quasi tutti gli uomini che poi diventarono Presidenti del Consiglio, cioè Rudinì, Sonnino, Pelloux ed io, oltre Berti, Villa, Chimirri, Lacava, ecc. Eravamo quarantacinque; facevamo parte di quasi tutte le Commissioni e costituivamo così una forza parlamentare importante.

I miei due primi anni di quella legislatura, durata circa tre anni e mezzo, dal 22 novembre 1882 al 27 aprile 1886, furono per me d'affiatamento e di noviziato. Fui eletto in molte Commissioni, in specie in quella del Bilancio, nelle quali portavo le competenze acquistate nell'amministrazione. La mia azione più veramente politica cominciò solo nel terzo anno, con l'opposizione ai metodi finanziari del Magliani, che teneva e tenne ancora per qualche anno il Ministero del Tesoro e reggeva quello delle Finanze; e il cui nome è rimasto famoso, come del rappresentante tipico di una finanza insinceramente ottimista e di una quasi prestigitazione finanziaria. Il Magliani veniva dalla burocrazia borbonica; era intelligentissimo, pronto ed abile e parlatore facondo e persuasivo; ma poco consistente nella sostanza e sopratutto debole, incapace di rispondere con quel monosillabo che dovrebbe essere la divisa di ogni ministro del Tesoro, col no a qualunque domanda di cosa dannosa alla finanza. Il Depretis per parte sua non lo frenava, preso com'era dalla passione di rimanere al governo ad ogni costo; passione che fu il fattore personale di quel trasformismo di cui sopra ho detto le ragioni politiche.

Questa ottimistica finanza del Magliani riusciva tanto più pericolosa per l'abilità con cui vi si dissimulava il disavanzo allo scopo di giustificare aumenti di spese. Si ricorreva, a questo fine, a varii trucchi e ripieghi; si era inventata la categoria delle spese ultra straordinarie, che non dovevano contare per la loro eccezionalità, vera o pretesa; e si era escogitata la dottrina delle «trasformazioni di capitale», per cui una spesa che creava una cosa reale, non doveva contare come spesa, essendosi convertita in capitale. Una volta messisi per questa via insidiosa, la necessità dei ripieghi e dei trucchi si moltiplicava; si arrivò al punto di fare figurare all'attivo del bilancio, non solo le cosidette «trasformazioni di capitale», ma a calcolare come aumento di valore qualunque spesa fatta intorno ad un oggetto.

Il discorso che contro questi metodi di finanza io pronunciai alla Camera nell'88, fece un gran rumore, anche per la specie di scandalo che proprio un nuovo arrivato venisse a proclamare il fatto di un grave disavanzo, e perchè io m'ero sforzato di semplificare i termini del problema, e di renderlo chiaro a tutti. E pare che ci fossi riuscito, perchè dopo il discorso venne a me il deputato Medoro Savini, il romanziere, uno degli uomini più semplici e ingenui che io abbia conosciuto, il quale mi disse: — Ti faccio la migliore di tutte le congratulazioni, e cioè che ho capito anch'io! — Il governo, che si era accorto dell'impressione fatta, voleva che qualche risposta al discorso mio, in attesa di quella più solenne del Ministro competente, venisse da qualche altro deputato, e ne incaricò il Toscanelli. Le cose si facevano allora molto bonariamente, e il Toscanelli venne da me ad avvertirmi e a chiedermi anche degli argomenti contro il mio discorso, perchè egli di finanza non se ne intendeva. Io glie li diedi volontieri, mostrandogli ciò che poteva rispondere, ed egli ne cavò un discreto discorso. Dopo il quale ritornò da me a chiedermi come mai fosse avvenuto che gli argomenti che io gli aveva dati fossero migliori e più efficaci di quelli che gli avevano fornito al Ministero delle Finanze.
— Si capisce — gli risposi io — perchè io il Ministero avevamo interessi diversi. Al Ministero gli argomenti migliori volevano riservarli pel Ministro,, che doveva parlare dopo di te; mentre a me conveniva di fare apparire che il Magliani di finanze non ne sapeva più di te; e ci sono riuscito. —

Così si venne alle elezioni del 1886, tenute sempre a scrutinio di lista, il 10 giugno. Depretis avrebbe voluto farle nell'ìautunno, ma siccome ciò sarebbe stato molto pericoloso per l'opposizione, questa gli creava ormai tali impicci nella Giunta del bilancio, e tali imbarazzi alla Camera con qualche episodio di ostruzionismo, che egli fu costretto a farle subito, quantunque il momento non fosse propizio per il Ministero. Ricordo che egli in quei giorni mi chiamò e mi disse: — Ma perchè mi volete obbligare a fare le elezioni subito? — Ed io gli risposi: — Ma per non darle tempo di prepararsi a combatterci!—

Ricordo, in quelle elezioni, un curioso episodio, che mostra come certe questioni, prolungatesi per tanti lustri nella politica italiana, nel Piemonte erano già praticamente risolte. Andai ad un banchetto, a San Damiano, nel quale, oltre tutti i sindaci della valle intervennero parecchi parroci, non ostante che in quel tempo la Curia romana avesse ribadito energicamente il principio del non expedit. Anzi il parroco più anziano volle fare un discorso, che si riassume tutto in queste parole: — Andate tutti a votare, perchè «né eletti né elettori» sono tutte balle! — Il governo naturalmente combatteva la nostra lista per quel che poteva, e aveva messo in campo un suo unico candidato il quale, sapendo che la mia posizione non poteva, essere toccata, cercava di persuadere a sostituire il nome suo a quello di uno dei miei due compagni di lista, che erano il Roux ed il Turbiglio. A pararci questa insidia io dichiarai agli elettori della valle Macra, del collegio di Dronero, che la lista doveva essere votata integralmente, perchè se votavano solo per me avrebbero bensì espressa una simpatia personale, ma avrebbero condannata la mia politica, che era una con quella dei miei colleghi. E la lista intera fu votata nei quindici comuni di quella valle così largamente che il candidato ministeriale vi ebbe due soli voti nel comune di Stroppo. Ricordo che qualche tempo dopo il sindaco di quel comune, incontrandomi, si scusò che non mi si fosse data l'unanimità dei voti e mi aggiunse: — Ma non accadrà una seconda volta. In paese si è saputo di chi erano quei due voti, e quei due elettori sono stati trattati in modo tale che si sono decisi ad emigrare e andarsene in Francia! —
Gli risposi che ciò era veramente troppo.

La tattica usata dall'opposizione, di forzare il governo a fare le elezioni in maggio, e non dargli tempo ad una preparazione, fu giustificata dai risultati. Con la nuova Camera la posizione del governo apparve subito assai indebolita; e noi ripigliammo immediatamente la nostra campagna contro la finanza del Magliani, la quale nelle conseguenze accumulate dei suoi errori era andata sempre peggiorando. In un dibattito tenuto al principio dell'87, il Ministero non ebbe che quindici voti di maggioranza. Era dunque ormai giunto il momento di stringere; e il nostro gruppo dei dissidenti aperse trattative con la Pentarchia. Io, Rudini e Lacava avemmo l'incarico di condurre quelle trattative, le quali del resto non toccavano che un punto: che la Pentarchia prendesse a suo capo Crispi al posto di Cairoli, del quale diffidavamo per l'ingenuità della sua politica estera; con questo mutamento i dissidenti s'impegnavano a votare con loro.

Andammo da Crispi io e Lacava, perchè fra Crispi e Rudini vi era una ruggine personale che non fu mai tolta. La Pentarchia accettò la nostra proposta, e Crispi fu incaricato di parlare, e parlò a nome di tutte le opposizioni, con la conseguenza che al voto il Ministero ottenne una esigua maggioranza. La sera stessa della votazione, per invito di Codronchi fu tenuto un convegno di parecchi deputati di Destra, che deliberarono di passare all'opposizione essi pure. Così il Ministero sarebbe caduto; e si seppe che in una conversazione che il giorno dopo Depretis ebbe col Re, Sua Maestà accennò all'eventualità di incaricare Crispi della formazione di un nuovo Ministero; ma Depretis   gli  rispose   che   credeva  di   potere   avere Crispi con sé. Aperse infatti trattative a questo scopo e Crispi si lasciò persuadere. Invece di tentare la formazione di un Ministero proprio, secondo avrebbe voluto il logico svolgimento dell'azione delle opposizioni riunite, égli accettò di entrare nel ministero Depretis (4 aprile 1887) quale ministro degli Interni, mantenendo anche al Tesoro ed alle Finanze il Magliani; contro cui la battaglia dell'opposizione era stata particolarmente e lungamente condotta. Con questo suo passo anche il Crispi abbandonava effettivamente la Sinistra, ed entrava nel processo del trasformismo del Depnetis, che più tardi, coi varii suoi Ministeri si risolse nel governo del Centro.


La condotta del Crispi ebbe per effetto di scompaginare la situazione, dividendo nuovamente le opposizioni. Ma pochi mesi dopo, nel luglio, Depretis morì, e Crispi ebbe l'incarico di formare il nuovo Ministero. Lo fece con elementi varii mantenendopero sempre seco il Magliani il quale, non ostante l'evidenza della rovina della sua finanza che conduceva ad uno spareggio pauroso, pareva irremovibile. Noi riprendemmo però la lotta, che l'anno dopo portò alla sua caduta, che fu definitiva. L'occasione fu data dal progetto di aumento del prezzo del sale e di decimi della imposta fondiaria, progetto insufficiente e non accompagnato, come avrebbe dovuto essere, da economie. Fummo nominati nove commissari per riferire sul progetto, e ci trovammo subito tutti d'accordo nel respingerlo. Io fui nominato relatore e mi impegnai di portare la relazione l'indomani mattina alle undici. Vi lavorai la notte; la portai alla tipografia della Camera alle otto del mattino, ed alle undici la presentai in bozze ai miei colleghi commissar! che l'approvarono ad unanimità, così che alle due fu distribuita stampata alla Camera. Credo che sia il record di una opposizione efficace e rapida.

Si era prossimi alle feste di Natale e il disegno di legge non si discusse; ma durante le vacanze Crispi fece una crisi parziale. Magliani si dimise; e siccome egli teneva le Finanze e l'interim del Tesoro, Crispi lo sostituì con due nuovi ministri, nominando alle Finanze il Grimaldi, e chiamando al Tesoro il senatore Perazzi, che era già stato segretario generale con Sella, e che prese seco come sottosegretario l'onorevole Sonnino. Durante quel primo suo ministero, Crispi incaricò me, insieme con Lacava e Della Rocca, suo segretario generale, di compilare il progetto per la riforma della Legge provinciale e comunale, che noi conducemmo in porto, ed è quella che vige tuttora.


Venuti alle Finanze ed al Tesoro Grimaldi e Perazzi, questi fece alla Camera una esposizione finanziaria la quale confermava pienamente le nostre critiche, dimostrando che la situazione del bilancio non era quale l'aveva descritta il Magliani. Quella esposizione toccava molte responsabilità, e diede quindi luogo ad una discussione tempestosa assai per parte di tutti quelli che avevano appoggiata la finanza del Magliani. Io fui fra i pochi che difesero quella esposizione, ma in complesso la Camera si mostrò ostile, ciò che portò ad una nuova crisi. Crispi cambiò i due ministri, chiamando me al Tesoro e Sesmit Doda alle Finanze, e sostituendo pure ai Lavori Pubblici Saracco con Finali, e creando ad un tempo il Ministero delle Poste e Telegrafi, a cui chiamò il Lacava.


Io rimasi con Crispi, in quel Ministero, dal 9 marzo del 1889 al principio di novembre dell'anno seguente, e potei raccoglierne, nel lavoro comune che si svolse nel migliore accordo, una impressione abbastanza compiuta, e che non mi si è nel complesso modificata per gli eventi intervenuti di poi. Egli era indiscutibilmente un fervido patriota, che sentiva altamente dell'Italia, ed avrebbe voluto condurla a sempre più alti destini. Era uomo di grande energia, di mente larga e pronta, ed aveva idee molto chiare nel suo programma generale; a cui non corrispondeva però una eguale attitudine a curare i particolari e l'esecuzione. Il disastro d'Adua, a mio avviso, fu appunto una conseguenza di questa manchevolezza; egli aveva tracciato un largo ed audace programma di espansione, sproporzionato però alla potenzialità del paese; non ne seppe curare le esecuzioni ed adeguare i mezzi allo scopo, avventurandosi con mezzi insufficienti, che furono la ragione principale della disfatta.

Possedeva un senso d'amministrazione severo, proprio d'uomo di governo; ricordo  che quando  ero con lui Ministro  al Tesoro, avendo dovuto procedere contro un suo amico, non ebbi da lui nonché ostacoli, nemmeno raccomandazioni. Ma la scarsa attitudine ed abitudine all'esame ponderato delle cose, lo portava alle volte addirittura al fantastico. Ricordo in proposito un episodio ben strano. Io mi trovavo, d'estate, in campagna a Cavour, quando egli mi telegrafò di venire senza indugio a Roma. Arrivato,, quando fui nel suo Gabinetto, egli mi disse senz'altro ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo di mano della Francia sulla Spezia. — Come, — esclamai io, — siamo in guerra con la Francia? Abbiamo dichiarato la guerra alla Francia? — No, — mi rispose egli, — è la Francia che si prepara ad attaccarci d'improvviso, con un colpo di mano, che è imminente. — Io gli replicai che non credevo assolutamente alla cosa, e gli detti buone ragioni del mio scetticismo; fra l'altro era incomprensibile che la Francia, che possedeva allora una flotta tre volte supcriore alla nostra, si prendesse l'odio di una così enorme violazione del diritto, per fare un colpo di assai dubbia convenienza. Ma egli rimaneva fermo nella sua convinzione, come non avesse alcun dubbio della cosa, e mi chiese di dare il mio aiuto; ciò che feci per lealtà verso di lui come capo del governo a cui partecipavo, e per quel tanto che potevo come ministro del Tesoro.

Crispi aveva avvertito l'Inghilterra, che mandò a Genova un ammiraglio con l'incarico di parlare pubblicamente della comunanza di interessi fra l'Inghilterra ed Italia nel Mediterraneo, ciò che egli fece.

Quando poi fui Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni, scopersi che quella sorprendente informazione Crispi l'aveva avuta da un agente che teneva presso il Vaticano, e l'aveva accettata senz'altro come vera senza curarsi di appurarla.


Pure di quel tempo, e cioè durante la mia permanenza al suo ministero, furono i primi accenni di Crispi ai suoi progetti di espansione coloniale nell'Abissinia. Quando nell'estate del 1890 la Camera era chiusa, egli mi chiese un prelevamento di seicentomila lire per una spedizione scientifica in Abissinia. Dovetti rifiutare; in primo luogo perchè il fondo di riserva era ridotto a piccole proporzioni; e poi perchè si trattava, con quella richiesta, non di completare uno stanziamento di bilancio insufficiente, ma di aprire una spesa nuova, la quale doveva essere consentita dal Parlamento con legge speciale. Poco dopo Crispi progettò di inviare a Massaua seimila uomini; e ne fece richiesta al Ministro della guerra, Bertolè-Viale, e all'obbiezione del Ministro che per fare ciò occorreva un anticipo di sei milioni, Crispi gli disse di chiedermeli. Bertolè-Viale rispose: — Chi deve chiederli è lei, che come Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri ritiene quella spedizione necessaria; non io che non ci ho mai pensato. — Crispi replicò che a me, dopo il rifiuto avuto, non intendeva di chiedere più nulla. Bertolè-Viale me ne parlò poi; ma io non consentii, anche perchè, pure parlandomene, Bertolè-Viale mi fece capire che non era lui che desiderasse quella spedizione.

Riguardo a quella che fu battezzata dal Cavallotti la
«questione morale» la mia impressione fu allora, nel
momento in cui tali questioni si agitavano, che il Crispi personalmente fosse onesto e disinteressato. Ritengo si debba escludere che egli abbia mai pensato di
avvantaggiarsi della sua posizione per sete di guadagni. Era onesto, ma disordinato, o forse meglio, su lui
ricadeva la soma e la responsabilità di disordini
famigliari, e più tardi anche di persone da cui si
era lasciato circondare; tanto più che a codesto
genere di disordini egli non dava importanza, tutto
preso dal pensiero della sua opera politica.

Le relazioni personali fra me e lui furono allora buone,
e devo dire che durante la mia partecipazione al
suo ministero io non ebbi che a lodarmi di lui
pel suo contegno e pel cordiale e sincero appoggio
che egli dava alla mia politica finanziaria. Eravamo
molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso
a consulto. Un certo straniamento cominciò quando
io mi dimisi; egli se la prese a male, specie perchè
io avevo motivate le dimissioni in forma troppo
sincera, dichiarando che non mi sentivo di ripresentarmi alla Camera con programma diverso da quello
con cui ci eravamo presentati agli elettori. Vedendo
però che io non gli creavo difficoltà e non lo combattevo, la sua animosità del primo momento si
placò; e durante poi il ministero Rudinì, che seguì
al suo dopo il gennaio 1891, non ebbi occasione di
dubitare che ci fosse da parte sua ostilità alcuna
verso di me. Anzi, parlando coi suoi amici e seguaci
 della lotta da condurre contro Rudinì, egli diceva apertamente essere venuto il momento mio, e doversi seguire la mia guida.


Fra gli altri uomini politici più in vista del tempo, nel Ministero Crispi trovai lo Zanardelli, che era uomo di grande onestà e dirittura, e di valore nel suo ramo speciale della legge. Aveva molta cultura, però alquanto antiquata; la cultura propria del periodo di Luigi Filippo, da lui assorbita nella sua giovinezza di studente; e ne aveva derivata una mentalità dottrinaria, che si rivela principalmente nella parte giuridica della sua opera principale, cioè il Codice Penale. Possedeva grande eloquenza, di carattere letterario; i suoi discorsi erano composti con grande cura, poi imparati a memoria e detti a perfezione. Le sue convinzioni politiche erano passionatamente democratiche, però della particolare democrazia borghese del suo tempo, mista ad un sincero lealismo per la monarchia costituzionale. Come molti altri, anzi quasi tutti gli uomini venuti su con quella cultura ed educazione, non comprendeva ed avversava il socialismo. Godeva di molte simpatie ed amicizie, ed era alla sua volta fervidissimo nelle amicizie e negli odii, che però mutavano. C'era sempre qualcuno che per lui era, secondo una sua frase abituale, «il peggiore di tutti»; ma poi l'oggetto di questa sua antipatia cambiava, tanto che fra noi si domandava scherzosamente: .— Chi è adesso il «peggiore di tutti»? — Appassionatissimo della politica, delle sue lotte, delle sue polemiche, egli impersonava proprio l'anima della Sinistra nella sua implacabilità contro l'antica Destra.


Altro uomo che allora occupava l'attenzione pubblica era il Nicotera, al quale non mancavano qualità native ragguardevoli. Era dotato di ingegno naturale; aveva molta energia; era pieno di coraggio. Ma era pure violento e impulsivo; mancava di cultura; non conosceva la legislazione né aveva pratica dei congegni amministrativi dello Stato. Egli è rimasto per me un esempio che le qualità naturali non sono sufficienti a creare l'uomo politico, se non sono disciplinate. Anche l'energia non basta se non si sa poi come adoperarla a proposito e con senso dì misura.


Assumendo il dicastero del Tesoro nel Gabinetto Crispi, io aderivo pienamente alla concezione democratica della Sinistra, cercando anzi di estenderla dal puro campo politico, a cui si arrestavano i criteri di Crispi, Zanardelli, Depretis ed altri, al campo economico per quanto me lo consentivano le mie particolari funzioni. Così la prima cosa che feci come Ministro del Tesoro, fu di mutare la legge generale di contabilità dello Stato per consentire la concessione di opere pubbliche entro un dato limite alle cooperative operaie, che erano cominciate a sorgere in quel tempo. Ero entrato nel Ministero in febbraio e la legge fu approvata e promulgata il 4 aprile. Nello stesso tempo però io mi scostavo da quella tendenza della Sinistra, che aveva prevalso negli ultimi ministeri Depretis per opera di Magnani, in quanto mettevo in prima linea il pareggio del Bilancio.

Bisogna in proposito ricordare che, mentre Minghetti era riuscito a raggiungere dopo tanti anni di sacrifizii e di sforzi la meta del pareggio, la finanza del Magliani lasciava un disavanzo che si avvicinava ai trecento milioni su un bilancia di circa un miliardo e mezzo. La situazione finanziaria era tanto più grave per la lunga crisi economica che travagliava il paese, e che non consentiva la speranza di potere colmare, o diminuire largamente quel disavanzo con nuove entrate; e per le ripercussioni della situazione finanziaria internazionale che creavano grandi ansie per i nostri pagamenti all'estero, che allora ascendevano a circa trecentocinquanta milioni all'anno. In seguito infatti ad una crisi gravissima scoppiata nell'Argentina, ed al conseguente disastro della famosa Banca inglese Bahring, che si era impegnata a fondo in quel paese, il cambio era salito fino al sedici per cento, inasprendo ancora le difficoltà dei nostri pagamenti all'estero. Per quei diciotto mesi che io rimasi al Tesoro, si rimediò al disavanzo con l'emissione di Obbligazioni ferroviarie al tre per cento, titolo creato ai tempi del Magliani; e con la vendita di centoventi milioni della Cassa Pensioni, che era stata mal creata, senza dare seguito alla legge, e non funzionava; così che erano rimasti nelle sue casse, a disposizione del Tesoro, quei centoventi milioni già dati come sua prima dotazione.

Un'altra difficoltà della nostra finanza d'allora, era creata dalla ostilità della finanza francese, che obbedendo alla parola d'ordine del suo governo, irritato dalla politica di Crispi, ostacolava in tutti i modi quel collocamento di nostri titoli che doveva servirci per i nostri pagamenti all'estero. In quelle difficili congiunture venne a Roma, emissario della Deutsche Bank, il signor Siemens, per la costituzione, da me promossa, del Credito Fondiario. Io colsi l'occasione per trattare con lui il collocamento all'estero di quei centoventi milioni di rendita, e potemmo venire ad un accordo per noi conveniente La sola condizione che egli pose fu che non fosse resa nota l'esistenza di quel contratto per un po' di tempo, appunto perchè la finanza francese ostile non creasse ostacoli al collocamento. Ricordo che l'accordo era stato raggiunto alla sera, e che il Siemens doveva venire il giorno dopo per la firma; e che la sera stessa il telegrafo segnalò un ribasso di sessanta centesimi della nostra rendita sulla Borsa di Parigi. Ma il Siemens firmò lo stesso, pure lamentando di avere concluso un cattivo affare. Bisogna riconoscere che in quel momento, e per parecchio tempo dopo, la nostra finanza fu molto e cordialmente sostenuta dalla Banca tedesca.

Le condizioni del nostro bilancio allora erano tali che, specie pei pagamenti all'estero bisognava ricorrere a crediti esteri, perchè in Italia avevamo il corso Torzoso. Ma il campo per quei crediti era ristretto assai; la Francia ce li rifiutava assolutamente, per controbattere la politica di Crispi ad essa ostile; ed anche sull'Inghilterra c'era poco da contare, perchè i finanzieri inglesi facevano scarsi affari in Europa, preferendo le imprese e le speculazioni coloniali, nelle quali guadagnavano molto di più, anche se erano esposti a catastrofi come quella che travolse la Banca Bahring.


Mentre provvedevo nel miglior modo possibile a questi bisogni immediati, procuravo di restringere le spese; ed a questa mia opera di economia Crispi non si oppose nullamente sino alle elezioni del '90; ed anzi l'appoggiò, consentendo meco che il Governo si presentasse a quelle elezioni con un programma di economie. Tale programma io l'avevo formulato ai primi di settembre come programma per le elezioni stesse, chiedendo in un Consiglio dei ministri una diminuzione delle spese per venti milioni nell'esercito e per dodici nella marina, e che nessun aumento fosse consentito per alcun altro bilancio. E poiché come il Ministro più giovane fungevo da segretario nel Consiglio, ne profittai per metterlo a verbale, aggiungendo che senza queste concessioni io non avrei presentati i bilanci alla Camera. Dopo lunghe discussioni il Ministro della Guerra, Bertolè-Viale, e quello della Marina, Brin, dettero il loro assenso; ma Finali, ministro dei Lavori Pubblici, insistette per avere un aumento di dodici milioni nel suo bilancio. Io rifiutai, perchè a mio avviso quei dodici milioni non erano necessari, ed anche perchè il Ministro della Guerra, prima di cedere alla mia richiesta di diminuzione del suo bilancio, aveva ottenuta da me la promessa, che non avrei ceduto con nessun altro dei ministri.

Finali continuando ad insistere, io dichiarai in Consiglio, e ripetei personalmente a Crispi, che se Finali non rinunciava, e non si modificava il bilancio dei Lavori Pubblici nel senso da me indicato, avrei date le dimissioni. Crispi cercò di rimandare la questione per quanto potè; ma siccome Finali non cedeva, e Crispi forse non si aspettava che io tenessi fermo al proposito manifestato, le dimissioni diventarono inevitabili.

Mancando tre o quattro giorni alllapertura della Camera, io feci a Crispi un'ultima dichiarazione, avvertendolo che se il giorno dopo, a mezzogiorno, non avessi il consenso del Finali, gli avrei mandate le dimissioni e le avrei ad un tempo pubblicate. Non avendo a mezzogiorno ricevuta alcuna risposta, dieci minuti dopo mandai la mia lettera di dimissioni e le comunicai alla stampa. Un quarto d'ora dopo si dimise pure il mio sottosegretario, Lazzaro Gagliardo, già garibaldino, ferito al Volturno e nel Tirolo, e che ricordo sempre come uno dei maggiori galantuomini e degli uomini di maggior buon senso che io abbia incontrati.


Non volli però creare altre difficoltà al Ministero, e seguitai a votare in suo favore sino alla
sua caduta, che avvenne improvvisamente il 31 gennaio 1891, in una seduta alla quale non mi trovavo presente. 
Fu la seduta delle famose   «sante memorie». In uno dei suoi scatti impulsivi, Crispi aveva detto che la politica estera della Destra era vile. Avvenne un pandemonio; Rudinì e gli altri uomini del suo partito balzarono in piedi apostrofandolo, ed il Ministero, nella votazione avvenuta subito dopo, fu battuto e rassegnò le dimissioni. Ma l'episodio di quella caduta era stato preparato senza volerlo dal Crispi stesso, il quale, staccandosi sempre più dalla Sinistra, aveva favorito inconsciamente un tentativo di ripresa della Destra, che s'impersonò appunto nel Ministero costituito da Rudinì in seguito a quella crisi.


Quando formò il suo primo Ministero, il Marchese Di Rudinì era considerato come il capo della Destra; essendo pervenuto a quella situazione con la scomparsa degli altri uomini più insigni del partito e per il prestigio del suo passato. Era infatti entrato nella vita politica giovanissimo, e in un episodio drammatico, nel 1866, quando a Palermo, in seguito al malcontento causato dalla guerra, era stata tentata una vera e propria insurrezione. Era stata una insurrezione prettamente borbonica, preparata con gli elementi della malavita palermitana; la quale per tre giorni aveva assediato il Di Rudinì, allora sindaco della città, nel palazzo municipale. Il giovane sindaco si era difeso con grande coraggio ed energia, dando tempo alle truppe dell'esercito regolare di sbarcare, reprimere i rivoltosi e rimettere l'ordine nella città perturbata.

Questo episodio gli aveva creata una grande popolarità fra gli uomini della sua parte, a cui era parso di avere trovato finalmente in questo giovane un vero uomo di azione, che sarebbe stato il loro capo per l'avvenire. E si cercò di affrettarne la carriera; fu nominato Prefetto di Napoli, e fu poi chiamato al dicastero dell'Interno nell'ultimo Ministero Minghetti, quando non aveva ancora compiuti i trenta anni. Come avviene per le aspettazioni troppo vive, seguì una certa delusione, anche nella fila del suo partito. Ricordo in proposito una frase del De Sanctis, alquanto maligna, e che allora fece il giro degli ambienti politici : — Venne alla Camera come il fanciullo miracolo; il fanciullo rimase, ma il miracolo scomparve. — Le mie impressioni di lui sono che egli fosse un perfetto galantuomo ed uomo di garbo e finezza; dotato di una cultura non ricca ma certo superiore alla media. Non aveva e non acquistò mai una completa esperienza e non sapeva dominare le assemblee. Il più grande difetto del suo carattere quale uomo politico, era l'indecisione.


Questa perplessità della sua indole si manifestò anche quella volta, nella formazione del suo Ministero. Come ho accennato, il modo con cui avvenne la crisi indicava il proposito di esperimentare un ritorno alla Destra; ma quando fu a scegliersi i suoi collaboratori il Di Rudinì finì per seguire l'esempio di Depretis al rovescio, cercando cioè di formare un Gabinetto il quale, movendo dalla Destra assorbisse uomini di Sinistra. Egli prese seco, al Ministero degli Interni il Nicotera, cioè l'uomo che aveva condotta la rivolta parlamentare del '76, insieme a uomini  di pura Destra.


Prima di offrire gli Interni al Nicotera, il Dì Rudinì li aveva offerti a me; ma io non potei accettare, dando ragione del mio rifiuto col fatto che il nuovo Ministero si era formato sovra una base politica diversa da quella su cui poggiava il Ministero di cui ero stato parte sino a pochi mesi prima.


Le difficoltà inerenti ad una situazione quale quella in cui il Ministero si era formato, non tardarono a manifestarsi, aggravate da un dissidio, invano dissimulato, fra i suoi due uomini principali, il Di Rudinì ed il Nicotera. Questi, che forse nutriva maggiori ambizioni, si giovava della sua posizione per scalzare il suo capo, al quale mancava l'energia e la decisione per disfarsene. Un giorno, avendomi chiamato, il Di Rudinì si sfogò meco, e dichiarandomi di non potere andare avanti col Nicotera agli Interni, concluse coll'offrirmi nuovamente quel posto. Gli risposi reiterando ciò che gli avevo già risposto alla sua prima offerta; e cioè che io non potevo entrarvi se il colore del Ministero non venisse cambiato, nel senso di appoggiarlo maggiormente verso Sinistra. Egli mi chiese in che modo, a mio avviso, questo mutamento potesse attuarsi, ed io suggerii di chiamare insieme a me Bonacci alla Grazia e Giustizia. Egli accettò il suggerimento, ed anzi dette a me l'incarico di fare l'offerta formale al Bonacci.

Io adempiei a quel mandato; ma poi non ne seppi più niente perchè Di Rudinì non si decise a fare la crisi, quantunque più volte ancora ritornasse a parlarmi dei suoi screzii col Nicotera. Poco dopo, durante la chiusura della Camera per le feste di Pasqua del 1892, essendosi dimesso il Ministro delle Finanze, Colombo, egli mi telegrafò a Cavour dove mi trovavo, pregandomi di venire a Roma. Venni, ed egli mi offerse di fare un nuovo Ministero d'accordo meco, tutto con uomini nuovi, tenendo fermi solo il nome suo e quello di Nicotera. Gli risposi che non mi pareva opportuno.; che io con Nicotera non mi sarei trovato. — Ma lo sopporto io — mi disse RudinL Ed io gli replicai: — Per questo posso compiangerla, ma non mi sento di imitarla. — Egli offerse allora il Ministero del Tesoro al Genala, che non accettò; e non riuscendo ad accaparrarsi altro nome che portasse ad un rafforzamento della compagine ministeriale, il Ministero si presentò alla Camera incompleto.

Nel dibattito parlamentare che seguì ai primi di maggio, io parlai contro, osservando che il Ministero non poteva andare avanti perchè non riuscirà nemmeno a ricomporsi; ed il Ministero essendo caduto col voto provocato dal mio discorso, fui indicato per la soluzione della crisi ed ebbi l'incarico di formare il nuovo Ministero.

IV.

Il primo ministero.
Gli scandali bancari e i Fasci dei lavoratori.

 

Un ritorno al governo di partito — I punti fondamentali del mio programma: politica liberale e politica sociale; mantenimento della Triplice e rapporti amichevoli con la Francia — Le elezioni e la vittoria della Sinistra — L'inchiesta sulla Banca Romana e i suoi precedenti — Il pericolo pel credito nazionale e la riforma delle Banche d'emissione — Gli inizii del movimento socialista — I « Fasci » siciliani e l'azione economica dei lavoratori — De Felice, Barbato, Verro — La reazione conservatrice — 11 Comitato dei Sette e la sua opera inadeguata — Le accuse mosse  contro di me e le mie dimissioni.


La caduta del Ministero Di Rudinì, che era nato da una crisi provocata dagli elementi conservatori sur una frase infelice del Crispi, e che, nonostante la partecipazione del Nicotera e le velleità mai adempiute del Di Rudinì di cercare altri appoggi verso la Sinistra, era stato complessivamente un Ministero di Destra, rappresentò appunto lo scacco di quel primo tentativo di restaurazione di una politica conservatrice, che in quella forma non fu più ritentata.


Avuto l'incarico di formare il nuovo Ministero io giudicai che esso dovesse essere nettamente un Ministero di Sinistra, senza dissimulazione ed accomodamenti, e chiamai a collaborare meco il Bonacci,  Brin,   Martini,  Genala,   Lacava,  Finocchiaro-Aprile, Di Saint-Bon, che era sopratutto un tecnico per la marina, e per la guerra il Pelloux, che nel mondo militare rappresentava allora, avanti le sue posteriori trasformazioni, un elemento molto liberale. E mi formai anche il concetto di chiamare uno dei liberali più rappresentativi alla Presidenza della Camera, scegliendo lo Zanardelli, che effettivamente fu nominato alla Presidenza dopo le elezioni generali, il 23 novembre del '92.


Il mio programma aveva alcuni punti capitali che lo distinguevano dalla politica dei miei immediati predecessori. Non solo da quella del Di Rudinì, rimasta sempre oscillante fra le tendenze conservatrici dell'uomo e il suo sforzo ad adattarsi alle condizioni dell'ambiente; ma anche da quella del Crispi, che avviatosi ormai a propositi grandiosi di espansione non teneva sufficiente conto delle condizioni ancora assai difficili della finanza e della economia pubblica, e mostrava già la disposizione a reagire con violenza al malcontento del paese, specie delle classi lavoratrici. Uno di questi punti era per me la restaurazione del bilancio, malamente scosso dalla finanza del Magliani e dalla mania spendereccia della Sinistra nei suoi primi tempi; e la necessità di adattare la nostra politica finanziaria alle condizioni del paese, che stava ancora traversando una lunga crisi economica, dalla quale non doveva uscire che parecchi anni dopo.

Un altro punto, che d'altronde era in stretta correlazione con questa necessità capitale del risanamento della nostra finanza, toccava la politica estera. Io accettavo pienamente la «Triplice Alleanza» conclusa parecchi anni avanti dal Depretis; ma non intendevo affatto di seguire l'indirizzo di Crispi, che a questa alleanza si era appoggiato per condurre una politica estera che la Francia considerava ostile e provocatrice. Tale atteggiamento di Crispi aveva avuto per noi ripercussioni gravi appunto nel campo finanziario; rendendo più acuta l'ostilità finanziaria con cui la Francia rispondeva alla ostilità politica del Crispi, e costringendoci a maggiori spese militari, come apparve poi negli anni seguenti, quando Crispi ritornò al Governo. Nel mio pensiero, già sino d'allora la Triplice doveva essere considerata da noi nell'aspetto di una alleanza difensiva, la quale, garantendoci la nostra sicurezza, ci permettesse appunto di intrattenere relazioni cordiali, sovra un piede di riconosciuta eguaglianza, con le altre Potenze. Io mi proponevo dunque nella politica estera, mantenendo fermi i nostri accordi con le Potenze Centrali, di smussare gli angoli nei nostri rapporti con la Francia, che si erano gravemente inaspriti durante il Ministero Crispi, e di ristabilire con essa relazioni equanimi e di buon vicinato. Ed a questo mio proposito riuscii, ottenendo appunto che la Francia partecipasse ufficialmente alle feste colombiane tenute a Genova, nell'agosto del '92, inviandovi una sua corazzata con un viceammiraglio a fare omaggio al Re, che era presente con tutti i Ministri.


Il terzo punto capitale del mio programma concerneva la politica interna; per la quale io ritenevo arrivato il momento di avviarsi ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici. L'avvento  infatti della democrazia  al  governo,  con  la cosidetta   rivoluzione   parlamentare   del   '76   ed   il trionfo della Sinistra, era stato di carattere più che altro dottrinario, toccando più particolarmente, e in modo  non  interamente benefico,  la politica  finanziaria dello Stato. Le inclinazioni democratiche della Sinistra si erano insomma più che altro sfogate nel fare una politica popolare di spese, che se per un verso  parevano   giustificate  dalle   condizioni  e  dai bisogni delle regioni meno fortunate e più arretrate, per un altro minacciavano la compagine finanziaria dello Stato. E se le convinzioni democratiche della Sinistra erano rimaste ferme  nella dottrina, nella pratica parlamentare avevano subito inevitabili oscuramenti per la politica del «trasformismo» del Depretis, e per le nuove tendenze dittatorie a cui il Crispi si era ormai avviato.

C'era poi un punto nel quale le idee  mie si  distinguevano  nettamente da quelle degli altri rappresentanti della democrazia di quel tempo. La Sinistra democratica era pur sempre una espressione della borghesia, sia pure della borghesia minuta in confronto  a quella degli ottimati rappresentata dalla vecchia Destra, specie lombarda; e le  sue ispirazioni  dottrinarie  erano  pure  attinte alle scuole della democrazia borghese. Ho già detto che a quel tempo gli stessi democratici più avanzati, quali lo Zanardelli e il Cavallotti, erano avversi al socialismo ed alle sue dottrine; mentre per Crispi il socialismo era addirittura il nemico della patria. Per l'opinione media il socialismo si confondeva con l'anarchismo e la rivoluzione; e i pochi socialisti già arrivati alla Camera, quali il Costa, il Prampolini, il Badaloni, l'Agnini, se personalmente erano trattati come egregie persone, come meritavano, politicamente erano considerati come un caso eccezionale. Io pensavo invece che fosse già arrivato il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche, di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano cominciato, tanto nelle grandi città industriali, che qua e là nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire. Concetti questi che, anche se non espressamente proclamati, informavano lo spirito delle dichiarazioni con cui il nuovo Ministero si presentò alla Camera.


Apparve subito che la Camera, come era stata
formata nelle ultime elezionii fatte dal Crispi, non
avrebbe fornito una base sicura alla esplicazione
di quel programma. Quando mi presentai fui infatti
attaccato particolarmente dalla Destra, che aveva
per suo oratore principale Ruggiero Bonghi, che ne
rappresentava appunto le tendenze più retrive. Provocai, a chiudere la discussione, un voto di fiducia;
ed ebbi appena nove voti di maggioranza, con ventisei o ventisette astenuti al Centro, che facevano
capo a Sonnino. Quella votazione mi dimostrò che
con quella Camera era impossibile andare avanti, e la sera stessa mi recai dal Re per esporgli la situazione, che si riassumeva poi nel dilemma: o lo scioglimento della Camera o le dimissioni del Ministero. Le ragioni per cui allora non esitai a proporre lo scioglimento della Camera, e che esposi a Sua Maestà, erano le seguenti: che il sistema elettorale essendo stato mutato con la legge presentata e fatta approvare dal Di Rudinì, che ristabiliva l'antico collegio uninominale, la Camera non rispecchiava più fedelmente la situazione politica del paese; e che d'altronde, la Camera avendo abbattuti i due Ministeri del Crispi e del Rudinì, e avendo a me data una votazione in base alla quale non potevo assumermi la responsabilità del governo, ne risultava una condizione di cose per cui non appariva possibile di costituire una maggioranza. Il Re ascoltò queste ragioni e mi disse di tornare l'indomani a mezzogiorno per la risposta.


Nei rapporti che durante il mio Ministero io ebbi con Re Umberto, egli mi apparve come un uomo molto semplice, molto cortese, e correttissimo dal punto di vista costituzionale. Dopo quel mio primo Ministero io non ebbi per un pezzo più a rivederlo; ma certo in quel tempo non notai in lui prevenzioni di sorta contro una politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di responsabilità la sua funzione, e s'informava moltissimo delle cose di Stato, interessandosi di tutto, ma in particolar modo della politica estera e delle cose militari.

Anche in questa occasione egli mostrò d'intendere con retto senso costituzionale l'alto compito che gli incombeva. Appena lasciato il Re io avevo convocato per l'indomani alle undici il Consiglio dei ministri. Appena fu adunato il Genala chiese la parola, e mettendo in rilievo l'impossibilità di andare avanti, dichiarò solennemente che gli pareva opportuno di proporre la convocazione dei comizii elettorali. Ricordo ancora che usò la frase: — Bisogna fare un gran colpo. — Io presi allora la parola e dichiarai ai Ministri che li avevo convocati appunto per informarli che la proposta dello scioglimento della Camera e delle elezioni era già stata da me fatta a Sua Maestà, e che a mezzogiorno dovevo tornare a Palazzo reale a prendere la risposta. E infatti poco dopo fui ricevuto dal Re, il quale mi disse subito che, avendo esaminata la situazione parlamentare, e tenendo conto della mutazione della legge elettorale, era venuto alla conclusione che fosse opportuno interpellare il paese. Soggiunse poi che quanto al momento ed alla forma della dichiarazione, si rimetteva interamente a me. Con questa risposta tornai ai ministri, che erano rimasti ad aspettarmi, e li invitai a ritrovarsi tutti per le due all'apertura della Camera. Vi era grande aspettativa e fermento. Quando io mi alzai a parlare e cominciai a dire: —Ho l'onore di dichiarare che in seguito alla votazione di iersera il Ministero ha presentate a Sua Maestà le sue dimissioni — un applauso scoppiò dai banchi della Destra. Io li lasciai applaudire un bel po', poi soggiunsi: — Però Sua Maestà non le ha accettate.
—Un altro applauso fragoroso scoppiò allora dai banchi della Sinistra, e Zanardelli alzandosi gridò:
—Viva il Re! —

Per tutto il seguita poi del mio Ministero, nella Camera fu mantenuta questa rigida divisione di Destra e di Sinistra, quale non si era avuta da un pezzo, e che si dimostrava ogni volta che si faceva una votazione per alzata e seduta.


Io conclusi chiedendo l'esercizio provvisorio per sei mesi. Seguì una lunga discussione, nella quale oratore principale contro il Ministero fu sempre il Bonghi, e si concluse con una votazione a scrutinio segreto, che mi dette settantotto voti di maggioranza.


Sciolsi la Camera solo nell'autunno, e precisamente il 10 ottobre, anche perchè per l'agosto si preparavano a Genova le feste pel Centenario di Colombo, alle quali dovevano convenire rappresentanze da tutto il mondo, e che, come ho detto, ebbero anche un particolare significato politico, per l'intervento della Francia, che indicava un attenuamento della tensione fra i due paesi.


Le elezioni ebbero luogo il 13 novembre col risultato di una notevole vittoria della Sinistra la quale guadagnò parecchi seggi contro la Destra. Rimasero pure colpiti i repubblicaneggianti dell'Estrema Sinistra, con la caduta di Cavallotti e dell'Imbriani, che ne fecero un chiasso indiavolato, attribuendomene la responsabilità, come se io avessi avuto il dovere di sostenere elementi che non erano perfettamente nell'ambito  della   Costituzione.

L'anno che seguì, 1893, fu grave e difficile; per l'inasprirsi delle difficoltà finanziarie, con un rialzo del cambio che le finanze dello Stato, già da tempo in condizioni non buone, risentivano assai pei pagamenti che si dovevano fare all'estero, e che superavano i trecento milioni in oro; per le rivelazioni bancarie, specie quelle concernenti la Banca Romana, coi conseguenti scandali e polemiche che suscitarono nel mondo politico; ed infine per le agitazioni proletarie che culminarono nel movimento dei Fasci dei lavoratori, organizzatisi in Sicilia. A complicare tutte queste difficoltà si aggiunse la morte di parecchi dei miei collaboratori al Ministero: morirono l'Eula, che teneva il dicastero della Grazia e Giustizia, e che io sostituii prima col senatore Santamaria Nicolini, poi col senatore Giacomo Arno; morì l'Ellena, che era alle Finanze, e che fu sostituito dal Grimaldi; morì il Saint-Bon, che fu sostituito dal Racchia; ed infine morì il Genala, che sostituii io personalmente prendendo  l'interim dei  Lavori   Pubblici.


Per fare fronte alle difficoltà finanziarie, che si risentivano specialmente per i pagamenti dovuti all'estero, escogitai due provvedimenti. Gli interessi del nostro Debito Pubblico all'estero si dovevano pagare in moneta estera o in oro. Col cambio salito al quindici per cento, si faceva, da Banche e privati, la speculazione di inviare all'estero i coupons per la riscossione, lucrando così quel quindici per cento a
danno dello Stato. A mettere un argine a questa speculazione, che si allargava sempre più, io stabilii il sistema dell'affìdavit, per cui la riscossione delle cedole degli interessi all'estero non si poteva fare che previa dichiarazione di possesso con giuramento presso le autorità consolari italiane. Stabilii pure che i dazii doganali fossero pagati da allora in avanti in oro. Questo provvedimento di far pagare in oro la dogana diede luogo a controversie con alcune potenze estere, le quali finirono poi per riconoscere che il pagare la dogana con moneta scadente avrebbe costituito una vera diminuzione della protezione stabilita dai trattati. Questi due provvedimenti riuscirono perfettamente efficaci allo scopo, e furono poi sempre mantenuti, anche quando la nostra moneta si era pareggiata per un lungo periodo di anni con l'oro; e fu fortuna quando si consideri la condizione dei cambi formatasi pur troppo dopo la guerra europea.


Ora ecco come scoppiò, e cosa fu veramente lo scandalo della Banca Romana.


Bisogna anzitutto ricordare che sino a quel tempo, la vigilanza degli Istituti di emissione non spettava, come è avvenuto di poi per opera mia, ai Ministero del Tesoro, ma a quello di Agricoltura, Industria e Commercio. Ai tempi dell'ultimo Ministero Grispi, nel quale io tenevo il dicastero del Tesoro, erano corse delle voci e sorte delle accuse riguardo all'amministrazione della Banca Romana; ed il Ministro d'Agricoltura di allora, Miceli, nel giugno del  1889, in seguito a quelle voci aveva ordinata una ispezione generale degli Istituti di emissione. Per la Banca Romana l'incarico era stato affidato al Senatore Alvisi, il quale chiese la collaborazione di un funzionario del Tesoro, che gli fu concessa nella persona del  Comm.  Gustavo   Biagini.


Siccome la cosa non era affatto di pertinenza mia, i risultati di quella ispezione io non li appresi che nel Consiglio dei Ministri, e secondo la relazione che ne dette il Ministro d'Agricoltura. È apparso poi che una relazione, compilata dal Biagini, facesse rilievi e presentasse accuse contro l'amministrazione della Banca, sia riguardo al suo portafoglio, viziato da molta carta di comodo che si rinnovava di scadenza in scadenza; sia riguardo alla circolazione ed un vuoto di cassa di nove milioni, coperto da emissione clandestina. Ma, in seguito a spiegazioni date personalmente dal Tanlongo al Ministro, ed a nuove ispezioni e studii condotti a mezzo del Commendator Monzilli, allora Direttore generale del credito, il Miceli fu convinto che il Biagini, per mancanza di pratica, fosse caduto in equivoci, tanto più che il Biagini stesso, dopo una seconda ispezione ordinata dal Ministro, aveva verificato e riferito che la Cassa era stata reintegrata; e la relazione che egli portò al Consiglio dei Ministri su l'esito dei lavori della Commissione fu complessivamente favorevole alla Banca Romana, e l'azione del Ministero d'Agricoltura verso la Banca si limitò ad alcuni provvedimenti di ordine e gestione.

Dello stesso tenore, come appare dai documenti ufficiali e dalla Relazione del Comitato dei Sette, furono le dichiarazioni che il Miceli fece poi alla Commissione parlamentare eletta per studiare e riferire sulla legge del 30 novembre 1889 pel riordinamento degli Istituti di emissione; alla quale egli presentò un sunto delle relazioni ricevute, in cui si tacevano le circostanze rilevate dal Biagini, anzi si facevano accenni lusinghieri alle migliorie già introdotte nell'Istituto. Nessun sospetto si poteva avere e mai si ebbe sulla buona fede del Miceli; e solo i fatti, venuti poi alla luce a mezzo della inchiesta da me ordinata, rivelarono il modo con cui la sua buona fede era stata sorpresa; fra l'altro con l'audace mascheratura del vuoto di cassa mediante un prestito provvisorio di dieci milioni ottenuto dalla Banca Nazionale. Ad ogni modo, ai Ministri colleghi del Miceli non competeva né il diritto né il dovere di entrare per conto proprio nella questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del Ministro competente e della cosa non si parlò più.

Io, come Ministro del Tesoro, non avevo alcun diritto di ingerirmi nella vigilanza degli Istituti di emissione, che fu poi tolta all'Agricoltura e passata al Tesoro appunto con la legge che io stesso feci approvare nel 1893; e contrariamente alle presunzioni degli avversari io non conobbi la relazione particolare del Biagini, assorbita per me, quale membro del Gabinetto, nella relazione generale fatta dal Ministro Miceli.


La  questione  della  Banca  Romana,   fra  la  fine del '92 e il principio del '93 fu portata alla Camera dal deputato Colajanni, pare, in base alla relazione Alvisi-Biagini, di cui egli avrebbe ricevuta copia dopo la morte dell'Alvisi. E cominciarono a circolare subito gravi voci sulle condizioni in cui la Banca si trovava, accennandosi sin d'allora a deficienze di cassa e ad eccedenze di circolazione. A questo proposito bisogna ricordare che sino allora le Banche d'emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e la Banca Bomana che faceva fabbricare i suoi biglietti in Inghilterra ne poteva commissionare sin che voleva. Ed infatti si venne poi a scoprire che, oltre alle eccedenze di circolazione di sessanta milioni, essa ne aveva fatti venire altri quaranta che costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni impiegati superiori, saputo dell' arrivo di questi biglietti, e spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro, protestarono presso i Direttori della Banca, obbligandoli a bruciarli. Tutto questo venne alla luce poi, per mezzo della inchiesta Finali, da me ordinata.


Gli attacchi di Colajanni contro la Banca Bomana fecero molta impressione nel Parlamento e sulla pubblica opinione; e si propose una inchiesta parlamentare. Ma io, che intanto avevo cercato di raccogliere informazioni sulle cose, ebbi a notare che a tale domanda si associavano con eccessiva energia alcuni deputati che mi risultavano compromessi con la Banca, e rifiutai quella inchiesta, proponendomi di farla invece a mezzo di una Commissione di nomina governativa. Così, con un decreto del 30 dicembre 1892, nominai quella Commissione chiamandovi alla Presidenza un uomo che era da sé solo garanzia di serietà, di competenza, di severità indiscutibile, il Senatore Finali, primo Presidente della Corte dei Conti. La Commissione fu composta di persone il cui giudizio non era pregiudicato da inchieste precedenti o da uffici da esse coperti, e che furono scelte fra quanto di più elevato, per competenza, per oculatezza e per carattere, vi era nella pubblica amministrazione.

L'inchiesta doveva estendersi a tutti gli Istituti di emissione, che allora erano sei; e cioè la Banca Nazionale e la Banca Romana; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Furono scelti sei funzionari, ad ognuno dei quali fu affidata l'ispezione di una Banca, e di quella per la Banca Romana fu incaricato il Commendatore Martuscelli, segretario generale della Corte dei Conti. Il decreto con cui costituii la Commissione era molto semplice, ma diretto ad andare a fondo di tutte le varie parti che costituiscono una azienda bancaria: creazione, emissione e ritiro dei biglietti; circolazione e quantità dei biglietti di scorta; consistenza delle riserve metalliche; natura e entità degli impieghi, delle sofferenze e delle immobilizzazioni. Intervenni alla prima seduta della Commissione per dichiarare che ponevo a servizio di essa tutti i funzionari dello Stato, e tutti gli elementi di cui il Governo disponeva, e per pregare la Commissione di procedere in modo che avvenisse contemporaneamente la verifica di tutte le casse degli Istituti di emissione per evitare che con trasporti di fondi potesse coprirsi qualche vuoto di cassa.


Nei giorni seguenti essendomi poi allontanato da Roma per recarmi a visitare a Cavour un mio parente ammalato, ricevetti un telegramma del mio collega, il Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, il quale mi comunicava il desiderio del Senatore Finali che fosse spedita una circolare ai Prefetti affinchè lo aiutassero in tutte le indagini occorrenti. Ed io risposi immediatamente affidando allo stesso Senatore Finali di formulare tale circolare nei termini che egli credesse più adatti a raggiungere lo scopo, ed autorizzando, nel caso vi fosse urgenza, il Rosano, mio sottosegretario, a firmarla in mia vece.


Pochi giorni dopo che io aveva ordinata l'inchiesta presieduta dal Finali, cominciarono a correre per Roma voci di gravi disordini che si temeva fossero per scoprirsi alla Banca Romana; tali voci traevano origine da discorsi di impiegati di quella Banca, e vennero riferite al Ministero anche da agenti della Pubblica Sicurezza. Le prime indagini del Commendatore Martuscelli parevano riconfermare l'esistenza di quei disordini, e si ebbe pure il sospetto che alcuno dei responsabili potesse mettersi al sicuro all'estero. Allora io diedi ordine che fossero sottoposti a vigilanza gli amministratori tutti di quella Banca senza
distinzione, e che in ispecie il Tanlongo, il Commendatore Cesare Lazzaroni e il barone Michele Lazzaroni che apparivano più coinvolti in quei fatti, fossero diffidati di non allontanarsi da Roma, che altrimenti sarebbero arrestati. Tale diffida fu fatta il 15 gennaio '93; il Tanlongo e Cesare Lazzaroni dettero parola che non si sarebbero allontanati, e il Michele Lazzaroni dichiarò che se i suoi interessi lo avessero, come era probabile, costretto a partire, ne avrebbe dato avviso.

Fra i censori della Banca c'era il Duca di Ceri, che non aveva colpa alcuna nei fatti, e poteva solo essere considerato responsabile per negligenza del suo ufficio. Vedendosi vigilato, egli si fece accompagnare presso me da un amico, chiedendomi che cosa quella vigilanza significasse. — Niente altro che questo, — gli risposi, — che se si scopriranno magagne nella Banca Ella sarà immediatamente arrestato. — Ma poi conoscendolo per un perfetto galantuomo, lo rassicurai, senza però modificare la sorveglianza.


Il lavoro della Commissione fu condotto avanti, avendo in considerazione la mole e complessità delle indagini, con eccezionale sollecitudine; così che il 18 di gennaio il Martuscelli potè stendere il suo rapporto. Il Finali mi annunciò che la sera stessa me l'avrebbe portato, insieme col Martuscelli, preavvertendomi che constatava dei fatti gravissimi. Io allora avvisai il Bonacci, Ministro di Grazia e Giustizia, di trovarsi egli pure a Palazzo Braschi per la venuta del Finali. Il Bonacci giunse al mio ufficio, verso le nove di sera, accompagnato dal senatore Bartoli, procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, dichiarandomi di averlo condotto per esaminare la questione se il Tanlongo, essendo stato nominato Senatore ma non ancora convalidato, potesse essere soggetto alla giurisdizione ordinaria dei Tribunali o dovesse essere mandato davanti al Senato.

Il Senatore Bartoli, entrando poi nella mia stanza — e ricordo questi particolari perchè intorno a quel convegno fu architettato poi un vero romanzo — mi disse che essendo egli un po' indisposto di salute, aveva creduto conveniente di condurre seco il giudice istruttore ed il sostituto procuratore del Re e li aveva lasciati nella prima camera del mio ufficio. Io non avevo a questo nulla da obbiettare, ma quei funzionari non furono da me visti in alcun modo. Finali, arrivando poi col Martuscelli, mi consegnò il rapporto, ed io dopo averne data lettura lo consegnai al Bonacci, accompagnandolo con una lettera affinchè rimanesse traccia ufficiale della sua provenienza; ed il Bonacci alla sua volta lo consegnò al Procuratore generale, che lo ricevette, dichiarando che si ritirava coi funzionari che aveva condotti seco, per deliberare sul da farsi. Poi io mi allontanai dal Ministero perchè era già ora tarda.

L'indomani mattina si tenevano al Pantheon le esequie in memoria di Vittorio Emanuele (19 marzo), e fu colà, mentre io vi assistevo, che il mio sottosegretario, il deputato Rosano, mi informò che l'autorità giudiziaria aveva nella mattinata presto spedito mandato di cattura contro il Tanlongo e Cesare Lazzaroni, ordinando nello stesso tempo alla Pubblica Sicurezza di procedere alle perquisizioni.


Pur troppo la relazione della Commissione confermava i peggiori sospetti, precisando le accuse, sia riguardo alle eccedenze, ed alle irregolarità della circolazione ed ai vuoti di cassa, sia alle pessime condizioni del portafoglio, dove giaceva una ingente mole di cambiali in sofferenza. La inchiesta era stata condotta con tanta oculatezza e diligenza, che in tutte le indagini successive, comprese quelle ordinate dalla autorità giudiziaria pel processo penale contro Tanlongo e i suoi complici, non fu accertata una sola irregolarità che dalla inchiesta non fosse già stata rivelata. Credo che di rado una indagine ordinata su una materia così vasta e complessa sia riuscita ad andare a fondo con tanta sollecitudine e così pienamente.


Quando venne così a mia notizia l'esistenza di una circolazione clandestina di circa settanta milioni, e l'altro fatto enorme che con una ordinazione mandata a Londra si erano potuti fare spedire a Roma, come se si trattasse di un barile di birra, quaranta milioni di altri biglietti all'insaputa di tutti, due timori gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si spandesse in Italia per tutti i biglietti di Banca, unica nostra moneta, vigendo allora il corso forzoso, col pericolo di un turbamento incalcolabile di tutta la vita economica del nostro paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione clandestina ancora maggiore di quella accertata, e che altre spedizioni di biglietti da Londra, oltre quella scoperta, avessero forse avuto luogo.

Al primo di questi pericoli altro rimedio non v'era all'infuori di quello che pochi giorni dopo adottai, facendolo poi approvare dal Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di biglietti a corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare tale dichiarazione mi premeva di avere, la certezza, per quanto era possibile averla, che il male non fosse più grave di quello che dalle indagini compiute dal Martuscelli era risultato. Mi preoccupavo pure del pericolo che qualche creazione clandestina di biglietti potesse venire trafugata. Perciò incaricai il sottosegretario di Stato e la Direzione generale di Pubblica Sicurezza di informarmi immediatamente di tutto quanto venisse a sapersi intorno alla Banca Romana, sia pei risultati delle perquisizioni, sia per altre informazioni di qualunque genere; e così pervennero alle mie mani copie di alcuni documenti sequestrati in casa Lazzaroni ed elenchi di documenti sequestrati in casa Tanlongo e alla sede della Banca Romana. Tanto gli elenchi quanto le copie si riferivano esclusivamente a documenti trasmessi alla autorità giudiziaria. Ma, come vedremo appresso, queste mie disposizioni, che entravano nell'orbita dei miei doveri di governo, dettero poi luogo ad una campagna di persecuzione e diffamazione contro di me.


Le  risultanze  delle   indagini  condotte  presso   le altre Banche di emissioni, riuscirono assai meno gravi, e in ogni modo non rivestirono l'aspetto cosi criminoso di quelle uscite dalla indagine sulla Banca Romana. Per il Banco di Napoli, dalla relazione risultò che era ridotto senza capitale, ed anzi con venti milioni di passivo. Non c'erano disordini nella circolazione; ma il suo portafoglio era gravato di una mole stupefacente di cambiali di nessun valore. Il metodo che era stato seguito nel Banco di Napoli per fare delle generosità a spese del Banco, consisteva nello scontare cambiali firmate da nullatenenti, che poi venivano messe fra le inesigibili.


Di fronte alla scoperta di queste gravissime condizioni di cose, che gettava tanta ombra di discredito sulla nostra moneta, io pensai che il primo dovere che s'imponeva al governo era di fare casa nuova, procedendo ad un riordinamento totale degli Istituti di emissioni, con provvedimenti tali che dessero la massima possibile garanzia al credito ed al biglietto di Banca. Ebbi consenzienti i miei colleghi, e presentai al più presto a tale scopo un progetto di legge al Parlamento. Questo progetto conteneva i seguenti punti principali: 1.° Soppressione della Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito, perchè l'esistenza di sei Banche, con sei specie di biglietti a corso legale, creava grandi complicazioni ed aumentava le difficoltà di vigilanza da parte del governo; lasciando sussistere solo la Banca Nazionale, trasformata in Banca d'Italia, il Banco di Napoli e quello di Sicilia che avevano antiche tradizioni; 2.° stabilire che non si potessero fare emissioni di biglietti
senza il controllo dello Stato, così che d'allora ogni
biglietto porta il timbro dello Stato, impresso dalle
Officine cartevalori, rendendosi così impossibile qualunque emissione clandestina; 3.° si proibì in modo
assoluto che potessero fare parte delle amministrazioni e direzioni degli Istituti di emissione deputati
e senatori, che sino a quel tempo vi partecipavano in
grande numero, disposizione questa che ferendo interessi mi attirò vivi risentimenti ed odii che si sfogarono nelle campagne di poi.

La legge inoltre comprendeva disposizioni severissime per ristabilire il
credito del Banco di Napoli, molto scosso, e per
smobilizzare la Banca d'Italia; talmente severe, che
quando cominciarono a ristabilirsi condizioni più
normali, furono attenuate.

Così grave era stato il
pericolo corso dal credito nazionale, e così evidente
la necessità di rimedi immediati e radicali, che quella
legge fu approvata quasi senza discussione non
ostante gli interessi che feriva. Ed essa può considerarsi il risultato benefico del grave scandalo, perchè mi dette modo di creare, per il funzionamento
delle Banche di emissione, e per la circolazione
monetaria, un sistema sicuro ed efficace, che vige
tuttora, e per forza del quale i gravi, criminosi in
convenienti per quegli scandali venuti in luce, non
si sono mai più ripetuti.    


La relazione della Commissione d'inchiesta, e le
voci che correvano  sui risultati delle perquisizioni

e delle istruttorie processuali contro Tanlongo, Lazzaroni e i loro complici, e di responsabilità e colpevolezze di uomini politici, avevano intanto creato una grande agitazione nella opinione pubblica, nella stampa e nel Parlamento. Così in una seduta della Camera fu presentata la proposta di nominare un Comitato col preciso incarico di accertare le responsabilità politiche e di riferirne. Io, che mi ero opposto ad una inchiesta politica che precedesse quella amministrativa, perchè avevo ragione di temere che l'inchiesta politica prematura potesse essere strumento di salvataggio, e perchè mi premeva di stabilire avanti tutto quale fosse la reale condizione degli Istituti di emissione, e di provvedere ai rimedi; quando l'indagine amministrativa fu compiuta non avevo più ragione di oppormi a che fossero ricercate e constatate le eventuali responsabilità di uomini politici.

La Camera affidò al suo Presidente, che era allora lo Zanardelli, l'incarico di nominare questa Commissione, che prese poi il nome di Comitato dei Sette, e che fu nominata il 21 marzo, e risultò composta di Mordini, presidente e relatore, di Alessandro Paternostro, segretario, di Cesare Fani, altro segretario, e di Giovanni Bovio, Antonio Pellegrini, Eduardo Sineo  e Suardi Gianforte.


Il secondo importante avvenimento di quell'anno fu l'agitazione proletaria, che si manifestò particolarmente con la costituzione dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, e con la loro lotta pel miglioramento dei patti agrari e dei salari.


Un certo movimento nelle classi popolari, e specialmente fra quelle operaie delle città, si era già iniziato in Italia da non pochi anni. Nella sua prima fase, e col favore degli elementi democratici, esso si era affermato con la creazione delle società operaie di mutuo soccorso, aliene la maggior parte dalla politica, ed anche nelle campagne, con la costituzione di cooperative di lavoro, per le quali, come Ministro del Tesoro nel Gabinetto Crispi, io avevo già preso disposizioni perchè certi lavori pubblici potessero essere affidati loro direttamente. Ma lo spirito e le dottrine socialiste, che avevano già avuti grandi movimenti di organizzazione ed episodi di lotta all'estero, specie in Germania ,ed in Francia, cominciavano a filtrare anche in Italia; e già nel 1874 c'era stata a Milano la costituzione della prima Camera del Lavoro, con intendimenti di lotta anche politica, che avevano molto allarmato i conservatori lombardi ed il governo; tanto che era stata sciolta e i suoi capi, tutti operai, processati. È da notarsi che anche i democratici milanesi non mostrarono alcuna simpatia per quel movimento, ed anzi l'avversarono.

Poi ci furono le agitazioni e la propaganda nella Romagna da parte di Andrea Costa, che per alcuni anni fu il solo deputato socialista alla Camera, ed il cui socialismo era di carattere rivoluzionario, e si mescolava col repubblicanesimo. In generale, in quelle primissime agitazioni il socialismo si confondeva assai con l'anarchismo che aveva per capi il Gori e il Cipriani, ed anche, specie in Romagna, col garibaldismo; era un movimento assai confuso, con tendenze di congiura e complotto e velleità insurrezionali, che attirava gli spiriti disordinati e ribelli, ma non si spandeva molto nelle masse operaie.

Un chiarimento nel senso socialista, e secondo le idee marxiste di progressiva educazione ed organizzazione dei lavoratori, si era avuto più tardi, dopo l'85 con la propaganda condotta da Prampolini ed Agnini nelle provincie di Reggio e di Modena, da Badaloni nel Polesine, e poi dal Berenini a Parma, da Enrico Ferri nel Mantovano, e da Bissolati nel Cremonese.

A Milano, con la pubblicazione della Critica Sociale da parte del Turati, mi pare verso il '90, si era formato un centro di cultura e di rigida dottrina marxista, che esercitava una notevole influenza sulla gioventù universitaria dell'Italia settentrionale, e che raccolse presto collaboratori a Bologna, a Genova ed a Torino, molti dei quali, come il Treves, lo Zerboglio, il Canepa ebbero poi notevole parte nel movimento politico socialista. Nell'agosto del 1892 era stato tenuto un Congresso a Genova, nel quale le due tendenze, quella anarchico-rivoluzionaria e quella socialista organizzatrice si erano trovate di fronte, e che si era concluso con la rottura; i socialisti, facenti capo a Turati e Prampolini e con l'adesione della maggioranza degli intellettuali e di parte delle organizzazioni operaie, quale la Camera del Lavoro di Milano, costituirono
il Partito socialista italiano, che con varie vicende si è mantenuto sino ad ora, mentre i rivoluzionari andarono scemando di numero e d'influenza.


Nella Sicilia il movimento operaio aveva avuta la sua origine a Catania, per opera di De Felice Giuffrida. Questi non possedeva molta cultura, e la sua indole era piuttosto di un agitatore popolano. Aveva cominciato col condurre una violenta lotta contro il municipio conservatore, muovendo accuse contro i suoi capi; e costoro, per vendetta e per liberarsi di lui l'avevano involto] in un processo ed erano riusciti a farlo condannara Si trattava di questo: il De Felice avrebbe dovuto testimoniare in un processo contro un suo amico, e se ne sottrasse presentando un certificato medico di malattia. I suoi nemici l'accusarono di falso intenzionale, per essersi giovato di quel certificato pure sapendo di non essere malato, e il Tribunale lo condannò a tredici mesi di reclusione. La condanna che parve ingiusta, suscitò una forte reazione nell'opinione pubblica; il De Felice diventò popolarissimo presso le masse e portato deputato nelle elezioni del '92, non ostante gli sforzi dei suoi avversari, fu eletto con una grande maggioranza. Per sfuggire alla condanna egli si era rifugiato a Malta, e dopo la sua elezione io lo feci avvertire che poteva ritornare sicuramente. Il suo ritorno fu veramente trionfale; per dare una idea della popolarità che si era conquistata, ricordo che durante le elezioni erano stati eretti molti altarini, sui quali davanti al suo ritratto bruciavano le candele, come davanti ai santi.

Io conobbi poi il De Felice come deputato, e la mia impressione di lui è sempre stata che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo che ha sempre vissuto modestamente; un po' imaginoso ma fondamentalmente buono. Ricordo un curioso episodio della sua vita, che mi narrò egli stesso, e che mostra tutto il suo carattere. C'era il colera in un grosso comune della provincia di Catania, e la sua diffusione era attribuita specialmente all'infezione di un acquedotto, che apparteneva a un ricco barone. Il municipio aveva intimato al barone di interrompere l'acquedotto, ma costui si rifiutava negando l'infezione e minacciando di chiedere al municipio milioni di danni se l'interruzione avesse avuto luogo. Allora De Felice, insieme con alcuni amici, si recò nella campagna ad un punto dove l'acquedotto passava, e lo fracassò, per assumersene la responsabilità personalmente e non involvere il municipio in una lite costosa, dicendo: — E adesso il barone venga a chiedere a me i milioni pei danni subiti. — Egli era odiatissimo da Crispi, che aveva sempre attaccato.


L'agitazione dei contadini, che condusse alla costituzione dei Fasci dei lavoratori, scoppiò nella primavera del '93 per dispute di salari, e si estese per tutta la Sicilia, ed ebbe dei capi energici, venuti dalla borghesia, come il Garibaldi Bosco, che era un impiegato privato, il Barbato medico, Bernardino Verro e molti altri. Io mi resi subito conto che si trattava di un movimento economico, pienamente giustificato dalle penosissime condizioni in cui si trovavano i contadini ed i minatori, come fu allora ampiamente dimostrato da inchieste condotte da giornali autorevoli, quali la Tribuna e il Corriere della, Sera, le cui rivelazioni sulle miserrime condizioni in cui si trovavano i lavoratori siciliani, e sull'atroce abuso che si faceva del lavoro dei fanciulli nelle miniere produssero una viva impressione sulla pubblica opinione.

Ricorderò anche che molti anni avanti il Sonnino insieme col Franchetti avevano compiuta una inchiesta e compilato uno studio sulle condizioni della Sicilia, rilevando le miserabili condizioni fatte alle classi lavoratrici e gli abusi dei proprietari; e venendo alla conclusione pessimistica che i rimedi ordinari non sarebbero mai riusciti efficaci, e quello stato di cose non avrebbe potuto essere mutato che con una rivoluzione. Non ostante però queste sue considerazioni di studioso, il Sonnino si trovò poi a far parte del Ministero Crispi, che reagì violentemente contro il primo tentativo di quelle classi lavoratrici di ottenere miglioramenti alle loro condizioni di lavoro e di vita.

Io, senza lasciarmi troppo impressionare, avevo dato ai prefetti istruzioni corrispondenti alla realtà della situazione; disponendo cioè perchè mantenessero l'ordine pubblico ed impedissero in qualunque modo l'uso della violenza; ma lasciassero però d'altra parte che i contadini e i minatori potessero ottenere patti migliori e cercassero anche di persuadere i proprietari a venire a risoluzioni conciliative.

La situazione certo presentava in alcuni punti difficoltà gravi e qualche pericolo di disordini locali; ma, a mio avviso e secondo le informazioni che ricevevo dalle autorità, tutte le voci che si facevano correre di pericoli rivoluzionari e di minaccie alla unità nazionale, erano senza fondamento. Quel movimento, in conclusione, era molto meno grave di altri venuti dopo; ma quello era il primo, e le classi ricche, non ancora abituate a questo genere di lotte, scambiavano le agitazioni economiche addirittura con la rivoluzione sociale;. Io sin d'allora ero convinto che fosse da aspettarsi che le masse dei lavoratori non si adattassero a tirare avanti con condizioni di salari insufficienti non solo a vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Una cieca repressione delle loro legittime agitazioni intese a migliorare la propria sorte, non avrebbe a mio avviso risolta, ma solo rinviata la questione, esacerbandola, e facendo nascere davvero il pericolo rivoluzionario. Perciò il mio indirizzo politico era di lasciare che queste lotte economiche si risolvessero di per sé col miglioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendo l'azione del governo al mantenimento dell'ordine e ad un'opera di persuasione per mettere d'accordo le parti. Ed avevo ragione di ritenere che, a parte i proprietari direttamente interessati, ed i conservatori reazionari, l'opinione pubblica fosse pure di questo avviso.

Anche nel Parlamento gli avvenimenti di Sicilia erano considerati sotto questo aspetto e non vi avevano destata molta impressione; ed anzi vi si ascoltavano con molta attenzione ed una certa benevolenza i discorsi con cui i deputati socialisti, Prampolini e Badaloni, esponevano la situazione.


Solo la Pubblica Sicurezza, abituata alle idee antiche ed agli antichi metodi, si mostrava preoccupata, e mi chiedeva di provvedere con un decreto di scioglimento dei Fasci, che mi fu proposto in effetto dall'allora Direttore della Pubblica Sicurezza, Comm. Ramognini, al quale io lo rifiutai, mandandolo poi prefetto, Il Ramognini, quando fu al governo Crispi, temendo di essere ritenuto egli pure responsabile per il non avvenuto scioglimento, si recò da Crispi a ricordare che egli l'aveva proposto, e che quindi su lui non pesava nessuna responsabilità. Ed infatti la responsabilità era tutta mia, ed intendevo che fosse mia, in quanto rappresentava, non una negligenza, ma una nuova veduta di governo.

Ricordo ancora che venne da me una rappresentanza di grossi proprietari agricoli delle Provincie di Palermo, Trapani e Caltanissetta a reclamare provvedimenti energici, e sopratutto lo scioglimento dei Fasci; — essi mostravano di riconoscere che le condizioni dei lavoratori dovevano essere migliorate, ma insistevano di non poterlo o volerlo fare finché i Fasci fossero in esistenza, per non parere di avere ceduto alle loro intimidazioni. Ma io dubitavo assai di queste buone intenzioni; ed infatti quando tornai al governo nel 1901 volli verificare quali concessioni fossero state date dopo lo scioglimento dei Fasci fatto dal Crispi; e dovetti constatare che in molti luoghi le condizioni dei salari, invece che migliorate, erano state anche peggiorate. Ricordo anche che dopo lo scioglimento, si raccolse a Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il coraggio di proporre, per tutta riforma, l'abolizione della istruzione elementare, perchè i contadini ed i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove,


Il punto di vista e la condotta del governo mutarono poi quando io, per altre ragioni, mi dimisi. Allora gli elementi conservatori, che avevano cominciato a stringersi intorno a Crispi come al loro uomo, levarono grandi reclami perchè non si era fatta una politica di repressione; e Crispi e il suo contorno, per stornare anche l'attenzione pubblica dalle questioni morali e politiche sollevate dallo scandalo della Banca Romana, avevano ogni interesse a ingrossare il pericolo, per acquistare la benemerenza di salvatori dell'ordine pubblico  e delle istituzioni.


Nell'attesa della presentazione della relazione del Comitato dei Sette sulle responsabilità politiche della Banca Romana, la situazione parlamentare si manteneva nervosa. La lotta contro il Ministero veniva sempre sopratutto dalla Destra, con Bonghi come suo oratore principale; ma anche con l'adesione, che rappresentava uno strano connubio, degli elementi di estrema Sinistra, quali il Cavallotti e l'Imbriani, che del resto in quei tempi erano sempre contro  qualunque  governo,  ed  infatti dopo  le  mie dimissioni si schierarono anche contro Crispi. A questa curiosa politica di ostilità contro qualunque governo, senza nessuna distinzione delle sue tendenze, partecipavano anche i socialisti, i quali non avevano capito allora la mia politica riguardo le classi lavoratrici, e si accanivano contro di me, come avrebbero fatto contro qualunque altro.

L'avvento del governo di Crispi, con la sua politica verso i Fasci siciliani, e in seguito e per parecchi anni quella dei varii governi Rudinì e Pelloux, a tendenze e con azione reazionaria di cui i socialisti dovevano specialmente soffrire, e come partito e come persone, li condusse poi a rendersi conto della differenza che ci può essere fra governo e governo, sopratutto dal punto di vista degli interessi delle classi lavoratrici.


La relazione del Comitato dei Sette fu presentata alla Camera il 23 novembre del '93. Dopo la sua presentazione, siccome la conclusione conteneva accuse a mio riguardo per la nomina di Tanlongo a senatore, ed apprezzamenti e interpretazioni di altri miei atti e parole, che non potevo accettare, io dichiarai che davo subito le dimissioni, non volendo, se occorreva, difendermi dal banco di Ministro, ma da quello di semplice deputato.


Sull'opera di quel Comitato e sulle conclusioni a cui giunse, bisogna dire la verità. E la verità è che il Comitato dei Sette non si mostrò né abile né volonteroso a condurre a fondo la missione che gli era stata affidata, di constatare cioè le responsabilità politiche connesse con gli scandali della Banca Romana, né franco ed imparziale nei giudizii che' credette di potere esprimere. Per la prima parte basti osservare che, mentre la Commissione da me nominata, in meno di due mesi aveva condotto a fondo una indagine ponderosa su l'intera situazione delle Banche di emissione, giungendo alla scoperta di fatti gravissimi; il Comitato dei Sette con più di sei mesi di lavoro non riuscì ad aggiungere neppure un fatto nuovo a quelli già constatati. Né basta: la poca voglia di andare a fondo fu provata anche da un episodio assai significante.

Achille Fazzari aveva ricevuto, il 16 maggio di quell'anno, dal figlio di Tanlongo carte di tale gravità da indurlo a portarle al deputato Mordini, presidente del Comitato, e ad incitarlo a riunire gli uomini politici principali di tutti i partiti, per evitare uno scandalo che oltre ad oscurare tanti anni di patriottismo di qualche alto uomo politico, sarebbe stato di danno grave al paese. Il Mordini si prese ventiquattro ore a riflettere; ma l'indomani, quando il Fazzari lo rivide, gli si mostrò molto preoccupato, e finì per dichiarare che non si sentiva di fare ciò che gli era stato consigliato. Il Fazzari, come ne fece poi egli stesso narrazione non mai smentita, quantunque non autorizzato, giunse al punto di dichiarargli che si sarebbe assunta la responsabilità   di   lasciare   presso   di   lui   quelle   carte; ma il Mordini non le volle, rispondendo che esse stavano bene nelle mani di un patriota quale egli era. Ed il Fazzari, vedendosele respinte, le restituì lo stesso giorno a chi glie le aveva date; e questo episodio fu ammesso come vero dallo stesso Mordini alla Camera dei Deputati, quando nel dicembre 1894 si discusse sulla presentazione da me fatta di documenti relativi alla Banca Romana.

Della esistenza di altri gruppi di documenti importanti, che il Tanlongo e gli altri imputati erano riusciti a sottrarre alle perquisizioni, si parlava ovunque e si accennava sui giornali; alcuni furono poi usati dalla difesa nel processo Tanlongo ; altri contenenti lettere di numerosissimi uomini politici, furono più tardi pubblicati, in un volume di 193 pagine dal figlio del Tanlongo, ma non risulta che il Comitato dei Sette abbia mai cercato di porre sovra essi le mani.

Per quanto riguarda i giudizi, io non intendo di disseppellire ciò che allora fu sepolto, e mi limito alle cose che mi riguardavano personalmente. Le accuse che mi furono fatte erano quattro: che io avessi conosciuto, a mezzo della inchiesta Alvisi-Biagini, le vere condizioni della Banca Romana quando ero stato Ministro del Tesoro nel Gabinetto Crispi, e le avessi dissimulate; che avessi contratto con la Banca Romana un prestito di sessantamila lire; che avessi preso dalla stessa Banca altre quarantamila lire per le elezioni, e che infine, per premio di questa prestazione avessi nominato il Tanlongo senatore.

Ora, per la prima accusa, ho già detto e dimostrato che la vigilanza delle Banche di emissione non spettava in quel tempo al Ministero del Tesoro, e che dei risultati della ispezione Alvisi-Biagini io non avevo altro saputo che ciò che il Ministro competente, il Miceli, ne aveva riferito al Consiglio dei Ministri, attenuando, anzi quasi smentendo, ingannato ed in buona fede, la relazione che quei due ne avevano fatta.


Per la seconda accusa, ecco come le cose erano andate. Quando nell'agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste pel centenario della scoperta dell'America, che avevano dato occasione ad un miglioramento delle relazioni fra l'Italia e la Francia, io credetti opportuno di fare una azione nella stampa estera, perchè questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i fondi messi a disposizione del governo per le spese segrete non possono spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm. Cantoni, Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi occorreva una anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa anticipazioni, così la somma doveva essere presa a prestito presso una Banca, ed il Cantoni si rivolse alla Banca Romana, rilasciando regolare ricevuta. Il prestito era stato chiesto non da me, ma dal Direttore generale del Tesoro, a cui io non avevo nullamente indicato a chi rivolgersi. La somma fu restituita entro sei mesi, coi suoi interessi, e della restituzione io ottenni regolare ricevuta, che potei esibire al Comitato dei Sette, che riconobbe del resto  la  regolarità della operazione. Se la  Banca Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe ancora, ed in floride condizioni.

La voce sparsa che io avessi poi avuto quarantamila lire dalla  Banca Romana  per le elezioni,  era una assoluta invenzione, senza la menoma base di una qualunque testimonianza o documento. La diceria fu sparsa prima da uno degli imputati che ne parlò a parecchie persone  ma poi  si  disdisse;  fu  ripetuta poi da un altro imputato. Si era cercato con molta abilità di creare degli indizii indiretti; il  Comitato dei Sette concluse con un giudizio di «non provato» arzigogolando   intorno   ad  una  lettera  mia  trovata presso  il   Tanlongo,  la  quale  invece   si  riferiva   a tutt'altra cosa. Dopo la morte dell'Ellena, mio collega alle Finanze, molti elettori avevano offerto  al fratello di lui, colonnello Ellena, la, candidatura. Egli mi aveva chiesto il mio parere sulla convenienza di accettare, ed io l'avevo consigliato di accertarsi prima se non sarebbe stato combattuto da coloro che nel collegio avevano maggiore influenza, fra i quali era il Tanlongo. Egli ebbe da questi assicurazioni e fu eletto a scrutinio di lista.  Un mese dopo, essendo stata sciolta la Camera egli si ripresentò al collegio uninominale di Frosinone; ed avendo notizia che egli fosse combattuto dagli agenti della Banca, io probabilmente avevo scritto in proposito  rammaricandomene col Tanlongo. Dico probabilmente perchè, come dichiarai al Comitato, non avevo della cosa sicura memoria. Ad ogni modo contro cotale presunzione che io avessi preso dalla Banca Romana quarantamila lire per le elezioni, stava un altro fatto ben preciso; e che cioè quando abbandonai il Ministero, oltre lasciare disponibili le rate mensili dei fondi non scaduti, ascendenti a 500 mila lire, lasciai in cassa altre 123 mila lire, delle quali avevo la libera disposizione. Se dunque mi fossero occorse per un pubblico servizio quarantamila lire nel novembre del 1892, le avrei prese a prestito come le prime sessantamila e poi le avrei restituite.


Infine, per quanto concerne la nomina di Tanlongo a Senatore, per la quale insistevano particolarmente le accuse e che fu deplorata dal Comitato dei Sette, era assai facile, dopo la rivelazione degli scandali della Banca, affermare che la nomina non doveva farsi; ma per dare un equo giudizio bisognava riferirsi al momento in cui era avvenuta. Al Consiglio dei Ministri era stato presentato un lunghissimo elenco di candidati alla dignità senatoriale; e la nomina di Tanlongo fu come tutte le altre approvata all'unanimità, in quanto egli, governatore della Banca Romana, presidente della Camera di Commercio e della Commissione provinciale delle imposte, e ricco di censo, era uno dei personaggi più importanti di Roma, e la stima che in Roma si aveva di lui era tale, che Guido Baccelli, conoscitore esatto delle cose e delle persone della città, non aveva esitato, anche dopo  le accuse mosse dal  Colajanni,  a dichiarare, nella seduta della Camera del 20 dicembre '92, che lo riteneva uomo operoso, benefico, e pieno di onore.

Che l'opera del Comitato dei Sette non fosse andata a fondo, e fosse monca e parziale, arrestandosi davanti a responsabilità di ben altra gravità, fu dimostrato dal fatto che l'opinione pubblica non se ne mostrò soddisfatta, e la campagna morale per gli scandali della Banca Romana e la complicità di uomini politici, continuò per lungo tempo ancora.

V

La storia del plico.

L'incarico a Zanardelli e il suo fallimento — Crispi inizia l'azione reazionaria e dittatoriale — Minacce contro me perchè ero passato all'opposizione — Le scandalose assoluzioni .nel processo della Banca Romana — Come nacque l'accusa di sottrazione di documenti e con quali scopi — Pressioni sulla Magistratura e irregolarità processuali — Perchè e come presentai il plico — La relazione della Commissione dei cinque e un voto sfavorevole al governo — La proroga della Camera ed un mandato di comparizione — Tentata violazione delle prerogative statutarie annullata dalla Cassazione — Le elezioni — Come fu sepolta la questione morale.


Come ho già detto, dopo la relazione del Gomitato dei Sette, presentata alla Camera nel novembre del '93, io detti le dimissioni, non volendo, ove occorresse, difendere il mio operato dal Banco dei Ministri, ma come semplice deputato; ritenendo che un'ampia discussione si sarebbe aperta sulle conclusioni del Comitato dei Sette, che alcune cose dicevano, ma più ne lasciavano intravedere. Ciò poi non avvenne, ed è stato uno dei fatti più strani di tutta quella faccenda, che un documento, che alla sua presentazione aveva sollevato tanta tempesta ed eccitate tante passioni, fosse  poi, dopo  la crisi, messo   a dormire.


Avvenuta la crisi, il Re chiamò anzitutto, per designazione degli uomini più autorevoli, lo Zanardelli, dandogli l'incarico, che egli accettò, di formare il nuovo Ministero. Devo ricordare che già alcuni mesi
avanti, prevedendo che gli scandali della Banca, con l'inquietudine che ne era derivata nel mondo politico e parlamentare, uniti al movimento dei fasci e alle difficoltà finanziarie, avrebbero prima o dopo condotto ad una crisi, io avevo pensato che, considerata la composizione della Camera, dove la Sinistra aveva una notevole maggioranza, lo Zanardelli fosse l'uomo meglio indicato per risolverla. E glie ne avevo già parlato perchè si preparasse, e siccome sapevo che fra lui e il Re c'era una certa freddezza, avevo procurato di ravvicinarli, pregando il Re di parlargli in una occasione che si era presentata all'estate, cioè la inaugurazione di un monumento sul campo di battaglia di San Martino. Lo Zanardelli, nel cui collegio aveva luogo la cerimonia, vi prese naturalmente parte, ed il Re lo aveva chiamato a sé ed erano rimasti insieme in una lunga conversazione appunto sulla terrazza del monumento.


Dopo avuto l'incarico lo Zanardelli, nelle sue conversazioni col Re per la composizione del nuovo Ministero, gli aveva proposti pel dicastero degli esteri tre nomi, e cioè il generale Dal Verme, il generale Morselli e il generale Baratieri; il Re gli aveva risposto, che pei due primi nulla c'era a ridire, ma che pel terzo c'era da pensarci. Ma Zanardelli si ostinò appunto sul nome di Baratieri, che il Re non potè accettare, avendo ricevute, dall'estero informazioni che l'avvento del Baratieri, irredento, alla Consulta avrebbe create delle difficoltà internazionali; Zanardelli allora finì per rinunciare all'incarico.

Allora il Re si rivolse a Crispi, che formò il Ministero, chiamando Blanc agli Esteri, Sonnino al Tesoro con l'interim delle Finanze, Mocenni alla Guerra, Morin alla Marina, Saracco ai Lavori Pubblici, Baccelli alla Istruzione e Boselli all'Agricoltura. Erano degli uomini del Centro e dei tecnici senza chiara distinzione di partito, ciò che dette modo a Crispi di assumere subito un atteggiamento reazionario e dittatoriale.
Egli infatti si presentò con parole magniloquenti, come se si trattasse di salvare l'unità nazionale, mettendo in primissima linea la questione dei Fasci siciliani, ed esagerandone le minaccie e i pericoli, per potere fare scomparire dietro di essa tutte le altre questioni e specie la questione morale, sollevata dalle conclusioni del Comitato dei Sette. Chiamò subito sotto le armi una classe; mandò cinquantamila uomini in Sicilia; vi stabilì lo stato d'assedio, sciogliendo i Fasci e insediandovi i Tribunali militari, che condannarono il De Felice, il Barbato, il Verro, il Bosco e gli altri capi dell'agitazione a pene mostruose.

Quando io, che nei primi momenti non avevo fatto alcun cenno di opposizione al Ministero, vidi tutto questo, mi avvicinai all'opposizione, intervenendo a riunioni nelle quali si trovavano fra gli altri Cavallotti per l'Estrema Sinistra e Carmine per la Destra. Ricordo in proposito un episodio interessante che spiega parecchio di quanto avvenne di poi; venne cioè da me il deputato Macola, che era un giornalista del contorno di Crispi, ad avvertirmi che se io non mi mettevo con l'opposizione avrei evitato dei guai. Gli risposi che non potevo assolutamente mutare la mia linea di condotta, che del resto era semplicemente di coerenza politica, senza nessun motivo di ostilità personale.


Intanto il processo contro Tanlongo, e contro gli altri imputati della Banca Romana, che era stato nei mesi precedenti trascinato traverso a lungaggini, fu varato e, con grave scandalo della opinione pubblica, finì con l'assoluzione completa di tutti gli imputati, verso i quali l'inchiesta da me promossa aveva pure provato fatti così gravi e dannosi. Fatto caratteristico, nò io né il mio sottosegretario di Stato, Rosano, quantunque in quel processo fossero mosse le prime accuse contro di me per la presunta sottrazione di documenti, fummo chiamati, né a dare schiarimenti, né a presentare i documenti che pure erano già stati pubblicati.

Né la colpevole indulgenza si arresta qui, perchè del modo con cui sia andata a finire la liquidazione della Banca, nulla di preciso si è mai saputo, il rendiconto di quella liquidazione, che era stata affidata alla Banca d'Italia, non essendo mai stato pubblicato. Si seppe soltanto che alcuni dei maggiori debitori avevano potuto liquidare la loro posizione con cifre addirittura irrisorie. E peggio ancora, mentre i responsabili e colpevoli venivano assolti, dal loro processo si traevano le fila per la persecuzione e incriminazione degli innocenti, anzi di coloro per la cui opera la scandalosa situazione della Banca era stata scoperta e constatata.

Durante il processo infatti, gli avvocati di Tanlongo e degli altri imputati, prendendo le mosse da affermazioni senza prove fatte dal Tanlongo stesso, avevano architettata la difesa sulla presunzione che il Tanlongo, per lunghi anni, avesse dovuto spendere cospicue somme, specie per incarico del Ministro Magliani, per la difesa della nostra Rendita sui mercati finanziari; e siccome non potevano addurre nessuna prova di questo loro asserto, affermavano che i documenti comprovanti esistevano, ma non si erano più trovati, e che per ciò si doveva supporre che fossero stati sottratti durante le perquisizioni fatte dalla Pubblica Sicurezza. Partendo da queste premesse fu iniziato un procedimento contro quattro funzionarli di pubblica sicurezza che avevano presieduto a quelle perquisizioni; uno dei quali era il Questore di Roma, comm. Felzani, e gli altri gli Ispettori Ro, Rinaldi e Pezzi.

Qualche tempo dopo, a cose passate, Tommaso Villa, che era stato uno dei difensori, non del Tanlongo ma del cassiere Lazzaroni, mi confessò apertamente che tutta questa storia delle spese fatte fare dal Magliani, e che dovevano ascendere nientemeno che a diciotto milioni, era stata appunto architettata come spediente di difesa.

E c'era un'altra prova che quei pretesi documenti sottratti erano imaginari, fornita involontariamente dall'accusato principale, il Tanlongo, il quale nel luglio del 1893, scrivendomi dal carcere per scolparsi di avere personalmente fruito dei danari della Ranca, e dichiarando di averli spesi dietro inviti di ministri,
soggiungeva: — Le cose esposte risultano da docu1menti, a cominciare dall'incarico ricevuto dal Ministro nel 1881, giusta lettera che potrà essere resa ostensiva alla E. V. e giusta una infinita quantità di inviti direttimi da tutti i ministri. —

Ora, quando si fu al processo, il documento per la spesa di diciotto milioni con la pretesa sigla del Magliani non fu presentato, adducendosi, in contraddizione con quanto dichiarava la lettera del Tanlongo, che fosse stato sottratto. Se io fossi stato chiamato testimone al processo, avrei dunque potuto presentare la prova autentica che nel luglio del 1893, dopo le perquisizioni, non era stata ancora imaginata quella tabella firmata dal Magliani, e così sarebbe caduta una delle affermazioni che più servirono a facilitare l'assoluzione dei colpevoli e ad imbastire il processo per la pretesa sottrazione dei documenti. Si noti del resto che il supporre che un uomo della levatura del Magliani potesse con una semplice sigla autenticare un credito verso il Tesoro di diciotto milioni è cosa strana; ma anche più strano era supporre che io, che avevo combattuto a fondo il Magliani quando era in vita per la sua politica finanziaria, mi fossi poi indotto a fare commettere un reato, come quello della sottrazione di documenti, per difendere la sua memoria.


L'inscenatura del processo contro questi funzionari, per una presunta sottrazione di documenti che non esisteva, mentre che vere sottrazioni avessero avuto  luogo  avanti il loro  arresto per parte degli
imputati stessi era dimostrato dal modo della difesa e da varie pubblicazioni, in realtà mirava a me. Questi funzionari erano intanto stati sospesi e dall'impiego e dal loro stipendio, e nei procedimenti d'istruttoria si insisteva perchè confessassero, cioè dichiarassero il falso, osservando loro che se la sottrazione era stata da essi consumata per esecuzione di un ordine mio, la loro responsabilità cadeva ed essi sarebbero stati liberati da ogni prò cedimento. Per compiere una tale enormità e fuorviare la magistratura dalla retta via, si era fatta tutta una preparazione, di cui più tardi il Ministro Guardasigilli, Calenda dei Tavani, si lasciò sfuggire la confessione in piena Camera, rispondendo ad una interrogazione con la frase, rimasta celebre, che egli «aveva dovuto preparare l'ambiente». E come questa preparazione fosse stata condotta, era evidente.

Infatti sotto il Ministero da me presieduto, quando si aperse l'istruzione del processo della Banca Romana, non un solo magistrato era stato mutato; e procuratore generale, procuratore del Re, giudice istruttore capo, e giudici istruttori e sostituti procuratori incaricati del processo, rimasero quali io li avevo trovati assumendo il governo, ed erano tutti funzionari chiamati dai precedenti Ministeri; e lo stesso si dica di tutti i funzionari di Pubblica Sicurezza, dal questore agli agenti, incaricati degli arresti e delle perquisizioni. Per inscenare invece contro di me il processo della pretesa sottrazione di documenti si era ricorso ad ogni mezza di costrizione ed intimidazione. Il Procuratore generale, il Comm. Venturini, patriota egregio e magistrato da tutti stimato, fu traslocato da Roma, ed al suo posto chiamato un altro magistrato che io non conoscevo, ma che era il solo fra tutti i procuratori generali d'Italia che avesse ragioni di rancore contro di me, perchè ai tempi del mio Ministero, essendo stato traslocato dal suo posto ad un altro dove non aveva voluto andare, era stato messo in aspettativa.

Insieme al procuratore del Re erano stati mutati i giudici istruttori; ed era ad un tempo stata ordinata una inchiesta sulla magistratura affidandola a tre persone; e l'anima di questa inchiesta, il relatore, non era un magistrato, ma l'avvocato generale erariale, cioè un funzionario che dipendeva dal governo senza alcuna garanzia d'inamovibilità. Il tentativo di pressione sulla magistratura, inerente a questa inchiesta, era troppo scandaloso e andò fallito, la Commissione consulente per il personale della magistratura, composta di magistrati inamovibili, ed il Tribunale di Roma avendone ad unanimità respinte le conclusioni, dichiarando di non volere applicare nessuna pena ai magistrati censurati, perchè non la meritavano avendo sempre adempiuto al loro dovere. Il tentativo fallì, ma il fatto di quella inchiesta provò che il governo era disposto a ricorrere a mezzi illegali per agire sulla magistratura.


Gli effetti di questi mezzi, e di questa cosidetta «preparazione dell'ambiente» erano intanto evidenti a tutti. Mentre il Codice penale vieta rigidamente di fare conoscere i risultati d'istruttoria;  pare che in quel caso essa fosse condotta davanti agli occhi di tutti, ed ogni sera i giornali riferivano ciò che avveniva nel Gabinetto del giudice istruttore, e gli, somministravano incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me più ostile. I funzionari accusati avevano chiesto per mezzo dei propri difensori che al loro processo fossero aggiunti i documenti del processo precedente, perchè la constatazione della mancanza di qualche documento potesse così farsi; ma tale domanda fu respinta dal giudice inquirente non. ostante la sua evidente giustizia. Era questa una cosa enorme, ma era anche una evidente conseguenza della consegna secondo la quale nessun occhio profano doveva penetrare nel sacrario dei documenti della Banca Romana.

Gli accusati presentarono pure dichiarazioni giurate di testimoni che riuscivano, stabilendo degli alibi, a smentire le false accuse della loro attività per sottrarre documenti durante le perquisizioni; ma erano passati più di dieci mesi senza che alcuno di questi testimoni fosse stato chiamato dal giudice istruttore. Si ricorse insomma a tutti i mezzi contro quegli egregi funzionari, esercitando sul loro animo ogni pressione, tenendoli sospesi riguardo alla loro sorte; allo scopo di ottenere da loro l'accusa desiderata contro di me; ma essi resistettero, perseverando a dichiarare che nulla avevano commesso, e si difesero energicamente negando nel modo più reciso ed assoluto di avere avuto mai da me ordine di sottrarre documenti, o di averne mai portati  al  Ministero  dell' Interno.

Mentre così si stava istruendo dal giudice istrutitore e dai giornali il processo per la sottrazione dei documenti, io dovetti venire a Roma per accompagnarvi mio figlio. Venne a casa mia l'ex-questore Felzani, il quale mi disse che il principale argomento che si adoperava nell'accusa contro di lui e contro gli altri funzionari di Pubblica Sicurezza, era l'affermazione che delle carte di carattere politico dovevano essere giunte al Ministero, e che non potevano provenire che da sottrazioni operate da ufficiali di Pubblica Sicurezza. Gli risposi: — Potete invocare la mia testimonianza; carte al Ministero ne sono giunte, ma non sono assolutamente state portate, e voi Io sapete meglio di me, né da voi, né da alcuno di quei funzionari. — Allora egli mi chiese se avrei avuto difficoltà di rilasciargliene dichiarazione per iscritto.
Per abitudine costante ciò che io dico non ho difficoltà di scriverlo, ed inoltre era chiaro il mio dovere di addurre la mia testimonianza contro false accuse che colpivano degli innocenti. E così, gli rilasciai, con la data del 25 ottobre '94, la lettera seguente:


«Ella mi informa che nel processo per la pretesa sottrazione di documenti alla Banca Romana, si adduce come argomento di accusa la circostanza che documenti relativi alla Banca Romana sarebbero giunti al Ministero dell' Interno. La autorizzo a dire essere perfettamente vero che al Ministero dell' Interno giunsero documenti, che potevano gettare luce non bella sopra qualche uomo politico, ma quei documenti provenivano da tutt'altra parte che dai funzionari di Pubblica Sicurezza; furono portati al Ministero molto tempo dopo che le perquisizioni erano finite, ed erano carte le quali non potevano in alcun modo influire sul processo  della Banca  Romana.»


Quella lettera la diedi perchè il Felzani la portasse al giudice, come argomento di difesa, per sé e per i suoi compagni. Portata al giudice durante il periodo dell'istruttoria segreta, essa avrebbe dovuto rimanere segreta e servire solamente al giudice, per l'accertamento dei fatti, ciò che egli avrebbe potuto fare anche interrogando me, il mio Sottosegretario di Stato e tutti quelli che potessero informare d'onde quei documenti erano venuti. Invece, non so per opera di chi, ma con la necessaria complicità del giudice, quella lettera due o tre giorni dopo fu pubblicata dai giornali, che ne trassero occasione di una campagna furiosa contro di me, come se io avessi lanciato delle accuse contro tutto il mondo politico italiano, e mi sfidavano a pubblicare ciò che io avevo. Finché si trattò di insinuazioni di giornali, resistetti e nulla pubblicai. Ma pochi giorni dopo fu aperta la Camera, e Colajanni presentò una interpellanza sulla questione.

Compresi allora che non potevo tacere più oltre, perchè la lettera essendo, regolarmente o no, diventata pubblica, vi era ormai di mezzo la dignità parlamentare. Ma volendo, in materia così delicata procedere con ogni cautela, io credetti mio dovere di non giudicare col criterio mio, e pregai quindi molti fra gli uomini politici più autorevoli della Camera, di darmi il loro parere; scegliendo a quest'uopo i deputati Cavallotti, Carmine, Coppino, Colombo, Damiani, Di Rudinì, Fortis, Marcora, Zanardelli e Roux, uomini che, oltre la loro autorità personale, rappresentavano tutte le parti della Camera. Il loro verdetto fu unanime, e cioè che nulla doveva restare non pubblicato. Offersi di consegnare loro i documenti perchè ne prendessero visione, ma essi mi dichiararono di non sentirsi autorizzati a questo. Interrogati poi da me personalmente questi uomini e parecchi altri della Camera, perchè mi dicessero quale fosse la forma che credevano più conveniente per eseguire quel verdetto, tutti, nessuno eccettuato, mi consigliarono di consegnare al Presidente della Camera i documenti. E nella stessa seduta in cui il Colajanni doveva svolgere la sua interpellanza, che egli ritirò in seguito alla mia decisione, io feci una breve dichiarazione, concludendo col portare i documenti al Presidente. Questi rifiutava di riceverli, ed allora io glieli lasciai sul tavolo. Egli dichiarò, fra i rumori, che non li accettava, e che sarebbero stati deposti nella cassaforte dellia Camera.
Seguì una discussione accanita.

Da una parte Imbriani, Cavallotti e Colajanni insistevano perchè il plico fosse aperto seduta stante, e presentarono ordini del giorno in tale senso. Dall'altra parte Crispi sostenne che i documenti dovevano essere respinti a me, e che sopra di me doveva restare la responsabilità della pubblicazione, che altrimenti sarebbe ricaduta sulla Camera. A tale tesi portarono concorso gli amici particolari di Crispi, come il De Nicolò e il Casale; e particolarmente accanito ad opporsi a riceverli fu il Bonghi, non perchè egli fosse compromesso, che anzi non c'entrava per nulla; ma per la forte ostilità politica che una parte della Destra aveva preso contro di me, sentimento a cui non partecipavano il Di Rudinì, il Luzzatti e gli altri elementi più temperati di quella parte.

Alla fine il Coppino presentò una proposta intermedia fra la lettura immediata e la restituzione a me dei documenti, e cioè che fosse eletto un comitato di cinque persone che prendessero visione dei documenti e poi ne riferissero alla Camera. A tale proposta si associarono anche il Cavallotti che ritirò la proposta sua di lettura immediata, ed il Rudinì. Si venne alla votazione; l'ordine del giorno per la restituzione, presentato dal Bonghi ed a cui si era associato il Torraca, ebbe ventisei voti favorevoli contro duecentotrentanove contrari e ventisette astenuti. Il secondo ordine del giorno presentato dal De Nicolò, perchè i documenti fossero rinviati al magistrato incaricato della istruzione del processo per la sottrazione dei documenti, ebbe la stessa sorte, e la proposta della nomina di una Commissione di cinque membri per l'esame fu approvata per alzata e seduta.

Si tentò ancora di differire al giorno dopo la nomina della Commissione; ma Cavallotti ed altri si opposero, ed infine i Commissari furono votati e risultarono scelti il Carmine, il Cavallotti, il Chinaglia, il Cibrario, ed il Damiani.


I documenti da me consegnati erano accompagnati da una lettera, in cui dichiaravo brevemente le ragioni per le quali, in seguito alla pubblicazione della lettera da me rilasciata al Felzani, per dovere di coscienza e nell'interesse della verità, nella persuasione che avrebbe servito solo per l'istruttoria segreta del processo in corso, — pubblicazione fatta senza la mia partecipazione ed anzi a mia insaputa — avevo creduto necessario consegnare alla Camera, nell'intento di far cessare sospetti e scandali, le carte in mio possesso.
Tali documenti, e di ciò dette poi notizia la Commissione dei cinque, erano contenuti in sei buste sulle quali io avevo indicato sommariamente per ognuna il contenuto. La prima busta conteneva copie di una ventina di documenti esistenti nel processo della Banca Romana e sequestrati a Lazzaroni; copie che come Ministro degli Interni e Presidente del Consiglio io mi ero fatto dare, avendone diritto ed anzi dovere, per rendermi pienamente conto della gravissima situazione minacciante il credito nazionale, che derivava dalle rivelazioni delle condizioni della Banca e degli abusi consumati. Conteneva pure dieci elenchi di documenti del processo della Banca, che comprendevano ventisette pagine di scrittura.

La seconda busta, conteneva quattro lettere, che Bernardo Tanlongo mi aveva dirette personalmente
in busta chiusa, valendosi della facoltà concessa ai detenuti dai regolamenti carcerari. Due di esse si riferivano a calcoli sulle perdite della Banca Romana per il cambio e le riscontrate. Per le altre due, io avvertivo con una nota la Commissione del modo con cui mi erano pervenute. Ed era questo: il Tanlongo mi aveva fatto chiedere se desideravo informazioni circa i rapporti di uomini politici con la sua Banca, e siccome anche tali informazioni avevano importanza per la conoscenza della situazione, io gli avevo fatto rispondere che le avrei accettate. Egli me le trasmise, a mezzo di due lettere, in piego chiuso, ed io richiamavo l'attenzione della Commissione che a quelle lettere si poteva dare fede in quanto trovassero conferma in altri atti, parendomi esse dettate in gran parte dal suo proposito di far temere scandali se il processo avesse luogo. E ricordavo al riguardo che infatti le accuse mosse in tali lettere ai miei colleghi Grimaldi e Lacava, furono poi smentite dal Tanlongo stesso nel suo interrogatorio davanti al Comitato dei Sette e nello stesso dibattito pubblico del processo, nel quale egli le dichiarò false e da lui stesso inventate per condotta di causa. Quelle due lettere, ad ogni modo, costituivano un elaborato rapporto sulle cause della crisi della Banca, sulle responsabilità di uomini politici e giornalisti in detta crisi, in relazione alle varie leggi sulle Banche d'emissione, e su altre molteplici responsabilità di vario genere.


La  terza  busta  conteneva  una   lettera  direttami,
 in data 13 maggio '93 dal Direttore generale della Banca Nazionale, Comm. Grillo e copia di un telegramma di Stato, riservato e direttomi da una autorità governativa di Milano quando ero Presidente del Consiglio.

La busta quarta conteneva appunti consegnatimi durante l'ispezione delle Banche; e cioè per la Banca Romana una nota delle cambiali giacenti in sofferenza nella Banca stessa, dal 1889 in poi, consegnatami il 25 febbraio '93 dal Comm. Martuscelli; poi tre fogli, che furono così qualificati dalla Commissione: 1.° Cessione Chiara Pietro accettante a favore di Antonio Crispi; 2.° Accettazione Pietro e Nicolò Chiara; 3.° Intestazione a debito di Chiara Pietro e Nicolò, senza firma.

La busta quinta conteneva, in quarantatre fogli, copie di lettere e documenti relativi a trattative, intervenute dall'agosto all'ottobre '92 ad insaputa del Governo, per la fusione della Banca Romana con la Banca Nazionale; ciò che provava che la Banca Nazionale non conosceva le condizioni della Banca Romana.

Infine la sesta lettera conteneva otto lettere di Crispi, e centodue lettere di donna Lina Crispi, dirette a persone di servizio di casa Crispi. Queste ultime lettere erano state da me suggellate a parte, con sopra scrittovi che esse erano di carattere privato, e che io avevo creduto di doverle sottrarre alla circolazione; che le depositavo per mio completo discarico, ma non credevo dovessersi pubblicare; criterio a cui la Commissione aderì senza discussione.

La Commissione, riferendo nella sua relazione questo esame sommario dei documenti, avvertiva poi di essersi posti vari quesiti; e cioè se nelle risoluzioni che si avessero a proporre alla Camera per eventuali pubblicazioni si dovessero escludere i nomi di persone appartenenti al Senato ed i nomi di uomini politici defunti; se essa dovesse esprimere un avviso qualsiasi sul merito dei documenti contenuti nel piego e dichiarati suscettibili d'esame, e se si dovesse procedere ad interrogatori; e che aveva concluso per: tutti questi quesiti negativamente, ritenendo essere il proprio mandato limitato alla cernita dei documenti, e di non avere essa perciò veste di Commissione di inchiesta parlamentare, quale l'aveva avuta il Comitato dei Sette. Essa concludeva semplicemente con la proposta della pubblicazione di quei documenti di cui aveva fatta la cernita, e con le esclusioni contemplate nei quesiti sopraccennati. E la proposta, con quelle limitazioni, fu dalla Camera approvata.

La relazione e i documenti scelti furono infatti pubblicati e distribuiti due giorni dopo, il 15 dicembre. L'Imbriani ed il Cavallotti proposero che sulla relazione fosse aperta immediatamente la discussione; il Presidente Biancheri si oppose dichiarando che la discussione non era all'ordine del giorno, e ricordando che il regolamento prescrive che non si possa discutere una proposta che non è all'ordine del giorno, se la discussione non è decisa a scrutinio segreto con la maggioranza dei tre quarti dei votanti. Cavallotti insistè, appoggiato anche dal Di Rudinì, per la discussione immediata; Bonghi si oppose accanitamente; Crispi insorse violentemente contro la relazione. Si venne alla votazione; i tre quarti necessari per il passaggio alla discussione non furono ottenuti, ma la maggioranza risultò per nove voti favorevole alla discussione immediata; il che significava che il Ministero sarebbe stato battuto. Allora Crispi decise di prorogare la sessione.


Ricordo che alle tre pomeridiane di quel giorno stesso, venne a casa mia un giornalista, corrispondente di giornali americani, ad avvertirmi di sapere che era stata decisa la chiusura della Camera per potere, fra l'altro, farmi arrestare, quando non fossi, per la proroga della sessione, più protetto dalla incolumità parlamentare. Io avevo già promesso a una delle mie figlie, che allora viveva a Berlino, di recarmi a passare le feste con lei; e siccome con la chiusura della Camera non avevo più alcuna ragione di trattenermi a Roma, partii la sera stessa per Berlino. Per strada, e durante tutto il viaggio in Italia, mi accorsi di essere pedinato e sorvegliato da vari agenti di Pubblica Sicurezza, che si scambiavano; ricordo che all'ultima tappa, da Bologna al confine, uno mi si presentò spacciandosi per amico di un mio collega politico, pure grande mio amico; ed a quell'agente chiesi a Verona quale fosse il migliore albergo di Trento, dove infatti andai, e fui da  lui seguito. 

A  Berlino  fui  ospitato da  mia figlia, che con suo marito viveva nel sobborgo di Charlottenburg, mio genero essendovi occupato per studi in una grande fabbrica di materiale elettrico, la Siemens. Rimasi a Berlino circa un mese, tenendomi assolutamente in disparte, tanto che essendosi rivolti a me dei giornalisti francesi, per avere interviste presumibilmente contro Crispi, io mi rifiutai di riceverli. Mi occupai solo ad osservare il paese, e ne ebbi l'impressione di un paese molto operoso, tranquillo e disciplinato.


Alla fine di gennaio ricevetti un mandato di comparizione da parte della sezione di accusa di Roma. Infatti, nella mia assenza era stato iniziato procedimento contro di me per ogni sorta di imputazioni, dipendenti dalla presentazione del plico. Il procedimento era parte di azione pubblica, parte a querele di privati. Ritornai immediatamente in Italia, e venuto a Roma, mi presentai alla sezione d'accusa alla quale era stato avocato il processo. Senza entrare in alcuna questione di merito io eccepii l'incompetenza dell'autorità giudiziaria; sia perchè si trattava di accuse fatte a me per presunti reati commessi durante l'esercizio delle mie funzioni di Ministro; sia sopratutto perchè la presentazione del plico era avvenuta alla Camera, e non poteva fare quindi oggetto di procedimento senza il consenso della Camera stessa.

Ricordo che i componenti la sezione d'accusa mi dichiararono che codesta questione di competenza l'avevano già esaminata e risolta, e non potevano cambiaiparere; io risposi di essere sicuro che le ragioni da me addotte avrebbero finito di persuaderli della incompetenza dell'autorità giudiziaria. Uno dei giudici, per combinare un tranello, forse col calcolo di fare decorrere i termini, mi disse: — Ella vuol dire che si riserva di ricorrere in Cassazione? — ma io replicai ancora che ero convinto che si sarebbero persuasi, e che probabilmente non avrei avuta occasione di ricorrere in Cassazione.


Le ragioni che io presentai, in una breve memoria al giudice istruttore, sorpassavano la mia questione personale, e toccavano le più alte prerogative costituzionali, la minaccia contro le quali costituiva indubbiamente la cosa più grave di quel periodo di violenza e di arbitrio contro la legge. Io osservavo dunque che quantunque il mio desiderio, quale privato cittadino, potesse essere di provocare il più rapido giudizio, per dissipare colla evidenza dei fatti l'ombra degli addebiti che solo la violenza delle passioni politiche aveva potuto provocare, il mio dovere quale membro del Parlamento ed ex-ministro del Re in regime parlamentare mi imponeva di non venir meno all'obbligo di non lasciare pregiudicare, con una acquiescenza passiva, quelle prerogative parlamentari che esistono in virtù del Patto fondamentale del Regno, e che sono garanzie indispensabili di indipendenza della rappresentanza del paese di fronte all'autorità politica.

Riguardo all'accusa di sottrazione di documenti osservavo che lo Statuto prescrivendo che la Camera dei Deputati ha il diritto di accusare i Ministri del Re e di tradurli davanti al Senato costituito in Alta Corte di giustizia, tale diritto si riferisce per consenso unanime degli scrittori di diritto pubblico, e per l'esempio di tutte le costituzioni europee, agli atti ed ai fatti compiuti da una persona, nelle sue qualità di Ministro, tanto se esso è in carica quanto se ha cessato di esserlo; e che tale disposizione statutaria, anche dai trattatisti più contrari  a qualunque forma di  privilegio  in  tutto ciò che tocca la pubblica giustizia, era riconosciuta con concorde giudizio indispensabile, come non informata   a   privilegio,   ma   a   necessità   intrinseche delle stesse istituzioni.

Per l'altro gruppo di addebiti, riferentisi   alla   presentazione  del   plico,   io   richiamavo l'articolo 30 della legge sulla stampa, che era una derivazione dell'articolo 51 dello Statuto, il quale dispone che non potranno dare luogo ad azione giudiziaria le  pubblicazioni dei  discorsi  tenuti  nel Senato o nella Camera dei Deputati, le relazioni o qualunque altro scritto stampato per ordine delle due Camere.  È  infatti evidente  che tali manifestazioni, quali emanazioni del Potere legislativo, sono necessariamente sottratte alla cognizione ed alla censura di un altro Potere, quale è il giudiziario, altrimenti sarebbe resa impossibile qualunque libera funzione parlamentare.


Nel caso mio particolare poi, le carte che avevano dato luogo ad azione pubblica ed a querele private, erano state presentate alla Camera da parte mia, nell'esercizio della mia qualità di deputato e sotto la garanzia dell'articolo 51 dello Statuto, perchè richiesto di dare conto alla Camera di fatti compiuti in qualità di Ministro. Io avevo consegnati i documenti in plico chiuso alla Presidenza, ed era stata la Camera stessa, che respingendo la proposta che mi fossero restituiti, e l'altra proposta di trasmetterli all'autorità giudiziaria, aveva deliberato che il plico venisse aperto, e che le carte in esso contenute fossero esaminate da uno speciale Comitato parlamentare e parzialmente pubblicate. Si trattava dunque di atti, non miei personali, ma di essenziale giurisdizione della Camera, e che non potevano in alcun modo cadere sotto il controllo e la censura dell'autorità giudiziaria. La incompetenza della quale veniva anche riconfermata indirettamente dal fatto che essa non aveva potuto ottenere dalla Camera gli scritti sui quali le accuse e tutta l'azione giudiziaria doveva essere fondata.

Era dunque evidente, anzi incontrovertibile, che, avendo la Camera riservato a se stessa con formale deliberazione l'esame e la decisione dell'intera materia, e delle questioni e responsabilità tutte ad essa inerenti; qualunque giudizio l'autorità giudiziaria pronunciasse su quei documenti, sulla loro autenticità ed efficacia, sulla fede che potevano meritare, sulla legittimità della loro provenienza e dell'uso che ne era stato fatto, avrebbe pregiudicato il giudizio che la Camera si era riservato, come sola competente, di pronunciare sui Ministri in carica e su quelli cessati, e sarebbe riuscito ad una invasione del potere giudiziario sul potere legislativo, e ad un controllo costituzionalmente inammissibile di fatti politici svoltisi nella Camera dei Deputati.

Infine poi, dal punto di vista pratico, il processo per la presentazione di documenti alla Camera, avrebbe dovuto svolgersi intorno a documenti che la Camera aveva già deliberato di non pubblicare integralmente, anzi di tenere segreti; cosicché l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto ragionare su documenti che non aveva Visti; la difesa avrebbe dovuto procedere senza sapere di che veramente si trattasse, ed i giudici giudicare senza avere sott'occhio i documenti che si pretendeva contenere diffamazioni.


Ma la sezione d'accusa, non esitando a colpire ciecamente le più gelose prerogative legislative, ed altre prerogative statutarie senza le quali nessun governo responsabile sarebbe possibile, respinse le mie eccezioni di incompetenza. Allora io ricorsi alla Corte di Cassazione, presieduta allora dal Senatore Canonico, e detti l'incarico della mia difesa all'avvocato Cavaglià di Torino, agli on. Sacchi e Galimberti, ed all'avv. Leonida Busi di Bologna. La Corte di Cassazione annullò senza rinvio tutte indistintamente le decisioni pronunciate dalla sezione di accusa, dichiarando l'incompetenza dell' autorità giudiziaria, per giudicare, sia dell'opera di un Ministro, sia di atti compiuti nelle aule parlamentari. Ricordo che l'avvocato Busi, a cui io chiedevo quale fosse il mio dovere verso di lui per l'opera prestata, mi dichiarava: — Sono compensato abbastanza con l'avere constatato che vi è ancora giustizia in Italia. — E due anni dopo il Senatore Canonico mi diceva che durante quelle deliberazioni, Crispi si era recato personalmente a visitarlo a casa sua, per sollecitare le decisioni della Cassazione.


Intanto si era continuato a mantenere la Camera prorogata; e la proroga durò, cosa senza precedenti, per oltre quattro mesi. Il disegno di Crispi e della gente che l'attorniava, era di riuscire a ottenere una condanna contro di me avanti di indire le elezioni generali, per avere il campo libero e per presentarsi agli elettori col prestigio di un tale successo, che nel loro pensiero doveva seppellire la questione morale, rimasta sempre viva, pure fra tanti contrasti e non ostante i diversivi della politica contro i socialisti e dell'inizio della impresa d'Abissinia, nella pubblica coscienza. Ma dopo il giudizio della Cassazione, che sventava questo disegno, si dovette venire alle elezioni; la Camera fu sciolta l' 8 maggio e le elezioni indette per il 26 maggio e 2 giugno del '95.


In queste elezioni il governo tentò in tutti i modi di suscitarmi contro dei concorrenti; ma tre del paese, interpellati perchè accettassero la candidatura, risposero, che non solo non si presenterebbero contro di me, ma mi avrebbero dato il loro voto. A Cuneo in quei giorni era stato mandato un nuovo prefetto perchè si occupasse in special modo delle elezioni; e dopo una quindicina di giorni che aveva preso possesso, si recò a Dronero, il capoluogo del mio  collegio.  Arrivando  trovò  alla  stazione il  Sindaco, l'intero Consiglio comunale e parecchi dei più ragguardevoli cittadini. Il Sindaco, a nome di tutti gli intervenuti, si rivolse al prefetto e gli tenne presso a poco questo discorso: — Se Ella viene come prefetto per visitare i nostri istituti, noi che siamo deferentissimi all' autorità, l'accompagneremo da per tutto; ma se Ella parla di elezioni noi la lasciamo sola, ed Ella non troverà in tutta Dronero né uno che le parli né uno che la saluti. — Il prefetto protestò che non intendeva immischiarsi nelle elezioni, ed allora fu festeggiato e condotto a visitare asili ed ospedali.

Il risultato della votazione fu che all'unanimità mi mancarono solo tre voti: due dati a Crispi ed uno a Barbato. Dei due voti a Crispi, si seppe poi che erano stati dati da due ricchi del collegio, padre e figlio, che si erano allarmati della idea dell'imposta progressiva, da me proposta. L'indignazione per la lotta violenta e senza scrupoli condotta dal governo contro di me, era così forte in tutto il collegio, che votarono per me anche coloro, pochi invero di numero, che nelle elezioni precedenti avevano votato per un socialista. Il governo tentò pure di agire presso dei miei amici: al Cefaly, Crispi aveva fatto dire che non l'avrebbe combattuto nel suo collegio a condizione s'impegnasse a non ritornare sulla questione morale; al che Cefaly aveva risposto : — Ma la questione morale è appunto l'unica ragione per cui mi ripresento! —


Il Ministero ebbe però complessivamente la maggioranza,  specie  nell'Italia  centrale  e  meridionale,
dove l'opinione pubblica era particolarmente infatuata dell'impresa africana e dei vantaggi nazionali che se ne riprometteva. L'opinione e il sentimento erano assai diversi nell'Italia settentrionale, dove la corrente, sia contro la guerra, sia per la questione morale era fortissima nelle classi popolari e nei partiti democratici. Fra gli stessi conservatori le opinioni erano divise; se vi erano alcuni che menavano tutto buono a Crispi per la sua politica interna a loro grata; altri, ed erano la maggioranza, erano assai perplessi riguardo l'impresa africana, per le sue ripercussioni sulle già difficili condizioni economiche e finanziarie dello Stato e del paese, né erano proclivi ad eccessive indulgenze per la questione morale, anche per non sfigurare di fronte ai loro avversari, i democratici, i quali, a Milano particolarmente, l'avevano posta come la questione allora capitale della vita politica italiana.


La Camera fu aperta dopo le elezioni, il 10 giugno, per pochi giorni, ed il Governo ebbe la maggioranza. Alla riapertura in novembre, furono ripresentati gli atti che riguardavano i processi iniziati contro di me. La Commissione incaricata di esaminarli, composta in grande maggioranza di amici di Crispi, si rifiutò di sentirmi, proponendo l'autorizzazione a procedere; il relatore fu il Cambrai-Digny. Quando la proposta della Commissione venne in discussione io pronunciai un discorso, che fu dalla Camera ascoltato con grande attenzione ed equanimità, nel quale feci una completa esposizione dei fatti e delle cose, e sostenendo che dato il carattere assolutamente politico degli addebiti e delle accuse che mi si facevano, solo nei miei colleghi io potevo avere i miei giudici. E chiedevo che la Camera entrasse finalmente nell'esame di merito perchè, visto che l'autorità giudiziaria, a mezzo del suo organo massimo, la Corte di Cassazione, aveva già dichiarata la propria incompetenza, solamente il Parlamento, e cioè la Camera come accusatrice, e il Senato costituito in Alta Corte come giudice, potevano pronunciarsi.

La decisione della Commissione di raccomandare l'autorizzazione a procedere, ciò che equivaleva a rimandare la questione davanti alla giustizia ordinaria che si era già dichiarata incompetente, portava all'assurdo.


Siccome nel mio discorso io avevo richiamata l'attenzione al fatto delle interferenze del Ministro della Giustizia d'allora Calenda dei Tavani, nei procedimenti promossi contro di me, fra l'altro cambiando tutti i giudici, il Ministro chiese la parola, e cominciò a parlare dicendo: — Naturalmente io avevo dovuto preparare l'ambiente. — La frase, che confermava involontariamente le mie accuse, sollevò un putiferio; il Calenda dei Tavani fu investito violentemente, specie dall'Estrema Sinistra, e il Presidente costretto a sospendere la seduta, e i Ministri, fra i quali Crispi non era presente, si ritirarono dall'aula. Quando fu ripresa la seduta, i Ministri rientrarono tutti, tranne quello di Grazia e Giustizia, il che provocò nuovi rumori.

Prese poi la parola il deputato Torraca, mio antico avversario, il quale propose un ordine del giorno inteso a dire che della questione non si dovesse parlare più, per non turbare il paese, che aveva bisogno di tutta la sua calma per affrontare tutte le altre questioni, fra le quali vi era la guerra d'Abissinia. I miei amici, fra i quali ricordo particolarmente il Guicciardini, si opposero, sostenendo che si dovesse andare a fondo, per constatare se vi erano dei colpevoli o dei calunniatori. Questo ordine del giorno fu appoggiato dal Ministero, ed ottenne la maggioranza, per parte mia astenendomi dal voto secondo l'impegno che avevo preso nel tmio stesso discorso, col quale mi ero rimesso completamente al giudizio dei miei colleghi. E così la questione fu definitivamente sepolta, senza che io potessi dimostrare, a mezzo di sentenza, che le accuse dirette contro di me erano pure calunnie, e che io ero stato vittima di una sleale persecuzione.


L'episodio della Banca Romana, che tenne agitato per quasi due anni il Parlamento e l'opinione pubblica, per me ebbe una importanza di primo ordine perchè, rilevando le manchevolezze del nostro ordinamento delle Banche di emissione, e i gravissimi abusi che ne erano derivati, e che minacciavano il credito del paese alle sue stesse fonti, cioè nella sicurezza della moneta, dette modo di porvi rimedio. A ciò appunto io, appena le cose e i fatti vennero alla luce, indirizzai la mia opera politica in modo che riuscì permanentemente efficace.

Va ricordato in proposito che, rispondendo alle interrogazioni del Comitato dei Sette, Crispi ammise pienamente di avere conosciuta, quando era Presidente del Consiglio, la relazione Biagini e il marcio della Banca Romana, e che aveva ritenuto si dovesse uscirne al più presto possibile, ma senza chiasso, trattandosi del credito nazionale, che non solo era debole all'interno, ma combattuto all'estero acerbamente, così che ogni atto che lo pregiudicasse maggiormente sarebbe riuscito fatale all'economia nazionale, e che perciò si limitò di fare da sé lo studio della Banca unica. Ma effettivamente non risulta che il Crispi qualche cosa facesse di pratico per rimediare ad uno stato di cose così gravi e che egli dichiarava .essere stato a sua conoscenza.


Per quanto riguarda quella che fu chiamata la questione morale, cioè la compromissione di uomini politici in questi tristi affari delle Banche, le cose andarono in modo assai poco soddisfacente; dalla scandalosa assoluzione degli .imputati del processo della Banca Romana, alle evasioni delle Commissioni parlamentari incaricate di constatare la responsabilità degli uomini politici; mentre poi, contro la verità e la legge, col pretesto di una sottrazione di documenti che poteva essere dimostrata assolutamente inesistente sino dal principio, se si fossero interrogati i testimoni citati dalla difesa, si condusse per odio politico una lunga persecuzione e si tentò di  colpire  chi,   per ragione  del  suo  ufficio,   aveva portato alla rivelazione di quello stato di cose ver
gognoso e pericoloso.    


Per parte mia, per quanto riguardava la responsabilità degli uomini politici, m'ero rimesso pienamente alla Camera, cui competeva di giudicare sul da farsi, dando il mio consenso alla inchiesta proposta. Se poi dovetti intervenire direttamente, con la presentazione dei documenti e degli appunti in mio possesso, a ciò fui costretto dalle circostanze. In primo luogo perchè non potevo consentire che dei funzionari incolpevoli fossero fatti vittime di false accuse, ordite allo scopo di arrivare a colpirmi personalmente; e perchè era mio debito di coscienza fare conoscere in proposito la verità. Ciò feci nel modo più riguardoso, dando ad uno dei funzionari falsamente accusati, il Felzani, una dichiarazione scritta intesa semplicemente a richiamare l'attenzione del giudice istruttore sulla necessità di sentirmi quale testimone. Fu la pubblicazione abusiva di quella lettera, sottratta alla istruttoria segreta a cui apparteneva, che mettendo a rumore il Parlamento e la stampa, mi costrinse poi a consegnare i documenti che erano in mio possesso. Consegnandoli alla Camera, io intesi di liberarmene definitivamente, tanto che richiesto che cosa ne avrei fatto qualora, secondo le proposte di alcuni, mi fossero restituiti, dichiarai che li avrei bruciati. La Camera, a mezzo della Commissione da essa nominata per la cernita e la pubblicazione, adottò norme che ne limitarono l'uso, per ragioni rispettabili, come quella di nulla pubblicare che si riferisse a persone defunte; ed oggi io, narrando quegli avvenimenti di cui fui parte principale, mi sono attenuto al riserbo che mi ero già imposto, limitandomi ad esporre i fatti, di ragione pubblica la maggior parte, che Imi concernevano personalmente e nei quali ero stato direttamente implicato.

VI.

Da Adua agli eventi del 1898.



La guerra d'Abissinia e la sua incerta condotta — Dissensi fra Crispi e Sonnino — La sconfitta d'Adua e la caduta di Crispi — La frettolosa liquidazione della guerra fatta dal Rudinì — Titubanze fra liberalismo e reazione — Gli avvenimenti del 1898 — La fase liberale del governo Pelloux — Il passaggio alla reazione e i provTedimenti eccezionali — La lotta dell'ostruzionismo — Il colpo di mano per mutare il regolamento della Camera — Il trionfo dell' Estrema Sinistra nelle elezioni e la caduta di Pelloux — I concetti da me proclamati per la soluzione della crisi nazionale.


Gli ultimi mesi del governo Crispi, fra il dicembre del 1895 e il marzo del 1896, furono interamente occupati, nelle cose e nella opinione pubblica, dagli avvenimenti di Abissinia. La loro storia non ha luogo fra queste memorie, se non per alcune connessioni indirette; e mi limito a ricordare solo alcuni punti1 per dare ragione della politica da me seguita nelle condizioni  generali  che  ne  erano  poi derivate.


I fatti che ci avevano condotti nel Mar Rosso, sono noti. Alla vigilia del Congresso di Berlino l'Inghilterra ci aveva chiesto di metterci d'accordo con essa, offrendoci Tunisi. È noto il rifiuto di Cairoli, per la cosidetta politica delle «mani nette», rifiuto che portò l'Inghilterra ad accordarsi per Tunisi con la Francia, con la conseguenza che al Congresso noi ci trovammo poi isolati e non avemmo nulla. Una seconda occasione ci si presentò per entrare nella vita coloniale, quando l'Inghilterra, nel 1882, preparandosi ad occupare l'Egitto, ci offrì di partecipare all'occupazione. Noi rifiutammo ancora, ed a questo rifiuto concorse assai Magliani, pel timore che accettando l'invito noi avremmo irritata la Francia, mentre egli si illudeva di potere propiziarsi la benevolenza della finanza francese. E così finimmo di andare a Massaua, per fiche de consolation, d'accordo con le altre potenze, nessuna delle quali protestò, eccetto la Turchia che fece una semplice protesta proforma. Il Mancini, allora ministro degli Esteri, magnificò la cosa pronunciando la famosa frase, che le chiavi del Mediterraneo erano nel Mar Rosso, ma noi non ve le abbiamo mai trovate.


Il Crispi, che aveva cercato di persuadere il governo ad accettare la proposta inglese per l'Egitto, si lasciò poi attrarre dal miraggio di conquiste verso l'Abissinia. Ho già ricordate le velleità che egli dimostrò durante il periodo in cui io appartenevo al suo Ministero quale ministro del Tesoro; ricordo pure un altro episodio. Un giorno, in Consiglio dei Ministri, Crispi disse testualmente: — Corre voce che Re Giovanni sia stato ucciso in una battaglia coi dervisci; e questa mi pare una buona occasione per occupare l'Asmara. — Io gli osservai che non ero contrario a quella occupazione; ma che non mi pareva si dovesse agire  su una semplice voce ma aspettare la conferma. Crispi acconsentì; la conferma venne e l'Asinara fu occupata. Quella precipitazione di Crispi, mostrata da questo episodio, era un segno delle sue inclinazioni, che io ritenevo pericolose.


Quando, nel dicembre del 1893, Crispi assunse di nuovo il governo, queste sue inclinazioni trovarono nuove ragioni e nuove spinte. L'opinione pubblica era turbata dagli scandali bancari e le classi dirigenti impaurite dalle prime agitazioni socialiste; una impresa coloniale si presentava come un diversivo. Ma le imprese, a cui ci si accinge in tali condizioni, diventano delle vere e proprie avventure, e generalmente risultano sfortunate. Credo che di rado una guerra coloniale sia stata iniziata in meno favorevoli condizioni e con peggiori auspici. Grandissima parte dell'opinione pubblica vi era contraria; nella loro grande massa le classi popolari, e per tutta l'Italia settentrionale anche la maggioranza delle classi dirigenti non ne volevano sapere. Nello stesso Ministero i consigli erano divisi; e ne è una prova una lettera riprodotta poi nei documenti diplomatici, con la quale il Sonnino, nel principio del '95, consentiva a malincuore all'invio di due battaglioni, e concludeva che l'invio di altre truppe, allo stato delle cose, sarebbe stato una vera follia. Altri documenti dimostrano la resistenza di chi aveva la responsabilità delle finanze dello Stato, ed avventurarsi in una impresa, il cui costo superava le nostre potenzialità,  e non  poteva essere calcolato.

Perfino nella mente del Crispi queste preoccupazioni dello stato dell'opinione pubblica e delle condizioni della finanza si facevano sentire; ed allora egli telegrafava a Baratieri che ogni ulteriore espansione in Abissinia trovava opposizioni nell'alta Italia anche fra gli amici del Ministero; che il suo collega del Tesoro se ne preoccupava per l'incertezza delle spese a cui si andava incontro, e che non permetteva che il bilancio dell'Eritrea superasse i nove milioni, concludendo con l'avvertire che non si voleva che la questione suscitasse imbarazzi nella Camera, la cui opera per la restaurazione delle finanze non doveva essere turbata. Ma poi queste esitazioni e preoccupazioni erano vinte in lui dall'allettamento di notizie di vittorie che mandava il Baratieri, e con le quali si cercava d'infiammare l'opinione pubblica.

Così si continuò per parecchi mesi, senza decidere né di fare la guerra sul serio, dando tutti i mezzi necessari, né di abbandonare l'impresa. A mostrare con quali criteri si procedeva rimane un telegramma di Crispi, datato pochi mesi prima del disastro, con cui egli chiedeva al Baratieri quale sarebbe stata l'economia del rimpatrio di due battaglioni, e concludeva con l'ammonirlo di fare la guerra come Napoleone, col danaro dei vinti, e di sciogliere il problema — cioè il problema fra le necessità della guerra e la mancanza dei mezzi per condurla — con le risorse della colonia Eritrea e dei territori occupati. Solo all'ultimo momento, quando cioè Menelick si avanzava con tutte le forze deli'Abissinia, si comprese la gravità della situazione ed il pericolo, e si volle correre ai ripari con tutti i mezzi ed inviando i rinforzi necessari, come pure sostituendo il Baratieri col Baldissera. Ma era troppo tardi, e non si seppe nemmeno nascondere l'invio del Baldissera. Baratieri avutane notizia attaccò, e la sconfitta d'Adua avvenne lo stesso giorno in cui il Re passava in rivista a Napoli i rinforzi pronti per l'imbarco.


L'impressione del disastro fu gravissima per tutta Italia, e provocò una clamorosa sollevazione degli animi, nella quale pur troppo si mescolavano i risentimenti per la politica di reazione e di violenza usata dal governo specie contro le classi e i partiti popolari. Crispi si presentò alla Camera, che era stata appunto convocata per quei giorni, con le dimissioni. L'annunzio fu accolto da un tumulto : Rudinì chiese di parlare, ma il Presidente chiuse frettolosamente la seduta. Della costituzione del nuovo Ministero fu incaricato il generale Ricotti, il quale mise per condizione della sua accettazione di prendere accordi col Rudinì, cui cedette la Presidenza. Ricordo che io fui chiamato da Rudinì, in casa di Brin, nel palazzo Odescalchi, in cui si riunivano, per chiedere la mia opinione, e per sapere da me quale contegno avrebbero assunto i miei amici. Io gli dichiarai che avrei francamente appoggiato il Ministero, nel quale entrò anche, prendendo il dicastero della Pubblica Istruzione, il mio amico Gianturco. Agli Esteri fu chiamato il Caetani, che quantunque conservatore aveva mantenuto un atteggiamento di forte opposizione al Crispi, sia per la impresa di Abissinia, sia per la politica reazionaria.


Il Di Rudinì, assunto il potere, si preoccupò an
zitutto di risolvere la situazione abissina, che teneva
in fermento tutto il paese, sia pel pericolo di complicazioni, sia per preoccupazioni sulla sorte dei soldati ed ufficiali rimasti prigionieri nella sfortunata
battaglia. Egli iniziò una politica di graduale ritirata, in corrispondenza ad una tendenza che si era
manifestata fortissima nel paese, e che arrivava sino
a desiderare e patrocinare l'abbandono totale e definitivo dell'Africa. Questo a me pareva eccessivo
e poco conveniente alla stessa dignità nazionale; e
trovai pure che fu esagerato l'abbandono di Cassala, che era la parte migliore della colonia, e dove
si erano potuti iniziare esperimenti promettenti di
cultura del cotone, e che fu retrocessa quasi per
forza all'Inghilterra. Se per queste decisioni affrettate
ed eccessive c'è una scusante nello stato dell'opinione pubblica, si può dire però che il Rudinì ebbe
il torto di abbandonarsi ad una corrente impetuosa
del momento, la quale rappresentava anche una rea
zione alla politica interna di violenza del Ministero
caduto.    |


Quel periodo di governo Di Rudinì, fu un vero caleidoscopio, con continui mutamenti di ministri. Il primo Ministero durò dal 10 marzo all'11 luglio, e fu in gran parte mutato con le dimissioni di Caetani, sostituito dal Visconti-Venosta; di Colombo sostituito dal Luzzatti; di Ricotti sostituito da Pelloux; di Perazzi sostituito da Prinetti, e di Carmine sostituito da Sineo. Queste sostituzioni non rappresentavano nuovi orientamenti o mutamenti di rotta; erano puri e semplici cambiamenti di persone per soddisfare a pretese parlamentari e tenersi in piedi.

Questo secondo Ministero tirò avanti per un anno e mezzo, sino al dicembre del '97, quando si ebbe il notevole fatto della entrata nel Ministero di Zanardelli che era intesa a dare al governo un indirizzo più liberale. Altre notevoli variazioni di persone ci furono e Pelloux fu sostituito da San Marzano; Gianturco da Gallo; Prinetti da Pavoncelli; Guicciardini da CoccoOrtu. Questo Ministero che, sopratutto per l'entrata di Zanardelli, rappresentava una mossa decisa verso Sinistra, durò sino al 12 giugno del '98. Un terzo Ministero, sempre con lo stesso metodo, fu messo ancora insieme da Rudinì, ma non durò che ventinove giorni.

Quella fu proprio l'epoca dei cosidetti rimpasti ministeriali, metodo al quale io non ho mai creduto e mai ricorso. L'esperienza infatti insegna che quando si fa un rimpasto, col proposito di rafforzare un Ministero, si ottiene l'effetto opposto di indebolirlo sempre più, e di farlo vivacchiare senza nessuna capacità di azione.

Durante questo periodo, che fu di due anni e tre mesi, di continui cambiamenti di uomini con ondeggiamenti ora a destra ora a sinistra, io mi trovai molto d'accordo con Cavallotti per combattere il   Ministero   quando   esso   prendeva  degli   atteggiamenti reazionari. Ricordo che Cavallotti ed io avevamo cercato di dissuadere in tutti i modi lo Zanardelli dall'entrarvi, essendo convinti che avrebbe potuto formarne uno egli stesso sulla base della Sinistra. Anzi ci recammo insieme a casa dello Zanardelli lo stesso giorno in cui egli accettò le offerte del Di Rudinì; e dopo una nostra lunga conversazione con lo Zanardelli, uscendo Cavallotti mi disse: — Credo che siamo riusciti a dissuaderlo — ma io gli risposi: — Temo invece che siamo arrivati troppo tardi — ed infatti l'ingresso di Zanardelli nel Ministero fu annunciato l'indomani.


Per questi nostri contatti ebbi allora campo di conoscere bene il Cavallotti. Egli era uomo di molto e vivo ingegno; impetuoso di carattere ma sinceramente interessato al bene del paese. Le mie relazioni con lui furono varie. Quando ero stato alla Presidenza del Consiglio, egli mi aveva combattuto; ma più tardi ci trovammo in pieno accordo nel combattere la reazione di Crispi, come pure nel combattere il Di Rudinì quando prese un atteggiamento troppo conservatore, che lo portò poi alla proclamazione degli stati d'assedio. Non ho mai avuto a lagnarmi di lui, anche quando mi ha combattuto; anche quando aggrediva violentemente e alle volte passava i limiti era sempre animato da passione politica e la sua condotta non era mai obliqua e sleale. Se fosse vissuto sarebbe certo pervenuto al governo: lo stesso Re Umberto, negli ultimi tempi prima che morisse gli  aveva mandato  a dire che pel caso di una combinazione ministeriale egli non faceva alcuna esclusione.

Ricordo che il giorno in cui si battè nel duello dove trovò la morte, io mi trovavo alla Camera, e Giampietro, suo grande amico, e che molte volte era stato suo padrino, venne a parlarmi dimostrandosi inquietissimo, perchè conosceva il pericolo al quale il Cavallotti con la sua impetuosità si esponeva di fronte ad un avversario di sangue freddo. E mentre eravamo in questi discorsi giunse alla Camera la notizia della sua morte.


I fatti del '98 furono occasionati nel loro inizio dalla miseria in cui si trovava il paese, al colmo di una lunga crisi che aveva colpito l'economia mondiale, e da un improvviso, grave rincaro del costo del pane, dovuto a cattivi raccolti; al quale rincaro il governo non aveva provvisto nemmeno con una abolizione temporanea del dazio sul grano. A mio parere fu allora un errore il credere che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo, mentre si trattava di una esplosione di malcontento. Ma perdurava ancora nelle classi dirigenti uno stato d'animo paurosissimo di qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a provvedimenti eccessivi. Così fu proclamato, o proposto all'autorità locale la proclamazione dello stato d'assedio in provincie e luoghi dove non c'era nessun pericolo.

Ricordo che si trovava a Torino Re Umberto, con alcuni ministri e numerosi senatori e deputati per la celebrazione del cinquantesimo anniversario dello Statuto, e proprio in quei giorni vi giunse l'ordine di proclamare lo stato d'assedio, ordine provocato indubbiamente da informazioni false o per lo meno esagerate. Fra l'altro era stato riferito a Roma, non so da chi, che gli operai della fabbrica Leumann, sita nelle vicinanze della città, si erano messi in marcia su Torino; ora quella fabbrica impiegava quasi esclusivamente donne le quali, essendo in isciopero, furono trovate sedute tranquillamente nei prati contigui alla fabbrica. Era a Torino, insieme al Re, anche lo Zanardelli, ministro di Grazia e Giustizia; e il generale Resozzi, che comandava quel corpo d'armata, fece osservare che mancava qualunque motivo per proclamare lo stato d'assedio; e così l'ordine fu revocato. Un altro generale che pure rilevò non essere necessario lo stato d'assedio, fu il Pelloux, che teneva il comando del corpo d'armata di Bari.

I provvedimenti eccessivi a cui si era lasciato andare il governo per codesti avvenimenti ebbero il loro contraccolpo sulla situazione parlamentare e sullo stesso Ministero, da cui uscirono gli elementi di Sinistra: Zanardelli, Cocco-Ortu, Gallo, Sineo e Visconti-Venosta. Il Di Rudinì volle tentare un'altra ricomposizione, e fra gli altri invitò il Pelloux, offrendogli il portafogli degli Esteri. Il Pelloux venne da me, per avere in proposito il mio parere, ed io lo dissuasi dall'accettare, sia perchè a me pareva che, dopo la caduta del Rudinì, sarebbe stato molto opportuno offrire l'incarico a lui, che fra i generali, astenendosi dal proclamare lo stato d'assedio a Bari, si era mostrato il più liberale, sia perchè d'altra parte nella sua qualità di generale offriva particolari garanzie pel mantenimento dell'ordine, allora sempre turbato. Egli accettò il mio parere e rifiutò.

Il Di Rudinì mise assieme un Ministero alla meglio; ma non potendo più contare su un appoggio a Sinistra ed avendo così perduta la maggioranza, dopo ventinove giorni dovette ritirarsi definitivamente.


Dopo la caduta del Di Rudinì, il Re chiamò Visconti-Venosta il quale, dopo i primi assaggi si persuase di non potere formare un ministero capace di reggersi, e quindi declinò l'incarico. Fu chiamato un altro senatore, il Finali, che venne da me dichiarandomi che riteneva suo dovere di esaminare quali possibilità vi fossero, pure non facendosi nessuna illusione di potere riuscire, e infatti due giorni dopo si ritirò. Allora il Re chiamò Pelloux. Questi volle ancora vedermi, e in una conversazione che avemmo mi osservò che per comporre un Ministero, considerata la situazione parlamentare, gli occorreva l'appoggio tanto di Zanardelli che degli amici di Crispi. Io mi impegnai con lui di tastare il terreno per quanto riguardava gli elementi di Sinistra, e mi recai subito dallo Zanardelli, insieme al suo intimo amico, il deputato  Picardi; e lo  Zanardelli convenne con noi che, considerate le condizioni dello spirito pubblico in quel momento, la migliore soluzione che si presentasse con probabilità di buon successo, era appunto di dare l'incarico a Pelloux, che pei suoi precedenti dava serii affidamenti ai partiti liberali. Mi recai pure da Guido Baccelli, amico di Crispi, che pure convenne della opportunità di tale soluzione. E così Pelloux potè formare il suo primo Ministero, interamente su base di Sinistra, prendendo seco il Fortis, il Lacava, il Finocchiaro-Aprile, ecc. ed avendo come sottosegretario agli Interni un mio amico, il deputato MarsengoBastia.


Giunto così al governo, il generale Pelloux abbandonò i disegni di legge restrittivi della libertà della stampa e del diritto di associazione presentati dal suo predecessore; accennò al proposito di governare con le leggi ordinarie rigidamente applicate; e pose a base del suo programma una riforma tributaria in senso democratico; tenne insomma, per circa sette mesi, una condotta politica liberale, cercando anche di attenuare negli effetti le condanne degli uomini politici, radicali e socialisti, colpiti dai tribunali militari, quali il Turati, il Romussi ed altri. Ricordo che per un caso speciale toccato al Romussi, intervenni io personalmente, ottenendo che fosse revocato un assurdo provvedimento pel quale, avendo il Romussi scritta nella sua detenzione una vita di Silvio Pellico, la si voleva considerare come lavoro carcerario, ed attribuirne la proprietà allo Stato.  Ed  il  Pelloux  in tutto  questo  periodo  ebbe l'illimitato  e disinteressato  appoggio del  Partito liberale.


Poi improvvisamente egli mutò rotta; e il 4 febbraio del 1899, cedendo alle intimazioni della parte più intransigente del partito conservatore; e forse anche impressionato pel fatto che, non ostante la repressione del '98, il movimento operaio e socialista si propagava per tutta l'alta Italia, con grande spavento dei conservatori, il Pelloux presentò alla Camera le cosidette leggi eccezionali, che miravano a restringere i diritti statutari di riunione, di associazione e di libertà di stampa. Di fronte a tale atto del Ministero, il Partito liberale momentaneamente si divise; una parte, ritenendolo definitivamente avviato a reazione, lo abbandonò, rifiutandogli il voto pel passaggio alla seconda lettura del disegno di legge presentato; altri, fra i quali io ero, vollero tentare ancora di ricondurre il Ministero al programma con cui era sorto. A me, e a quelli fra i miei amici che allora consentirono meco, repugnava di credere che il Pelloux, andato al governo con programma liberale, volesse volgersi a una politica reazionaria. Noi consideravamo d'altra parte che il disegno di legge ministeriale con alcuni emendamenti poteva essere reso accettabile; in quanto la parte relativa al diritto di riunione riguardava solamente quelle tenute all'aperto, lo scioglimento delle associazioni si deferiva all'autorità giudiziaria, e si avevano affidamenti per la modificazione della parte più grave, quella che concerneva la libertà di stampa.

Io e Zanardelli esaminammo quindi se fosse il caso di passare immediatamente all'opposizione o se convenisse attendere la discussione. E finimmo per trovarci d'accordo che si potesse accettare il passaggio alla discussione degli articoli; e questo tanto più che il Pelloux, a mezzo del Lacava, ci aveva date assicurazioni, promettendoci fra l'altro che la Commissione per l'esame del progetto sarebbe stata nominata di pieno accordo col Partito liberale, così che le leggi proposte avrebbero potuto essere modificate in guisa che non riuscissero ad alcuna restrizione o menomazione dei diritti statutari, mentre io e Zanardelli eravamo poi disposti ad accettarne quella parte che mirava ad assicurare la continuità dei pubblici servizi.


Se non che ogni tentativo di ritrarre il governo dal suo nuovo indirizzo politico apparve presto vano, e gli affidamenti dati fallaci. Infatti, appena ottenuto il voto per il passaggio alla seconda lettura, il Pelloux mostrò apertamente il fermo suo intendimento di non attenuare in alcun modo il carattere reazionario dei suoi provvedimenti; fra l'altro, quando si fu a comporre la Commissione che doveva riferire alla Camera, egli, mancando alle dichiarazioni che a suo nome aveva fatto Lacava, propose una serie di nomi scelti appunto fra coloro che si erano mostrati favorevoli alla restrizione dei diritti statutari, e specie del diritto di riunione. Nello stesso tempo, ripetendo l'esempio di Crispi, per quella legge fatale per la quale ad ogni
movimento, reazionario all'interno corrisponde un tentativo di diversione all'estero, egli iniziò in Cina una nuova impresa che la maggioranza della Camera disapprovava, perchè non consigliata da alcun evidente interesse del Paese e rivolta a luogo che escludeva ogni possibilità di colonizzazione, e perchè intrapresa senza scopo preciso, senza conoscenza del luogo che si voleva occupare e senza alcun serio calcolo delle sue difficoltà e delle spese che avrebbe importate. E quella impresa infatti, non ebbe altro risultato che lo sperpero di parecchi milioni ed una umiliazione nazionale; e malamente iniziata fu poi abbandonata in modo così poco dignitoso, che più tardi io, quando si discusse il bilancio degli esteri, mi sentii in dovere di raccomandare al Ministro che per carità di patria non ne pubblicasse i documenti; raccomandazione che il Ministro accolse.


Venuta in discussione quella sciagurata impresa,
il Pelloux, prevedendo una sicura sconfitta, si dimise senza attendere il voto del Parlamento e formò
un nuovo Ministero con la sua base principale negli
elementi più conservatori della Camera : Finocchiaro-Aprile fu sostituito da Bonasi, Carcano da Carmine,
Fortis da Salandra, Vacchelli da Boselli, Nasi da
San Giuliano; sostituzioni tutte che portavano alla
trasformazione totale del Ministero da Sinistra a Destra, da liberale a conservatore. Per inevitabile conseguenza, e per assicurarsi l'appoggio dei conservatori più intransigenti, il Pelloux dovette modificare
i suoi progetti di legge in senso anche più reazionario,
arrivando a sopprimere addirittura, contro lo stesso voto della Commissione parlamentare, il diritto di riunione garantito dallo Statuto, ed a togliere ogni garanzia di intervento dell'autorità giudiziaria nello scioglimento delle associazioni. Nello stesso tempo, e per logica conseguenza del nuovo indirizzo politico, il Pelloux abbandonò pure quei propositi di riforma tributaria a favore delle classi popolari, coi quali aveva da prima assunto il governo.


Con questo atteggiamento assunto dal governo, la vita parlamentare fu travolta in una lotta senza limitazioni. L'Estrema Sinistra, che riteneva i provvedimenti antistatutari del Pelloux contrari agli interessi politici delle classi che essa rappresentava, rispose alla sfida ricorrendo ad un'arma che sino allora non era mai stata usata nel parlamento italiano: l'arma dell'ostruzionismo. Né io, né Zanardelli, né gli altri dell'opposizione costituzionale partecipammo alla lotta dell'ostruzionismo, e lo dimostrammo votando contro tutte le proposte che a scopo di ostruzionismo venivano avanzate; io anzi un giorno, in un mio discorso ebbi a dichiarare che noi ci trovavamo presi fra due violenze: quella del governo che presentava leggi contro i diritti statutari, e quella degli estremi che rendevano impossibile il funzionamento del Parlamento, ciò che non poteva essere approvato dal partito liberale. Non sarebbe, del resto, stata cosa difficile vincere l'ostruzionismo, se il Ministero avesse avuta autorità per dirigere i lavori parlamentari e se fosse stato sorretto da una maggioranza sicura; ma codeste condizioni mancavano, ed il Ministero
non riuscì neppure a tenere presente alla Camera la
sua maggioranza, cosicché parecchie volte, sebbene
l'opposizione costituzionale non avesse mai abbando
nata l'aula,  mancò il numero  legale.    


L'aiuto più efficace all'ostruzionismo fu pure dato
dalla incertezza dello stesso Ministero nei suoi propositi. Infatti esso abbandonò il primo suo disegno
di legge; ne abbandonò un secondo dopo averlo trasmesso alla Commissione parlamentare; non accettò
un progetto elaborato dalla Commissione stessa, e
lasciò che la Camera discutesse per quindici giorni
senza sapere precisamente quale fosse il disegno di
legge voluto dal Ministero, la cui incertezza giunse
al punto che il 15 giugno del 1899 il Ministro di
Grazia e Giustizia sostenne una disposizione relativa
al diritto di riunione che poteva essere accettata dal
Partito liberale, ed all'indomani il Presidente del
Consiglio ne propose un'altra sostanzialmente di
versa ed equivalente all'assoluta abolizione di quel
diritto.  


Dopo tutti questi errori il Pelloux, trovatosi impotente a dominare la situazione, non seppe escogitare altro che un atto da lui stesso dichiarato illegale; e con semplice decreto, contro la esplicita disposizione dello Statuto fondamentale dello Stato, senza il voto della Camera, senza il voto del Senato, modificò le leggi esistenti sulla stampa e sui diritti di riunione e di associazione; cosa che non era stata mai tentata dal 1848 in poi.

E devo qui ricordare, ad onore del Parlamento, che tale aperta violazione dello Statuto, ebbe aperti rimproveri, non solo dalla opposizione costituzionale, ma dai più autorevoli capi della stessa maggioranza ministeriale. Tale decreto fu poi dichiarato incostituzionale dalla Corte dei Conti ed annullato dalla Corte di Cassazione.


Ma ormai il governo di Pelloux doveva giungere sino al fondo della china pericolosa in cui si era messo incautamente. Per debellare l'ostruzionismo e renderlo impossibile nell'avvenire, d'accordo con la Presidenza, pensò di modificare il regolamento della Camera; ma anche queste modificazioni dovevano essere discusse ed approvate, e si trovavano quindi e non meno dei provvedimenti eccezionali, di fronte all'ostacolo dell'ostruzionismo. Per girare questo ostacolo si ricorse, da parte del governo, con la connivenza della Presidenza, tenuta allora dal conservatore Colombo, ad uno stratagemma. Era stato già preparato il progetto di regolamento, che fu subito pubblicato, ma non iscritto all'ordine del giorno. Il Colombo, all'inizio di una seduta, dichiarò improvvisamente — I deputati hanno già visto il nuovo progetto di regolamento: lo metto ai voti: chi lo approva alzi la mano. — Naturalmente in tal modo il progetto fu lapprovato, ma senza che fosse passiate traverso ad alcuna discussione. L'Estrema Sinistra si sollevò in tumulto; e noi pure dichiarammo di non potere riconoscere quel regolamento, perchè non approvato nelle debite forme. Per dare maggiore importanza a questo  rifiuto,  Zanardelli  fu  incaricato  da tutte le Sinistre di fare una solenne dichiarazione di non riconoscerlo; dopo di che uscimmo in massa dall'aula. Il governo, col mettersi nell'illegalità, altro non aveva ottenuto che di riunire in un blocco compatto tutte le opposizioni; e l'ostruzionismo non potè essere vinto.

Ci fu qualche tentativo di riconciliazione ma senza risultato. Ricordo che un giorno io avevo incontrato il Colombo nell'auletta della Camera, che si stava riassettando, ed in una conversazione che ne era seguita il Colombo aveva assentito ad una mia proposta conciliativa, riservandosi però di darmi la risposta. E il giorno dopo mi portò la risposta, negativa, dicendomi: — Sonnino non vuole. —

L'on. Sonnino aveva in quel tempo tenuta la posizione di capo della maggioranza, ed in un suo famoso scritto, col titolo «Torniamo allo Statuto» aveva patrocinata la tesi conservatrice sino alle sue ultime conseguenze, di tornare cioè alla forma del governo cosidetto costituzionale, in opposizione al governo parlamentare, con la responsabilità cioè dei ministri invece che verso il Parlamento, verso la Corona. Quella tesi, e la lotta sostenuta da Pelloux per l'approvazione delle leggi antistatutarie, rappresentarono l'ultimo sforzo dei conservatori per dominare i destini del Paese; sforzo condannato all'insuccesso perchè in contrasto con le tendenze sempre più democratiche dei tempi e in quasi tutti i paesi. Più tardi poi il Sonnino, dopo il mio secondo Ministero, ebbe a dichiarare francamente che l'Italia poteva essere governata solo coi metodi miei, ed in tutta la sua opera ulteriore ritornò e si tenne lealmente alle norme del governo parlamentare.


Al governo, battuto con l'ostruzionismo, non rimaneva che un ultimo espediente: l'appello al Paese, che s'imponeva anche per tranquillare gli animi ad uscire dalla situazione mediante un verdetto della pubblica opinione. Le elezioni furono indette il 18 maggio 1900 per il 3 ed il 10 giugno, e riuscirono ad un trionfo dell'Estrema Sinistra, che ritornò alla Camera notevolmente rafforzata.

In una lettera indirizzata ai miei elettori, io avevo osservato che, pel modo con cui erano condotte le elezioni, risultava evidente che il Ministero considerava come nemici suoi coloro che invocavano la integrità dello Statuto fondamentale dello Stato; ed aggiungevo che, la violenza non essendo mai durevole, noi potevamo considerare con piena sicurezza il Ministero Pelloux come destinato a scomparire di fronte alla nuova rappresentanza del Paese, lasciando dietro di sé tristi ricordi e rendendo più gravi e difiìcili nella nuova legislatura i doveri dei sinceri amici delle istituzioni. Quel mio pronostico, che irritò assai il Pelloux, fu pienamente adempiuto.

Alla convocazione della Camera vi fu lotta per l'elezione del Presidente, il Governo portando il Gallo e l'opposizione lo Zanardelli. Il Gallo riuscì solo per pochi voti; ed a me che gli presentavo i miei rallegramenti personali, pure non avendogli dato il voto, e gli chiedevo se ora egli farebbe le parti di forza, come il Colombo, egli rispose: — Mi pare che sarebbe perfettamente inutile. — Ed egli stesso consigliò poi il Pelloux a dare le dimissioni, che furono presentate il 24 giugno.


Con questo il Pelloux chiuse la sua carriera politica, scontando l'errore di essersi lasciato trascinare ad una politica ultraconservatrice, dopo aver assunto il governo grazie ai suoi precedenti liberali e con l'appoggio, da lui stesso chiesto, della Sinistra. Personalmente egli era un uomo altamente stimabile; gentiluomo cortese ed onestissimo; uomo d'ingegno pronto e vario, ma deficiente nella cultura politica. I nostri rapporti erano sempre stati assai amichevoli; ma poi egli si alienò da me per un episodio svoltosi più tardi al Senato. Egli sostenne che la militarizzazione dei ferrovieri, da me applicata, non era legale. Allora io gli ricordai che egli era generale in attività di servizio, e come tale avrebbe avuto l'obbligo di pubblicare gli ordini del governo con la sua stessa firma; sotto la quale i ferrovieri avrebbero potuto stampare le parole contrarie a quegli ordini che egli pronunciava come senatore. Egli ne rimase turbato, e d'allora in poi i nostri rapporti furono rotti.


Con la caduta di Pelloux si chiuse definitivamente un periodo assai torbido della nostra vita nazionale; periodo che, iniziato col Ministero Crispi, succeduto al mio primo Ministero, e passando per i varii Ministeri Di Rudinì e Pelloux, rappresentò nel suo complesso, non ostante momentanei proponimenti ed affidamenti, un continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava il paese. Gli intendimenti reazionari, con l'uso dei mezzi più violenti, furono più espliciti e diretti nella politica del Crispi; mentre col Di Rudinì e il Pelloux le cose andarono diversamente, perchè il primo, venuto al potere contro appunto il reazionarismo del Crispi, si lasciò trascinare egli stesso ad una politica di reazione; e il Pelloux, chiamato, con la fiducia del partito liberale contro all'ultimo periodo reazionario del Rudinì, finì per riassumere tutta la politica reazionaria nel tentativo di mutare le leggi statutarie liberali.

Il Di Rudinì e il Pelloux parvero insomma essere spinti nella corrente della politica conservatrice e reazionaria piuttosto contro la loro volontà, dalla forza dei fatti e delle cose; e sarebbe ingiusto non riconoscere le difficoltà delle condizioni a cui si trovarono ripetutamente di fronte. Il malessere economico che gravava sul paese, col conseguente sorgere e diffondersi del malcontento e delle agitazioni nelle classi popolari e nella piccola borghesia, che ne erano particolarmente colpite; l'affacciarsi di nuove dottrine politiche, quale il socialismo, che facevano presa sulle folle tanto nelle città che nelle campagne, creavano indubbiamente nuovi e gravi problemi, sia economici che politici di non facile soluzione, e che preoccupavano le classi dirigenti ed il Parlamento. La principale questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche ed agli uomini di governo, era se questi problemi potevano risolversi col regime di libertà, o se essi richiedevano e imponevano un restringimento di freni e l'adozione di provvedimenti eccezionali.


Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta soluzione non potesse ottenersi che col mantenimento dei principii liberali, e che qualunque provvedimento di reazione, per soffocare il malcontento e per impedire la manifestazione delle nuove aspirazioni popolari, avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare le cose e minacciare le stesse istituzioni. Cotale criterio io cercai di applicare nel mio primo Ministero, e lo mantenni fermamente nella lotta contro la politica di Crispi, e poi contro il Di Rudinì e Pelloux quando, venendo meno agli impegni presi ed agli affidamenti dati al partito liberale, passarono alla reazione. E tali principii ribadii costantemente in lettere indirizzate ai miei elettori, per rendere conto del mandato politico da essi affidatomi, e in discorsi pronunciati dal 1897 al 1899 in varie sedi del mio collegio e specialmente a Busca e Coraglio.

Non credo fuori di luogo, tralasciando le questioni più particolari del momento, di riassumere qui brevemente la parte generale dei concetti politici allora da me proclamati, nel vivo della lotta fra conservatorismo e liberalismo; tanto più che essi rappresentano i principii fondamentali della mia condotta politica, a cui mi sono, e prima e dopo, costantemente attenuto.


Dunque, in quei miei discorsi, dopo avere rilevato come, in seguito alla persistente politica di reazione, in contrasto con gli affidamenti dati, il paese non prestasse più fede al governo ed ai partiti costituzionali, e che solamente con una energica azione ed un radicale mutamento di indirizzo, si poteva riacquistare la fiducia delle popolazioni, io domandavo: — Quale deve essere il nuovo indirizzo?


Ed osservavo che due sistemi politici stavano di fronte: l'uno, quello del partito reazionario, che consisteva nel rifiutare qualunque concessione e nell'opporre ai malcontenti la forza, diminuendo le pubbliche libertà ed accrescendo i mezzi di repressione; l'altro, quello del partito liberale, che consisteva nel dare soddisfazione ai giusti desideri della grande maggioranza del paese, e così togliere o almeno attenuare, per quanto può dipendere dalle leggi e dai metodi di governo, le cause del pubblico malcontento.


Notavo quindi che la via della reazione era consigliata da alcuni uomini politici, i quali si presentavano come continuatori dell'antico partito moderato, e della politica del Conte di Cavour. Giammai era stata fatta a quel partito ed a quella gloriosa politica più grave ingiuria; la storia c'insegnava che i legittimi rappresentanti dell'antico partito moderato, Lamarmora, Ricasoli, Farmi, Menabrea, Lanza, Sella, Minghetti avevano saputo, nei momenti più difficili, come dopo Novara, Villafranca, Aspromonte, Mentana, rendere la pace al paese senza togliergli la libertà; e invocare il nome di Cavour per sostenere una politica reazionaria e violatrice della libertà equivaleva a tentare una delle più audaci falsificazioni della storia. E facevo notare che i reazionari di quel tempo non appartenevano alla scuola politica del Conte di Cavour, ma a quella dei governi che quella politica aveva abbattuti nel 1859 e nel 1860.


Esaminavo poi quali sarebbero state le conseguenze di una politica reazionaria.
Evidentemente tale politica sarebbe stata diretta contro la piccola borghesia e contro le grandi masse popolari, e perciò avrebbe potuto contare solamente sulla forza delle classi nella reazione interessate, vale a dire di quelle classi che temevano le riforme necessarie ad attenuare il pubblico malcontento. Ora, era mai possibile che reggesse a lungo un governo che avesse contro di sé la maggioranza dell'opinione pubblica, specie in un paese, quale era l'Italia, dove il governo non avrebbe avuto neppure l'aiuto incondizionato  del  partito  clericale?


Una tale politica reazionaria avrebbe dovuto contare principalmente sulla forza armata; e poteva essere ammissibile che l'esercito italiano, che esce dalle fila del popolo e ne è la più schietta rappresentanza, diventasse strumento di oppressione della libertà del paese? A ciò si doveva aggiungere che una tale condizione di cose non avrebbe potuto non avere un triste riflesso sulle condizioni dell'Italia all'estero, perchè un paese che deve mettere ogni tanto una parte dell'esercito sul piede di guerra per mantenere l'ordine all'interno, non può avere all'estero seria influenza.   Alla  forza della  pubblica  opinione   non
avevano potuto resistere le monarchie reazionarie che governarono l'Italia prima del 1860, le quali avevano per sé l'appoggio della chiesa, la tradizione secolare ed i pregiudizi allora prevalenti nel popolo. Come avrebbe potuto poi reggersi un governo sorto dalla rivoluzione, dopo che cinquanta anni di vita libera, di discussione e di libera stampa avevano fatto penetrare in tutti la coscienza dei propri diritti?

Il movimento reazionario, secondo i propositi di quelli che lo caldeggiavano, avrebbe dovuto cominciare da una restrizione del suffragio elettorale. Tale restrizione, se fatta in misura molto limitata, mentre sarebbe stata un atto odioso a carico di alcuni cittadini, non avrebbe prodotto effetto sensibile, perchè il malcontento più pericoloso non si manifestava tanto nelle ultime classi sociali, che ne sarebbero state colpite, quanto nelle classi operaie più colte e nella piccola borghesia. Se poi si avesse voluto togliere il diritto di voto a numerose classi di cittadini, si avrebbe avuto l'effetto di gettare codeste classi sociali fuori delle istituzioni, e di creare una vera situazione rivoluzionaria. Togliere il voto ai malcontenti, io osservavo, poteva avere l'effetto di evitare momentaneamente la manifestazione del male, senza però curarlo, anzi aggravandolo. Si temeva che i voti delle classi popolari si rivolgessero tutti ai socialisti, ma in realtà, più che a socialisti noi ci trovavamo di fronte a malcontenti; la forza del socialismo, assai più che dalle sue dottrine in gran parte contrarie all'indole ed alle tradizioni del popolo italiano, che ha saldo il sentimento
della famiglia e della proprietà individuale, derivando in parte dall'essersi presentato come difensore delle classi più numerose, che i partiti costituzionali avevano avuto il torto di trascurare, e più ancora dal generale malcontento diffuso per il paese.

Era mai pensabile che un paese così poco soddisfatto del suo governo, consentisse ad abdicare nelle mani di esso le proprie libertà, conquistate con tanti sacrifizi? E poi che cosa si sarebbe offerto al paese in compenso della libertà perduta? Quando le ristrette consorterie che spingevano il governo verso la reazione, avessero raggiunto il principale loro scopo, che era appunto di non dividere il potere coi rappresentanti delle classi popolari, per esercitarlo solo nel proprio egoistico interesse, chi si sarebbe illuso che proprio allora sarebbe sorto in esse l'affetto per le classi popolari, e che avrebbero cominciato allora a sacrificare gli interessi propri a quelli generali del paese? Ed io concludevo che la politica della reazione sarebbe stata fatale alle nostre istituzioni, appunto perchè le avrebbe poste a servizio di una esigua minoranza, ed avrebbe rivolto contro di esse le forze più vive e irresistibili della società moderna, cioè l'interesse delle classi più numerose e il sentimento degli uomini più colti.


Esclusa così la convenienza, anzi la possibilità stessa di un programma reazionario, io osservavo che restava come unica via, per scongiurare i pericoli della situazione a cui il malessere generale e i conati reazionari avevano portato il paese, quel programma liberale che si proponeva di togliere, per quanto possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale mutamento di indirizzo, tanto nei metodi di governo, quanto nella legislazione. Ma un programma di tal fatta, di cui parte non piccola doveva essere la riforma tributaria a favore delle classi più numerose e meno favorite dalla fortuna, non avrebbe potuto essere proclamato ed eseguito che da un governo il quale avesse solida base nella maggioranza del paese, e non fosse quindi costretto a cedere ad interessi illegittimi.

Nel campo politico sovratutto vi era un punto essenziale, nel quale i metodi del governo dovevano essere immediatamente mutati. Negli anni corsi dal 1895 al 1899, nell'azione reazionaria del Crispi prima, poi del Rudinì e del Pelloux, si era a poco a poco giunti a confondere la forza del governo con la violenza, considerando forte quel governo che al primo stormire di fronda proclamava lo stato d'assedio, sospendeva la giustizia ordinaria, istituiva i tribunali militari e calpestava tutte le franchigie costituzionali. Quella invece non era forza, ma debolezza e della peggiore specie; debolezza giunta a tal punto da fare perdere la visione esatta delle cose. Primo dovere del governo è e sarà sempre di mantenere l'ordine a qualunque costo; ma la vera dimostrazione di forza si fa quando l'ordine è mantenuto con la rigida e costante applicazione della legge; quando il governo sa resistere alle pressioni degli interessi illegittimi, e quando ha un programma preciso e lo attua con fermezza e costanza, senza consumare né subire alcuna violenza. E per riuscire a possedere questa forza fatta sopratutto di autorità, è necessario che il governo lasci pieno agio a tutte le classi, ed in special modo a quelle più numerose, di fare conoscere e fare valere le proprie aspirazioni e di difendere, nell'ambito delle leggi, i propri legittimi interessi. Accogliendo così nel loro ambito la rappresentanza dei più larghi interessi nazionali, le istituzioni potevano acquistare quella solidità che i metodi della reazione e della violenza, non che assicurare loro, avevano gravemente compromessa.

Tali furono i criteri di governo che io proclamai costantemente in un periodo difficile, durante il quale essi parvero oscurarsi nella coscienza delle classi dirigenti. Ma, con l'ultimo fallimento del tentativo reazionario del Pelloux, e coi molteplici segni della rovina a cui, perseverando in quella via, si andava incontro, tali criteri cominciarono a riprendere il sopravvento, portando il loro benefico effetto su l'intero svolgimento della vita nazionale.

VII.

Il ritorno al liberalismo.


Il ritorno alla costituzione — Il ministero di transizione Saracco — Il ministero Zanardelli — Il completo esperimento liberale — La mia opera al ministero degli interni — La lotta fra capitale e lavoro — Le leghe e gli scioperi agrari — La duplice lotta, contro gli estremisti alla Camera e contro i reazionari al Senato — Perchè mi dimisi dal ministero Zanardelli,


La caduta di Pelloux avvenuta, più che in seguito
ad un voto parlamentare, alla solenne manifestazione
che il paese, a mezzo delle elezioni, aveva fatta contro
la politica reazionaria, apriva finalmente, dopo i torbidi esperimenti reazionari, la strada al ritorno alle
tradizioni liberali. Se non che, dopo un così lungo
conflitto di interessi e di passioni, appariva opportuno
un periodo di transizione durante il quale le passioni
sbollissero e si ritornasse gradatamente allo stato
normale della vita politica; e la Corona non fu male
consigliata a chiamare per allora al potere, in luogo
di qualcuno dei capi partito della Camera, che si
erano trovati involti nella lotta, un Senatore; e la
scelta cadde sul Senatore Saracco, il quale fu infatti
accettato da tutti i gruppi del partito liberale nella
persuasione che con lui si sarebbe rientrati nell'orbita costituzionale.

Come ho già ricordato, l'opposizione liberale costituzionale, dopo avere assistito con
spirito imparziale alla lotta dell'ostruzionismo, aveva
dovuto, all'ultimo, sollevarsi contro il tentativo, compiuto con la connivenza del Presidente della Camera di modificare il regolamento con violazione delle norme statutarie e parlamentari che garantiscono le istituzioni parlamentari, dichiarando illegale, violento e nullo il procedimento che era stato seguito. Era quindi necessario anzitutto, per potere riprendere le discussioni alla Camera, ristabilire per questo verso il rispetto della legge; ed a ciò si provvide con la nomina di una Commissione, composta di sei membri da una parte e di sei dall'altra, con l'incarico di formulare di comune accordo un nuovo regolamento che fosse da tutti accettato; e così fu fatto e la spinosa questione finalmente e pacificamente risoluta. Era questa precisamente la transazione che io avevo proposta, prima delle elezioni generali, al Presidente della Camera Colombo, e che questi mi aveva detto essere stata dal Pelloux respinta per consiglio di Sonnino.


Il Saracco aveva preso Visconti-Venosta come ministro degli Esteri; Gianturco alla Giustizia; Carcano all'Agricoltura; Rubini al Tesoro; Branca ai Lavori pubblici e Gallo all'Istruzione; in complesso il nuovo Ministero era liberale, con qualche elemento temperato di Destra, quale il Chimirri; e durò dal 24 giugno del 1900 al 15 febbraio dell'anno dopo. La sua breve vita fu funestata da un orribile delitto : l'assassinio di Re Umberto, consumato a Monza nel luglio del 1900. Io ne ebbi la notizia a Valdieri, dove mi trovavo ai bagni, e dove era pure in quei giorni l'Alfazio, prefetto di Milano. Il doloroso evento non ebbe alcuna influenza a modificare la politica liberale del Ministero, non ispirò nessuna idea o proposito di reazione; anzi da molti era riconosciuto come un effetto sur un cervello squilibrato della politica reazionaria seguita negli anni antecedenti.

Il regicidio colpì, in Re Umberto, un sovrano che aveva avuto vivo ed alto il sentimento del proprio dovere e che si era dedicato con spirito equanime, alle cose dello Stato, ed un uomo che era stato costante, esempio di bontà e di cortesia. Indubbiamente egli, che quando io l'avevo conosciuto prima come Ministro del Tesoro, poi come Presidente del Consiglio, si era sempre mostrato di spirito molto liberale ed ossequiente alla Costituzione, durante il periodo reazionario risentì l'influenza dei personaggi e dei partiti conservatori, seguendone i consigli; ma bisogna riconoscere che l'impressione di spavento e la preoccupazione per la agitazione delle masse popolari e per la propaganda e il movimento socialista erano allora comuni in tutte le classi dirigenti.

Ho ancora vivo il ricordo del mio primo e del mio ultimo incontro con lui. La prima volta venni a contatto seco alla sua assunzione al trono, quando la Corte dei Conti si recò a presentargli in corpo gli omaggi. Io ero allora segretario generale della Corte ed avevo trentasette anni, ma ne dimostravo molto meno, ed il Re si rallegrò meco della mia giovinezza, al che io risposi: — Così spero di potere servire Vostra Maestà per molti anni. — Più tardi, dopo che ero stato Ministro del Tesoro, mi nominò membro del consiglio dell'Ordine Mauriziano, dove fra gli altri consiglieri, tranne il Villa, il più giovane aveva ottant'anni.

L'ultima volta l'avevo visto dopo gli insuccessi della politica reazionaria, a Savigliano, nell'occasione dell'inaugurazione di un monumento nel suo paese nativo al generale Arimondi, morto in Africa; ed egli si era mostrato meco molto cordiale, trattenendomi a lungo a conversare seco. Rammento che le ultime parole in quella occasione furono queste: — Si ricordi che le sono amico. —

Il Ministero Saracco poco fece, del resto, in qualunque campo, causa anche la sua breve durata; e cadde per avere prima sciolto la Camera del lavoro di Genova, col quale provvedimento si attirò l'opposizione della parte liberale e della Estrema; poi, per aver permesso, allarmato di quella opposizione, che fosse ricostituita, il che gli tirò addosso i conservatori. Nella mia opinione, come io pensavo che l'esperimento liberale dovesse compiersi sino in fondo, e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e toccava, come osservai in un discorso pronunciato durante la grande discussione che seguì a quell'avvenimento, le più alte questioni di diritto e di politica interna, sopratutto nel rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il Governo nei conflitti fra capitale e lavoro; ed a mio parere la pace sociale dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti. Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati, persisteva ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti nelle Provincie, la tendenza a considerare come pericolose tutte le associazioni di lavoratori; tendenza che era l'effetto di scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili, e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso generale della civiltà.

Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché benevolo da parte del Governo, il cui compito invece avrebbe dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di cittadini. Un Governo, che non interveniva mai, e non doveva di fatto intervenire, quando i salari erano bassissimi; non aveva alcuna ragione di intervenire, come qualche volta faceva, quando la misura del salario, per la legge economica della domanda e dell'offerta, avesse pure raggiunto una cifra che ai proprietari paresse eccessiva. Questa non era funzione legittima del Governo.


La ragione principale per cui si osteggiavano le Camere del lavoro, era appunto questa: che l'opera loro tendeva a fare aumentare i salari. Ma se tenere i salari bassi poteva essere un interesse degli industriali, nessun interesse poteva avervi lo Stato. Ciò a prescindere dal fatto che è un errore ed un pregiudizio credere che il basso salario giovi ai progressi dell'industria; salari bassi significano cattiva nutrizione, e l'operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, e i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale. Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri contadini: anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non produce.

Ad ogni modo però, a mio avviso, quando il Governo, come allora usava, interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una ingiustizia, e più ancora un errore economico ed un errore politico. Una ingiustizia, perchè mancava al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe in favore di un'altra. Un errore economico, perchè turbava il funzionamento della legge economica della domanda e dell'offerta, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Ed infine un errore politico, perchè rendeva nemiche dello Stato quelle classi che costituiscono la grande maggioranza del paese. Il solo ufficio equo ed utile dello Stato in queste lotte fra capitale e lavoro è di esercitare un'azione pacificatrice, e talora anche conciliatrice; ed in caso di sciopero esso ha il dovere di intervenire in un solo caso: a tutela cioè della libertà di lavoro, non meno sacra della libertà di sciopero, quando gli scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare.


Ora a me pareva che a questi concetti liberali la condotta del Governo venisse meno osteggiando l'azione delle Camere del lavoro. Le Camere del lavoro non avevano per se stesse nulla di illegittimo; esse erano le rappresentanti degli interessi delle classi operaie, con la legittima funzione di cercare il miglioramento di quelle classi, sia nella limitazione ragionevole delle ore di lavoro, sia nell'aumento dei salari, sia nell'insegnamento che giovasse ad accrescere sempre più il valore della loro opera; ed io consideravo che se bene adoperate dal Governo, esse avrebbero potuto essere intermediarie utilissime fra capitale e lavoro. E come c'erano le Camere di Commercio regolate per legge, io non vedevo alcuna ragione perchè lo Stato non potesse, anzi non dovesse disciplinare legislativamente le Camere del lavoro, mettendo così allo stesso livello, di fronte alla legge, tanto il capitalista che il lavoratore, ognuna delle due parti con la sua legittima rappresentanza riconosciuta dallo Stato. Si era per molto tempo tentato di impedire le organizzazioni dei lavoratori, temendone l'azione e l'influenza. Per conto mio io credevo assai meno temibili le forze organizzate che non quelle inorganiche, perchè sulle prime l'azione del Governo si può esercitare efficacemente ed utilmente, mentre contro i moti disorganici non vi può essere che l'uso della forza.

Ma ormai, a chi conosceva le condizioni del nostro paese, come pure le tendenze generali del mondo civile, era evidente che ostacolare l'organizzazione dei lavoratori era un compito inane. L'unico effetto di una resistenza inconsulta da parte dello Stato sarebbe stato quello di dare sempre più un fine politico a quelle organizzazioni le quali non dovrebbero avere che un fine economico nell'interesse delle classi lavoratrici.

Per il caso speciale di Genova, i conservatori portavano appunto avanti, come uno scandalo, il fatto che esso avesse assunto anche carattere politico. E questo era una ingenuità, perchè chi conosceva il movimento operaio, quale si era andato svolgendo in. quegli anni specialmente nell'Alta Italia, sapeva perfettamente che gli operai avevano compreso il nesso intimo, indissolubile, che esiste fra le questioni economiche e le questioni politiche; ed a farlo loro comprendere, più che la propaganda dei loro organizzatori, aveva giovato l'azione dei Governi reazionari, dimostratasi costantemente alleata agli interessi delle classi capitaliste contro quelli delle classi popolari, sia nelle lotte fra capitale e lavoro, sia nella legislazione tributaria.


Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo. Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze sorgevano con le quali il Governo doveva fare i conti. Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era moto invincibile, perchè comune a tutti i paesi civili e perchè poggiava sui principi dell'eguaglianza fra gli uomini. Nessuno poteva ormai illudersi di potere impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere, ma coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali ordinamenti politici e sociali. Solo con un tale atteggiamento ed una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari, si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.


Il Ministero Saracco aveva avuto il merito di chiudere la fase della reazione, di uscire dalla strada perigliosa in cui i Governi precedenti da alcuni anni si erano smarriti. Ma esso pareva ormai giunto ad un punto morto, ed episodi come quello dello scioglimento della Camera del lavoro di Genova, mostravano che lo spirito reazionario non era del tutto vinto, e che non era del tutto passato il pericolo che su quella strada noi fossimo ancora respinti; mentre a mio avviso, era ormai giunto il momento di avviarsi risolutamente sulla strada opposta. E la commozione che quei fatti produssero alla Camera, come pure lo svolgimento della susseguente discussione ed il suo esito, confermarono pienamente la giustezza dei miei giudizi, e mostrarono che i concetti da me proclamati  entravano  ormai nella coscienza generale.

Appena il Parlamento si riunì furono infatti presentate numerose interpellanze; e l'on. Sonnino e i suoi amici, che pure avevano sostenuto con tanto accanimento la politica dell'on. Pelloux, presentarono pure una mozione. Secondo il regolamento alla mozione spettava la preoeidenza. Ma siccome quella mozione, pure essendo nettamente contro il Governo, non era esplicita nei suoi termini, e perchè a me premeva, secondo i criteri sovra spiegati, che la votazione si facesse sul punto preciso di non approvare lo scioglimento della Camera del lavoro, io feci presentare dal mio amico, deputato Nicola Fulci, un emendamento alla mozione stessa, il quale emendamento, sempre per ragione di regolamento, doveva essere votato avanti la mozione. Il presidente della Camera, on. Villa, molto legato al Sonnino, insisteva nel volere dare la precedenza alla mozione, ed allora noi gli facemmo sapere che, qualora egli fosse così mancato ai doveri della imparzialità presidenziale, avremmo promosso contro di lui un voto di biasimo. Egli allora si piegò, e dopo un mio discorso l'emendamento fu votato, e il Governo ebbe una minoranza di circa duecento voti.

Seguì una curiosa commedia: il Sonnino, comprendendo che dopo quel voto la opposizione avrebbe votato contro alla sua mozione, e avrebbero pure votato contro i ministeriali, lasciandolo isolato con appena una trentina di amici, dichiarò di ritirarla. Ma l'Estrema Sinistra, d'accordo con l'opposizione costituzionale, e ad impedire ambigue interpretazioni del voto, si oppose al ritiro; le mozioni non potendo essere ritirate quando dieci deputati si oppongano. Tutti i partiti liberali dichiararono allora che avrebbero votato contro, e lo stesso fecero i ministeriali; e l'on. Sonnino e i suoi amici, ad evitare un clamoroso insuccesso, dichiararono che essi pure avrebbero votato contro la mozione da essi stessi presentata, giustificando la loro condotta con l'argomento che non ve n'era più bisogno perchè il Ministero era stato già battuto. Seguì tuttavia la votazione, per appello nominale, con grandi dimostrazioni di ilarità ogni volta che votava contro la mozione uno dei suoi firmatari. Codesta manovra parlamentare, non ostante questa sua conseguenza alquanto comica, aveva però avuta grande importanza, in quanto aveva pienamente chiarita la situazione, dando una indicazione precisa ed assoluta. La chiamata al Governo dei liberali diventava infatti in tal modo inevitabile; e siccome la persona più in vista dei partiti liberali era lo Zanardelli, egli fu unanimemente indicato.


Il Saracco, attribuendo a me la sua caduta, ne ebbe sempre risentimento. Del resto i nostri rapporti erano rimasti freddi fin dal tempo del mio primo Ministero. Il Saracco tenne allora in Senato un discorso, durato due ore, in cui attaccò la finanza del Governo, criticandone ogni provvedimento. Io gli risposi subito, punto per punto, confutando le sue critiche, tranne su due o tre punti, nei quali mi dichiarai d'accordo con lui nel ritenere che si trattava di provvedimenti non utili; soggiungendo però che dovevo fargli notare che quei provvedimenti erano proprio opera sua, di quando egli era ai Lavori Pubblici. Di questa mia risposta egli fu dolente e dopo d'allora i nostri rapporti furono piuttosto freddi. Egli era del resto un uomo di molto ingegno, ma essenzialmente critico, e critico abilissimo; ma che, come gli spiriti essenzialmente critici, poco produceva per conto suo.


Appena ricevuto l'incarico, Zanardelli mi chiamò offrendomi subito di andare seco col portafogli dell'Interno, e chiedendomi di aiutarlo nella formazione del Ministero. Ricordo che Zanardelli abitava in un alloggetto di un suo parente, che non si prestava bene per le necessarie visite e consultazioni, ed io pregai il suo amico Picardi di mettere a sua disposizione un suo appartamento, ciò che egli fece. Le ostilità contro il Ministero in formazione non erano poche, e Zanardelli dopo tre giorni di lavoro era ormai scoraggiato, mancandogli ancora i Ministeri degli Esteri, del Tesoro e dei Lavori Pubblici, ed era in procinto di rinunciare al mandato. Io gli osservai che, avendo già rinunciato una volta, si sarebbe politicamente rovinato del tutto se si mostrava incapace di riuscire una seconda; gli dissi che con nove uomini di buona volontà doveva presentarsi al Parlamento per provocare un voto che mettesse in chiaro la situazione. Il Ministero fu alla fine composto con Prinetti agli Esteri, Giusso ai Lavori Pubblici e Di Broglio al Tesoro, ed ebbe vita abbastanza lunga, durando dal 15 febbraio 1901 al 29 ottobre del 1903.


Quando ci presentammo, in realtà eravamo in minoranza; la parte più conservatrice della Camera non ci vedeva di buon occhio e i sonniniani consideravano che noi avessimo preso il posto loro dovuto. Un primo accenno di modificazione di tale situazione lo si ebbe con l'annullamento dell'elezione di un collegio di Napoli risultata contraria al mio amico Rosano, che fu annullata per brogli. Il voto per quell'annullamento prese un carattere politico, tanto che si fece la votazione a scrutinio segreto, che dette al Ministero una maggioranza di quaranta voti. Fu poi presentata, secondo antiche convinzioni di Zanardelli, la legge sul divorzio, che provocò le dimissioni di Giusso, che non l'approvava, e che fu sostituito da Balenzano; poi il Wollemborg, ministro delle Finanze, presentò alcuni progetti di legge per modificazione dell'ordinamento tributario, ed il Consiglio dei Ministri non avendoli approvati, si dimise egli pure, sostituito da Carcano. Infine si dimise Picardi per motivi di salute ed il suo posto fu preso da Guido Baccelli.


La situazione più delicata per questo primo Ministero, interamente e francamente liberale, dopo un così lungo periodo di politica reazionaria e di politica indecisa, stava appunto nei metodi della politica interna. Noi tutti come partito, ed in particolar modo io personalmente, avevamo combattuta la politica di restrizione delle libertà, sostenendo la necessità che il paese fosse governato coi metodi liberali; ed a noi ora, venuti al potere, incombeva di fare l'applicazione integrale dei principi che avevamo propugnati. Le difficoltà in cui il Governo, e sopratutto io, come Ministro degli Interni, ci trovavamo, erano di duplice origine; perchè da una parte i conservatori, alla Camera in parte, ma più specialmente nel Senato, mantenevano ostinatamente le loro posizioni e le loro tesi, e cercavano in ogni muover di fronda la conferma delle loro apprensioni e dei loro vaticini pessimisti; mentre d'altra parte i partiti più avanzati non si mostravano soddisfatti delle larghe concessioni ottenute ed accusavano il Governo di fare dei passi indietro, o per lo meno di non camminare abbastanza arditamente sulla via della libertà.

Avendo noi, ad esempio, riconosciuto pienamente ii diritto di riunione, i socialisti e gli altri estremi ci rimproveravano quando il Governo interveniva contro riunioni convocate da scioperanti con lo scopo confessato di impedire con la violenza che lavorassero gli operai volonterosi di lavorare. Noi insomma attraversavamo allora un periodo difficilissimo per il sistema liberale, che si attuava allora in tutta la sua pienezza per la prima volta; e che da una parte urtava contro alcuni interessi delle classi più agiate, mentre dall'altra le classi lavoratrici si erano lasciate andare a speranze molto al di là di ciò che fosse possibile realizzare; e non riconoscevano i limiti dei propri diritti e della propria azione, ricorrendo  ad  intimidazioni e  ad atti  assolutamente illegali.

Noi ci trovavamo insomma nella condizione di essere da una parte accusati di lasciare troppo lento il freno e di interpretare troppo largamente le pubbliche libertà, dall'altra di essere considerati come troppo tepidi amici dei principi liberali. Io dovetti così alla Camera pronunciare discorsi in contradittorio con gli onorevoli Mazza, Mirabelli, Turati, osservando loro che, quando si trattava di passare da un sistema restrittivo, quale era stato usato fino ad allora in Italia, ad un sistema di uso larghissimo delle pubbliche libertà, era necessario procedere con grande prudenza, e che ciò che talvolta veniva a noi rimproverato come tiepida amicizia per i principi liberali, era invece una amicizia illuminata e sincera, per cui noi ci sobbarcavamo a prenderci certe odiosità, allo scopo di impedire che l'abuso delle libertà potesse comprometterle, e credevamo di rendere un grande servizio al paese con l'abituarlo all'uso pacifico e tranquillo di queste libertà, impedendo quelle violenze che le avrebbero compromesse.

Lo spirito della reazione certo non aveva ancora disarmato, e sarebbe stato fare ingenuamente il suo gioco e preparare per contraccolpo il ritorno alle misure restrittive, se avessimo tollerato che la libertà degenerasse in licenza, fornendo ai reazionari argomenti impressionanti per le loro tesi. Se non si voleva andare incontro al pericolo di dovere fare dei passi indietro, era indispensabile tenere il debito conto del grado di educazione politica a cui erano giunte le varie regioni del nostro paese; educazione che non si può compiere che con un lunghissimo esercizio delle pubbliche libertà. Il progresso compiuto in Italia in questo campo era evidente, ed io potevo augurarmi che esso continuasse così rapido che l'azione di chiunque dovesse poi assumersi la carica di Ministro degli Interni potesse restringersi a qualche circolare per raccomandare l'esecuzione della legge, senza la necessità di prendere ogni giorno delle grandi precauzioni, e senza essere spesso obbligato, come capitava a me, di assumere delle responsabilità che non erano certo piacevoli.

Ma nel frattempo io avevo ragione di ritenere necessaria, a tal fine, una grandissima prudenza nella stessa condotta del Governo, per giungere a tale scopo senza scosse, senza violenze, e senza passi indietro. E tanto più ciò era necessario in quel momento, dopo che alle questioni puramente politiche che prima occupavano l'opinione pubblica, si erano sovrapposte le questioni economiche e sociali, le quali, toccando interessi diretti, vivi, quotidiani, eccitavano le masse popolari assai più che le questioni politiche, con l'evidente pericolo che esse trasmodassero nel fare valere quelli che consideravano i loro diritti. In codeste discussioni i socialisti più intelligenti finivano spesso per riconoscere la validità delle mie ragioni; e ricordo che il Turati ammetteva che il nostro popolo per molti rispetti era ancora bambino, e che egli e i suoi amici erano i più interessati al mantenimento dell'ordine, allo scopo appunto  di fare salvi i principi  essenziali delle liberta. I repubblicani che. invece avevano scopi più politici, spesso si mostravano malcontenti dei miei metodi; ed una volta il deputato repubblicano Carlo Del Balzo, incominciando un suo discorso, dichiarò che il suo partito temeva più la politica liberale nostra, che quella di un Governo che tendesse a reazione. Ed io colsi l'occasione per rispondergli, sincerità per sincerità, che uno dei fini principali che io mi proponevo con la mia politica interna liberale, era appunto di dimostrare che il partito repubblicano non aveva ragione di essere in Italia.


Al Senato, data la sua composizione e perchè la
grande maggioranza dei suoi elementi rispecchiavano
necessariamente le idee e i sentimenti di una generazione anteriore, io dovevo fare la parte opposta,
e difendere ad ogni momento il Governo dalla critica
dei conservatori, che l'accusavano di cedere alla
piazza e di non difendere con la dovuta energia i
diritti stabiliti. La verità era che certi gruppi di
conservatori confondevano troppo facilmente tali diritti coi particolari interessi delle loro classi, e volevano piegare la interpretazione della legge e la
politica del Governo alla difesa ad oltranza di quegli interessi.

Ricordo particolarmente una lunga di
scussione che io dovetti sostenervi, coi senatori Arrivabene, Vitelleschi, Cadenazzi, Guarmeri, Faina ed
altri, che per la loro posizione sociale e la loro educazione mentale rappresentavano nettamente lo spirito dei grandi proprietari delle campagne contro il
movimento delle leghe dei contadini. L'applicazione
di una politica liberale ed imparziale, nei conflitti fra gli interessi delle varie classi, venendo dopo un lungo periodo di compressione, aveva inevitabilmente dato un grande impulso alle agitazioni popolari; era lo sfogo naturale di istinti, passioni ed interessi che per un lungo tempo non avevano potuto avere voce. Queste agitazioni qualche volta passavano i limiti imposti dalla legge e dal diritto degli altri; mentre i propagandisti socialisti cercavano di sfruttare politicamente le rivendicazioni economiche. Si erano avuti, in pochi mesi, in quaranta provincie oltre centocinquanta scioperi agrari in cui erano stati involti oltre duecentomila contadini; e in quella ampiezza e diffusione del movimento i conservatori volevano vedere sopratutto un disegno ed una organizzazione di carattere politico. Contro queste supposizioni stavano parecchi fatti; e in primissimo luogo la massima parte di questi scioperi, non solo non avevano dato luogo al menomo disordine, ma si erano composti con degli aumenti di pochi centesimi di salario e la diminuzione di qualche mezz'ora nell'orario di lavoro.

Le statistiche poi, con le cifre che io raccolsi e portai nella discussione, dimostravano che i salari dei lavoratori agricoli, specie degli obbligati e dei braccianti, nelle regioni dove gli scioperi erano scoppiati e le leghe di resistenza organizzate, erano di gran lunga inferiori a quelli di altre regioni dove nessuna agitazione si era manifestata; e che in molti casi, non ostante il notevole rincaro della vita, essi presentavano diminuzioni in confronto ai salari oltre vent'anni prima constatati dalla inchiesta Jacini, e già deplorati in quella inchiesta come assolutamente insufficienti agli elementari bisogni della vita. E si era anche potuto constatare che, negli stessi luoghi dove l'agitazione era più grave, e particolarmente nella provincia di Mantova, nella quale le leghe avevano organizzati oltra ventimila contadini;. dove il contadino si trovava in diretto rapporto col proprietario le cose si erano potute aggiustare più facilmente, perchè il proprietario si mostrava generalmente assai più arrendevole; mentre le difficoltà e i conflitti si erario inaspriti dove il contadino si trovava a servizio dell'affittuario, il quale, nella sua qualità di speculatore temporaneo, non dubitava di cercare di fare un maggior guadagno abbassando di qualche soldo la mercede.

Anche un conservatore di vera intelligenza e cultura economica, quale era il senatore Boccardo, riconosceva che il ribassare il salario oltre misura non costituiva nemmeno una buona speculazione per chi adopera il lavoro del contadino, perchè se questi non ha ciò che è necessario alla propria esistenza, non può dare nemmeno un lavoro utile; ma gli affittuari speculatori del Mantovano e di altre Provincie a salari agrari bassissimi, non erano degli economisti che sapessero e volessero tener conto di  queste  verità  generali  e superiori.


E non erano né economisti né saggi uomini politici quei conservatori del Senato che insistevano perchè il Governo risolvesse in loro favore ad ogni modo e con qualunque mezzo quei conflitti economici, e che presentavano particolarmente due domande; cioè che le leghe dei contadini venissero sciolte e in caso di bisogno si usasse l'esercito per fare i raccolti, quando i lavoratori persistessero nello sciopero.

Per la prima io ricordai nei miei discorsi al Senato, che l'esperimento della forza aveva già dati pessimi risultati; e che lo Stato la sua forza doveva dimostrarla essenzialmente tenendosi entro i limiti della legge, senza offendere le libertà garantite dallo Statuto egualmente a tutti i cittadini. L'organizzazione delle leghe di resistenza era legittima; nulla contro la legge potevasi accusare nei loro programmi e nella loro lotta pacifica pei miglioramenti economici; le loro domande erano pure entro i limiti della equità, perchè le misure di salario richieste erano così discrete, che con tali salari in molte parti d'Italia non si sarebbero trovati lavoratori; e se in tali condizioni il Governo fosse intervenuto contro le leghe, ciò avrebbe avuto per solo effetto di condurre le masse dei lavoratori a considerare il Governo come loro nemico, in quanto avrebbe violata la legge a beneficio di una parte contro l'altra, ed arrecando a questa danni economici gravi. Il Governo non aveva che due doveri, quello di mantenere l'ordine pubblico ad ogni costo, e di garantire nel modo più assoluto la libertà del lavoro; e a questi doveri esso aveva pienamente adempiuto.

E in quanto alla domanda, che mi faceva  il  senatore  Faina,  se il  Governo  sarebbe  intervenuto con l'esercito per sostituire gli scioperanti, se questi si rifiutassero di compiere i raccolti, io dichiarai nettamente che non ero disposto a seguire quella via per tre ordini di ragioni: perchè la credevo non legale; perchè la consideravo non politica, ed infine perchè non si trattava di un servizio pubblico, nessuno potendo sostenere che mietere del grano per conto di privati fosse un pubblico servizio. C'è sempre, veramente, un interesse generale a che i raccolti non siano perduti, al modo che è d'interesse generale che gli affari si svolgano proficuamente, che le industrie procedano regolarmente e che i commerci risultino vantaggiosi, tutto questo contribuendo a formare la ricchezza nazionale. Ma si tratta però sempre di un interesse privato, tanto che se un proprietario dichiarasse di non volere mietere il suo grano o vendemmiare la sua uva, nessuno potrebbe costringerlo. Impolitico, perchè adottando il sistema di sostituire il lavoratore libero con l'esercito, il Governo prenderebbe ingiustamente parte nella lotta fra capitale e lavoro, parteggiando pel capitalista, e la moltitudine dei lavoratori ne riceverebbe l'impressione che l'esercito, che rappresenta l'intera nazione, fosse un loro nemico. Impossibile infine nell'attuazione, perchè se era stato agevole trovare nell'esercito tanti mietitori che potessero compiere quei lavori quando si era trattato dei raccolti di due o tre comuni, sarebbe invece impossibile che l'esercito fornisse tutte le braccia necessarie quando i conflitti agrari si erano estesi per molte provincie.

Inoltre dare ai proprietari l'illusione che all'ultimo momento essi potrebbero avere a loro disposizione l'esercito, avrebbe avuto l'effetto di farli ancora più restii a concessioni eque e ragionevoli, con l'ultima conseguenza di rendere più difficile la soluzione dei conflitti.


Codesti argomenti, la cui validità cominciava ormai ad essere generalmente riconosciuta nel mondo politico, trovavano ancora molti spiriti chiusi fra gli elementi conservatori che formavano molta parte del Senato. Tale resistenza a riconoscere le nuove necessità dei tempi, si dimostrò nell'atteggiamento preso da questi conservatori per la votazione del bilancio degli Interni. Quando la votazione avvenne io mi trovavo alla Camera, dove fui avvicinato dal mio collega Di Broglio, che ritornava dal Senato e che mi disse: — Devo darti una non buona notizia; il tuo bilancio è passato al Senato con soli tre voti di maggioranza. — Io gli risposi: — Ce ne sono due più del bisogno, — e questo non era un semplice motto di spirito, perchè in realtà le difficoltà che io avevo a fare accettare la mia politica al Senato, servivano a mostriare a quegli elementi della Camera che andavano all'eccesso opposto, l'esistenza di limiti che non potevano essere impunemente sorpassati.


A parte la linea di politica liberale adottata e lealmente mantenuta, senza restrizioni e concessioni ai  reazionari  e  senza  dedizioni  e  debolezze  verso gli estremisti, il Ministero Zanardelli non potè far molto nel campo della legislazione e in quello dell'amministrazione, forse anche per ragione della ormai declinante salute del suo Capo. Alcune riforme furono però condotte in porto; furono così approvate la legge per lo sgravio del dazio sulle farine; quella su gli infortuni sul lavoro e l'altra sul lavoro delle donne e dei fanciulli; fu istituito l'Ufficio del lavoro e presentata una legge per i probiviri nell'agricoltura; si provvide alla cura dei poveri colpiti di malaria o di pellagra, e si rese giustizia ad alcune eque domande dei ferrovieri.

Ma le grosse questioni rimanevano sospese: quella dell'esercizio delle ferrovie, perchè le Convenzioni ferroviarie scadevano il 30 giugno del 1905, ed era necessaria una lunga preparazione sia che si volesse rinnovare le Convenzioni, sia che si preferisse addivenire all'esercizio di Stato; e quella dei trattati di commercio, che scadevano al 31 dicembre del 1903. Vedendo che in tali materie nulla si faceva non ostante le mie sollecitazioni io colsi un'occasione che si presentò nelle discussioni della Camera per dare le dimissioni, il 21 giugno del 1903.

Vi era stata alla Camera un appassionato dibattito per una inchiesta su la marina militare, a cui il Ministero si opponeva. La votazione diede una scarsissima maggioranza ed ottenuta anche col concorso di deputati di opposizione della Destra, che erano pure contrari all'inchiesta, ma che dichiararono di dare il loro voto senza significato di fiducia.  Io ritenni che dopo tale votazione il Ministero non avesse più l'autorità necessaria per affrontare i gravi problemi d'ordine amministrativo che si dovevano risolvere, e allo Zanardelli dichiarai il mio avviso della convenienza, in tali condizioni, che il Governo si dimettesse. Il mio consiglio non essendo stato seguito, io detti le dimissioni per conto mio. L'occasione era costituzionalmente corretta. Tornato al mio banco di deputato, non volendo fare nulla contrario ai miei antichi colleghi, votai sempre in favore del Governo.


Più tardi doveva venire in Italia lo Czar, per una visita al Re; ma i socialisti sollevarono una agitazione, proponendosi di fargli delle accoglienze ostili. Da Pietroburgo furono mandati in Italia degli agenti speciali, i quali riferirono che la sicurezza dello Czar non era abbastanza garantita, e la visita fu rimandata. Intanto le condizioni di salute dello Zanardelli si erano fatte sempre più gravi, ed egli nell'ottobre si dimise, ritirandosi nella sua villa sul lago di Garda, dove morì pochi mesi dopo.

VIII.
Il Ministero del 1903.
Il problema ferroviario e i trattati di commercio.
La questione meridionale.
Lo sciopero generale e le elezioni.


La formazione del Ministero: uomini nuovi — Una campagna di calunnie e la tragica fine di Rosano — L'invito a Turati e il rifiuta dei  socialisti — Inizio di riforme  sociali, economiche e finanziarie
—La rinnovazione dei Trattati di commercio — Perchè si addivenne all'esercizio ferroviario di Stato — Lo sciopero dei ferrovieri e la loro militarizzazione — Vasta opera di legislazione e riforme — Epidemia di scioperi; sua ragione ed effetti economici — Lo sciopero generale, come fu affrontato e suo fallimento — Le elezioni e il loro risultato conservatore — L'istituto internazionale d'agricoltura
—La visita a Roma di Loubet — Mia visita a Bülow ad Homburg — Una malattia mi obbliga alle dimissioni.



Dopo le dimissioni dello Zanardelli, e in seguito alle ordinarie consultazioni, io fui chiamato dal Re, che mi offerse l'incarico della formazione del nuovo Ministero, dicendomi che le indicazioni da parte degli uomini parlamentari erano state presso a che unanimi sul mio nome.


Non ostante questa quasi unanimità di designazione, io incontrai non poche difficoltà a compiere l'opera che mi era stata affidata. Anzitutto io dovetti pormi questo problema: — Avevo fatto parte,. sino a tre mesi addietro, del gabinetto Zanardelli nel quale avevo degli amici carissimi; ma v'erano pure dei ministri che non mi parevano assolutamente adatti alla giusta trattazione dei problemi grossi ed urgenti che il nuovo governo era chiamato a risolvere; primissimi fra i quali quelli dell'esercizio ferroviario e della rinnovazione dei trattati di commercio. Non parendomi conveniente scegliere fra coloro che sino a poco tempo prima erano stati miei colleghi, decisi di non prendere alcuno degli uomini che avevano appartenuto al Ministero precedente. Questa decisione, dettatami dallo scrupolo di evitare qualunque apparenza di giudizio su antichi miei colleghi, suscitò invece non pochi malumori, moltiplicandomi intorno difficoltà, ostilità e guai; i quali pur troppo culminarono in uno degli episodi più tristi che ricordi la vita politica italiana.


Avevo chiamato alle Finanze un mio antico amico, il deputato Rosano, che era già stato sottosegretario agli Interni nel mio primo Ministero; e che avevo avuto ragione di apprezzare grandemente, per la sua vivissima intelligenza e la sua grande onestà e delicatezza morale. Appena egli fu nominato, cominciò una campagna di attacchi furibondi da parte di alcuni giornali, specie socialisti e radicali, diretti contro di lui personalmente; ma con l'evidente scopo di combattere il nuovo Ministero alla sua stessa formazione. A pretesto di questi attacchi fu preso il seguente fatto : un certo Bergamaschi, suddito russo che viveva in Italia, era stato denunciato, al tempo delle persecuzioni di Crispi contro il movimento socialista, come rivoluzionario e proposto pel domicilio coatto. Costui si era rivolto al Rosano, come avvocato, per essere difeso; ed il Rosano aveva compilata a sua difesa una lunga memoria legale, estesa su carta bollata, e recante la sua firma; memoria che si trovava ancora negli archivi del Ministero degli Interni.

I motivi addotti dal Rosano in favore del suo patrocinato, avevano persuaso il governo, ed il provvedimento minacciato contro il Bergamaschi non era stato eseguito. L'ufficio legale del Rosano aveva, in seguito a questo risultato dell'opera prestata da lui come avvocato, inviata al Bergamaschi una parcella di lire quattromila; e da questo fatto assolutamente legittimo si era preso pretesto alla campagna, accusando il Rosano di essersi fatto pagare, non come avvocato ma come deputato. Il Rosano, che era di una estrema sensibilità, si accorò talmente di questa indegna accusa, reiterata in modo violento da parte della stampa, che in un momento di sconforto si uccise. Prima di uccidersi mi indirizzò la seguente lettera:
«Caro Giolitti. — Ho avuto, devi convenirne, un coraggio superiore sinora, ma ora non resisto più. Cedo, e sono innocente: ho ignorato la lettera, non conosco il telegramma; è falso il fatto della grazia.
«Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine come di affetto per te!
«Bacio la mano alla tua Signora, sempre per me tanto buona; mi ricordo  ai tuoi tutti,  e ti stringo per l'ultima volta al cuore con affetto fraterno.
«Dai tu per me un saluto ai colleghi tutti di otto   giorni.   —  Tuo   Pietro   Rosano».


Questa dolorosa lettera trovata sul tavolo nella stanza della sua casa a Napoli, dove il Rosano si era ucciso, mi fu mandata dal Golosimo dopo che mi era già arrivata la notizia della sua morte. Il triste avvenimento fece una penosissima impressione non solo su coloro che avevano conosciuto il Rosano e ne avevano apprezzato sempre l'ingegno e la rettitudine, ma anche sul pubblico generale, provocando una universale indignazione sul malcostume di metodi di lotta politica che furono giustamente qualificati da molta parte della stampa come equivalenti all'assassinio.


Al Ministero degli Esteri io avevo preso il Tittoni, allora prefetto a Napoli. Anche codesta nomina dette luogo a grandi attacchi, perchè pareva strano che si affidasse il Ministero degli Esteri a chi fino al momento di assumerlo non aveva avuto pratica di cose diplomatiche. Ma il fatto era che la carriera diplomatica non presentava allora alcuno che, oltre le particolari esperienze della diplomazia, possedesse le qualità necessarie per adempiere le funzioni di ministro e sostenere le discussioni richieste dal regime parlamentare, alle quali il Tittoni si era allenato nella sua carriera di deputato. Anche contro  il Tittoni  furono  sferrati  attacchi  furibondi, in base ad accuse delle quali egli, appena il Ministero si presentò alla Camera, seppe difendersi validamente.

Che poi non fosse un concetto errato chiamare alle responsabilità della politica estera uomini nuovi alla diplomazia, ma che avessero giù dato prova di intelligenza e capacità nel campo politico generale, lo dimostrò il Tittoni stesso, che nelle sue funzioni diplomatiche, sia come ministro sia come ambasciatore, riuscì certamente uno dei più stimati, ed anche l'esperienza susseguente ha dimostrato che, a parte qualche eccezione, riesce meglio ad un uomo parlamentare di valore di diventare un buon diplomatico, che ad un buon diplomatico di acquistare le qualità necessarie nel Parlamento.

Al Tesoro avevo chiamato il Luzzatti, in considerazione sia della sua grande competenza in materia finanziaria, sia della sua preparazione veramente eccezionale in tutto ciò che concerneva i trattati di commercio. E siccome poi la questione delle questioni, che il governo era chiamato a risolvere, era quella dell'esercizio delle ferrovie, in quanto le Convenzioni con le società private scadevano il 30 giugno del 1905, e c'era appena il tempo necessario per la necessaria preparazione, sia che si addivenisse all'esercizio di Stato, come poi accadde, sia che si concordassero Convenzioni nuove; io mi occupai di cercare una persona che avesse nella materia speciale competenza. E così chiamai ai Lavori Pubblici il deputato Francesco Tedesco, che in quel Ministero aveva compiuta la sua carriera, e che fra l'altro era stato anche segretario della Commissione d'inchiesta sulle condizioni del personale ferroviario, della quale era Presidente il deputato Gagliardo.

Al Ministero della Istruzione chiamai l'onorevole Orlando, che pure non era stato mai ministro. Anzi l'intero Ministero, con l'eccezione mia e dell'onorevole Luzzatti, riuscì composto di uomini che diventavano allora ministri per la prima volta; — ricordo oltre i nominati, Ronchetti alla Giustizia; Angelo Majorana, che dopo un breve interim del Luzzatti, in seguito al suicidio del povero Rosano, prese la Finanze; Pedotti alla Guerra; Rava all'Agricoltura; Stelluti-Scala alle Poste, e l'ammiraglio Mirabello alla Marina.

Del resto io ho sempre cercato di mettere alla prova del governo uomini nuovi; l'avevo già fatto nel mio primo Ministero e lo feci in tutti i miei Ministeri susseguenti; ubbidendo in ciò al criterio di allargare il più possibile il personale politico atto alla pratica degli affari e sperimentato nella realtà delle cose. Gli uomini che si danno alla carriera politica entrano nel parlamento con un certo bagaglio di idee e di dottrine derivate dai loro studi, e con l'abitudine e la capacità alla discussione critica e polemica; quello che generalmente manca loro, a parte le attitudini naturali, è la pratica del trattamento delle questioni concrete, con la conseguenza di scarsa consapevolezza dei limiti entro i quali quelle idee e quelle dottrine possono avere una ragionevole e benefica applicazione. Agli uomini politici che passano dalla critica  all'azione,  assumendo  le responsabilità del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le loro idee; ma in verità ciò che accade, non è che essi le mutino, ma le limitino adattandole alla realtà e alle possibilità dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente. Questa educazione degli uomini parlamentari alla pratica del governo, ha inoltre un benefico effetto sulle stesse discussioni parlamentari; ed io ho potuto sempre constatare che una assemblea politica, più contiene uomini pratici e più ha attitudine a trattare sul serio, con criteri positivi, gli affari del paese, evitando   le vuote divagazioni dottrinarie.


Questo stesso concetto, di richiamare gli uomini ed i partiti alla realtà ed all'operosità pratica, mi determinò anche ad invitare l'onorevole Turati ad entrare nel mio Ministero. Io pensavo, che siccome il mio intendimento ed il programma del Governo era di continuare, senza riserve e senza deviamenti, in quella politica di libertà a cui il Partito socialista aveva sempre data la sua approvazione, fosse logico che questo Partito partecipasse al Ministero che io stavo formando. Quindi, a mezzo del Prefetto di Milano, senatore Alfazio, invitai l'onorevole Turati a venire a Roma a conferire meco. L'onorevole Turati mi rispose che una sua venuta a Roma in tempo di crisi ministeriale avrebbe provocato una quantità di chiacchiere, e che credeva più conveniente che io parlassi col Bissolati, che si trovava a Roma, e che era in tutto d'accordo con lui. Il Bissolati venne infatti da me, ed avemmo insieme una lunga conversazione nella quale io gli spiegai le mie idee e
gli dissi le ragioni per le quali, a mio avviso, il
Partito socialista avrebbe ben fatto a collaborare
in un Ministero il quale, oltre mantenere l'indirizzo
liberale già dato alla condotta del governo, avrebbe
fatta anche nel campo economico una politica di
aiuto alle classi popolari.

Alle mie ragioni il Bissolati, pure mostrando di apprezzarle per sé stesse,
obbiettò che una partecipazione dei socialisti al potere gli pareva prematura, sopratutto perchè essa
non sarebbe stata compresa dalle masse, ancora imperfettamente educate alla vita politica; e questa
sua obbiezione egli mantenne contro le mie insistenze,
così che io dovetti rinunciare all'idea di fare entrare
i socialisti nell'orbita delle istituzioni e dell'azione
positiva di governo.    


Io non credo che l'impressione ed il giudizio del Turati e del Bissolati sulla immaturità delle masse popolari alla partecipazione al governo, corrispondesse alla reale condizione delle cose, perchè la mia esperienza è che nelle masse il buon senso domina più che generalmente non si creda. Era però vero che anche in quel momento, come poi, una grossa parte degli agitatori, propagandisti ed organizzatori socialisti, molti dei quali di origine borghese e di cultura dottrinaria, insistevano particolarmente sui giornali e nei comizi, sulle formule rivoluzionarie e sui dogmi estremi del socialismo, ostacolando in ogni modo l'azione di coloro che sentivano l'opportunità di rivolgere le forze del partito e delle masse che ad esso facevano capo, a criteri più moderati e positivi.

E ne ebbi una prova anche in quella occasione, in quanto gli agitatori più scalmanati, non solo del partito socialista, ma anche fra i repubblicani e i radicali, si proponevano di iniziare un periodo di violenza all'aprirsi della Camera. Di questa cosa io mi preoccupai, sopratutto perchè una tale condotta da parte di elementi di Estrema Sinistra avrebbe avuto il solo effetto di giovare ai reazionari, confermando le loro accuse sui pericoli della politica liberale. Io feci quindi avvicinare alcuni degli uomini più autorevoli di quei partiti, quali il Turati, il Marcora e il Romussi, per fare loro presente questo pericolo, invitandoli a procurare che ai propositi di violenza si sostituisse un'azione seria di pensiero e di programma, fosse pure con netta opposizione al mio Ministero; ed ebbi da loro a questo riguardo le più ampie assicurazioni. Vero è che lo spirito di violenza che era diffuso in questi partiti, o per meglio dire, in una parte dei loro capi, si manifestò più tardi, conducendo all'esperimento dello sciopero generale, che fallì del tutto, e provocò anzi una reazione generale che dette pienamente ragione ai miei ammonimenti.


Presentandomi al Parlamento io riaffermai il proposito di continuare quella politica della più ampia
libertà,  nei  limiti  della  legge,  la  cui   applicazione
in un periodo di tre anni aveva dati i migliori frutti, conducendo ad una larga pacificazione sociale ed apportando nello stesso tempo notevoli benefici ai lavoratori dei campi e delle officine. Ma la libertà, se è indispensabile al progresso di un popolo civile, non è fine a sé stessa; ed io insistevo particolarmente, ora che il consenso della grande maggioranza degli italiani al regime liberale era assicurato, su la necessità di iniziare un periodo di riforme sociali, economiche e finanziarie; poiché le classi meno agiate della nazione attendevano il miglioramento della loro vita da un aumento nella prosperità economica del paese.

Ho già osservato come i due problemi che in quel momento incombevano con maggior urgenza sulla vita del paese, fossero quello delle ferrovie e quello dei trattati di commercio; a questi si dovevano aggiungere l'alleviamento dell'onere del debito pubblico e la cura pel miglioramento delle condizioni economiche delle provincie meridionali, che più ancora che una necessità politica, dopo tante promesse fatte da successivi governi e scarsamente mantenute, doveva considerarsi come un vero dovere nazionale. La riduzione dell'onere del debito pubblico non doveva, nel mio pensiero e nel mio programma, considerarsi come una semplice questione di bilancio. Il vantaggio di circa sessanta milioni che ne sarebbe derivato al bilancio dello Stato avrebbe dovuto darci il modo di affrontare una seria riforma tributaria, già dichiarata necessaria da ogni governo, allo scopo di sollevare le condizioni delle  classi  meno  agiate,  sia  sgravando
Il Ministero del 1903  certe tasse sui consumi, sia introducendo nel sistema tributario un ragionevole criterio di progressività a favore dei piccoli proprietari.

Questi concetti ottennero una larga approvazione nel Parlamento e nel Paese; e non ostante l'opposizione formalistica dei socialisti e degli altri elementi di Estrema Sinistra che pure pretendevano di rappresentare quelle masse nel cui interesse erano proposti, poterono subito essere parzialmente tradotti in leggi, con la cordiale collaborazione dei partiti liberali, che veramente seppero rappresentare in quel periodo gli interessi generali e superiori del paese.


Nell'opera più specialmente concreta di governo, la prima questione che dovemmo affrontare fu quella dei trattati di commercio i quali, come ho già detto, scadevano fra due mesi, al 31 dicembre 1903. Non trovammo in proposito la menoma preparazione; ricordo anzi che quando ne parlai la prima volta con l'ambasciatore d'Austria, questi mi dichiarò che già dal mese di maggio egli aveva presentato al Ministero degli Esteri, da parte del suo governo, un progetto di trattato; e che solo alla fine di settembre ne aveva avuto notifica di ricevuta, senza alcuna comunicazione in merito. E con tutti gli altri paesi si era nelle medesime condizioni. Di fronte ad un tale stato di cose non ci fu altro da fare che concludere con grandissima fretta degli accordi provvisori, per preparare poi per l'anno dopo la negoziazione e la conclusione dei trattati permanenti. Il lavoro per i negoziati definitivi fu poi preparato; ed i negoziati stessi condotti in modo veramente ammirevole dal Ministro del Tesoro, onorevole Luzzatti, che in tale opera potè fare valere tutta la sua dottrina e la sua esperienza.

Noi ci eravamo proposti, secondo criteri che erano stati largamente discussi ed approvati dal Parlamento, di favorire in questo nuovo assetto commerciale, gli interessi più larghi dell'agricoltura, pure preoccupandoci di mantenere all'industria italiana, ancora giovane, quella ragionevole protezione che valesse ad assicurarne la consolidazione e l'incremento: e questi nostri propositi, grazie all'abilità dei nostri negoziatori furono pienamente adempiuti, procurando al paese un complesso di benefizi superiori anche a quanto il governo stesso potesse sperare di ottenere nelle condizioni in cui allora si trovavano quasi tutti i paesi civili, dominati da irresistibili correnti protezioniste. In meno di un anno noi riuscimmo a stipulare i trattati definitivi con la Germania, l'Austria-Ungheria, la Svizzera e il Brasile, e ad avviare alla conclusione quelli con la Russia e gli altri paesi per noi commercialmente più importanti.


Per il problema dell'esercizio ferroviario, io, pure non pronunciandomi ancora definitivamente in favore dell'esercizio di Stato, mi resi conto sino dal principio che quale potesse essere la decisione definitiva, incombeva al governo il dovere assoluto di studiare in tutte le sue parti il sistema dell'esercizio statale, di tracciarne tutte le linee e prepararne i quadri come se ad esso si dovesse in ogni modo addivenire; essendo evidente che senza una tale minuta e precisa preparazione lo Stato, non avendo questa alternativa dell'esercizio diretto, si sarebbe trovato in condizione di assoluta inferiorità nel trattare con le Società e ne avrebbe dovuto subire le condizioni. E mi preoccupai anche di trovare l'uomo adatto ad assumere la responsabilità dell'esercizio statale; anzi ebbi ripetutamente a dichiarare in Consiglio dei ministri che non mi sarei mai assunta la responsabilità dell'esercizio di Stato, se quest'uomo non si fosse trovato.

Fra i candidati presi in considerazione, l'uomo che mi parve subito il meglio indicato, sia per capacità tecnica, sia pel suo giudizio equilibrato e sicuro, fu il Comm. Riccardo Bianchi, che teneva allora la Direzione delle ferrovie sicule. E l'opera del Bianchi corrispose in tutto alla mia aspettazione; e sotto la sua sapiente direzione le ferrovie italiane, consegnate dalle Società allo Stato in condizioni di deteriorazione gravissima, furono, in volgere di tempo relativamente breve, condotte ad una efficienza tale da non temere il paragone con quelle meglio organizzate degli altri paesi. Devo anche ricordare ad onore del Bianchi, che noi, per ottenere la sua opera, eravamo disposti a fargli condizioni specialissime; ma egli, interrogato in proposito dal Ministro Tedesco, dichiarò di non richiedere emolumenti superiori a quelli che ricavava dal posto che allora occupava, posto che certamente implicava minore lavoro e minore responsabilità che non la direzione delle Ferrovie dello Stato.

Contro l'attuazione dell'esercizio ferroviario di Stato sono state levate molte ed aspre critiche, specie in questi ultimi tempi, forse per le condizioni in cui questo servizio, sia nell'aspetto tecnico e finanziario, che in quello morale del personale, è caduto dopo la guerra. Ma non è giusto fare risalire al principio ed all'attuazione, per lungo tempo esperimentata ottima, dell'esercizio di Stato, le conseguenze finanziarie e morali che sono derivate dalla guerra non solo in questo, ma presso che in ogni altro campo della vita sociale e nazionale. E bisogna pur ricordare che l'esercizio di Stato delle ferrovie durante la guerra funzionò in modo ammirevole. Né si può dare un equo giudizio di una deliberazione, prescindendo dalle condizioni speciali in cui essa fu presa. Il ponderoso problema dell'esercizio delle strade ferrate fu allora studiato dal governo, con la collaborazione di una Commissione parlamentare ottimamente scelta, senza alcun preconcetto, e tenendo conto di tutti i complessi elementi, materiali e morali, di cui era composto. E di due punti particolarmente dovemmo tener conto: delle condizioni tecniche in cui le ferrovie si trovavano, e delle condizioni morali del personale.

Pel rispetto tecnico le ferrovie erano ormai state ridotte a condizioni deplorevoli; le Società esercenti avevano seguita quella pratica che nelle campagne toscane si chiama del «lasciapodere», sfruttando le reti e il materiale ferroviario sino agli estremi, e lesinando sino all'inverosimile nelle manutenzioni. Tale condotta aveva anche essa le sue ragioni, nell'incertezza in cui le Società si trovavano riguardo al rinnovamento o meno delle Convenzioni ferroviarie ed alle condizioni in cui avrebbe potuto avere luogo; ma pertanto l'effetto di tale politica di aspettazione era questo, che nei calcoli più modesti non sarebbe occorso meno di un miliardo per rimettere le ferrovie in assetto tale da corrispondere al crescente sviluppo della vita economica del paese. Questa enorme somma avrebbe dovuto essere spesa dallo Stato; e nessuno può non rendersi conto delle complicazioni e difficoltà che sarebbero risultate dalla coincidenza di questa grossa spesa patrimoniale, spettante allo Stato, con l'esercizio privato delle ferrovie.

Né meno gravi si presentavano le difficoltà e complicazioni che risultavano dallo stato d'animo del personale, ormai irreparabilmente straniato dalle Società; straniamento del quale la maggiore responsabilità risaliva alle Società stesse, che non avevano trattato con equità i loro dipendenti, come il governo stesso ed il Parlamento avevano già potuto constatare. Conviene fra l'altro ricordare che le Società, non ostante le replicate istanze del personale, si erano sempre rifiutate di stabilire delle norme generali e precise per le nomine e le promozioni; e la questione aveva dato luogo a conflitti così minacciosi che già i governi precedenti avevano dovuto nominare una Commissione d'inchiesta sulle condizioni fatte dalle Società al loro personale. Questa Commissione presieduta, come ho detto, da un uomo di grande equità e moderazione, quale era il deputato Gagliardo, e di cui era segretario l'on. Tedesco, dovette constatare che in realtà il trattamento fatto al personale delle ferrovie non rispondeva alle elementari norme di equità, e propose una serie di provvedimenti che correggessero le ingiustizie più palesi e stridenti.

Ma nulla fu realmente fatto, e i conflitti fra personale e società continuarono inasprendosi sempre più; tanto che io stesso, quando ero Ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli, proposi di chiamare a Roma i rappresentanti del personale, che aveva allora costituito il Fascio ferroviario, per sentire le loro ragioni. Una Commissione di ferrovieri venne e fu ricevuta da me insieme con lo Zanardelli; e dopo un lungo colloquio ne ricevemmo entrambi la chiara impressione che molte delle loro lagnanze fossero pienamente giustificate e che per considerazioni di equità qualche provvedimento fosse richiesto. Ma le Società resistevano a qualunque concessione, adducendo sempre che il loro contratto stava per scadere, e che esse non potevano assumere impegni se non quando sapessero se le Convenzioni sarebbero state rinnovate, ed a quali condizioni. I conflitti in seguito a questa resistenza si moltiplicarono; ed infine i ferrovieri, lasciandosi trascinare dagli estremisti, a cui la resistenza delle Società faceva buon gioco, minacciarono lo sciopero generale.

Pure non disconoscendo che i ferrovieri avevano giuste ragioni di lagnanze, il Governo non poteva permettere che le conseguenze di un conflitto di una particolare categoria si ripercuotessero in un danno generale del paese, quale sarebbe derivato dallo sciopero dei grandi mezzi di trosporto. Io allora escogitai, per evitarlo, un mezzo che si dimostrò efficacissimo. Considerando che una fortissima percentuale del personale ferroviario aveva ancora l'obbligo militare, io proposi precisamente la militarizzazione dei ferrovieri, la quale assoggettando alla disciplina militare tutti coloro che erano iscritti ai quadri dell'esercito, rendeva lo sciopero impraticabile, ed assicurava il servizio. Di questa mia idea io non parlai che col Presidente del Consiglio, essendo evidente che perchè la cosa potesse riuscire senza provocare disordini, bisogna procedere con la massima segretezza, in modo che il provvedimento giungesse affatto improvviso e inaspettato. Messomi d'accordo con lo Zanardelli, scrissi io stesso i dispacci con cui l'ordine della militarizzazione era comunicato ai Prefetti, facendoli poi cifrare da persona di mia assoluta fiducia, premendomi di ottenere che in tutta Italia, e simultaneamente fosse fatta l'intimazione personale della militarizzazione a tutti i ferrovieri, applicando loro le stellette, simbolo della appartenenza all'esercito.

La cosa riuscì benissimo, tanto che il mio capo di gabinetto e lo stesso Sottosegretario al mio Ministero non ne seppero nulla sino a quando non lessero, affìsso alle cantonate, l'ordine della militarizzazione. Prova questa che un segreto è bene mantenuto quando ad averne conoscenza non sono che in due; poiché altrimenti non è più possibile stabilire la responsabilità della divulgazione. Non ostante la novità del provvedimento non si ebbero resistenze e conflitti, tutto procedendo nel modo più tranquillo ed ordinato; ma un provvedimento simile aveva un carattere eccezionale, tale da non doversene abusare. Così, pure essendo sempre mantenuto in riserva, esso non fu più applicato; nemmeno quando, appunto nel 1904, i ferrovieri scioperarono, non trattandosi però di uno sciopero proprio, ma della loro adesione ad uno sciopero generale, al quale io credetti conveniente, per ragioni che dirò più avanti, di lasciare libero sfogo.


Di queste condizioni del momento, tecniche e morali, bisognava tenere conto per la soluzione del problema ferroviario; ed esse tutte concorrevano a rendere assai diffìcile e forse impossibile la rinnovazione di Convenzioni per l'esercizio privato. Conviene poi aggiungere che quel problema veniva a coincidere con un momento decisivo della vita economica nazionale, la quale, a sicuri segni, si avviava verso un grande incremento. Ora di questo incremento i grandi mezzi di comunicazione erano uno degli strumenti ad un tempo più necessari ed efficaci; ed il Governo sarebbe incorso in una vera responsabilità storica trascurando di considerare il problema ferroviario sotto questo aspetto e in connessione con l'intera economia nazionale. E la nostra principale preoccupazione, adottando il principio dell'esercizio di Stato, fu appunto di dare alle ferrovie un assetto che corrispondesse alle nuove ed aumentate esigenze dell'economia del paese.


L'anno di lavoro  parlamentare e legislativo,  che intercorse fra la formazione del mio Ministero e lo scioglimento della Camera, fu assai operoso e fecondo. Il programma con cui il mio governo si era presentato, era stato da molti criticato come troppo vasto e contenente troppi impegni e promesse; ma si potè poi constatare che, in meno di un anno, tutti gli impegni e le promesse che dipendevano dall'azione del Governo, furono adempiuti e mantenute, e che anzi per certe parti l'opera legislativa ebbe uno sviluppo ancora più ampio che in quel programma non fosse indicato. In circa sei mesi di lavoro parlamentare, oltre alla regolare approvazione di tutti i bilanci, e di un gran numero di leggi di secondaria importanza, si approvarono le leggi che provvedevano alla trasformazione economica della Basilicata, al risorgimento industriale di Napoli, alla trasformazione dei prestiti del Mezzogiorno continentale ed a rendere possibile la pronta costruzione dell'acquedotto delle Puglie; si approvò la radicale modificazione della legge sulle Opere Pie, intesa ad assicurare una efficace tutela di quel vero patrimonio dei poveri e la sua destinazione ad usi più conformi alle mutate esigenze dei tempi; si rinnovò la legislazione sulla Sanità pubblica, intensificando la cura della malaria e della pellagra ed affermando per la prima volta il dovere dei proprietari di provvedere di sane abitazioni i lavoratori della terra; si provvide alla Scuola primaria ed ai maestri elementari con larghezza ignota a tutte le leggi precedenti, facendovi concorrere lo Stato con otto milioni all'anno; si estese a favore delle Società cooperative, operaie ed agricole il diritto di concorrere agli appalti dei lavori pubblici; si tolse al potere esecutivo, riservandolo al potere legislativo, il diritto di modificare i ruoli organici delle pubbliche amministrazioni, si migliorarono grandemente, con la spesa di molti milioni, gli organici delle amministrazioni Postali e Telegrafiche, e di quelle delle Finanze e del Tesoro, dei Lavori Pubblici, della Magistratura, del Ministero degli Affari Esteri, degli ufficiali inferiori dell'esercito, delle biblioteche e della amministrazione carceraria.

Si provvide inoltre a migliorare le condizioni della cassa per la invalidità e vecchiaia degli operai; si istituì quella per gli impiegati dei Comuni; si stabilirono le pensioni per gli operai della manifattura dei tabacchi, e si provvide pure ai veterani della guerra dell'indipendenza. Si fissò per un quadriennio un razionale piano di lavori pubblici, s'introdusse nella nostra legislazione penale il principio salutare della condanna condizionale, e si iniziò una radicale riforma del sistema carcerario con l'ammettere i condannati al lavoro all'aperto e con la trasformazione dei riformatori pei minorenni da luoghi di pena ad istituti di educazione ed istruzione; oltre a molte cose minori, come il riordinamento della finanza di Roma; i provvedimenti a favore dell'industria enologica ed agrumaria, reprimendo nello stesso tempo e in relazione ai trattati di commercio, la frode nella produzione e nel commercio dei vini; il disciplinamento della navigazione di cabotaggio, il perfezionamento dei sistemi di pesca marittima, con salutare miglioramento delle condizioni dei pescatori; la concessione di notevoli agevolezze alle industrie che usano il sale e lo spirito, e così via.


Questa seria e feconda operosità legislativa, veniva però continuamente turbata da agitazioni nel paese, e da retoriche declamazioni nel Parlamento, provocate dagli estremisti, che comprendevano non solo i socialisti, ma anche elementi radicali. Ma per bene comprendere tale situazione e le sue ripercussioni e conseguenze politiche, è necessario fare anzitutto una distinzione.


La comune e primaria forma di queste agitazioni, erano gli scioperi, i quali, a parte che per se stessi non uscivano affatto dall'ambito della legge, avevano anche, nell'aspetto economico, ragionevoli giustificazioni. Il periodo della politica reazionaria, prolungatosi circa sette o otto anni, con la compressione che esercitava sulle masse operaie ostacolandole nell'esercizio dei diritti di riunione e di associazione, aveva avuto fra l'altro la conseguenza assai grave di turbare il libero gioco delle forze economiche, nella domanda ed offerta di lavoro e di salari. Questo turbamento si era prodotto necessariamente a danno delle classi popolari; ed era quindi naturale e legittimo che queste classi, ricuperando nel regime di libertà il pieno esercizio di quei loro diritti, ne profittassero per ristabilire un più equo equilibrio nei salari. L'arma, per se stessa legittima assolutamente, a  cui  queste  classi  ricorrevano   per  migliorare  le proprie condizioni, era quella dello sciopero.

Ma siccome, sia nel campo industriale sia in quello agricolo, vi era una infinita varietà nelle condizioni dei salari, da industria ad industria, e da regione a regione; si produceva, per così dire una specie di rotazione degli scioperi; gli operai mettendosi in sciopero da provincia a provincia, da comune a comune, da industria ad industria e infine da azienda ad azienda, per ottenere i vantaggi e le concessioni già ottenute dai loro compagni in altre aziende, industrie e provincie, in forza della legge economica per cui il tenore di vita e la misura dei salari tende a perequarsi. Gli scioperi erano dunque continui; ricordo un momento in cui ce n'erano oltre ottocento ad un tempo. E fin qui nulla vi era di male e di anormale; per quanto queste agitazioni e queste lotte economiche potessero deplorarsi per il danno generale che arrecavano alla produzione, esse rappresentavano una condizione inerente allo stesso sistema economico, ed avrebbero finito per sedarsi, o almeno diminuire assai d'intensità e di frequenza, quando un nuovo assestamento nel regime generale dei salari fosse stato raggiunto.

Sfortunatamente su questo fenomeno economico, legittimo e naturale, si era innestato, per opera di una minoranza esigua ma facinorosa, un fenomeno di agitazioni politiche, artificiale e per nulla giustificato. Gli estremisti del partito socialista, insieme ad altri elementi anarchici e rivoluzionari, lavoravano costantemente a spingere gli scioperanti alla violenza, provocando così continuamente l'intervento della forza pubblica, in corrispondenza ai criteri ripetutamente affermati dal Governo; il quale si sentiva egualmente impegnato a riconoscere la libertà di sciopero e la libertà di lavoro, contro la quale specialmente le minaccie e le violenze erano dirette.

Assolutamente fermo nel concetto che fosse dovere del Governo di assicurare, nelle lotte pei salari, il libero gioco delle forze economiche, il quale solo può determinarne la misura giusta e compatibile con le condizioni generali dell'economia del paese; io non potevo né usare della forza pubblica in favore dei padroni contro gli scioperanti, né permettere che questi ostacolassero e impedissero, con le minaccie e le violenze, la libertà del lavoro, perchè l'uno o l'altro abuso avrebbero avuto l'eguale effetto di creare condizioni artificiali, che riuscendo insostenibili avrebbero portato inevitabilmente a nuovi conflitti. Per cui, mentre non ascoltavo i reazionari, i quali, spaventati dalla moltiplicazione degli scioperi avrebbero preteso di ritornare al regime di provvedimenti eccezionali, dall'altra parte usavo delle forze dello Stato per proteggere quei lavoratori che non volevano partecipare agli scioperi, e assicurare i proprietari nei loro diritti contro le violenze degli scioperanti.


Contro codesto intervento regolatore dello Stato insorgevano gli estremisti, i quali avrebbero preteso che la forza pubblica fosse affatto assente nei conflitti fra capitale e lavoro; il che equivaleva a richiedere che fosse lasciato libero corso alla violenza da parte degli scioperanti, quando questi avessero creduto opportuno di usarla; e colla quale, come avviene sempre in tali casi, si sarebbe mescolata quella dei delinquenti comuni. L'assurdità di queste pretese, che confondevano il regime di libertà, a cui il Governo si manteneva fedele senza titubanze e senza riserve, con la pura e semplice anarchia, era evidente a tutti; ma ciò non toglieva che, ogni qual volta l'intervento necessario della forza pubblica, o per meglio dire la violenza degli scioperanti eccitati dagli estremisti, portava a qualche doloroso episodio, sia pure secondario, i deputati socialisti, disconoscendo tutta l'opera compiuta dal Governo per la libertà ed a favore delle classi popolari, recassero in Parlamento continue proteste, sostenendo le pretese degli estremisti contro l'uso della forza pubblica per la protezione dei diritti di ogni parte.

Cosa ancora più curiosa, alle proteste dei socialisti si accodavano anche parecchi deputati radicali, di un partito cioè che poco tempo dopo doveva pure assumersi tutte le responsabilità di governo. Vero è che non erano sinceri in questo loro atteggiamento, né gli uni né gli altri. I deputati socialisti, che per il loro formalismo d'opposizione votavano in Parlamento anche contro le leggi presentate a favore delle classi popolari, si lasciavano così rimorchiare dagli agitatori rivoluzionari per timore che questi prendessero il loro posto nell'animo delle folle; mentre poi quei radicali, qualcuno dei quali era mio amico personale e fu poi dopo ministro, nell'assumere tali atteggiamenti ubbidivano sopratutto a preoccupazioni elettorali e rispecchiavano le condizioni di alcune provincie nelle quali il radicalismo aveva ormai fatto il suo tempo, così che essi vedevano le loro posizioni minate dalla concorrenza dei socialisti, e cercavano di ammansarli.


Questi conflitti economici per se stessi inevitabili e non illegittimi né pericolosi, per ragione dello sfruttamento politico che cercavano di farne i partiti estremi, mantenevano il paese, e sopratutto le masse popolari, in un perenne stato di irrequietezza. Il governo da una parte non poteva cedere alle intimazioni degli agitatori e dei rivoluzionari e venir meno in qualunque modo al suo dovere di difesa dell'ordine pubblico e dei diritti di ogni categoria di cittadini; dall'altra gli agitatori, non riuscendo nei loro intenti di intimidazione e temendo di perdere il proprio prestigio sulle masse, erano spinti ad esagerare le loro minacele. Le masse, che pure dal regime di libertà avevano tratto, tanto nelle officine che nei campi, larghissimi benefici materiali e morali, non erano però ancora educate a tale regime tanto da rendersi pienamente conto dei limiti che il diritto di ognuno trova nel diritto degli altri, ed a resistere con reale consapevolezza dei loro migliori interessi alle nuove tirannie che sorgevano dal basso; né alla libertà erano sufficientemente educate le stesse classi agiate, le quali non avevano ancora abbastanza compreso che in un regime di libertà non si può e non si deve attendere ogni cosa dal Governo, ma occorre pure una vigorosa azione di resistenza da parte di tutti i cittadini per la tutela dei legittimi loro interessi.

In tali condizioni di incertezza morale, era evidente che prima o dopo si doveva venire ad un qualche episodio risolutivo; e che, pure senza augurarsene l'avvento, si poteva e doveva attenderlo con calma e fermezza nella fiducia che avrebbe servito di ammaestramento all'una e all'altra parte. Per cui io non mi preoccupai affatto quando gli estremisti si decisero a cogliere un pretesto per provocare quello sciopero generale, la cui minaccia incombeva, con una paurosità per me non giustificata, da parecchi mesi sulla vita del paese. Il pretesto fu trovato in un piccolo conflitto scoppiato fra scioperanti minatori e la forza pubblica in Sardegna.

Gli scioperanti avendo aggredito la forza che proteggeva i pozzi delle miniere, questa dovette fare uso delle armi, e ci fu un morto. Come protesta per questo secondario incidente fu proclamato lo sciopero generale. E lo sciopero quella volta fu veramente generale, avendovi aderito anche i ferrovieri; tanto che essendo in quei giorni nato a Racconigi il Principe ereditario, e dovendo io andarvi per l'atto di nascita quale notaio della Corona, fui costretto a viaggiare su un treno speciale, composto di una macchina e di un vagone, e a fare un lungo giro per evitare i punti in cui i ferrovieri, come ad Alessandria ed in altri centri più spiccatamente socialisti e sovversivi, avevano interrotto il passaggio. Con tutto questo era fermissima in me la persuasione che quel movimento fosse di carattere effìmero, e mancasse di base;  e in questo senso telegrafai ai prefetti, osservando che trattandosi di una agitazione che non aveva alcuna ragione né in una grande questione economica né in una grande questione nazionale, non poteva avere che una brevissima durata, e che quindi lo considerassero con calma e senza soverchie preoccupazioni. Tale mio convincimento reiterai nei dispacci con cui informavo il Re giorno per giorno dello svolgersi degli avvenimenti.

Si ebbero qua e la episodi di violenza, ma di carattere secondario, specialmente a Genova, dove io passai la direzione della sicurezza pubblica nelle mani del generale Del Magno, comandante della piazza, mandandovi anche tre navi da guerra; ed a Napoli, dove inviai pure due navi da guerra e due reggimenti di cavalleria. Il Consiglio dei Ministri deliberò pure la chiamata di due classi e la militarizzazione dei ferrovieri, pel caso che la situazione si aggravasse, ed io preparai i due decreti relativi, tenendoli però in riserva.

La mia linea di condotta fu, insomma, che lo Stato fosse preparato a qualunque evento, senza però ostentare prematuramente la sua forza,, che doveva essere usata solamente quando apparisse veramente necessario, il che non avvenne. Le mie previsioni ottimiste infatti si avverarono totalmente, perchè lo sciopero non potè durare che pochissimi giorni. Esso si esaurì per stanchezza, e i primi a stancarsene furono gli scioperanti stessi, i quali, rendendosi a poco a poco conto della mancanza di vere ragioni che giustificassero e i loro sacrifizi e il turbamento recato alla vita generale del paese, cominciarono un po' da per tutto a ritornare al lavoro.

Le classi borghesi, che da principio si erano assai spaventate, come avviene pur troppo frequentemente per qualunque minaccia, quando ebbero visto finalmente in faccia questo spauracchio dello sciopero generale, di cui si era parlato con tanto allarme prima di conoscerne i reali effetti, ed ebbero constatato che non produceva i guai temuti, si rinfrancarono. Gli stessi elementi rivoluzionari finirono per comprendere che questo strumento, che poteva parere così terribile sino a quando si limitavano a parlarne ed a minacciarne l'uso, alla prova dei fatti si era rivelato presso a che innocuo, e tale da mettere forse in maggiori imbarazzi chi lo usava che quelli contro i quali era diretto. L'impressione del fallimento fu generale; anche quelli che erano stati più spauriti ed avevano domandato mezzi straordinari per fare fronte alla minaccia, si persuasero dopo, ad esperimento compiuto, che l'averla affrontata con tanta tranquillità era stata una delle principali ragioni del suo fallimento.

La sincera e logica pratica della politica di libertà acquistava così un nuovo merito con la distruzione dello spauracchio e del mito dello sciopero generale, la cui minaccia aveva per così lungo tempo conturbato lo spirito del paese.


I deputati socialisti, e gli altri della Estrema Sinistra che si erano uniti a loro per provocare e proclamare lo sciopero, quando si accorsero che cessava di per se stesso, si affrettarono a proclamarne la fine. Poi  indissero   e  tennero  una  riunione  nella  quale deliberarono di chiedere la immediata convocazione del Parlamento. Siccome la Camera era già prossima a compiere i suoi cinque anni di vita, ed avrebbe dovuto essere sciolta in tempo non lontano, io risposi che, invece di convocare i deputati ritenevo più opportuno convocare gli elettori, per dare loro modo di esprimere il loro giudizio sulla politica del Governo, ed anche perchè giudicassero quei partiti e quegli uomini che avevano provocata quella inutile e dannosa interruzione nella vita normale del paese. Così io proposi alla Corona lo scioglimento della Camera e la Camera fu sciolta.


Ad evitare qualunque falsa impressione, nella relazione per lo scioglimento della Camera io riaffermai chiaramente la volontà liberale del Governo, dichiarando che il Ministero non avrebbe mutata una linea al programma seguito dal febbraio 1901 in poi, cioè della più ampia libertà per tutti nei limiti della legge. La fede nella politica liberale non poteva, nel mio pensiero, essere scossa dalle violenze di una esigua minoranza che tutto il paese aveva disapprovate. Quelle violenze anzi avevano dimostrato che la libertà era sopra tutto temuta dagli elementi rivoluzionari, i quali in un regime libero perdono ogni ragione di essere, e perciò ogni prestigio. Ricorrendo infatti allo sciopero generale, che fra l'altro impediva alla voce della opinione pubblica di farsi sentire, costoro avevano dimostrato coi fatti che per acquistare l'ambito predominio, erano costretti a sopprimere ogni libertà, compresa quella della stampa, per la impotenza in cui erano di sostenere col ragionamento le loro assurde pretese. Il Governo manteneva quindi intatto il suo programma di libertà, che trovava vivaci oppositori appunto nei due partiti estremi, di destra e di sinistra; avendo illimitata fiducia nel senno del popolo italiano a cui la storia ha insegnato essere suoi nemici egualmente pericolosi la  demagogia  e  la reazione.


Le elezioni si svolsero poi infatti sopra tutto come un giudizio sulle responsabilità dei partiti e degli uomini che avevano provocato il perturbamento dello sciopero generale; e per logica retribuzione quel giudizio colpì più particolarmente quegli uomini e partiti radicali, che solo per calcoli e preoccupazioni elettorali, che poi apparvero sbagliate, si erano lasciati rimorchiare dietro i socialisti ed i rivoluzionari. E nello stesso modo che la politica reazionaria del Pelloux, nelle elezioni del 1901, si era risolta contro i partiti e gli uomini della reazione; così le esagerazioni rivoluzionarie ed egualmente perturbatrici della vita normale del paese, dei socialisti e degli altri estremisti, si rivolsero contro di loro. La Camera eletta coi comizi del novembre 1904, apparve subito assai più conservatrice della Camera sciolta. Né questo era per me ragione di rammarico e di preoccupazione, perchè se io ho sempre egualmente avversato il rivoluzionarismo e la reazione, ho sempre apprezzato tanto le forze del progresso che del conservatorismo quando agiscono entrambe in modo legittimo entro i limiti della legge. Nel caso attuale poi, l'affermazione conservatrice, ma per nulla reazionaria, uscita dalle elezioni, aveva il particolare merito di servire di lezione al socialismo ed al rivoluzionarismo, mostrando che il popolo italiano, nella sua educazione civile, non intendeva permettere che certi limiti fossero violati da qualsiasi parte.


Alla riapertura del Parlamento, il discorso della Corona riaffermò la piena fiducia nel regime della più ampia libertà entro i limiti della legge fortemente difesa; riaffermazione che corrispondeva pienamente al verdetto dato dal paese nei comizi elettorali, risultati egualmente contrari ai campioni della reazione ed a quelli del sovversivismo. Il discorso preannunciò pure l'intenzione di invitare il Parlamento ad elaborare una saggia legislazione sociale, che ad un tempo mirasse ad elevare progressivamente il tenore di vita delle classi lavoratrici e fornisse, mediante l'arbitrato e il probivirato, nuovi strumenti per la pacifica soluzione dei conflitti fra capitale e lavoro, allo scopo di evitare le lotte combattute con le armi dello sciopero e delle serrate, nelle quali il danno è comune e la vittoria rimane a chi abbia non le migliori ragioni, ma la maggiore forza dalla sua parte.


Credetti poi opportuno di apportare un mutamento alla Presidenza della Camera, la quale ormai per parecchi anni era stata tenuta con grande dignità e imparzialità e tatto dall'on. Biancheri, col quale ero
legato da sentimenti di comune stima ed amicizia, e da cui mi dolse di dovermi distaccare. Le ragioni di questa mia decisione, di carattere essenzialmente politico, le comunicai al Biancheri stesso, con piena franchezza, in una mia lettera. Ed erano duplici; per un lato, con la costituzione di una Camera in cui lo spirito conservatore, sia pure nelle forme più moderate, predominava, a me pareva opportuno, per ragioni di equilibrio ed a garanzia delle parti più liberali, che la Presidenza fosse tenuta da un uomo di tendenze spiccatamente avanzate; per l'altro, considerando la nuova situazione generale uscita dalle elezioni, mi ero convinto della opportunità di profittarne per accentuare al possibile la separazione dei radicali dai repubblicani e dai socialisti. La nomina di Marcora a Presidente della Camera, dati i precedenti dell'uomo e l'autorità di cui godeva fra gli elementi avanzati ma costituzionali, rispondeva a questa duplice convenienza.

Il Biancheri, che pure parecchi mesi prima mi aveva accennato spontaneamente all'opportunità di tale nomina, mi rispose con franchezza pari alla cordialità, dichiarandomi il suo parere che la composizione della Camera indicasse come più opportuna la scelta di una persona di meno spiccata personalità politica e che rappresentasse piuttosto uno spirito di conciliazione.


Le ragioni espostemi dal Biancheri non mi persuasero a rinunciare a quella che io credevo una alta convenienza politica per fare gradatamente entrare nell'orbita delle istituzioni il partito radicale, che per il suo programma positivo e misurato non aveva alcuna ragione di rimanere confuso fra gli estremisti sia repubblicani che socialisti. L'elezione del Marcora alla Presidenza rispose perfettamente alle mie aspettazioni, in quanto egli per lunghi anni esercitò la sua delicata funzione con generale soddisfazione e perchè quella nomina fu il primo passo decisivo che avviò il partito radicale ad assumersi la responsabilità del governo.


Mi compiaccio pure di ricordare la creazione, avvenuta in quel torno di tempo, di una nuova istituzione internazionale, con sede in Italia, dovuta ad una nobile e geniale iniziativa del Re. Sua Maestà, il 24 gennaio 1905 mi indirizzò una lettera che qui riproduco:
«Caro Presidente. — Un cittadino degli Stati Uniti d'America, il signor Davide Lubin, mi esponeva, con quel calore che viene dai sicuri convincimenti, una idea che a me parve provvida e buona, e che perciò raccomando  all'attenzione del mio  governo.
«Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza, né a migliorare e distribuire secondo le ragioni del consumo le varie culture, né a tutelare i propri interessi sul mercato, che, per i maggiori prodotti del suolo, si va sempre più facendo mondiale.
«Di grande giovamento potrebbe quindi riuscire un istituto internazionale, che si proponesse di studiare le condizioni della  agricoltura nei vari paesi del mondo; di segnalare periodicamente l'entità e la qualità dei raccolti, cosichè ne fosse agevolato il commercio e la determinazione giusta dei prezzi; di fornire notizie precise sulle condizioni della mano d'opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne avessero una guida utile e sicura; di procedere d'intesa per la tutela degli stessi emigranti coi vari istituti nazionali già sorti a tal fine; di procurare opportuni accordi per la difesa contro quelle malattie delle piante e del bestiame, per le quali riesce meno efficace la difesa parziale; di esercitare finalmente un'azione prudente e opportuna sui congegni delle assicurazioni e del credito agrario.
«Di un istituto siffatto, capace di ulteriori e benefici svolgimenti, e a cui Roma sarebbe degna sede augurale, dovrebbero fare parte le rappresentanze degli Stati aderenti e delle maggiori associazioni interessate, per modo che vi procedessero concordi l'autorità dei Governi e le libere energie dei coltivatori della terra.
«Ho fede che l'altezza del fine farà superare le difficoltà dell'impresa.
«E in questa fede mi piace di confermarmi. — Suo aff.mo Cugino Vittorio Emanuele.»


L'iniziativa del Sovrano, accolta rispettosamente dal Governo, ottenne il plauso dell'opinione pubblica italiana ed internazionale, ed ebbe la cordiale adesione di tutti gli Stati civili. L'Istituto fu fondato; e da allora in poi ha sempre ed utilmente funzionato.

L'anno 1904 ebbe pure un avvenimento di alta importanza internazionale, e fu la visita a Roma del Presidente della Repubblica francese, il Loubet.


Il Re, dopo la sua ascensione al trono, aveva compiuto un giro di visite presso i capi dei principali Stati europei; era stato a Pietroburgo, a Londra, a Berlino ed a Parigi. Queste visite furono restituite. Il Re d'Inghilterra, Edoardo VII, e l'Imperatore di Germania, Guglielmo II, avevano fatto queste restituzioni di visite durante il Ministero Zanardeslli; io ero allora Ministro degli Interni e non ebbi occasione di avvicinare particolarmente i due sovrani, a parte i ricevimenti generali a cui interveniva l'intero corpo dei ministri. Ricordo tuttavia che Re Edoardo insisteva particolarmente col nostro Sovrano perchè si mettesse in rapporto col Re di Spagna, col quale da poco la Corte d'Inghilterra si era imparentata; ma il governo italiano gli dovette richiamare le difficoltà di una tale relazione, in quanto che non si poteva ammettere una visita del Re di Spagna che a Roma. Con l'Imperatore Guglielmo io avevo già avuti rapporti abbastanza intimi, durante il mio primo Ministero, cioè dieci anni prima, nell'occasione di una sua visita fatta a Re Umberto. Io l'avevo allora accompagnato a Napoli, dove si era trattenuto tre giorni, alloggiando nel Palazzo Reale, ed alla Spezia, di cui voleva visitare l'arsenale, interessandosi assai a tutto ciò che concerneva la marina militare), come mostrò poi col grandiosa sviluppo che dette appunto alla marina da guerra del suo Impero.

Quando restituì nel 1903 la visita a Vittorio Emanuele III, in un ricevimento di Corte a cui erano presenti i ministri egli mi riconobbe di lontano, ed avvicinandomisi mi complimentò dicendomi che era lieto di constatare che in quei dieci anni non ero invecchiato. — Mentre, aggiungeva, io sono invecchiato assai. —

L'impressione che l'Imperatore Guglielmo II dava nei rapporti personali, col suo fare aperto e cordiale, era indubbiamente assai simpatica; e trattenendosi a parlare con lui, nelle conversazioni a cui egli si abbandonava con molta semplicità e calore, si ritraeva l'ulteriore impressione di una intelligenza molto viva e pronta, che amava di espandersi sui soggetti più vari. La cordialità personale dei suoi modi non diminuiva però mai la dignità della sua posizione, e si sentiva che egli era convinto di avere una missione, che rimaneva però un po' generica, senza che apparissero, o che egli volesse lasciare apparire, propositi precisi e concreti. Come era naturale, nell'occasione di quelle sue visite in Italia egli parlava molto delle cose nostre, mostrando d'interessarsene assai, ma io ebbi a notare che la sua conversazione si rivolgeva piuttosto a raccogliere informazioni, senza che esprimesse mai sulle cose nostre giudizii suoi personali.


La venuta di Loubet a Roma, quantunque rappresentasse anch'essa una restituzione  di visita, ebbe
una assai maggiore importanza politica,  e per parecchi rispetti, particolari e generali. Era mia fondamentale concezione, per la politica estera, che l'Italia, pure mantenendo lealmente la sua alleanza con le Potenze centrali, dovesse considerarla come essenzialmente pacifica, e indirizzata ad assicurare la pace dell'Europa. La Triplice Alleanza, concepita in tal modo, in piena conformità con lo spirito e la lettera del Trattato, non solo non ostacolava il mantenimento di relazioni cordiali con le altre Potenze, e specie con l'Inghilterra e la Francia, ma le incoraggiava. Personalmente poi io avevo sempre desiderato di migliorare i rapporti con la Francia, che sotto i governi di Crispi erano stati se non messi in serio pericolo, certo raffreddati dall'interpretazione meno conciliante e pacifica che Crispi dava al trattato. Così, sino dal mio primo Ministero, io avevo lavorato al miglioramento dei rapporti fra l'Italia e la Francia; e, come ho già detto, ero riuscito ad ottenerne una pubblica manifestazione con la partecipazione ufficiale della flotta francese alle feste Colombiane nell'estate del 1892.

La venuta di Loubet a Roma aveva pure un alto significato politico, in quanto essa rappresentava la prima visita ufficiale di un Capo del Governo francese alla capitale d'Italia. Infine essa servì a confermare e condurre a termine gli accordi speciali già intervenuti fra i due paesi, quando  era al governo Pelloux  con  Visconti-Venosta quale  ministro   degli Esteri, continuati poi ad Algesiras, sulla connessione fra le due questioni del Marocco  e della Libia, e secondo i quali l'Italia si disinteressava del Marocco, e la Francia riconosceva all'Italia assoluta priorità d'interessi riguardo la Libia.

Il Presidente Loubet, a dare maggiore rilievo all'importanza ed al significato della visita, aveva condotto seco il Ministro degli Esteri, che era allora il Delcassé; e nelle conversazioni che intervennero fra loro due, me, il Tittoni, e per la parte economica e finanziaria, il Luzzatti, io ebbi campo di farmi una adeguata impressione dei due uomini di Stato francesi. Il Loubet mi apparve un uomo molto equilibrato e di buon senso, ed animato di sincera e cordiale amicizia verso l'Italia; nel Delcassé rilevai sopra tutto la finezza ed abilità, come pure l'insistenza con la quale tentava di sciogliere o per lo meno indebolire i nostri vincoli con la Germania, senza però che sia stata avanzata in proposito alcuna proposta concreta. Si trattò insomma solo di conversazioni generiche, delle quali non si può disconoscere l'utilità allo scopo e col successo di migliorare grandemente i rapporti fra i due paesi, dopo un lungo periodo di ostilità sia pure superficiale.


Un ultimo evento diplomatico di quell'annata, fu la visita che io feci sulla fine di settembre al principe di Bülow, ad Homburg, presso Francoforte. Erano pervenute a me sicure informazioni che l'allora ambasciatore di. Germania a Roma, Conte De Monts, mandava al suo governo dei rapporti poco favorevoli all'Italia, e tali da potere indurre in sospetto sulla lealtà del Governo italiano nell'alleanza. Io credetti allora opportuno venire a diretto contatto col principe Bülow, allora Cancelliere, da me già conosciuto durante il mio Ministero del 189293, epoca nella quale egli era ambasciatore di Germania a Roma. Non volli d'altra parte che la visita assumesse un carattere di troppa solennità, e procurai, a mezzo di comuni amici, che essa fosse preparata in modo semplice e senza notizia pubblica. Ed infatti nulla ne fu saputo se non dopo il mio ritorno.


Arrivai ad Homburg la mattina del 27 settembre, ed alle undici ebbi col von Bülow una conversazione che si protrasse per oltre un'ora e mezza e della quale presi subito degli appunti, che ancor conservo. Egli cominciò a parlare con grande fervore e compiacimento dei progressi compiuti dall'Italia in ogni campo, e specie nel campo economico, negli ultimi anni; e mi espresse la sua piena approvazione per la politica interna che io avevo applicata, dichiarandomi che aveva particolarmente apprezzato il modo con cui mi ero condotto di fronte allo sciopero generale. Passando poi un po' alla volta nel campo della politica estera, egli mi disse che alcuni in Germania avevano avuta l'impressione che noi ci fossimo avvicinati troppo alla Francia nell'occasione della visita del Presidente Loubet a Roma. Io gli osservai che le accoglienze fatte al Loubet rispondevano ai doveri della ospitalità; ma che d'altronde consideravo come un interesse comune togliere di mezzo le ostilità che avevano perdurato per lungo tempo fra Italia e Francia. Gli osservai ancora che noi avevamo conseguito il risultato di escludere d'ora in avanti che il governo francese potesse in alcun modo essere o parere il sostenitore del papa nel campo politico, togliendo così di mezzo le ultime velleità dei fautori del potere temporale. E su tutto questo egli conveniva cordialmente.

Discorremmo anche del papa d'allora convenendo essere bene che l'influenza del papato non fosse più a servizio della Francia contro l'Austria.

Si passò poi a parlare dei nostri rapporti con l'Austria, Il Bülow lodò il nostro contegno, e mi assicurò formalmente che l'Austria non aveva alcuna mira di espansione nei Balcani; dichiarando ancora che occorreva mantenervi lo statu quo col dominio della Turchia, e se tale dominio non potesse in seguito reggersi, la retta soluzione sarebbe stata di costituirvi stati autonomi nell'Albania e in Macedonia. Io gli osservai che l'Italia non potrebbe mai consentire che altra potenza, ed in ispecie l'Austria, occupasse l'Albania in qualunque punto, perchè una tale occupazione avrebbe l'effetto di chiudere ad essa l'Adriatico; ed egli ne convenne interamente, aggiungendo che tale nostra esigenza corrispondeva pure alle direttive dell'Austria e della Germania,


Io richiamai poi la sua attenzione alle difficoltà che creava al governo italiano il trattamento, spesso e in molta parte non equo, che il governo austriaco faceva agli italiani dell'Istria e del Trentino; osservando che se quel governo si mostrasse più largo verso gli italiani suoi sudditi, concedendo ad esempio l'università italiana a Trieste, le agitazioni ed i conflitti nazionalisti ne sarebbero assai attenuati. Il Bülow consentì pienamente, assicurandomi che la Germania farebbe del suo possibile per indurre l'alleata ad un trattamento più generoso dei suoi sudditi italiani. Mi aggiunse che la Germania aveva ogni interesse a mantenere lo statu quo austriaco; che le dottrine dei pangermanisti erano fantasia senza base di realtà, la Germania non avendo alcun interesse ad assorbire nel suo organismo alcuna parte dell'Austria. E mi citò in proposito anche l'opinione di Bismarck.

Passando a parlare della guerra russo-giapponese, mi espresse l'opinione che la Russia non potrebbe dettare la pace se non quando avesse conseguito un successo militare.


Io rimasi ad Homburg due giorni, durante i quali ebbi col Principe Bülow altre lunghe conversazioni, specialmente in passeggiate che facemmo insieme nei bellissimi boschi che circondano la elegante città. Il mio scopo, che era di franche spiegazioni e di affiatamento, fu pienamente raggiunto. Io ho del resto sempre avuta ed ho ancora la convinzione che il Principe di Bülow sia stato costante e sincerissimo amico dell' Italia, pure mettendo sempre, come è naturale, in primissima linea gli interessi del suo paese. Nelle conversazioni che avemmo in quei giorni egli mostrò apertamente di tenere moltissimo all'amicizia dell'Italia, e di giudicare la sua appartenenza alla Triplice come una garanzia per l'equilibrio e la pace europea.

L'impressione personale mia di lui è sempre stata di uomo intelligentissimo, che conosceva profondamente le situazioni ed i problemi della politica europea, e la cui mente era rivolta a mantenere la pace d'Europa, e non a spingere alla guerra.

Verso la fine di gennaio del 1905 io fui colpito da una influenza fortissima che mi mantenne per parecchi giorni la febbre ad oltre quaranta gradi; ed uscii da quella malattia con una grande depressione fisica, che mi rendeva presso a che impossibile di occuparmi degli affari del governo. Tentai per oltre un mese di reagire contro tale debolezza; ma dovendo constatare che non ci riuscivo, e che mi si imponeva un periodo di assoluto riposo, decisi di ritirarmi; e presentai al Re con la seguente lettera le mie dimissioni:
«Maestà. — Quando, un mese e mezzo fa, io fui colpito da influenza e poscia da una grande depressione nervosa, conseguenza anche di precedente stanchezza, pensai che in tale condizione non potevo dedicarmi con la necessaria attività alle gravi cure del mio ufficio, e manifestai il proposito di presentare alla Maestà Vostra le mie dimissioni. I medici allora mi sconsigliarono da tale passo ritenendo che in breve tempo avrei potuto ricuperare le forze e sarei stato in grado di riprendere con la necessaria attività il mio ufficio.
«Mi arresi a tale consiglio ritenendo essere mio dovere di non abbandonare senza necessità assoluta
il posto affidatomi dalla fiducia di Vostra Maestà e nel quale mi sorreggeva la fiducia del Parlamento.
«Durante questo periodo della mia malattia intervenni due volte alla seduta della Camera dei Deputati, in occasioni nelle quali mi parve doveroso assumere la più diretta e personale responsabilità di importanti disegni di legge, ma constatai pur troppo che le mie forze non mi consentivano di partecipare in alcun modo alle discussioni parlamentari. Tale mia condizione continua oggi in modo così persistente da togliere la speranza di potere, senza un lungo periodo di riposo  assoluto, ristabilirmi in salute.
«Ora troppo gravi problemi incombono al paese e troppo alti sono i doveri di un presidente del consiglio perchè vi si possa far fronte in simili condizioni di salute. Tutta la mia buona volontà si infrange contro  una impossibilità fisica.
«Sono quindi costretto, per il sentimento della mia responsabilità, per la sincera e profonda devozione mia alla Maestà Vostra e alle istituzioni, a presentare a Vostra Maestà le mie dimissioni dal posto di Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell'Interno.
«Col più profondo ossequio ho l'onore di professarmi della Maestà Vostra devotissimo suddito Giovanni Giolitti. »
Roma, 4 marzo  1905.

IX.

Il Ministero del 1906-1909.


Il Ministero Fortis — Il Ministero Sonnino e la sua caduta — II mio nuovo Ministero: programma di riforme concrete — Dal problema politico al problema economico — La lotta contro il malessere eco,nomico nel Mezzogiorno e nelle Isole — Alleviamento delle imposte sui consumi — Impulso alla istruzione popolare ed alla istruzione tecnica — La conversione della rendita — L'incremento della economia nazionale e il florido bilancio della Stato — La visita dello Czar a Racconigi e gli accordi russoitaliani per Tripoli, i Balcani e l'Oriente — L' Università di Trieste e l'Arciduca Ferdinando — La ferrovia AdriaticoMar Nero — La crisi dei servizii marittimi — La mia proposta di imposta progressiva e la caduta del Ministero — Nuovo insuccesso dell'on. Sonnino, e le sue ragioni.


Lasciando nel marzo del 1905 il Ministero, considerando che non si trattava di una crisi, in quanto che il mio ritiro era una cosa affatto, personale e dovuto a ragioni di salute, io proposi che si nominasse alla Presidenza ed al Ministero degli Interni l'onorevole Fortis, mantenendo pel resto il Gabinetto quale era. Dal 16 al 27 marzo prese la reggenza il Tittoni, poi il Fortis assunse la Presidenza facendo qualche cambiamento. Rimasero con lui Tittoni agli Esteri, Majorana alle Finanze, Pedotti alla Guerra, Mirabello alla Marina e Rava all'Agricoltura: furono sostituiti il Ministro di Grazia e Giustizia, al Ronchetti succedendo il Finocchiaro-Aprile; quello del Tesoro con Carcano al posto del Luzzatti; quello dei Lavori Pubblici con Carlo Ferraris al posto di Tedesco, e infine quello della Pubblica Istruzione, dove Orlando cede il posto a Leonardo Bianchi.


Il nuovo Ministero nel riguardo delle cose più importanti aveva già la sua via tracciata. Così esso, applicando alle Ferrovie l'esercizio di Stato, che cominciò col primo luglio di quell'anno, non fece che effettuare ciò che era già stato deciso e preparato in tutti i suoi particolari. Va però rilevato un provvedimento legislativo di notevole importanza che fu preso quasi subito dopo che il nuovo Ministero era entrato in funzione. Quando io lasciai nel marzo il governo, era ormai al suo termine uno sciopero ferroviario, che era un altro segno del malcontento del personale e della disgregazione della amministrazione privata, che i ferrovieri male tolleravano, desiderando di passare allo Stato. Il Fortis fronteggiò quella agitazione che causava inconvenienti e danni al pubblico ed alla vita economica del paese, stabilendo il principio che l'abbandono del servizio importava le dimissioni. Quel principio fu poi da me accolto ed esteso a tutte le classi dei funzionari dello Stato, mediante la Legge sullo stato giuridico degli impiegati, che fu presentata al Parlamento ed approvata durante il mio nuovo Ministero nel 1908.


Per alcun tempo io non venni più a Roma, soggiornando un po' a Cavour e un po' a Bardonecchia per rimettermi, ed astenendomi, secondo mi avevano ordinato i medici, da qualunque lavoro; e fu solo dopo due o tre mesi, fra il maggio e il giugno, che cominciai a sentirmi assai migliorato in salute. Nel luglio andai a Fiuggi.


Nel dicembre successivo si ebbe una prima crisi del Ministero; e ricordo che il Fortis venne allora da me per dirmi che io dovevo riprendere il governo; al che io mi rifiutai, adducendo che non ero ancora del tutto ristabilito, e che del resto la crisi, per il modo con cui si era svolta, non lo colpiva direttamente, e quindi competeva a lui di formare un nuovo Ministero. Ed alla Camera io avevo appunto agito per impedire che il voto avverso colpisse personalmente il Fortis, ed ero riuscito nel mio intento. Fortis si persuase, ed il 24 dicembre si ripresentò con un nuovo Ministero, nel quale San. Giuliano, diventando per la prima volta Ministro degli Esteri, sostituiva il Tittoni; Mainoni sostituiva alla Guerra il Pedotti; Tedesco ritornava ai Lavori Pubblici al posto di Carlo Ferraris; Viacchelli sostituiva il Majorana alle Finanze; Marsengo Bastia il Morelli Gualtierotti alle Poste, ed infine il De Marinis, uno dei primi socialisti che passasse al riformismo, prendeva il Ministero dell' Istruzione, sostituendo Leonardo Bianchi.

Ma il nuovo Ministero ebbe vita brevissima, arrivando solo agli 8 di febbraio dell'anno successivo. La sua caduta fu provocata dall'accordo che si era stipulato con la Spagna, per l'importazione dei vini spagnuoli, in compenso di altre concessioni, che in materia doganale la Spagna aveva fatte all'Italia. Numerosi. deputati dei paesi vinicoli, particolarmente delle Puglie, si ribellarono contro questa concessione, quantunque il dazio per l'importazione dei vini spagnuoli rimanesse sempre assai elevato, e sufficiente ad una ragionevole protezione. Siccome io avevo difeso ed appoggiato il Ministero in questa questione, rimasi nella minoranza, ed ero assolutamente fuori di discussione; ed allora venne indicato l'onorevole Sonnino, il quale formò così il primo suo Ministero.


È stato un peccato che il Fortis, morto in età ancora giovane, non abbia potuto dedicare più lungamente, e con più matura esperienza, il suo fortissimo e fertile ingegno al paese. La qualità in cui sopratutto eccelleva era la sua eccezionale facoltà di assimilazione, che spesse volte compensava o sostituiva la capacità e persistenza del lavoro, la cui deficienza era il suo punto debole, perchè egli non fu mai un lavoratore. Per un esempio del modo con cui egli riusciva a cavarsela, ricordo un curioso episodio. Nel tempo in cui egli era Ministro d'Agricoltura nel primo gabinetto Pelloux, in una seduta antimeridiana della Camera si stava discutendo un disegno di legge inteso ad impedire l'adulteramento dei vini. Avevano parlato il relatore della legge, e alcuni deputati, pro e contro; poi il Fortis si alzò e pronunciò, in difesa del progetto di legge, un bellissimo discorso, che in chi l'ascoltava dava l'impressione di uno studio profondo e minuto e di una vera competenza nella materia. Alla fine della seduta io l'avvicinai per richiamare la sua attenzione ad un articolo della legge, che non poteva assolutamente essere mantenuto; ed egli, dopo avermi ascoltato, mi rispose col suo bonario sorriso: — A dirti la verità, io il progetto di legge non l'ho nemmeno letto. — Gli era bastato l'esposizione del relatore e la discussione degli oratori e favorevoli e contrari, per farsi una idea precisa e sicura dell'argomento, e dargli la materia alla sua risposta ed' alla sua difesa.

Egli si abbandonava forse un po' troppo alla sua facilità di avvocato; ma aveva un intuito politico finissimo ed un criterio rettissimo; il suo vero posto in un governo sarebbe stato la Presidenza senza portafogli; un posto cioè in cui valga la genialità naturale, e non sia richiesto lo studio e l'assiduità, da cui l'indole del suo ingegno era affatto aliena. Personalmente poi egli riscuoteva simpatie generali, sia per la sua bonaria cordialità, sia per la sua lealtà a tutta prova: ognuno sentiva di potersi fidare in lui. Da giovane, quando era all'Università, aveva fatto molto rumore come repubblicano; poi era venuto alla Camera come radicale, e la prima volta entrò al governo nel 1887 come sottosegretario di Crispi, del quale rimase sempre amico, pure essendo anche amicissimo mio; e quando fra me e il Crispi scoppiò il conflitto, egli cercò del suo meglio di fare opera di pacificazione.


Il Ministero costituito dall'onorevole Sonnino l'8 febbraio del 1906, raccolse parecchi dei parlamentari più considerati, riunendo elementi conservatori quali il Guicciardini, il Salandra, il Carmine e il Luzzatti, con elementi radicali, quali il Sacchi e il Pantano; anzi fu quella la prima partecipazione aperta e diretta del partito radicale al governo con suoi uomini rappresentativi. Ciò non ostante ebbe vita brevissima, durando cento giorni precisi, sino al 22 del maggio seguente.

Ciò che fu più caratteristico nella sua breve vita, fu la causa ed il modo della sua caduta. Il Ministero aveva stipulato la convenzione pel riscatto delle Ferrovie Meridionali; la stipulazione era stata fatta dall'onorevole Carmine, ministro dei Lavori Pubblici. La Convenzione importava a debito del governo una annualità di trenta milioni e mezzo per sessantanni. La Commissione parlamentare nominata per l'esame del relativo progetto di legge si era manifestata in grandissima maggioranza favorevole; vi erano solo due suoi membri che ne discutevano e chiedevano modificazioni per alcune clausole secondarie. In questa condizione di cose l'onorevole Sonnino venne un giorno alla Camera e chiese che s'imponesse alla Commissione di riferire entro otto giorni. La proposta non fece buona impressione inquantochè pareva intesa a forzare la mano; cosa di che, considerando l'atteggiamento favorevole della Commissione, non c'era affatto bisogno. Io presi la parola per osservare che, trattandosi di un contratto di tanta importanza, mi pareva eccessivo stabilire un termine così breve alla Commissione. Sonnino insistette nella sua richiesta, ed allora l'onorevole Rubini propose di rimandare la questione a tre giorni, per dare alla Camera tempo di riflettere.

Nelle conversazioni che seguirono dopo la seduta, io dissi ai miei amici di essere persuaso che l'onorevole Sonnino non avrebbe receduto dalla sua proposta e che la Camera l'avrebbe battuto, e che, non volendo assistere ad un infanticidio sarei partito la sera stessa per Cavour. Le mie previsioni si avverarono, e due giorni dopo io ricevevo a Cavour un telegramma che a nome di Sua Maestà mi chiamava a Roma. Quando il telegramma mi pervenne, io non avevo ancora letta nei giornali la notizia, ma arguii subito che il Ministero aveva provocato il voto ed era stato battuto.


Giungendo a Roma ebbi da Sua Maestà l'incarico di formare il nuovo Ministero, il quale entrò in funzione il 27 maggio del 1906, ed ebbe lunga durata, rimanendo in carica sino al 9 dicembre del 1909. Esso fu dolorosamente funestato dalla morte di alcuni dei principali uomini che lo componevano, e che erano fra le più promettenti personalità del mondo politico e parlamentare italiano.


Agli Esteri io avevo richiamato il Tittoni; ed alla Grazia e Giustizia il Gallo, che morì nel 1909 e fu sostituito dall'Orlando. Alle Finanze avevo chiamato Fon. Massimini, fedelissimo amico dello Zanardelli, tantoché avendogli io nel 1903, quando succedetti a Zanardelli, offerto il posto di sottosegretario al Ministero dell'Interno, egli mi disse che sarebbe stato lietissimo di accettare tale posto, ma che essendo Zanardelli malato egli voleva accompagnarlo a Brescia e restare là con lui. Il Massimini fu colpito da un attacco di apoplessia nel marzo del 1907, e sostituito da Lacava. Il colpo lo aveva paralizzato della parte destra del corpo, ed egli aveva dichiarato che entro un anno non guarendo si sarebbe ucciso. Ed infatti passato l'anno, egli mi scrisse con la mano sinistra una affettuosissima lettera di addio e si uccise.

Al Tesoro avevo chiamato Angelo Majorana, deputato di Catania, ancora assai giovane, uomo di forte ingegno e che pareva destinato a fare una grande carriera politica. Ma pur troppo, nel maggio del 1907 fu colpito da una malattia di esaurimento nervoso, ribelle ad ogni cura, che si andò sempre più aggravando e lo condusse precocemente alla tomba. Egli fu sostituito nel Ministero dal Carcano. Il Ministero dei Lavori Pubblici era stato assunto da un mio antico amico, il Gianturco, uomo pure di grandissimo ingegno, come mostrò anche in quell'occasione, impadronendosi in modo mirabile, in due o tre mesi, di tutto il complesso meccanismo tecnico del suo dicastero e dei problemi che ad esso facevano capo. Anche egli era uomo di avvenire sicuro ed era ormai considerato da tutti come una delle migliori speranze della politica italiana; ma sfortunatamente egli pure fu tolto precocemente alla vita pubblica da una grave malattia di cancro, per la quale fu costretto a ritirarsi nel novembre del 1907, morendo poi poco tempo dopo.

Il dicastero della Guerra fu preso dal generale Vigano, a cui poi successe, nel dicembre del 1907, il Senatore Casana, che fu il primo ministro borghese della guerra in Italia. All'Istruzione avevo chiamato l'on. Fusinato, uomo di vivo ingegno, ma che solo pochi mesi dopo, nell'agosto dello stesso anno, dovette pure ritirarsi per esaurimento nervoso. Gli altri dicasteri furono assunti: dallo Schanzer quello delle Poste e Telegrafi; dal CoccoOrtu l'Agricoltura, ed alla Marina rimase l'onorevole Mirabello, che io avevo già preso nel mio Ministero del 1903, e che era rimasto traverso i due Ministeri del Fortis e quello del Sonnino, svolgendovi una mirabile ed organica opera di riforma, che fu condotta a compimento appunto durante il mio nuovo Ministero.


Il Ministero si presentò alla Camera con dichiarazioni assai brevi e di carattere sopratutto concreto e speciale. Ormai le tendenze politiche generali di un Ministero da me presieduto erano ovvie: la lotta per la democrazia ed il liberalismo, combattuta con diversa fortuna dal 1892 in poi, si era ormai conclusa con una così completa vittoria, da non lasciare più luogo ad alcuna seria discussione. Il fatto che uomini i quali avevano combattuto dalla parte opposta, come l'on. Sonnino e i suoi aderenti, avessero ormai accettato senza riserve il nuovo indirizzo democratico e liberale della politica nazionale, era il miglior segno che tale problema fondamentale era risolto definitivamente e che nessuno poteva pensare ormai alla convenienza e nemmeno alla possibilità di ritornare addietro. Ma i problemi politica, risolvendosi ne generano dei nuovi, inesauribilmente; e la vittoria della dottrina democratica e liberale, per il fatto stesso che chiamava a partecipare al governo classi sempre più vaste, creava nuovi grandi interessi, e poneva sopra tutto la questione dell'elevamento materiale e morale di queste classi, senza il quale la loro partecipazione alla vita dello Stato sarebbe stata una finzione, e non avrebbe condotto a quella pacificazione delle classi a cui quella politica appunto intendeva.

Assumendo dunque il governo io dovetti richiamare l'attenzione del Parlamento e della pubblica opinione sul fatto che negli ultimi tempi l'Italia era stata funestata da disordini che avevano avuto le più deplorevoli conseguenze, specialmente nelle Provincie meridionali e nella Sardegna. Coloro che avevano studiate le cause prime di quei disordini avevano dovuto riconoscere che essi avevano la loro prima origine in un malessere economico dovuto a cause diversissime da luogo a luogo, e al quale non sarebbe stato possibile portare rimedio se non se ne accertassero da prima la vera entità e le sue. ultime ragioni. Occorreva a questo scopo compiere uno studio ampio e profondo, ed io proponevo, affinchè esso avesse la maggiore autorità ed efficacia, di affidarlo a due Commissioni d'inchiesta parlamentare; all'una delle quali fosse dato il compito di indagare sulle condizioni dei lavoratori della terra nelle provincie meridionali e nella Sicilia, specialmente in rapporto coi patti agrari; ed all'altra quello di studiare le condizioni dei lavoratori della Sardegna, e specie quelle degli operai addetti alle miniere, dove appunto si erano prodotti i più gravi conflitti.

Mettere in contatto diretto la rappresentanza nazionale con le classi più sofferenti, pareva a me il mezzo più efficace per dare impulso ad una seria opera di legislazione sociale, e la dimostrazione più evidente della solidarietà che deve unire, in un paese civile e progressivo, tutte le classi.


Il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, nella mia opinione costituiva il problema dominante di quel momento, che seguiva immediatamente a quella conquista delle pubbliche libertà, mediante le quali queste classi potevano fare conoscere i loro bisogni e manifestare le loro aspirazioni. Dopo un aspro periodo di lotta, l'avvenire della nostra civiltà e la prosperità e grandezza del nostro paese, dipendevano direttamente, a mio avviso, dal miglioramento morale e materiale, ma ordinato, costante e pacifico delle più numerose classi sociali.


La possibilità però di un tale miglioramento era evidentemente connessa con la prosperità dell'agricoltura, dell'industria, del commercio; cioè con l'incremento generale della ricchezza nazionale, perchè solo dove il capitale ed il lavoro abbondano vi possono essere alti salari e buone condizioni di lavoro. Quello che negli anni precedenti era stato essenzialmente problema politico, diventava dunque oggi problema essenzialmente economico, che non poteva trovare la soluzione sua che nella soluzione di numerosi e svariati problemi tecnici, a cui dovevano appunto mirare e l'azione costante del governo e l'opera di
riforma legislativa.

Dal punto di vista materiale bisognava  agevolare  le  comunicazioni,  completando  la rete stradale, assai povera nelle provincie meridionali e nelle isole, dando un efficace impulso ad un buon ordinamento ferroviario, ed organizzando bene i servizi marittimi, per facilitare gli scambi commerciali all'interno  ed il movimento  delle esportazioni ed importazioni con l'estero.  Nello  stesso  tempo  a rendere più efficace l'elevamento dei salari era necessario procurare con tutti i mezzi di rendere meno costosa la vita; ciò che si sarebbe ottenuto riducendo, a mano a mano che le condizioni della finanza lo permettessero,  le imposte   sui   consumi,   e  trasformando le imposte locali in modo che non colpissero le classi meno agiate.

Dal punto di vista morale io consideravo necessario per una parte dare una maggior  diffusione  sia  alla  istruzione  popolare,  sia  a quella istruzione  tecnica  superiore  che  negli  ordinamenti vigenti appariva affatto inadeguata al continuo progresso industriale; e dall'altra perfezionare nello spirito  e nella pratica la legislazione sociale, creando varie leggi sul contratto di lavoro, sul lavoro notturno e su quello delle risaie ed in genere delle industrie più pericolose, e sul lavoro festivo.


Come uno dei primi passi, e forse il più importante, per avviare la finanza italiana a tendenze più democratiche si presentava la conversione della Rendita del cinque per cento lordo al tre e mezzo per cento; sia per il significato intrinseco di una tale riforma, sia perchè la conversione avrebbe offerto al governo i primi margini per uno sgravio delle tasse eccessive  sui  consumi.


Il problema della conversione della rendita si era affacciato sino da quando questo titolo aveva superato e si era mantenuto fermo sopra le pari, e il corso dei cambi aveva, cessato dal rappresentare il disagio della circolazione legale di fronte all'oro, segnando pure un miglioramento notevolissimo nelle condizioni di addebitamento ed accreditamento dell'Italia di fronte all'estero per il movimento generale delle transazioni internazionali, che oltre l'importazione ed esportazione comprendevano le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri che visitavano l'Italia. Il buon esperimento della emissione di un titolo al tre e mezzo per cento, iniziata dal Ministero Zanardelli essendo ministro del Tesoro il Di Broglio, e il successo della conversione del quattro e mezzo per cento interno nel tre e mezzo internazionale; altre minori conversioni come pure l'agevole collocamento dei Certificati ferroviari fruttanti il tre e sessantacinque per cento, quantunque tutte operazioni di modesta mole, avevano ormai dimostrato che il mercato italiano era preparato ad accogliere la maggiore conversione.


Al 30 giugno del 1906 la situazione delle due rendite da convertire, cioè del cinque per cento lordo a cui si aggiungevano circa duecento milioni di quattro  per  cento   netto,  era  di otto   miliardi e cento
milioni circa; rappresentata per un po' più della metà da titoli nominativi e per un po' meno della metà da titoli al portatore!. Fra le rendite nominative circa novecento milioni erano inscritti alla Cassa Depositi e Prestiti o altre Amministrazioni statali; per cui le operazioni e i rischi della conversione riguardavano all'ingrosso, sei miliardi e mezzo che si trovavano nel Regno, e da 650 a 700 milioni che si trovavano all'estero, e dei quali circa 400 erano collocati in Francia.

La conversione poteva essere eseguita con l'uno o l'altro dei seguenti criteri: o portare subito l'interesse al tre e cinquanta per cento, o compierla in due tempi, concedendo un periodo di transazione di alcuni anni, durante il quale l'interesse fosse del 3,75 per cento, secondo era stato fatto nella conversione dei consolidati inglesi. Tenersi a questo secondo metodo apparve, se non assolutamente necessario, certo opportuno; in considerazione della mole dell'operazione e delle possibili non favorevoli ripercussioni, sia di carattere finanziario immediato, sia di carattere economico e più permanenti, che tanto all'interno quanto all'estero avrebbe avuto l'adozione del metodo più radicale della totale conversione immediata; e quel criterio graduale appariva tanto più saggio in quanto che il maggiore benefizio della conversione radicale immediata sarebbe stato con ogni probabilità in graji parte assorbito dalle maggiori spese di una conversione più difficile e rischiosa. E già alcuni minori esperimenti, come la conversione del prestito in oro
della città di Roma, e quello delle cartelle fondiarie a tipo internazionale della Banca d'Italia, avevano dimostrato che il decurtamento immediato di un mezzo per cento negli interessi provocava larghe domande di rimborso.


Già nel mio precedente Ministero io avevo fatto iniziare una preparazione di studio per una possibile conversione. Il mio successore Fortis aveva ripreso la pratica; aveva fatti passi a Parigi ed a Berlino ottenendo affidamenti di buone disposizioni da parte della Casa Rothschild, la quale per l'innanzi si era mostrata sempre assai riservata; ed aveva abbozzato in proposito un primo progetto; ma il suo Ministero cadde prima di essersi assicurati i necessari consensi. Il Sonnino, che successe al Fortis, aveva ripreso, segnatamente per opera del suo Ministro del Tesoro, on. Luzzatti, i negoziati; e il Comm. Bonaldo Stringher per desiderio del Ministero e del Luzzatti, ebbe a Mentone una prima intervista col Barone Edmondo de Rothschild, al quale espose i progetti del governo italiano ed il piano per attuarli, con la cooperazione della sua Casa. Anche allora il Rothschild riaffermò le sue buone intenzioni, ma dichiarò pure che la conversione italiana doveva attendere che fosse prima varato il prestito russo già concordato.

Si seppe poi che un'altra ragione dei temporeggiamenti della Casa Rothschild era che essa non aveva considerati abbastanza stabili i due precedenti ministeri, mentre riteneva necessario per il buon successo della conversione che il governo italiano fosse in condizione di prendere impegno di non fare nuove emissioni per un certo periodo di tempo.


Ad ogni modo un utile lavoro preliminare era già stato compiuto; ed assumendo il potere io interpellai subito la Casa Rothschild se fosse disposta ad entrare in trattative per la conversione; e il Rothschild rispose che considerava il mio governo abbastanza stabile perchè trattative potessero essere senz'altro avviate. A queste trattative io associai l'on. Luzzatti, quantunque non fosse più al governo, per la sua grande competenza in materia, e per i negoziati diretti mandai a Parigi l'11 giugno seguente, rappresentante del Governo italiano, il Comm. Stringher che iniziò il 14 giugno le trattative con la Casa Rothschild, la quale essendosi associati i maggiori Istituti di Berlino, e Banche e banchieri di Londra, rappresentava l'alta finanza internazionale.


Le trattative furono laboriose, per il diverso punto di vista delle parti contraenti; perchè da una parte il Governo italiano era interessato a non protrarre troppo a lungo il periodo d'applicazione del saggio intermedio del 3,75 per cento; dall'altra l'alta Banca francese, era ferma nel proposito di non concedere la garanzia dell'operazione, sìe tale periodo non fosse stato di almeno otto anni. Presi in considerazione tutti gli elementi del problema, e constatando che la garanzia offerta sarebbe costata troppo cara al Tesoro italiano ed avrebbe imposti vincoli incompatibili, parve a noi miglior consiglio di confidare nella resistenza del paese, e mantenere al Tesoro una maggiore libertà d'azione rinunciando a quella garanzia, ed avviando le trattative per altro cammino.

Così il 26 giugno, il Comm. Stringher firmava un contratto,, che due giorni dopo veniva ratificato dal Governo italiano, con la casa Rothschild e i rappresentanti della banca tedesca e di quella inglese; con esso noi ci garantivamo il concorso materiale e morale dell'alta Banca europea per sostenere la conversione della nostra rendita fuori d'Italia e per eliminare i pericoli di perturbazioni nel corso dei cambi sull'estero, senza sottometterci a condizioni non desiderabili nò finanziariamente né politicamente. Questo presidio della Banca internazionale prese la forma di un Consorzio, formato da un gruppo francese, da un gruppo tedesco e da un gruppo inglese, il quale s'impegnava di tenere a disposizione del Tesoro italiano la somma di 400 milioni di lire, divisi in 250 milioni di franchi a Parigi, due milioni e 400 mila sterline a Londra ed ottanta milioni di marchi a Berlino, per corrispondere fuori d'ltalia a tutte le domande di rimborso delle rendite da convertire, e per provvedere inoltre a tutti gli acquisti di titoli di rendita, che si fossero resi necessari a tutela dei prezzi, quindi a presidio della conversione, dal giorno del contratto a quello fissato per la chiusura del tempo utile alle domande di rimborso.

Come correspettivo a tale cooperazione, e dell'impegno di accettare la conversione e di fare opera per il suo esito favorevole, nel contratto era attribuito al Consorzio internazionale la provvigione dell'uno per cento  sulla somma impegnata; di modo che più largo sarebbe stato per esso il benefizio quanto minore fosse stata la somma dei rimborsi e degli acquisti sul mercato, vale a dire quanto più brillante fosse stato l'esito dell'operazione.

Erano poi considerati i casi della cessione e del ritiro dei titoli rimborsati e di quelli acquistati sul mercato; e la grande operazione era circondata della più prudenti cautele, per modo che essa potesse essere condotta a buon fine anche se avvenimenti gravi ed improvvisi avessero turbato transitoriamente il mercato monetario internazionale deprimendo per qualche tempo il corso generale dei valori di Stato. Nello stesso modo si costituiva un Consorzio italiano per la conversione della massima mole dei titoli, che si trovavano in Italia, ed al quale oltre gli Istituti di emissione parteciparono presso che tutte le forze finanziarie italiane, comprese le Casse di Risparmio, e le Banche cooperative. I patti sottoscritti dal Consorzio italiano erano sostanzialmente simili a quelli fatti al Consorzio internazionale, ma con le commissioni e gli altri corrispettivi a carico del Tesoro, ridotti alla metà anche in considerazione del fatto che il Consorzio nostrano partecipava ad una percentuale assai maggiore dell'operazione totale.


Il 26 di giugno il Coram. Stringher aveva firmato il contratto a Parigi; il 28 giugno il Governo l'aveva ratificato; il 29 giugno la legge per la conversione veniva presentata alla Camera. L'approvazione di questa legge costituisce un record di rapidità, credo non mai sorpassato. Il disegno di legge fu presentato
alla Camera alle tre pomeridiane; la Camera, nelle forme volute dal regolamento, e cioè a scrutinio segreto, deliberò di discuterlo immediatamente; l'onorevole Luzzatti, nominato relatore, presentò la relazione mezz'ora dopo, e la legge fu votata alle ore cinque. Alle cinque e mezzo fu presentata al Senato che la votò alle sei; alle ore otto era già firmata dal Re e  la  sera  stessa pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale. Tale rapidità nella emanazione della legge era necessaria per impedire qualunque manovra di Borsa.

Il risultato della operazione fu eccezionalmente felice. Le domande di rimborsi furono minime; le rendite rimborsate  all'estero  dal  Consorzio  presieduto dalla Casa Rothschild e fuori del Consorzio furono in tutto di poco più di tre milioni; quelle rimborsate in Italia ammontarono  ajd un milione e  661 mila lire, delle quali un milione circa appartenenti a stranieri, e trasmesse in Italia per le operazioni relative trattandosi di titoli vincolati. Il totale dei rimborsi fu di poco più di quattro milioni e mezzo. Le compere eseguite sul mercato per sostenere la quotazione durante la conversione ammontarono a circa sedici milioni e mezzo all'estero, e trentadue in Italia, la più gran parte dei quali concernevano titoli rimessi in Italia da Istituti e banchieri esteri, specie tedeschi; così che l'azione dei due Consorzi non dovè esercitarsi che sur un capitale complessivo di circa cinquantatre milioni e mezzo per gli acquisti e i rimborsi, rispetto ad un valore totale di otto miliardi e cento milioni di rendite.

Fu un risultato massimo con uno sforzo minimo. Si aggiunga che, visto l'esito felicissimo, tanto il Consorzio estero che quello nazionale ritennero per sé i titoli rimborsati ed acquistati; così che il Tesoro non ebbe né ad usare le disponibilità della Tesoreria, né a ricorrere a provvedimenti di carattere straordinario per raggiungere la meta. Anche la spesa per la conversione riuscì minima; sommando assieme tutte le commissioni fissate e le partecipazioni; gli oneri d'ogni genere inerenti al cambio dei titoli vecchi coi nuovi; gli assegni e le somme a forfait convenuti coi Consorzi e con le Banche, si raggiunse la somma di poco più di nove milioni e mezzo, equivalenti a dodici centesimi per ogni cento lire di capitale convertito. Conversioni per somme simili, anche recentemente in altri paesi erano costate dieci volte tanto.

Ricordo che poco dopo venne da me un ex-ministro delle finanze spagnuolo, appunto per conoscere come l'operazione fosse proceduta e quale ne fosse stato il costo; e quando io gli comunicai la cifra del costo, egli mi mostrò tanta incredulità che dovetti dargli una copia della relazione già stampata per persuaderlo che la somma era proprio quella. Oltre ai vantaggi permanenti per le finanze dello Stato, il magnifico successo di quella operazione giovò indirettamente assai al nostro paese, rialzandone il credito; tanto che non ostante la riduzione dell'interesse la nostra rendita continuò a mantenersi sovra la pari, mentre la nostra carta moneta arrivava  a  fare  aggio  sull'oro.

Un notevolissimo miglioramento si era prodotto in quegli ultimi anni nelle condizioni generali dell'economia nazionale; ed il bilancio dello Stato, che riflette fedelmente la economia del paese, si trovava nelle più floride condizioni, le entrate superando sensibilmente le spese, e ciò per effetto di un costante e rapido aumento nel gettito delle imposte.


Per misurare l'importanza di questo generale incremento basta il confronto del conto consuntivo dell'anno 1907-08, con quello dell'anno 1900-01. In quei sette anni vi era stato un aumento di entrate di 214 milioni; quantunque al bilancio 1907-08 non figurassero più gli 88 milioni di ritenute per imposta di ricchezza mobile sul debito pubblico, né 28 milioni di prodotti delle ferrovie; e quantunque fosse stato abolito il dazio consumo sulle farine, sul pane e la pasta, si fosse ridotta a metà la tassa sul petrolio, e coi trattati di commercio si fossero ridotte molte delle tariffe doganali, e per effetto della legge sul mezzogiorno e della applicazione del nuovo catasto in alcune provincie fosse diminuita di venti milioni l'imposta sui terreni.


A così rapido aumento di entrate avevano contribuito le privative per 83 milioni, le tasse di fabbricazione per 57, le tasse sugli affari per 47, l'imposta sulla ricchezza mobile riscossa coi ruoli per 33, le poste e telegrafi per 32, le dogane per 12, le tasse sul movimento ferroviario per 9, le altre imposte per somme minori.


Gli incrementi delle entrate permisero aumento di spese: il bilancio della pubblica istruzione fu portato da 49 a 85 milioni con aumento di 36 milioni, 15 dei quali furono dati alla istruzione elementare; il bilanco dell'agricoltura fu portato da 13 a 27 milioni; quello dei lavori pubblici salì da 79 a 117 milioni; quello delle poste e telegrafi crebbe da 69 a  123 milioni.


Ma la cifra più grossa degli aumenti di spesa fu quella occorsa per accrescere gli stipendi degli impiegati affinchè meglio corrispondessero all'accresciuto costo della vita. La somma di tali aumenti di stipendi dal bilancio 1900-01 a quello del 1907-08 ascese a 103 milioni, senza contare gli aumenti concessi ai ferrovieri che non figurano nel bilancio dello Stato, ma in quello speciale della gestione ferroviaria.


Il progresso economico che si rifletteva così potentemente sul bilancio dello Stato, presentava indizi egualmente favorevoli in tutte le altre manifestazioni della attività economica del paese. Così la importazione del carbon fossile che era nel 1900 di 4 947 180 tonnellate salì nel 1907 a tonnellate 8 300 439, mentre nello stesso periodo di tempo furono fatte concessioni di derivazioni dì acque pubbliche corrispondenti a 489 mila cavalli dinamici, e furono attuati impianti elettrici per la forza di cavalli dinamici 244 mila. Nello stesso periodo di tempo dal 1900 al 1907, il prodotto lordo di quelle ferrovie che erano
nel 1900 esercitate da società private e ora sono esercitate dallo Stato, salì da 297 a 434 milioni con un aumento del prodotto annuo di 137 milioni.


Pure dal 1900 al 1908 i depositi delle casse di risparmio ordinarie salirono da 1507 a 2109 milioni con un aumento di milioni 602; i depositi in conto corrente e a risparmio delle società ordinarie di credito salirono da 305 a 735 milioni con un aumento di milioni 430; i depositi delle banche popolari salirono da 463 a 908 milioni con aumento di milioni 445; i depositi delle casse di risparmio postali da 682 milioni salirono a 1487 milioni con un aumento di milioni 805. Adunque nel periodo decorso dal 1900 al 1908 i depositi agli istituti di credito, alle banche popolari e alle casse di risparmio ordinarie e postali salirono da 2957 a 5237 milioni con un aumento di milioni 2280. Nello stesso periodo di tempo le riserve metalliche dei tre nostri istituti di emissione salirono da 575 a 1450 milioni, dei quali 1177 in oro, con un aumento di milioni 875 sul totale delle riserve, e di 774 sulla riserva in oro.


Un altro importante indizio della cresciuta prosperità economica del paese era dato dal fatto che nell'esercizio 1900-01 il tesoro pagava all'estero, al netto da imposta, milioni 76 di interessi del debito pubblico, corrispondenti a un valore capitale in titoli di milioni 1900, mentre nell'esercizio 1907-08 i pagamenti all'estero per interessi del debito pubblico si ridussero a milioni 27 corrispondenti al valore capitale di 720 milioni. Ciò dimostrava che in sette anni il risparmio nazionale aveva riscattato dall'estero tanti titoli del nostro debito pubblico per un valore di 1180 milioni.


Una cifra forse ancora più impressionante sarebbe stata quella che rappresentasse l'aumento nell'ammontare dei salari annualmente riscossi in Italia dalle classi lavoratrici. Una statistica dei salari non esisteva ma chiunque avesse consideralo la grande differenza nella misura dei salari dal 1900 al 1908, differenza che in molte parti d'Italia, specialmente per i lavoratori della terra, costituiva un raddoppiamento, fe avesse moltiplicato tale differenza per le giornate di lavoro e per il numero di lavoratori di tutte le industrie e dei coltivatori della terra, sarebbe giunto ad una cifra quale nessuno aveva preveduto potersi raggiungere in  così breve volgere di  anni.


Un avvenimento di carattere e di grande importanza internazionale, che si compiè nell'ottobre del 1907, fu la visita che l'Imperatore di Russia fece al nostro sovrano a Racconigi, e che fu la prima visita ufficiale di  uno  Czar nel  Regno  d'Italia.


Quando Vittorio Emanuele III salì al trono, egli aveva iniziato il ciclo di visite ufficiali presso i Capi di Stato esteri, con un viaggio alla Corte dello Czar; avvenimento questo che aveva attratta molta attenzione nel campo internazionale, come un nuovo segno della tendenza già dimostrata dall'Italia di volere stringere cordiali relazioni con tutte le Potenze europee, pure mantenendo la sua ferma adesione alla Triplice Alleanza; tendenza che concorreva a riaffermare la volontà, già dimostrata in altri modi ed occasioni dall'Italia, d'imprimere sempre più a questa alleanza un carattere pacifico. La Corte imperiale di Russia aveva assai gradita la visita del nostro Sovrano, e sino dal tempo del Ministero Zanardelli aveva manifestato il proposito di restituirla solennemente. Ma in quella prima occasione le agitazioni anticzariste del partito socialista e la minaccia di cogliere l'occasione della venuta dello Czar per dimostrazioni ostili contro la politica interna djel governo russo, avevano adombrata la polizia russa a tal punto, che la visita fu sospesa.

Ricordo che quando io lasciai il Ministero Zanardelli, essendomi recato ad una udienza di commiato presso sua Maestà, questi mi disse scherzosamente: — Ma sa che Lei ha la virtù di cambiare la testa alla gente? — E seguitò raccontandomi che l'ambasciatore russo a Roma, signor Nelidoff, che era conosciuto come un conservatore e reazionario, e che quindi aveva sempre disapprovata la mia politica liberale, aveva manifestato il timore che il mio allontanamento dal Ministero dell'interno creasse difficoltà per la venuta dello Czar. Anche in questa nuova occasione, quando la probabile venuta dello Czar in Italia divenne di dominio pubblico, i socialisti si agitarono alquanto, e minacciarono dimostrazioni per protesta contro la politica di reazione con cui in Russia si erano schiacciate le agitazioni rivoluzionarie seguite alla disgraziata guerra col Giappone.

Per tanto si convenne che la visita non avrebbe avuto un ostentato carattere pubblico e si scelse il castello di Racconigi dove il Re soggiornava abitualmente nella stagione autunnale, come il luogo del ritrovo. A Racconigi Sua Maestà, oltre che me e il Ministro degli Esteri on. Tittoni, invitò pure il Nathan, allora Sindaco di Roma, perchè portasse allo Czar l'omaggio della Capitale. Il Nathan, che aveva fine senso politico, e comprendeva che la valutazione della importanza internazionale della visita doveva stare al di sopra di qualunque altra considerazione, accolse subito l'invito; e questo atteggiamento di un uomo rappresentativo delle tendenze democratiche valse assai a spegnere le velleità degli agitatori.

Si presero naturalmente eccezionali precauzioni per mettere assolutamente fuori di dubbio la sicurezza dello Czar e del suo seguito; alcune di queste misure, certamente le più efficaci, non apparivano; altre, ossia un grande sfoggio di truppe, rispondeva al costume vigente in Russia per tutti i viaggi e le visite dello Czar, a cui anche per cortesia noi dovevamo attenerci. E la visita infatti ebbe luogo senza che si producesse il benché menomo incidente; e ciò, oltre alle misure prese, era certo dovuto, anche in maggior parte, al buon senso ed alla cortesia innata del popolo italiano, che riconosceva l'importanza politica della visita, e sentiva altamente i doveri della ospitalità, come sempre.

Lo Czar era accompagnato dal suo ministro degli Esteri, Isvolsky e fra lui e me e Tittoni si conclusero a Racconigi alcuni importanti negoziati di cui già parecchi mesi addietro si erano occupate le due Cancellerie. Per parte nostra ci assumemmo l'impegno di dare la nostra adesione e collaborazione ad ottenere l'apertura dei Dardanelli, e per lo meno a stabilirne la neutralizzazione. Noi ci impegnammo per questo rispetto, qualora aderissero anche le altre grandi Potenze; e la nostra adesione si fondava pure sulla considerazione che se l'apertura, dei Dardanelli era sopratutto un grande interesse russo, non cessava per questo di essere anche interesse nostro. Per compenso la Russia s'impegnò, quando il caso si presentasse, di riconoscere i diritti preminenti dell'Italia su Tripoli.

Un altro argomento trattato a fondo, fu quello della comunità d'interessi nostri e della Russia in molteplici questioni del vicino Oriente. E furono stabiliti i seguenti punti. 1.° che l'Italia e la Russia si sarebbero adoperate, in primissima lignea, a mantenere l'integrità dell'Impero Ottomano; 2.° che per qualunque eventualità che si producesse nei Balcani, le due Potenze avrebbero sostenuta l'applicazione e lo sviluppo del principio di nazionalità; 3.° che se l'AustriaUngheria avesse proposto all'Italia o alla Russia la conclusione di un nuovo accordo speciale riferentesi alle questioni orientali, quella delle due Potenze che avesse ricevuto l'invito ad un tale accordo l'avrebbe accettato solo nel caso che fosse egualmente assicurata la partecipazione dell'altra.

Durante il mio soggiorno a Racconigi ebbi occasione di avvicinare lo Czar in lunghe conversazioni; ed ebbi di lui l'impressione di un uomo di indole molto buona e mite, ed anche di non comune intelligenza e cultura; fra l'altro egli si mostrava molto informato delle cose nostre e se ne interessava con sincerità evidente; ma ebbi pure l'impressione che egli non fosse dotato di una chiara volontà e di ferma energia. L'ambiente che lo circondava esercitava manifestamente una decisiva influenza su di lui; e per dare una idea che cosa fosse questo ambiente ricorderò un piccolo episodio personale. Quando lo Czar era in partenza, io mi trovavo, per andare alla stazione, nella stessa carrozza col Ministro della Casa Imperiale, Friedrish, il quale mi complimentò lungamente sul modo con cui era stato organizzato il servizio per la sicurezza dello Czar. Ed alla fine per farmi quasi un complimento supremo, egli uscì fuori in questa frase: — C'est dommage que vous ne soyez pas militaire!


Un altro avvenimento di grande importanza, sia per le sue ripercussioni internazionali immediate, che per quelle che si dovevano poi manifestare nell'avvenire, fu la rivoluzione giovane-turca. Come è noto essa condusse il governo Austro-Ungarico all'annessione della Bosnia-Erzegovina; fatto questo che costituendo una gravissima violazione del Trattato di Berlino, e invelenendo la questione serbo-austriaca, e quella più vasta austro-russa, suscitò una gravisisima commozione in Europa, tanto da fare per qualche momento temere lo scoppio della guerra. L'Europa allora evitò la guerra solamente subendo la volontà dell'AustriaUngheria, appoggiata apertamente dalla Germania, ed accettando il fatto compiuto. Il Governo Imperiale di Vienna, nei negoziati che allora corsero anche con l'Italia, fece però mia concessione che apparve poi di notevole importanza, rinunciando all'occupazione del Sangiaccato di Novi Bazar e ritirandone le sue guarnigioni; rinuncia e ritiro le cui conseguenze apparvero poi nella guerra balcanica, in quanto permisero la cooperazione degli eserciti bulgari e serbi contro la Turchia, senza che si generasse il pericolo di un intervento austroungarico, che avrebbe condotto alcuni anni prima alla guerra generale europea.


Nello scambio di vedute che intercorsero in quel tempo fra il nostro Ministro degli Esteri, on. Tittoni, e il Ministro degli esteri austriaco Aehrenthal, noi avevamo ottenuto la formale promessa della costituzione di una Università italiana a Trieste, per quella difesa della italianità triestina che anche nell'ambito dell'alleanza era stata sempre apertamente e giustificatamente nel nostro programma, in quanto non c'era ragione che il Governo austriaco facesse alla nazionalità italiana trattamento diverso dalle altre. Ma quando nel principio del 1909 si doveva venire all'attuazione, il progetto elaborato dal governo austriaco non apparve menomamente conforme ai nostri desideri ed alle assicurazioni date; — invece di una Università a Trieste si pensava di istituire una facoltà giuridica italiana nella Università di Vienna.

Il Tittoni, il quale fondandosi sulle assicurazioni date dallo Aehrenthal, e col suo consenso, aveva alla sua volta dato assicurazioni al Senato ed alla Camera dei Deputati, s'indignò per questo mancamento d'impegno, protestò energicamente a Vienna, chiedendo, a mezzo dell'ambasciatore nostro, Duca d'Avarna, che piuttosto non si facesse niente, e che intanto si sospendesse qualunque decisione, perchè la creazione della facoltà giuridica a Vienna, obbligando gli studenti triestini a recarsi a vivere in un centro essenzialmente teder sco, pareva piuttosto diretta contro che a favore dell'italianità di Trieste.

L'Aehrenthal rispose di non poterne far nulla, pure scusandosi privatamente, e dichiarando che questa soluzione della questione era voluta dall'Arciduca Ferdinando, il quale, partigiano del trialismo e dello slavismo, della italianità era stato sempre e particolarmente nemico.


Allora il Tittoni mi scrisse proponendomi di rassegnare quale Ministro degli Esteri, le sue dimissioni per protesta contro la sleale condotta austriaca. Benché io partecipassi ai suoi giusti sentimenti, non potei approvare una tale decisione. Mi trovavo a Cavour, e fra me e Tittoni avvenne in proposito mio scambio di telegrammi. Il Tittoni insisteva nella idea di presentare le dimissioni, sia per dare una soddisfazione  all'opinione pubblica italiana, che traverso  i giornali cominciava ad agitarsi, sia per un monito all'Austria ed alla Germania della difficoltà che l'Italia avrebbe a mantenersi nella alleanza, quando fosse esposta a tale trattamento da parte di uno degli alleati. Io gli risposi che, per quanto considerassi da ogni lato la questione non riuscivo a persuadermi che le sue dimissioni potessero recare giovamento sia all'estero che all'interno; e che d'altra parte non pensavo che la questione potesse produrre vera e profonda agitazione nel paese; pochissimi essendo stati quelli che avevano veramente creduto alla istituzione di una Università italiana a Trieste; io, fra gli altri, dovevo confessare di non averci creduto.

Ora, rilevare la mancata istituzione come un'offesa così grave da provocare le dimissioni del Ministro degli Esteri, e poi continuare nella stessa politica di adesione alla Triplice Alleanza, non mi pareva decoroso, e forse non sarebbe stato nemmeno possibile. Le dimissioni, come dimostrazione di ira impotente non avrebbero poi certamente giovato al nostro prestigio; mentre all'interno esse dimostrerebbero che anche il Governo considerava l'atto dell'Austria come offesa all'Italia, e provocherebbero gravi manifestazioni. Aggiungevo che, poiché egli stesso riconosceva l'impossibilità di mutare allora la nostra politica estera, era evidente come non convenisse rilevare in modo così solenne l'accaduto, tanto più che la prossimità delle elezioni avrebbe potuto complicare maggiormente la situazione, con conseguenze gravi, non paragonabili alla piccola pacificazione degli animi che le dimissioni potrebberò momentaneamente produrre.

E concludendo osservavo di non ammettere assolutamente che il contegno di un ministro austriaco potesse produrre una crisi di governo in Italia. Ciò avrebbe potuto essere solo nel caso in cui l'Italia volesse mutare radicalmente politica, denunciando senz'altro la Triplice Alleanza; nel qual caso però io per primo avrei date le dimissioni, non intendendo di assumermi la responsabilità di esporre in quel momento il paese ad una guerra. Esclusa la eventualità di un mutamento decisivo e sostanziale nella nostra politica estera, le dimissioni motivate con un tale episodio produrrebbero all'estero una pessima impressione, mettendoci, per le nostre relazioni con l'Austria, al livello della Serbia. E l'Italia non aveva che due vie: o non rilevare la mancanza di riguardo dell'Austria, o andare alle ultime conseguenze. La responsabilità di questa seconda soluzione io non l'avrei assunta, sia perchè una guerra, qualunque ne fosse stato l'esito militare, sarebbe riuscita allora per l'Italia un disastro, sia perchè ci saremmo trovati affatto isoiati.


Le mie ragioni finirono per persuadere il Tittoni. e le dimissioni non furono presentate. La condotta dell'Austria e le sue mancate promesse produssero grande irritazione a Trieste, e raggiunsero l'effetto opposto a quello che il Governo di Vienna si proponeva, provocando una ripresa dell'agitazione nazionale. E siccome in quel tempo vi erano a Trieste le elezioni municipali, nelle quali il governo austriaco sosteneva apertamente l'elemento slavo, io, a mezzo di Ernesto Nathan, aiutai con fondi gli italiani nella lotta, che risultò in una loro grande vittoria.


Un ultimo l'atto di carattere internazionale, pure concernente i Balcani, che si compiè durante quel mio Ministero, fu l'accordo con gruppi francesi, russi e serbi per una ferrovia Adriatico-Mar Nero, che veniva a contrapporsi a quella di iniziativa austrotedesca per Salonicco.


Sino dalla metà del mese di marzo 1908, in seguito a concerti intervenuti col Governo serbo, il quale già aveva avviati opportuni negoziati, la Compagnia Ottomana della ferrovia che congiunge Salonicco a Costantinopoli, appoggiata dalla Banca Imperiale Ottomana di cui era una filiazione, aveva presentato al Ministro dei lavori Pubblici dell'Impero Ottomano, domanda di concessione per una linea di strada ferrata DanubioAdriatico. Tale domanda faceva appunto seguito alla concessione accordata dalla Sublime Porta a un gruppo di altri cospicui interessi collegati a un tronco di strada ferrata inteso a congiungere Uvacz con Mitrovitza, e quindi a rendere più. brevi e più rapide le comunicazioni della Monarchia austriaca e dell'Impero germanico col Mare Egeo, guardando  a Suez e all'Oriente.


Data l'importanza economica e politica di un'altra linea destinata invece a congiungere ferroviariamente il Danubio  con l'Adriatico, attraverso la Serbia, il Vilajet di Kossovo e l'Albania, partendo da Turn-Severin e mettendo capo su quel mare di fronte a Bari, noi vedemmo la necessità che l'Italia non rimanesse estranea all'impresa per la quale il gruppo francese della Banca Imperiale Ottomana aveva già chiesta la concessione, e che anzi l'Italia vi prendesse parte efficacemente, ed operammo con ogni energia in tal senso.


Stabilito tale criterio l'on. Tittoni invitò il Direttore della Banca d'Italia a considerare sollecitamente, nell'interesse del paese, la possibilità di raccogliere fra noi i capitali occorrenti,a una partecipazione notevole nella accennata impresa, e la convenienza di avviare, frattanto, trattative — appoggiate diplomaticamente; — per giungere a un sollecito accordo col gruppo francese della Banca Imperiale Ottomana, allo scopo di assicurare all'Italia la partecipazione medesima.


L'intervento della Banca d'Italia essendo stato gradito dal Governo francese e dalla detta Banca Imperiale Ottomana, furono spinti alacremente a Parigi i negoziati, i quali condussero poi non solamente ad un'intesa fra i due Istituti, ma ad un atto di carattere internazionale, colla data del 5 giugno, al quale parteciparono, oltre i francesi, i rappresentanti di un gruppo serbo e di un gruppo russo, per la costituzione di un'impresa di nazionalità ottomana, avente per iscopo: la costruzione e l'esercizio di una strada ferrata dal confine serbo occidentale a San Giovanni di Medua sull'Adriatico o in un punto più a nord su territorio ottomano; e la costruzione e l'esercizio di un porto alla testa della linea ferroviaria sull'Adriatico.


Per le intelligenze passate a Roma e a Parigi, il gruppo italiano si doveva formare e costituire sotto gli auspici della Banca d'Italia, che ne doveva prendere la direzione e rappresentarlo con gli opportuni poteri, allo scopo di dare una impronta di nazionalità al gruppo medesimo e di conservarne l'unità di indirizzo e d'azione.


Secondo gli accordi sottoscritti a Parigi il giorno 5 giugno 1908, l'impresa complessiva doveva essere distinta in due rami, con due Società diversamente composte, sebbene formate coi medesimi elementi: l'una per la strada ferrata e l'altra per il porto, avvertendo che, secondo i tecnici della Banca Imperiale Ottomana, la somma complessiva di costruzione non dovrebbe presumibilmente eccedere i ses>santa milioni, ma che, col porto, si sarebbe potuta calcolare in una cifra non superiore a 65 milioni.
Per quanto concerne la strada ferrata, le partecipazioni furono così fissate: gruppo francese 45 per cento; italiano 35 per cento; russo 15 per cento; serbo 5 per cento.


Il Consiglio d'Amministrazione della Società ferroviaria si doveva comporre di dodici membri, dei quali, cinque in rappresentanza idei .gruppo francese, quattro dell'italiano, due del russo ed uno del gruppo serbo.


Per quanto concerne il porto, non si era fissata la distribuzione delle parti, ma si era già formalmente stabilito che l'Italia doveva avere non meno del 50 per cento così nella partecipazione al capitale come nella composizione del Consiglio d'Amministrazione. La Banca d'Italia, con accordo riservato, si era poi assicurata che la parte italiana arrivasse al 55 %.


Con atto riservato, fra la Banca Imperiale Ottomana e la Banca d'Italia si era poi convenuto che il presidente della Società ferroviaria fosse un francese e presidente della Società del porto un italiano, e che i vice presidenti fossero reciprocamente, italiano e francese.


La costruzione della linea di strada ferrata rimaneva assegnata al gruppo francese, il quale si era obbligato di far aegua parte nella costruzione medesima al solo gruppo italiano; la costruzione del porto era riservata al gruppo italiano che, per reciprocità, doveva fare aequa parte al gruppo francese.


La Società Ottomana Jonction Salonique-Constantinople, che aveva già chiesta la concessione della nuova linea di strada ferrata, si assumeva di chiedere anche la concessione del porto da costruire sul mare Adriatico, ed essa continuava i negoziati presso il Governo ottomano, sotto gli auspici della Banca Imperiale Ottomana, e con l'appoggio dei gruppi che col protocollo del 5 giugno 1908 si erano assunti l'impresa, vale a dire, con l'ausilio dell'azione diplomatica dei quattro Governi. La Banca Imperiale Ottomana si era pure impegnata a consultare i gruppi associati su tutte le questioni importanti riguardanti sia la strada ferrata, sia il porto, in relazione ai negoziati a Costantinopoli, sino alla determinazione delle condizioni essenziali della concessione e al suo conseguimento.


Prima fra le accennate condizioni essenziali, senza della quale non si sarebbe costituita la Società Danubio-Adriatico e non avrebbe avuto seguito l'impresa, era quella della garanzia dei capitali che dovevano essere impegnati nell'impresa stessa. L'ammontare la natura e la formula delle necessarie guarentigie dovevano essere determinate d'accordo con la Banca Imperiale Ottomana. A tale riguardò, nei convegni di Parigi, furono scambiate talune idee circa il fond'amento finanziario di siffatte guarentigie sulla base di informazioni attinte dagli uomini competenti della Banca Imperiale Ottomana; ma era evidente che il conseguimento di una garanzia valida e ferma, quale era necessaria per affrontare le spese delle costruzioni e dell'esercizio delle due imprese, dipendeva, oltre che dal buon volere della Turchia, dal consenso delle grandi Potenze.


I dirigenti della Banca Imperiale Ottomana si erano impegnati a fare in modo che il delegato italiano nel Consiglio del debito pubblico ottomano fosse tenuto al corrente di tutte le questioni importanti relative ai negoziati che fossero condotti a Costantinopoli per assicurare il buon successo della concessione. Così il nostro gruppo era in condizione di seguire i negoziati e misurarne le conseguenze.


Secondo le idee scambiate a Parigi il capitale occorrente alla costruzione della strada ferrata e del porto doveva essere raccolto mediante la emissione di azioni e di obbligazioni, serbando la proporzione di un quarto, o anche meno, per le azioni e il resto per le obbligazioni opportunamente garantite.


Le azioni dovevano essere sindacate per un periodo di cinque anni, salvo il rinnovo della sindacazione, se le parti contraenti lo ritenevano necessario. Il Governo italiano, per suo conto, riteneva conveniente che non si limitasse a cinque anni l'impegno per le azioni del gruppo italiano, essendosi dichiarato disposto ad agevolare il gruppo assuntore degli impegni con opportuni accordi da stabilirsi fra il gruppo medesimo e gli Istituti di emissione, segnatamente per quanto concerneva operazioni di anticipazione sulle obbligazioni da (emettersi, le quali avrebbero potuto eventualmente essere considerate come titoli di Stato forestieri.


Nel principio del 1909 il governo dovette prendere in esame la questione delle elezioni politiche, che dovevano essere tenute entro l'anno, perchè la Camera aveva avuto lunga vita e col 13 dicembre di quell'anno scadeva il suo termine normale. Si trattava di considerare quale fosse, nei mesi che ancora ci separavano da quella scadenza, l'epoca più opportuna per convocare i comizi elettorali. Due considerazioni s'imponevano immediatamente: la prima era che la lotta elettorale, nell'approssimarsi di quel termine, era di già cominciata di per se stessa in parecchie provincie, e che tale lotta, protraendosi troppo a lungo avrebbe recato danno alla vita normale del paese; la seconda era che lo stato attuale dei lavori parlamentari non lasciava spierare che si potesse ultimare la discussione dei bilanci nei due rami del Parlamento prima delle ferie pasquali, con la conseguenza che lo scioglimento della Camera dei Deputati dopo tale periodo avrebbe condotto di necessità all'esercizio provvisorio dei bilanci; ciò che io ritengo si debba cercare sempre di evitare. Se invece si convocavano i comizi elettorali entro il mese di marzo, si poteva avere la regolare costituzione della Camera prima delle ferie pasquali, con tempo sufficiente nei mesi seguenti per un'ampia discussione dei bilanci, che avrebbe acquistata maggiore importanza, perchè fatta da una Camera appena eletta dai suffragi del paese, e che si doveva ritenere ne rispecchiasse più direttamente la volontà e le inclinazioni.
Per queste considerazioni il Ministero propose lo scioglimento della Camera dei Deputati, e la convocazione dei Comizi elettorali pel 7 e pel 14 marzo.


La legislatura che così si chiudeva aveva corrisposto pienamente al programma con cui era stata convocata, ed in quasi tutte le parti della nostra legislazione aveva condotto a termine riforme di importanza notevolissima.


In esecuzione del programma esposto dal Governo prima delle ultime elezioni generali, si era avocato allo Stato l'esercizio delle principali reti delle strade ferrate, comprendenti tredicimila duecento chilometri che erano esercitati da Società private, rendendo lo Stato proprietario di tutte quelle reti mediante il riscatto delle Ferrovie meridionali, e votando poi con due leggi successive una spesa di 910 milioni per dare assetto regolare alle ferrovie delle quali lo Stato aveva assunto l'esercizio.


Del migliore assetto derivante da quei provvedimenti si erano quasi subito veduti i benefici effetti, essendosi riusciti a far fronte ad un aumento di traffico  che superò tutte le previsioni.


Nel campo finanziario oltre la conversione della rendita, altri importanti provvedimenti furono: la riduzione a metà della tassa sul petrolio e una ulteriore riduzione della stessa tassa già assicurata a breve scadenza per effetto del trattato di commercio con la Russia; la riduzione della tariffa postale; l'avocazione allo Stato di molte spese che gravavano le provincie ed i comuni; il riscatto delle linee telefoniche prima esercitate dalla industria privata; le leggi sugli Istituti di emissione con la riduzione delle tasse di bollo sulle cambiali e della tassa sulle anticipazioni.


Le opere pubbliche, le quali così potentemente aiutano lo sviluppo della ricchezza pubblica ebbero un grande impulso: con la legge 12 luglio 1906 che ordinò la costruzione delle ferrovie complementari della Sicilia; con le leggi che ordinarono la costruzione di ferrovie e di molte altre opere pubbliche nella Basilicata e nella Calabria; con la legge 14 luglio 1907 per nuove opere portuali, che fu la più completa legge votata dal  Parlamento  italiano  in  tale  argomento; con la legge 12 luglio 1908 che ordinò la costruzione di nuove ferrovie per la spesa prevista di 600 milioni.


Le riforme organiche nei pubblici servizi avevano avuta pure larga parte nell'opera legislativa: basti ricordare le modificazioni all'ordinamento giudiziario; la legge sulle guarentigie e sulla disciplina della magistratura; quella che riordinò le cancellerie e segreterie giudiziarie; il riordinamento della giustizia amministrativa; la legge sullo stato giuridico degli impiegati civili; la legge per l'incremento dell'insegnamento elementare; il disegno di legge sui professori universitari presentato alla Camera; la legge che riordinò i servizi delle belle arti; il disegno di legge sulla tutela del patrimonio artistico; le numerose leggi che provvidero al riordinamento dei vari seivizi della marina militare, in parte precedendo in parte secondando le proposte della Commissione parlamentarfe d'inchiesta; la nuova legge sul reclutamento dell'esercito, e quella che stanziò i fondi per spese straordinarie militari per la difesa dello Stato.


Per quanto riguarda l'ordinamento dell'esercito era stata, con legge proposta dal Governo, ordinata una inchiesta la quale, affidata ad autorevolissima Commissione, aveva già compiuto un primo periodo di lavori e fatte delle proposte che in parte erano state già approvate pfer legge e in altra parte dovevano dare luogo a nuove proposte legislative.


Più intensa ancora era stata l'opera di questa legislatura nel campo delle riforme sociali. Con importanti leggi organiche si era assicurato a tutti i lavoratori il riposo domenicale; si era provvisto a rendere più sicura e feconda la cassa per la vecchiaia e l'invalidità degli op'erai; si era abolito il lavoro notturno nella fabbricazione del pane; si erano migliorate le leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli; si erana concesse con due leggi successive grandi facilitazioni e sussidi per la costruzione delle case popolari; si era provveduto a rendere più pronta e più facile la riabilitazione dei condannati che ne fossero degni: si era facilitata la concessione di mutui di favore della Cassa depositi e prestiti ai Comuni per acquedotti ed altre opere igieniche; si era presentato un disegno di legge per risolvere la gravissima questione dell'infanzia  abbandonata.


Infine nel corso di quella legislatura si era votata tutta una serie di leggi dirette a provvedere a speciali necessità di alcune parti del Regno. Meritano particolare ricordo la legge 15 luglio 1906 di provvedimenti per le provincie meridionali, la Sicilia e la Sardegna; la legge per la Calabria del 25 giugno 1906; la legge 9 luglio 1908 per la Basilicata e la Calabria; la legge per Roma dell'11 luglio 1907; la legge portante l'esenzione da imposta delle case dei contadini nelle provincie meridionali, in Sicilia e in Sardegna; i provvedimenti per l'industria zolfifera e per il commèrcio degli agrumi e loro derivati; la legge per i danneggiati dalle eruzioni del Vesuvio; e finalmente quella votata con mirabile e unanime slancio di fratellanza dalla Camera e dal Senato per i primi provvedimenti a favore dei danneggiati dal terremoto del 28 dicembre 1908.


Il complesso di quei provvedimenti, rispondeva ad una politica di pace, di libertà, di lavoro, di giustizia sociale, che io ritenevo dovesse continuare con sempre crescente fermezza ed energia, se si voleva che il nostro paese si avvicinasse rapidamente a quell'alta mèta che fu ed è l'ideale di quanti amano l'Italia. Che questo ideale si potesse raggiungere perseverando nella via seguita lo dimostrava in modo evidente il grande progresso compiuto dall'Italia in quegli ultimi  anni.


Il programma col quale il governo convocava ora i comizi elettorali perchè giudicassero l'opera sua, e ad un tempo indicassero le vie da seguirsi nell'avvenire, era, ed altro non poteva essere, che la continuazione del programma già esplicato. Nel mio pensiero si doveva continuare nell'opera di costruzione economica, collegata a giustizia sociale, che già tanti frutti aveva dati, e per la quale soltanto l'Italia poteva sperare di compiere tutto il ciclo di progresso materiale e morale a cui era destinata per le mirabili qualità del suo popolo, intelligente e laborioso. Quindi nella relazione con cui avevo proposto al Re la convocazione dei Comizi elettorali, io richiamava fra l'altro e particolarmente l'attenzione alla necessità di intensificare in tutte le classi sociali l'istruzione tecnica, dalla quale dipende in gran parte il progresso delle industrie e della cultura artistica applicata alle industrie, nella quale l'Italia,  con le sue tradizioni e con le squisite attitudini dei suoi lavoratori, avrebbe dovuto conquistarsi un vero primato.

Un altro punto su cui richiamavo l'attenzione era il problema della sapiente utilizzazione delle forze idrauliche, di cui il nostro paese è così riccamente dotato, quasi a compenso della sua povertà di carbone. A tale proposito io avevo già presentato ,al Senato un disegno di legge, che avrebbe dovuto essere discusso dalla nuova legislatura, ricollegando anche alla soluzione di quel problema quello del rimboschimento dei nostri monti e della sistemazione idraulica dei nostri fiumi. L'Italia ormai, superate le lotte per le pubbliche libertà, e superate pure le difficoltà finanziarie che per lungo tempo ne avevano inceppato lo sviluppo, si avviava rapidamente a raggiungere il livello di civiltà di paesi più ricchi e fortunati, cancellando le ultime traccie di quella inferiorità di cui aveva sofferto non per deficienze intrinseche del suo popolo, ma per eredità di avvenimenti sfortunati. Il rapido progresso compiuto negli ultimi anni dimostrava che eravamo sulla buona via e che sarebbe stato errore gravissimo l'abbandonarla per mettersi in una politica di avventure e di precipitate riforme nella parte vitale dei nostri ordinamenti.

E che tale fosse il pensiero ed il sentimento profondo del nostro popolo, lo mostrarono nuovamente i risultati di quelle elezioni, riconfermando la fiducia nel programma da parecchi anni già esplicato.

La nuova legislatura dovette subito affrontare un problema di grande importanza, e cioè quello dei servizi marittimi, che erano esercitati in modo da non corrispondere più agli aumentati bisogni ed alla capacità di espansione del paese; nello stesso modo che non aveva più corrisposto a questi bisogni, nei trasporti di terra, il regime ferroviario delle società concessionarie. Questi servizi erano allora in buona parte esercitati dalla Navigazione Generale, la quale preferendo di mantenere la navigazione libera, rifiutò di intervenire ad accordi per il nuovo progetto di convenzioni marittime e di assumere i servizi. Il rifiuto della Navigazione Generale, che aveva un quasi monopolio dei mezzi e delle competenze, ci creò gravi difficoltà, ed io pensai di rispondere a questa specie di boicottaggio organizzando un'altra società abbastanza potente, che potesse dare un impulso molto energico alla nostra marina mercantile. Per raggiungere tale scopo era necessario mettere alla testa di questo servizio una persona di competenza eccezionale e che godesse inoltre di largo credito. Da prima io rivolsi la mia attenzione alla Società Adriatica, che aveva appunto cessato dall'esercizio delle ferrovie, e che aveva molto capitale e godeva di molto credito nel mondo finanziario, per persuaderla a trasformarsi in una grande società di trasporti marittimi; ma il suo direttore, il Borgnini, che era uomo di molto valore,  non  si sentì,  essendo  avanzato  negli anni, di mettersi in una impresa per lui affatto nuova; e così questo proposito venne a mancare.

Allora il Governo si rivolse al Senatore Piaggio, conosciuto come una delle persone più competenti in materia marinara, e che godeva pure di largo credito finanziario. Il Piaggio accettò la proposta, e dopo lunghe discussioni col Ministro competente, ono1revole Schanzer, si addivenne alla conclusione di una convenzione che fu subito presentata alla Camera per l'approvazione. Il progetto, che pure dopo il suo abbandono fu riconosciuto dai competenti come tecnicamente ottimo, e il più completo e il più utile al commercio marittimo fra quanti se ne erano escogitati e prima e dopo, provocò una violentissima opr posizione che ebbe pure una forte ripercussione nel Parlamento. Questa opposizione tentò di sollevare contro il progetto la deputazione meridionale e sopratuttó siciliana, avanzando l'argomento che esso non tenesse abbastanza conto degli interessi dei porti meridionali, mentre in realtà esso provvedeva pure alla costituzione di una sede a Palermo. E siccome si muoveva al Governo l'accusa di avere fatte troppe larghe condizioni alla società concessionaria, il Senatore Piaggio, con lettera a me diretta, dichiarò di rinunciare al contratto già concluso, consentendo che si addivenisse ad un'asta pubblica. Tale offerta, che metteva fuori dubbio l'assoluta coi*rettezza delle parti impegnate, fu accettata, e si stabilì di fare le aste, rimandando all'autunno la ripresa della discussione.

Io però ormai mi ero persuaso che l'opposizione al progetto era talmente forte, che difficilmente si sarebbe riusciti ad una conclusione. E non trovando ragionevole che la condotta del governo dovesse essere giudicata in un problema di carattere essenzialmente tecnico e nella quale l'opposizione nasceva da interessi speciali, pensai di spostare la questione su un campo essenzialmente politico. E così, alla riapertura della Camera, seguendo un mio indirizzo ripetutamente affermato, presentai un disegno di legge, il quale per una parte, in rispondenza allo spirito del programma con cui il Governo si era presentato alle elezioni, diminuiva l'imposta sullo zucchero allo scopo di aumentare il consumo di un alimento di carattere popolare e di giovare nello stesso tempo alle finanze; per l'altra conteneva un progetto d'imposta progressiva globale sui redditi di ricchezza mobile, terreni e fabbricati. Il progetto sollevò l'opposizione di tutto il conservatorismo italiano, il quale, se nel campo politico aveva ormai battuto in definitiva ritirata, difendeva ancora energicamente le sue posizioni economiche. La discussione agli Uffici si dimostrò subito poco favorevole, e la Commissione che ne fu eletta risultò in grande maggioranza ostile. Allora — era il dicembre del 1909 — il Governo da me presieduto rassegnò le sue dimissioni.

Siccome l'opposizione si era manifestata alla Camera in senso conservatore, fu indicato per la formazione del nuovo Ministero l'on. Sonnino, il quale assunse il Governo l'11 dicembre, prendendo seco agli Esteri il Guicciardini; alla Grazia e Giustizia il Senatore Scialoja; al Tesoro l'on. Salandra; alla Istruzione il Daneo; ai Lavori Pubblici il Rubini e l'on. Luzzatti all'Agricoltura. Il Ministero così formato, per gli uomini che vi partecipavano, rispondeva alla crisi da cui era originato; era insomma il Ministero più conservatore che si potesse mettere assieme nel Parlamento italiano, pure considerando che le tendenze conservatrici dei suoi componenti avevano subito negli ultimi anni profonde modificazioni, attenuandosi, sopra tutto dal punto di vista politico e per le direttive generali, assai notevolmente.


Il Ministero Sonnino dovette subito affrontare esso pure il problema delle Convenzioni marittime; e propose una Convenzione in forma assai ridotta, allo scopo evidente di evitare molte delle opposizioni che il progetto da me presentato aveva suscitate. Ma tale scopo non fu raggiunto che in parte; l'opposizione, quantunque in alcuni punti attenuata, si manifestò tuttavia anche questa volta forte assai. Io arrivai a Roma prima che fosse iniziata la discussione parlamentare; ed esaminando la situazione mi persuasi che le persistenti opposizioni si sarebbero potute  vincere  con  alcune  modificazioni.   Pertanto a mezzo del Bertolini, pregai il Sonnino di rinviare la discussione dopo Pasqua, per guadagnare tempo ed escogitare i modi per disarmare almeno parte degli oppositori. Il Sonnino non accettò questo consiglio, credendo necessario di affrontare la discussione immediatamente; ma l'opposizione si manifestò subito così vivace ed energica che egli non insistè nemmeno per la votazione, ed il 31 marzo presentò le dimissioni.

Così per la seconda volta l'on. Sonnino aveva presa la direzione del Governo, senza riuscire a superare le prime difficoltà che si parano avanti inesorabilmente a chiunque si assuma questa suprema responsabilità della vita politica; e questo non ostante il grande rispetto e l'estimazione di cui godeva nel mondo politico e parlamentare per le qualità del suo carattere, del suo ingegno e della sua cultura, e per la sua lunga preparazione.

Questo suo insuccesso, che non fu mai scompagnato dalla più rispettabile dignità, può servire a dimostrare quanto varie e complesse sieno le qualità che si richiedono per l'esercizio del governo, e come la mancanza di una sola possa infirmare tutte le altre.

L'on. Sonnino, datosi tutto sino dalla gioventù alla vita politica, ed entrato ancora giovanissimo nel Parlamento, e dotato pure di grande volontà e serissima capacità di lavoro, si era fatta una preparazione di dottrina e di cultura nei diversi rami della amministrazione dello Stato, quale non hanno neppure lontanamente avuta altri più fortunati di lui. Ma se egli conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini, la cui cooperazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei regimi democratici e rappresentativi. Sempre un po' isolato ed appartato anche in mezzo ai suoi amici, si è tanto più trovato a disagio nelle assemblee, che vogliono essere dominate, ma a mezzo di una sagace persuasione che tenga conto di tutti i loro umori, e che sappia volgerli ai propri fini. E gli è mancato pure il sentimento che i problemi politici, pure rimanendo sempre gli stessi nel loro nocciolo, sono essenzialmente mutevoli nei loro rapporti con le condizioni e le circostanze fra le quali vengono affrontati. Ad ogni modo le sue migliori qualità egli le spiegò quando ebbe dei compiti di carattere strettamente tecnico e nei quali la sostanza prevale necessariamente sulla forma, specie come ministro del Tesoro; nel quale compito, in un momento difficile delle nostre finanze, quella sua stessa rigidezza e inflessibilità che in altre materie e circostanze poteva apparire irragionevole, servì a proteggere il bilancio dello Stato.

FINE DEL VOLUME PRIMO.


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GIOVANNI GIOLITTI


MEMORIE DELLA MIA VITA


VOLUME  SECONDO.
1922

X.

Il suffragio universale e il monopolio.

Il Ministero Luzzati; perchè cadde—La necessità di un più ampio suffragio — Il mio programma e il nuovo invito ai socialisti — Manovre contro il monopolio e il suffragio universale — L'opposizione diplomatica al monopolio — La guerra di Libia — Perchè avevo anteposto il progresso economico a quello politico delle classi popolari — La partecipazione delle classi popolari alla vita politica, ed il rafforzamento politico e l'incremento economico dello Stato — Come fu congegnato il mio progetto di riforma — La lotta mascherata contro di esso — I risultati del primo esperimento.


Per la formazione del nuovo Ministero le indicazioni parlamentari furono largamente favorevoli all'on. Luzzatti, il quale già da lunghi anni si era
guadagnata meritatamente un'alta fama per la sua
grande e geniale cultura, e per la sua eccezionale
competenza in materia economica e finanziaria; competenza esperimentata ripetutamente nei vari dicasteri
tecnici ed alle Finanze e al Tesoro particolarmente.
Quantunque egli traesse le sue origini dall'antica Destra, il suo ingegno agile e pieghevole aveva seguito
il movimento dei tempi; ed egli potè benissimo presiedere un Ministero di spiccato carattere di Sinistra, al quale parteciparono San Giuliano agli Esteri;
 Fani alla Giustizia; Facta alle Finanze; Tedesco al
 Tesoro; Spingardi alla Guerra, e due radicali, Sacchi e Credaro, ai Lavori Pubblici ed alla Istruzione.

Il suo Ministero ebbe la durata di circa un anno, dal marzo del 1910 al marzo del 1911. Per prima cosa risolse la questione dei servizi marittimi, che si era trascinata ormai troppo a lungo per le opposizioni incontrate dal progetto mio e da quello dell'onorevole Sonnino; opposizioni che furono, piuttosto che vinte, girate ed evitate mediante un progetto assai più modesto e la costituzione di una piccola Società che non dava troppa ombra ai concorrenti della marina libera.

Le incertezze della condotta dell'onorevole Luzzatti si manifestarono nel campo politico, e propriamente a proposito del progetto dell'allargamento del suffragio, che era contenuto nei suo programma. Si trattava di una riforma mantenuta in modesti limiti, che tuttavia allarmò certi elementi conservatori i quali, pure non combattendola direttamente, chiedevano che l'allargamento del suffragio fosse accompagnato dal principio della obbligatorietà del voto. Codesta richiesta dei conservatori, per l'introduzione nella legislazione elettorale del nostro paese di una norma che non è stata sperimentata ed adottata che in qualche piccolo Stato, era un curioso segno delle condizioni politiche delle classi che pretendevano di mantenere la posizione di classi dirigenti, e per le quali i loro stessi capi eran costretti, appunto con quella richiesta del voto obbligatorio, a riconoscere la necessità che il loro diritto di voto fosse trasmutato in un dovere, per assicurarne l'esercizio.

La richiesta era una vera confessione di debolezza; e non fu quindi meraviglia che i socialisti, i radicali e gli altri avversari del conservatorismo, si opponessero risolutamente all'introduzione del voto obbligatorio nella riforma elettorale annunciata nel programma del governo. Questo contrasto generò una certa agitazione parlamentare, tanto più che il capo del governo, nei contatti che aveva coi rappresentanti delle sue tendenze, non si risolveva a dichiarare apertamente le proprie intenzioni, tanto che sia i fautori che gli avversari del voto obbligatorio, credevano egualmente di potere contare che il governo avrebbe accettato il loro punto di vista. Era stata nominata una commissione parlamentare per studiare il progetto di legge; ed essa pure, riflettendo codeste incertezze, conduceva le cose per le lunghe.

Si venne ad una discussione, allo scopo di stabilire la procedura per l'approvazione della legge; ed io, prendendo in quella discussione la parola, sostenni la tesi che, poiché si entrava nella questione della riforma elettorale, tante volte agitata, fosse conveniente, data la grande importanza della cosa, di prendere in considerazione una riforma più ampia e radicale. Osservai che, dopo vent'anni dall'ultima riforma elettorale, una grande rivoluzione sociale si era compiuta pacificamente in Italia, che aveva condotto ad un notevole progresso delle condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi popolari; progresso al quale corrispondeva indubbiamente il diritto ad una più diretta partecipazione alla vita politica del paese.

Non era, a mio avviso, il caso di decidere se si dovesse o no dare facoltà agli ispettori scolastici di creare qualche nuovo elettore; il problema, quale era ormai posto davanti alla Camera ed al paese, doveva essere risolto con criteri molto più larghi. L'esame sulla capacità di maneggiare le ventiquattro lettere dell'alfabeto quanto fosse necessario per scrivere il nome di un candidato sulla scheda, non poteva ormai più essere il criterio per stabilire se un uomo avesse le attitudini per giudicare delle grandi questioni che interessano le masse popolari; bisognava vedere di trovare altri criteri molto più larghi.

Passando poi dal merito della questione alla procedura, osservai che in fatto di leggi elettorali non si poteva procedere per acconti. Quando si affronta il più grave dei problemi che il Parlamento possa affrontare, si ha il dovere di risolverlo a fondo. Una soluzione incerta e parziale del problema elettorale non avrebbe soddisfatti i partiti popolari, lasciando il campo aperto a nuove e continue agitazioni. Osservai inoltre che la questione non era tutta contenuta nel semplice allargamento del suffragio e che si dovevano pure considerare numerosi problemi collaterali. E siccome la discussione era stata provocata da una mossa fatta da alcuni deputati contro la Commissione incaricata di studiare e riferire sulla riforma, e che veniva accusata di dilazioni e tergiversazioni, io conclusi richiamando l'attenzione al fatto che un voto che avesse provocato le dimissioni della Commissione sarebbe stato causa di nuovi ritardi, e dichiarai che avrei votato qualunque ordine del giorno, il quale, senza suonare sfiducia verso la Commissione, incitasse ad uno studio più largo e più rapido ad un tempo, per presentare al Parlamento proposte concrete per la soluzione del problema.

Il mio discorso, che ottenne presso a che generali approvazioni anche da parte dei banchi socialisti, non aveva alcuna intenzione di opposizione; esso mirava semplicemente ad avviare praticamente questa discussione sulla riforma della legge elettorale, che fino allora era rimasta sospesa e che non pochi speravano di soffocare tacitamente. Anche il voto a cui si venne non toccava il merito della questione, e tanto meno colpiva il Ministero, così che io lasciando l'aula non pensavo affatto che si potesse venire ad una crisi.

Il Ministero invece la sera stessa decideva di presentare le dimissioni; non tanto per effetto diretto del voto parlamentare, quanto per la sua ripercussione in quei gruppi i quali si erano illusi che il Ministero favorisse segretamente i loro disegni nel contenere la riforma elettorale entro limiti ristretti e nell'attenuarla con l'adozione del voto obbligatorio, inteso nel loro pensiero a controbilanciare il modesto allargamento del suffragio con l'obbligare gli elettori borghesi pigri ad uscire dal loro astensionismo con la minaccia di multe e pene più noiose che il semplice sforzo di recarsi alle urne il giorno delle elezioni.

L'on. Luzzatti, reggendo per un anno la Presidenza dal Consiglio e il Ministero degli Interni, dette nuova
prova delle sue capacità e competenze tecniche già ben conosciute; e se dal lato politico la sua condotta non riuscì ugualmente e interamente soddisfacente, ciò fu dovuto sopratutto alla sua cordialità naturale, per la quale non opponeva sempre la necessaria resistenza alle domande e pressioni da cui il governo è sempre inevitabilmente circondato. Se l'on. Sonnino, come capo del governo, peccava piuttosto nel non tenere sufficiente conto degli uomini e delle loro passioni ed interessi, che non vanno trascurati mai, non per ubbidire ad essi ma per sorvegliarli e dominarli volgendoli ai propri fini: l'onorevole Luzzatti peccò forse dal lato opposto, preoccupandosi troppo degli uomini, delle loro ostilità e dei loro possibili intrighi. Certo il ragionevole ed opportuno maneggio degli uomini, che è naturalmente un problema perpetuo in qualunque regime, presenta le maggiori complicazioni e difficoltà nei regimi parlamentari e democratici, per la loro stessa indole; ed ha spesso costituito lo scoglio contro cui si sono andate a infrangere capacità politiche e parlamentari per ogni altro rispetto assai promettenti. La mia esperienza però mi ha persuaso che anche in queste situazioni pubbliche, ciò che serve meglio ed involve in minori compromissioni e difficoltà, è sempre, come nella vita privata, la piena franchezza.

Un pericolo da evitarsi particolarmente, è quello delle troppe promesse, quando non si abbia la sicurezza di mantenerle. Per conto mio me ne sono sempre astenuto,  limitandomi  per qualunque richiesta che
ricevessi, di impegnarmi semplicemente ad esaminarla; e siccome quelli che hanno ricevuto o si immaginano di avere ricevuto promesse da un governo, tentano specialmente di farne la riscossione presso i successori, così io, ogni volta che ho lasciato il governo, mi sono sempre dato cura di avvertire il mio successore che, se qualcuno si presentava esigendo l'adempimento di una promessa da me fatta, egli era autorizzato di smentirla senz'altro a mio nome.

Certo molti ritengono che in regime democratico sia difficile non fare promesse; ma costoro dovrebbero tenere presente che anche più diffìcile è mantenerle. Quelli poi che pensano che fare una promessa non significa mantenerla, mentre con questo si credono i più furbi, in realtà sono i più ingenui; perchè alla conclusione, colui che semina promesse in tale modo e con tale intenzione, non si accorge che con quel sistema fa un assai magro affare, e cioè di guadagnare gli amici al minuto per poi perderli all'ingrosso.

Un avvenimento notevole del Ministero Luzzatti fu la celebrazione del cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d'Italia; avvenimento che fu celebrato con molta solennità, specialmente con le due grandi esposizioni di Roma e di Torino. Il merito dell'ordinamento di queste cerimonie e delle due esposizioni fu interamente del suo Ministero; e l'onorevole Luzzatti potè presiedere ancora come Presidente del Consiglio, all'inaugurazione di quella di Roma alla quale io assistetti come semplice deputato, avendo avuto solo il giorno precedente l'incarico di costituire il nuovo Ministero. Inaugurai poi io quella di Torino.

Non  è fuori di luogo, in  connessione  a  questa cerimonia,  ricordare ciò  che dai Ministeri da me presieduti era già stato  fatto a favore della capitale. Già nel 1890, essendo Ministro del Tesoro, io avevo insieme con Crispi proposta la legge che pose a carico dello Stato l'onere che sarebbe spettato al Comune per gli ospedali e per l'assistenza dei malati poveri. Anche di quel tempo fu una legge, da! me proposta, per l'erezione in Roma del monumento a Mazzini di cui è stata posta la prima pietra in questi giorni. Nel 1904 feci approvare la legge che approvava l'acquisto di Villa Borghese, e la donava alla città di Roma con l'obbligo di riunirla al Pincio; e fra il 1907 e il 1908 feci approvare la legge per le aree fabbricabili, intesa a  mettere fine ad una esosa speculazione che ostacolava l'incremento edilizio della città, reso necessario dall'aumento continuo  della popolazione;  quella per la costruzione di un grande viale da Roma ad Ostia, per soddisfare un antico voto di congiungere Roma al mare nel suo punto più vicino; quella per la passeggiata archeologica e per le Terme di Diocleziano, che dovevano rimettere alla luce tanti antichi monumenti e memorie dell'antica Roma, ed aumentare l'interesse della città come centro archeologico, ed infine quella che riuniva a Villa Borghese la Vigna Cartoni.

E tutte queste leggi, le quali contenevano anche grandi provvedimenti finanziari per assestare le finanze della capitale, concorsero indubbiamente all'incremento che la città ha avuto nell'ultimo ventennio, ed all'elevamento della sua dignità come capitale d'Italia. In attestato di riconoscenza per questa mia opera in favore di Roma, il Sindaco Nathan, a nome del Consiglio Comunale, mi portò una copia in argento, in piccole proporzioni, della lupa romana.

Assumendo nuovamente la responsabilità del governo e la Presidenza del Consiglio, io mantenni la maggior parte dei Ministri che avevano fatto parte del Ministero Luzzatti e i quali, oltre essere miei amici personali, rappresentavano con larghezza e competenza la maggioranza liberale della Camera.

Il mio programma conteneva tre punti fondamentali. Il primo punto era una riforma elettorale che si avvicinasse, per quanto era possibile nelle particolari condizioni della vita italiana di allora e specialmente delle classi popolari, al principio del suffragio universale, con alcune limitazioni e cautele che mi parevano opportune. Il secondo punto era la istituzione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili fossero devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie. Questi furono però i soli due punti enunciati nel programma e discussi per la formazione del Ministero; il terzo, cioè la soluzione della questione della Libia, già da tempo presente alla mia mente, con la ferma intenzione di cogliere la prima occasione per condurla in porto, fu tenuto segretissimo, essendo di natura tale che nessuna enunciazione pubblica, anzi nemmeno il menomo accenno doveva esserne fatto.

Della riforma del sistema elettorale e del proposito di istituire il monopolio delle assicurazioni sulla vita, io dunque trattai ampiamente con gli uomini a cui mi rivolsi per la formazione del Mistero; la maggior parte, come ho detto, già appartenenti al Ministero precedente, e che trovai tutti cordialmente assenzienti. A me pareva però che, considerata l'indole del nuovo Ministero, che comprendeva uomini della più larga e avanzata opinione liberale, fra i quali due rappresentanti di quel partito radicale che sino a poco prima si era mantenuto nei ranghi di opposizione dell'Estrema Sinistra; e tenuto conto del programma, politicamente ed economicamente favorevole alle classi popolari che io mi proponevo di condurre in porto, si presentasse nettamente l'occasione per la partecipazione al governo di uomini di quel partito che si riteneva il più diretto rappresentante delle classi popolari, e cioè del partito socialista. Mi rivolsi quindi a Leonida Bissolati, col quale ebbi una lunga conversazione in casa di Camillo Peano, che era già stato e fu poi ancora mio capo-gabinetto.

Il Bissolati, parlando non solo personalmente, ma anche a nome dei suoi colleghi, dichiarò la sua piena approvazione del mio programma; ma mi ripetè ancora quello che mi aveva già dichiarato alcuni anni fa, quando io avevo richiesta la collaborazione dei socialisti per l'inaugurazione della politica di piena libertà contro le tendenze reazionarie; e cioè che egli non credeva che il partito socialista fosse già maturo per partecipare al governo. Pareva infatti che nel partito socialista potessero maturare pel governo e le sue responsabilità gli individui; ma non il partito stesso. Il Bissolati però mi soggiunse che egli opinava di potere meglio aiutare il governo alla realizzazione del suo programma, rimanendo al di fuori; ciò che gli avrebbe reso in buona parte possibile di ottenere pel governo l'appoggio positivo, o almeno negativo, dell'intero suo gruppo parlamentare; mentre la sua accettazione di un portafoglio avrebbe provocato, nell'ambito stesso del partito, polemiche conducenti a dissensi ed a scissioni.

Io chiesi allora al Bissolati se, qualora egli fosse chiamato dal Sovrano per esporgli il suo parere sulla situazione politica e sul programma del governo, egli avrebbe accettato l'invito. II Bissolati rispose affermativamente, ed il giorno dopo fu infatti ricevuto in udienza dal Re. Era la prima volta che un deputato socialista varcava la soglia del Quirinale per essere interrogato dal Sovrano sulla situazione politica; ed il fatto naturalmente suscitò grandi commenti, apparendo d'accordo nel deplorarlo gli estremisti da una parte e dall'altra; cioè i conservatori reazionari ed i socialisti rivoluzionari.

Il Bissolati mantenne poi con grande lealtà e fervore l'impegno assunto di appoggiare il governo nella dura lotta che dovè sostenere per convertire in leggi quei punti capitali del suo programma; e quando venne l'impresa di Libia, e la grande maggioranza dei socialisti si voltò contro, si staccò dal partito facendosi un fervente apostolo di quella impresa, le cui ragioni politiche egli aveva perfettamente comprese.

Il Bissolati si trovò contro di me nell'apprezzamento della situazione in cui per la conflagrazione europea si venne poi a trovare l'Italia, e nel giudizio dei doveri e delle convenienze nazionali in quella grandissima crisi della politica mondiale; ma anche allora, non ostante la violenza dei dissensi e dei conflitti scoppiati, egli si condusse sempre al mio riguardo con cordiale correttezza di gentiluomo.

La mia impressione del Bissolati è stata ed è sempre rimasta di un uomo di ingegno molto acuto e logico, e di carattere semplice e diritto; il suo difetto come uomo politico e giudice delle situazioni politiche era forse in certi momenti un soverchio entusiasmo idealistico, che per se stesso è cosa buona, ma che deve essere raffinato e corretto da una più calma visione delle cose. Egli era dotato anche di molto equilibrio intellettuale, come mostrò negli anni più maturi sapendo fare la giusta parte agli interessi ed alle ragioni nazionali, pure non venendo meno alle sue convinzioni socialiste. E siccome era anche uomo energico e di coraggio, probabilmente, se non fosse mancato immaturamente, avrebbe avuta una parte importante nella politica del dopo guerra.

Mancata anche questa volta la collaborazione diretta del partito socialista e di qualche suo uomo di governo, io invitai ad assumlere il Ministero d'Agricoltura, al quale competeva tecnicamente di elaborare e difendere alla Camera il progetto del monopolio delle assicurazioni su la vita, l'onorevole Nitti, che apparteneva allora al partito radicale, e che per i suoi studi e la sua vivacità polemica mi pareva particolarmente indicato. L'onorevole Nitti si mostrò da prima incerto e titubante, e ricordo che egli mi accennò alla difficoltà, in cui si trovava per sostenere quella legge, avendo egli nei suoi scritti e nelle sue lezioni criticata sempre la pratica dei monopoli. Ma avendogli io dichiarato che quello era un punto del programma mio che non poteva essere toccato, egli finì per accettare, considerando il monopolio delle assicurazioni della vita come un caso particolare, e che poteva essere sostenuto anche da chi  ai monopoli non  fosse favorevole  in generale.

Tale programma del governo fu esposto subito al Parlamento, con la maggiore chiarezza e precisione, e fu favorevolmente accolto dalla grande maggioranza. Ma le opposizioni, sia da parte degli interessati nelle assicurazioni della vita, sia per parte dei conservatori, avversi generalmente, quantunque non osassero dichiararlo apertamente, alla riforma elettorale, erano violente e tenaci, e si manifestarono ben presto, quantunque più nella stampa che nel Parlamento. E in poche settimane si era riprodotta la stessa situazione in cui io mi ero trovato nel 1901 e nel 1902, quando, per avere iniziato e proseguito con fermezza il sistema della più ampia libertà nella lotta fra capitale e lavoro, ero stato dipinto come nemico del capitale, come demolitore del diritto di proprietà, e come ministro che preparava la rovina delle istituzioni.

Anche nel 1901 il Ministero, nella sua politica di libertà, aveva avuto l'appoggio dei socialisti, e il rinnovarsi di questo appoggio pel programma da me presentato mi veniva rimproverato da alcuni come un nuovo tradimento verso il partito liberale. Evidentemente coloro che pronunziavano questa accusa, più che dei veri e propri liberali erano dei conservatori più o meno mascherati di liberalismo, o dei puri dottrinari i quali, volendo cristallizzare il partito liberale in poche formule immutabili, e tenere chiuse le sue porte ad ogni nuova corrente di idee, e ad ogni concorso degli uomini che le rappresentavano, non riflettevano che i partiti chiusi sono destinati fatalmente a decadere e scomparire; e non ricordavano che una delle maggiori forze della nostra dinastia, che pure rappresenta la tradizione, era stata di avere sempre accettato il concorso di tutti gli uomini disposti a lavorare lealmente per il bene della nazione, da qualunque partito essi provenissero e qualunque fosse il loro passato politico.

Ed era poi particolarmente strano, che in questa occasione, come nelle precedenti in cui il governo si era avvicinato agli
uomini dei partiti popolari ed estremi, per ottenerne
la collaborazione e farli così rientrare nell'orbita
della istituzione, quelli che manifestavano il più sacro
orrore per tali metodi di governo fossero appunto
coloro che si pretendevano e si professavano seguaci del Conte di Cavour; dimenticando che egli
fece il connubio del suo partito con la parte più
avanzata della Camera; che prese accordi politici
con gli uomini dei partiti più estremi, mandandoli
a governare il paese nei momenti più diffìcili. Supporre che il Conte di Cavour sarebbe rimasto fermo
alla situazione politica di cinquantanni fa, e non
avrebbe più fatto un passo avanti, sarebbe fare ingiuria al più grande e più ardito dei nostri uomini
di Stato.

Ad ogni modo, contro questi attacchi e
queste critiche io mi limitai ad' osservare che a chi
vuole andare avanti vi è una sola compagnia che
non è possibile, ed è quella di chi vuole andare indietro, o di chi vuole stare fermo, che in pratica
è poi la stessa cosa. E poiché notavo che contro il
mio programma e la mia azione politica e parlamentare si ripetevano allora le stesse accuse di dieci
anni prima, io consigliai ai miei avversari, per loro
risparmio di fatica intellettuale, di rileggere i discorsi
dell'opposizione di allora, e valersene nelle future
discussioni.  
 
Siccome la riforma elettorale importava una vasta preparazione di studi da parte del governo, non solo per dimostrarne, con raffronti statistici con l'uso d'egli altri paesi, la convenienza politica, ma anche per congegnarla, nel suo funzionamento pratico, in modo da evitare sorprese ed ostacoli nell'applicazione, e richiedeva pure un ampio ed accurato esame da parte della Commissione parlamentare, la sua presentazione alla Camera fu necessariamente rimandata. Difficoltà di tal genere non esistevano per la questione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, il cui progetto potè essere preparato rapidamente e presentato al Parlamento.

La idea di creare questo monopolio non fu affatto, come dissero allora gli oppositori, una improvvisazione per ragioni e convenienze politiche. Era una mia idea antica, che m'era in principio venuta per la considerazione del fallimento di non poche società che non avevano adempiuto ai loro obblighi dopo avere intascati i premi. L'assicurazione sulla vita non è che una forma di risparmio, con questo carattere speciale, che gli impegni verso l'assicurato non vengono a scadenza che dopo una lunga serie di anni, da venti almeno a quaranta e più; per cui si richiede la certezza che, quando venga il giorno in cui gli impegni debbono essere mantenuti, l'assicuratore sia in grado di farlo. Senza questa certezza, che deve essere assoluta, l'assicurazione è un inganno alla fede pubblica.

Ora, l'esperienza
di molti anni aveva dimostrato che, a canto a Società bene amministrate, altre ve ne erano le quali,
facendo cattivi investimenti, o abbandonandosi a speculazioni aleatorie o peggio, erano andate a finire
male, defraudando gli assicurati del loro avere; ciò
che era la peggiore delle frodi, perchè ai risparmi
così collocati gli assicurati affidavano le sorti della
loro vecchiaia e in caso di morte, della loro famiglia. Né le società andate a male si contavano solo
fra quelle secondarie; non solo da noi, ma in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove pure l'assicurazione sulla vita aveva raggiunto sviluppi ingentissimi,
c'erano stati casi di fallimento di grandi società, con
l'effetto di veri disastri sociali e la rovina di migliaia
di famiglie che ad esse avevano affidati i loro risparmi.

Né era il caso di dire che si poteva distinguere fra istituti solidi e bene amministrati, e
istituti male amministrati e pericolanti; la buona
amministrazione non è una qualità inerente agli istituti, ma agli uomini che li amministrano; e ad amministratori capaci ed onesti possono in qualunque
società succedere amministratori incapaci e senza
scrupoli. E le conseguenze di tale stato di cose, almeno presso di noi, erano di carattere generale e sociale,
inquantochè la diffidenza suscitata dai fallimenti, e
la mancanza di una sicurezza assoluta, impediva che
questo ottimo sistema di previdenza avesse quella
più larga diffusione che era desiderabile per ogni
verso.

Io avevo pensato che questi inconvenienti sarebbero  superati,  e l'istituto della previdenza incoraggiato, quando si potesse dare vita ad un istituto d'assicurazione che presentasse la massima garanzia di  durabilità e di  sicurezza pel  mantenimento dei suoi  impegni.   Ora  l'Ente che  presenta  appunto  le maggiori garanzie in tale senso, è lo Stato, il quale nel  mio  progetto  garantiva le  operazioni   dell'Istituto.

Ad evitare poi il sospetto che l'Istituto potesse avere carattere e scopo fiscale, e che il, danaro degli assicurati potesse essere esposto per questo verso a diminuzioni e falcidie, io provvedevo a che i suoi utili   fossero   devoluti   alla  Cassa  per  la  vecchiaia ed   invalidità  degli  operai;  parendomi  una   nobile prova di  solidarietà  sociale che  gli  utili derivanti dalla previdenza dei cittadini in qualche misura più favoriti dalla fortuna, concorressero ad alleviare le condizioni della vecchiaia dei cittadini meno favoriti. Un'altra considerazione favorevole all'Istituto statale delle assicurazioni sulla vita, era connessa con le  condizioni e le  convenienze generali  della pubblica economia. Le statistiche dimostravano che gli istituti  assicuratori cumulavano nelle loro mani ingenti capitali,  e siccome in Italia oltre i tre quinti delle assicurazioni erano fatti da società straniere, ne derivava che molti dei capitali raccolti emigravano all'estero; costituendo così una vera organizzazione per la esportazione del risparmio nazionale. Creare un  monopolio  statale  significava porre  fine  anche a codesto inconveniente, e accentrare nelle mani dello Stato una potenza finanziaria di primo ordine, rappresentata appunto dagli ingenti capitali che si cumulano coi versamenti degli assicurati.

Questi concetti furono da me esposti con la presentazione del progetto di legge. Alla Camera essi riscossero l'approvazione della grande maggioranza, dai liberali ai socialisti. Ma, come ho già detto, gli oppositori furono assai tenaci. Fra essi ve n'erano certo parecchi, la cui opposizione aveva ragioni dottrinarie; costoro invocavano i principi del liberismo economico, che non sempre si accordano col liberalismo politico, a cui compete di tener conto di elementi assai più vari e complessi; altri sfogavano una istintiva antipatia contro i monopoli di qualunque genere, quando invece gli ottimi risultati del monopolio nostro dei tabacchi dimostrava la capacità dello Stato per tali generi d'imprese. Non mancavano coloro che combattevano il mio progetto in rispondenza agli interessi particolari che ne erano offesi.

Ma la campagna più violenta era condotta in parte dalla stampa, specialmente conservatrice; la quale, forse più che a sostenere gli interessi degli assicuratori, era mossa da ragioni più larghe se non apertamente dichiarate; questi organi del conservatorismo combattevano il monopolio delle assicurazioni non tanto per sé stesso, quanto per colpire traverso ad esso il governo che aveva messo nel suo programma, come capo fondamentale, la riforma della legge elettorale col suffragio quasi universale. Soltanto la speranza di allontanare, se non di impedire assolutamente la riforma elettorale, poteva spiegare la eccezionale vivacità della battaglia contro il monopolio delle assicurazioni, assolutamente sproporzionata all'importanza del problema; e i mezzi ai quali si ricorse per ritardarne o rimandarne l'approvazione, e l'assurdità delle argomentazioni e delle invenzioni messe innanzi contro di esso.

Si cercò anzitutto di eccitare una vera sollevazione di tutti gli interessi borghesi, capitalistici, industriali e commerciali. Si cominciò col proclamare che la legge sul monopolio era nientemeno che un attentato alla proprietà, e l'inizio o l'avviamento di un sistema tendente alla istituzione del collettivismo per mezzo della monopolizzazione di grande parte delle industrie. L'artificio di tale argomentazione consisteva in questa tentata confusione fra l'attività industriale e l'assicurazione della vita, che con quella nulla aveva a che fare, essendo essa una pura e semplice speculazione su una forma speciale di risparmio. Lo scopo delle industrie è la produzione della ricchezza; mentre la speculazione assicuratrice altro scopo non ha, anche quando rettamente esercitata, che di fare passare una percentuale della ricchezza degli assicurati nelle tasche degli assicuratori. E questa speculazione infatti era esercitata in modo così sfrenato, che in alcuni casi aveva portato al fallimento, ed in altri alla realizzazione di guadagni addirittura scandalosi. Rispondendo agli oppositori io ebbi in questo buon gioco, limitandomi a citare esempi di utili conseguiti in un solo anno, e appunto nell'anno precedente. 

Mostrai che una società, i cui azionisti avevano versate 882 lire per azione, avevano ricevuto un dividendo di 336 lire, pari al quaranta per cento, ripartendo inoltre fra gli amministratori 240 mila lire. Un'altra, su azioni di lire 250, aveva distribuito 307 lire di dividendo, pari al 122 per cento del capitale versato; una terza su azioni di 882 lire aveva distribuito 980 lire, pari al 111 per cento, e attribuito agli amministratori quasi un milione. E poiché le operazioni di assicurazione sulla vita sono per la massima parte per piccole somme e fatte da gente non agiata, a coloro che gridavano che il monopolio violava il diritto io rispondevo che il diritto che si diceva violato poteva definirsi come il diritto di esercitare l'usura sul risparmio della povera gente. Tutto questo, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con l'industria; ed è strano che certi gruppi di industriali si lasciassero trascinare ad una agitazione che coi loro reali interessi nulla aveva a che fare, perchè anzi l'industria, quando sanamente esercitata, non deve avere alcuna amicizia con la speculazione.

Un'altra argomentazione a cui si ricorreva, consisteva nel gettare il dubbio sulla capacità dello Stato a fare l'assicuratore e ad impiegare i capitali che col monopolio si sarebbero raccolti. Codesto dubbio era però già preventivamente sfatato, perchè tale attitudine da parte dello Stato era già stata provata dal modo mirabile col quale era stata amministrata la Cassa Depositi e Prestiti, la quale dalle sole Casse postali di risparmio aveva raccolti milleottocento milioni, e che mentre aveva resi servizi inestimabili allo Stato, alle Provincie ed ai Comuni, non aveva mai subito alcuna perdita. Alcuni, osservando che alle casse postali non si era dato il monopolio del risparmio, proponevano che si creasse bensì un Istituto di Stato per le assicurazioni della vita, ma senza monopolio ed in concorrenza con gli istituti privati.

La risposta a codesta obiezione era assai facile. Le casse di risparmio, che fanno concorrenza alle casse postali, non sono società di speculazione, ma istituti, tutti italiani, non aventi scopo di lucro, e i quali destinano i loro utili, in parte ad accrescere le riserve per sicurezza dei depositanti, e per il resto a scopo di beneficenza, che esse esercitano largamente. Se alle Società di assicurazione della vita si fosse proposto di continuare il loro esercizio con la condizione di destinare i loro utili alla beneficenza, nessuno poteva illudersi che avrebbero accettato.

La battaglia parlamentare, a cui faceva ala quella che si combatteva nella stampa e nei comizi degli interessati e dei loro dipendenti, si prolungò per parecchie settimane, assorbendo l'intera attività della Camera. Vi parteciparono anche i socialisti, in favore del governo, con un ottimo discorso tecnico per parte dell'onorevole Bonomi, e discorsi politici di Bissolati e di altri, mentre l'onorevole Sonnino, l'onorevole Salandra ed altri, della Destra specialmente, parlarono contro. La discussione fu riassunta poi, pel lato tecnico, dall'on. Nitti, il quale, pure consentendo, d'accordo meco, a modificazioni  parziali  che  non intaccassero però menomamente il principio, difese il progetto egregiamente, essendosi bene impadronito della materia; e pel lato politico con un mio discorso, che a certi momenti suscitò una tempesta nei radi banchi dei conservatori.

Si passò quindi al voto, e la Camera dette largamente la sua approvazione di massima al principio fondamentale della legge. Si doveva quindi venire alla discussione degli articoli. Eravamo alla fine di giugno, ed io proposi che quella discussione fosse rimandata alla ripresa dei lavori parlamentari, nel prossimo autunno. E ciò feci perchè avevo capito che gli avversari della legge, pure dandosi aria di disarmare davanti al principio generale, si proponevano di riprendere la battaglia nella discussione particolare, presentando una grande quantità di emendamenti. Ora in regimi di tale genere, quale è un monopolio, basta alle volte un emendamento che ne turbi il principio per farlo fallire nell'esecuzione. Non vi era, d'altra parte, la menoma ragione di urgenza, ed io preferivo che la discussione fosse ripresa dopo che la Camera si fosse riposata, per evitare che qualche emendamento pericoloso potesse passare in una Camera già stanca ed impaziente di prendersi le vacanze.

Insieme a quella parlamentare, il governo dovette, pel progetto del monopolio, sostenere pure una battaglia di carattere diplomatico ed internazionale.

Ho già rilevato che per oltre i tre quinti le assicurazioni   sulla   vita  erano  raccolte  in   Italia   da istituti stranieri, e più particolarmente austro-ungarici, inglesi, americani, tedeschi e francesi. Questi istituti, alcuni dei quali di mole gigantesca, non si preoccupavano forse tanto della perdita del mercato italiano, assai limitato in paragone alla grandiosità dei loro interessi, quanto del fatto che la creazione di un monopolio statale potesse essere un esempio che altri Stati prima o dopo avrebbero imitato. La preoccupazione e l'irritazione ad' ogni modo deve essere stata assai viva, ed accordi devono essere passati fra questi istituti legati da comuni interessi, perchè noi assistemmo ad un movimento diplomatico di protesta quasi generale. Tali proteste si basavano sulla supposizione che l'Italia violasse gli accordi e gli usi internazionali, inibendo a cittadini stranieri di esercitare in Italia la loro industria ed il loro commercio. Noi però rispondemmo respingendo assolutamente tale accusa, la quale avrebbe avuto ragione d'essere solo in un caso; e cioè quando noi avessimo inibito la pratica delle assicurazioni sulla vita alle Società straniere, permettendola invece alle italiane. Ma così non era; l'Italia, creando il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, era pienamente nei suoi diritti di sovranità, e il trattamento che essa faceva agli stranieri era eguale a quello fatto ai suoi cittadini, e gli stranieri più non potevano pretendere. Questo nostro argomento, dopo qualche ulteriore opposizione e discussione, fu alla fine riconosciuto valido quasi universalmente dagli altri Stati. 

Ricordo  che una più particolare ed ostinata resistenza fu fatta dall'Austria, la quale aveva tanto meno diritto di protestare ed insistere nella protesta, in quanto che nel trattato di commercio che pochi anni prima aveva concluso con noi, era stata riservata, e per desiderio dell'Austria stessa, ai due paesi contrattanti la facoltà di istituire dei monopoli. La insistenza, ingiustificata ed insostenibile del governo austriaco, non era attenuata o raddolcita dal contegno del suo ambasciatore Conte Merey, uomo che si compiaceva di ostentare una certa bruschezza di modi. Ricordo che, venuto da me per protestare contro la istituzione del monopolio, essendosi nell'anticamera incontrato con un grosso assicuratore, che era venuto per la stessa cosa, e col quale egli aveva forse ragioni di malumore, esclamò nel vedermi: — Vous recevez ce cochon là?...

Al che io risposi: — Ce cochon est venu ici pour la mème raison que Vòtre Excéllence. — Il Merey fece allora una requisitoria contro il progetto con le parole più aspre che gli venivano sulla bocca; ma siccome io mi contentavo di rispondergli: — Je ne suis pas de votre avis — egli finì col mettersi a ridere e lasciar cadere la cosa.

L'Austria però cercò ancora di insistere, per vie indirette, e mandò qui a Roma alcuni banchieri francesi con l'incarico di tentare una intimidazione finanziaria. Io li ricevetti, e siccome uno di essi ad un certo punto della discussione esclamò: — Noi combatteremo la finanza italiana e faremo ribassare la vostra rendita — io gli risposi che, lungi dall'allarmarmi, glie ne sarei stato riconoscente. E poiché quei finanzieri si meravigliarono a questa mia uscita, io osservai loro che, siccome l'Italia stava allora ricomprandosi la sua rendita collocata all'estero, io sarei stato loro grato se ci avessero dato così il modo di acquistarla a miglior mercato.

La discussione della legge del monopolio fu poi ripresa, come era stato stabilito, dopo le vacanze e condotta a porto nel 1912. Era nel frattempo intervenuta la guerra di Libia, che occupava grandemente l'attenzione pubblica, e l'opposizione alla legge si attenuò notevolmente, gli avversari avendo ormai compreso che qualunque maneggio per ferire a morte la nuova istituzione con emendamenti che ne ostacolassero l'applicazione, sarebbe riuscito vano. Il governo poi fece alcune concessioni, principale fra le quali fu quella di autorizzare le Società che già esercivano in Italia, a continuare il loro esercizio per dieci anni, limitatamente però alle somme assicurate superiori alle ventimila lire, e di cedere una quota delle altre all'istituto di Stato. Era una concessione di interesse reciproco, perchè mentre permetteva alle Società di liquidare il passato, dava al nuovo istituto il tempo necessario per ordinarsi.

Si stabilì pure che il monopolio statale potesse riscattare il portafoglio che le Società private, italiane o estere, avevano in Italia; e la maggior parte delle società ne profittarono immediatamente, venendo ad equi concordati e liquidando così senz'altro la loro posizione.

Il monopolio, dopo i primi tempi di avviamento, ha potuto funzionare egregiamente, smentendo tutte le previsioni pessimistiche, e rendendo eccellenti servizi allo Stato durante la guerra. L'esperimento fatto finora è di ottimo augurio per un maggior sviluppo nell'avvenire, essendosi anche.in questo campo dimostrato che, dopo tutto, il cittadino italiano ha la maggiore fiducia nello Stato. Come vi erano stati gli avversari accaniti, così per questa questione del monopolio ci furono pure i fautori eccessivi i quali avrebbero voluto estenderlo ad altre forme assicurative, come gli incendi, la grandine, gli infortuni e così via. A cotali estensioni io sono stato sino dal principio contrario. Io scelsi per il monopolio il ramo vita, per la grande semplicità e sicurezza degli elementi che lo costituiscono, non essendo facile né presumibile che si possa fare apparire morto chi è vivo. Ma io penso che lo Stato si involverebbe in gravi difficoltà, e si esporrebbe ad abusi di ogni genere, quando si assumesse l'assicurazione di danni che diano luogo a contestazioni, pei quali è meglio lasciare libero il campo alla iniziativa privata.

Avanti che la Camera si convocasse nuovamente, era intervenuta nell'ottobre 1911, la guerra con la Turchia. Ma prima di narrare di questa, delle ragioni che l'avevano determinata, e della sua preparazione politica e diplomatica, ritengo opportuno, con una breve infrazione dell'ordine cronologico seguito in queste memorie, di esporre la questione della riforma elettorale e della conversione in legge del progetto che, assumendo la responsabilità del governo, io avevo presentato.

Quando io misi nel mio programma, come punto fondamentale, la riforma elettorale, con un allargamento del suffragio che arrivava quasi al suffragio universale, vi fu chi mi ricordò con rimprovero che io altre volte mi ero dichiarato contrario a tale estensione del diritto politico fondamentale. E la cosa era vera per sé stessa; ma era viceversa assurdo richiamarsi a tali dichiarazioni da me fatte in altri momenti come prova che io fossi stato avverso al suffragio popolare per ragioni di principio. Tutta la condotta politica da me seguita nel passato, intesa alla elevazione delle classi popolari, ed all'allargamento della influenza dei loro interessi nella vita pubblica, smentiva nettamente quell'accusa. La verità era che, proponendomi come programma capitale della mia azione politica l'elevazione delle classi popolari, io avevo dovuto anzitutto considerare le loro condizioni materiali, e restituendo loro quel pieno esercizio delle libertà statutarie, che era stato posto in forse da quasi dieci anni di politica reazionaria, rimetterle nelle condizioni necessarie per lottare pel proprio miglioramento economico. Questo mio primo concetto era stato pienamente giustificato dall'esperienza, e dieci anni di regime di libertà nei conflitti fra capitale e lavoro, rispettato da tutti i governi che si erano succeduti, aveva da per tutto accresciuto, e in molte parti d'Italia più che raddoppiata la misura dei salari degli operai delle officine e dei campi, contribuendo anche potentemente alla loro educazione.

Le associazioni di ogni genere, economiche e politiche, che si erano formate dovunque fra le masse lavoratrici, il maggiore interessamento che esse erano andate prendendo nella vita della nazione, avevano indubbiamente avuto una grande influenza educativa, dando ad esse una consapevolezza della vita politica, fino allora quasi totalmente ignorata. Di fronte a tali mutate condizioni non era più ammissibile che in uno Stato sorto dalla rivoluzione e costituito dai plebisciti, dopo cinquant'anni dalla sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per la difesa del paese, e sotto la forma delle imposte indirette concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello Stato.

La questione della elevazione del quarto Stato alla dignità della totale cittadinanza politica, nella quale ai diritti corrispondono i doveri, era pure imposta, oltre che da superiori considerazioni di giustizia,, da altre ragioni di convenienza nell'interesse stesso delle classi dirigenti. L'elevazione del quarto Stato ad un più alto grado di civiltà, era per noi ormai il problema più urgente, e per molti punti di vista. Anzitutto per la stessa sicurezza sociale, in quanto che l'esclusione delle masse dei lavoratori, non solo dalla vita politica, ma anche da quella amministrativa del paese, togliendo loro ogni influenza legale, ha sempre per effetto di esporle alle suggestioni dei partiti rivoluzionari e delle idee sovvertitrici, in quanto gli apostoli di queste idee hanno a loro disposizione un argomento formidabile, quando osservano che, per ragione di codesta esclusione, alle classi popolari non resta altra difesa, contro le possibili ingiustizie, generali e particolari, delle classi dominanti, che l'uso della violenza.

Dove le masse sanno di non potere col loro voto e con la legale azione politica modificare le leggi che siano proposte ed elaborate a loro danno, è ovvio che esse si lascino persuadere che i soli mezzi per mutare un tale stato di cose, sono i mezzi rivoluzionari. Partecipando invece alla vita politica, le masse, nelle quali il buon senso finisce sempre alla lunga col prevalere, possono, non solo rendersi conto delle difficoltà che lo Stato deve superare per aiutare il loro incremento, ma anche dei limiti che le condizioni generali del paese e del tempo pongono alla soddisfazione delle loro aspirazioni e delle loro richieste; e così esse vengono ad essere interessate al mantenimento dello Stato.

È troppo facile oggi opporre a questi concetti l'esempio delle manifestazioni in senso contrario ad essi, avutesi dopo la guerra; ma gli episodi di momenti eccezionali non fanno regola; e del resto la rapidità con cui le agitazioni e le pretese soverchie ed irragionevoli determinatesi nelle masse dopo la guerra sotto la influenza dei partiti estremi, si sono attenuate, è una riprova della fondamentale giustezza
di questo mio modo di vedere. In secondo luogo tale elevamento è desiderabile, anzi necessario per un altro aspetto, e cioè quello della convenienza economica, perchè la partecipazione attiva ad ogni forma di progresso, da parte di tutto il popolo, è strettamente connessa con l'incremento della ricchezza di un paese. Le condizioni generali della civiltà in quel momento dimostravano infatti che soltanto le nazioni al cui progresso concorrevano attivamente le masse popolari, quali l'Inghilterra, la Germania, la Francia, gli Stati Uniti d'America, erano economicamente potenti; gli Stati anche grandi, anche militarmente fortissimi, quale la Russia, nei quali però le classi popolari avevano un grado di civiltà inferiore, soffrivano economicamente di grave debolezza.

E questo si comprende, quando si pensa quali forze di intelligenza, di volontà, di operosità si trovano latenti nelle masse popolari delle città e delle campagne; e quale contributo al progresso di un paese esse potrebbero dare se, istruite ed educate, fossero in condizioni tali che ognuno potesse prendere nella società un posto corrispondente alle sue naturali attitudini, alla sua intelligenza ed alla sua forza morale.

La sicurezza sociale e la ricchezza economica del paese a me erano sempre parse strettamente collegate col benessere e con l'elevazione materiale e morale delle classi popolari; aiutando questa elevazione le classi dirigenti compivano dunque una opera in cui il dovere morale della solidarietà umana era in pieno accordo col loro stesso bene inteso interesse. Se esse si fossero opposte al movimento di ascensione delle classi più numerose della società, sarebbero state, prima o dopo, inesorabilmente travolte; se invece, adempiendo al dovere della solidarietà umana, avessero assunto la tutela dei diritti e degli interessi del proletariato; se con sapienti leggi avessero provveduto al suo benessere materiale e morale; se lo avessero spontaneamente chiamato a prendere il suo posto nell'esercizio della sovranità nazionale, esse avrebbero conseguito il vanto di sostituire alla lotta delle classi, proclamata dagli estremisti, la loro collaborazione, assicurando nello stesso tempo un progresso regolare e benefico alla intera società, ed un incremento della potenza e della dignità dell'Italia fra le altre nazioni.

Per cui, quando nella discussione della Camera, e nelle polemiche dei giornali, vi fu chi mi rimproverò di essere andato spontaneamente incontro ai partiti estremi; di avere offerto in regalo ai socialisti più di quanto essi osassero domandare e si aspettassero di potere ottenere, invece di lasciare che essi conquistassero la riforma combattendo passo a passo; io ritorsi questa accusa, facendone un vanto, non personale mio, ma del partito e del governo liberale, il quale, invece di resistere ad esigenze giuste, le soddisfaceva spontaneamente, mostrandosi superiore agli interessi particolari, e quindi veramente degno di regolare i destini della nazione.

Quando io presentai la mia proposta di riforma
elettorale, erano trascorsi trent'anni dalla riforma
anteriore, a cui aveva lavorato sopratutto l'onorevole Zanardelli. La legge del 1882 aveva rappresentato un notevolissimo progresso su quella prima vigente, e nel senso veramente democratico, in quanto
aveva abolito tutti i privilegi basati sul censo, ed
aveva istituito teoricamente il principio del suffragio
universale, dando il diritto di voto ad ogni cittadino
che avesse compiuto il primo corso elementare.
Quando quella riforma era stata adottata, si calcolava che l'analfabetismo sarebbe stato rapidamente
debellato, e che la legge avrebbe automaticamente
portato all'esercizio del diritto politico da parte della
grandissima maggioranza dei cittadini. A tali speranze non aveva però corrisposto il successo, e per
varie ragioni; sia cioè per l'inefficacia del nostro
sistema di educazione elementare, sia anche, e forse
sopratutto, perchè la semplicità della nostra vita agricola non rendendo necessario l'uso del saper leggere e scrivere, non spingeva le classi popolari a
procurarselo. D'altra parte, tutti sanno che nelle nostre campagne vi sono contadini che, pure non sapendo firmare che con la croce, spiegano facoltà di
primo ordine nel maneggio dei loro affari, e conducono mirabilmente floride aziende agricole; mentre
vi sono dei cittadini, a cui la vita della città ha reso
necessario il saper leggere e scrivere, e che tuttavia non ne fanno certo il migliore degli usi. S'aggiunga ancora che tale sistema, in cui il diritto elettorale era basato sul certificato scolastico, creava grandi disparità, da regione a regione e da provincie a Provincie, in relazione alla maggiore o minore diffusione e comodità di accesso alle scuole e della conseguente diversa opportunità per parte dei ragazzi di frequentarle.

Il mio predecessore, onorevole Luzzatti, come ho già riferito, aveva già presentato un suo progetto di allargamento dei suffragi, che a mio parere era insufficiente. Esso infatti manteneva ancora il criterio dell'alfabetismo come base del diritto elettorale, limitandosi a facilitarne la constatazione ed a rendere più agevole l'ammissione. Si trattava, insomma, di aggiungere agli elettori alfabeti quelli che si trovavano in una specie di limbo fra l'alfabetismo e l'analfabetismo; con la quale aggiunta si attendeva un incremento graduale, da un milione ad un milione e mezzo di elettori. A me, ed alla Commissione parlamentare che poi esaminò il progetto mio, questo calcolo pareva esagerato, apparendo assai difficile che gli uomini già maturi, non ben sicuri della materia, si sarebbero molto volontieri presentati all'esame necessario davanti al pretore; mentre poi, valorizzando sino all'estremo una qualunque capacità di leggere e scrivere, esso riusciva ad aggravare gli squilibri e le incongruenze del sistema vigente, nel non tenere conto di qualunque altro genere di capacità individuale e sociale.

Ma, come ho già accennato, la più forte obbiezione contro le proposte dell'onorevole Luzzatti, stava in questo: che invece di affrontare nel suo complesso la questione, ne proponeva una soluzione parziale. Ed a mio parere, poiché esigenze superiori di varia indole imponevano oramai la riforma elettorale, doveva essere cura del legislatore che cotali esigenze fossero al più possibile soddisfatte, per evitare il pericolo di dover tornare sopra al problema a breve scadenza.

Era quindi d'uopo trovare altri criteri; non volendo io d'altra parte, con l'adozione del suffragio universale puro e semplice, esteso a tutti i cittadini, anche illetterati, sembrare di non fare alcuna distinzione fra chi è istruito e chi non è; fra chi adempie alla legge della istruzione obbligatoria e chi la viola; e togliere una spinta alla istruzione pubblica, e ciò appunto nel momento quando, col progresso delle industrie e del tecnicismo, nella stessa agricoltura; il problema della istruzione primaria si affermava sempre più come un problema di primissimo ordine ed una vera necessità per l'incremento economico e civile del paese. E conclusi col risolvere il complesso problema rinunciando al semplicismo del principio unico, ed adottando principi diversi, corrispondenti appunto alle diversità delle condizioni a cui ci dovevamo adattare.

E così presentai il mio progetto, che conteneva, riguardo all'estensione del suffragio, i punti seguenti:

Primo: era mantenuto il diritto elettorale a
ventun anni per tutti coloro che sapessero leggere e
scrivere;  
Secondo: era concesso il diritto elettorale a tutti coloro che avessero adempiuto agli obblighi del servizio militare;
Terzo: diventavano elettori anche coloro che mancassero dei requisiti necessari dell'istruzione, quando compissero il trentesimo anno.

Il primo punto corrispondeva alla legge vigente. Il secondo punto, oltre la presunzione che chi abbia fatto il servizio militare ha già ricevuta una certa istruzione e non appartiene più alla categoria degli analfabeti, aveva per sé una elementare ragione di giustizia, essendo evidente che non si può negare il diritto della partecipazione alla vita politica del paese, a colui a cui si domanda di sottostare per la sicurezza comune al servizio militare e di essere disposto a dare la sua vita. Quanto al terzo punto, a parte la giusta differenziazione fra i diritti politici di chi adempia agli obblighi dell'istruzione e chi non li adempia, mi pareva che esistessero ragioni di carattere generale per le quali si poteva concedere il voto all'illetterato che abbia compiuto i trentanni, negandolo in età più giovanile. Le persone infatti che manchino di qualunque più elementare cultura, e non abbiano nemmeno compiuto lo sforzo per apprenderne i rudimenti, sforzo che è già ragione di una certa disciplina, sono indubbiamente più soggette alle suggestioni di idee estreme, tanto rivoluzionarie come reazionarie.

Nove anni di esperienza nella vita, quanti sono quelli che corrono fra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola, che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire l'istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli individui devono presto assumersi la responsabilità della loro condotta e guadagnarsi il pane. L'uomo del popolo, che generalmente a trent'anni ha già famiglia e figli, diventa riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare dalle propagande di idee e propositi eccessivi. Del resto, il numero d' questi analfabeti che diventavano elettori a trent'anni, non era così grosso come si presumeva generalmente; i calcoli degli uffici da me incaricati di studiare il lato tecnico della legge, li portavano circa a ottocentomila; mentre il numero complessivo degli elettori era più che raddoppiato, salendo dai tre milioni e mezzo degli iscritti secondo la legge vigente, a circa otto milioni.

Si doveva d'altra parte attendersi ad una diminuzione notevole nella percentuale dei votanti, come poi fu confermato dall'esperienza; e ciò perchè solo gradatamente i nuovi iscritti avrebbero usato del loro diritto, e perchè una parte notevole dei nuovi elettori appartenenti alle classi popolari, era allontanata dalle correnti di emigrazione.

L'introduzione degli illetterati nel suffragio importava necessariamente considerevoli modificazioni tee-
niche, dovendosi conciliare l'esercizio del voto con l'eventuale incapacità a scrivere il nome del candidato, e con la necessità di mantenere il segreto dell'urna. Queste difficoltà furono genialmente superate con l'adozione di un sistema speciale di buste e di controllo, escogitato e proposto dal relatore della legge, on. Bertolini.

Presentando il disegno di legge io lo corredai con un completo quadro delle legislazioni elettorali straniere, dalle quali risultava che il suffragio universale era già adottato in Europa, non solo dagli Stati più liberali ed avanzati in civiltà, ma anche da Stati di carattere conservatore e da altri di civiltà meno avanzata; — e cioè dalla Francia, dalla Germania, dall'Austria, dalla Spagna, dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Norvegia, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, ed era nello stesso momento proposto per l'Ungheria; e che quanto a numero di elettori, in Italia ogni cento individui aventi l'età richiesta non erano elettori, col sistema ancora vigente, che trentadue, rimanendo così esclusi dalla vita politica il sessantotto per cento; mentre in tutti gli altri paesi di Europa, compresi quelli che non avevano ancora adottato il suffragio universale, la proporzione andava dal sessanta al novantotto per cento. Noi dunque, quanto ad estensione di suffragio, eravamo gli ultimi in Europa.

Esponendo la battaglia combattuta contro il Monopolio delle Assicurazioni sulla vita, ho già accennato al fatto che l'accanimento di quella lotta, più che per quella legge stessa, si spiegava per quella del suffragio, mirandosi a colpire indirettamente il governo che l'aveva proposta.

L'opposizione diretta alla legge per l'allargamento del suffragio non era facile; gli uomini politici, i deputati che vi si fossero impegnati dovevano sentire di esporsi, quando la legge fosse approvata, alla rappresaglia elettorale di coloro a cui essi avessero tentato di sbarrare la strada al conseguimento dei diritti politici,- e questa preoccupazione era per me un tacito omaggio al progetto stesso, ed un riconoscimento, sia pure dissimulato, che le condizioni per la sua adozione erano già mature nella coscienza politica del paese. Più tardi, nella discussione della legge, non vi furono che due deputati, l'on. Gaetano Mosca e l'on. Vincenzo Riccio, che lo combatterono direttamente, con argomenti che io non potevo accettare, ma che erano logici e rispettabili dal punto di vista conservatore. E si ebbe allora un singolare fenomeno; che mentre, di fronte a quella mia proposta, la più democratica che in cinquant'anni di vita nazionale fosse stata presentata da qualunque governo, la stampa conservatrice si manifestava assolutamente contraria, molti degli uomini politici appartenenti ai partiti più decisamente conservatori dichiaravano invece di accettarla.

Non c'era il menomo dubbio sulla sincerità di uomini, quali l'onorevole Sonnino, il quale pure essendo avversario del Ministero si dichiarava apertamente fautore della estensione del suffragio; ma c'era ragione di ritenere che in quel suo atteggiamento egli fosse seguito da pochi. Per chi ha l'abitudine di indagare le inclinazioni e seguire le manovre dei partiti, intese al conseguimento dei propri fini anche quando non credono opportuno confessarli, e che in questo caso era di fare naufragare la riforma elettorale, era evidente che si erano scelte, per combatterla, le vie indirette e traverse. Una delle manovre più interessanti per l'osservatore in questa battaglia consisteva, non solo nel non avversare la riforma, ma nel cercare anzi di svalutarla dichiarandola insufficiente; e non è ormai scienza occulta, dopo tanto scaltrimento parlamentare, che uno dei modi più efficaci per combattere una proposta, consiste nell'esagerarla.

E ricordo che vi fu allora chi propose di allargare il suffragio al di là dei miei intendimenti, con togliere quel limite dei trentanni che io aveva fissato per gli illetterati; altri che propose di dare senz'altro anche il voto alle donne; mentre altri ancora proponevano l'adozione dello scrutinio di lista, o l'applicazione del sistema proporzionale, tutti mezzi sicuri per raddoppiare gli ostacoli e rendere più difficile al governo di condurre la legge in porto; mentre altri proponeva che si approvasse la riforma, ma la sua applicazione fosse rimandata, tenendosi le prossime elezioni con le liste attuali.

Altri ancora qualificavano la legge come un suffragio universale deformato per quelle limitazioni che vi avevo introdotte. Ora io ammetto che nelle leggi la massima semplicità sia l'ideale; ma esso non è sempre raggiungibile, perchè le leggi devono tenere conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, come nel nostro caso era l'analfabetismo, ed adattarsi ad essi. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito.

Non dirò che l'intenzione di ostruzionismo fosse in tutti coloro che avanzavano queste proposte atte a complicare le cose; ma era assai istruttivo il fatto che esse fossero sempre accolte e contrapposte al progetto del governo da quegli organi della pubblica opinione nei quali era evidente l'interesse e l'intenzione di fare naufragare la riforma, o di mutilarla o almeno di ritardarla. Quando fra l'aprile ed il maggio del 1912, la Commissione presieduta dall'onorevole Bertolini presentò la sua relazione e la legge venne in discussione, questi maneggi si erano assai attenuati, come era avvenuto per la legge del monopolio. Ed a tanto maggiore ragione. Era infatti intervenuta la guerra; e come si sarebbe potuto negare il pieno diritto alla cittadinanza politica ed alla partecipazione alLa vita dello Stato a quelle stesse classi a cui si domandava di dare la vita dei loro figli per l'incremento e per i più alti interessi politici del paese?

La discussione fu pertanto assai blanda e la legge fu approvata in poche settimane. Rispondendo ai diversi oratori, ed esaminando alcune loro proposte dal governo non accettate, io dovetti toccare di alcune questioni che voglio ricordare.

C'era la questione del voto alle donne, questione, io osservai, degna di ogni studio e di ogni ponderazione, poiché si trattava nientemeno che di una metà del genere umano. Ma, riguardo alla situazione delle donne, vi erano altre questioni da risolvere, che le concernevano, prima di addivenire alla considerazione della loro capacità politica. Anzitutto bisognava cominciare col modificare quelle leggi che restringono la indipendenza e la capacità della donna nel campo puramente civile, creando ad essa una speciale situazione di sottomissione. Poi prima del voto politico era il caso di provvedere per essa al voto amministrativo, come quello che poteva servirle da tirocinio per la comprensione dei suoi doveri e diritti politici. Ricordai poi che in proposito io avevo nominato una Commissione, affidandole il compito di studiare a fondo il problema; Commissione a cui avevano appartenuto persone assai autorevoli; fra gli altri i senatori Finali, Bodio, Brusa, Villari e i deputati Boselli, Bertolini, Nitti, Finocchiaro Aprile, Luigi Rossi ed altri. La Commissione aveva studiato lungamente ed ampiamente il problema; ed i risultati dei suoi studi erano stati raccolti in una lettera comunicatami il 5 luglio del 1911, dal suo Presidente, senatore Finali, nella quale lettera si dichiarava che nella sua ultima seduta la Commissione, a maggioranza, aveva approvato un ordine del giorno esprimente l'avviso che non fosse opportuno, per allora, concedere alle donne nemmeno il voto amministrativo. La Commissione però aveva ad unanimità approvato il concetto che si dovesse modificare il Codice Civile in quella parte che riguardava le donne, e più specialmente le donne maritate.

Non ostante tale autorevole parere contrario, io non credevo che la questione del voto amministrativo alla donna si dovesse ritenere così negativamente risolta, e pensavo che potesse essere riproposta e ripresa in esame; ma ritenevo assolutamente prematura qualunque concessione di voto politico. E niente mostrava meglio tale inopportunità e immaturità, che il modo stesso con cui alla Camera si era condotta la discussione su quel punto. Si era, in conclusione, fatta piuttosto una questione accademica., di simpatia; ma nessuno c'era stato che avesse sostenuto con profondità di argomenti convincenti l'opportunità e l'utilità di creare altri sei milioni di elettori politici, quando il Codice civile manteneva ancora per le donne una condizione giuridica diversa ed inferiore. Il paese non avrebbe né compresa né approvata una simile riforma. Quanto poi alla opportunità, accennata da alcuni, di concedere il voto alle sole donne in condizione finanziaria, intellettuale e morale più elevata, quale si fosse la forza degli argomenti portati a sostenere tale proposta, essa non avrebbe potuto essere accettata; il valore di tali argomenti essendo annullato dall'inconveniente gravissimo di creare, con tale attuazione, dei privilegi che oltre che individuali, sarebbero stati necessariamente anche privilegi di classe.

Si era pure avanzata la proposta di abbassare il limite di eleggibilità, indietreggiandolo dai trenta ai' venticinque anni. Era una proposta oziosa, perchè era già rarissimo il caso di deputati di trent'anni. Ad ogni modo se si voleva che la legge trovasse una maggioranza favorevole era bene non introdurvi troppe novità. Terminai con uno scherzo consigliando di lasciare questo desiderio di deputati più giovani per quando le donne avessero il voto.

Si pose avanti nuovamente la questione del voto obbligatorio. Ma quando si estendeva il voto ad otto milioni di cittadini, l'obbligatorietà sarebbe stata un principio non liberale, e di difficilissima applicazione pratica. Il cittadino deve sentire il dovere di partecipare alla vita politica del suo paese. Se non lo sente, è meglio considerarlo come una quantità trascurabile. Se un cittadino di tal fatta non vota, è un bene.
Fu allora in quella discussione, nominato per la prima volta il sistema proporzionale. Lo sostenne l'on. Cornaggia, del partito clericale, e ne parlò favorevolmente anche l'on. Sonnino nel suo discorso; mentre l'on. Caetani presentò un vero e proprio progetto, sostenendo che una tale riforma sarebbe stata l'unico rimedio per avere un Parlamento che corrispondesse perfettamente alle condizioni politiche del Paese.

Il progetto presentato dal Caetani era male congegnato anche tecnicamente e si sarebbe prestato alle più singolari manovre e sorprese; per cui, ad esempio, io sarei potuto diventare il rappresentante di un gruppetto di anarchici, o una mia elezione plebiscitaria a Cuneo, sarebbe stata annullata se qualcuno mi avesse fatto lo scherzo di iscrivermi prima in una lista di Girgenti. Ma, a parte questi scherzi, io ero avverso al sistema proporzionale, in primo luogo perchè lo ritenevo non conforme agli interessi generali del paese, dato che solo i partiti di minoranza erano organizzati in modo da potersene giovare; come del resto era dimostrato dall'esempio dei paesi in cui era stato esperimentato. A me pareva poi che quel sistema dovesse inevitabilmente produrre la difficoltà di creare maggioranze omogenee e compatte, capaci di costituire e sostenere un governo forte e duraturo.

La riforma elettorale diventò legge nella prima metà del 1912, ma il prolungarsi della guerra di Libia rese necessario rimandare ancora per un anno e parecchi mesi le nuove elezioni, che in condizioni normali avrebbero dovuto essere tenute al più presto dopo l'approvazione di una legge che recando un mutamento così vasto e profondo nelle basi stesse della vita politica, toglieva inevitabilmente autorità ad una rappresentanza nazionale, alla cui scelta era concorso appena un terzo del nuovo elettorato.

I risultati delle prime elezioni col suffragio quasi universale, tenute nell'ottobre del  1913, smentirono le
previsioni di una rivoluzione parlamentare, che era stato uno degli argomenti con cui gli organi conservatori nemici della riforma, l'avevano combattuta. Il numero dei deputati socialisti aumentò certo notevolmente, arrivando ad una cinquantina; e gli elementi che facevano capo al partito clericale, allora non ancora trasformato, esercitarono una maggiore influenza in numerosi collegi; ma nel complesso i partiti liberali mantennero le loro posizioni più anche che non fosse necessario per un esercizio efficace del potere.

Quando dopo la guerra, essendo passati oltre sei anni dal primo esperimento della riforma elettorale, gli elettori mandarono al Parlamento oltre centocinquanta deputati socialisti ed un centinaio di popolari, mutando così profondamente la situazione parlamentare, e rendendo assai diffìcile e precario l'esercizio del governo liberale, ci fu chi volle disseppellire quelle antiche previsioni pessimiste, facendo ricadere sulla riforma del suffragio del 1912 la responsabilità di quei mutamenti e delle loro conseguenze. Ma, per ragione della guerra, nuove, ampie estensioni del suffragio si erano prodotte; i quattro milioni e mezzo di nuovi elettori creati dalla mia riforma essendosi più che raddoppiati in seguito a nuovi provvedimenti; mentre poi sarebbe assurdo non tenere conto del concorso dei fattori morali della guerra nel produrre quella nuova situazione.

Ma a parte questo, si può domandare se con una guerra, la quale aveva chiamati a portare le armi e ad arrischiare la loro vita oltre cinque milioni di italiani, in molta parte usciti dalle classi popolari, e in cui si era avuto un mezzo milione di morti e un milione e mezzo di feriti; si può domandare, dico, se vi sia alcuno, anche fra i più tenaci conservatori, che si illuda che si potesse richiedere ad un popolo un così immane sacrifizio, negandogli nello stesso tempo il diritto a partecipare, alla vita pubblica del paese. Ed io ritengo che fu cosa provvida che il popolo italiano in tutte le sue classi fosse stato investito del diritto di partecipare alla sovranità dello Stato, prima che egli fosse chiamato  ai sacrifizi gravissimi della guerra.

XI

La guerra di Libia.
Le sue ragioni e la preparazione.

Gli antecedenti della guerra libica — Gli accordi con la Francia, Inghilterra e Russia e un memorandum aggiunto al Trattato della Triplice — Quali furono le ragioni che mi determinarono all'impresa —La scelta del momento — La politica antitaliana della Porta: minacce e agitazioni — Nostri moniti al governo turco — La preparazione diplomatica — Cordiale atteggiamento dell' Inghilterra, Francia e Russia — Difficile situazione dei nostri alleati: l'atteggiamento di Aehrenthal — Tentata intromissione conciliatrice del barone Marshall — Kiderlen-Wachter sconsiglia l'azione — Una campagna internazionale di stampa contro l'Italia — La preparazione militare —Perchè non cercammo d'attaccare la flotta turca — L'episodio del « Derna » — Il nostro ultimatun — La risposta  evasiva turca e la dichiarazione di guerra.

Un terzo punto del programma con cui avevo assunto il governo, come già ho accennato, era la soluzione del problema della Libia; problema che trovavasi davanti all'Italia ormai da parecchi anni, dopo che gli accordi intervenuti fra la Francia e l'Inghilterra, fra la Francia e la Germania, e fra la Francia e la Spagna, con l'assenso nostro e delle altre Potenze, avevano risolto con le due questioni dell'Egitto e del Marocco, il problema generale dell'Africa mediterranea, riconoscendo all'Italia interessi e diritti predominanti sulla Tripolitania e la Cirenaica.

Naturalmente, come ho già osservato, questo punto del mio programma di governo doveva rimanere segreto; la segretezza essendo un elemento essenziale per la migliore soluzione del problema. Tale reticenza fu considerata da taluni critici prima dell'evento come una rinuncia; mentre altri, quando entrammo in azione, giudicarono che l'impresa fosse stata improvvisata e precipitata, e ciò come un mezzo per fiaccare le opposizioni conservatrici alle due leggi della riforma elettorale e del monopolio. Ora è vero che l'essere l'Italia impegnata nella impresa di Libia ebbe l'effetto di disarmare certi intrighi che si ordivano contro quelle leggi, e si comprende che quando un paese si trova in guerra, i conflitti degli interessi e delle opinioni rimangono notevolmente attenuati. Ma ciò era una semplice conseguenza, cosa ben diversa da un proposito e da una manovra intenzionale, che sarebbero state contrarie alla avversione che io ho sempre avuta, di cercare diversivi all'estero per i conflitti della politica interna. D'altronde sarebbe stato assurdo pensare a diversivi mentre i dissensi sulla politica interna erano tenui e secondari, e la soluzione della questione libica invece interessava veramente e largamente la pubblica opinione.

Che io mi rendessi conto dell'importanza del problema dell'Africa mediterranea, e della necessità che l'Italia non fosse esclusa dalla sua soluzione, l'avevo già dimostrato sino da quando ero entrato nel Parlamento, dando la mia adesione ad un gruppo, che si differenziava dal resto della Sinistra, appunto perchè rimproverava al suo capo, Cairoli, la faccenda di Tunisi; ed avevo pure disapprovato il governo che non aveva accolto l'invito dell'Inghilterra di partecipare alla sua azione in Egitto. Dopo conclusi poi gli accordi con la Francia e con l'Inghilterra, col riconoscimento del nostro primario interesse nella Libia a compenso del nostro disinteressamento nel Marocco e nell'Egitto, io non avevo mai perduto di vista la questione nel suo aspetto diplomatico; ed avevo ottenuto, al tempo della visita dello Czar a Racconigi, il riconoscimento dei nostri diritti su quella zona da parte della Russia; mentre poi all'articolo nove della Triplice, che parlava già di una nostra eventuale occupazione della Tripolitania, «a titolo di legittimo compenso», in un posteriore promemoria, relativo al rinnovamento dell'Alleanza, datato del maggio 1902, era stata aggiunta, per nostra richiesta, una dichiarazione pura e semplice di disinteressamento della Germania e dell'Austria-Ungheria per la questione della Libia, senza nessuna loro riserva di compensi.

Durante poi il mio precedente governo io mi ero direttamente occupato della eventualità che l'Italia dovesse affrontare l'impresa di Libia; e col criterio di compiere una preparazione locale, per profittare dei conflitti e dissensi e malumori politici dei capi locali con le autorità turche, avevo fatto agire in Cirenaica e in Tripolitania certi miei agenti, fra cui ricordo Mohamed Ali Elui Bey, un egiziano che aveva già reso altre volte servizi all'Italia, e che si mise in relazione col capo dei Senussi; ed altre persone,  che  non  conviene nominare  perchè  essendo ancora  vive  potrebbero  essere  esposte  a vendette, le quali pure si erano  affiatate con l'elemento  senussita  della  università  islamica  del  Cairo.  

Se   la soluzione del problema libico non appariva necessariamente militare mentre durava il regime di Abdul Hamid, dal quale pareva che si potessero ottenere concessioni, di carattere economico e giuridico, tali da assicurare gli interessi italiani contro qualunque altra mira o appetito, le cose avevano mutato assai con l'avvento del regime dei Giovani Turchi. Costoro avevano eccitato dovunque il sentimento politico e fanatico delle popolazioni, indirizzandolo particolarmente contro  quella  potenza da  cui credevano  di avere sopratutto  da temere in  una data zona del loro  impero:  e per la Libia la potenza tenuta in sospetto era naturalmente l'Italia.

Il Banco di Roma aveva in quegli ultimi anni stabiliti in Tripolilania e Cirenaica interessi notevoli, che il Governo italiano aveva il dovere di tutelare; e se la Turchia avesse avuta una chiara visione della situazione, si sarebbe ben guardata dal creare a quegli interessi difficoltà, imbarazzi e minaccie di rivalità, che dovevano prima o dopo avere l'effetto di costringere l'Italia a intervenire. Ricordo che quando noi richiamavamo l'attenzione della Porta su queste cose e sulla necessità di non ostacolare, anzi favorire gli interessi italiani  in  Libia,  essa  ci  rispondeva evasivamente  e facendoci delle offerte che a prima vista parevano assurde; così una volta, mentre ce le negava in Tripolitania, ci offerse delle concessioni nientemeno che in Mesopotamia. Non era un'assurdità, ma una astuzia raffinata, anzi troppo raffinata per avere un risultato. Con tali offerte la Porta mirava ad imbrogliare le carte ed a creare dissensi e conflitti fra le Potenze diversamente interessate nelle varie zone dell'Impero Ottomano; noi infatti in Mesopotamia ci saremmo urtati con gli interessi tedeschi ed inglesi, gli inglesi e i tedeschi in Libia si sarebbero urtati con gli interessi italiani.

Tale era, nelle grandi linee, la situazione del problema della Libia quando nel 1911 io assunsi nuovamente il governo; cioè una situazione peggiorata e che rendeva ormai difficile assai, se non addirittura impossibile, una sua pacifica soluzione, quale forse anteriormente avrebbe potuto essere accettata. Di tutto questo da principio non parlai che con quello dei miei colleghi, che era il più direttamente interessato, e al quale competeva la preparazione diplomatica iniziale: l'on. San Giuliano. Egli si trovò pienamente d'accordo meco e mi fu poi validissimo collaboratore per la sua parte, sia nella preparazione dell'impresa sia nella sua finale soluzione.

L'on. San Giuliano, di cui ricordo sempre la fidata amicizia e il grande disinteresse patriottico, era uomo di ingegno pronto, sottile, ed equilibrato ad un tempo; e che si era fatta rapidamente per la politica estera una larga e sicura preparazione, avendo anche coperti i posti di ambasciatore a Londra e a Parigi. Egli aveva la capacità, piuttosto rara, di considerare le questioni in tutte le loro faccie prima di prendere una risoluzione: come pure di fare giusta ragione alle critiche che si potevano.opporre alle sue vedute, assimilando le opinioni degli altri. Possedeva poi una singolare facilità, una volta compresa una questione nel suo complesso, di farne una esposizione chiara e semplice;  e particolarmente felice era nella redazione di documenti diplomatici, che devono essere compilati in modo che esprimano tutto ciò che si deve e vuol dire,  senza dare  appigli a ritorsioni.  Ricordo  che spesso, dopo una conversazione che egli aveva meco, nella quale esaminavamo una questione nei suoi vari aspetti e prendevamo una decisione, egli si ritirava in una stanza attigua al mio studio, ed in pochi minuti compilava la nota diplomatica, che dopo un'ultima revisione fatta insieme veniva spedita.

Egli mi teneva sempre informato, anche quando eravamo lontani, minutamente di tutto, e non prendeva alcuna deliberazione senza prima essersi messo d'accordo con me. Il solo punto in cui io non ero d'accordo con lui, era una certa tendenza che egli aveva di spingersi avanti troppo rapidamente; ma bastava poco per fargli subito riconoscere la convenienza di andare più adagio e ponderare più lungamente. Ad un certo punto della sua carriera egli si era disinteressato interamente dalla politica generale e da qualunque altra questione che non fosse di politica estera,  per la  quale intendeva di specializzarsi;  ed a questo scopo appunto mi aveva chiesto di farlo nominare Senatore, perchè l'ambiente della Camera, con le sue lotte politiche e con le necessità elettorali, gli impediva di seguire completamente questa sua inclinazione.

Quando la guerra con la Turchia fu dichiarata, ci fu chi almanaccò sulle ragioni che potevano avere spinto il governo a questa decisione, la quale a chi ignorasse i precedenti doveva parere appunto improvvisata. E si parlò di ragioni segrete, le quali avrebbero  ad un  certo  punto  vinte le mie esitanze. Niente di vero vi è in tutto questo.

Le ragioni che mi persuasero della necessità di agire, erano ragioni di carattere politico generale. Una volta risolta la questione del Marocco da una parte con lo stabilimento del predominio francese, e quella dell'Egitto dall'altra, col riconoscimento diplomatico del predominio inglese, stabilitovi di fatto da lungo tempo, le condizioni di cose in cui rimaneva la Libia, sotto il dominio ottomano, erano tali da non poter continuare. Mentre infatti l'Africa occidentale, da Tunisi al Marocco, e l'Egitto si trovavano sotto l'egida di amministrazioni europee, nella Libia prevalevano ancora condizioni straordinariamente arretrate; basta ricordare che a Bengasi c'era ancora il commercio degli schiavi, che venivano presi con la violenza; nel centro d'Africa e venduti su quel mercato. Era impossibile  che una  simile infamia fosse tollerata
alle porte d'Europa.

Noi, nei negoziati con la Francia e l'Inghilterra per le questioni egiziane e marocchine, ci eravamo fatti attribuire dei diritti, dei quali avevamo ottenuto il riconoscimento anche da parte delle altre maggiori potenze; e doveva venire, e per me era venuto o era imminente il momento nel quale noi ci trovavamo in questa alternativa: o esercitare senz'altro questi diritti o rinunciarvi. Lo stato di cose esistente non poteva durare, e data la condotta dei Giovani Turchi, se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe andata qualche altra potenza in qualche modo interessata politicamente, o che vi avesse creato degli interessi economici.

D'altra parte l'Italia, che si era già così profondamente commossa per l'occupazione francese di Tunisi, non avrebbe certamente tollerata una ripetizione di un evento di quel genere per la Libia; e così noi avremmo corso il rischio di un conflitto con qualche potenza europea, cosa senza confronto più grave di un conflitto con la Turchia. Perseverare nella situazione in cui ci trovavamo, di avere messa una ipoteca sulla Libia, ciò che impediva agli altri di andarci, senza poi andarvi noi, sarebbe stata una cosa non seria, e che del resto ci creava difficoltà in tutte le altre questioni europee, e particolarmente in quelle dei Balcani.

Un'altra complicazione derivava dal fatto della politica turcofila in cui si erano impegnati allora i nostri alleati, sopratutto la Germania, e che si trovava in contrasta con il trattamento che il governo di Costantinopoli faceva agli interessi italiani; così che San Giuliano, nelle sue comunicazioni coi governi di Berlino e di Vienna sosteneva la tesi, in apparenza paradossale, che l'unico modo per ristabilire l'amicizia fra noi e la Turchia, e rendere possibile una politica armonica della Triplice Alleanza nell'Impero Ottomano, era che noi occupassimo la Tripolitania.

Per queste ragioni capitali, appena formato il Ministero, San Giuliano ed io ci trovammo d'accordo che l'occupazione della Libia era una questione da tenere di mira. San Giuliano, che per la Libia sentiva un interesse più speciale, nella sua qualità di siciliano, aveva maggiore fretta, e riteneva conveniente di agire prima che fosse risolta la questione grave assai, allora pendente fra la Francia e la Germania, pel Marocco. Egli sosteneva che se noi avessimo agito mentre l'opinione pubblica europea era assai preoccupata dei pericoli della questione marocchina, la nostra azione avrebbe attratta minore attenzione e sarebbe, come si dice, passata più facilmente. Tittoni esprimeva una opinione eguale da Parigi, con argomenti diversi; egli pensava che l'impresa libica non avrebbe trovate opposizioni in Francia mentre vi perdurava la preoccupazione della questione marocchina; ma temeva che una volta quella questione risolta, il governo francese, con tutta la migliore buona volontà di mantenere gli impegni presi con noi per la Libia, si sarebbe trovato sotto la pressione del partito coloniale francese, assai potente, il quale non avrebbe mai visto di buon occhio che l'Italia s'insediasse vicino alle colonie francesi nell'Africa settentrionale.

Sulla opportunità di agire subito io ero d'opinione diversa. Io pensavo che l'Italia non dovesse muoversi fino a che non fosse risolta appunto la questione marocchina, che nei primi tempi del mio nuovo Ministero era ancora aperta fra la Francia e la Germania, e traversava anzi il suo momento più difficile e pericoloso. Tale questione era infatti di tanta importanza, che poteva essere la scintilla della conflagrazione europea; ed io ricordo che in quei giorni l'Ambasciatore di Francia, Barrère, mi aveva accennato al pericolo che per la questione del Marocco scoppiasse la guerra fra il suo paese, che non intendeva di subire più l'umiliazione inflitta al Delcassé, e la Germania, i cui propositi apparivano oscuri. Ora, finché pendeva questa minaccia di una guerra europea, noi, a mio parere, nulla dovevamo fare che potesse complicare la situazione, e sopratutto nei rapporti fra la Francia e la Germania; sia per non assumere la grave responsabilità di avere contribuito alla conflagrazione generale; sia perchè se la guerra europea fosse scoppiata, era nostro evidente interesse di trovarci interamente liberi, e non impegnati in una impresa che avrebbe complicata la nostra situazione.

Si aggiunga ancora che, aspettando la fine della questione marocchina, la questione della Libia si sarebbe presentata sul campo diplomatico interamente isolata, nel quale caso era assai più facile ottenere il consenso di tutti; mentre, se noi agivamo mentre era aperta un'altra questione, che interessava così profondamente alcune delle maggiori Potenze europee, il consenso ci sarebbe stato mercanteggiato e condizionato dalle varie parti, con l'effetto di complicare assai le cose.

Però, oltre a queste, di carattere politico e diplomatico, di altre complicazioni si doveva tenere conto, di carattere militare. Noi sapevamo che i porti della Libia non possedevano fortificazioni o solo fortificazioni invecchiate, tali da non potere opporre alcuna resistenza all'attacco di una flotta moderna; e che le guarnigioni turche a Tripoli, Derna, Bengasi, Tobruk, Misurata, ecc. erano esigue e tali da non potere opporsi ai nostri sbarchi. La flotta ottomana, costituita di poche e vecchie navi, non poteva pure fare ostacolo alle nostre operazioni. Ma era noto però che il governo Giovane Turco stava lavorando a rimettere in piena efficienza l'assetto militare dell'Impero, e per la flotta si erano date o si stavano per dare importanti ordinazioni per dreadnoughts e cacciatorpediniere ai cantieri inglesi. A parte questi preparativi di carattere generale, nulla avrebbe impedito al governo ottomano, quando avesse avuto sentore delle nostre intenzioni, di portare in Libia forti reparti di truppa, e di rafforzare la resistenza contro sbarchi con mine e torpedini.

In secondo luogo bisognava tenere conto delle condizioni del mare nelle diverse stagioni, considerando sopratutto che gli sbarchi nei porti della Tripolitania e peggio in quelli della Cirenaica, erano resi assai difficili per la mediocrità dei mezzi di cui quei porti disponevano. Grossi sbarchi improvvisi, quali si richiedono per una spedizione militare che deve procurarsi il vantaggio della sorpresa, non erano possibili, per le condizioni del mare, fra il dicembre ed il maggio; l'impresa quindi, o doveva farsi in autunno o rimandarsi all'anno seguente, cosa, per le ragioni dette, assai pericolosa.

Un'altra considerazione favoriva la scelta della stagione autunnale, quando cioè si andava verso l'inverno: il nostro proposito cioè di isolare l'azione libica il più possibile, ed evitare sopratutto ripercussioni nei Balcani, che l'esperienza mostrava assai meno probabili nella stagione invernale, quando la neve rende molto difficili, in quel paese montuoso, i movimenti militari ed anche le incursioni di semplici bande armate.

Quando dunque la questione marocchina fra la Francia e la Germania fu pacificamente risolta, io giudicai che fosse giunto il momento di agire.

La condotta del governo dei Giovani Turchi aveva nel frattempo, anziché mitigata, aggravata la situazione. A Tripoli particolarmente, il Vali, istigato e spalleggiato dal comitato locale «Unione e Progresso», moltiplicava gli atti di dispregio verso i cittadini italiani, e cercava ogni pretesto per ostacolarne l'attività e danneggiarli. Le cose erano giunte a tal punto che il Banco di Boma, che aveva specialmente stesi i suoi interessi  commerciali nella Tripolitania, vedendosi esposto a gravi danni, parve avesse aperte trattative per cedere tutti questi suoi interessi ad un gruppo di banchieri austro-tedeschi. E bisognava per la verità riconoscere che da quasi ormai due anni la Porta si mostrava affatto sorda a tutti i nostri reclami ed alle nostre proteste; lasciando anzi intravedere chiaramente il desiderio di sradicare qualunque influenza italiana dalla Libia, provocando nello stesso tempo l'entrata in campo di altri interessi, specialmente tedeschi, con l'evidente intenzione di crearvi una condizione di cose che alla lunga avrebbe intaccati gli stessi diritti politici che dalle altre Potenze ci erano stati riconosciuti.

L'importanza decisiva dell'elemento commerciale nel determinare la validità degli interessi politici, sia pure tradizionali, è uno degli aspetti della colonizzazione moderna; e il governo ottomano con la sua politica intesa ad ostacolare l'affermazione della nostra supremazia economica in Libia, insidiandola con concessioni offerte o promesse a cittadini di altre Potenze, e togliendoci così l'alternativa di una penetrazione pacifica, non solo rendeva inevitabile, ma affrettava l'occupazione militare italiana, dando ad essa le migliori ragioni.

Fra l'altro, come esempio di queste macchinazioni contro gli interessi italiani, va ricordato che, dovendosi in quel tempo fare l'aggiudicazione per lavori notevoli di estensione ed adattamento del porto di Tripoli, il governo di Costantinopoli, stabilendo di bandire un'asta pubblica, aveva lasciato intendere di essere disposto a fare di tutto per impedire che essa fosse aggiudicata ad un italiano. Sino dal luglio noi, anche per mezzo dei nostri alleati, cercammo di fare comprendere al governo turco che continuando per quella strada avrebbe rese inevitabili nostre decisioni radicali; e che, per migliorare le relazioni fra i due, paesi, s'imponevano alcuni provvedimenti, fra i quali la sostituzione dell'allora Vali, principale persecutore dei nostri interessi, ed ormai troppo decisamente compromesso in una politica antitaliana perchè si potesse sperare in un suo ravvedimento sincero e leale.

L'Aehrenthal, allora alla testa del governo austro-ungarico, e il Cancelliere tedesco, Kiderlen-Wächter, riconobbero la giustezza delle nostre lagnanze e la legittimità delle nostre domande; ma, da certi loro accenni pare che essi pensassero che i Giovani Turchi dopo gli atteggiamenti nazionalisti che avevano presi, e sui quali fondavano il loro prestigio, non si trovassero in condizione di fare reali concessioni, senza esporsi ad un grave indebolimento di quel prestigio, con la possibile conseguenza anche di una caduta del loro regime. E che il governo turco non avesse alcuna volontà di venire incontro alle nostre eque esigenze, anzi credesse di potersi prendere con noi qualunque libertà, anche fuori della questione libica, fu in quel torno dimostrato da un altro fatto diplomatico assai grave.

Avendo bisogno di fondi, la Porta stava negoziando con la Germania e l'Austria-Ungheria un aggravamento del quattro e mezzo per cento sulle tariffe doganali; e noi fummo informati che, una volta ottenuto il consenso delle altre Potenze a tale aumento, esso intendeva mettere l'Italia di fronte al fatto compiuto, ed applicare la nuova tariffa alle merci italiane senza alcun preventivo negoziato. Siccome il consenso delle altre Potenze era ottenuto in base a compensi ed a concessioni, era evidente che anche per quella occasione il governo turco, non solo si proponeva di evitare qualunque discussione di compensi e concessioni col-l'Italia; ma credeva di poter compiere contro di noi un aperto atto di dispregio, che avrebbe gravemente danneggiato in tutto l'Oriente il nostro prestigio, già assai scosso, secondo le relazioni dei nostri consoli, in Tripolitania, come conseguenza delle prepotenze a cui vi erano stati sottomessi i nostri connazionali.

La conclusione della questione marocchina aveva poi avuto notevoli e inevitabili ripercussioni nell'opinione pubblica italiana, quale era espressa nella stampa. La stampa si occupava largamente della questione dell'Africa mediterranea; ed anche giornali cauti e moderati non nascondevano che la conclusione dell'accordo franco-tedesco pel Marocco, che dava finalmente, senza più ostacoli e riserve, alla Francia ciò che le era stato riconosciuto nella convenzione conclusa con l'Italia, rendeva ormai imperativo di definire chiaramente, ed una volta per sempre, nella realtà gli interessi ed i diritti che erano stati riconosciuti anche a noi. Definizione che avrebbe potuto anche essere pacifica, se a Costantinopoli si fosse avuto un chiaro concetto della situazione, e si fosse compreso che l'unico modo di evitare un conflitto, era di venire incontro lealmente all'Italia. Le lettere e i telegrammi da Tripoli portavano invece ad ogni momento notizie di nuovi soprusi, i quali, per quanto mediocri e secondari ognuno per sé stesso, presi tutti insieme costituivano un grave danno economico e politico; mentre le notizie da Costantinopoli, riconfermate dai dispacci della nostra ambasciata, e perfino dalle corrispondenze di giornali esteri, dipingevano la Porta in atto di spregio e di sfida verso di noi.

La considerazione generale dei nostri interessi nell'Africa mediterranea, congiunta, a quelle notizie che dimostravano essere in pericolo, non solo gli interessi economici, ma anche il nostro prestigio e la nostra dignità nazionale, finirono per determinare una vera campagna in molta parte della nostra stampa, che chiedeva senz'altro la soluzione della questione libica, con largo consenso da parte della pubblica opinione. La ripercussione del linguaggio dei nostri giornali, tanto in Tripolitania che a Costantinopoli, fu assai curiosa e contradditoria. Quel tanto di opinione pubblica che vi era in Turchia, e che era totalmente dominata dai Giovani Turchi, cominciò anch'essa ad agitarsi; si tennero sedute dei Comitati «Unione e Progresso», nei quali si protestava contro qualunque; concessione all'Italia in Libia; si eccitava il governo a mandare truppe ed armi a Tripoli e a Bengasi; si minacciava di istituire un boicotaggio generale in tutto l'Impero contro le merci italiane; e si accennava persino al proposito, nel caso di guerra, di espellere tutti gli italiani dai territori dell'Impero.

A Tripoli la situazione era più complicata. I rapporti dei nostri consoli avevano già richiamata la nostra attenzione al fatto che il regime turco non era affatto popolare fra gli arabi, che ne erano continuamente vessati; e non mancavano dei capi influenti, quale il sindaco di Tripoli, Hassuna pascià, discendente della antica famiglia reale del paese, che non si mostravano alieni dall'affiatarsi con noi. I nostri consoli non si fecero però mai eccessive illusioni in proposito; presumendo che, in caso di guerra, l'appello al fanatismo islamico ed al nazionalismo non sarebbero riusciti vani. Infatti i Comitati locali dell'«Unione e Progresso> iniziarono per tempo una campagna di nazionalismo e fanatismo, convocando i capi e le popolazioni arabe nelle moschee, per manifestazioni di protesta contro l'Italia; ottenendo nel principio una risposta mediocre, che andò però a mano a mano infervorandosi e aumentando.

Il contegno del governo turco fu assai vario, ed
andò mutando con lo svolgersi degli avvenimenti.
Esso tentò dà principio la maniera forte. L'incaricato d'affari turco, il giorno quattro agosto si presentò alla Consulta, e nell'assenza del San Giuliano
parlò in modo altero al sottosegretario, lagnandosi
che l'ostilità verso la Turchia che si andava manifestando nell'opinione pubblica e perfino nel Parlamento, non fosse moderata da esplicite dichiarazioni ufficiali del governo italiano; e concluse dicendo che la mancanza di un'azione energica da parte nostra avrebbe potuto turbare i rapporti fra i due paesi. Il sottosegretario, onorevole Di Scalea, premettendo che egli non poteva .accettare tale intonazione di linguaggio né prendere nemmeno atto di quella comunicazione, osservò che la Turchia doveva solo a sé stessa la sollevazione dell'opinione pubblica italiana, per gli innumerevoli atti di ostilità che essa aveva lasciato compiere da suoi funzionari, e particolarmente dal Vali di Tripoli.

San Giuliano informò della cosa De Martino, che reggeva l'Ambasciata di Costantinopoli, dandogli anche incarico di lasciare chiaramente intendere al Ministro degli Esteri turco, che se la condotta delle autorità turche verso i nostri interessi in Tripolitania non fosse mutata, le conseguenze potrebbero essere più gravi assai che gli articoli dei giornali e i discorsi dei deputati. Era un parlar chiaro e leale il nostro, che però non ebbe alcun effetto; ed io tengo a rilevarlo contro l'accusa fatta a noi di avere consumata una aggressione improvvisa ed ingiustificata. In fondò la Turchia, come ci comunicava il nostro addetto militare, riferendo sulla lentezza ed inadeguatezza dei preparativi militari turchi per la difesa della Libia, non credeva né alla nostra capacità di agire né alla nostra potenzialità militare, e calcolava quindi che una nostra spedizione avrebbe implicata una lunga e visibile preparazione che le avrebbe dato tutto il tempo necessario per preparare la difesa.

Neanche i moniti di qualche ambasciatore estero ebbero effetto. Solo all'ultimo momento, anzi quando già la nostra flotta era davanti a Tripoli ed entrava in azione, rivolgendosi alla Germania e ad altre potenze perchè intervenissero come pacieri, fece promesse di concessioni di ogni genere, e si dichiarò disposta a riparazioni pel passato. Era troppo tardi, e le promesse fatte in quelle condizioni e circostanze erano la riprova della scarsissima fede che si poteva avere in quel governo.

D'altra parte, durante tutto questo periodo preparatorio, che andò dal giugno al settembre, io ritenni conveniente di condurre avanti un'opera di preparazione diplomatica presso le Potenze in qualunque modo interessate; opera che fu intensificata quando l'occupazione della Libia divenne per noi una decisione irrevocabile, ed anzi di imminente attuazione.

Anche in questo bisognava però procedere con molta prudenza, per non dare allarmi e non provocare complicazioni. Si trattava di risolvere la situazione libica, che non poteva più protrarsi senza danno ai nostri interessi ed al nostro prestigio, senza allarmare l'Europa riguardo alla questione ottomana, che si temeva potesse provocare una confagrazione generale. C'era dunque il pericolo, se le nostre intenzioni diventassero  troppo  apparenti, che a qualche potenza venisse l'idea di darci dei consigli, e che in tal modo s'intavolasse una discussione generale che poteva compromettere tutto, dando tempo alla Turchia per una forte preparazione bellica nel territorio che dovevamo occupare. Per tanto la preparazione diplomatica, che pure era necessaria per creare intorno alla nostra impresa, quando si iniziasse, un sentimento di benevolenza o almeno per evitare avversioni troppo forti ed aperte, doveva consistere nel tenere le Potenze al corrente della diffìcile condizione in cui la condotta del Governo turco poneva l'Italia, e lasciare comprendere che noi potevamo essere costretti, prima o dopo, ad agire, senza però nulla precisare al riguardo.

Inviammo quindi le opportune istruzioni ai nostri ambasciatori nelle grandi capitali. Il nostro ambasciatore a Londra, marchese Imperiali, trovò la strada abbastanza facile presso il Governo, mentre il contegno della stampa non era ugualmente favorevole. Parlando con Sir Edward Grey, allora ministro degli Esteri, il nostro ambasciatore mise in rilievo la longanimità veramente esemplare di cui il Governo italiano aveva dato prova, pel suo desiderio di evitare complicazioni, ma senza però riuscire a persuadere i Giovani Turchi a mutare la loro condotta, ora nascostamente ora apertamente ostile. Tale ostilità si era andata anzi sempre più aggravando; così che il nostro governo non si troverebbe più in grado di resistere  alla  opinione pubblica,  reclamante la tutela degli interessi e della dignità nazionale.

Questa comunicazione ebbe luogo il 26 luglio. Grey l'accolse con molta cordialità. Egli dichiarò che già precedenti accenni l'avevano reso edotto delle difficoltà della nostra situazione, e che un esame di questa l'aveva persuaso che le nostre lagnanze erano pienamente fondate. Se pertanto l'Italia, a tutela dei suoi diritti conculcati, e fallito ogni possibile tentativo per una soluzione pacifica della questione, si trovasse costretta ad agire, l'Inghilterra non solo nulla farebbe contro, ma le concederebbe l'appoggio della sua simpatia, beninteso solamente morale, riservandosi, al momento opportuno, di fare sentire a Costantinopoli che la Turchia non poteva aspettarsi dall'Italia trattamento diverso dato il suo scorretto procedere verso di essa.

Grey osservò ancora, sempre a titolo di consiglio amichevole e personale, che gli pareva fosse indispensabile che la nostra eventuale azione fosse giustificata da una flagrante violazione dei nostri diritti, o dalla patente dimostrazione del proposito della Turchia di porci in Tripolitania in condizioni di inferiorità rispetto alle altre nazioni. Insistette su questo punto specialmente nel senso di evitare qualunque apparenza che la nostra azione fosse determinata dal desiderio da parte nostra di ottenere dalla Turchia una posizione economica basata su particolari interessi, perchè una tale apparenza gli avrebbe reso difficile di sostenere davanti al Parlamento la simpatia e l'appoggio morale che intendeva di concederci; l'Inghilterra avendo sempre mantenuto intatto il principio della porta aperta in materia economica anche nei suoi accordi con la Francia per il Marocco.

Codeste cordiali ed amichevoli disposizioni dell'Inghilterra, dovute oltre che all'antica amicizia fra i due paesi, ed agli accordi intervenuti fra loro per l'Africa mediterranea, anche al riconoscimento, che al governo inglese era agevole per la sua esperienza di cose coloniali, della impossibilità di altra soluzione, furono pienamente confermate all'ultimo momento. Infatti il 26 settembre, nell'imminenza della nostra azione, avendo l'ambasciatore turco a Londra, per ordine del proprio governo, fatte preghiere presso il Foreign Office, perchè l'Inghilterra intervenisse dando a noi consigli di moderazione, Grey gli fece rispondere che, trattandosi di questione esclusivamente italo-turco, il Governo britannico non intendeva di intervenire in alcun modo, anche se l'Italia, andando alle ultime conseguenze, occupasse la Tripolitania.

Più incerto fu il contegno della stampa inglese. Alcuni giornali riconoscevano fondate le nostre lagnanze, ma si mostravano riluttanti ad incoraggiare misure coercitive, per la preoccupazione delle ripercussioni che esse potevano avere sulla già precaria situazione interna della Turchia, e si prevedeva un'aspra resistenza con misure di rappresaglia contro gli interessi italiani nelle altre parti dell'Impero. Vi erano poi alcuni giornali liberali ed altri radicali che si mostravano risolutamente ostili, usando anche un linguaggio violento; e seppi che erano giornali che risentivano l'influenza tedesca in quanto sostenevano il progetto, allora patrocinato da alcuni gruppi politici inglesi, per una intesa con la Germania.

Pienamente cordiale fu pure verso di noi l'atteggiamento della Francia, alla quale del resto i nostri diritti sulla Libia dovevano apparire tanto più legittimi, e la nostra azione più giustificata, in quanto la situazione generale dell'Africa mediterranea, e la posizione speciale in cui l'Italia si trovava, erano in buona parte una diretta conseguenza, sia della politica francese riguardo al Marocco, sia degli accordi intervenuti da lungo tempo e sempre confermati, fra l'Italia e la Francia. Il governo francese comprese benissimo ed ammise senza riserve, che la soluzione definitiva a cui arrivava la questione marocchina con gli ultimi accordi con la Germania, apriva nettamente il problema della soluzione del problema libico per l'Italia. Il nostro ambasciatore, on. Tittoni, che già aveva avuto molta parie nei negoziati relativi ai nostri diritti sulla Libia quando era ministro degli esteri, aveva ottenuto recentemente le più esplicite e categoriche dichiarazioni dai Ministri Pichon e Cruppi riguardo alla fedeltà della Francia agli impegni conclusi nel 1902. Il 22 settembre egli aveva poi avuta una nuova conversazione col Ministro degli Esteri De Selves, e questi gli aveva dichiarato che per la nostra azione in Tripolitania potevamo contare che il governo francese sarebbe stato con noi incondizionatamente; e soggiunse anche che siccome si parlava della eventualità del lanciamento di un nuovo prestito turco
in Francia, il governo non avrebbe mai data la sua
adesione fino a che la questione tripolina non fosse
pienamente risolta.

Anche Delcassé dichiarò al Tittoni che tutti i voti e le simpatie erano per l'Italia.
Tale atteggiamento, così cordialmente amichevole del
governo francese, fu pure rispecchiato dalla stampa,
la quale, a parte l'incidente del Manouba e del Carthage, seguì poi con molto favore e simpatia la nostra impresa.    

Anche il governo russo, informato di una nostra eventuale azione in Tripolitania verso la fine d'agosto, prese atto amichevole, per mezzo del Ministro degli Esteri, signor Neratow, delle nostre comunicazioni, riconoscendo il nostro diritto di agire in base agli accordi di Racconigi. L'Iswolsky, che di quegli accordi era stato meco e col Tittoni l'autore nel 1907, trovandosi ora a Parigi quale ambasciatore, parlò della cosa col Tittoni, ed udite le spiegazioni di questi, dichiarò che potevamo agire come credevamo, aggiungendo: — Procurate però di non farci trovare all'improvviso sulle braccia lo sfacelo della Turchia e la necessità di un intervento europeo nella Balcania. —

Preoccupazioni di questo genere furono espresse poi da parte della stampa russa, la quale, considerando che in tre anni di esistenza il regime giovane-turco non aveva avuto a registrare che degli insuccessi o dei disastri; nella Bosnia-Erzegovina, in Creta, in Albania, e dovunque; temeva che l'occupazione della Tripolitania potesse essere la goccia che facesse traboccare il vaso dell'indignazione pubblica turca, spingendo il governo a gettarsi in qualche avventura pericolosa nei Balcani oppure in Persia per riconquistare il prestigio perduto.

Nel contegno di queste tre Potenze in tale occasione, oltre che la cordialità verso di noi e il leale adempimento degli impegni contratti, non era assente forse un qualche risentimento verso il governo Giovane-Turco, che si era buttato in braccio alla Germania, e il calcolo della convenienza politica che quel governo dovesse accorgersi che la protezione germanica potesse riuscire inefficace anche contro un membro della Triplice Alleanza.

La considerazione della particolare situazione in cui si trovavano la Germania e l'Austria, e sopratutto la prima, fra l'alleanza con l'Italia, e l'amicizia e gli interessi con la Turchia, aveva persuaso me e il San Giuliano della convenienza di ritardare al più possibile di informare gli alleati delle nostre intenzioni e della nostra eventuale azione; ragione che noi poi dichiarammo francamente, e che anche l'Aerenthal riconobbe legittima e giusta, quando verso la fine di settembre ritenemmo opportuno alla fine di informarli. Avevamo voluto ad un tempo risparmiare loro un serio imbarazzo, ed assicurarci contro interferenze le quali, per quanto bene intenzionate ed amichevoli, avrebbero complicata la nostra situazione. L'Aerenthal, informato dal nostro ambasciatore D'Avarna, e messo al corrente delle ragioni dell'azione nostra, mostrò di rendersene benissimo conto. Egli si mostrò soddisfatto del proposito, da noi dichiaratogli, di volere localizzare la questione nel Mediterraneo, e di astenerci, nella misura del possibile, da azioni tali da provocare ripercussioni nei Balcani; ma insistette sul pericolo che tali ripercussioni non si potessero evitare, considerando la situazione interna della Turchia e le disposizioni dei Giovani Turchi.

Come amico ed alleato dell'Italia egli credeva suo dovere di richiamare su ciò l'attenzione del nostro governo, pregandolo a considerare la grave responsabilità in cui poteva incorrere. Del resto chiese tempo a riflettere, per poi fare il suo rapporto all'Imperatore, a cui competeva di pronunziarsi, riservandosi di comunicarci le decisioni che il governo avrebbe prese. Gli avvenimenti poi posero l'Austria davanti al fatto compiuto; ed il conte di Aerenthal,dando il 29 settembre la risposta che si era riservata, dichiarò che il suo governo doveva anzitutto esprimere il rincrescimento che il governo italiano avesse abbandonato così presto il terreno diplomatico. Però il governo austro-ungarico considerava che l'Italia, sua alleata ed amica, aveva diritto di provvedere come meglio credeva alla tutela dei propri interessi, e non avrebbe quindi fatta alcuna difficoltà alla sua azione in Tripolitania. E concludendo richiamava ancora l'attenzione nostra sulle eventuali ripercussioni della nostra azione nei Balcani, e ricordando che il Trattato della Triplice era basato sul mantenimento dello status quo nella Turchia europea, esprimeva la fiducia che l'Italia avrebbe preso tutti i provvedimenti convenienti per localizzare la sua azione nel Mediterraneo e impedire perturbamenti nei Balcani.

Nel fare le nostre comunicazioni all'Austria ed alla Germania, noi avevamo abbinato in certo modo la questione della Tripolitania col rinnovamento, ormai prossimo della Triplice, per fare ben comprendere a Vienna ed a Berlino che un atteggiamento ostile e poco cordiale verso di noi avrebbe messo in serio pericolo l'Alleanza.

Più complicata e delicata ancora di quella dell'Austria era la situazione della Germania, la quale, dopo avere compiuto negli ultimi anni un lavoro assiduo e fortunato per attrarre la Turchia nella orbita della Triplice, vedeva ora prossimo a scoppiare un conflitto fra la Turchia ed una delle antiche alleate. L'amicizia turco-tedesca era stata opera di un diplomatico tedesco di grande valore, il barone Marshall, e il governo tedesco contando su di lui per trovare una soluzione pacifica della questione, noi ci trovammo in comunicazione più col Marshall a Costantinopoli che con  il  Cancelliere  a  Berlino.

Il giorno 26 settembre il Marshall arrivò a Costantinopoli di ritorno da Berlino, dove certo aveva avuti affiatamenti ed istruzioni; ed in alcune conversazioni col nostro reggente l'ambasciata, Comm. De Martino, fece del suo meglio per traversarci, sia pure amichevolmente, la strada. Al suo arrivo il Gran Visir l'aveva subito chiamato, invocando i buoni uffici della Germania, e nello stesso tempo facendo ricadere su questa la responsabilità delle cose, e sostenendo che la questione tripolina non era altro che una conseguenza dell'azione tedesca nel Marocco. Il Marshall, secondo che egli riferì al De Martino, aveva energicamente negato, respingendo la responsabilità sui Giovani Turchi, che non avevano mai seguito i suoi consigli di non scontentare l'Italia in Tripolitania. Ad ogni modo il Gran Visir insisteva per l'intromissione di buoni uffici della Germania, dichiarandosi disposto a fare tutte le concessioni che l'Italia chiederebbe, per evitare la caduta dei Giovani Turchi. Il Marshall aveva risposto che avrebbe riferito a Berlino.

Quale fosse la risposta che da Berlino ricevette non sapemmo; ma in un'altra e decisiva conversazione col De Martino apparve chiaro che egli aveva promesso al Gran Visir di fare un tentativo per una intesa sul terreno economico; e si sforzò assai di persuaderlo. Egli sosteneva che la nostra occupazione della Tripolitania avrebbe fatto scoppiare una immediata rivoluzione in Turchia, con la caduta dei Giovani Turchi e conseguenti disordini contro le colonie europee; che ciò avrebbe reso necessario l'invio di navi e sbarchi da parte dell'Italia e di altre Potenze, con la conseguenza ultima che si sarebbe aperta la questione d'Oriente. Il nostro rappresentante, in base ad altre informazioni raccolte, dichiarò esagerate quelle preoccupazioni, e i fatti gli dettero poi ragione; mentre il Marshall viceversa si dichiarava convinto che gli Stati balcanici non si sarebbero mai mossi, ed in questo invece ebbe poi torto.

Il Marshall insistè assai nelle sue vedute, dandoci assicurazioni sulle concessioni economiche; e poiché il De Martino gli rispondeva che la fiducia dell'Italia era ormai esaurita e che del resto la questione si era spostata, e che si trattava ormai dell'equilibrio del Mediterraneo, egli concludeva, sempre insistendo che noi ci assumevamo una responsabilità assai grave.

Ed anche alla vigilia del giorno in cui si iniziarono le ostilità, il ministro degli esteri tedesco Kiderlen Wàchter chiamò il nostro ambasciatore, il Pansa, e cercò di indurlo a persuadere il governo italiano a non dichiarare la guerra alla Turchia, mettendo anch'egli avanti il pericolo di perturbazioni balcaniche e dello sfacelo dell'Impero Ottomano.Questi tentativi di arrestarci sulla via dell'azione, mi confermarono nel mio proposito di evitare che fra l'evidente nostra intenzione di agire e l'azione stessa ci fosse un intervallo che lasciasse tempo all'intervento di consigli da qualunque parte. La situazione della Germania, ripeto, era assai delicata, per gli impegni, sia pure generici, di protezione presi verso i Giovani Turchi, e si comprende e non c'è da fare obbiezione al suo tentativo di guadagnarsi un gran merito presso di loro risolvendo amichevolmente la questione della Libia II Marshall aveva tentata la sua mediazione il 27 settembre, il giorno dopo la presentazione del nostro ultimatum; tre giorni dopo venne la risposta insoddisfacente della Turchia
e la nostra dichiarazione di guerra; e dopo il fatto compiuto il governo tedesco si condusse sempre lealmente con noi.

Una forte parte della stampa tedesca, come pure di quella austriaca, condusse invece una violenta campagna di denigrazione contro l'Italia, per quasi l'intera durata della guerra; ed io ebbi ragione di credere che quella campagna rappresentava un tentativo di certi interessi che avrebbero voluto sostituire nella Triplice la Turchia all'Italia. Tali vedute non erano affatte condivise dal Governo di Berlino, il quale anzi insistette presso di noi per una  rinnovazione  anticipata  dell'Alleanza.

A quel segreto, che consideravo necessario per la preparazione della nostra azione, e che fu benissimo mantenuto sino all'ultimo, concorse anche la stagione estiva, che allontanando da Roma gli ambasciatori delle Potenze, evitava le indiscrezioni ed anche quei contatti nei quali non è sempre possibile non tradire il proprio pensiero. Io poi m'ero inteso con San Giuliano perchè, col pretesto delle vacanze egli si tenesse a Fiuggi o a Vallombrosa, mentre io stavo a Cavour ed a Bardonecchia, per mostrare che nulla d'insolito era sul tappeto. Ricordo che i giornali più infervorati per la questione libica mi rimproveravano acerbamente questa mia lontananza dalla capitale, e la mancanza di contatti col Ministro degli Esteri e con gli altri membri del Governo in un momento, simile; ma le ingiurie che mi rivolgevano mi facevano un gran piacere, perchè dimostravano che il mio stratagemma riusciva perfettamente, concorrendo anche a dissipare i sospetti presso il governo turco, che fu poi infatti colto quasi di sorpresa dal nostro ultimatum.

La preparazione militare fu essa pure condotta segretamente e rapidamente. L'eventualità che l'Italia potesse avere bisogno di compiere un'azione d'oltremare era stata considerata nelle nostre disposizioni militari; e tutti i particolari  per la rapida  formazione di un corpo di sbarco erano stati studiati e fissati già da tempo.

Si trattava quindi di calcolare gli effettivi necessari per una data operazione e di mettere in moto il meccanismo prestabilito. Nel mese di agosto io avevo pertanto chiamato a me il nostro Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, e gli avevo dato incarico di studiare il problema della occupazione della Libia e di fare il calcolo delle truppe necessarie per effettuarla; e gli raccomandai di calcolare con larghezza. Le truppe regolari di presidio nei punti capitali della Tripolitania e della Cirenaica non erano che tre o quattro mila; ma bisognava tenere conto della popolazione araba, di carattere assai bellicoso; e specie di quelle tribù nomadi dell'interno, abituate all'aspra vita del deserto e che vivevano costantemente in armi ed erano suscettibili agli eccitamenti fanatici a cui i turchi sarebbero indubbiamente ricorsi.

Nella Cirenaica poi vi era una vera organizzazione militare, che faceva capo al Senusso di Kufra e di Giarabub; e se i senussiti non erano sempre in buone relazioni con i turchi, non c'era su questo da fare fidanza, non essendo difficile, come provarono poi gli avvenimenti, che potessero essere rivolti contro di noi.

Era poi mio intendimento, per ragioni di ordine generale, che la nostra azione fosse fatta con forze talmente preponderanti, da togliere sino dal principio ogni dubbio sull'esito; pensando che in tal modo sia le popolazioni locali, sia la Turchia si rassegnerebbero più facilmente al fatto inevitabile. Pertanto, quando il generale Pollio mi portò il risultato dei suoi studi, in base ai quali egli riteneva sufficiente una spedizione di circa ventiduemila uomini, io gli dissi di raddoppiarla, portandola a circa quarantamila. In realtà poi, a certo momento, il nostro corpo di spedizione, durante la guerra, superò gli ottantamila uomini. Il primo corpo di spedizione fu dunque costituito da un corpo d'armata e due divisioni e truppe suppletive e servizi di intendenza in grande abbondanza. Nel formarlo si tenne conto della convenienza di non turbare un'eventuale contemporanea mobilitazione generale dell'esercito. I reparti che lo componevano — cioè reggimenti, squadroni, batterie, ecc. — erano unità organiche di pace opportunamente rafforzate; le truppe erano composte di uomini della classe 1890, che avevano compiuta l'intera istruzione, più quelli della classe del 1888, appositamente richiamata. Vi furono uomini della classe del 1889, che si trovavano ormai alla fine del servizio, i quali chiesero di fare parte volontariamente della spedizione. Si erano pure provvisti abbondantemente mezzi che consentissero di portarsi a due o tre giornate di marcia dalla costa, e di spingere, occorrendo, qualche piccola colonna ad alcune tappe verso l'interno.

Queste forze furono divise in due scaglioni; il primo, destinato ad entrare immediatamente in azione, comprendeva una divisione di fanteria, due squadroni di cavalleria, nove batterie da campagna, ed aveva per forze suppletive due reggimenti di bersaglieri, tre batterie da montagna, due compagnie di artiglieria da fortezza ed i vari servizi. Complessivamente comprendeva 22 500 uomini, seimila cavalli, settantadue pezzi d'artiglieria ed ottocento carri. Il secondo scaglione riproduceva, in proporzioni alquanto ridotte, il primo; contava 13 200 uomini e trenta pezzi di artiglieria. Il totale del corpo di spedizione fu di trentaseimila uomini circa. I reggimenti di fanteria e i bersaglieri erano dotati di mitragliatrici da montagna, ed il corpo aveva a sua disposizione mezzi aeronautici, fra cui quattro aeroplani; e credo che tali mezzi militari fossero usati allora per la prima volta. A base generale del corpo di spedizione fu scelto Napoli; e basi secondarie furono poi costituite nei luoghi di sbarco.

Il primo scaglione, quando imbarcato, costituì un convoglio di trentadue piroscafi, ventitré dei quali caricarono a Napoli, e nove a Palermo. C'erano poi navi sussidiarie; due trasporti per feriti, due navi ospedali; altre pei rifugiati, altre pel rimorchio. Pel secondo scaglione si usarono dodici piroscafi, ed una parte delle sue truppe fu imbarcata a Catania. Abbondantemente si provvide pei viveri, per le munizioni, pei materiali del genio, fra cui pontili per lo sbarco, indispensabili in una costa la quale, tranne a Tripoli, non disponeva quasi di porti; e si creò un corpo speciale pel servizio dell'acqua con numerosi drappelli di zappatori e tutto il necessario perchè in quel paese aridissimo i soldati non dovessero soffrire  di una  tale  mancanza.

Quando poi il corpo di spedizione si mosse, noi, dopo una rapida concentrazione a Taranto e a Siracusa mettemmo in azione l'intera nostra flotta per assicurarne assolutamente l'incolumità e prevenire qualunque incidente. A questo proposito è opportuno ribattere una critica errata che si fece allora alla nostra azione navale da parte di certi spiriti bellicosi a vuoto. Si sapeva, e noi eravamo stati informati in proposito con precisione dal nostro console, che allo scoppiare della guerra la flotta turca si trovava a Beirut, in Siria, da dove però si mosse immediatamente. Alcuni avrebbero voluto che la flotta nostra l'avesse ricercata per colarla a fondo; cosa che sarebbe stata assai agevole, tanto la flotta nemica, composta di due vecchie corazzate, di due incrociatori e di alcune torpediniere, era inferiore alla nostra. Ma io consideravo una tale impresa inutile e rischiosa nello stesso tempo. Entrando in guerra noi avevamo dichiarato chiaramente alle Potenze interessate nell'Impero Ottomano, che il nostro unico proposito era l'occupazione della Libia, e che, a parte ciò, non desideravamo fare alcun danno alla Turchia, ed intendevamo evitare qualunque azione che potesse condurre a complicazioni.

Se noi avessimo aperta la campagna andando a cercare e ad affondare la flotta turca nell'Egeo, lontano dal nostro obbiettivo dichiarato, ci saremmo esposti all'accusa di mancare sin dal principio, se non ai nostri impegni, certo alle nostre dichiarazioni, e ciò avrebbe suscitato indubbiamente dei malumori ed avrebbe potuto dare a qualche Potenza il pretesto di complicazioni che era nostro primissimo interesse di evitare in quel momento, essendo impegnati altrove. In secondo luogo una tale impresa avrebbe potuto essere rischiosa; non per la minaccia di quella flotta turca, ma per qualche eventuale incidente indiretto. Ricordo che da Beirut si ricevette avviso telegrafico che la flotta turca uscendo da quel porto si dirigeva verso sud-ovest, la qual cosa faceva supporre che volgesse verso la Cirenaica; si seppe poi che, mutata la sua rotta, si era diretta ai Dardanelli. Rintracciare quella flotta nel suo viaggio da Beirut ai Dardanelli, entro i meandri costituiti dalle isole del Mare Egeo, a giudizio degli intendenti non era cosa facile; e mentre le nostre forze navali fossero impegnate in quella caccia, avrebbe potuto avvenire che il nemico, il quale possedeva dei velocissimi cacciatorpediniere di recente acquisto, alcuni dei quali si credeva fossero annidati a Prevesa, quindi non  lontano  dalle  vie  del  nostro  corpo  di  spedizione, tentasse un colpo di mano e riuscisse a colpire qualcuno dei nostri trasporti o ad affondarlo.

Pure prescindendo dall'effetto che un tale incidente avrebbe avuto sul pubblico italiano, che metteva allora di nuovo alla prova i suoi nervi sedici anni dopo il disastro della guerra abissina; un tale scacco, che sarebbe apparso anche più grave in considerazione della enorme differenza fra le forze navali nostre e quelle del nemico, nell'inizio stesso della nostra azione sarebbe stato deplorevole. Noi eravamo stati costretti, per ragioni imprescindibili, a turbare la pace europea; e molti occhi non benevoli erano fissi su di noi; in tali condizioni dovevamo evitare qualunque incidente che potesse dare ragione di accusarci di leggerezza e d'incompetenza. Le azioni energiche, come quella in cui ci eravamo impegnati, anche se spiacciono per gli interessi che turbano, finiscono per imporre il rispetto quando siano ben condotte; cosa di cui avemmo appunto un esempio anche in quell'occasione, nel linguaggio della stampa forestiera, la quale, dopo averci per qualche giorno accusati ed anche ingiuriati, finì per cambiare presto tono, quando vide che andavamo diritti per la nostra strada e che saremmo arrivati alla meta.

Intanto, già nella prima metà di settembre, la situazione in Tripolitania si andava aggravando, per il crescente sospetto di una nostra non lontana azione. A Tripoli gli agitatori del Comitato «Unione e Progresso»   compievano una duplice azione; per una parte si sforzavano di eccitare le popolazioni e attrarre nella loro orbita i capi delle tribù e dei villaggi, ed a questo scopo vi tenevano frequenti riunioni; e quantunque l'elemento migliore del paese, che aveva già con gli italiani relazioni commerciali, si mostrasse più moderato, si riusciva a determinare una corrente a noi ostile specie nella bassa popolazione. Per l'altra parte questi agitatori si tenevano in continua comunicazione col governo turco e col Comitato centrale di Costantinopoli, al quale trasmettevano resoconti dei comizi assicurando la ferma volontà della popolazione di rimanere nell'Impero Ottomano, pronta e decisa per questo scopo a qualunque sacrifizio, e si domandava che Tripoli venisse fortificata e si inviassero armi e munizioni.

Si compilavano pure statistiche delle popolazioni arabe dell'interno, in base alle quali si calcolava che vi fossero nel paese circa centomila uomini atti a portare le armi ed a partecipare ad una energica difesa contro qualunque attacco. Il governo e il Comitato di Costantinopoli rispondevano incoraggiando tali preparativi, promettendo di fare avere almeno centomila fucili e cannoni, e di inviare una commissione, presieduta da Nasin pascià, ex-valì di Bagdad, per intraprendere immediatamente l'opera di fortificazione della città e del porto e degli altri punti più importanti della costa.

Noi dovemmo allora preoccuparci di due cose: e cioè della sicurezza della numerosa colonia italiana di  Tripoli,   come   pure  degli   altri   europei   che   vi risiedevano; e d'impedire il minacciato invio di armi
e munizioni. Non era ancora il caso di fare manifestazioni tali che potessero fare precipitare le cose;
per tanto io autorizzai la marina a dislocare alcune navi da guerra a Siracusa, pronte a partire
per Tripoli al primo cenno. Che la Porta potesse
fare tutto quello che da Tripoli si chiedeva per la
sua difesa era da escludersi; ma che qualche cosa
avrebbe pure fatto era egualmente certo. Ed infatti verso la metà di settembre il nostro addetto
militare a Costantinopoli;ci informò che si stava caricando il piroscafo «Derna» con circa diecimila
fucili ed abbondanti munizioni, qualche cannone, e
viveri e vestiari. Quel piroscafo infatti partì poi
per Tripoli, e noi demmo ordine di intercettarlo,
cosa che avevamo ormai diritto di fare perchè il
suo arrivo coincise col nostro ultirrùaium; ma sfortunatamente esso riuscì a sfuggire alla nostra vigilanza.

Anche la situazione diplomatica ci consigliava ad affrettare. Era ormai evidente che la questione del Marocco andava ad una soluzione pacifica, ed infatti l'accordo preliminare fra la Francia e la Germania fu firmato il 23 settembre. D'altra parte c'era sempre da temere di qualche resipiscenza da parte di qualche Potenza che pure fino allora aveva riconosciuto le nostre buone ragioni; fra l'altro ci fu riferito da Vienna che lAerenthal, parlando con alcuni diplomatici esteri, si era mostrato spiacente di quanto avveniva in Italia al riguardo della questione di Tripoli, perchè, a suo avviso, il momento per sollevare tale questione non era opportuno. Io decisi allora di agire.

Dovevo anzitutto parlare col Re ed ottenere la sua autorizzazione per la chiamata di qualche classe sotto le armi e per un'azione immediata. Io ero a Cavour ed il Re si trovava a Racconigi; e per evitare le illazioni che si sarebbero tratte da quella visita, la quale non sarebbe sfuggita all'attenzione dei giornali se io passavo per Torino, chiesi che da Casa reale mi fosse mandato a Cavour un'automobile. Esposi al Re la situazione ed ebbi il consenso alla nostra azione ed a tutti gli  atti relativi.

M'ero incontrato col Re il 17 settembre; il giorno 18, di ritorno a Cavour telegrafai a San Giuliano, a Spingardi e a Leonardi Cattolica di affrettare i preparativi, insistendo perchè si procedesse con la massima segretezza e a mezzo di persone di sicura fiducia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, riteneva indispensabile richiamare sotto le armi la classe del 1888, allora in congedo, per la necessaria elasticità nella composizione del corpo di spedizione, e perchè i reggimenti che non partivano non rimanessero stremati di forze; ed io provvidi alla emanazione del decreto occorrente. Più tardi autorizzai l'invio immediato di navi a Tripoli per la sicurezza della nostra colonia e per impedire che si ripetesse l'episodio del «Derna», essendo da aspettarsi che, la nostra intenzione essendo ormai patente, la Turchia tentasse di farvi arrivare nuove armi e soldati.

Il 24 io arrivavo a Roma, ed il 26 veniva, in seguito a deliberazione del Consiglio dei Ministri, spedito il nostro ultimatum alla Turchia. Quel documento fu compilato in modo da non aprire strada a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga discussione, che dovevamo ad ogni costo evitare; e fu a questo scopo ponderato in ogni sua parola. Esso osservava che per un lungo periodo d'anni il Governo italiano non aveva mai cessato dal fare constatare a quello turco la necessità che lo stato di disordine e d'abbandono in cui erano lasciate, la Tripolitania e la Cirenaica avesse fine, e che quelle regioni fossero poste in grado di profittare degli stessi progressi conseguiti dalle altre parti dell'Africa mediterranea. Codesta trasformazione, che s'imponeva per le esigenze generali della civiltà, costituiva per l'Italia un interesse vitale, per la breve distanza che separava quei paesi dalle sue coste. Ma non ostante che il Governo italiano avesse sempre cordialmente dato il suo appoggio al governo ottomano in diverse questioni politiche degli ultimi tempi; non ostante la moderazione e la pazienza, di cui esso aveva dato finora prova, non solamente il Governo ottomano non aveva tenuto conto di tali sue vedute, ma, peggio ancora, aveva mantenuto contro qualunque nostra intrapresa economica in quelle regioni una opposizione sistematica ed ingiustificata.

Ora la Turchia, con un passo compiuto all'ultimo momento, aveva proposto all'Italia di venire ad un accordo, dichiarandosi disposta a qualunque concessione economica compatibile coi trattati in vigore, e con la dignità e gli interessi suoi superiori. Ma il Governo italiano non si credeva più in condizione di iniziare negoziati dimostrati vani dall'esperienza del passato, e che lungi dal costituire una garanzia pel futuro, non farebbero altro che moltiplicare le occasioni di irritazioni e conflitti.

Il documento continuava osservando che le informazioni dei nostri agenti consolari in quei paesi dipingevano la situazione che vi regnava contro i sudditi italiani, e che era stata apertamente provocata da ufficiali e da altri organi dell'autorità governativa. Questa agitazione costituiva un pericolo imminente non solo per i sudditi italiani, ma anche per quelli di altre nazioni i quali, giustamente allarmati avevano cominciato ad imbarcarsi ed abbandonare il paese. L'arrivo a Tripoli di trasporti militari ottomani, alle conseguenze del cui invio il Governo italiano non aveva mancato di richiamare l'attenzione della Porta, non poteva che aggravare la situazione, ed imponeva all'Italia di provvedere immediatamente ai pericoli che ne risultavano.

L'ultimatum continuava poi annunciando che il Governo italiano, vedendosi ormai forzato a tutelare la propria dignità e gli interessi del paese, aveva deciso di occupare militarmente la Tripolitania e la Cirenaica, non avendo la scelta di altra azione; e dichiarava di aspettarsi che il Governo ottomano desse gli ordini necessari perchè tale occupazione non incontrasse resistenza da parte dei suoi rappresentanti in quei territori. Accordi ulteriori fra i due governi potrebbero poi essere presi per regolare la situazione definitiva che risulterebbe dall'occupazione militare. E concludeva chiedendo una risposta entro ventiquattro ore, in mancanza della quale il Governo italiano procederebbe ad attuare immediatamente le misure destinate ad assicurare l'occupazione.

La risposta della Turchia al nostro ultimatum fu, come era da aspettarsi, evasiva e dilatoria. Essa rigettava la responsabilità delle cattive condizioni in cui si trovavano la Trjpolitania e la Cirenaica sul precedente regime; sosteneva, contro verità, che il governo turco era sempre venuto incontro agli interessi italiani e che le autorità locali li avevano protetti; e rinnovando le offerte di concessioni, chiedeva che noi indicassimo le garanzie che ritenevamo necessarie, promettendo di non modificare nel frattempo la situazione di quei territori, specie nell'aspetto militare.

La risposta del Governo ottomano ci arrivò il 29 settembre, e il giorno stesso noi facemmo presentare dal nostro incaricato d'affari la dichiarazione di guerra.


XII.

La guerra nella Libia, nell'Egeo e nel Mar Rosso.


Rapida azione militare iniziale e seguito di guerriglia — Complicazioni internazionali — Proteste dell'Austria per l'Adriatico — Proposta di una azione conciliativa delle Potenze; diffidenze ed intrighi — Il Decreto della sovranità sulla Libia — Iniziativa di pace del Sa-zonofF; sue fasi e suo fallimento — L'incidente del Manouba e del Carthage — La guerra navale nell' Egeo: proteste e chìcanes austriache — Diuturno dibattito sull'art. VII della Triplice per l'occupazione delle isole — L'attacco ai Dardanelli e la loro chiusura — Iniziativa a noi sfavorevole dell' Inghilterra, e nostra rivendicazione del diritto di belligeranti — Il partito militare austriaco in cerca di pretesti per agire — L'espulsione degli italiani dalla Turchia — Ripresa di operazioni in   Tripolitania e Cirenaica —  La  piccola, guerra  nel Mar  Rosso.

La nostra azione militare per l'occupazione dei territori in questione, si svolse con precisione e rapidità, quale era stata preordinata.

Il giorno 1.° ottobre la nostra flotta stabiliva il blocco di Tripoli; il giorno 4 ne bombardava le fortificazioni, distruggendole; e subito dopo forze navali, sotto la condotta dell'Ammiraglio Cagni, compivano un audace sbarco ed occupavano la città, che le truppe turche avevano abbandonata, ritirandosi al confine dell'oasi circostante. L'Ammiraglio Borea Ricci, nominato governatore della città, indirizzava un proclama  agli  arabi, che in  maggioranza facevano dichiarazioni di fedeltà ed amicizia e consegnavano le armi.

Il giorno 10, dopo che il Re l'ebbe passato in rivista, partiva da Napoli il primo corpo di spedizione, e il giorno 11 compiva felicemente il suo sbarco; ed allargava l'occupazione, strappando al nemico, con un violento combattimento, i pozzi della Bumeliana, necessari pel rifornimento dell'acqua.

Il giorno 22 si ebbe una azione pure violentissima, in cui si combinò un attacco dei turchi con un complotto di arabi della città e dell'oasi, che attaccarono alcune nostre trincee alle spalle, fatto che condusse ad una energica repressione. E le azioni continuarono a svolgersi quasi giornalmente, finché il 6 novembre, con una manovra bene preparata, il generale Caneva riuscì a scacciare i turco-arabi da Ainzara, donde minacciavano e tormentavano continuamente la città, e a stendere intorno ad essa un largo anello di difesa.

Tanto politicamente che militarmente le cose si svolsero secondo le nostre previsioni, e come avviene quasi sempre nelle guerre coloniali. I rapporti dei nostri consoli, fra i quali ricordo il Galli, buon giudice e conoscitore di quelle popolazioni, non avevano in proposito mai creato illusioni. Fra gli arabi e i turchi non c'era stato mai buon sangue; ma sarebbe stato arrischiato calcolare su una defezione generale o quasi, la quale soltanto avrebbe messo le scarse truppe turche in una posizione assai grave e forse costrette alla resa. Le cose andarono metà a metà; gli arabi della città e della costa, che erano a contatto con noi, in buona parte accettarono la nuova situazione; ma quelli dell'interno, sia per la suggestione della propaganda fanatica, sia perchè esposti a immediate rappresaglie, seguirono in buona parte i turchi. I quali così poterono contare subito su un nucleo di forze numericamente abbastanza rispettabile e bellicoso, se pure deficiente di mezzi e di organizzazione. Ne derivò una situazione comune a quasi tutte le guerre coloniali; che il nemico non poteva pensare di attaccarci nei punti capitali da noi occupati, e viceversa noi per colpirlo, avremmo dovuto preparare ed intraprendere un'azione di guerriglia, particolarmente faticosa e pericolosa in quel paese privo di risorse.

Insieme a quella di Tripoli si svolse l'azione su gli altri punti capitali della lunghissima costa. Il giorno 4 la nostra flotta occupò Tobruk, per ordine mio, perchè mi premeva di assicurarmi quella importante baia sino dal principio, e non dare ragioni o pretesti, che la guerra poteva facilmente fornire, data la vicinanza della frontiera non ben definita, per una occupazione egiziana. Volevamo pure evitare che, con la sua comoda baia, Tobruk potesse essere usata per contrabbando d'armi e d'armati nella Cirenaica. Il giorno 13 fu bombardata e occupata Derna; il 18 Horas; il giorno 20 si ebbe lo sbarco, condotto con grande audacia e fortuna, a Bengasi; dove, come a Derna, la popolazione locale si sottomise.

Tali avvenimenti militari rappresentavano la guerra quale si svolgeva agli occhi del pubblico. Ma accanto a questa noi dovemmo fronteggiare una successione di incidenti e complicazioni diplomatiche, che ci erano ragione di continue preoccupazioni, e dei quali il pubblico non ha conosciuti che i più clamorosi, o  avuto solo notizie frammentarie.

La guerra in cui ci trovavamo involti, era infatti una guerra sui generis, che paragonerei al ballo delle uova. Il territorio dell'Impero nemico, in ogni sua parte, si trovava circondato da una fitta rete di interessi ed ipotecato da aspettative e da cupidigie che per intanto gli servivano di protezione. Vi erano gli interessi generali di potenze europee contrastanti fra loro; gli interessi russi contro gli austriaci; quelli inglesi contro i germanici; vi erano le ambizioni e le rivendicazioni dei vari Stati balcanici; e appetiti e pretese e diritti economici e politici di ogni specie. Ricordo che le nostre operazioni nel Mar Rosso suscitarono perfino proteste e comizi dei mussulmani dell'India, con l'accusa che impedissero il pellegrinaggio ai luoghi santi. L'accusa era falsa e le proteste erano state indubbiamente provocate dalla Turchia, che cercava di suscitarci difficoltà da ogni parte. Poi vi era la preoccupazione generale della pace europea. Ora di tutti questi interessi e preoccupazioni noi dovevamo tenere conto, sia per cordialità verso le Potenze amiche e rispetto dei loro interessi, sia anche per interesse nostro; ma pure cercando di dare ogni possibile soddisfazione nei  casi  particolari,  noi  mantenemmo  sempre  intatta la nostra generale libertà d'azione e i relativi diritti. Devo aggiungere che ogni volta che la discussione fu portata da noi su questi punti fondamentali, il nostro diritto fu immediatamente e senza riserva riconosciuto.

Notificando alle Potenze la nostra dichiarazione di guerra alla Turchia, noi l'avevamo accompagnata con assicurazioni della nostra intenzione di rispettare al più possibile i loro interessi, e di evitare qualunque azione che potesse avere ripercussioni sulla compagine generale dell'Impero Ottomano. E così avevamo subito ed energicamente rifiutato di aiutare agitazioni o sollevazioni in Albania, ed avevamo pregato il Re del Montenegro di astenersi da qualunque azione che potesse turbare la situazione balcanica, ciò che egli ci aveva promesso. Ritenevamo sopratutto opportuno di evitare incidenti nell'Adriatico, sapendo che a Vienna c'era un partito che avrebbe cercato di trarne profitto. Se non che sulla costa adriatica turca, specie a Prevesa, si trovavano alcune velocissime cacciatorpediniere, e noi avendo notizie di preparativi che vi si stavano facendo per attaccare le navi del nostro corpo di spedizione e compiere raids contro le nostre città aperte, dovemmo informare le Potenze della assoluta necessità in cui ci trovavamo di compiere, contro il nostro desiderio, alcune operazioni navali nelle acque europee. Queste operazioni furono affidate al Duca degli Abruzzi, il quale efficacemente sventò tentativi di incursioni delle navi  nemiche.

Un  suo dipendente, il capitano Biscaretti, avendo percorsa la costa turca e albanese, visitò alcuni piroscafi austriaci che gli erano parsi sospetti, e dovette rispondere al fuoco diretto contro le sue navi da un punto presso San Giovanni di Medua. L'Austria protestò, subito e vivacemente. Aerenthal il 1.° ottobre disse al nostro ambasciatore D'Avarna che tali operazioni erano in flagrante contrasto con le nostre promesse di localizzare la guerra nel Mediterraneo; che non si poteva ammettere che le operazioni nell'Adriatico e nel Mar Jonio continuassero; che bisognava vi fosse posto termine, altrimenti potrebbero venirne serie conseguenze, ed egli sarebbe costretto a tenerci un diverso linguaggio. Gli rispondemmo che intendevamo mantenere gli impegni presi, che corrispondevano anche al nostro interesse; ma che vi sono esigenze militari imprescindibili, come era il caso delle operazioni militari intese a liberare i nostri mari dalla minaccia costituita per noi dalla base navale turca di Prevesa.

Ad ogni modo, siccome non volevo fare il gioco dell'Austria, che poteva mirare all'occupazione di Durazzo, inviai ordini perentori al Duca degli Abruzzi perchè le forze del suo comando si limitassero a vigilare il mare, astenendosi da sbarchi e bombardamenti terrestri. Il 3 ottobre l'Aerenthal c'informava che il governo turco era disposto ad entrare in negoziati anche dopo lo scoppio delle ostilità; e noi cogliemmo l'occasione di tale dichiarazione per avanzare la proposta di un primo passo, che consisteva nel neutralizzare per intanto, agli scopi della guerra, l'Adriatico, e forse, con l'assenso dell'Inghilterra, il Mar Rosso, riservandoci per tutto il resto del mare e del territorio nemico quella piena ed intera libertà d'azione militare che era nei nostri diritti, e che credevamo necessaria anche nell'interesse generale, per porre fine alla resistenza della Turchia ed abbreviare la guerra.

II Governo ottomano intanto aveva messo in moto
tutte le sue ambasciate, facendo pervenire alle capitali di tutte le grandi Potenze una nota intesa a promuovere un loro intervento amichevole in favore
della pace. Il primo a comunicare con noi a questo
proposito fu ancora il governo di Vienna, a mezzo
del suo ambasciatore, lasciando intendere, in forma
abbastanza moderata, che la soluzione della situazione
si sarebbe potuta ottenere conservando una sovranità
nominale del Sultano. San Giuliano, dopo avere conferito meco, gli rispose che nella nostra opinione
la nota turca era uno dei soliti artifizi della Porta,
da non prendersi sul serio, e che noi non potevamo
contentarci di mezzi termini, il nostro scopo essendo
di risolvere la questione della Libia in modo da togliere di mezzo una causa continua di attrito fra noi
e la Turchia, e di complicazioni internazionali. Se
si fosse mantenuta la sovranità, sia pure solamente
nominale, del Sultano, tale scopo sarebbe fallito; né
d'altra parte l'opinione pubblica italiana avrebbe
consentito ad una soluzione che non comprendesse
lo stabilimento della nostra sovranità in quelle regioni.

Il Ministro degli Esteri francese, De Selves,
che aveva prima accennato ad una possibile mediazione francese, informò poi il nostro ambasciatore Tittoni dell'avviamento ad una mediazione generale delle Potenze; con l'intesa però che essa dovesse avere luogo solo come e quando l'Italia lo giudicasse opportuno. Il De Selves rinnovava la sua assicurazione che nella questione di Libia la Francia si proponeva per unico scopo di fare cosa gradita all'Italia, aggiungendo di voler tentare di procedere d'accordo con la Germania, cercando di portare le Potenze a fare tutte insieme un passo a Costantinopoli per l'annessione pura e semplice, dando così anche al governo turco il pretesto di dover cedere di fronte alla volontà unita dell'Europa.

Questo atteggiamento del De Selves ci dette occasione di fare sentire a Vienna ed a Berlino, per mezzo dei nostri ambasciatori, che noi non potevamo supporre che i nostri alleati tenessero verso noi un contegno meno amichevole, e si mostrassero meno persuasi delle nostre buone ragioni. E qualche giorno più tardi, per rispondere ad amichevoli richieste in proposito che ci venivano da Berlino, il San Giuliano comunicò al Governo germanico uno schizzo generale delle condizioni in base alle quali l'Italia era disposta a fare la pace; nel quale schizzo, mentre si manteneva assolutamente fermo il nostro proposito di non transigere sulla questione della sovranità, si facevano generose concessioni alla Turchia nel riguardo di vecchie vertenze ancora sospese; si prendeva l'impegno di accollarci quella parte del debito ottomano che potesse attribuirsi alla Libia; si proponeva di regolare la questione religiosa con rispetto alla qualità di Califfo del Sultano, in modo però che non nuocesse al nostro prestigio presso gli arabi, e non apparisse come una forma larvata di sovranità politica anche nominale, tale da dare appiglio ad attriti e conflitti fra Italia e Turchia, e ad intrighi turchi nelle due Provincie che dovevano rimanere definitivamente staccate dall'Impero Ottomano; ed infine si proponeva di fare precedere il trattato di pace da uni decreto unilaterale d'annessione da parte nostra; di modo che nel trattato la Turchia non dovesse fare cessioni, ma semplicemente regolare le conseguenze di fatti compiuti.

È interessante rilevare che le condizioni del trattato che fu poi quasi un anno dopo firmato fra noi e la Turchia a Losanna, corrispondevano notevolmente a quelle nostre prime proposte. Il lavorio diplomatico fra le varie capitali continuava sempre assai intenso; ed il 25 ottobre l'Aehrenthal ci comunicava di avere ottenuto dai gabinetti di Londra e di Pietroburgo una risposta favorevole ad una sua proposta perchè le Potenze procedessero ad uno scambio di idee per addivenire ad una soluzione della questione di Libia; i due gabinetti di Londra e Pietroburgo mostravano di accogliere con simpatia la sua iniziativa, ma aggiungendo di non credere che qualche cosa di preciso si potesse per allora fare. Questa comunicazione appariva alquanto ambigua, ma a chiarirla venne una conversazione che il sottosegretario degli Esteri tedesco, Zimmermann, ebbe col nostro incaricato di affari. Zimmermann gli aveva dichiarato che le proposte di Aerenthal erano state bene accette agli altri gabinetti; ma che però predominava in tutti l'idea che un passo collettivo fosse per ora inutile, se non addirittura dannoso, se noi non accettavamo l'alta sovranità del Sultano su l'intera Libia, o almeno non ci contentavamo di avere in assoluta nostra sovranità la sola Tripolitania.

In quella conversazione lo Zimmermann si mostrava pure diffidente assai circa il contegno dell'Inghilterra. Egli osservava che ormai tutte le speranze della Turchia erano rivolte verso di essa, e che egli, per sintomi e indizi di vario genere che gli giungevano da diverse parti, aveva il presentimento che l'Inghilterra, per riprendere il perduto ascendente a Costantinopoli, sarebbe stata perfettamente capace di farsi avanti per imporci di accettare l'alta sovranità del Sultano, ottenendo la pace a tale condizione. Molti erano secondo lo Zimmermann gli interessi inglesi, in Egitto ed anche in India, dove essa contava sui mussulmani come sul suo più sicuro appoggio, che potevano spingerla ad un tale atto; e se ciò avvenisse, all'Italia non sarebbe rimasto altro che cedere; ed egli aggiungeva che in tale caso la Germania, per quanto spiacente, nulla avrebbe potuto fare per aiutarci.

Il nostro ambasciatore a Londra fu subito incaricato di accertare cosa potesse esserci di vero in tali insinuazioni; ed egli ebbe un colloquio con Sir Edward Grey, al quale fece presente che noi non avremmo mai accettata altra soluzione come base di trattative di pace, che non fosse quella della piena nostra sovranità, e che qualunque potenza che pensasse a spingerci ad accettarne una diversa, perderebbe inevitabilmente l'amicizia del popolo italiano. Il Grey rispose con grande precisione; dichiarando che alle pressioni fatte dall'Ambasciata turca egli aveva sempre risposto che qualunque tentativo di mediazione, che non avesse per base la nostra assoluta sovranità, riuscirebbe vano. L'insinuazione dello Zimmermann era così pienamente smentita; ma essa più che un tentativo d'intrigo a nostro danno, rappresentava lo stato di diffidenza che, riguardo le cose di Costantinopoli, dominava fra l'Inghilterra e la Germania; la quale ultima, non potendo fare nulla contro di noi a favore dei turchi, era preoccupata di perdere la situazione di prevalenza guadagnata in Turchia a mezzo della politica del Marshall, e temeva che l'Inghilterra pensasse di profittare delle difficoltà in cui essa si trovava.

Da una conversazione che il Tittoni aveva avuto a Parigi con l'Iswolsky risultava che la sospettosa diffidenza tedesca verso l'Inghilterra aveva la sua contropartita nella diffidenza della Russia verso l'Austria; e che a Pietroburgo si considerava che la proposta di Aerenthal per un passo a Costantinopoli era stata fatta in termini ambìgui e generici, e tale da compromettere la Potenza la quale, uscendo da quei termini, si fosse mostrata troppo favorevole all'Italia. Il Marshall poi,avendo condotto avanti a Costantinopoli un suo lavoro preparatorio per venire alla pace sulla base del riconoscimento della sovranità nominale del Sultano, quando, informato del nostro deciso proposito di annessione, dovette rinunciarvi, aveva ammonito il proprio governo che alla Germania non conveniva di assumere l'iniziativa in favore del riconoscimento della sovranità italiana, perchè ciò facendo si sarebbe esposta al pericolo che altri ne profittasse a pregiudizio della sua posizione nell'Impero Ottomano. Da una nuova conversazione che il nostro ambasciatore a Berlino ebbe con lo Zimmermann apprendemmo poi che i sospetti tedeschi si erano spostati dall'Inghilterra contro la Russia, temendosi che essa profittasse dell'occasione per risolvere a proprio favore la questione degli Stretti.

Ho voluto esporre nei suoi particolari tutto questo incrociarsi di azioni diplomatiche, per fare finalmente conoscere i precedenti che mi decisero ad un atto che, nel momento in cui fu compiuto, apparve a molti, e fu criticato anche in seguito, come prematuro; voglio dire il decreto di annessione della Libia. Un mese solo di guerra aveva mostrato entro quale vasta rete di interessi delle altre Potenze la nostra azione dovesse svolgersi; e pure avendo ogni fiducia nella lealtà con cui la Francia, l'Inghilterra e la Russia avrebbero mantenuto gli impegni contratti verso di noi per la Libia, e che la Germania e l'Austria non sarebbero venute meno ai doveri dell'Alleanza; c'era sempre da temere che sorgessero fra le varie Potenze interessate nell'Impero Ottomano, complicazioni tali da indurle ad esercitare pressioni perchè la guerra si concludesse, insistendo presso di noi nel concetto che noi potessimo accettare per la pace generale, quella nominale sovranità del Sultano, senza la quale il Marshall ammoniva il suo governo che la guerra si sarebbe trascinata assai lungamente.

Ora, pure prescindendo dalla impressione sulla opinione pubblica italiana, il mantenimento della sovranità nominale del Sultano in Tripolitania e in Cirenaica avrebbe avuto molteplici gravi conseguenze. In primo luogo, una tale soluzione avrebbe diminuito di assai la nostra autorità sulle popolazioni arabe, le quali avrebbero continuato a considerare come loro sovrano il Sultano, che aveva già su di esse tanta autorità come capo religioso. Imporre a popolazioni nello stato di cultura in cui erano quelle della Libia, una duplice sovranità; nominale l'una, l'altra effettiva, avrebbe create confusioni tali da ostacolare gravemente qualunque azione di governo. In secondo luogo si presentava la identica questione con la quale l'Austria-Ungheria aveva giustificata l'annessione della Bosnia-Erzegovina; perchè, quando la sovranità del Sultano fosse stata in qualsiasi forma mantenuta, come si sarebbe potuto impedire agli arabi di eleggere il loro rappresentante nel Parlamento di Costantinopoli; e il mantenimento di questa rappresentanza quali effetti avrebbe avuto sull'animo della popolazione? Infine c'era la questione delle capitolazioni, che avrebbero, in un tale regime per cui la Libia rimaneva legata all'Impero Ottomano, continuato a sussistere nel rispetto degli altri paesi, costituendo un'altra fonte di complicazioni, difficoltà ed attriti nel futuro.

L'Italia dunque, accettando una tale soluzione o una qualunque altra soluzione che non fosse veramente completa e decisiva, si sarebbe trovata in una posizione diffìcile, con tutte le passività dell'impresa compiuta, e nessun vantaggio. Bisognava anche ora, come nel periodo della preparazione, evitare il pericolo di dovere ascoltare consigli di amici e di interessati; ed anche questa volta il modo di tagliare corto a questo pericolo era di mettere le Potenze davanti al fatto compiuto. E questo fine conseguii col decreto reale del 4 novembre che proclamava la sovranità assoluta dell'Italia sulla Libia. La sua accoglienza fu quale l'avevo preveduta. Ci furono dei brontolamenti, specie da parte di Vienna, contro quell'atto, ma nessuna protesta.

Il decreto fu poi presentato al Parlamento appena si adunò in febbraio. Al Senato fu votato ad unanimità; alla Camera ebbe l'approvazione di tutti, eccetto i socialisti, i quali lo criticarono con la ragione che esso avrebbe resa più difficile la conclusione della pace; critica che si spiega, perchè era naturale che chi non aveva voluto l'impresa non s'interessasse al suo buon successo. Del resto, chi non è al governo in queste contingenze, non conoscendo i djetroscena non vede la ragione degli atti compiuti; e viceversa questa ragione il governo non può dirla. È infatti evidente che io non potevo spiegare pubblicamente che avevo proclamata la nostra sovranità sulla Libia per paura di un intervento da parte delle Potenze alleate o amiche.

Che l'atto irrevocabile da noi compiuto, con la proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, fosse giunto opportuno, lo provarono poi gli ulteriori tentativi fatti dalla diplomazia europea per risolvere la guerra; e che, in contrasto con quelli precedenti, furono basati sull'accettazione del fatto compiuto. A nessuno infatti poteva ormai passare per la mente che si potesse ottenere dall'Italia la rinunzia al decreto con cui la sua sovranità era stata proclamata.

L'iniziativa della nuova campagna di pace, che si prolungò per parecchi mesi, fu presa questa volta, e con sentimento di grande amicizia verso di noi, dal Ministro degli Esteri russo, Sazonoff. Il 2 gennaio l'Ambasciata di Russia a Roma comunicava ai San Giuliano una idea che il Sazonoff aveva già fatta conoscere ai rappresentanti delle grandi Potenze a Pietroburgo, e che si riassumeva presso a poco nei termini seguenti:— Le grandi Potenze, riconoscendo che l'affrettare la pace fra l'Italia e la Turchia era un interesse europeo, dovrebbero fare a Costantinopoli un passo collettivo per convincere la Turchia che la perdita della Libia era inevitabile, e per indurla ad accettare un armistizio; durante il quale la Turchia ritirerebbe dalla Libia le sue truppe, mentre l'Italia studierebbe la misura di un compenso pecuniario con cui in certo modo indennizzarla. L'Italia non avrebbe domandato il riconoscimento immediato della sua sovranità da parte della Turchia, lasciando alle circostanze di regolare il corso degli eventi; ma le grandi Potenze, per garantire i diritti dell'Italia, s'impegnerebbero a riconoscere la sua sovranità sulle due provincie occupate. Alla Francia sarebbe stato dato l'incarico di parlare a Costantinopoli a nome di tutti. —

Sir Edward Grey, interrogato in proposito dal nostro ambasciatore si mostrò incerto ed esitante. Le disposizioni delle altre Potenze gli parevano poco incoraggianti; l'atteggiamento della Turchia gli pareva negativo, nel qual caso una insistenza troppo viva da parte delle Potenze gli pareva avrebbe assunto il carattere di una pressione non in armonia cogli obblighi della neutralità.

In Francia, secondo informazioni del Tittoni, un tale passo non pareva ancora giustificato dalla situazione da noi conquistata. Il Sazonoff persistette tuttavia nella sua iniziativa, cercando specialmente di intendersi con l'Inghilterra. Sir Edward Grey, ripugnandogli sempre l'idea di parere di violare la neutralità, proponeva che si facesse un passo contemporaneo a Roma e a Costantinopoli; ma poi, riconoscendo egli che in tal modo si sarebbero date false impressioni al governo turco ed incoraggiata la sua resistenza, fu deciso di fare prima un passo a Roma per essere informati delle condizioni che l'Italia sarebbe disposta ad accordare, poi un passo a Costantinopoli per consigliarne l'accettazione. Il passo a Roma fu compiuto dagli ambasciatori, ognuno per suo conto, il 9 marzo. Il 15 marzo noi consegnammo agli ambasciatori la nostra risposta scritta nella quale erano elencate e spiegate le condizioni alle quali eravamo disposti a concludere la pace; e che corrisposero poi in grande parte esse pure a quelle con cui la pace fu conclusa; ciò che dimostra come il Governo italiano si fosse fino dal principio fatte idee chiare e precise sul modo con cui la questione doveva essere risolta, mantenendo fermamente i punti fondamentali, e mostrandosi conciliante per tutte le condizioni secondarie.

Passò ancora un mese prima che le Potenze si accordassero pienamente sul passo da compiere a Costantinopoli, sulla base della nostra risposta. Il passo ebbe luogo il 16 aprile; la risposta della Turchia fu ritardata ancora sino al 24 aprile nell'attesa che fossero finite le elezioni, e risultò interamente negativa, in quanto la Turchia, pure dichiarando di accettare senz'altro, per deferenza alle Potenze, la loro proposta di mediazione, aggiungeva di dover avvertire, ad evitare malintesi, che non le sarebbe possibile di entrare in negoziati se non sulla base del mantenimento effettivo ed integrale dei diritti del Sultano, e della rinunzia dell'Italia all'annessione delle due provincie e del ritiro delle sue truppe.

In  tal modo  l'iniziativa,  perseguita dal  Sazonoff con grande energia, e che aveva raccolto l'adesione
di tutte le Potenze, falliva completamente. E merita rilevare che solo due mesi dopo la Turchia entrava in negoziati diretti con noi, essendo chiaramente avvertita che la nostra piena ed effettiva sovranità sulle due provincie doveva essere fuori di discussione.

Dopo la nostra occupazione delle città e degli altri punti più importanti della costa, e dopo l'azione, egregiamente condotta, con cui il generale Canova aveva cacciati i turchi-arabi da Ainzara e spazzata l'oasi circostante a Tripoli, non si erano più avuti né in Tripolitania né in Cirenaica fatti d'armi di carattere risolutivo. Il nemico era assolutamente incapace di attaccarci nei punti che noi avevamo occupati e fortificati, ed ogni suo tentativo di attacco finiva sempre per essere fiaccato con sue gravi perdite; ma d'altra parte per noi era pure assai difficile e alle volte anche pericoloso cercare d'inseguirlo nel deserto, dove le nostre truppe avanzandosi si esponevano a sofferenze ed a rischi, per le difficoltà del terreno, la penuria d'acqua e la mancanza di qualunque risorsa, e dove le sue squadre leggere riuscivano a dileguarsi davanti a ogni nostra mossa. L'opinione pubblica che non si rendeva abbastanza conto di tali condizioni, e del fatto che la guerra era ormai degenerata in guerriglia, si mostrava impaziente. A questa impazienza io non partecipavo; però mi rendevo conto della convenienza che l'azione militare procedesse più spedita, allo scopo di dimostrare sempre più ai turchi ed agli arabi la futilità di qualunque resistenza, e per evitare il pericolo, che mi era sempre presente e che doveva essere tenuto d'occhio, di possibili ripercussioni internazionali.

Un incidente assai spiacevole in questo senso si era prodotto alla metà di gennaio. Una nostra nave da guerra, l'Agordat, che batteva il Mediterraneo occidentale per vigilare contro il contrabbando con cui i turco-arabi venivano riforniti di armi e di munizioni, il giorno 15 gennaio aveva fermato una nave postale francese, il Carthage, e tre giorni dopo una seconda nave, il Manouba, sulla quale si trovava una missione della Mezzaluna rossa turca, avviata al campo nemico in Libia, e l'obbligava a sbarcare in Sardegna. Si trattava, dopo tutto, di un piccolo incidente che in mie posteriori conversazioni con l'ambasciatore francese io qualificai come una causa da pretura; e quando, il mattino dopo avvenuto il fatto, venne da me, nell'assenza del Barrère, il primo segretario dell'ambasciata francese, signor Legrand, io gli dissi che a me l'incidente pareva una delle questioni caratteristiche, da deferirsi per la sua soluzione al Tribunale internazionale dell'Aja, essendo quel tribunale particolarmente atto ad impedire che una piccola questione potesse ingrossarsi e farsi pericolosa. Il signor Legrand mi chiese se poteva telegrafare al suo governo che io proponevo tale deferimento; ed io gli risposi affermativamente, pregandolo anzi di telegrafare subito. Ciò egli fece, ed all'una dopo mezzogiorno giungeva a Roma un telegramma dell'agenzia Havas che riferiva quella proposta del Governo Italiano.

Alle tre pomeridiane il Poincaré, allora Presidente del Consiglio francese, parlò alla Camera, pronunziando un discorso alquanto aspro e quasi minaccioso, nel quale della nostra proposta non era fatto cenno. Io non so se per caso egli non ne fosse stato informato; ma il suo discorso, che rispondeva un po' alla irritazione nazionalista, provocò naturalmente una reazione nella stampa italiana, e parve per un poco che la cordialità dei rapporti fra i due paesi, che avevano assai beneficiato del contegno decisamente amichevole tenuto dalla opinione pubblica e dal governo francese per l'impresa di Libia, ne fosse oscurata. Ricordo che lo stesso Clemenceau criticò l'atteggiamento assunto in quel discorso dal Poincaré, con un gioco di parole, dicendo: — Il pouvait ètre moins carré. — Ma poi le cose si appianarono, e lo stesso Poincaré cercò di dissipare l'impressione di quel discorso, conducendosi molto amichevolmente per l'Italia nelle ulteriori vicende diplomatiche connesse con la nostra impresa; e si finì per deferire, secondo la mia proposta, la questione al Tribunale dell'Aja, davanti al quale fu per noi patrocinata dall'on. Fusinato, e che fu conclusa con una sentenza conciliante, colla quale l'Italia ne usciva bene. Incidenti come codesto mostravano però che noi dovevamo preoccuparci, oltre che della guerra locale, anche della situazione generale.

Nelle mie comunicazioni col Caneva, io mettevo bene in chiaro che non intendevo affatto di impartirgli ordini, e di dirigere dal mio gabinetto le operazioni militari, per le quali gli lasciavo con tutte le responsabilità l'intera liberta di giudizio, limitandomi semplicemente a richiamare la sua attenzione sul lato generale della guerra. Il Caneva mandò a Roma il Giardino, allora tenente colonnello, per spiegarmi le ragioni della lentezza con cui la guerra procedeva. Poi più tardi, il 7 ed 8 febbraio, venne egli personalmente, ed ebbi con lui due lunghe conversazioni. L'impressione che ne riportai fu per un rispetto ottima, come di uomo capace, intelligente, ed ordinato, che non procedeva se non rendendosi pienamente conto delle cose; ma mi parve anche che mancasse alquanto di iniziativa, e che non si rendesse conto abbastanza delle ragioni di politica estera che consigliavano una azione più rapida, per evitare complicazioni che potevano nascere ad ogni momento in una guerra che turbava tanti altri interessi. Il Caneva invece considerava quasi esclusivamente la situazione militare locale.

Nelle conversazioni egli mi spiegò con grande chiarezza tale situazione militare e la difficoltà di azioni risolutive, tanto che io fui persuaso che molte delle critiche che si rivolgevano alla sua opera non erano giustificate: egli alla sua volta si persuase delle ragioni di politica internazionale che consigliavano di abbreviare al possibile la durata della guerra. Fu convenuto di accrescere i mezzi militari, specie in vista di azioni rapide di colonne volanti, che poi furono usate in una seconda fase della campagna. Io  desideravo  insomma  di conseguire  la maggiore somma di risultati compatibile con una condotta prudente, che non esponesse a scacchi, perchè avevo sempre presente l'eventualità di un intervento amichevole da parte delle Potenze per la risoluzione della questione e la discussione della pace; e perchè sapevo che quando si entra in tale discussione si discute sempre in base ai risultati già ottenuti.

La guerra nel frattempo, e precisamente fra il marzo e il giugno, entrò in una nuova fase, alla campagna di terra aggiungendosi una campagna navale, nel Mare Egeo. Varie furono le ragioni che ci obbligarono a questo nuovo passo. Anzitutto avevamo constatato che dalla Turchia partivano continuamente ufficiali, armi e munizioni, e materiale d'ogni genere, che a mezzo di un vasto contrabbando esercitato traverso l'Egeo, erano sbarcate e fatto arrivare agli arabi, specie nella Cirenaica; fra l'altro, in tal modo vi era giunto Enver Bey, che vi aveva assunto il comando delle operazioni contro di noi. Nei mesi d'inverno l'inclemenza della stagione e la difficoltà degli sbarchi su quelle coste avevano aiutata la vigilanza delle nostre navi di crociera; ma con la stagione primaverile il contrabbando accennava ad intensificarsi assai, e noi sapevamo di più vasti preparativi a tale scopo. Il Ministro della Marina, Leonardi Cattolica, mi fece allora presente le difficoltà della situazione, osservandomi che la nostra vigilanza avrebbe potuto riuscire assai più efficace se, invece che lungo la estesissima costa Ubica, avesse potuto esercitarsi agli sbocchi orientali del Mare Egeo; il
che però avrebbe reso necessaria l'occupazione di qualche punto d'appoggio nelle isole di quel mare, per dare modo alle nostre squadre di crociera di rifornirsi senza dovere percorrere la lunga strada che le separava dalla nostra base navale di Tobruk.

Nello stesso tempo una persona che viveva a Costantinopoli, e che era assai addentro alle cose della marina turca, ci offriva i suoi servizi per aiutarci qualora lo credessimo opportuno, a compiere un colpo di mano contro la flotta turca, che si trovava ancorata e male vigilata alla punta di Nagara. Ora, se nell'inizio della guerra per le ragioni già dichiarate, noi credemmo opportuno di astenerci da un tentativo contro la flotta turca, la situazione mutata doveva consigliarci ad agire diversamente. La condotta della Turchia, che pareva quasi disinteressarsi a che la guerriglia in Libia si protraesse indefinitivamente; come pure l'insuccesso dei passi compiuti dalle Potenze per persuaderla a riconoscere il fatto compiuto e ad accettare l'inevitabile, ci spingeva necessariamente ad entrare in un altro campo di azione, dal quale ci eravamo fino allora astenuti, per riguardo agli interessi delle altre Potenze, senza però rinunciare menomamente ai nostri diritti di belligeranti. Io consideravo insomma che ormai ci si imponeva di avvicinare la guerra a punti in cui la Turchia fosse più vulnerabile, per farle capire che essa pure, ostinandosi a prolungare una guerra la cui sorte era ormai decisa; si esponeva a nuovi e più gravi rischi.

Era però da aspettarsi che tale spostamento della nostra azione militare dalla Libia all'Egeo avrebbe moltiplicate le difficoltà diplomatiche intorno a noi. Già nei primi giorni di febbraio il nostro ambasciatore a Vienna, Duca d'Avarna, ci avvertiva che l'Aerenthal, conversando con un personaggio del corpo diplomatico, aveva lasciato intendere che l'Austria non avrebbe potuto lasciare passare una qualsiasi azione nella Turchia europea, che egli, con arbitraria interpretazione, riteneva contraria agli impegni stabiliti nell'articolo VII del nostro trattato di Alleanza. Viceversa il Ministro degli Esteri russo, Sazonoff, c'incitava quasi a fare qualcosa in questo senso, dichiarando al nostro ambasciatore Melegari che egli sarebbe lieto se noi facessimo qualche cosa che colpisse la Turchia in una parte vitale, e dessimo una buona lezione ai Giovani Turchi onde abbattere la loro ormai insopportabile tracotanza. E l'ambasciatore tedesco a Roma, conversando col De Martino, e pure premettendo di non parlare come ambasciatore, ma di esprimere semplicemente una sua personale opinione, gli diceva che noi dovevamo fare un'azione contro i Dardanelli, ed all'obbiezione dell'opposizione austriaca, rispondeva che da quanto gli aveva detto il suo ministro Kiderlen-Wächter, non risultava che l'Aerenthal fosse veramente opposto ad una tale azione.

L'Aerenthal però nel frattempo era morto; e siccome con lui non si era potuto andare a fondo della cosa, c'era da temere che il suo successore, il conte Berchtold, non volesse rischiare di mostrarsi, davanti all'opinione pubblica e sopratutto all'elemento militare, più arrendevole alI'Aerenthal, che godeva di una autorità molto superiore. Per parte dell'Inghilterra e della Francia nulla ci era stato detto; ma il resoconto stenografico di un discorso di Poincaré lasciava credere che noi avessimo esplicitamente rinunciato a qualunque operazione militare e navale fuori della Libia; e noi ci affrettammo a smentire subito la cosa, che fra l'altro avrebbe avuto l'inconveniente di incoraggiare la Turchia alla resistenza. Ci constava poi che la Turchia, a mezzo dei suoi ambasciatori, si sforzava di correre in precedenza ai ripari, minacciando, nel caso di un nostro attacco ai Dardanelli, non solo di espellere tutti gli italiani dai suoi territori, ma anche di chiudere gli Stretti al commercio internazionale. Era il sistema ormai abituale per cui la Turchia cercava la propria protezione dietro qualche interesse forestiero.

La questione si trascinava così teoricamente negli scambi di vedute diplomatici, quando occorse un episodio che la mise alla prova della realtà. Una nostra squadra di crociera, essendosi presentata, il 24 febbraio, davanti a Beirut, vi trovò due vecchie navi da guerra turche che vi si erano ricoverate. Avendo esse all'intimazione di arrendersi, non solo rifiutato, ma aperto il fuoco contro le navi nostre, queste risposero colandole in breve a picco, senza del resto fare nessuna azione che causasse il menomo danno alla città ed al porto. L'Austria protestò immediatamente, sulla base di informazioni errate che ci accusavano di avere bombardata una città aperta; e il suo ambasciatore a Roma, il Merey, a nome del suo governo, richiamò l'attenzione del San Giuliano sulla responsabilità in cui l'Italia incorrerebbe qualora si rinnovasse il bombardamento di una città, in cui viveva una numerosa colonia austriaca. Barrère fece pure un passo a nome del suo governo, ma in forma assai amichevole; e noi gli facemmo osservare come fosse in quel momento sommamente necessario di evitare qualunque espressione di linguaggio che accennasse a limitazione delle nostre operazioni, con l'effetto di incoraggiare la Turchia nella sua resistenza.

Ma il fatto diplomatico più grave di quel momento, fu il tentativo di una iniziativa inglese per determinare una tale limitazione a mezzo di una azione collettiva delle Potenze. Ne fummo informali contemporaneamente da Vienna e da Pietroburgo. Il 29 febbraio l'ambasciatore inglese a Vienna aveva consegnato al conte Berchtold una memoria così concepita: — «È certo che il commercio internazionale subirebbe gravi perdite nel caso che il Governo ottomano decidesse, come misura di difesa, di chiudere con mine sottomarine i Dardanelli. Sir E. Grey desidera sapere se il Governo austriaco giudicherebbe opportuno che i rappresentanti delle Potenze chiedano al Governo italiano se sarebbe disposto ad assicurare che nessuna operazione sarà intrapresa nei Dardanelli o nelle acque vicine».

Il Berchtold aveva risposto con disposizioni abbastanza cordiali verso di noi, dicendo di aver ragione di credere che il Governo italiano non consentirebbe mai a fare una tale dichiarazione e che egli non prenderebbe parte al passo progettato se non fosse prima sicuro che noi non faremmo alcuna obbiezione; ma incaricava l'ambasciatore Merey di aggiungere che egli era convinto che noi non pensassimo ad ima azione nei Dardanelli o nelle vicinanze, per timore delle ripercussioni che essa potrebbe avere nei Balcani. Più franco e deciso era stato il Sazonoff, il quale, non ostante le insistenze dell'ambasciatore inglese, aveva categoricamente rifiutato di partecipare ad un tale passo, come incompatibile coi doveri della neutralità, ed aveva dichiaralo poi al nostro ambasciatore che egli considerava la proposta inglese addirittura indecente. E l'Inghilterra non insistette più oltre.

Non ostante questi intralci e manovre diplomatiche, noi avevamo deciso di agire, con l'intento sopratutto di colpire la flotta turca, e l'ammiraglio Thaon de Revel aveva avuto l'incarico chi concertare tutto il piano d'azione. La concentrazione della squadra a cui l'esecuzione del piano era affidato aveva già avuto luogo a Bomba; ma poi il progetto fu pel momento abbandonato, non in ubbidienza a intimidazioni diplomatiche, ma perchè, a giudizio della no!-stra marina, esso era diventato inattuabile in seguilo alle precauzioni prese dalla marina turca, la quale, avendo avuto sentore della cosa, aveva sbarrato l'entrata dei Dardanelli e ritirata la flotta nel Mare di Marinara, dove non avrebbe certo potuto essere  raggiunta.

Noi ad ogni modo eravamo ben fermi di mantenere la nostra libertà d'azione ed i nostri diritti di belligeranti: opinando però nello stesso tempo che fosse conveniente di tenere informate le Potenze alleate ed amiche, sia per riguardo ai loro interessi, sia per impedire che qualcuna di esse, e l'Austria particolarmente, potesse prendere pretesto da una nostra azione per procedere ad un'azione propria che riuscisse anche indirettamente a nostro danno. Sapevamo che il partito militare austriaco spingeva a colpi di mano in Albania, che potevano essere consumati magari d'accordo con la Turchia, ed intendevamo di evitare che la nostra condotta desse a tali progetti qualunque pretesto. Avvertimmo pertanto il Berchtold che il contrabbando militare turco ci obbligava a stabilire una crociera allo sbocco dell'Egeo nel Mediterraneo, e che a tale scopo avremmo dovuto occupare provvisoriamente qualche isola, indicando Stampalia, Lemno e qualche altra. Informammo di queste nostre intenzioni anche il Governo di Berlino, che non fece opposizione, anzi si impegnò di agire a mezzo del suo ambasciatore presso Berchtold per persuaderlo a non frapporre ostacoli a nostre eventuali operazioni nell'Egeo e contro i Dardanelli. Anche la Francia non fece difficoltà, anzi il Poincaré consigliò apertamente di occupare qualche isola, come mezzo per impressionare la Turchia ed affrettare la pace.

Ma l'Austria, che si mostrò pure assai piccata che noi le avessimo fatto parlare dalla Germania, teneva duro; e ne seguì una lunga conversazione diplomatica, nella quale il San Giuliano controbattè con grande abilità dialettica le argomentazioni del Berchtold. La discussione verteva specialmente su due punti. Il Berchtold sosteneva, seguendo l'interpretazione già data dall'Aerenthal, che l'articolo VII del Trattato della Triplice, che contemplava i reciproci interessi dell'Austria e dell'Italia nei Balcani, vietasse qualunque occupazione, sia pure temporanea ed a scopo militare, nei territori europei dell'Impero; e fosse anzi contrario ad una qualunque azione militare, quale sarebbe un bombardamento di quelle coste. Sosteneva pure che tutte le isole dell'Egeo dovessero considerarsi come parte della Turchia europea. San Giuliano rispondeva rifiutando assolutamente di accettare l'interpretazione arbitraria ed infondata che l'Aerenthal ed il Berchtold davano all'articolo VII del Trattato, in quanto tale articolo si riferiva a modificazioni permanenti dello statu quo, e non già ad occupazioni temporanee consigliate ed imposte da ragioni militari, e reputava arbitrario l'assunto del Berchtold che le isole del basso Egeo, che sia nel criterio geografico, sia nello stesso criterio amministrativo turco facevano parte dei vilayets dell'Asia, dovessero intendersi contemplate dalle clausole del Trattato che si riferivano esclusivamente ai territori europei dell'Impero.

La conversazione diplomatica, diventò a certi momenti assai serrata; e ad un certo punto noi dichiarammo all'Austria che non ci saremmo lasciati arrestare da pericoli immaginari e da interpretazioni infondate; e che una sua opposizione alla nostra libertà d'azione renderebbe impossibile il mantenimento dell'Alleanza.

Al 12 aprile noi informammo il Berchtold che non potevamo ormai più differire, per ragioni militari e politiche, le nostre operazioni nell'Egeo; ed egli finì per dichiarare che non avrebbe sollevate difficoltà di fronte ad una nostra eventuale occupazione di Rodi, Stampalia, ecc., purché noi ci fossimo impegnati a restituirli a guerra finita. Noi non eravamo alieni di prendere tale impegno, a condizione che fosse mantenuto segreto; anzi consideravamo fosse nel nostro interesse di prenderlo, per evitare che l'Austria, giuocando sulla sua interpretazione dell'articolo VII dell'alleanza, avanzasse la pretesa di compensi o magari si prendesse di colpo un compenso in Albania o nel Sangiaccato, secondo le intenzioni da noi non ignorate del partito militare, col pretesto della nostra occupazione delle isole. Una nostra dichiarazione che quella occupazione era solo temporanea toglieva di mezzo quel pretesto, perchè in tal caso anche il preteso compenso austriaco avrebbe dovuto essere temporaneo. E di tale conseguenza forse si accorse il Berchtold, o chi stava dietro di lui; perchè dopo averci richiesta la formula scritta dell'impegno di restituzione delle isole alla Turchia, all'ultimo finì per rinunciarvi, probabilmente per conservare  maggiore  libertà  d'azione.

Pochi giorni dopo s'iniziava questa nuova fase della guerra.
Una squadra, al comando dell'Ammiraglio Viale, partita da Taranto si concentrava fra i giorni 15 e 16 aprile a Stampalia, già scelta come base di rifornimento, e dove fu raggiunta da un nostro agente forestiero segreto che doveva servire da pilota per qualunque azione nei Dardanelli. Il suo obbiettivo principale era di scortare ai Dardanelli una squadriglia di siluranti, le quali, qualora avessero potuto enti-are di sorpresa, avrebbero tentato di silurare la flotta turca. La squadriglia arrivò, come stabilito, davanti ai Dardanelli la notte del 17, ma le pessime condizioni del mare, e la vigilanza dei riflettori turchi, resero impossibile la sorpresa. Nella mattinata avanzò una squadra di nostre corazzate, con l'intento di attrarre quella nemica, mentre un'altra nostra squadra si teneva nascosta dietro Imbros, pronta a tagliarle la ritirata. Ma le navi turche non si mostrarono. Aprirono invece il fuoco contro le nostre squadre i forti delle due sponde; le nostre artiglierie risposero, cannoneggiando per due ore, poi si ritirarono per adempiere alle loro altre missioni.

La crociera della nostra squadra non aveva affatto avuto lo scopo di un attacco ai Dardanelli, ma semplicemente di sostenere un eventuale attacco di torpediniere contro la flotta turca, e di compiere una dimostrazione che togliesse alla Turchia la illusione che la rincuorava alla resistenza, che la nostra libertà d'azione fosse limitata. Il breve scambio di cannonate coi forti turchi non poteva essere considerato quale un attacco, ed era stato provocato dai forti stessi. Ma la Turchia, la cui sola speranza stava nel provocare complicazioni, colse l'occasione per un atto che danneggiasse gli interessi commerciali delle altre Potenze e ne provocasse l'irritazione e forse qualche provvedimento contro l'Italia; e cioè la chiusura dei Dardanelli alla navigazione commerciale. Quella decisione turca era insostenibile, ed inammissibile la tesi su cui si fondava. Il diritto della Turchia di chiudere gli Stretti, sancito dal Trattato di Londra del 1841 e confermato da quelli del 1856 e del 1871, si limitava esplicitamente alle navi da guerra, non essendo ammissibile di diritto, né il blocco assoluto dei Dardanelli da parte di una flotta nemica, né la loro assoluta chiusura da parte del Governo turco.

E il Sazonoff, con la dirittura che mantenne durante tutte queste vicende, inviò subito alla Porta una energica protesta scritta, chiedendo l'immediata riapertura degli Stretti e minacciando, in caso di rifiuto, di esigere risarcimenti. A rendere la chiusura ingiustificata anche dal punto di vista pratico, stava il fatto che il grosso della nostra squadra si era già allontanata rientrando parte a Taranto e parte a Tobruk. Ma gli interessi commerciali, che esercitandosi nel territorio ottomano, parteggiavano per la Turchia, facevano sentire il loro peso, riuscendo a determinare qualche atto diplomatico. Sir Edward Grey, rispondendo ad una rappresentanza commerciale, aveva dichiaralo che avrebbe telegrafato a Roma e a Costantinopoli, per ottenere che le navi commerciali potessero passare liberamente dall'Egeo al Mar Nero e viceversa. Una tale mossa sarebbe stato un nuovo attacco ai nostri diritti di belligeranti, con conseguente incoraggiamento alla Turchia; e noi facemmo sapere al governo inglese che non avremmo potuto ammettere una qualunque diminuzione di tali nostri diritti, del resto perfettamente compatibili con gli interessi commerciali che esso desiderava proteggere, la Turchia non avendo diritto di chiudere gli Stretti che dopo iniziato un attacco; aggiungendo che a noi pareva che il miglior modo di risolvere la questione fosse di fare passi presso la sola Turchia, appoggiando l'azione della Russia.

Il Berchtold rinnovò le solite lagnanze, qualificando, in una conversazione col nostro ambasciatore, l'attacco ai Dardanelli come un atto di provocazione, che egli non si aspettava, e che stava in contrasto coi nostri amichevoli accordi; che egli non poteva ammettere che noi in avvenire ripetessimo azioni simili a quella ora compiuta; e che se un'operazione simile fosse da noi eseguita, avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Alla fine il punto di vista russo prevalse, e la Turchia, dopo una certa resistenza, si rassegnò a riaprire gli Stretti al commercio, ed a rinunciare a questo ricatto tentato ai danni nostri e degli interessi generali dell'Europa.

Non ostante queste complicazioni diplomatiche noi continuammo  risolutamente nel programma  che ci
eravamo prefisso: ed il 23 aprile una nostra divisione navale, al comando dell'Ammiraglio Presbitero, occupò l'isola di Stampalia, stabilendovi una nostra base navale, e facendo prigioniera la guarnigione turca. II 12 maggio la divisione al comando dell'Ammiraglio Corsi occupava le isole di Scarpanto e Gos e altre otto isole; ed il giorno dopo varie nostre navi occuparono le altre isole del Dodecaneso. L'impresa più importante fu quella di Rodi, dove si trovava una grossa guarnigione turca. Viale ed Ameglio vi erano sbarcati il 3 e 4 maggio, alla Baia di Catilla, senza colpo ferire; la guarnigione turca ritirandosi nell'interno, dove finì per arrendersi il 17 maggio dopo una piccola battaglia combattuta a Psitos.

L'occupazione delle isole non dette luogo ad alcuna osservazione da parte delle Potenze, eccetto l'Austria. Anche per queste operazioni il Berchtold rinnovò le sue lagnanze, perchè le nostre occupazioni non si erano limitate alle isole per le quali egli aveva espresso, sebbene a riluttanza, il suo consenso. Egli affacciò allora la tesi che le occupazioni italiane dessero all'Austria il diritto di chiedere compensi, che essa per ora non desiderava, senza per ciò rinunciare a tale suo diritto. Egli intendeva però che le occupazioni compiute segnassero l'ultimo limite. Il San Giuliano, che in tutta questa controversia, mostrò sempre grande pazienza unita a fermezza, gli rispose che in Italia si considererebbe come amica ed alleata della Turchia, e come non amica e non alleata dell'Italia quella potenza la quale, violando i doveri della neutralità in favore della Turchia ci avesse impedito di servirci di tutti i mezzi in nostro potere per obbligarla a cederci.

Osservava che la astensione da operazioni, politicamente e militarmente necessarie, ma ostacolate dall'Austria, non sarebbe stata possibile alla lunga senza che il vero motivo di tale astensione, cioè l'opposizione dell'Austria, finisse per essere noto, ed anzi il Governo italiano potrebbe trovarsi, ad un dato momento, nella necessità di dichiararlo. E concludeva che vi era contraddizione fra il pretesto dell'Austria di non riconoscere la nostra sovranità in Libia perchè la Turchia era ancora in grado di resistere, e la pretesa di ostacolarci l'uso dei mezzi per obbligarla e desistere dalla resistenza.

Io non ho mai avuta occasione di conoscere il Berchtold- ma il San Giuliano, che poi lo incontrò in un convegno a Pisa, me ne comunicò una impressione assai mediocre, come di persona senza idee proprie ed asservita interamente alla camarilla aulica e militare, alla quale non sarebbe parso vero di profittare della situazione per svolgere i suoi progetti nell'Albania e nel Sangiaccato. Ed infatti la sua condotta diplomatica, di perpetue lagnanze e di mezze minaccie verso di noi, senza che arrivasse mai ad una conclusione; e la monotonia con cui insisteva in interpretazioni  arbitrarie  ed  infondate dei  nostri  impegni, senza mai  tentare di affrontare  le argomentazioni contrarie del San Giuliano, davano l'impressione di un uomo che non aveva né libertà né capacità d'azione, e che invece di ragionare con la propria testa per rendersi conto della realtà delle cose, eseguisse semplicemente una parte che gli era affidata. La stranezza ed ambiguità della sua posizione e dei suoi atteggiamenti, risultò in modo assai curioso nell'ultimo episodio di questa lotta diplomatica, che merita di essere ricordato.

Lo Stato Maggiore della nostra marina credè ad un certo momento conveniente che noi occupassimo Chio e due o tre altre isole minori, per rendere più agevole e meno faticosa la nostra vigilanza. Siccome il Berchtold riteneva che secondo i trattati noi fossimo impegnati di preavvisarlo e consultarci seco per qualunque nostro progetto di occupazione, e ci aveva rimproverata come una violazione dei nostri impegni il non averlo fatto in precedenti occasioni, così noi incaricammo il nostro ambasciatore D'Avarna di informarlo e consultarlo. Il Berchtold mutò allora la sua tesi, dichiarando che tali nostri preavvisi avevano l'effetto di associarlo alla nostra azione, e che egli declinava tale compromissione. Noi agissimo per nostro conto; e se la nostra azione era contraria agli impegni da noi assunti egli si sarebbe ritenuto svincolato pure per parte sua dagli obblighi dell'alleanza e della convenzione segreta dei Balcani del 1909.

Siccome l'occupazione di Chio era conveniente ma non indispensabile, io e San Giuliano decidemmo di prendere, come si dice, la palla al balzo, rinunciando alla occupazione progettata; ma nello stesso tempo avvertimmo il Berchtold che prendevamo nota che, con la nostra rinuncia, egli riconosceva che i reciproci impegni rimanevano pienamente validi. E di questa nostra constatazione demmo pure avviso alla Germania.

La risposta della Turchia alle nostre occupazioni nell'Egeo fu un decreto di espulsione, già da lungo tempo minacciato, dei nostri connazionali da tutti i territori dell'Impero. Quella deliberazione del Governo turco era una rappresaglia abbastanza grave, non essendoci meno di ventimila cittadini italiani a Costantinopoli, e cinquantamila nel resto dell'Impero; ma i suoi effetti sulla guerra erano più che nulli, negativi in quanto che se quel decreto fosse stato integralmente applicato, e i nostri porti fossero stati invasi dai profughi, lo spettacolo delle loro miserie e sofferenze avrebbe irritata sempre più l'opinione pubblica e spinto il Governo italiano a rispondere alla sua volta con nuovi attacchi militari alle parti più vitali dell'Impero.

L'Ambasciata tedesca, che aveva assunto la tutela dei nostri concittadini, non spiegò un'azione protettrice molto vigorosa; il Marshall essendo assai irritato contro l'Italia perchè considerava che la nostra impresa avesse gravemente danneggiata la sua opera politica in Turchia, costrutta col lavoro di un ventennio; ma l'applicazione del decreto fu assai blanda, anche perchè molti dei nostri connazionali erano impiegati in imprese europee che non potevano fare a meno della loro collaborazione.

L'ultima impresa d'una certa importanza della nostra marina nell'Egeo, fu una scorreria nei Dardanelli,, compiuta da una squadra di torpediniere al comando dell'Ammiraglio Millo. Avendo avuta notizia che la flotta turca progettava un colpo di mano contro qualche nostra nave isolata, fu ordinato di intenisificare e spingere più al nord le crociere di vigilanza delle nostre siluranti. Una nostra squadriglia così entrò nei Dardanelli, spingendosi con grande ardimento per una ventina di chilometri, fino quasi a Cianak. Giunta colà fu scoperta, e presa sotto un fuoco incrociato; ma proseguì nella rotta finché, giunta al luogo d'ancoraggio della flotta turca, e constatando che questa era sicuramente difesa da reti di acciaio che rendevano impossibile un attacco, decise di ritirarsi; e la ritirata fu eseguita in perfetto ordine, senza alcun danno, e senza che il nemico osasse un inseguimento, quantunque le nostre siluranti non fossero protette da alcuna nave maggiore. La squadriglia aveva a bordo, per pilota, uno straniero conoscitore degli Stretti, il quale ad un certo punto era stato preso da paura, e voleva che si retrocedesse; ma il Millo, puntandogli la rivoltella alle tempie, l'aveva obbligato a compiere sino al fondo l'opera per cui si era profferta ed era stato ingaggiato.

Questa complicata guerra, fra diplomatica e marittima, condotta nell'Egeo, non aveva affatto distolta ia nostra attenzione dalla Libia; dove alcuni mesi di sosta ci avevano permesso di riordinare i nostri corpi di occupazione, rafforzandoli anche con nuovi importanti contingenti, e con mezzi intesi a renderli atti ad una serie di operazioni e spedizioni, più rapide e lontane, allo scopo di debellare i vari nuclei turco-arabi, riaffermando il nostro dominio e mostrando, alle popolazioni da cui i turchi traevano le loro reclute, la inutilità di una ulteriore resistenza.

Codeste operazioni furono iniziate con una impresa
contro Misurata, che era uno dei centri della resistenza nemica e che serviva particolarmente ai turco-arabi per il contrabbando d'armi e munizioni nella
Tripolitania. Un corpo di spedizione, al comando
del Generale Camerana, scortato dalla divisione dell'Ammiraglio Borea-Ricci, vi effettuò uno sbarco la
sera del 16 giugno, e si impadronì delle principali posizioni dopo un combattimento accanito. L'operazione
ebbe poi il suo compimento l'8 luglio, con l'occupazione della città stessa, che si trovava alcune miglia
all'interno, dopo un altro accanito combattimento.
Il 21 luglio fu iniziata la avanzata del colonnello Fara
verso il Garian, che costituiva il principale punto
d'appoggio del nemico nell'interno; e il 5 agosto il
generale Garioni, operando con due divisioni sbarcate
dal mare, occupava, ad occidente di Tripoli, Zuara;
estendendo poi l'occupazione sino alla frontiera tunisina, anche allo scopo di mettere fine al contrabbando di armi e munizioni che passava abbondantissimo traverso quella frontiera.

Il 31 agosto Caneva
lasciava Tripoli e veniva esonerato dal comando supremo del corpo di spedizione; e i due comandi della
Tripolitania e della Cirenaica venivano resi indipendenti sotto i rispettivi generali Ragni e Bricola; tale provvedimento venendo preso in considerazione del fatto che ormai l'unità del comando non era più necessaria, anzi avrebbe intralciata quella particolare opera di polizia militare, rispondente alla nuova fase della guerra, e che richiedeva libertà e rapidità di iniziativa. Il generale Reisoli effettuò verso la metà di agosto alcune di queste operazioni ad occidente di Derna, provocando un grande attacco da parte del nemico, che fu sconfitto, lasciando oltre un migliaia di morti sul terreno; e pochi giorni dopo si aveva pure una notevole battaglia a mezzogiorno di Tripoli, presso Zanzur.

Queste operazioni nella Libia si svolgevano parallelamente ai negoziati per la pace, già iniziati ufficiosamente ad Ouchy, ed erano intese, fra l'altro, a fare comprendere alla Turchia che, quale si fosse l'esito di quei negoziati, noi eravamo ben fermi nel proposito di andare a fondo in Libia a qualunque costo, fino a che la nostra autorità vi fosse stabilita e riconosciuta. E del resto queste operazioni erano pure necessarie per fiaccare la resistenza locale, che altrimenti avrebbe potuto prolungarsi anche dopo che la Turchia avesse firmata la pace.

Una terza piccola guerra, oltre a quelle di Libia e dell'Egeo, fu combattuta in un teatro più lontano, nel Mar Rosso, parte direttamente a mezzo di una piccola squadra navale nostra, e parte indirettamente a mezzo di uno sceicco arabo, Said Idriss, col quale riuscimmo ad assicurarci una specie di alleanza.

Queste operazioni nel Mar Rosso, che richiedevano un'azione tutta speciale dietro le quinte, furono sempre sotto il controllo del Ministero degli interni, e dirette da me personalmente. L'estensione della guerra nel Mar Rosso apparve necessaria e conveniente sino dal principio, per varie ragioni. Dovevamo anzitutto proteggere le nostre colonie contro qualche colpo di mano che la Turchia vi potesse tentare, se non altro per recarci qualche disturbo; ad evitare la qual cosa sarebbe però bastata la vigilanza dei nostri incrociatori e delle nostre cannoniere di stazione a Massaua. Ma vi era un altro più grave pericolo, connesso con la guerra in Cirenaica, e cioè che traverso il Mar Rosso e il Sudan i turchi facessero passare armi e capi al Senusso, che aveva il suo quartiere generale nelle oasi di Kufra e di Giarabub. Ad impedire questo, la vigilanza delle nostre navi, su una costa cotanto estesa, sarebbe riuscita assolutamente insufficiente; e forze maggiori di quelle di cui disponevamo in quel mare, sarebbero pure occorse per bloccare i porti della costa araba.

Io giudicai che fosse mezzo di maggiore efficacia, a distogliere i turchi da tale tentativi, creare loro delle ostilità nel loro stesso territorio d'Arabia; ciò che appariva anche più agevole in quanto che Said Idriss, una specie di grande feudatario delle popolazioni che si trovano fra la Mecca e lo Yemen, era già in stato di ribellione contro le autorità ottomane, per motivi religiosi; il linguaggio e le idee occidentali adottate dai Giovani Turchi apparendo assolutamente eretiche a quegli ortodossi purissimi dell'islamismo che vivevano nei territori da dove uscì Maometto, e che furono culla della loro religione. Ricordo che nella corrispondenza passata fra noi, cristiani, e l'Idriss, costui ci considerava come strumenti della volontà di Allah, e qualificava i Turchi di «cani infedeli», accusandoli di avere introdotte nuove divinità come il Progresso, la Civiltà, ecc. nella loro religione.

Ad annodare rapporti con Said Idriss, ci aiutò assai il Kedivè di Egitto, che in quel tempo era ostilissimo ai Giovani Turchi, di cui temeva le ambizioni e le pretese; e che mostrò, durante l'intera guerra, grande amicizia per l'Italia, in riconoscenza, egli diceva, della cortesia di Umberto I, il quale aveva accolto con cordiale ospitalità in Italia suo padre, quando era stato privato del trono e bandito dall'Egitto in seguito agli avvenimenti del 1882, alla rivolta di Arabi pascià ed all'occupazione inglese. Suoi agenti, venuti appositamente a Massaua, riuscirono a mettersi in comunicazione, non ostante la vigilanza turca alla costa, con Idriss, il quale accolse con entusiasmo la nostra offerta di aiutare la sua guerriglia contro i Turchi.

Al comando delle nostre forze navali nel Mar Rosso, fu inviato l'allora capitano di vascello Cerina Ferroni, che condusse  le  cose  con  molta  capacità  ed  energia,   insieme al tenente Rubiolo, che vi si trovava già ed aveva grande pratica di quei luoghi. Noi aiutammo Idriss con danaro; poi gli fornimmo circa diecimila fucili e munizioni, e mettemmo anche a sua disposizione tre batterie da campagna, coi loro cannonieri, per dargli modo di attaccare i turchi anche nelle loro fortificazioni, mentre poi le nostre navi bloccavano Hodeida per impedire che rifornimenti di armi e munizioni arrivassero ai campi turchi, e partecipavano pure dal mare ai bombardamenti dei forti lungo la costa. Siccome Idriss mirava ad impadronirsi dei luoghi santi, scacciandone la guarnigione turca, la qual cosa avrebbe recato un grave colpo all'autorità del Sultano quale Kalifa, i turchi si allarmarono assai, e tentarono ogni mezzo per pacificarlo, o per minacciarlo e creargli difficoltà che lo forzassero a rinunciare a quell'impresa. Così pensarono di attaccarlo a tergo, suscitandogli contro l'Iman Jaja, che dominava nello Yemen; e siccome fra lo Yemen e il territorio di Idriss c'erano delle popolazioni mezzo selvaggie, noi alla nostra volta lavorammo a incitarle contro l'Iman Jaja, perchè gli impedissero di attaccare Idriss alle spalle.

A dare una idea dello stato di ignoranza affatto primitiva di queste popolazioni, ricordo un curioso episodio. Fra i nostri ufficiali che si recavano a negoziare coi loro capi, ce ne era uno che aveva un dente d'oro; e la cosa, che evidentemente esse credevano naturale, impressionò talmente queste popolazioni che accorrevano da ogni parte solo per ammirare quel dente.
   
Quella piccola campagna secondaria conseguì tutti gli effetti che ci eravamo proposti, e non fu nemmeno senza qualche ripercussione in Cirenaica, perchè il Said Idriss, col quale eravamo alleati, era imparentato col capo dei Senussi la cui autorità dominava nell'intera Cirenaica. Più efficaci ancora furono le sue ripercussioni, di carattere morale e politico, sull'animo del governo ottomano e del Comitato «Unione e Progresso», il quale già da tempo preoccupato delle tendenze separatiste manifestate dagli arabi, tanto nell'Arabia che nella Siria e nello Yemen, temeva che questa campagna, insieme all'incapacità mostrata dal governo ottomano a difendere gli arabi della Libia, portasse ad una sollevazione generale dei dodici milioni di arabi compresi nell'Impero.

Ed anche questa campagna, non ostante i limiti modesti entro i quali era mantenuta, ci suscitò le solite difficoltà diplomatiche; il governo inglese, a mezzo del Viceré delle Indie avendo ricevute proteste dei mussulmani dell'India, dell'Afganistan e perfino della Cina, non ostante che noi avessimo evitato con ogni cautela di interferire coi pellegrinaggi, guardandoci da qualunque attacco ai punti di sbarco pei luoghi santi della Mecca e di Medina.

XIII.
I negoziati di Losanna e di Caux.

Nuovi passi per la pace e proposte inaccettabili — Nostri rapporti indiretti col governo turco — Conversazioni di Volpi con personaggi turchi — Prima proposta di negoziati e successive complicazioni — La nomina del principe Said Halern a fiduciario turco; di Bertolini, Fusinato e Volpi per l'Italia — La figura e i modi di  Said Halem —Inizio quasi comico — Si manda un verbale a Costantinopoli, ma non arriva risposta — Schemi di compromesso dei nostri delegati, da me non accolti — Faccio fare nuove domande per potere poi cedere su di esse — Crisi a Costantinopoli e ritiro di Said Halem —Un cristiano al Ministero degli esteri turco — Strana condotta dell'ambasciatore tedesco a Costantinopoli — Una proposta del Gran Visir a mezzo della Germania da me respinta — I nuovi fiduciari: Nabi e Feredin Bey — Cinque proposte turche respinte — Convegno di Torino e mio schema per la pace — Ridda di proposte turche di ogni genere — La missione dilatoria  di   Reschid  pascià — Mia minaccia di allargare la guerra ed avvertimento alle Potenze.

Dopo l'insuccesso del passo collettivo fatto dalle Potenze, a Roma per conoscere le condizioni alle quali noi eravamo disposti a trattare la pace, ed a Costantinopoli per comunicare tali condizioni alla Porta perchè le prendesse in considerazione, nulla più era stato fatto diplomaticamente per affrettare la pace; quantunque noi, specie quando le nostre operazioni nell'Egeo suscitavano un qualche malessere internazionale, lasciassimo comprendere e dichiarassimo anche apertamente che se le Potenze temevano complicazioni e desideravano  evitarle, cercassero di persuadere la Turchia a desistere da
una inutile resistenza; essendo noi sempre disposti
a trattare con larghezza quando il principio della
nostra sovranità sulla Libia fosse salvo. Ma i conflitti e le divergenze degli interessi, come pure le
mutue diffidenze, rendevano difficile una intesa diplomatica a questo scopo. Solo quando gli approcci
diretti fra noi e il governo ottomano avevano già
avuto luogo, qualche passo diplomatico fu fatto, però
sempre con molta peritanza e riserbo, a Costantinopoli, in ragione anche della crescente preoccupazione per la situazione che si andava maturando
nei Balcani.    

Così ci giungevano di tratto in tratto notizie di proposte approssimative. Il Marshall, che nel giugno lasciò Costantinopoli per assumere l'Ambasciata di Londra, in una conversazione col nostro ambasciatore a Berlino, il Pansa, dichiarò che la Porta era ormai persuasa che la Tripolitania fosse irremediabilmente perduta, ma che il riconoscerlo apertamente con una cessione, le avrebbe arrecati danni ancora maggiori, sia per la perdita di prestigio nel mondo musulmano, sia per il probabile distacco dello Yemen. Soggiunse che l'area della nostra occupazione in Libia era ancora troppo scarsa, perchè si potesse per allora prendere in considerazione la delegazione dell'autorità del Sultano ad un qualche ente locale col quale noi potessimo poi venire ad accordi. Quando la nostra occupazione si fosse maggiormente estesa, la Turchia forse avrebbe
trattato, a condizione però che noi consentissimo a riservare una parte del territorio dell'interno per quegli arabi che preferissero di ritirarvisi in condizione di intera indipendenza; condizione questa che essa considerava come un debito d'onore.

Un passo di una certa importanza fu fatto a Costantinopoli nella seconda metà di giugno dall'Austria, con intenti molto amichevoli verso di noi, forse per riparare alla condotta poco cordiale seguita per la questione delle nostre operazioni nell'Egeo. L'ambasciatore Pallavicini, per incarico del Berchtold, chiese una udienza al ministro degli Esteri, Assim Bey, per insistere sulla convenienza per la Turchia di porre fine alla guerra, e richiamare la sua attenzione al pericolo di una protratta occupazione delle isole, riguardo alla restituzione delle quali la Turchia si era tenuta fino allora sicura, forse anche per qualche indiscrezione diplomatica. Un primo progetto affacciato nelle conversazioni turche-austriache, fu che la Turchia cedesse la Cirenaica al Kedivè d'Egitto, e la Tripolitania al Bey di Tunisi, che le avrebbero poi alla loro volta cedute all'Italia, con alcune clausole a favore delle autorità spirituali del Sultano. Questo progetto, assai poco pratico, fu subito lasciato cadere. Assim Bey aveva poi avanzata una nuova proposta: — la Turchia avrebbe dichiarate indipendenti le due Provincie sotto il regno di un Bey arabo,- poi le truppe italiane e le truppe turche verrebbero ritirate e si formerebbe una milizia del paese; e l'Italia infine potrebbe concludere col governo locale un accordo che le assicurasse una posizione simile a quella della Francia in Tunisia. Lo stesso ambasciatore austriaco osservò subito ad Assim Bey che tali condizioni non potevano essere accettate.

Un'altra proposta, che ci pervenne a mezzo dell'ambasciatore francese, fu affacciata dal nuovo ministro degli esteri turco, Noradoughian Effendi, il quale osservando che la prima cosa da farsi era di cercare di calmare gli arabi, mentre fino allora non si era pensato che ad eccitarli, proponeva che fosse concesso alla Turchia di inviare in Tripolitania una missione che li rendesse edotti della situazione e della necessità per la Turchia di venire alla pace, e che sentisse da loro a quali condizioni fossero disposti a deporre le armi.

Un'altra proposta fu che noi ci contentassimo della Tripolitania, che ci sarebbe stata ceduta in piena sovranità, purché rinunciassimo alla Cirenaica. Erano tutte proposte vaghe e inaccettabili, ma che avevano però l'effetto di farci conoscere che ormai le ragioni della pace si facevano sentire, contro i propositi di intransigenza assoluta, nello spirito del governo ottomano.

Non ostante lo stato di guerra, qualche rapporto indiretto e di carattere assolutamente privato, era sempre stato mantenuto fra noi e i membri del governo turco, o altri importanti personaggi di quel regime. A mantenere questi rapporti avevano molto contribuito il Comm. Volpi, che aveva una larga rete
di conoscenze e relazioni nell'ambiente turco, e il Commi. Nogara che, quale rappresentante della Commerciale d'Oriente, era rimasto a Costantinopoli, dove godeva di molta considerazione e benevolenza da parte di personaggi importanti. Giovandosi di questa sua speciale condizione, il Comm. Nogara non aveva mancato, quando gli se n'era presentata l'occasione, d'intrattenersi sulla situazione e sulla possibilità di venire alla pace, con qualcuno di questi personaggi; fra l'altro aveva avuta nel principio dell'aprile una lunga   ed  importante  conversazione  con   l'ex-ministro di Giustizia, B. Halagian, che era magna pars del  Comitato   «Unione e  Progresso»,  il quale  alla sua volta esercitava sul governo una influenza decisiva.

Costui, pure ammettendo che la Turchia aveva bisogno della pace, metteva avanti le gravi difficoltà che si frapponevano a raggiungere tale scopo. Egli osservava che il governo turco era riuscito ad organizzare una resistenza militare che avrebbe immobilizzato  il nostro  esercito per un tempo indefinito; per organizzare questa resistenza la Turchia aveva  dovuto   fare   appello   ai  sentimenti  religiosi ed appoggiarsi sul movimento islamitico, ed ora doveva tener conto dello stato di animo così creato, che vietava di  accogliere,  anche indirettamente, la tesi italiana.  Il  pericolo di movimenti nei  Balcani,  secondo l'Halagian, interessava più le Potenze che la Turchia;  così  che  i rischi  che  la Turchia  attualmente correva erano minori proseguendo la guerra che  facendo  la  pace;   perchè  facendo  la  pace la Turchia avrebbe dovuto abbandonare gli arabi che combattevano per essa; ciò che avrebbe provocata una inevitabile reazione con la probabile conseguenza della proclamazione di un Califfato arabo. Bastava un tale pericolo per impedire alla Turchia di trattare la pace sulla base voluta dall'Italia.

Egli riconosceva che il prolungarsi dello stato attuale di cose era pieno di pericoli; per cui i turchi più illuminati desideravano di trovare una onorevole via d'uscita; la quale non avrebbe potuto essere, che o il ritiro del decreto d'annessione da parte dell'Italia, col mantenimento della sovranità religiosa e politica del Sultano in Libia; oppure avvenimenti militari così gravi per la Turchia, o in Libia o altrove, da giustificare l'abbandono della resistenza da parte del governo turco di fronte alla opinione pubblica del paese. E concludeva dichiarando che gli uomini politici turchi più eminenti desideravano di essere forzati dagli avvenimenti a fare la pace; ma gli avvenimenti diplomatici da soli sarebbero stati a ciò insufficienti. È da notare che la nostra azione navale nell'Egeo ebbe inizio poco dopo.

Nel mese di maggio, quando gli avvenimenti dell'Egeo avevano cominciato a preoccupare il governo turco, il Comm. Volpi venne da me e mi disse che egli doveva recarsi a Costantinopoli, dove poteva andare nella sua qualità di console di Serbia, e mi chiese se io credevo utile che egli si informasse degli intendimenti del governo turco. Io gli dissi che credevo ciò molto utile; premendomi molto di sapere quale fosse la condizione di quel governo e la vera opinione dei più influenti ministri turchi.

Il Comm. Volpi partì il 6 giugno per la capitale turca, dove giunse il 10 giugno. Pochi giorni dopo che egli era giunto colà si presentò a me un italiano di origine, ma di nazionalità turca (se ben ricordo era l'ingegnere Dinari) il quale mi disse che veniva a nome di Talaat Bey per sapere se potevano i ministri turchi parlare seriamente col Comm. Volpi. Risposi che sebbene non avesse mandato dal governo, potevano iniziarsi con lui utili conversazioni. Il Volpi ebbe subito un abboccamento col Ministro della Guerra, Machmoud Chefchet Pascià, persona molto autorevole ed onesta; col Ministro degli Esteri Assim Bey, diplomatico colto e intelligente; con un membro autorevole del Comitato, Hussein Djaid Bey, e con Halagian Effendi, deputato di Costantinopoli e vice presidente della Camera. La impressione complessiva che egli ritrasse da quelle conversazioni, fu che tanto gli uomini al governo che quelli del Comitato, preoccupati sopratutto dalle nostre operazioni nell'Egeo e dall'occupazione delle isole, fossero persuasi della opportunità di trovare una via di uscita.

Il Ministro della Guerra gli dichiarò che se fosse stato possibile di trovare una formula onorevole per la Turchia, per finire la guerra, egli era disposto personalmente ad imporla, anche a scapito della propria popolarità, ma che egli non sapeva escogitarne alcuna. Il Ministro degli Esteri, Assim Bey, si dichiarò convinto della gravità del momento per la Turchia, e del pericolo della perdita delle isole indipendentemente anche dalla volontà dell'Italia. Si mostrò fautore di una intesa rapida e diretta, escludendo una Conferenza internazionale, che gli pareva impossibile, e che anche se attuata avrebbe avuto il  solito  effetto  di provocare nuove  complicazioni, e  concluse  impegnandosi  a studiare  una  formula, basata su una preventiva dichiarazione di autonomia o di indipendenza delle due Provincie della Libia, che avrebbe potuto essere il preludio della fine del conflitto. Ebbe poi luogo una riunione del Comitato, con  la partecipazione dei più  importanti ministri, nella quale fu tracciato un progetto, che il vicepresidente della Camera, Halagian Effendi, espose il giorno dopo al .Volpi. La Turchia riconosceva che le due Provincie africane erano per essa perdute, ma constatava che l'Italia non le  aveva  ancora effettivamente occupate. 

In tali condizioni là Turchia era disposta a recedere dalle dichiarazioni d'intransigenza fatte fino allora; ma anche l'Italia avrebbe dovuto ritornare sostanzialmente sulle sue decisioni. Il governo e il Comitato consideravano la possibilità di dichiarare autonome le due Provincie, facendone uno o due Stati retti da speciali patti internazionali, e nei quali ogni attività economica, agricola ed industriale fosse riservata, all'Italia. La milizia avrebbe dovuto  essere  locale,  inquadrata forse da ufficiali misti, italiani e turchi, creando così una specie di condominio   effettivo.   Si   poteva  concedere  che  le truppe italiane mantenessero i punti occupati.

Il Ministro degli Esteri, in una nuova conversazione confermava questi punti, aggiungendo che dal canto suo riteneva possibile di arrivare anche al riconoscimento della sovranità piena ed assoluta dell'Italia su Tripoli, il suo porto e il suo dietroterra immediato; così il governo italiano avrebbe potuto mostrare che si applicava il Decreto di sovranità ed ottenere una grande base navale. Tale proposta era pure autorizzata da Talaat Bey pel Comitato, e dal Presidente della Camera pel Parlamento. E prima che il Volpi ripartisse il 16 giugno per l'Italia, fu pure informato che era stata ad ogni modo decisa la nomina di una Commissione turca, composta di membri influenti del Comitato e graditi al governo, allo scopo di prendere contatto meco, o con altri italiani autorizzati, in forma privata, per trovare la base per la cessazione del conflitto e per un accordo.

Il Comm. Volpi, secondo le istruzioni che gli avevo dato, si mantenne assai riserbato riguardo a queste proposte, limitandosi ad opporre ad esse il punto di vista italiano e le sue ragioni; e seppe disimpegnare con molto tatto ed abilità la sua missione, evitando la benché menoma compromissione e mantenendo integri i nostri punti fondamentali. Il fatto solo che, ciò non ostante, egli fosse stato ricevuto e intrattenuto in lunghi colloqui con personaggi fra i più importanti del regime, e che questi avanzassero proposte, sia pure non accettabili, ma già lontane dalla intransigenza assoluta fino allora dimostrata; insieme alla proposta di nominare rappresentanti  per  iniziare  conversazioni,   sia  pure  private, allo scopo di trovare una via di uscita dalla situazione,   era  già un notevole risultato,  in  quanto  ci mostrava che il desiderio di pace cominciava a maturare  nello   spirito   dei  nostri  nemici.  

E  per chi conosceva la mentalità orientale, era ben da aspettarsi che essi non rinunciassero ancora all'illusione che,-col procrastinare e col ricorrere a formule ambigue, potessero ancora salvare ciò che era già irremediabilmcnte  perduto.   Io  consideravo   poi   specialmente importante il fatto  che il governo turco avesse riconosciuto la convenienza di negoziati per una intesa diretta, con l'esclusione di qualunque intervento e mediazione, che non avrebbero avuto altro effetto che di complicare il già difficile problema.

Dopo la partenza del Volpi da Costantinopoli, l'incarico di mantenere i rapporti e continuare le conversazioni con la Porta per accordarsi su un convegno ufficioso, rimase al Comm.  Nogara. I turchi proposero da prima che a sede del convegno fosse scelta Vienna, ma io mi opposi subito osservando che a Vienna non sarebbe mancato al governo austriaco il modo di sapere tutto  ciò che accadeva, mentre era comune intenzione che le cose procedessero segretamente sino a che si fosse raggiunto l'accordo sui punti capitali.  Proposi la Svizzera, ed allora i turchi indicarono Lucerna, ma poi condiscesero per Losanna, che a me pareva più conveniente perchè più appartata. Sorsero però, fra il 16 e la fine del giugno nuove difficoltà.

Il Comitato avendo adottato il principio della intesa diretta, si era decisa già
la nomina della Commissione e scelti gli uomini;
e il Gran Visir e il Ministro degli Esteri avevano
data la loro incondizionata approvazione, indicando
come base dell'intesa, la proclamazione dell'autonomia, in forma tale che fossero salvi tanto il prestigio italiano che quello musulmano. Anche uomini
politici estranei al governo, come Hilmi pascià e
Kiamil pascià avevano espresso il loro consenso ad
una tale soluzione. Ma ad un certo momento si ebbe
l'intervento dell'elemento musulmano più intransigente, delle cui vedute si fece espositore nel Consiglio
dei Ministri Talaat Bey, il quale dichiarò che il
Comitato avrebbe perduto ogni appoggio del partito
religioso se si fosse fatto promotore di una intesa
diretta con l'Italia. Pare che si studiasse allora il
modo a che la Commissione dei negoziatori non dovesse essere o apparire l'emanazione diretta né del
Comitato né del governo, e che in genere l'elemento
musulmano non figurasse come promotore.

Queste
incertezze erano anche l'effetto delle complicazioni
albanesi e della crisi latente del gabinetto, che infatti
si dimise qualche settimana dopo, e dettero luogo
a nuovi progetti, fra cui quello di cedere a noi la
sola costa e di negoziare poi l'interno in scambio
delle nostre colonie nell'Africa orientale. Noi però
tenemmo fermo al principio di non discutere che
quando la Commissione fosse nominata e sempre
sulla base del nostro decreto di sovranità; ed infine,
al 2 luglio la nomina venne, ed a capo della Missione
turca fu scelto Said Haleni pascià, Presidente del Consiglio di Stato ed ex-presidente del Comitato «Unione e Progresso», arabo di origine. Delle sue qualità e posizione avemmo referenze contradittorie; secondo alcune egli era uomo molto stimato, di grande autorità e superiore ai partiti, e la scelta di lui si spiegava col desiderio che le conversazioni con l'Italia fossero affidate ad un personaggio il quale potesse rimanere e continuarle anche nel caso che il governo che l'aveva mandato cadesse in crisi; secondo altre egli era uomo di scarsa importanza ed era stato mandato avanti dal governo allo scopo di guadagnare tempo senza entrare in compromissioni. Probabilmente il governo turco intendeva di servirsene o nell'uno o nell'altro modo, a seconda delle circostanze.

Per parte nostra nominammo nostri rappresentanti, sempre in veste per allora ufficiosa, l'on. Bertolini, che godeva di grande autorità politica ed era uomo ponderato e fermo; l'on. Fusinato, per la sua cultura e pratica di diritto internazionale, e il commendator Volpi, che aveva mostrato di conoscere a fondo i turchi, ed aveva il merito di avere promosse le  conversazioni.

I Delegati delle due parti arrivarono a Losanna, ove alloggiarono all'Hotel Gibbon, molto appartato, fra il 10 e l'il di luglio; ed il giorno 12 ebbe luogo il primo incontro. Said Halem per l'importanza che dava alla propria posizione ufficiale di Presidente del Consiglio di Stato, pretese che i nostri si procurassero una presentazione ufficiale, il che fu fatto a mezzo del ministro nostro a Berna, Cucchi Boassi, che per mio ordine si recò espressamente a Losanna. Di quel primo incontro mi dette una relazione caratteristica il Fusinato, a mezzo di una lettera che. riproduco:

«Sua Altezza Said Halem pascià — egli mi scriveva il 15 luglio — è un omino sui 55; con i capelli corti e quasi del tutto bianchi, e i baffetti più scuri; ciò che dovrebbe essere un indizio di avere egli lavorato più con la testa che con la bocca.... In complesso una fisionomia simpatica, che ricorda quella di V. E. Orlando, ridotta; tratti e maniere cortesissime e perfette, di signore di razza; si esprime ottimamente in francese e fuma delle eccellenti sigarette, fabbricate espressamente per lui dalla regìa ottomana. Come ben sai, è un grosso personaggio. Ha titolo di Altezza per la sua parentela col Kedivè di Egitto; è senatore, Presidente del Consiglio di Stato, e come tale membro di diritto del Consiglio dei Ministri. Fu del vecchio regime; ma è passato subito e volontieri al nuovo, e gode la fiducia dei Giovani Turchi. Si disse anzi, confidenzialmente, che la sostituzione di lui alla terna prima fissata, sia stata fatta in considerazione della attuale crisi ottomana: conveniva scegliere una persona che essendo, in certo modo, fuori e sopra i partiti, potesse venire riconosciuta e accettata anche nella eventualità di una mutazione di gabinetto. Io per altro ho in mente che la sua scelta sia stata determinata piuttosto dal fatto che egli stava già per venire qui, sul lago, dove ha in affìtto, ad Evian, di faccia a Losanna, una bellissima villa. Perchè, fra l'altro, il nostro amico-nemico, è pieno di quattrini.

«Ad ogni modo, tutto ciò poco importa. Indubbiamente egli è qui in rappresentanza diretta del Governo turco. Il contatto è preso, in condizioni e forme eccellenti. Qualunque sia per essere lo svolgimento delle conversazioni, importa io credo, che il contatto non si perda più.

«Ma se Sua Altezza rappresenta indubbiamente il Governo ottomano, malauguratamente, a tutt'oggi, ne rappresenta troppo poco le idee. Mi spiego meglio: ormai ho la persuasione assoluta che egli è venuto qui privo di istruzioni ufficiali. Ha parlato con Carasso, il deputato di Costantinopoli; sa all'ingrosso che cosa pensano i ministri al cui consiglio assistette; ma vere istruzioni, non ne ha....

«Il nostro contatto si iniziò così. Fissato l'appuntamento, a mezzo di Nogara, siamo saliti senza farci annunziare. Appena entrati ci siamo dati la mano; abbiamo preso posto, e Sua Altezza aprì la conversazione con queste precise parole: — Il fait chaud aujourd'hut... — dal che capii subito che avevamo da fare con un fine osservatore. Avrei potuto rispondere che a Costantinopoli fa più caldo ancora; ma preferii tacere e consentire. Dopo qualche altra frase dello stesso valore, si arrivò in Africa. E qui viene il buono. Premessa, da una parte e dall'altra, qualche opportuna dichiarazione molto amichevole e fiduciosa, il Pascià disse che «Carasso gli aveva detto che già in massima si era d'accordo per una soluzione sulla base dell'autonomia». In sostanza una autonomia delle due Provincie dichiarata e convenuta dalle due parti, sotto la sovranità nominale del Sultano, con le coste all'Italia. Così l'Italia (ce lo lia ripetuto dieci volte) si assicurerebbe tutti i vantaggi politici che vuol trarre dalla sua intrapresa, e le cose si accomoderebbero nel miglior modo e col minor tempo. Tutti i nostri sforzi per persuadere Said pascià che nessun accordo esisteva o poteva esistere fra i due governi; per fargli precisare i suoi concetti; per fargli comprendere il punto di vista italiano; per indurlo ad una discussione pratica e concreta: — tutti questi nostri tentativi sono riusciti finora, in massima, vani.

Quell'uomo non aveva nel suo bagaglio che una preoccupazione ed una parola: l'autonomia. Era tutto ciò che gli era rimasto del discorso del deputato Carasso. Ad ogni nostra perorazione egli tirava fuori, con una monotonia desolante «l'autonomia». Ai nostri discorsi più stringenti, quando non sapeva che cosa rispondere, aveva sempre una frase risolutiva: — Ma che diventa l'autonomia con queste vostre proposte?

«D'altro canto, se a noi non riusciva di ben comprendere che cosa voleva Said, egli confidenzialmente dichiarava a Nogara che non riusciva a capire che cosa volevamo noi.... Non che egli sia uno stupido; lo giudico anzi uomo di criterio, e che, a buon conto, in tre giorni di conversazioni è riuscito a dire sempre la stessa cosa senza menomamente compromettersi. Ma appunto, egli ha messi tutti e due i piedi sopra un soldo, il soldo dell'autonomia, e non si muove di lì; e noi consideravamo con preoccupazione che la cosa poteva così prolungarsi sine die. Fu allora che pensammo di far telegrafare da Nogara a Carasso per sollecitare vere e precise istruzioni. Anche questa situazione, per la quale noi, senza che Said lo sappia, siamo in relazione diretta col Comitato da cui in sostanza lo stesso Said riceve le sue istruzioni, e gliele sollecitiamo, non è priva di comicità e non può accadere che coi turchi. D'altra parte abbiamo imaginato, contemporaneamente, quella specie di trucco, dirò così, del processo verbale con l'impegno di trasmetterlo ai rispettivi governi; il che ci assicura almeno che il nostro punto di vista sarà trasmesso esattamente a Costantinopoli e provocherà — è da credere — le desiderate e più precise istruzioni....

«Ecco infine le mie impressioni sintetiche: 1.° I turchi desiderano veramente la pace, e Said su ciò ne interpreta fedelmente il pensiero; 2.° Ciò che veramente e sinceramente arresta i turchi sulle vie della concessione è: a) l'impressione che l'abbandono degli arabi farebbe nel mondo musulmano; — b) la difficoltà e forse la impossibilità di fare ingoiare al Parlamento una pillola troppo grossa; 3.° Con Said sarà difficile, non ostante tutto, divenire a qualche conclusione pratica. E perciò per lo stesso tramite Nogara-Carasso, abbiamo suggerito di rinforzare Said con qualche personaggio più agile; 4.° Malgrado tutto, questo concetto dell'autonomia può implicare un gran passo da parte dei turchi. In sostanza è la rinunzia della sovranità turca; non è ancora il riconoscimento della sovranità nostra, ma è l'abbandono della loro; ed è anzi il riconoscimento della nostra dove effettivamente esiste, e cioè sulla costa. Le difficolta a cui ho accennato, in cui si trovano i turchi, sono vere e sono superiori alla stessa buona volontà del governo turco. Vediamo se da parte nostra è possibile di fare qualche cosa per aiutare quel governo a superarle. Senza qualche cosa di questo genere, non credo possibile di venirne a capo».

Questa lettera del Fusinato rispecchia perfettamente l'inizio delle conversazioni diplomatiche di Losanna, ed indica quale fosse il punto di vista nostro e quello ottomano. Il processo verbale a cui il Fusinato si riferisce, e che fu il primo documento diplomatico relativo a quelle trattative, era inteso a stabilire i rispettivi punti di vista delle due parti. Per parte nostra esso constatava che l'Italia non domandava il riconoscimento della sovranità nostra da parte della Turchia; ma che essa non accetterebbe qualunque formula che la disconoscesse; per parte della Turchia esso constatava essere impossibile il distacco assoluto delle due provincie africane dell'Impero, i suoi doveri di fronte al mondo musulmano impedendole di abbandonare le popolazioni arabe che avevano per lei combattuto.

Passando alla possibile soluzione, da parte della Turchia si avanzava il progetto di autonomia sotto l'alta sovranità del Sultano, riconoscendo però l'occupazione italiana della costa, così che l'Italia secondo i turchi avrebbe conseguiti gli scopi della sua impresa. La risposta nostra era che tale soluzione si accorderebbe col punto di vista italiano solo nel modo seguente: — Che la Turchia concedesse l'autonomia alle due Provincie con atto interno emanante dalla sua sovranità; mentre l'Italia, pure con atto interno, avrebbe determinati nel modo più largo i principi amministrativi da applicarsi a quei territori. Quindi i due governi avrebbero proclamata la fine delle ostilità, sia d'accordo, sia per atti unilaterali contemporanei; ed avrebbero poco appresso concluso l'accordo pel ristabilimento dei rapporti politici, giuridici ed economici.

Passando i giorni senza che da Costantinopoli, ove il Governo era entrato in crisi, venisse nessuna istruzione, e Said pascià non facendo il menomo passo personalmente per avvicinarsi alle vedute italiame, i nostri delegati, in corrispondenza alle dichiarazioni con cui il Fusinato concludeva la lettera sopra riportata, mi trasmisero alcune loro idee di possibili concessioni per facilitare alla Turchia la soluzione. Il Bertolini mi esponeva una sua idea di una soluzione che si prestasse ad una duplice interpretazione, e che consisteva nel fare un accordo della durata di trent'anni per l'interno con concessioni minori, quali l'ammissione di un rappresentante religioso del Sultano in Libia, pagato coi proventi dei vacufs, o beni religiosi e l'attribuzione di un quinto dei prodotti doganali pel servizio del debito ottomano e così via.

Un'altra proposta affaciatami dai nostri delegati, era di lasciare indecisa la situazione del Fezzan, impegnandoci noi a non occuparlo per lungo tempo, per dare modo agli arabi che intendessero di rimanere fedeli al Sultano, di trovarvi un rifugio. Anche il San Giuliano non era contrario a questa soluzione, per la quale, a suo parere, il Fezzan si sarebbe assimilato a quei dietroterra coloniali il cui stato politico rimane per lungo tempo indefinito, come accadeva anche per noi nella Somalia. Per il rappresentante religioso e per il concorso al servizio del debito ottomano, che ci era imposto anche da considerazioni di carattere internazionale, io diedi il mio assenso; ma non accolsi le altre proposte.

Al Bertolini osservai che la proposta sua di un accordo trentennale per l'interno non solo offenderebbe il principio della sovranità, ma potrebbe riuscire pericoloso nel futuro, e dare luogo a complicazioni se la Turchia cedesse ad altri i suoi diritti; e riguardo all'altra proposta del Fezzan dichiarai che io avevo grandissima ripugnanza ad ammettere che a quel distretto si facesse un trattamento non perfettamente conforme esso pure al Decreto di sovranità, ciò che farebbe pessima impressione in paese e procurerebbe probabili difficoltà internazionali. Io rimanevo fermo nel concetto che, essendoci assunta la responsabilità dell'impresa di Libia era nostro dovere di affrontare tutte le difficolta, senza evitarne alcuna, per non lasciare una eredità di possibili guai ai successori. E siccome in tali condizioni non si faceva un passo innanzi, la Turchia non avendo altro da chiedere e noi altro da offrire, pensai che fosse il caso di mutare tattica, e di creare noi stessi alla Turchia difficoltà che poi potessimo rimuovere.

Così scrissi ai nostri delegati che a mio parere non conveniva ormai più di parlare di ulteriori concessioni; ma che piuttosto era il caso di porre sul tappeto tutti i punti nei quali potevamo chiedere qualche cosa, per fare poi qualche concessione riguardo ad essi. Indicai che si poteva chiedere che al nostro alleato Idriss fosse fatto nell'Assiz un trattamento eguale a quello fatto all'Iman Yaia nello Yemen; ed accennare pure alle isole, che potevamo tenere per diritto di conquista, o restituire solo con serie garanzie a favore degli abitanti. Un'altra domanda che io suggerii di avanzare, fu di una indennità per gli italiani espulsi durante la guerra. Seguendo tale metodo noi avremmo potuto tenere viva la discussione, ed evitare che si troncassero trattative dirette, nelle quali avevo grande fiducia, perchè sapevo essere interesse della Turchia di evitare un intervento delle Potenze che avrebbe potuto costarle caro; e ci saremmo pure procurato il modo di fare, al momento decisivo, diverse concessioni secondarie per guadagnare il punto principale. E così fu fatto.

In una nuova conversazione, tenuta  il  19  luglio,  i nostri  delegati dichiararono  a Said Halem che, nell'attesa della risoluzione della crisi del suo governo, e dell'arrivo di nuove e più precise istruzioni da Costantinopoli, pareva loro opportuno di conversare sulle questioni accessorie, che dovevano pure essere risolte, al momento della pace, insieme a quelle maggiori. Said pascià si mostrò da prima riluttante, sostenendo la tesi opposta, che cioè le questioni accessorie non incontrerebbero difficoltà quando sulla principale fosse raggiunta l'intesa. Finì però per consentire alla nuova discussione, e fu posta sul tappeto la questione delle isole, i nostri delegati spiegando le ragioni che ci avevano mossi, per l'ostinazione della Turchia, ad occuparle, e prospettando le diverse soluzioni a cui l'Italia potrebbe addivenire: e cioè o assumerle definitivamente sotto la propria sovranità, stabilirvi una forma di autonomia, o retrocederle pretendendo tuttavia serie garanzie a favore degli abitanti.

Said pascià accolse con malumore quella esposizione, e dette una risposta singolare: — Io posso intendere le ragioni storiche e politiche che vi hanno spinto alla vostra impresa di Libia; ma esse non si estendono alle isole dell'Egeo. Ad ogni modo, se volete tenervi veramente quelle isole, tenetevele; ma non chiedete a noi un consenso che non vi daremo mai. Se avete invece intenzione di restituirle, è inutile parlarne adesso. Per me la questione delle isole non esiste; voi le avete occupate temporaneatnente a titolo di azione bellica; quando cessa la guerra voi le lasciate  ed esse tornano  sotto  la sovranità nostra. Col creare la questione delle isole voi aumentate le difficoltà e non date prova di buon volere. —

Anche di questa conversazione sulle isole fu redatto processo verbale, e spedito a Costantinopoli ed a Roma; e l'irritazione provocata in Said pascià da questa nuova questione, provò, nel giudizio dei nostri delegati, che il fine di mettergli una pulce nell'orecchio era stato raggiunto.

Qualche giorno dopo Said pascià comunicava ai nostri delegati che essendosi formato un nuovo gabinetto a Costantinopoli senza Tevfik pascià, col quale egli era assai affiatato, egli si considerava decaduto dal suo mandato, essendo, col mutamento del gabinetto, decaduto dalla carica di Presidente del Consiglio di Stato. I nuovi ministri erano in maggioranza uomini del vecchio regime, non compromessi nella guerra, di natura conciliante ed abituati ai sacrifizi della Turchia. Hilmi pascià era un vecchio amico dell'Italia, e Kiamil, che era stato mantenuto al corrente delle conversazioni, era propenso alla pace e da tempo non si faceva illusioni. Pareva poi particolarmente significante il mantenimento di Noradoughian, armeno cristiano, al ministero degli affari esteri; il sottosegretario tedesco degli esteri, lo Zimmermann, disse in proposito al nostro ambasciatore, di pensare che Kiamil avesse voluto agli esteri questo ministro cristiano per addossargli la responsabilità della pace e farne il capro espiatorio per le concessioni repugnanti alla pubblica opinione ottomana.

Perdurando però il silenzio da Costantinopoli, Said pascià il giorno 28 luglio prese congedo dalla delegazione italiana, ed anche i delegati nostri decisero di partire lo stesso giorno, pronti a ritornare appena la Turchia mostrasse intenzione, come pareva già certo, di riprendere le conversazioni interrotte.

Sospese così le conversazioni di Losanna, ritenemmo opportuno che il Comm. Nogara, che aveva già resi servizi importanti per avviarle, ritornasse a Costantinopoli per rendersi conto, a, mezzo delle sue numerose conoscenze, della situazione. Egli infatti, arrivatovi il 30 luglio, ebbe subito una lunga conversazione col ministro degli Affari Esteri, Noradoughian, il quale impegnossi a sottoporre subito al Consiglio dei Ministri la nomina di nuovi delegati. E infatti la sera dello stesso giorno gli comunicò che il Consiglio aveva deciso di continuare le conversazioni e di nominare i nuovi delegati, dando loro le istruzioni necessarie. Il Ministro aggiungeva che il nuovo governo aveva forza ed autorità sufficiente per imporre la pace ai musulmani recalcitranti; ma che bisognava però calmarli, ed a tale scopo riteneva fosse d'uopo che noi ci astenessimo da intraprendere nuove azioni di guerra. Aggiunse pure che la Camera, dalla quale non si poteva aspettare un consenso pel suo carattere nazionalista, sarebbe stata sciolta, come infatti poi avvenne. Dichiarò che ai nuovi delegati avrebbe dato le istruzioni più utili alla causa della pace; ma per fare ciò gli occorreva di sapere dove il Governo italiano volesse arrivare. Concluse che la pace non poteva essere fatta se non considerando la questione dal punto di vista italiano per parte della Turchia, e dal punto di vista turco per parte dell'Italia.

Volendo, nei limiti del possibile, facilitare l'opera del governo turco per la pace, io ordinai di non fare altre operazioni per il momento nell'Egeo, ma di intensificare la campagna nella Libia, ed in Cirenaica particolarmente, per togliere ai Turchi l'illusione che essi nutrivano ancora, in ragione della poca estensione delle nostre occupazioni in quella provincia, che l'Italia alla Cirenaica potesse alla fine rinunciare. Qualche giorno dopo ricevevamo l'informazione che i due nuovi delegati nominati dal governo turco, erano Nabi Bey, ex-ministro plenipotenziario a Sofia, e Faredin Bey console generale a Budapest, e che era già stato in servizio diplomatico a Roma. Dell'uno e dell'altro avemmo ottime informazioni, come di persone di specchiata onestà, di buon senso, ed animate da buon volere verso l'Italia; ed in seguito non avemmo che a lodarci della loro condotta, sempre diritta e leale. Faredin Bey era un grande estimatore dell'occidente, ma detestava gli orientali europeizzati.

Una piccola complicazione, che poteva essere indice di cose più gravi, si rivelò in una conversazione che il Nogara ebbe col nuovo ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il Waggehheim, succeduto da poche settimane al Marshall. Pure mostrando la maggiore cordialità e dichiarandosi desideroso di mettersi a
nostra disposizione, il Waggenheim affacciava la convenienza che le conversazioni fossero spostate dalla Svizzera a Costantinopoli, dove, secondo lui, avrebbero avuto maggiore probabilità di arrivare ad una rapida conclusione. Egli riconosceva poi che la situazione dei turchi era ormai scossa in Tripolitania, ma che in Cirenaica si manteneva eccellente, e che l'Italia avrebbe dovuto contentarvisi di un regime simile a quello degli inglesi in Egitto, insistendo assai sovra questo punto, che egli diceva essere quello del Governo ottomano stesso.

Ora noi avevamo già saputo che il Marshall, lasciando Costantinopoli, aveva promesso al Governo turco di fare il possibile per salvare per esso la Cirenaica; era dunque evidente che questo suo progetto egli l'aveva passato in eredità al suo successore. La cosa era abbastanza grave, perchè questi discorsi che il Waggenheim andava facendo, probabilmente non a noi soli, avrebbero avuto l'effetto di creare illusioni nell'animo dei Turchi ed incoraggiarli alla resistenza, con la credenza anche che essi rappresentassero il punto di vista del Governo tedesco. Io feci quindi telegrafare al Nogara perchè avvertisse il Waggenheim che la piena sovranità sull'intera Libia era per l'Italia una condizione assoluta, mancando la quale noi rifiuteremmo di continuare le trattative; ed al Governo di Berlino, per richiamare la sua attenzione sul linguaggio del suo ambasciatore, che ci riusciva grandemente nocivo, e che lo mostrava animato da sentimenti ostili verso di noi, e colsi l'occasione per riaffermare ancora che l'applicazione integrale del decreto di sovranità era per noi una necessità assoluta.

Ricevemmo poi da Berlino in proposito assicurazioni soddisfacenti, e il Waggenheim fu avvertito di astenersi da dichiarazioni ed opinioni contrarie agli interessi italiani. Ma non ostante questi moniti, noi dovemmo anche in seguito constatare che   quell'ambasciatore   persisteva   ad   ostinarsi  in quelle sue opinioni, sino al punto di sostenerle e difenderle in conversazioni che aveva col Comm. Nogara; ciò che ci costrinse a nuove proteste e richiami, tanto più che noi lo sapevamo in continui rapporti col capo del Governo turco. Il Sottosegretario degli Esteri tedesco, lo Zimmermann ci informava infatti che il Gran Visir, in una sua conversazione col Waggenheim, gli aveva detto  che c'erano solo due formule possibili di pace  e cioè: o  cessione della Tripolitania all'Italia, conservando la Turchia la Cirenaica; o cessione all'Italia dei punti da essa effettivamente occupati, lasciando il resto del paese agli indigeni, salvo all'Italia a regolare poi le cose con costoro.

Il Ministro degli Esteri, Noradoughiam, in nuove conversazioni col Comm. Nogara,  affacciava pure, a nome di Kiamil pascià, una proposta di armistizio e l'invio di una delegazione in Libia per persuadere gli arabi ad intendersi con l'Italia; mentre il rappresentante del Comitato, il deputato Carasso, insisteva sull'autonomia. Queste proposte vennero poi espresse dal Gran Visir in una nuova conversazione col Waggenheim, e trasmesse a Berlino; e lo Zimmermann, parlando al nostro ambasciatore, mostrava di
ritenere degna di considerazione quella per cui noi
avremmo tenuta la costa e lasciato il resto del paese
agli indigeni, coi quali poi, a suo avviso, non ci
sarebbe stato diffìcile venire ad una intesa.

A San
Giuliano che mi comunicava quella proposta, io risposi che essa mi pareva pericolosissima, perchè
qualunque distinzione così pattuita nella Libia, oltre essere contraria al Decreto di sovranità, avrebbe
potuto involgerci in difficoltà gravissime con la Francia e con l'Inghilterra, ed anche con gli arabi, che
sarebbero posti perpetuamente in condizione di belligeranti e potrebbero anche, secondo il diritto internazionale, invocare l'aiuto di potenze straniere.
E poiché il San Giuliano, in una lunga lettera, insisteva nel suo concetto che l'esistenza di un retroterra
il cui stato politico non fosse per il momento definito,
non creasse seri inconvenienti, io gli risposi ancora
che a mio avviso, sul punto di vista della sovranità
la nostra intransigenza doveva essere assoluta, e che
io non avrei mai firmato la pace alle condizioni affacciate dal Gran Visir.

Merita rilevare che queste
idee del Governo turco, a cui l'ambasciatore tedesco a Costantinopoli si mostrava ancora fedele non
ostante i richiami del suo governo, mi venivano confermate da un'altra fonte tedesca, e cioè da quell'Hellferich che poi ebbe tanta parte nell'amministrazione della finanza tedesca durante la guerra
mondiale.
Questi contatti e queste indiscrezioni avevano ogni modo il vantaggio di farci prevedere approssimativamente con quali istruzioni i nuovi delegati turchi sarebbero venuti al nuovo convegno in Svizzera, che da Losanna era stato trasportato a Caux. Il punto capitale di queste istruzioni era di non cedere sulla questione della sovranità nominale del Sultano sui territori che noi non avevamo ancora militarmente occupati. Per cui, quando i delegati turchi arrivarono il 12 agosto al luogo del convegno, io ritenni necessario, e detti istruzioni perchè la nostra azione bellica in Libia fosse intensificata, specie in Cirenaica; ed avvertii il Ministro della Guerra che nei suoi progetti tenesse conto che di pace non si potrebbe veramente parlare prima di tre mesi. Ai nostri delegati poi ripetei le istruzioni di astenersi dal lasciare sperare concessioni, ed anzi di affacciare pretese, e nuove difficoltà; ad esempio proponendo che la questione delle isole fosse risolta mediante un plebiscito, fra gli abitanti.

La mattina del 13 agosto furono iniziate coi delegati Turchi le nuove conversazioni, premettendosi che quelle di Losanna si considerassero come non avvenute e sorpassate.

Poi Naby Bey dichiarò di essere incaricato dal suo governo di presentarci successivamente cinque proposte scritte, che avrebbero dovuto formare base delle discussioni. La prima e la seconda presupponevano appunto una rinuncia nostra a parte del nuovo possesso africano; e i nostri, delegati le scartarono subito, perchè in aperta contraddizione con la nostra legge di sovranità. La terza proposta tendeva a stabilire in Libia un regime simile a quello della Francia in Tunisia; e i delegati turchi spiegavano che con essa il Governo ottomano intendeva di lasciarci l'assoluto ed effettivo dominio delle due provincie, ma che ci si domandava solamente di consentire ad una formula che servisse a duper, la parola era usata da Naby stesso, l'opinione pubblica turca e le suscettibilità musulmane. Alla risposta dei nostri delegati, che anche una tale soluzione si trovava in contrasto con la situazione creata dal Decreto di sovranità e non poteva essere accettata, i delegati turchi dimostrarono un rammarico che ai delegati nostri parve sincero veramente; e Naby Bey e-Faredin Bey non rifuggirono allora dal fare una lunga ed aperta esposizione dell'intrico di difficoltà in cui il Governo turco, preso fra le pretese dell'esercito, quelle del Comitato e quelle degli arabi, si sarebbe già trovato per fare accettare una soluzione la quale, lasciando la sostanza all'Italia, salvasse almeno le apparenze. Quanto alle altre due proposte, i delegati Turchi si riservavano di presentarle  appena fossero  state  loro  trasmesse.

Esse arrivarono in fatti a Caux il 27 agosto; l'una proponeva di concedere l'autonomia, cedendo in piena sovranità all'ltalia due porti in punti da scegliere che non fossero attualmente abitati ; e i fiduciari turchi tentavano di persuaderci che essa implicava virtualmente l'abbandono della Libia all'amministrazione italiana; l'altra proponeva l'autonomia per la Cirenaica e la cessione assoluta della Tripolitahia all'Italia, la quale alla sua volta e per compenso avrebbe ceduto alla Turchia Massaua e l'Eritrea. Naturalmente esse pure furono immediatamente respinte.

Intanto, siccome da Costantinopoli si insisteva a mezzo dei fiduciari turchi per conoscere la risposta nostra alle tre prime formule proposte dei fiduciari ottomani, i nostri fiduciari li autorizzarono a telegrafare al loro governo in termini precisi, dettando la risposta essi stessi, «che le tre proposte fatte dal Governo ottomano erano respinte dal Governo italiano perchè incompatibili con la sovranità dell'Italia». E su richiesta dei fiduciari Turchi, consentirono a consegnare loro, perchè fosse trasmesso al loro governo, un riassunto dei postulati capitali italiani per la pace, che costituirono il primo schizzo del trattato di pace che fu poi dalla Turchia finalmente accettato. I nostri fiduciari ripeterono poi solennemente ai fiduciari ottomani che, piuttosto che rinunciare anche in minima parte alla legge che aveva proclamata la sovranità, l'Italia avrebbe combattuto indefinitivamente, portando la guerra anche in Arabia, nell'Asia Minore e in Albania, e che le isole non sarebbero mai state sgombrate fino a che le truppe e gli ufficiali turchi non fossero stati ritirati dalla Libia.

Fino a questo punto i nostri fiduciari avevano condotte le conversazioni sulla base della istruzioni ricevute, e che si potevano riassumere: intransigenza assoluta sul punto capitale della sovranità, e spirito di conciliazione pel resto, lasciando però ai Turchi di avanzare le loro domande, e mettendone anzi avanti essi pure, per stabilire dei punti su cui potessimo fare concessioni. Altre istruzioni e indicazioni particolari io trasmettevo a mano a mano che venivano presentate e discusse le proposte turche, lasciando ai nostri negoziatori la necessaria libertà di discussione, di cui però essi si valsero sempre con" grande ponderazione e buoni risultati. Però, siccome qualche lettera di Bertolini e di Fusinato lasciava travedere una certa preoccupazione che le conversazioni stessero per arrivare ad un punto morto, e dovessero essere abbandonate, cosa che io volevo ad ogni modo evitare, persuaso come ero che prima o dopo, mantenendo i contatti, si sarebbe arrivati in porto; credetti opportuno di avere coi nostri delegati uno scambio di idee, per fissare definitivamente il nostro programma.

Questo incontro ebbe luogo il 25 agosto all'Hotel Bologne a Torino. Esaminato minutamente il corso delle conversazioni ed i loro risultati, io proposi il seguente schema: che il Governo turco proclamasse l'indipendenza delle popolazioni della Libia, nominandovi un rappresentante religioso del Califa, con un suo atto unilaterale; l'Italia alla sua volta, senza scriverlo nel trattato, s'impegnava a fare agli arabi tutte le possibili concessioni; mentre i turchi alla loro volta, pure senza scriverlo nel Trattato, farebbero le concessioni necessarie alle popolazioni delle isole Egee. Dopo ciò si sarebbe passati alla estensione del Trattato di pace.  Con  questa   formula  si  sarebbero evitate  al Governo turco molte e gravi difficoltà, non essendo esso in tal modo obbligato a riconoscere, neppure indirettamente, la nostra sovranità, e noi non avremmo avuti vincoli intemazionali né di fronte agli arabi, né di fronte agli abitanti delle isole Egee.

Questo progetto fu esposto in una nuova conversazione che i fiduciari nostri ebbero con quelli turchi il 27 agosto, al ritorno a Caux. Costoro non mostrarono di apprezzare troppo la nomina del rappresentante religioso; osservando che la nomina di un Muftì e di altre autorità religiose era una conseguenza necessaria del culto musulmano, e che implicava la rappresentanza del Califa anche in territori stranieri, quali l'India, la Bulgaria, la Russia e dovunque sono dei musulmani. Quindi una tale concessione, superflua affatto, non rispondeva alle esigenze del Governo turco per fare accettare dal paese il trattato di pace. Essi proponevano invece di nominare un Bey, che non sarebbe stato — e lo dicevano espressamente — che un uomo di paglia, del quale, se ci fosse riuscito incomodo, avremmo potuto sbarazzarci un anno o due dopo: la Turchia avrebbe protestato presso noi o presso le Potenze, e tutto sarebbe finito. Essi osservarono pure che, non riconoscendo la Turchia la sovranità italiana, non avrebbe potuto nominare un agente consolare; perchè dunque, anche se non si voleva la nomina di un Bey, non si permetterebbe al Governo turco di nominare un rappresentante del Sultano con una formula vaga, la quale senza indicare una investitura
di podestà politica, gli desse modo di lasciarla interpretare in tale senso dalla opinione pubblica musulmana; mentre l'Italia, nell'atto unilaterale suo si limiterebbe a considerarlo come rappresentante puramente religioso  ed  amministrativo?

Il tal modo, sia pure lentamente, in queste conversazioni ci andavamo avvicinando alla via di uscita. Ritengo superfluo entrare nei particolari di tutte le nuove proposte che ci venivano affacciate, ora a mezzo del Comm. Nogara; ora a mezzo di un ex ambasciatore francese, il signor Revoil, che aveva in Turchia una posizione importante nel mondo degli affari, e il quale ebbe in proposito uno scambio di idee a Carlsbad col Marchese Garroni; ora a mezzo dell'ambasciatore .turco a Parigi, in conversazioni con l'ambasciatore nostro, Tittoni. Di queste proposte ve n'era di tutti i generi: — ci si chiese che cosa penseremmo se la Turchia richiedesse i buoni uffici dell'Inghilterra; ci si informò che un importante personaggio aveva proposto l'arbitrato del Presidente degli Stati Uniti, assicurando che il Presidente era disposto ad offrirlo; ed in verità una proposta di mediazione americana era pervenuta a me pure, ma non aveva avuto seguito dopo la mia dichiarazione che il nostro proposito di mantenere la sovranità proclamata era irremovibile. Si propose di mandare un membro del Governo turco a trattare direttamente meco a Roma; ci si chiese ancora se l'Italia sarebbe stata disposta a cedere alla Turchia, come indennità per la perdita della Libia, due
delle migliori navi della sua flotta; proposta quest'ultima di cui si comprende l'importanza, quando si consideri che c'erano già nell'aria i primi indizi della guerra balcanica, e che con quella nostra cessione la Turchia avrebbe guadagnato di colpo la supremazia sulla flotta greca. Si prospettò di venire ad un modus vivendi, rimandando ad una conferenza europea la soluzione definitiva, la Turchia impegnandosi a non fare opposizione al riconoscimento della nostra sovranità, in, cambio del nostro appoggio su altri problemi economici e politici.

L'ultima fra queste proposte che ci venivano a mano a mano presentate dai delegati Turchi, o accennate da qualche membro di quel governo al commendator Nogara, arrivava all'assurdo di mantenere in Libia, con gli organi appositi, la sovranità del Sultano, senza per questo obbiettare alla sovranità dell'Italia, di modo che quel paese sarebbe stato sottoposto ad una duplice sovranità, ognuna delle quali avrebbe finto di ignorare l'altra! A queste proposte, alcune ingenue o fantastiche, altre abili ed insidiose, io risposi sempre negativamente, e dando a volta a volta ragione del mio diniego, ed insistendo per la soluzione unica, e che essa dovesse essere combinata fra i fiduciari nostri e i fiduciari turchi a Caux. A questo incrociarsi di progetti e di proposte io non davo alcuna importanza; è però interessante rilevare come essi indicassero che per la Turchia non si trattava ormai di una questione di sostanza, ma di forma; e come per essa fossero in gioco, non già la Cirenaica e la Tripolitania, irremediabilmente perdute fino dal principio, ma il prestigio politico interno di fronte al mondo musulmano, ed all'elemento arabo in particolare.

A questi interessi politici generali altri se ne intrecciavano, speciali e partigiani; del governo, del Comitato «Unione e Progresso», dell'esercito, cercando ognuno di scaricare sulle spalle degli altri la responsabilità della situazione e delle sue conseguenze. Il governo allora al potere, costituito di elementi del vecchio regime, si preoccupava di affrettare la soluzione, per fare comprendere di avere dovuto agire su una situazione da esso trovata, e fare ricadere sul governo dei Giovani Turchi, che l'aveva preceduto, la responsabilità della perdita delle provincie africane; mentre la tattica del Comitato era di fare ricadere questa responsabilità sul governo attuale, astenendosi dal concedergli un qualunque appoggio, sino a che la questione della Libia non fosse tolta di mezzo.

Altri invece, nell'aspettativa dello scoppio della guerra balcanica, di cui si avevano già molteplici indizi premonitori, e nella convinzione che quella guerra sarebbe stata vinta facilmente dalla Turchia, ritenevano inutile fare la pace con l'Italia, e più conveniente di rimandare la questione della Libia, insieme alle altre questioni, davanti alla Conferenza europea che avrebbe dovuto regolare le conseguenze e i risultati della guerra. Si aggiungano gli intrighi finanziari che non mancano mai in codeste occasioni; e i colpi di  testa di  qualche diplomatico,  come quello  che, secondo ci informò lo stesso Presidente del Senato turco, consigliava alla Turchia di tirare le cose in lungo perchè l'indebolimento dell'Italia era utile alla situazione politica generale; e si avrà un, quadro della rete di complicazioni nella quale doveva svolgersi l'azione nostra; complicazioni che mi confermavano sempre più nel mio concetto di seguire una linea diritta e precisa.

Uno dei personaggi turchi, che si rendeva meglio conto delle necessità di porre fine ad una situazione insostenibile, e che si faceva di più in più pericolosa, era il ministro degli esteri, cristiano, Noradoughian Bey, uomo abile ed intelligente; ma egli pure temeva di addossarsi responsabilità che lo esponessero poi a rappresaglie. Ad ogni modo egli sostenne la opportunità di accettare le proposte nostre come base dei negoziati; e nello stesso tempo furono, se non eliminate, assai ridotte le difficoltà interne mediante un compromesso firmato fra il partito dell'Intesa liberale, che faceva capo a Kiamil, e il Comitato «Unione e Progresso»; compromesso col quale si riconosceva che la pace era un interesse nazionale, e le due parti s'impegnavano a non fare delle condizioni di pace una piattaforma elettorale o di opposizione al governo. Si ventilava pure l'idea di mandare, traverso la Tunisia, missioni pacificatrici in Tripolitania. Ma altre difficoltà sorsero, in Libia e fra gli arabi.

Il comandante militare in Tripolitania, informato delle trattative, telegrafò a Costantinopoli che malgrado la conclusione della pace, egli avrebbe continuata la guerra per suo conto; mentre il Comitato arabo di Costantinopoli minacciava di considerare la cessione della Libia come ragione sufficiente per proclamare la decadenza del Califfatto.

Sorsero così nuove incertezze e titubanze, e noi fummo informati che il Consiglio dei Ministri turco aveva deciso di incaricare Reschid pascià, che era già stato ambasciatore a Roma, ed attualmente teneva il posto di Ministro d'Agricoltura, Industria e Commercio, di venire a conferire meco; e che la sua missione doveva essere assolutamente segreta. Secondo i nostri informatori, Reschid pascià doveva chiedere all'Italia importanti impegni politici, in vista della crisi balcanica che andava maturando, in compenso della conclusione della pace secondo le nostre condizioni. La missione di Reschid poteva essere anche un semplice espediente dilatorio, o celare la speranza di ottenere qualche ulteriore concessione. Per ogni buon fine io feci sapere al governo turco che ero disposto a riceverlo, qui a Roma; ma che per lealtà dovevo dichiarare che la sua venuta sarebbe stata assolutamente inutile, se diretta ad ottenere modificazioni della nostra legge di sovranità; non solo il governo, ma anche il Parlamento e il popolo italiano essendo irremovibili nel proposito di mantenerla integra a qualunque costo.

Non ostante questo monito preventivo, la partenza di Reschid da Costantinopoli ebbe luogo egualmente. Egli   si   fermò   a   Vienna,   dove   doveva   attendere le ultime istruzioni, e di là fece sapere che invece che a Roma preferiva d'incontrarsi meco in una città contigua alla frontiera, da dove avrebbe proseguito per Losanna, per unirsi agli altri due fiduciari turchi, A questa richiesta io risposi che il Presidente del Consiglio italiano non avrebbe mai fatto un viaggio per andare incontro al Ministro d'Agricoltura della Turchia; ciò che del resto sarebbe stato futile anche per lo scopo di mantenere il segreto, io essendo troppo conosciuto in Italia dovunque. Ad ogni modo, siccome dovevo recarmi e rimanere per una settimana a Cavour, non avrei avuto difficoltà a che l'incontro avesse luogo invece che a Roma, a Torino.

Se non che, arrivato il 29 settembre Reschid a Ouchy, vicino a Losanna, dove i fiduciari nostri e turchi si erano spostati da qualche giorno, dichiarò di non essere disposto di recarsi a Torino o in qualsiasi città italiana, perchè il suo Consiglio dei Ministri lo aveva autorizzato ad incontrarsi col Presidente del Consiglio italiano solamente fuori della nostra frontiera. Questa sua dichiarazione era in contrasto con le comunicazioni fatte in proposito dai fiduciari turchi ai fiduciari nostri, secondo le istruzioni che quelli avevano ricevuto dal loro Ministro degli Esteri. Ma Reschid replicò che le istruzioni del Ministro degli Esteri erano per lui insufficienti, se non fossero accompagnate da esplicita deliberazione del Consiglio dei Ministri, e promise che l'avrebbe per parte sua provocata. Io ebbi subito l'impressione che il contegno di Reschid dimostrasse il proposito del Governo turco di guadagnare semplicemente tempo; impressione che fu apertamente comunicata dai nostri negoziatori nelle conversazioni avute con lui. Le risposte sue, vaghe e generiche, confermarono nei nostri negoziatori codesto sospetto, anzi lo posero fuori dubbio; la cosa essendo d'altronde in piena corrispondenza con la situazione.

La Turchia era sotto la minaccia, o della guerra balcanica, che poi scoppiò effettivamente, o di una Conferenza europea; ed era ovvio che, aspettando di vedere quale corso gli avvenimenti prenderebbero, fosse suo interesse di tenere a bada l'Italia. Essendo Reschid una vecchia conoscenza di Fusinato, che aveva avuti rapporti abbastanza famigliari con lui quando era ambasciatore a Roma, il Fusinato cercò di cavarne fuori qualche cosa di più in un abboccamento strettamente privato; ma finì per persuadersi che Reschid non aveva altra missione se non di implorarmi a nome dei supremi interessi dell'Impero ottomano, perchè noi prestassimo alla Turchia una nostra collaborazione diplomatica nei Balcani. Si voleva cercare insomma, profittando della situazione speciale in cui l'Italia si trovava per la guerra, di attirarla ad impegni che avrebbero potuto trovarsi in contrasto con l'azione generale della diplomazia europea, ciò che, oltre a non corrispondere ai nostri impegni diplomatici precedenti, ci avrebbe messo in una situazione pericolosissima.

Per tanto, il 1 settembre, telegrafai ai nostri fiduciari per avvertirli che sarebbe stato bene fare intendere subito e chiaramente ai fiduciari turchi, che se scoppiasse un conflitto nei Balcani, io avrei rotto immediatamente ogni trattativa, perchè ad ogni buon fine converrebbe all'Italia che la sistemazione balcanica avvenisse mentre eravamo ancora nel pieno possesso delle isole Egee; e che d'altronde non era consentaneo con la nostra dignità il prolungare negoziati con un governo che dimostrava di non avere altro scopo che di farci perdere tempo.

Incaricai nello stesso tempo San Giuliano d'informare le Potenze dello stato delle cose, e di fare loro sapere che, avendo ormai acquistata la certezza che il Governo turco non si proponeva altro che di tergiversare, noi eravamo decisi a rompere le trattative e riprendere con maggiore energia la guerra, e non più nella sola Libia, ma contro le parti più vitali dell'Impero ottomano. Monito questo alle Potenze che era tanto più giustificato, in quanto che, quantunque avvertite da noi del corso dei negoziati, e richieste di aiutarlo con qualche consiglio dato alla Porta, nell'interesse generale della pace europea, esse, con una ragione o un'altra, se ne erano fino allora astenute.

Il giorno dopo, 2 settembre, i nostri fiduciari mi comunicarono di avere potuto definitivamente constatare che Reschid, il quale si credeva esclusivamente dipendente da Kiamil, e non teneva conto di qualunque istruzione del Ministro degli Esteri, non aveva né i poteri necessari, né l'intenzione di venire ad una conclusione; e che avendo ormai compresa la futilità di qualunque tentativo per ottenere concessioni sulla questione della sovranità aveva rinunciato a incontrarsi meco, temendo fra l'altro, come egli stesso confessava, di compromettere il proprio avvenire politico se apparisse di avere avuta una parte decisiva nella conclusione della pace. Ed infatti, pure rimanendo ad Ouchy, egli si limitò poi alla parte di consigliere della delegazione del suo governo, senza assumere la veste di terzo delegato e tanto meno di capo della delegazione, come pareva avrebbe dovuto essere secondo le informazioni con cui la sua venuta e la sua missione ci erano state annunciate.

XIV.
La conclusione della pace.


Ultimatum di otto giorni alla Turchia — Il governo turco dichiara di accettare lo schema da noi proposto — Nuovi espedienti turchi — Invio della flotta italiana nell'Egeo — Ordine di attaccare Smirne e Dedeagatch — La pace alfine firmata — Critiche diverse mosse contro la guerra e la sua condotta diplomatica e militare — I pacifisti ad ogni costo, gli umanitari ed i nazionalisti — Una critica postuma: la guerra di Libia spinse alla guerra europea?

Il contegno e la condotta di Reschid pascià, insieme al fatto che da Costantinopoli non si rispondeva
nemmeno più alle osservazioni ed alle richieste di
istruzioni da parte degli stessi fiduciari turchi, mi
persuasero della necessità di far sentire al Governo
ottomano una più energica pressione. Degli imbarazzi e delle reali difficoltà in cui quel governo si trovava, fra la questione della nostra pace e la già
imminente minaccia della guerra balcanica, io mi
rendevo conto; ma era pure evidente che i vari poteri
e uomini del regime cercavano di evadere tutti insieme, ed anche ognuno per conto proprio, qualunque responsabilità a spese nostre, non rifuggendo
di ricorrere agli espedienti della più flagrante malafede. Era dunque ormai necessario di fare loro sentire che la nostra pazienza e longanimità aveva un
limite, e che noi non eravamo affatto disposti a prestarci indefinitamente al loro gioco.

Nel corso delle conversazioni passate fra i nostri fiduciari e i due fiduciari turchi, che personalmente si comportarono sempre con lealtà, rendendosi pienamente conto della situazione e collaborando del loro meglio per trovare una soluzione, un punto di accordo era stato raggiunto nella prima metà di settembre. Il 6 di quel mese, e dopo già venticinque giorni di discussione, la delegazione ottomana aveva comunicato alla nostra una nuova proposta del suo governò; e il giorno 10 la nostra delegazione aveva risposto, dopo essersi affiatata meco, che il Governo italiano era disposto a discutere sulla base di quella proposta, condizionando il suo consenso con la modificazione di alcuni punti incompatibili coi nostri postulati. In tal modo era stato compilato uno schema di accordo segreto, la cui firma avrebbe dovuto precedere quella del trattato di pace pubblico, e di cui era stata inviata copia al Governo ottomano. Da quel giorno erano passate tre settimane senza che gli stessi fiduciari turchi riuscissero ad ottenere risposta in proposito dal loro governo. Io pensai che questo stato di fatto potesse servire di base ad una ulteriore nostra azione, e mi accordai coi nostri delegati perchè fosse fatta una dichiarazione ai fiduciari turchi, all'effetto che se quell'accordo segreto non fosse firmato entro otto giorni, cioè entro il 10 ottobre, i negoziati sarebbero stati sospesi, riserbandoci noi piena libertà d'azione.

Suggerii che tale dichiarazione fosse fatta a mezzo di una breve nota, la quale mettesse in evidenza la longanimità nostra e le tergiversazioni a cui la Turchia era ricorsa dopo la venuta di Reschid. Nello stesso tempo, da Cavour dove mi trovavo ancora, telegrafai a San Giuliano perchè, mettendo in rilievo che le dilazioni e tergiversazioni turche erano aumentate dopo la venuta di Reschid, facesse conoscere alle Potenze la probabilità che i negoziati fossero interrotti per colpa della Turchia, ed il conseguente nostro proposito di riprendere con maggiore energia, e senza più riguardo pel nemico, la nostra azione militare. Questa azione avrebbe dovuto svolgersi nell'Egeo, ed io mi riservavo di studiarne e concretarne i particolari al mio ritorno a Roma fra due giorni, tenendo conto delle necessità e degli accordi internazionali allora in discussione, perchè volevo evitare che noi apparissimo in qualunque modo provocatori di una guerra europea.

La comunicazione di questa nota fece molta impressione sui delegati turchi, i quali telegrafarono subito e lungamente a Costantinopoli. Reschid confessò anche che egli era stato bensì invitato dal suo Ministro degli Esteri a recarsi a Torino, ma non aveva avuto formale mandato dal governo; aggiunse che il Ministro degli Esteri era decisamente favorevole alla pace, secondato in ciò dal Gran Visir e da Kiamil pascià, ma ostinatamente contrastato dallo Sceicco dell'Islam in nome dell'elemento religioso. I delegati turchi vollero pure riprendere la discussione  dello  schema  d'accordo  segreto,   sollevando nuove obbiezioni e chiedendo altre concessioni; ma io avvertii i nostri che era bene di fare comprendere ai turchi che le concessioni nostre erano giunte ormai all'ultimo limite, e che non saremmo andati oltre a qualunque costo; e che ormai la Turchia doveva rispondere con un semplice sì o no; di osservare loro che se gli avvenimenti portassero ad una Conferenza europea, a noi sarebbe stato molto utile il possesso delle isole; e che se fosse scoppiata la guerra fra la Turchia ed i paesi balcanici, noi, essendo già in stato di guerra, ci saremmo trovati liberi di spingerla alle ultime conseguenze. E feci avvertire anche che sino da allora la nostra marina aveva ordini di impedire qualunque trasporto di truppe turche per mare, sequestrando le navi che a tali trasporti fossero adibite.

Questa mossa energica ebbe l'effetto che mi ero proposto. Da Costantinopoli, a mezzo dei nostri agenti, fummo avvertiti che un corriere di gabinetto era partito immediatamente portando ai delegati turchi nuove istruzioni, e che nello stesso tempo i fiduciari turchi di Ouchy avevano chiesto telegraficamente i pieni poteri. Apprendemmo pure che il Governo tedesco in seguito al nostro avvertimento, aveva dato al suo ambasciatore istruzioni di consigliare il governo turco di desistere da ulteriori tergiversazioni; e che l'ambasciatore francese a Costantinopoli informava il suo governo che la Porta aveva autorizzato Reschid a cedere sulla questione della sovranità. E il giorno 4 i fiduciari turchi comunicavano ai nostri che lo schema di accordo segreto era stato approvato dal Consiglio dei Ministri turco senza sostanziali modificazioni.

Lo schema dell'accordo segreto era presso a poco nei termini seguenti. Anzitutto il Sultano, con un atto spontaneo e unilaterale, doveva pubblicare un firmano che accordava la piena autonomia alla Libia, nominando un suo rappresentante, già scelto nella persona di Chemseddin Bey, uomo mite e pio, di cui avemmo buone informazioni. All'atto del Sultano doveva seguire un atto, pure unilaterale, dell'Italia la quale, in base alla sua legge di sovranità accordava amnistia agli arabi combattenti, e riconosceva agli effetti religiosi il rappresentante del Sultano, accordando anche piena libertà religiosa. Il terzo atto consisteva in un iradè col quale il Sultano accordava amnistia e riforme radicali alle isole dell'Egeo da noi occupate.

Seguiva infine un atto comune che ristabiliva la pace e lo statu quo ante bellum fra l'Italia e la Turchia. Lo sgombero delle truppe turche dalla Libia doveva precedere il nostro ritiro dalle isole dell'Egeo. Non volendo abbandonare Idriss, che aveva combattuto al nostro fianco, io chiedevo che gli fosse concessa ampia amnistia ed una posizione nei suoi territori eguale a quella goduta dall'Iman Yaja nello Yemen; e la Turchia chiedeva alla sua volta che noi pagassimo al debito ottomano la somma che questo traeva annualmente dalla Libia.

Non ostante però le informazioni e le assicurazioni che avevamo ricevuto da varie parti, presto apparve
che le tergiversazioni turche non erano ancora finite. Il giorno 8 venivamo informati da Costantinopoli che, essendo riunito il Consiglio dei Ministri per deliberare sulla pace con l'Italia, intorno alla Sublime Porta si era raccolta una clamorosa dimostrazione la quale reclamava la continuazione della guerra ed il ritiro del Gabinetto pacifista. Si temevano pronunciamenti militari ed era stato dichiarato lo stato d'assedio. Il Ministro degli Esteri aveva ricevuto minaccie di morte ed era assai impaurito ed abbattuto. E il comm. Nogara il giorno 10 ci telegrafava confermando che il governo era sinceramente deciso a concludere subito la pace; ma che per ragioni costituzionali e per difficoltà insormontabili interne era costretto ad invertire la procedura già approvata  nell'accordo  segreto.

Che cosa fosse questa inversione così preannunciata da Costantinopoli, l'apprendemmo in riassunto il giorno 11, dopo l'espirazione del nostro ultimatum, e in tutti i suoi particolari il giorno dopo, a mezzo di una lunghissima comunicazione che i delegati turchi ricevettero dal loro governo. Lo schema dell'accordo segreto vi era interamente sconvolto. Mentre si doveva, secondo quest'ultima proposta turca, firmare un trattato di pace che fosse immediatamente effettivo, l'emanazione del firmano col quale il Sultano doveva accordare la piena autonomia alla Libia, come pure il ritiro delle truppe turche, venivano rimandate a dopo che il trattato di pace fosse stato approvato dal Parlamento ottomano. Si domandava inoltre che l'Italia rinunciasse ai diritti di tutela degli abitanti della Libia quando questi si trovassero in territorio ottomano ; cosa questa che ci avrebbe fatto perdere ogni prestigio presso gli arabi; ed infine si pretendeva che noi rinunciassimo all'articolo dell'accordo che imponeva al Governo ottomano di impedire che dal suo territorio fossero spedite armi agli arabi i quali persistessero a combattere contro di noi.

Io telegrafai immediatamente ai nostri delegali di respingere senza la menoma discussione tali proposte, tutte assolutamente inaccettabili; facendo osservare fra l'altro che la mancata pubblicazione del firmano accordante l'autonomia agli arabi avrebbe reso impossibile alle potenze di riconoscere la nostra sovranità; e che un trattato di pace concluso su quelle basi si ridurrebbe sostanzialmente a questo: che noi daremmo denari alla Turchia permettendole anche di usare liberamente della sua flotta e di spostare le sue truppe per mare, ricevendo in compenso la semplice promessa del ritiro dalla Libia delle sue truppe le quali, istigate sottomano, potrebbero anche rifiutare di obbedire. Nello stesso tempo, avvertendone il Re, facevo mandare ordine alla squadra dell'Ammiraglio Amero d'Aste di tenersi pronto per una energica azione, ed alla squadra dell'Ammiraglio Viale, che era a Taranto, di preparasi a partire per le acque ottomane.

Avvisammo pure le Potenze che la nuova tergiversazione dei turchi rendeva ormai inevitabile l'azione militare da cui ci eravamo astenuti oltre il limite fissato dal nostro ultimatum, e per la quale, dopo lo scoppio, avvenuto in quei giorni, della guerra balcanica, non c'era più ragione di alcuna limitazione. La nostra intenzione, nel caso la guerra fosse ripresa, era di attaccare le fortificazioni di Smirne, e di tagliare, nella Turchia europea, il nodo ferroviario di Dedeagatch , il che avrebbe creato imbarazzi gravissimi alla Turchia nella sua mobilitazione per fronteggiare l'attacco della Bulgaria e della Grecia, in quanto sarebbero state rotte tutte le  comunicazioni  fra Costantinopoli  e Salonicco.

I nostri delegati ad Ouchy, che sino dal primo momento, ricevendo la nuova comunicazione dei delegati ottomani, avevano protestato dichiarando inaccettabili le nuove proposte, essendosi fatta la convinzione che all'ultimo la Turchia avrebbe ceduto, mi chiesero la facoltà di dare un altro brevissimo termine alla Turchia per la firma del trattato. Io consentii di concedere un ultimo termine sino alla mezzanotte del 15, senza impegnarmi però a sospendere una eventuale azione della nostra flotta. Questa volta i dispacci dei suoi fiduciari al Governo turco ebbero finalmente l'effetto di persuaderlo che l'ultimo limite delle tergiversazioni era raggiunto. Un Consiglio dei Ministri, convocato la mattina del 14, riesaminò, sotto l'impressione del nostro nuovo ultimatum, la questione costituzionale che era stata sollevata a pretesto delle antecedenti tergiversazioni, e fu scoperta che un articolo della costituzione turca dava facoltà al governo, in caso di pericolo nazionale, di fare la pace per decreto-legge,  senza  aspettare l'approvazione del Parlamento. Ed alla sera dello stesso giorno i delegati turchi annunciarono ai nostri di avere ricevuto dal loro governo istruzioni di firmare il testo nostro dell'accordo preliminare, avanzando però ancora a quell'ultimo momento, qualche richiesta di modificazioni, alcune ragionevoli, altre insidiose.

Si proponeva di togliere dal firmano il preambolo col quale il Sultano riconosceva di non potere più difendere la Libia; ed io risposi che consentivo a modificare le frasi che potessero parere offensive al decoro militare turco, conservando però la sostanza, e sopra tutto l'esortazione agli arabi di fare la pace; in caso diverso avrei abolito anche l'annunzio della nomina del rappresentante del Sultano. Si domandava che nel nostro decreto di amnistia agli arabi fosse cancellato il riferimento alla nostra legge di sovranità del 5 febbraio; e l'insidia di tale proposta, la cui accettazione sarebbe stata per noi vergognosa, non ha bisogno di spiegazione. Si obbiettava a che fosse introdotta nel trattato la questione di Idriss, apparendo umiliante che il Governo turco dovesse prendere impegni con un'altra Potenza pel trattamento di un ribelle; ed io consentii a che la questione di Idriss fosse risolta con un atto spontaneo di amnistia da parte del Sultano. Si chiedeva ancora che l'annualità del debito ottomano da trarsi dai redditi della Libia fosse capitalizzata in una somma pagabile immediatamente, ed a questo anche consentii, preferendo anzi io stesso di liquidare senz'altro  questa  pendenza,   perchè  non  ci  fosse  poi l'apparenza che noi pagassimo annualmente un tributo.

Poi si avanzava una domanda di carattere politico assai importante, e cioè che noi c'impegnassimo a sostenere la Turchia nella sua politica balcanica; domanda che in quella forma, e di fronte alla situazione che ormai precipitava, era inaccettabile, perchè ci avrebbe potuto mettere in seri imbarazzi con le altre Potenze; ed io risposi limitandomi a dare assicurazioni del nostro buon volere riguardo al problema della integrità dell'Impero ottomano in Europa ed in Asia, sempre subordinatamente agli avvenimenti. E la discussione giunse così, per quanto riguardava la sostanza del trattato, al suo termine, i delegati turchi avendo del resto istruzioni di tentare sì di ottenere codeste ultime concessioni, ma alla fine di firmare in ogni caso.

Devo pure ricordare che, in quell'ultimo momento, alcune, delle Potenze credettero finalmente conveniente di esercitare la loro influenza per la pace. L' ambasciatore tedesco Waggenheim, e quello austriaco Pallavicini, ricevettero istruzioni, per iniziativa della Germania, e dopo uno scambio di vedute fra Berlino e Vienna, di agire fermamente presso la Porta; ed in tale senso agì pure, quantunque in maniera indipendente, l'ambasciatore americano. L'Inghilterra si astenne, sopratutto per lo scrupolo personale dei doveri della neutralità, che era fortissimo in Sir Edward Grey, ed anche per la preoccupazione di possibili ripercussioni di malcontento nel vasto mondo ottomano, sottoposto al dominio inglese in India ed altrove.

Anche dopo questo non ci trovammo del tutto fuori dagli imbrogli e dalle insidie; perchè si scoperse che, o per disordine o per malafede, i poteri inviati da Costantinopoli ai delegati turchi non erano validi, recando solo la firma del Ministro degli Esteri: al che potemmo rimediare senza ulteriore perdita di tempo, facendo depositare il documento genuino dei pieni poteri presso l'ambasciata di Germania a Costantinopoli, che lo prese in consegna e lo verificò, dandocene notifica ufficiale. E così, la sera del 15 ottobre, alle, ore diciotto, prima che spirasse l'ultima dilazione da noi accordata, l'accordo preliminare della pace fu finalmente e regolarmente firmato. E la sera stessa, per richiesta dei delegati turchi, noi ordinammo in Libia la sospensione delle ostilità, mentre alla loro volta i delegati turchi telegrafarono a Costantinopoli di applicare nuovamente il regime doganale normale alle merci italiane.

Il firmano del Sultano, contenente la proclamazione dell'autonomia della Libia, e l'iradè riguardo le isole e quello per Idriss furono firmati dal Sultano il giorno 16 e promulgati il giorno dopo; nel qual giorno fu pure firmato dal Re d'Italia il decreto di amnistia agli arabi e la proclamazione della libertà religiosa per la Libia. Il giorno 18, alle ore 15,45 fu infine firmato ad Ouchy il trattato di pace. Lo stesso giorno io deliberai, informandone il Re, di istituire il Ministero delle Colonie, e telegrafai a Bertolini pregandolo di accettarlo, come poi egli fece. Seguì il riconoscimento, da parte delle Potenze, alla nostra sovranità sulla Libia. La prima a dichiararlo fu la Russia, il giorno 16 ottobre, il 17 e il 18 seguirono l'Austria e la Germania; il 19 l'Inghilterra, e qualche giorno appresso la Francia. Il giorno 20 i nostri delegati giunsero a Roma portando il testo del Trattato; ed il giorno 22 il generale Tassoni inviò da Zuara al campo turco di Garbia il capitano Camera pel disarmo delle truppe turche, che fu effettuato senza alcun incaglio. E verso la fine di novembre il Trattato fu ratificato dal Parlamento.

La condotta, sia politica e diplomatica, sia militare di questa singolare guerra svoltasi in condizioni veramente eccezionali; come pure la conclusione della pace dettero luogo a critiche di ogni genere, alle quali io risposi, nei limiti allora consentiti dalle convenienze internazionali, in un discorso che chiuse una lunga discussione parlamentare nei primi giorni del marzo 1914. Oggi, che molte delle ragioni di riserbo diplomatico sono venute meno, quelle critiche possono essere esaminate alla luce di più larghe e precise informazioni.

Come avviene sempre in tale genere di cose, le critiche si contradicevano; alcune accusandoci addirittura di avere fatto la guerra o di avere fatto troppo, e di non avere scelto il momento opportuno; mentre altre ci accusavano di essere stati incerti e timidi  e  di   avere  fatto   troppo   poco.  

I   critici  del primo gruppo ci rimproveravano di avere dichiarata formalmente guerra alla Turchia, sostenendo che avremmo dovuto semplicemente occupare i territori in questione, come si sarebbe potuta compiere una qualunque occupazione coloniale. Al che si risponde, in primo luogo che la Libia formava parte integrale dell' Impero ottomano, e che l'occupare un territorio di una grande Potenza senza previa dichiarazione di guerra avrebbe costituita una violazione del diritto internazionale; e in secondo luogo che se non avessimo fatta la formale dichiarazione di guerra, non avremmo avuto il diritto di impedire il contrabbando, per l'esercizio del quale diritto Io stato di guerra è necessario. Gli stessi critici ci rimproveravano di non avere scelto il momento opportuno, sostenendo la tesi che prima di agire avremmo dovuto aspettare almeno di vedere se qualche altra Potenza tradiva l'intenzione di prevenirci; ci. accusavano pure di non avere fatta la necessaria preparazione diplomatica, e sopratutto insistevano sulla intempestività della proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, la quale, a loro avviso aveva avuto l'effetto di prolungare la guerra e di renderne più diffìcile la soluzione. Alla maggior parte di queste critiche ho già incidentalmente risposto con la precedente narrazione dei dietroscena diplomatici degli avvenimenti, che fino ad ora erano rimasti in massima parte ignoti o erano conosciuti solo in modo frammentario.

Alla luce di codesta narrazione  cadono  anche  quelle  critiche  le   quali, nell'ignoranza dei fatti, potevano apparire più plausibili; dovendo oggi essere evidente ad ognuno che l'omissione o il ritardo della proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, avrebbe forse risparmiate parecchie difficoltà a quel governo che si fosse contentato di concessioni secondarie; ma avrebbe tramandato ai suoi successori difficoltà assai più gravi di quelle che io avevo creduto doveroso affrontare per risolvere radicalmente il problema. E c'era infine un'ultima critica, che traeva apparenza di fondamento dalle difficoltà che rimanevano ancora per stabilire la nostra autorità sull'intero territorio conquistato; e della quale si era fatto portavoce l'on. Bissolati, che pure era stato un genuino fautore dell'impresa. Il Bissolati sosteneva insomma la tesi che noi avremmo dovuto limitare la nostra occupazione alla costa, aspettando che le popolazioni dell'interno venissero poi a noi spontaneamente. Nel mio pensiero, se avessimo fatto ciò, la nuova colonia sarebbe stata per noi pressoché inutile, ed avremmo avuto uno stato permanente di guerra con gli abitanti dell'interno, che non si sarebbero resi conto di quella nostra condotta. Peggio ancora; essendo stati quei territori proclamati da noi e riconosciuti da tutte le Potenze come territori italiani; se le popolazioni dell'interno, abbandonate a se stesse, avessero fatto, come era da aspettarsi, incursioni a danno dei paesi vicini, o dalla parte della Tunisia o dalla parte dell'Egitto, quei governi avrebbero avuto il diritto di porci questo dilemma: o provvedete perchè la sicurezza sia mantenuta nella frontiera, o avremo diritto di provvedere noi.

Più vivace e clamorosa, e forse più ascoltata dalla opinione pubblica, era quell'altra schiera di critici che ci rimproveravano di avere fatto troppo poco. E che si suddividevano poi in due specie: quella degli umanitari, che avrebbero voluto che noi coglies-simo quell'occasione per una universale crociata di liberazione delle popolazioni cristiane e delle nazionalità oppresse che rimanevano ancora sotto il giogo ottomano; e quella dei nazionalisti, secondo i quali si sarebbe dovuto fare una grande guerra, che dimostrasse tutta la forza dell'Italia, e che fosse sino dall'inizio diretta a colpire la Turchia nei suoi punti più vitali.

Anche la risposta a tale critica è contenuta in grande parte nella narrazione da me fatta dei dietro-scena diplomatici, i quali mostrano fra quali difficoltà noi dovemmo muoverci, e con quanta prudenzja dovemmo manovrare per evitare che quella ostilità universale che la nostra impresa incontrò sino dal principio da parte dell'alta banca, e per riflesso nella massima parte della stampa e della pubblica opinione europea, non finisse per travolgere anche i governi i quali, pure sollevandoci di tratto in tratto difficoltà, non ci crearono mai dei veri e seri imbarazzi. Del resto, attaccare la Turchia nelle parti vitali, era una bella frase che non trovava però corrispondenza nella realtà; perchè, anche quando noi ritenemmo conveniente di spostare la guerra dalla Libia all'Egeo, da qualunque parte ci rivolgevamo ci trovavamo di fronte interessi inglesi, tedeschi, russi, francesi, e perfino americani; ma interessi turchi, mai. La Turchia era, per così dire, corazzata dai debiti di ogni specie che aveva verso tutti i grandi Stati ed i loro cittadini. Questa condizione di cose c'imponeva dei riguardi; ma debbo aggiungere che tali riguardi coincidevano coi nostri stessi interessi, essendo evidente che a noi non conveniva, né che la questione di Oriente si aprisse mentre eravamo impegnati nella Libia, né che una qualunque nostra azione desse pretesto ad altri, e particolarmente all'Austria, di avanzarsi nei Balcani.

La storia diplomatica della guerra, quale ho narrata, mostra come noi dovessimo avere sempre, occhio a che l'Austria non profittasse della situazione per risolvere a nostro danno il problema, per noi di primissima importanza, dell'Albania. Questi critici avrebbero pure, voluto che noi avessimo spinto avanti con maggiore rapidità ed energia le operazioni nell'interno della Libia. Ma ad una tale più rapida azione avrebbe, corrisposto un assai maggiore sacrifizio di vite umane. Ora, se in una guerra nazionale, per la difesa del suolo della patria, non si deve guardare al numero delle vittime, io penso che invece in una guerra coloniale si adempia ad uno stretto dovere, evitando un inutile spargimento di sangue.

Io pensavo, e mantengo questo convincimento, che il successo di una impresa non debba misurarsi affatto dalla teatrale grandiosità dei mezzi e dei modi con cui viene conseguito; ma anzi dall'uso sobrio
dei mezzi atti al suo conseguimento. Noi ci eravamo
proposta semplicemente la conquista della Libia, ed
a tale scopo avevamo predisposti tanto i mezzi diplomatici quanto quelli militari; l'esserci riusciti senza bisogno di ricorrere a colpi di audacia che implicavano rischi corrispondenti, e senza provocare
l'apertura di altre questioni e di altri conflitti, conseguendo all'ultimo precisamente gli scopi che ci eravamo proposti sino dal primo giorno, fu, amio parere,
il merito maggiore del governo.

Malauguratamente
pochi sono coloro che riescono a mantenersi immuni dall'eccitazione particolare che. accompagna
qualunque guerra; e come, esempio di ciò, io ricordo una strana proposta che mi fu fatta, ad un certo
momento, dal nostro Capo di Stato Maggiore, il generale Pollio, che pure, era uomo di molto e ponderato ingegno. Egli mi trasmise un documento in
cui, dopo avere esaminati i vari aspetti della situazione e la difficoltà di risolverla, proponeva che,
per trovare una soluzione decisiva, noi facessimo
una grande spedizione militare nell'Asia Minore, sbarcando a Smirne. Attaccare così l'Asia Minore significava impegnarci là dove la Turchia aveva la sua massima forza, e, prescindendo dalle difficoltà militari
dell'impresa, che avrebbe richiesto l'impiego di almeno centomila uomini, c'era la questione politica internazionale da considerare. Il generale Pollio se ne
sbrigava osservando che, qualora quella nostra mossa
avesse sollevata l'ostilità delle Grandi Potenze, l'Italia
avrebbe potuto abbandonare l'impresa e rimbarcare le sue truppe senza umiliazione, cedendo alla forza maggiore!

La pace fu generalmente bene accolta, nel Parlamento, nella stampa e nel paese. Non mancarono però le critiche anche per essa, specialmente da parte di coloro che avrebbero voluto che, scoppiata la guerra balcanica, noi avessimo colta l'occasione di una maggiore guerra, mettendoci alla testa dei nuovi nemici della Turchia, o almeno aspettandone la soluzione. Per me invece lo scoppio della guerra balcanica era una nuova e potente ragione perchè noi dovessimo procurare in ogni modo che la questione nostra fosse liquidata prima ed a parte, affinchè la fine di quella guerra ci trovasse, fra i giudici e non fra  coloro che dovevano  essere giudicati.

Infine c'è stata una critica postuma, che vorrebbe attribuire alla guerra di Libia la prima responsabilità della catastrofe consumatasi negli anni susseguenti, quasi che essa fosse stata il primo anello della catena di avvenimenti che condusse alla guerra europea e mondiale. Ma non c'è alcuna ragione perchè in quella catena non si risalga ad avvenimenti anteriori, quali la lunga questione del Marocco e quella della Bosnia Erzegovina, le quali minacciarono di per sé stesse di fare, scoppiare la guerra europea, tenendo preoccupata per più anni la pubblica opinione ed i governi; mentre la guerra nostra fu giustamente considerata sino dal principio come un episodio distaccato. Del resto i germi della guerra balcanica erano già da parecchi anni contenuti nella situazione formatasi in quel paese, e che dovesse scoppiare era da tempo preoccupazione generale; soltanto si pensava che la Turchia avrebbe avuto facilmente ragione dei piccoli Stati balcanici, e la situazione avrebbe poi dovuto essere regolata da una Conferenza europea.

La sconfitta turca condusse del resto ad un nuovo assetto di quei paesi, più radicale e soddisfacente, perchè corrispondeva nel complesso alla divisione delle nazionalità che in essi vivevano. Tale assetto ha sopravvissuto nelle grandi linee alla guerra europea stessa, il che dimostra che esso non dava ragioni e motivi legittimi o inevitabili alla guerra mondiale, a provocare la quale concorsero altre cause, fra cui principalissime le provocazioni e le ambizioni del partito militare di Vienna.

XV

Le conseguenze della guerra balcanica e un duplice tentativo d'aggressione dell'Austria.

La rinnovazione della Triplice Alleanza e le sue ragioni — La grave questione albanese — Le  aggressioni  serbo-montenegrine e greche —Scutari ed il Canale di Corfù — Pericoli e minacce fra l'Austria e la Russia — Proposta austriaca all' Italia contro il Montenegro — Mio rifiuto motivato dalla convinzione che quell'azione avrebbe portato alla guerra europea — Scambio di dispacci e lettere fra me e San Giuliano — Pressioni dell'Imperatore Guglielmo — La Conferenza degli ambasciatori — La questione del Dodecaneso: rigido atteggiamento dell' Inghilterra — Compromissione della Francia per la Grecia — Mantengo fermo il punto di vista italiano, che è accettato — Secondo tentativo di aggressione dell'Austria contro la Serbia —Io nego l'intervento italiano mancando il casus foederis — Gli accordi per l'Asia Minore — Il pacifismo dell'Imperatore Guglielmo.


Circa due mesi dopo la fine della guerra di Libia e la conclusione della pace con la Turchia, e precisamente il 5 dicembre 1912, noi addivenimmo al rinnovamento della Triplice Alleanza, in anticipo di alcuni mesi sulla data valida per la denunzia.

Già durante la guerra libica la Germania e l'Austria avevano avanzata la proposta del rinnovamento anticipato; e quella loro proposta ci era pervenuta appunto subito dopo gli incidenti sorti fra noi e la Francia per il fermo e la visita del Manouba e del Carthage. Quegli incidenti in verità avevano fatta una forte impressione sulla pubblica opinione, spegnendo in buona parte quei sentimenti di più viva cordialità verso la Francia, che il suo contegno amichevole verso di noi in relazione alla guerra di Libia aveva nei primi mesi diffuso nel pubblico italiano; e si comprende che le nostre antiche alleate ritenessero opportuno di profittare di quella occasione per avanzare la loro proposta. Quella offerta ad ogni modo costituiva un atto molto amichevole verso di noi, perchè rinnovare l'alleanza in un momento in cui l'Italia era impegnata in una guerra, assumeva un notevole significato politico, ed equivaleva a fare sapere a tutto il mondo che la Germania e l'Austria, non ostante i loro particolari interessi nella Turchia, erano d'accordo con noi.

La importanza di questo aspetto dell'offerta fattaci non poteva certo essere disconosciuta, ed io risposi ai due governi che apprezzavo assai il sentimento amichevole che li induceva alla loro proposta; ma osservavo che avendo noi già emanato il Decreto di sovranità della Libia, era per noi condizione sine qua non che nel rinnovamento del Trattato d'alleanza, questo nostro possesso venisse esplicitamente riconosciuto. La Germania e l'Austria risposero che, avendo esse dichiarato allo scoppio della nostra guerra con la Turchia la loro neutralità, non avrebbero potuto, senza venir meno ai loro obblighi, stipulare un trattato in cui fosse riconosciuto come già a noi appartenente ciò che formava l'oggetto della contestazione ed era stato la ragione della guerra. A mia volta dovetti riconoscere la giustezza di codeste obbiezioni; e rimase convenuto che si sarebbe proceduto al rinnovamento dell'Alleanza appena la Germania e l'Austria avessero potuto riconoscere la nostra sovranità secondo il diritto internazionale. E così, appena la guerra fu conclusa, l'Alleanza fu rinnovata senza alcuna modificazione.

Io veramente avrei voluto introdurre nel corpo del trattato gli altri accordi che avevamo concluso con l'Austria nell'intervallo intercorso dopo l'ultimo rinnovamento; uno dei quali si riferiva espressamente all'Albania e l'altro, concluso nel 1909 e mantenuto segreto, contemplava gli interessi generali delle due Potenze nei Balcani e stabiliva reciproci impegni; perchè mi pareva conveniente che tutti gli accordi esistenti fra gli alleati fossero contemplati in un unico trattato. Ma l'Austria e la Germania non accedettero a questa mia proposta, avanzando l'obbiezione che esse desideravano di trovarsi in condizione, sia per ragioni di politica interna che di politica estera, di potere dichiarare che il trattato era rimasto inalterato, per non fare nascere dei sospetti che qualche cosa vi fosse stato introdotto che ne snaturasse il carattere, già ben noto, di trattato puramente  difensivo;  ed  io   non  insistei.

Al rinnovamento della Triplice Alleanza, fatto un anno e mezzo circa avanti lo scoppio della guerra europea, e contro il quale al momento in cui ebbe luogo non furono fatte obbiezioni di qualche peso né all'interno né all'estero, se non da parte di coloro che erano  stati  sempre  nemici  dichiarati di  quell'alleanza, sono state fatte in seguito critiche postume, dal punto di vista degli avvenimenti capitati poi; e fra l'altro si è detto che il rinnovamento dell' alleanza con gli Imperi centrali fu un errore, perchè sino da allora non mancavano indizi di un grave pericolo di guerra. Coloro che ragionano a questo modo, confondono la situazione dell'uomo politico che deve agire sulla realtà immediata, e dal quale non si può pretendere la qualità del profeta, con quella del critico e dello storico, che si trovano nella condizione assai più comoda di giudicare sui fatti compiuti. È assai facile, fra l'altro, dopo che gli avvenimenti si sono compiuti, trovare anche in incidenti mediocri e trascurabili gli indizi di ciò che doveva avvenire; quegli incidenti ricevendo nuova luce ed assumendo una nuova importanza per ciò che è poi avvenuto. Ma, a chi si metta nella giusta prospettiva apparirà che, non ostante le innegabili velleità aggressive del partito militarista austriaco, propositi e minacce di guerra non si erano in quel tempo manifestati, e che anzi si poteva avere giusta ragione di sperare in un periodo di pace, in quanto non poche delle situazioni minacciose, che negli anni precedenti avevano preoccupata l'Europa, si erano risolte: basta nominare fra le altre la questione della Bosnia-Erzegovina e quella del Marocco.

La stessa situazione balcanica che da sì lungo tempo aveva tenuta inquieta l'Europa, specialmente orientale, aveva avuta con la vittoria degli Stati balcanici alleati contro la Turchia, una soluzione rispondente nella massima parte ai diritti delle nazionalità, con la quasi totale cacciata della Turchia dall'Europa. Quella soluzione era indubbiamente contraria alle ambizioni austriache, donde gli incidenti a cui ora si dà l'importanza di indizi infallibili; ma bisogna pure aggiungere che la Germania, senza il cui beneplacito l'Austria non avrebbe certo potuto assumersi la responsabilità di provocare una guerra, era sempre intervenuta con propositi e risultati pacifici.

D'altra parte è d'uopo tenere bene presente che i rapporti fra l'Austria e l'Italia, sia per la questione delle provincie irredente, sia pel contrasto degli interessi nostri con quelli austriaci nei Balcani ed in Albania specialmente, erano tali, che un dilemma si poneva rigidamente: i due paesi dovevano essere o alleati o nemici decisi; ed un nostro rifiuto di rinnovare l'Alleanza sarebbe apparso come un proposito da parte dell'Italia di mettersi di fronte all'Austria in una posizione di ostilità dichiarata; ed in tal caso c'era ogni ragione di temere che l'elemento militare austriaco, che verso di noi era stato sempre nemico, non avrebbe mancato di profittare del pretesto del nostro rifiuto, per dare seguito ai suoi propositi ostili verso l'Italia,

Per la stessa ragione, dunque, per la quale, come vedremo qui appresso,, io mi ero costantemente adoperato a impedire che l'Austria ci impigliasse in una qualunque avventura che potesse precipitare ad una guerra, io dovevo pure procurare che una situazione pericolosa non si formasse fra l'Austria e noi.

D'altra parte è bene qui ricordare che sino da quando io assunsi per la prima volta la responsabilità della politica italiana, mi ero adoperato con ogni mezzo a togliere alla Triplice Alleanza, per quanto spettava all'Italia, qualunque aspetto pure lontanamente aggressivo; ed a questo scopo avevo lavorato a migliorare i nostri rapporti con la Francia, poi a stringere rapporti con la Russia, mantenendo sempre la tradizionale nostra amicizia con l'Inghilterra. Codesta politica italiana conciliante e pacifica era stata sempre condotta apertamente; ed il fatto che essa non avesse dato mai ragione o occasione ad obbiezioni da parte della Germania e dell'Austria riconfermava nel modo più autorevole la legittimità della nostra interpretazione della Triplice, come di un'alleanza pacifica ed essenzialmente difensiva.

Come ho già accennato, le ultime giornate delle trattative nostre con la Turchia per la conclusione della guerra di Libia, coincisero con lo scoppio della prima guerra balcanica. Che qualche azione decisiva nella Balcania si stesse da tempo preparando, noi avevamo avuto informazioni dai nostri rappresentanti; già alcuni mesi avanti il Venizelos ci aveva fatta la proposta di unirsi a noi nella guerra contro la Turchia, proponendoci di invadere la Macedonia con centocinquantamila uomini. I nostri impegni ed i nostri interessi erano contrari in quel momento a che venisse sollevata la questione ottomana, e non solo avevamo rifiutata l'offerta, ma avevamo anche dato a Venizelos consigli di prudenza e di pace.

Le Potenze più interessate nei Balcani, avendo a mente le gelosie e le rivalità fra gli Stati balcanici, che la Turchia aveva sempre saputo abilmente sfruttare, non credettero, fino quasi all'ultimo, alla possibilità che si formasse la Lega balcanica contro la Turchia. Quelle loro impressioni furono smentite in una prima fase dai fatti, perchè la Lega si formò e riuscì, pure contro le aspettazioni quasi generali, ad abbattere la potenza militare turca; ma poi in una seconda fase furono confermate dallo scoppio della seconda guerra balcanica, suscitata appunto dalle rivalità e gelosie fra i vincitori.

La diplomazia europea, che prima che la guerra scoppiasse si era limitata a fare dei moniti e delle riserve, finì per accettarne complessivamente i risultati, intervenendo con decisioni particolari su un solo punto; la questione dell'Albania. Gli albanesi avevano combattuto lealmente a fianco dei turchi; ma dopo la sconfitta si trovavano separati a grande distanza dal centro dell'Impero ottomano, ed era ovvio che la costituzione di uno Stato albanese autonomo s'imponeva. Per questo rispetto le Grandi Potenze erano d'accordo e per conto nostro ci trovammo anzi ravvicinati all'Austria per la difesa di un comune interesse. Le difficoltà però sorgevano riguardo alla delimitazione delle frontiere albanesi, che erano attaccate, da settentrione ed oriente dalla Serbia, che voleva avere Giacova ed un porto sull'Adriatico, e dal Montenegro che mirava ad impadronirsi di Scutari; ed a mezzogiorno dalla Grecia, che cercava di allargare oltre ogni limite le frontiere dell' Epiro. Queste ambizioni erano sostenute per la Serbia ed il Montenegro dalla Russia, che perseguiva la sua politica slava, e per la Grecia dall'Inghilterra e con maggior fervore dalla Francia.

Ora, siccome continuava lo stato di guerra contro l'Albania, quale parte dell'Impero ottomano, la Grecia l'invadeva nel mezzogiorno,, e la Serbia e il Montenegro nel settentrione; la prima cercando di arrivare al mare e il Montenegro particolarmente tentando con ogni sforzo di impadronirsi di Scutari. L'Italia e l'Austria invece si trovavano d'accordo nel difendere l'integrità dell'Albania, la quale non avrebbe potuto costituire uno Stato vitale se fosse stata troppo mutilata; l'Austria preoccupandosi sopratutto di impedire l'avanzata verso l'Adriatico della Serbia e del Montenegro, e noi di evitare che entrambe le sponde del canale di Corfù cadessero nelle mani della Grecia; il che avrebbe peggiorata assai, secondo il giudizio della marina, la nostra situazione strategica nel mar Jonio. La Germania appoggiava l'Austria e l'Italia, pure mostrando una certa benevolenza verso la Grecia, parte per ragioni dinastiche, una sorella del Kaiser avendo sposato l'erede del trono di Grecia, che poi è stato Re Costantino, e parte perchè sperava di distogliere la Grecia dalla Triplice Intesa e di attrarla nell'orbita sua.

Già sin d'allora, secondo nostre informazioni, pareva che Costantino fosse personalmente assai favorevole a questo mutamento nell'orientamento della politica greca e che la Germania vi contasse sopra; e la guerra europea mostrò poi che quelle informazioni non erano infondate.

Da questa complicata condizione di cose, risultava una situazione assai pericolosa, e che, a certi momenti appariva quasi insolubile. Fortunatamente i consigli di moderazione e la buona volontà di evitare guai peggiori avevano allora la prevalenza, non ostante il contrasto delle tendenze e degli interessi, in entrambi i gruppi delle Grandi Potenze; e si finì per deliberare che la soluzione delle questioni più intricate e minacciose fosse affidata ad una Conferenza di Ambasciatori, convocata a Londra nei primi mesi del 1913.

Le discussioni di quella Conferenza procedettero in modo assai amichevole; l'Austria, per dare soddisfazione alla Russia, finì per rinunciare alla sua opposizione contro l'assegnazione di Giacova alla Serbia; ed alla sua volta la Russia riconobbe che Scutari, assediata e bombardata dai montenegrini, dovesse rimanere all'Albania. Ma il Montenegro, non solo si ostinava a non cedere alla volontà unanime delle Potenze, ma assumeva pure un atteggiamento provocatore contro l'Austria, tanto da ingenerare anche il sospetto che volesse suscitare un conflitto che gli desse modo di uscire dalla insostenibile situazione in cui si era messo. Tale atteggiamento del Montenegro faceva d'altra parte il giuoco del partito militarista e di altri interessi austriaci, i quali avevano subito mal volentieri la nuova situazione creatasi nei Balcani per la vittoria, prima dei piccoli Stati contro la Turchia, poi della Serbia, Rumenia e Grecia contro la Bulgaria; in quanto i risultati di quegli avvenimenti sembravano tagliare la strada al vecchio programma austriaco di espansione orientale e di discesa al Mare Egeo per la via di Salonicco.

Il partito militarista, dopo la morte dell'Aerenthal e l'avvento del Berchtold, che non possedeva né autorità nò prestigio, faceva sentire assai la sua influenza al Ministero degli Esteri austroungarico; ed indubbiamente furono dovuti alla sua azione due gravi tentativi di aggressione dell'Austria, prima contro il Montenegro, poi contro la Serbia, e nei quali si tentò di coinvolgere l'Italia. All'infuori di una mia breve dichiarazione fatta quando era già scoppiata la guerra europea, ma durava ancora la neutralità italiana, al Parlamento italiano nel novembre del 1914, niente si è risaputo di quegli episodi diplomatici, che se non fossero stati sventati avrebbero condotto allo scoppio della guerra europea un anno avanti. Credo opportuno e interessante raccontarne ora l'intera storia, tanto più che la contingenza che in entrambi quei momenti io mi trovassi fuori di Roma, ha portato che ne sia rimasta nelle mie mani l'intera documentazione. E che essi fossero compiuti durante la mia assenza da Roma, non era un semplice caso.

L'ambasciatore austro-ungarico di quel tempo a Roma, conte Merey, era uno strano personaggio, che si permetteva spesso l'uso di modi e di un linguaggio non troppo diplomatici. Di quella sua inclinazione, che poteva anche corrispondere ad istruzioni trasmessegli da Vienna, egli aveva abusato durante la guerra, facendo nascere in quelli con cui trattava, e cioè in me e San Giuliano, la velleità di metterlo alla porta. Siccome però in quella situazione non era il caso di provocare uno scandalo diplomatico, io, in risposta alle sue burbanze, avevo adottato il sistema di mostrargli chiaramente che non lo prendevo sul serio. Così ricordo che una volta egli mi aveva chiesto un colloquio di urgenza, ed arrivando nel mio ufficio mi aveva fatta una protesta perchè in Corso Vittorio Emanuele era stato aperto un negozio con la scritta «Trento e Trieste». Io gli avevo risposto che se egli avesse spinto più avanti la sua passeggiata, avrebbe trovato un altro negozio intitolato «Alla Città di Vienna». Per queste ragioni il Merey evitava di trattare meco, lamentando che io lo prendessi in giro, e non c'era da meravigliarsi che egli, per eseguire certe istruzioni che gli venivano dal suo governo, profittasse dei momenti in cui ero lontano da Roma.

Ecco ora come si svolsero le cose. Il nostro ambasciatore a Londra, Marchese Imperiali, ci aveva informati che l'ambasciatore tedesco, di ordine del suo governo, aveva presentato a Sir Edward Grey un memoriale per attirare la sua attenzione sulla necessità di una pronta ed energica azione collettiva, allo scopo di costringere la Serbia e il Montenegro ad  inchinarsi  dinanzi  alle  decisioni delle   Potenze
sulla questione dei confini albanesi. Quel pro-memoria, dopo un esame della situazione, accennava, sebbene in tono dubitativo, alla convenienza di affidare eventualmente ad una o più potenze il mandato di fare rispettare dalla Serbia e dal Montenegro le decisioni delle Grandi Potenze. Grey aveva risposto che egli pure aveva dati dei moniti, ma che non credeva si potesse procedere a un passo collettivo quando la Russia si mostrasse contraria. Ed aveva aggiunto non essere sicuro sino a che punto l'Italia accetterebbe il mandato proposto, o gradirebbe che fosse dato all'Austria.

San Giuliano, in relazione, all'eventualità di un mandato all'Austria, aveva subito incaricato il nostro ambasciatore a Berlino, il Bollati, di dichiarare a Von Jagow che l'Italia si sarebbe opposta recisamente a tale mandato, anche a costo di votare con la Triplice Intesa contro gli alleati, perchè nelle circostanze il mandato sarebbe risultato in pratica nella conquista da parte dell'Austria di territori balcanici; ed io avevo approvato tale dichiarazione. Il giorno slesso il Merey aveva portata al San Giuliano la proposta di una dimostrazione navale contro il Montenegro, chiedendo che l'Italia si associasse all'Austria in questa dimostrazione. Il San Giuliano, nel darmi comunicazione di questo passo, pure dichiarando che una occupazione territoriale, anche provvisoria, da parte dell'Austria dovesse evitarsi ad ogni costo, osservava che per evidenti ragioni poteva essere necessario di partecipare alla dimostrazione navale. Io, pensando che una dimostrazione navale contro un paese di
montagna sarebbe finita necessariamente con uno
sbarco, risposi a San Giuliano nei termini seguenti:
— Sono assolutamente contrario a partecipare ad
una dimostrazione navale. Questa, o finisce nel ridicolo se non è seguita da sbarco di truppe, o costituisce l'inizio di una guerra europea se si sviluppa in una vera azione militare. Questo nuovo atteggiamento dell'Austria significa che in essa ha
preso il sopravvento l'elemento militare, e il suo
invito tende a pregiudicare la nostra libertà di azione e a metterci mani e piedi legati al servizio di
essa. Il mandare navi da guerra a Scutari costituisce qualche cosa di più che una semplice dimostrazione, perchè per trasportare gli abitanti di Scutari
bastano navi commerciali. Quindi sono d'avviso che
si debba rispondere negativamente.

Il San Giuliano, che si preoccupava assai di contrastare l'influenza austriaca nell'Albania, nella stessa giornata
mi telegrafò ancora richiamando la mia attenzione
sul danno che deriverebbe alla influenza nostra, se
l'Austria, agendo da sola, si guadagnasse sola la riconoscenza degli albanesi. Aggiungeva che la Germania non voleva la dimostrazione navale; ma che
se questa dovesse avere luogo, desiderava che vi partecipasse pure l'Italia. Io gli risposi ancora con questo
telegramma: — Nel giudicare la condotta da tenere
nei rapporti con l'Austria, occorre tenere conto del
fatto che il Merey fa quanto può per spingere alla
guerra. La dimostrazione militare, se fatta seriamente costringerebbe la Russia ad attaccare l'Austria, e, se noi avessimo partecipato alla dimostrazione saremmo fatalmente costretti a partecipare alla guerra. Questo è il fine dell'azione del Merey. Se l'Austria non è certa della nostra partecipazione, eviterà ad ogni costo la guerra. La, Germania vuole la pace e quindi non vuole la dimostrazione navale; ma se questa ha luogo desidera che noi vi partecipiamo per avere la certezza che. in ogni caso saremo costretti a partecipare alla guerra. L'umanitarismo dell'Austria è molto sospetto,, tanto più che secondo il diritto delle genti, il Montenegro che è in guerra con la Turchia, ha diritto, di attaccare le fortezze turche. Quanto alla, considerazione che se, l'Austria agisce sola, l'Albania sarà riconoscente a lei sola, io non vi do importanza alcuna perchè la gratitudine fra i popoli non esiste; o. almeno tale considerazione è affatto secondaria di fronte alla quasi certezza che la nostra azione scatenerebbe la guerra europea, mentre l'Austria, se lasciata sola, forse se ne asterrà».

Questo scambio di telegrammi fra me e il San Giuliano continuò nei giorni seguenti; perchè egli si rendeva perfettamente conto della gravità delle obbiezioni mie, ma si allarmava pure all'idea che l'Austria, agendo da sola, creasse un pericoloso precedente a nostro danno nell'Albania. Lo svolgersi, assai rapido, degli avvenimenti avvalorò tuttavia sempre maggiormente la mia tesi. Anzitutto la Conferenza degli Ambasciatori a Londra aveva presa all'unanimità una deliberazione che doveva dare piena  soddisfazione
alle apprensioni che l'Austria ostentava, in quanto che essa aveva deciso, in base ad una proposta di Sir Edward Grey, che le Potenze, a mezzo dei loro rappresentanti a Cettigne ed a Belgrado facessero un passo collettivo per dichiarare che la delimitazione delle frontiere dell'Albania era riservata alle Grandi Potenze, e che sino a che tale delimitazione fosse fatta, nessuna azione della Serbia e del Montenegro in Albania avrebbe l'effetto di creare dei diritti acquisiti; aggiungendo più particolarmente riguardo a Scutari che il suo destino, anche se essa fosse caduta, sarebbe deciso dalla volontà delle Potenze e non già dal fatto della occupazione montenegrina.

Ora, io osservavo che, dopo tale unanime deliberazione delle Potenze, una qualsiasi azione militare da parte dell'Austria sarebbe stata un'aggressione ingiustificabile, che avrebbe provocalo inevitabilmente l'intervento militare della Russia. Ed infatti un telegramma di qualche giorno dopo del nostro rappresentante a Pietroburgo, marchese Carlotti, ci avvertiva che il primo effetto di una dimostrazione navale austriaca contro il Montenegro sarebbe stato di provocare la caduta di Sazonoff, pel fallimento della sua politica di conciliazione, e l'assunzione al suo posto di persona la quale, per soddisfare all'opinione pubblica avrebbe dovuto assumere verso l'Austria l'atteggiamento più energico, moltiplicando i pericoli di guerra.

Il ministro degli Esteri tedesco, Von Jagow, dichiarava poi alla sua volta al nostro ambasciatore, che egli aveva già dovuto intervenire più volte a Vienna perchè si astenessero da ogni risoluzione precipitosa, e che egli aveva ciò fatto, oltre che nell'interesse della pace generale, anche per una speciale considerazione della situazione particolarmente delicata e diffìcile nella quale, in certe eventualità, si sarebbe potuta trovare l'Italia. Ma ormai, egli soggiungeva, non era più possibile fare ulteriori pressioni sull'Austria; al punto in cui erano giunte le cose una ritirata da parte sua avrebbe nociuto immensamente tanto al suo prestigio quanto alla situazione internazionale della Triplice Alleanza, che ne sarebbe stata irreparabilmente compromessa. Aggiungeva di opinare che un atteggiamento fermo e risoluto della Triplice in quel momento poteva procurarle un successo positivo, e riaffermare durevolmente la sua influenza in Europa imponendosi agli avversari. Con tali vedute egli aveva fatto sentire a Londra che, a suo avviso, un mandato dell'Europa alle Potenze più interessate, per fare eseguire le sue decisioni, gli sembrava opportuno.

Egli aveva continuato dicendo di avere fatto domandare al nostro governo, a mezzo dell'ambasciatore a Roma, se l'Italia fosse disposta a partecipare all'azione che poteva rendersi necessaria nell'Adriatico, e pure non dissimulandosi le nostre difficoltà, egli era convinto che fosse nostro interesse partecipare a quell'azione, e che la partecipazione dell'Italia poteva facilitare una soluzione e diminuire i pericoli di più gravi complicazioni. Tale, egli aggiungeva, era pure l'avviso dell'Imperatore Guglielmo, il quale gli aveva espressa la speranza che, grazie al concorso dell'Italia, la situazione si sarebbe definita con un successo per la Triplice Alleanza. A tutto questo io risposi che solo nel caso che il mandato di una dimostrazione navale fosse affidato da tutte le Potenze a noi ed all'Austria, si sarebbe potuto accettare; ma che preferivo sempre che le Potenze facessero un'azione comune, o almeno che vi partecipasse una delle Potenze della Intesa, che avrebbe potuto essere l'Inghilterra.

Il 23 marzo Sazonoff, in una conversazione col nostro ambasciatore, dichiarava essere principio acquisito che le Potenze procedessero solidariamente negli affari balcanici, e non essere quindi ammissibile che una di esse agisse isolatamente per gli incidenti montenegrini; ed aggiungeva che nel fare rispettare tale principio la Russia non si troverebbe sola. Aggiunse pure di aver fatto osservare all'Austria che un'azione isolata contro il Montenegro sarebbe dalla Russia considerata assai grave, e che Berchtold aveva risposto che vi sarebbe stato costretto se il Montenegro non dava all'Austria giusta soddisfazione. Alla domanda se egli considerasse la situazione allarmante, il Sazonoff aveva risposto che pendevano trattative fra la Russia e l'Austria, perchè la prima si associasse all'assegnazione di Scutari all'Albania e la seconda all'assegnazione di Giacova alla Serbia; e fortunatamente lo stesso giorno la Conferenza degli Ambasciatori decise all'unanimità in tale senso, invitando in pari tempo il Montenegro a levare l'assedio di Scutari.

Il Montenegro però non voleva assolutamente piegarsi ad obbedire a tale invito, rifiutando perfino di ascoltare i consigli di moderazione che gli venivano anche da Belgrado. Io non credevo però che ciò dovesse in alcun modo mutare le nostre risoluzioni, e telegrafavo a San Giuliano «che la pazzia ed anche i delitti di uno slaterello destinato, a scomparire, erano cosa assai meno grave e non paragonabile col pericolo di provocare una, guerra europea per l'ansia di ridurlo al più presto alla ragione». Il San Giuliano, che ormai era pienamente d'accordo meco, lavorava intanto a Parigi ed a Londra perchè invece che ad un mandato da conferirsi all'Austria ed all'Italia, fosse data la preferenza ad un'azione collettiva; come infatti fu poi deciso.

Ma il pericolo non era per questo ancora del tutto passato. Trascorsero, fra il 24 marzo e il 5 d'aprile, alcune giornate più tranquille, durante le quali intervennero fra le Potenze scambi di vedute e furono avanzate varie proposte sul modo con cui la dimostrazione collettiva avrebbe dovuto farsi; quando improvvisamente a Vienna si prospettò nuovamente la necessità di un'azione austro-italiana che andasse più a fondo, nel caso che la dimostrazione collettiva fallisse ai suoi fini di ricondurre il Montenegro Alla ragione. Ecco la lettera, datata 5 aprile, con cui San Giuliano mi dette notizia di questo nuovo e pericoloso  tentativo:
«Merey, a nome di Berchtold, mi ha detto in via ufficiale che, in vista della possibilità che la dimostrazione navale internazionale non raggiunga il suo scopo, Berchtold crede venuto il momento che l'Austria e l'Italia si mettano d'accordo per un'azione comune, per far valere in pratica i principii sanciti dai vigenti accordi; e ciò solidalmente ed egualmente per l'intera Albania, e non già, come alcuni nella stampa sostengono, l'Italia per il sud e l'Austria per il nord.
«È ormai necessario dare all'Austria una risposta precisa.
«A me pare che noi potremmo rispondere che anzitutto bisogna esaurire tutti i mezzi per raggiungere lo scopo stesso, o con mezzi conciliativi (per esempio, compensi finanziari e forse territoriali al Montenegro, ecc.)  o con l'azione internazionale.
«Aggiungerei che è solo dopo che sia ben dimostrato che si sono fatti inutilmente tutti questi tentativi che si potrebbe chiedere un mandato europeo per l'Italia e l'Austria; un tal mandato non dovrebbe essere limitato alla sola eventuale azione per Scutari, bensì verso qualsiasi Stato balcanico che si ribellasse alla volontà dell'Europa nella questione dei confini dell'Albania tanto a nord quanto a sud.
«Io ho detto a Merey che avrei scritto subito a te per dare una risposta. Nel darla dobbiamo tener conto della possibile necessità di un'azione comune italo-austriaca nella questione dello Stretto di Corfù, che c'interessa in modo speciale. Cordiali saluti.
Tuo aff.mo San Giuliano ».

A questa lettera io risposi immediatamente con la seguente:

«Ricevo la tua lettera di oggi, ore 18,40, mentre sto per partire.
«Salvo a specificare poi meglio quando occorrono risposte  più  precise,  ritengo   intanto:
«1.° che non dovremo mai, per nessuna ragione, fare azione né soli né con l'Austria senza un mandato da tutte le Potenze europee;
«2.° che dovremo cercare con tutti i mezzi di evitare questo mandato, procurando che si continui sempre l'azione europea, o per lo meno con l'intervento dell'Inghilterra;
«3.° che né Scutari nò lo Stretto di Corfù valgono una guerra europea, e che in questa non ci lasceremo involgere se non vi è un nostro gravissimo interesse o si verifichi rigorosamente il casus foederis;
« 4.° che l'Austria cercherà di comprometterci per avere la sicurezza del nostro intervento, ma che dobbiamo evitare ciò in modo assoluto;
«5° che tutte le considerazioni partenti dal punto di vista di procurarci la riconoscenza dell'Albania non hanno valore alcuno. L'Albania come Stato è così di là da venire, che nessun calcolo si può fare su coloro che vi occupano qualche posto, trattandosi di gente poco fida, e che agirà sempre secondo i suoi interessi caso per caso, e non per altri sentimenti.

«Insomma il nostro fine, a mio avviso, deve essere solamente questo: evitare che avvenga una guerra, europea; e se questa avvenisse non averne la responsabilità e non esservi implicati. Tutto il resto per noi
non ha valore alcuno, e non mi permetterei mai di cavare le castagne dal fuoco per gli altri.

«Coi più cordiali saluti. — Giolitti».
«P.S. — Quanto a qualche spesa ora, per gli albanesi, puoi prendere accordi con Tedesco, ma tenendo presente che sono danari buttati; non escludo che qualche volta occorra buttar via qualche cosa».

Merey tornò ad insistere il 7 aprile per avere una risposta precisa; ma il giorno 8 la Serbia si ritirava dalle operazioni contro Scutari, nelle quali aveva aiutato il Montenegro; ed il pericolo, prolungatosi dal 19 marzo in poi, che per la pace europea costituiva l'eventuale caduta di Scutari, fu per allora scongiurato. L'Austria, la quale temeva anche l'eventuale assorbimento del Montenegro nella Serbia, vedendo fallire il suo progetto di aggressione pensò che le convenisse di aiutare la dinastia montenegrina allo scopo di tenere separati i due paesi slavi, e ci propose di partecipare ad aiuti finanziari al Montenegro. San Giuliano, nel comunicarmi questa proposta, mi descriveva anche l'abbattimento del Merey perchè la sia pure tardiva ubbidienza della Serbia alle ingiunzioni delle Potenze aveva fatto perdere all'Austria l'occasione di aggredirla e di metterla a posto definitivamente.

Io, in data dell'11 di aprile, gli risposi dando il mio assenso alla proposta austriaca con questo dispaccio: — «Credo che la caduta della dinastia del Montenegro sia inevitabile nell'avvenire; ma è bene non avvenga ora per evitare un ritardo nella conclusione della pace. L'Italia, potrà concorrere agli aiuti finanziari nelle stesse proporzioni dell'Austria e non più, perchè un maggiore nostro concorso sarebbe ingiustificabile davanti al Parlamento. Non posso partecipare al dolore di Merey.  Cordiali saluti.  — Giolitti».

Il partito militarista di Vienna, che questa volta aveva subito uno scacco, stava però fermo nelle sue mire; ed il proposito di aggressione alla Serbia con partecipazione nostra venne fuori una seconda volta, a pochi mesi di distanza, e cioè nella prima metà dell'agosto del 1913, mentre la Conferenza degli Ambasciatori a Londra era nuovamente adunata per importanti deliberazioni.

Due problemi di notevole importanza per noi si trovavano allora in discussione: quello delle isole del Dodecaneso e quello dei confini della Grecia con l'Albania, col quale ultimo si connetteva la questione del canale di Corfù. Ho già accennato che noi difendevamo per questo rispetto i diritti incontrastabili degli albanesi al possesso di Coritza e di tutto il territorio da quella parte sino a capo Stilos, quei diritti collimando anche con un nostro vitale interesse: di impedire cioè che la Grecia, entrando in possesso della costa albanese che stava dirimpetto all'isola di Corfù, si assicurasse nel canale di Corfù una forte base navale la quale avrebbe potuto essere usata contro di noi in caso di guerra nell'Adriatico.

L'Austria aveva in ciò i nostri medesimi interessi; mentre non solo le Potenze dell'Intesa, Inghilterra, Francia e Russia, sostenevano fermamente la Grecia, ma sentimenti favorevoli ad essa, per ragioni dinastiche, e pel segreto proposito di attrarla nella sua orbita, mostrava pure, come ho già accennato, la Germania.

La questione delle isole era più complicata ancora. Noi, pel Trattato di Losanna, eravamo impegnati a restituirle alla Turchia quando questa avesse adempiute a tutte le condizioni poste a suo carico da quel Trattato, ed alle quali essa era inadempiente sopra tutto nei riguardi della Cirenaica, forse anche per impedimenti sopravvenutile con la guerra balcanica. Ma, a parte questi impegni con la Turchia, noi ne avevamo con l'Austria-Ungheria, in base all'art. 7 della Triplice Alleanza, e ad altri accordi speciali che vietavano ad ognuno dei due contraenti di impossessarsi di territorio ottomano — sempre esclusa la Libia — senza compensi per l'altro; a cui dovevano aggiungersi gli altri impegni, rimasti casualmente solo verbali, che noi, occupando le isole durante la guerra di Libia, avevamo assunti con Berchtold. D'altra parte l'Inghilterra, la quale temeva che le isole derEgeo, restando in nostra mano, potessero servire di base alle flotte della Triplice Alleanza, in caso di guerra, nel Mediterraneo orientale, aveva fatto chiaramente intendere, che anche a costo di una guerra essa non avrebbe consentilo che nessuna delle isole dell'Egeo rimanesse nel possesso di una Grande Potenza, ed in ciò era seguita dalla Francia. La Triplice Intesa, e più particolarmente l'Inghilterra e la Francia, volevano, dopo il risultato della guerra balcanica, che le isole del Dodccaneso passassero alla Grecia, fondando questo loro proposito sul fatto che la grande maggioranza delle loro popolazioni era greca.

Appena la Conferenza di Londra, il 2 agosto, iniziò l'esame di queste questioni, noi fummo informati che Sir Edward Grey aveva espressa l'intenzione di abbinare la questione del confine meridionale albanese con la questione delle isole — intendendo con ciò le altre isole dell'Egeo oltre a quelle da noi occupate. — Il pensiero di Sir Edward Grey era che Coritza e il capo Stilos fossero aggiudicati all'Albania, incaricando una Commissione internazionale di decidere del territorio intermedio sulla base del suo carattere etnico; e che tutte le isole fossero da dare alla Grecia tranne Imbros e Tenedos, che per la loro posizione dovevano restare alla Turchia, e Tasso e Samotracia delle quali si doveva decidere più tardi nel regolamento territoriale generale. Per quanto concerneva le isole da noi occupate, si proponeva che l'Italia le restituisse, senza tener conto se fossero o no state adempiute le condizioni del trattato di Losanna, nello stesso momento in cui Coritza e Stilos sarebbero state consegnate agli albanesi; e Sir Edward Grey lasciava intendere all'ambasciatore di Germania, Lichnowsky, in una conversazione avuta con lui, che soltanto a queste condizioni l'Inghilterra e la Francia avrebbero dato il loro consenso alla delimitazione del confine albanese desiderata dall'Austria e dall' Italia.

Ora, siccome questa proposta di abbinamento portava che le isole da noi occupate sarebbero andate alla Grecia, in contrasto con l'impegno da noi assunto col Trattato di Losanna di restituirle alla Turchia, io non potevo accettarla; perchè, fra l'altro, una nostra infrazione del Trattato di Losanna avrebbe giustificato la Turchia a mancare agli obblighi per parte sua. Io potevo dare assicurazioni, e le avevo date, che noi non intendevamo di annettere alcuna di quelle isole, che anche come base navale non avrebbero avuto valore senza un grave dispendio; ma esse erano in nostra mano come un pegno, e come tale dovevano rimanere sino a che gli obblighi che il Trattato di pace imponeva alla Turchia fossero pienamente assolti.

Il San Giuliano, che in un suo memoriale con cui m'esponeva l'intera questione si preoccupava che un eccessivo prolungamento della nostra occupazione potesse dare luogo ad una situazione che rischiasse di risolversi, data la speciale mentalità degli inglesi, anche senza alcuna intenzione da parte loro di danneggiarci od offendere, in uno scacco diplomatico per noi o in gravi complicazioni, ricordando in proposito anche speciali dichiarazioni fatte da Sir Edward Grey al nostro ambasciatore marchese Imperiali; avanzava pure la congettura che con la cessione delle isole alla Grecia si potesse aiutare il lavoro che la Germania slava compiendo per attrarla nella Triplice Alleanza. Ma per me il nostro impegno del Trattato
di Losanna aveva la prevalenza su qualunque altra considerazione, ed al San Giuliano risposi in questi termini: — «Credo che a noi convenga insistere sulla pregiudiziale del Trattato di Losanna che ci obbliga a restituire le isole alla Turchia, e perciò ci vieta dì partecipare ad accordi destinati a consegnarle ad altre Potenze. La nuova guerra tra gli alleati balcanici e la necessità di trovare compensi alla Turchia per indurla ad abbandonare Adrianopoli rendono utile anche per la pace europea questa nostra insistenza».—

E che noi avessimo ragione nel sostenere questo punto, fu subito dopo dimostrato da un telegramma che la Turchia diramò ai suoi ambasciatori, col quale dichiarava che l'Italia, non essendo che depositaria delle isole del Dodecaneso, non poteva prendere alcun impegno a loro riguardo senza il suo previo consenso, e che agendo altrimenti essa si sarebbe esposta per parte della Turchia alla denuncia del Trattato di Losanna ed alla rivendicazione dei diritti turchi sulla Cirenaica.

La questione dette luogo, nella Conferenza degli Ambasciatori, ad una discussione che si prolungò parecchi giorni, in ragione delle sue stesse difficoltà, perchè fra l'altro il Ministro degli Esteri francese, il Pichon, avendo creduto in buona fede, in un primo momento, che noi avessimo accettato l'abbinamento, aveva dati al governo greco degli affidamenti riguardo il Dodecaneso, dai quali gli era malagevole recedere. La discussione procedette però sempre nel modo più amichevole verso di noi, le buone ragioni della nostra tesi essendo state cordialmente riconosciute. Si finì per accettare una nostra dichiarazione, la quale diceva: — Il Governo italiano considera che la questione del Dodecaneso, la quale deve la sua origine alla guerra italo-turca, è giuridicamente regolata dalle disposizioni del Trattato di Losanna. Ciò stante il Governo italiano ripete che renderà quelle isole alla Turchia appena il Governo ottomano avrà da parte sua eseguiti integralmente gli ohblighi che gli incombono in forza dell'art. 2 del detto Trattato. —

Nel testo dell'accordo seguiva poi una dichiarazione proposta dal Cambon, secondo la quale, .quando il Trattato di Losanna fosse stato integralmente eseguito dai due contraenti, le cinque Potenze, al momento del regolamento finale di tutte le questioni pendenti, avrebbero deciso della sorte finale delle isole del Dodecaneso; nella quale formula l'Italia veniva lasciata in disparte come se per la questione delle isole in forza della sua occupazione il suo giudizio fosse compromesso. Ma una tale esclusione non avrebbe avuto più ragione di essere dopo che le isole fossero state da noi restituite, e sarebbe riuscita ad una diminuzione della nostra dignità; ed a nostra richiesta, e dopo cordiali spiegazioni intervenute fra il nostro ambasciatore a Parigi, Tittoni, e il Pichon, fu accettata una nostra modificazione che attribuiva a tutte le sei Potenze il compito della finale decisione, e senza alcuna compromissione preventiva.

Ora, fu appunto durante questa sessione della Conferenza degli Ambasciatori, la quale dava pure larga
soddisfazione alle esigenze austriache e nostre riguardo all'Albania, che si manifestò di nuovo, ed anche in forma più precisa, il proposito austriaco di aggressione, questa volta contro la Serbia; che appare indubbiamente connesso coi risultati della seconda guerra balcanica, scoppiata il 30 giugno, fra la Bulgaria da una parte, e la Serbia, Rumenia e Grecia dall'altra, e che finì rapidamente con la totale disfatta della Bulgaria. Io non so e non ho modo di sapere se qualcosa di vero ci fosse nelle voci che allora corsero, che l'aggressione della Bulgaria contro l'esercito serbo, che dette occasione a quella guerra, fosse stata segretamente istigata da Vienna; ma indubbiamente i suoi risultati, col rafforzamento della Serbia, e l'assegnazione definitiva di Salonicco alla Grecia, costituivano un nuovo scacco al partito militarista austriaco, e nuovi ostacoli alle sue mire ed ambizioni.

Il 9 agosto, essendo io assente da Roma, ricevetti dal San Giuliano il seguente telegramma: — L'Austria ha comunicato a noi ed alla Germania la sua intenzione di agire contro la, Serbia, e definisce tale azione come difensiva, sperando di applicare il casus foederis della Triplice Alleanza che io credo inapplicabile.
«Io cerco di concertare con la Germania sforzi per impedire tale azione austriaca; ma potrà essere necessario il dichiarare apertamente che noi non consideriamo tale azione come difensiva e perciò non crediamo che esista il casus foederis.
«Pregoti di telegrafarmi a Roma se approvi.

San Giuliano».

A questo  telegramma  io risposi:
«Se l'Austria attacca la Serbia è evidente che non si verifica il casus foederis. È una, azione che essa compie per conto proprio, perchè non si tratta di difesa, poiché nessuno pensa ad attaccarla. È necessario che ciò sìa dichiarato all'Austria nel modo più formale, ed è da augurarsi una anione della Germania per dissuadere l'Austria dalla pericolosissima avventura».

La cosa non ebbe più seguito. Per due volte dunque il partito militarista di Vienna, che aveva preso sempre maggiore prevalenza sul Governo, aveva complottata l'aggressione alla Serbia, procurando di involvervi la prima volta l'Italia, e la seconda anche la Germania, andando a cuor leggero contro il pericolo della guerra europea. Per due volte il tentativo fallì; ma la terza, col pretesto dell'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando, non incontrando più la resistenza, o essendosi assicurata la approvazione della Germania, riuscì malauguratamente al suo scopo, provocando, come io avevo previsto, una delle più immani catastrofi che ricordi la storia.

La narrazione che ho qui fatta di tali eventi, in gran parte sconosciuti, darà ad ogni modo ragione della politica che io seguii o consigliai quando la guerra europea fu scoppiata, e dei motivi e principi di cui quella mia politica era informata.

Prima di chiudere con questo capitolo il ricordo di quei mesi, che oggi apparirebbero fortunosi, se l'impressione di quegli avvenimenti non fosse stata soverchiata da quelli assai più vasti e gravi che seguirono poi, devo fare menzione di alcune altre cose secondarie.

Una volta assicurata, entro confini ragionevoli, l'esistenza dell'Albania come Stato indipendente, bisognò pensare a trovare un capo pel nuovo Stato. Non era il caso di cercarlo fra le antiche e più insigni famiglie albanesi, che si trovavano in una continua e brutale lotta di rivalità ed erano estraniate l'una dall'altra da odi e competizioni ereditarie; e fra noi e l'Austria, come le due Potenze più interessate, si convenne di tentare la prova di mettere sul trono albanese un qualche personaggio di illustre famiglia forestiera. Fra gli aspiranti c'era Fuad pascià della famiglia Kediviale egiziana, che io conobbi e che mi parve avesse non poche delle qualità adatte al governo di un tale paese; ma la sua candidatura fu scartata dall'Austria, perchè Fuad era musulmano. Un secondo candidato fu il principe Napoleone, secondogenito di Girolamo e della principessa Clotilde di Savoia, e che sposò poi Clementina del Belgio; e che io sostenni pure, ma che fu scartato dall'Austria forse per sospetto della sua parentela con Casa Savoia.  Si  finì  per  accordarsi sul  principe  di Wied, uno junker prussiano, il quale, venuto a Roma nel suo viaggio per l'Albania, non fece né a me né a San Giuliano l'impressione che fosse persona adatta pel difficile compito che gli era affidato. Insediato infatti come Principe d'Albania nei primi di marzo del 1914, pochi mesi dopo doveva abbandonare il paese, in cui non era riuscito a farsi amici e a trovare appoggi.

Un altro evento che devo ricordare, è la concessione, di carattere economico e commerciale, che, a mezzo del Nogara prima e poi del Garroni nostro ambasciatore, noi ottenemmo dal Governo turco nell'Asia Minore, nella regione di Adalia. Codesta concessione aveva per noi un valore più eventuale che immediato, ed una ragione più politica che economica; perchè nell'eventualità di una dissoluzione dell' Impero ottomano, già così gravemente colpito, era utile stabilire dei nostri diritti, che ci permettessero poi di mantenere l'equilibrio nel Mediterraneo orientale. Quando la concessione fu conosciuta, provocò obbiezioni da parte dell'Austria col pretesto di sue domande anteriori per la stessa concessione. San Giuliano, pel quale il problema delle nostre relazioni con l'Austria era ragione di continue e giustificate preoccupazioni, propose di trarre profitto da tali obbiezioni nel senso di andare incontro ai desideri dell'Austria e di venire con essa ad accordi per una spartizione della concessione stessa, col concetto che se l'Austria avesse nuovi interessi fuori dell'Adriatico  che richiamassero  la sua  attenzione  e la sua attività, la sua pericolosa rivalità con noi in quel mare ne sarebbe attenuata. Quindi, dopo accertato a Berlino quali fossero i limiti della sfera di influenza che la Germania intendeva riservata a sé stessa nell'Asia Minore, noi iniziammo a Vienna, per la delimitazione delle due sfere d'influenza austriaca ed italiana, conversazioni che non ebbero poi seguito pei sopravvenuti avvenimenti.

A chiudere questi ricordi di eventi diplomatici che precedettero la guerra, credo interessante riportare alcune informazioni ed impressioni raccolte da San Giuliano nel viaggio a Berlino da lui fatto nei primi di novembre del 1912, e trasmessemi per dispaccio. Il 6 novembre egli era stato ricevuto con molta affabilità dall'Imperatore Guglielmo, che aveva conversato a lungo con lui sulla situazione europea, esprimendo giudizi che non collimavano sempre con l'azione svolta dal suo governo. Così egli dichiarava di credere utile la completa liquidazione della Turchia europea, con piena soddisfazione degli Stati balcanici, di cui preconizzava una Confederazione che sarebbe stata un nuovo elemento di equilibrio e di pace. Voleva la soluzione definitiva della questione orientale e l'entrata dei bulgari in Costantinopoli. Si mostrò preoccupato delle insistenze della Serbia, appoggiata dalla Russia, per un porto nell'Adriatico, a cui l'Austria non avrebbe consentito mai. Sperava che tale difficoltà sarebbe eliminata col dare alla Serbia un porto nell'Egeo, e che in tal modo il pericolo di complicazioni europee sarebbe stato allontanato. Ed aveva infine espresso il desiderio della rinnovazione della Triplice Alleanza, che infatti ebbe luogo in quei giorni. Ed anche fra gli uomini principali del governo, quali Kiderlen Wãchter e Bettmann Holwegg, il San Giuliano trovò allora prevalenti i sentimenti di fiducia nel mantenimento della pace europea, e di conciliazione degli interessi divergenti e contrastanti delle Grandi Potenze.

XVI.

La guerra europea.

La neutralità e la guerra italiana.



La crisi e il Ministero Salandra — Lo scoppio della guerra mi trova a Londra — Esprimo l'opinione della mancanza del casus (oederìs e della convenienza della neutralità — Lettere di San Giuliano e Salandra — Miei giudizi, apertamente espressi, della lunghezza, difficoltà e sacrifìci della guerra — Polemiche fra neutralisti e interventisti — Accuse smentite su l'impreparazione militare — Leggende sui miei rapporti con Bùlow e sulla mia neutralità assoluta — L'azione del Governo per ottenere concessioni dall'Austria e mio appoggio — Una mia lettera ad un personaggio tedesco — Allarmi ai primi di maggio sulla condotta del Governo — Vengo a Roma per la riapertura della Camera: dimostrazioni ostili — Trecento deputati approvano le mie opinioni — Conversazioni con Carcano, Salandra, Marcora — Non sono informato del Patto di Londra — Altre minacce ed accuse contro me — Il Ministero Salandra riconfermato dopo le dimissioni — Mia condotta durante la guerra per non provocare dissensi — Ritorno al Parlamento dopo Caporetto.


Al Governo che aveva fatto votare la legge della riforma e dell'allargamento del suffragio, competeva necessariamente di farne la prima applicazione. La quale, in circostanze ordinarie, avrebbe dovuto seguire poco appresso all'approvazione della legge, specie in un caso nel quale, da un suffragio teoricamente largo, ma nella pratica assai ristretto e quasi di classe, si passava al suffragio quasi universale; in quanto la Camera eletta col suffragio ristretto non poteva più ritenersi come la adeguata rappresentanza del
paese.

Ma il prolungarsi della guerra balcanica, con
tutte le conseguenti complicazioni e preoccupazioni
internazionali, ritardarono lo scioglimento della Camera e l'appello agli elettori, che ebbe luogo solamente
nell'autunno del 1913. I risultati delle elezioni smentirono le preoccupazioni dei conservatori che, pure
non osando di oppugnare apertamente la riforma,
l'avevano segretamente osteggiata. I socialisti tornarono in numero notevolmente accresciuto, ma non
tanto da dare loro altro che la forza di una piccola
minoranza; ed i cattolici fecero sentire più largamente la propria influenza, specie nelle campagne;
ma nel complesso la nuova rappresentanza nazionale,
sia pure con un largo mutamento d'uomini, mantenne
l'antica fisonomia, con la prevalenza assoluta dei partiti liberali. Gli uomini più cospicui delle varie parti
furono quasi tutti rieletti.    

Ogni Camera nuova è sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte salutare, di provocare una crisi. La spinta alla crisi, in quella occasione, venne dai radicali, nel cui gruppo, pure notevolmente accresciuto, si manifestò un movimento di fronda contro i propri rappresentanti al governo, e la direzione del partito deliberò di passare all'opposizione. Il distacco dei radicali dalla maggioranza, che metteva la coalizione di Sinistra nella condizione di non potere reggere un governo, portava logicamente a che il potere passasse a quegli che si presentava come il capo dei gruppi di Destra. Il gruppo che per tanti anni aveva tatto capo, con molta devozione e disciplina all'on. Sonnino, si era disciolto dopo la guerra di Libia, constatando che le ragioni che lo avevano tenuto unito in un programma generale, erano ormai venute meno, i suoi componenti riprendendo piena libertà di azione; in seguito a ciò la persona più in vista era il Salandra, che effettivamente fu indicato al Re da me e dalla maggioranza delle persone consultate.

Il Salandra venne da me perchè l'aiutassi a comporre il Ministero, e sopratutto perchè persuadessi il San Giuliano a rimanere come Ministro degli Esteri; al che il San Giuliano opponeva molta resistenza, non inducendosi ad accettare se non dopo che io lo ebbi vivamente pregato di farlo, per la continuità della politica estera, che in quegli anni aveva avuta una così essenziale importanza anche per l'Italia.

Il nuovo Ministero, appena insediato dovette affrontare alcune difficoltà, fra cui una specie di agitazione semi-anarchica nell'Italia centrale, ed uno sciopero parziale di ferrovieri, ciò che il Salandra fece con fermezza, senza precipitare a misure di reazione, cercando di contempcrare le proprie tendenze conservatrici con la pratica liberale ormai compenetrata nella vita del paese.

Quando, in seguito all'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando e della sua consorte, consumato a Serajevo per mano di serbi, scoppiò la questione fra l'Austria e la Serbia, io non potei credere, sino all'ultimo, che quella questione, per quanto grave, potesse
essere ragione di una guerra europea. Ricordavo i due
tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare,
per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava
ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le
ragioni della pace, che erano così grandi e universali,
avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie
interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul
contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata
per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina.    

Nel mese di luglio ero stato a Vichy, poi a Parigi ed a Londra; e in questa città mi trovavo negli ultimi giorni di quel mese, e seguivo sui giornali le notizie del conflitto diplomatico, sempre sperando che la guerra sarebbe stata evitata. Ma quando vidi l'intimazione della Germania alla Russia di disarmare entro dodici ore, ed alla Francia entro ventiquattro , capii che oramai la guerra era decisa e partii immediatamente per l'Italia. Passando per Parigi, il 1.° agosto, mi fermai, e mi recai immediatamente all'Ambasciata d'Italia, dove non trovai Tittoni, che era in viaggio di congedo nel Mare del Nord. C'era invece il primo Segretario di Ambasciata, principe Ruspoli, al quale espressi la mia opinione, che l'Italia non avesse obbligo, pel Trattato della Triplice, di entrare in guerra, visto che l'Austria aggrediva la Serbia, mentre il Trattato era puramente difensivo, e prescriveva il nostro intervento a fianco delle alleate solo nel caso che esse fossero aggredite. E realmente si ripeteva il duplice caso del 1913, quando io avevo fatto dire all'Austria che se essa aggrediva la Serbia, noi non avevamo l'obbligo di intervenire, anzi avremmo protestato. Ed aggiunsi che, a mio avviso, l'Italia doveva dichiarare senz'altro la propria neutralità. Il principe Ruspoli, di sua iniziativa, credette bene di comunicare subito questa mia opinione al San Giuliano. Ritornato in Italia, e fermatomi a Bardonecchia, dove era la mia famiglia, ricevetti una lettera di San Giuliano ed una di Salandra, entrambe con la data del 3 agosto. San Giuliano mi scriveva:

«Ruspoli mi telegrafa la tua opinione sulla politica da seguire in questi gravi momenti. È appunto quella che sino dal primo momento io ho proposta a Salandra ed a S. M. il Re, e che è stata adottata. Anche questa volta tu ed io abbiamo avuto lo stesso pensiero senza avere avuto modo di scambiare le nostre idee. Salandra ti ha fatto cercare per avere il tuo consiglio, e sarà lietissimo ora di sapere che è  conforme  all'attitudine   adottata.   Spero  di   tutto «cuore che la tua salute sia buona.
«Saluti cordiali, con devota amicizia del tuo
aff.mo di San Giuliano».

A questa lettera io risposi, il 5 agosto, nei termini seguenti:
«Carissimo Amico,
«Sono stato a Vichy, poi a Parigi e Londra e devo confessare che non credevo alla possibilità che con tanta leggerezza si provocasse una guerra europea. Non vi credei che il 31 luglio, ed il 1.° agosto partii precipitosamente da Londra per l'Italia.
«Il modo con cui l'Austria provocò la conflagrazione fu veramente brutale, e rivela o una incoscienza o il deliberato proposito di volere una guerra europea. Sbaglierò, ma la mia impressione è che essa, più di tutti, ne pagherà le spese.
«Per fortuna la cosa fu condotta in modo da giustificare la nostra neutralità. Non mi nascondo che questa potrà avere anche conseguenze non buone per noi, ma il Governo ora non poteva seguire altra via. Un conflitto dell'Italia con l'Inghilterra non è possibile, e il modo come la guerra fu provocata dall'Austria avrebbe reso molto difficile persuadere il nostro paese a parteciparvi con entusiasmo. Aggiungasi che evidentemente l'Austria si propone fini che non concordano coi nostri interessi.
«Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare i nostri buoni rapporti con l'Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto.
Come ritengo pure che dobbiamo tenerci militarmente pronti.
«Ti auguro buona fortuna, perchè ciò significa anche la fortuna d'Italia; ti prego di salutare da parte mia l'on. Salandra, e ti stringo cordialmente la mano
aff.mo Giolitti».

La lettera dell'on. Salandra, che riproduco integralmente, diceva:
«Caro Giolitti,  
«Nei giorni scorsi, quando diventarono improvvisamente imminenti le gravi decisioni circa l'atteggiamento dell'Italia nella conflagrazione europea, che non si è potuta evitare nonostante i nostri sforzi, avrei voluto sentire, nell'interesse dello Stato, il tuo consiglio. Ma il prefetto di Cuneo, al quale chiesi dove tu ti trovassi, mi rispose che eri a Londra, prossimo a ritornare, aggiungendo che il tuo indirizzo non era noto.
Incalzarono intanto gli avvenimenti, ed ora apprendo quasi contemporaneamente il tuo passaggio per Parigi ed il tuo arrivo a Bardonecchia.
Ho saputo pure che a Parigi hai espresso parere favorevole alla interpretazione da noi data al Trattato della Triplice, interpretazione che oltre all'essere, a senso mio, giuridicamente esatta, corrispondeva al sentimento prevalente nella grande maggioranza del paese. E la tua opinione conforme è per me di grande importanza.
Non mi nascondo però le gravi ragioni che militavano per una diversa risoluzione; e so bene che gli avvenimenti, i quali si svolgeranno nessuno può dir come, faranno sorgere altri problemi e imporranno altre risoluzioni; le quali, oltre che sulla politica estera, avranno conseguenza di massima importanza sulla politica interna e sulla politica economica del paese.
Mi sarebbe perciò gratissimo giovarmi della tua lunga esperienza di governo e discorrere con te sulle più probabili ipotesi per l'avvenire, nonché sui provvedimenti più urgenti; e cercherei ben volentieri il modo d'incontrarti anche fuori di Roma, se nei momenti presenti non mi fosse impossibile lasciare la «Capitale anche per  un  giorno.
Non posso quindi se non pregarti di tenermi informato del tuo sicuro recapito nel prossimo periodo, affinchè io, se possibile, abbia modo di prendere un contatto con te.
Ti stringo  cordialmente la mano
iaff.mo A. Salandra».

A questa lettera io risposi, il 6 agosto:

«Caro   Salandra,    
«Io resto a Bardonecchia domani; vado a Torino il giorno 8, e poi il 9 a Cuneo per il Consiglio provinciale, e dopo torno qui a Bardonecchia, dove conto restare sino alla fine del mese.
Sono però a piena disposizione tua. Tu non puoi muoverti da Roma, e quindi verrò io a Roma ogni qual volta tu possa desiderarlo.
Scrissi ieri a San Giuliano le ragioni per le quali sia da approvare la deliberazione presa.
Disponi dunque di me per qualunque cosa che tu creda io possa fare.
Con una cordiale stretta di mano
aff.mo  Giolitti».

All'adunanza del Consiglio provinciale di Cuneo a cui nella lettera all'on. Salandra accennavo, io, prendendo la presidenza, pronunciai le seguenti brevi parole:
«Noi ci riuniamo in un momento angoscioso per tutta l'Europa, e grave per il nostro paese.
Il Consiglio Provinciale, corpo amministrativo, non può pronunciarsi su questioni politiche. Ma io sono certo di interpretare il pensiero di tutti i colleghi e dell'intera provincia, affermando che, di fronte ai pericoli che possono minacciare l'Italia, un solo pensiero ci anima: la solidarietà col Governo, che, senza distinzioni di parti politiche, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all'Italia il posto che le spetta nel mondo.
Noi guardiamo sicuri all'avvenire, forti della concordia di tutto il popolo e della fiducia assoluta nell'amato nostro Re».

Il giorno dopo ricevetti dall'on. Salandra il seguente
telegramma:

  
«A nome del Governo e personalmente ti ringrazio delle nobili parole che tu pronunziasti iniziando i lavori di codesto Consiglio Provinciale. Esse inciteranno autorevolmente gli italiani alla solidarietà, alla fermezza, alla calma, così necessarie nel gravissimo momento che attraversiamo. — Salandra».

Per concludere la rassegna delle opinioni allora manifestate, pubblicamente o privatamente, dagli uomini politici più in vista, posso ricordare di avere saputo poi, da fonte sicurissima, che l'on. Sonnino, allo scoppio della guerra europea, era dell'opinione che noi dovessimo seguire gli alleati; e che tale opinione egli manifestò apertamente agli amici arrivando a Roma, dove il Salandra l'aveva pure chiamato per sentire il suo avviso, troppo tardi e quando la deliberazione della neutralità era già stata presa. Molti altri, specie fra i nazionalisti, che poi furono fra i più accesi fautori della guerra contro gli Imperi centrali, accusando di tradimento chi da loro dissentiva, in quel primo momento avevano espresso e sostenuto il concetto che noi dovessimo schierarci a fianco degli alleati, e biasimavano il Governo per la sua decisione neutralista.

Nel mese di settembre io dovetti entrare nell'Ospedale Mauriziano di Torino per sottopormi ad una piccola operazione, che fu fatta dal mio amico senatore Carle. In seguito a quella operazione, mi si sviluppò una polmonite che mi tenne all'ospedale per una ventina di giorni, ed alquanto debole per alcune settimane susseguenti, che passai nella mia residenza di Cavour. Per tutto quel tempo io rimasi affatto estraneo a discussioni, né ebbi informazioni particolari da alcuna parte; solo nelle conversazioni che avevo con amici che venivano a trovarmi, io manifestavo la mia soddisfazione che l'Italia fosse rimasta neutrale.

Venni poi a Roma per l'apertura della Camera, in ottobre; e siccome sapevo da sicura fonte che negli stessi paesi che dalla nostra neutralità erano stati beneficati e forse salvati nel primo urto dell'immane conflitto, vi erano molti che non nascondevano l'opinione o almeno il dubbio che la nostra condotta, astenendoci dall'intervenire nella guerra a fianco dei paesi coi quali eravamo legati da così lunga alleanza, non fosse perfettamente leale, io colsi l'occasione della discussione parlamentare per fare dichiarazioni e ricordare quell'episodio del tentativo di aggressione dell'Austria contro la Serbia, narrato in tutti i suoi particolari nel precedente capitolo di queste «Memorie», e l'atteggiamento allora assunto dall'Italia, che giustificava pienamente la nostra condotta allo scoppio della guerra, in quanto dimostrava che tale interpretazione dei nostri obblighi nell'alleanza era stata già chiaramente espressa in altra occasione, senza che né Austria né Germania avessero fatta la menoma obbiezione.

È assai curioso il fatto che, mentre quelle mie dichiarazioni e rivelazioni tornavano a tutto vantaggio dell'Italia, ci fossero dei deputati e dei giornali, amici del Governo, i quali tentarono di smentire la cosa. Della quale però, per la ragione della mia lontananza da Roma quando quel tentativo austriaco di involgerci in una guerra balcanica fu compiuto, esisteva una intera documentazione nei telegrammi e lettere scambiati in quell'occasione fra me e San Giuliano, solo alcuni dei quali ho riportato nel capitolo precedente e che furono poi trovati anche alla Consulta. Non capii allora e non ho mai capito perchè certi amici del governo dell'on. Salandra si risentissero di quelle mie dichiarazioni che pure giustificavano le sue decisioni, e cercassero di svalutare un fatto che dimostrava agli occhi di tutta l'Europa la perfetta correttezza nostra nel mantenere la neutralità allo scoppio della grande guerra.

In tutto quel periodo e sino alle vacanze di Natale io non ebbi con l'on. Salandra e con altri uomini del governo alcun particolare rapporto. Trovai che nei circoli politici e nella stampa la discussione sulla neutralità si andava facendo sempre più ardente ma in un altro senso; discutendosi se a noi convenisse
o no di intervenire insieme alle Potenze dell'Intesa contro i nostri vecchi alleati. Alle discussioni che si facevano nei corridoi della Camera io allora partecipai, manifestando apertamente le mie opinioni e dandone le ragioni. 

I fautori della guerra sostenevano allora l'urgenza  di  prendervi  parte, ritenendo  che essa sarebbe stata di breve durata; temevano  che, venendo a finire senza il nostro intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro, rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi. E che anche il Governo prevedesse allora una guerra brevissima è provato da molti indizi, e sopratutto dal testo del Patto di Londra, col quale l'Italia si obbligava di entrare in guerra. In quel Patto infatti, per la parte finanziaria, si era stipulato solamente l'obbligo dell'Inghilterra di facilitare all'Italia un prestito di cinquanta milioni di sterline, somma inferiore a quanto abbiamo poi speso in ogni mese di guerra; inoltre in quel Patto non si era fatto  accordo  alcuno  per i noli marittimi,  né per gli approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie che a noi mancano, e che erano indispensabili per una guerra che non fosse brevissima. Anche i provvedimenti finanziari interni erano stati ordinati solo per alcuni mesi; ed alcuni dispacci diplomatici, pubblicati nel Libro Verde distribuito al Parlamento alla nostra entrata in guerra, e che preannunciavano  come  imminente  l'uscita dell'Austria dal conflitto e la sua pace separata con la Russia, mostravano, pel l'atto stesso della loro pubblicazione in quel momento, che il Governo pensava che qualunque ritardo potesse essere pericoloso.

Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente; a tutti i colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discorrerne. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perchè si trattava di debellare i due Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarantanni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini; che l'esercito dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in piena efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente nel 1917; che il nostro fronte, sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra parte che atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano l; maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più consideravo che; l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra l'Austria ed Ungheria, e sopratutto perchè minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne formavano  la maggioranza,  era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia.

Inoltre, ricordando le peripezie della Russia durante la guerra col Giappone, e la violenta rivoluzione scoppiata dopo quella guerra, a me pareva
dubbio che ad una guerra di molti anni quell'Impero
potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti di
America, che fu poi la vera determinante di una più
rapida vittoria, allora nessuno pensava, né poteva
pensare.    

Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini che avrebbe imposti la guerra per la terribile sua violenza, dati i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa che la scienza e la tecnica moderna avevano inventati e che allora erano già messi in opera sul fronte francese e sul fronte russo; come era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifizi finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione. Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue forze.

I fautori della guerra facevano anche appello al sentimento popolare offeso dalla violazione della neutralità del Belgio; ma l'Italia, come l'America, non era fra le Potenze che avevano garantita quella neutralità, e l'America non si mosse se non quando il suo intervento era richiesto dall'interesse del suo popolo. In una lettera pubblicata nei giornali il 1915, e che più avanti riporto, io osservavo che non si può portare il proprio paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primarii interessi.

Tali sono le ragioni pratiche, che possono essere ricordate da amici ed avversari, per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti.

Nel mese di dicembre del '14, mentre la Camera era ancora aperta, era venuto a Roma, quale inviato speciale della Germania, il Principe di Bülow, riguardo ai miei rapporti col quale si crearono e diffusero malignamente le più strane leggende. Ecco a che cosa quei rapporti si erano ridotti: un giorno io l'avevo casualmente incontrato in Piazza del Tritone; ci fermammo un momento, ed egli mi disse che sarebbe venuto a trovarmi. Gli risposi che sarei passato io da lui. E così feci. La conversazione che avemmo in quella occasione fu in termini affatto generici, sulla situazione generale d'Europa; da una parte e dall'altra cercando di evitare di entrare in materie delicate.

Io non intendevo assolutamente di entrare a
parlare di cose che erano di competenza esclusiva del
governo, ed egli, che mi conosceva da lunghi anni,
si rendeva certamente conto di questo mio atteggiamento. Ricordo che, quasi per un complimento, io
gli dissi che se egli fosse stato alla testa del governo
tedesco, probabilmente la guerra si sarebbe evitata,
perchè egli avrebbe procurato di non avere contro
nello stesso tempo l'Inghilterra e la Russia; — egli
sorrise ma non rispose. Due giorni dopo egli venne
per restituirmi la visita, e non avendomi trovato in
casa, mi lasciò la sua carta; e dopo d'allora io non
ebbi più occasione di vederlo, né ebbi con lui rapporti di alcun genere, né diretti né indiretti. L'ho
poi rivisto solo quest'anno (1922) incontrandolo al
Pincio.    

I giornali amici del Ministero Salandra avevano cominciato a muovermi attacchi ed accuse sino dal principio dell'autunno; fra l'altro avevano messo in giro la voce che il governo era stato costretto ad ogni modo a proclamare la neutralità pel grave stato di impreparazione e debolezza in cui i Ministeri da me presieduti avevano lasciato l'esercito e la marina, e perchè con la guerra di Libia si erano esauriti i magazzini militari, senza poi provvedere a reintegrarli. La prima accusa, assolutamente assurda, ripetuta anche alla Camera, fu facilmente smentita e dimostrata falsa dall'on. Tedesco, già mio Ministro del Tesoro, in un discorso pronunciato il 4 dicembre, recando cifre che non ammettevano replica e che infatti fecero tacere gli accusatori, alla testa dei quali si trovava l'on. Colajanni, cioè uno di quei deputati che avevano più costantemente avversate le spese militari, e che poi erano diventati improvvisamente guerrafondai.

L'on. Tedesco potè infatti dimostrare che nel sessennio occupato specialmente dai miei due Ministeri, e cioè fra il 12 luglio 1907 e il 30 giugno 1913, le spese annue per l'esercito e la marina erano state quasi raddoppiate, salendo da 474 a 821 milioni; mentre nel sessennio precedente, e cioè dal 1901 al 1907, l'aumento era stato solo di 45 milioni; e che l'incremento maggiore, e cioè di 173 milioni, si era ottenuto appunto nell'ultimo biennio. Nella marina poi, in un solo quinquennio, dal 1909 al 1913 si era assegnatala somma di un miliardo e cento milioni per la rinnovazione della flotta. E negli ultimi mesi del mio Ministero, fra me e il Ministro del Tesoro, il Ministro della Marina ed il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, si era stabilito un piano di provvedimenti che importava una spesa straordinaria di 500 ed ordinaria di 70 milioni da portare in aumento al bilancio nello spazio di quattro anni; alcuni dei quali provvedimenti, ed i più costosi, erano stati anche annunciati dal Ministro del Tesoro nell'esposizione finanziaria fatta il 20 dicembre 1913.

E passando dalle spese agli uomini, era da osservare che la forza bilanciata, che con la legge di bilancio dell'esercizio 1909-10 era fissata in 205 mila uomini, era stata portata a 275 mila col  progetto del bilancio presentato dal mio Ministero nel novembre del 1913. Ed a tutto questo si deve aggiungere che appunto sotto i Ministeri da me presieduti si erano costruite, con spesa ingente, le fortificazioni verso la frontiera austriaca, prima disarmata.

Quanto alla seconda accusa, che non fossero stati ricostituiti i magazzini militari dopo la guerra di Libia, io scrissi subito allo Spingardi, al quale competeva una speciale responsabilità, non solo per la sua qualità di Ministro della Guerra all'epoca della guerra di Libia, ma perchè già aveva date precise assicurazioni in proposito al Parlamento. Lo Spingardi non volle entrare in polemiche pubbliche, ma poi più tardi, e poco prima della sua morte, si fece chiamare dalla Commissione d'inchiesta istituita dal Governo per accertare le responsabilità del disastro di Caporetto, e vi fece una ampia e documentata esposizione delle condizioni in cui era l'esercito dopo la guerra libica, dalla quale risulta quanto fossero ingiuste le accuse mosse al Ministero di cui egli era parte. La Commissione infatti pronunciò questo giudizio sulle condizioni dell'esercito prima della guerra: — «Non si può negare che esso corrispondeva ad una condizione comune degli Stati dell'Intesa, alieni da intenzioni aggressive, e che con tutto ciò costituiva già un non lieve aggravio per l'erario, assorbendo nel 1914 per il solo esercito (esclusa cioè la marina) un quinto del bilancio passivo, e cioè 450 milioni su 2522. Ingiuste per tanto debbono ritenersi le voci che eccessivamente hanno insistito (e talune forse per dare risalto all'opera di ricostruzione) sulla nostra impreparazione alla guerra».—

Infine, per dare una cifra, va ricordato che, sempre nel sessennio 1907-1913, durante il quale la responsabilità del governo fu sopratutto mia, il valore della consistenza patrimoniale dei magazzini militari era salito da 837 milioni a un miliardo e 263 milioni, con un aumento di 426 milioni, cioè di oltre il cinquanta per cento. E sino dai primi mesi della guerra di Libia si era dato ordine per la reintegrazione dei magazzini e la ricostituzione sollecita delle scorte, adibendovi la somma di 162 milioni, inscritta ai fondi speciali della guerra di Libia. Per la marina basterà una cifra: al principio della guerra italo-turca la quantità di carbone esistente nei depositi della marina era di 1.24 mila tonnellate; alla fine della guerra era più che triplicata, ammontando a 395 mila tonnellate.

Messe a posto queste accuse, e chiusa questa polemica diretta contro di me, un'altra, e sempre dalla stessa parte, fu suscitata, facendosi circolare la voce che io intendevo di abbattere il Ministero e di crearne ,un altro da me presieduto, col programma della, neutralità assoluta. Di queste voci ebbi avviso per lettere di amici, fra gli altri Peano, Malagodi e Co-losimo. A queste lettere risposi, esprimendo le mie opinioni, e respingendo qualunque idea di una crisi, anzi dichiarando espressamente «che sarebbe molto male fare una opposizione al Ministero; che il paese giudicherebbe male tale contegno, e che era bene che in momenti così difficili il governo avesse piena autorità». Ed aggiungevo: «Sono del resto persuaso
che se la situazione europea non si muta sostanzialmente, il Governo non impegnerà il paese in una
guerra difficile, sanguinosa, costosissima, e non voluta
dalla immensa maggioranza». E poiché si continuava
a parlare di intrighi politici, mischiandovi il mio
nome, io scrissi al Peano dicendogli che, a mettere
ad essi fine, la miglior cosa era di fare pubblicare
nella Tribuna, che si era già espressa chiaramente
e per conto suo in tale senso contro le voci tendenziose, una lettera che io gli avevo scritto alcuni giorni
avanti. E così fu pubblicata quella lettera, che qui
riproduco:    ,
«Cavour, 24 gennaio 1915.  

Caro Amico,
È stranissima la facilità con la quale, parte in buona, parte in mala fede, si formano le leggende. Ora due tendono a formarsi; una di pretesi miei rapporti col Principe di Bülow, l'altra la opinione che mi si attribuisce che si debba mantenere in modo assoluto la neutralità in qualunque caso.
Conosco il Principe Bülow da molti anni; ho
grande stima del suo ingegno e del suo carattere;
l'ho sempre trovato amico dell'Italia, beninteso mettendo sempre in prima linea il suo paese, come è
suo dovere.    
Egli quando era a Roma come semplice privato veniva spesso a trovarmi. Ora, che venne a Roma come ambasciatore, lo incontrai per caso in piazza del Tritone; egli mi disse che voleva venire a trovarmi; io gli risposi che essendo io un disoccupato sarei andato da lui, e così feci l'indomani. Si parlò in modo affatto accademico dei grandi avvenimenti; ma mi guardai bene dall'entrare nell'argomento del contegno che debba tenere l'Italia. Avrei mancato al mio dovere, ne egli entrò in tale argomento, perchè egli è uomo che non manca mai alle convenienze.
Alcuni giorni dopo venne a rendermi la visita; io non ero in casa, mi lasciò una carta da visita e non lo vidi più essendo io partito da Roma.
La mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra leggenda.
Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare solo quando è necessario per l'onore e per i grandi interessi del paese.
Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per un sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del paese. Ma quando fosse necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho  provato.
Credo molto, nelle attuali condizioni dell'Europa, potersi ottenere senza guerra, ma su di ciò chi
non è al governo non ha elementi per un giudizio
completo.    .
Quanto alle voci di cospirazioni e di crisi non le credo  possibili.  Ho appoggiato  ed appoggio  il Governo, nulla importandomi delle insolenze di chi si professa suo amico ed invece è forse il suo peggior nemico.
«Gradisca i miei più cordiali saluti
aff.mo   Giolitti»

.
Quantunque quella lettera esprimesse idee che corrispondevano pienamente all'azione che il Governo aveva cominciato a svolgere sino dal 9 dicembre con la prima Nota all'Austria, stampata poi nel Libro Verde, e che continuò a svolgere ancora per alcuni mesi; e quantunque essa si opponesse decisamente alle velleità di crisi e di opposizione, le malignazioni ed insinuazioni continuarono. Per cui io., rispondendo ancora, il 3 aprile, ad un'altra lettera dell'onorevole Peano, scrivevo: «Lo spettacolo più doloroso è quello che danno molti uomini politici, i quali cercano di risuscitare le antiche gare, che furono la vera peste dell'Italia, parteggiando per nazioni straniere, anziché pensare agli interessi veri del nostro paese. Io conto di restare qui a Cavour per molto tempo, per evitare la nausea di pettegolezzi che, a Camera chiusa, infestano la vita politica».

E così feci; e per tutto quel periodo non ebbi rapporti di alcun genere con nessuno; solo constatavo che la corrente contro la guerra andava diventando in tutto il Piemonte predominante in misura straordinaria, e che tutti gli uomini politici di quella regione si mostravano apertamente e decisamente contrari al nostro intervento nell'immane conflitto.

Tornai a Roma nel mese di marzo, per la riapertura della Camera. Trovai l'ambiente assai agitato, anche per ragione del ritardo dei soccorsi, e dell'azione, che pareva poco efficace, compiuta dal Governo pel terremoto della Marsica. Molti deputati mostravano apertamente di non fidarsi della condotta del governo, temendo che si lasciasse trascinare alla guerra, e molti dei miei amici politici credevano opportuno provocare una crisi. Io ero invece di contrario avviso, perchè si sapeva ormai che trattative erano avviate  fra il  governo  e l'Austria,  ed  io  pensavo che non si dovesse in alcun modo disturbare tale azione, avendo io piena fiducia che il Governo comprendesse la convenienza di ottenere dall'Austria le maggiori  concessioni evitando  di  portare  il  paese al  rischio  della guerra. 

Queste mie  convinzioni  e sentimenti  io  procurai di fare  prevalere  presso  i miei amici; mentre nelle conversazioni che in quei giorni ebbi assai frequenti, nelle sale del Parlamento, specie con gli uomini politici che volevano la guerra e si industriavano  a persuadermi della sua convenienza, sostenendo sempre che sarebbe stata brevissima, e che il nostro intervento sarebbe riuscito decisivo; io sostenevo il mio punto di vista, già espesto, sulle difficoltà ed i sacrifizi a cui si sarebbe andati incontro; e ricordo che dicevo loro che, lungi dal credere ad una prossima fine, io ero d'avviso che la guerra fosse appena incominciata, e che quindi ad ogni modo non c'era ragione di avere fretta.

Il  Governo  intendeva di domandare  un  voto  di fiducia,   con   piena  libertà   d'azione,   riferendosi   ai negoziati, ormai a tutti noti, che stava conducendo, L'on. Salandra, qualche giorno avanti questo voto e prima che il Parlamento si chiudesse per le vacanze di Pasqua, desiderò di avere un colloquio meco, e venne a trovarmi a casa mia. Avemmo una conversazione nella quale egli mi confermò le voci che il Governo  stesse trattando con l'Austria, senza però entrare in particolari. Io gli dissi che era mio desiderio che il Parlamento gli desse modo di premere sull'Austria tanto da potere ottenere le massime concessioni possibili. Questa conversazione mi persuase sempre più della necessità di lasciare mano libera al Governo, e mi convinse pure che non c'era affatto ragione di allarmarsi per i provvedimenti militari che il  Governo stava prendendo, i quali, mentre erano generalmente giustificati dalla situazione, dovevano sopratutto servire a dimostrare all'Austria la necessità per essa di affrettarsi a fare serie concessioni.

Da questa conversazione io avevo del resto ritratta la precisa impressione che il proposito del Governo  non era di entrare in  guerra, ma di  premere con tutti i mezzi per persuadere l'Austria a mettere fine alle sue tergiversazioni, ed a decidersi a soddisfare alle giuste esigenze italiane, in base all'art. 7 del Trattato di alleanza ed alle convenzioni particolari  pei  Balcani; e  questa  mia  impressione io  la manifestai apertamente a molti amici.  Il contrasto voluto poi stabilire fra la mia cosidetta politica neutralista e delle concessioni, e la politica del Governo, non ha ragione di essere, ed è anzi smentito decisamente dalla stessa pubblicazione del Libro Verde; la quale dimostra come il nostro Governo trattasse lungamente con Vienna per ottenere delle concessioni, appoggiato in ciò dalla Germania; e come anche all'ultimo fossero fatte delle richieste moderate, e quindi intese evidentemente a che fossero accettate, fra l'altro rinunciando alla aspirazione, pure giustificatissima, che la città italiana di Trieste fosse inclusa nei confini del Regno.

E certo il torto del fallimento di quelle trattative, fu principalmente dell'Austria, col respingere, sino a quando apparve poi essere troppo tardi, le domande che il Governo italiano aveva avanzate con spirito di equità e di moderazione.

Dopo la mia conversazione con l'on. Salandra, io esortai caldamente i miei amici, pure ancora dubitosi, a votare pel Governo. Una crisi in quel momento, nel mio pensiero, avrebbe avuta una di queste due conseguenze: —o sarebbe venuto un Ministero propenso alla guerra, e questo io non potevo approvare; o veniva un Ministero a tendenze troppo evidentemente neutraliste, ed allora non si sarebbero ottenute dall'Austria le concessioni, senza le quali la guerra non avrebbe potuto essere evitata. Le mie argomentazioni persuasero i miei amici, e il Ministero ottenne il voto di fiducia, per la piena libertà d'azione, che aveva richiesto.

Durante il mese di aprile ricevetti da amici ed anche da altre persone del mondo politico con le quali ordinariamente non avevo domestichezza, lettere di più in più allarmanti, che mi segnalavano il pericolo che l'Italia fosse trascinata di sorpresa alla guerra, indicando indizi e raccogliendo voci, ma senza niente di veramente preciso. Erano preoccupazioni ed allarmi che potevano rispondere semplicemente alla polemica, che si agitava sempre più vivace nei giornali, fra le due schiere degli interventisti e dei neutralisti, in cui si era ormai divisa la pubblica opinione. Un solo fatto mi fu segnalato che avrebbe potuto essere assai significante, e che cioè alla cerimonia di Quarto, per la quale era stato chiamato come oratore il D'Annunzio, che aveva già manifestato in modo acceso la sua convinzione che l'Italia dovesse partecipare alla guerra, sarebbe intervenuto il Re; ma ciò poi non avvenne.

Il 29 aprile ricevetti una lettera di un notevole personaggio tedesco, amico del Principe di Bülow, e che io avevo già conosciuto ad Homburg nella occasione del mio incontro colà col Principe stesso, parecchi anni avanti; il conte von Hutten Czapxski, il quale mi scriveva da Milano dicendomi di essere venuto direttamente dalla Germania, e di parergli suo dovere di chiedermi il grandissimo favore di un colloquio, nella speranza di rendere un servizio ai nostri due paesi. A quella richiesta io risposi con  la  lettera  seguente:

«Cavour, 29 aprile,  1915.

Onorevole Signor Conte,
Ella non può dubitare che con gran piacere avrei una conferenza con Lei; ma le circostanze attuali sono tali che ho dovuto prendere la decisione di astenermi da qualunque atto che sia o possa appjarire ingerenza mia nelle questioni di politica estera. Con la migliore intenzione potrei produrre un effetto contrario ai miei desideri.
Questo posso dirle, che l'Austria, con la sistematica persecuzione d'egli italiani suoi sudditi, ha creato in Italia una opinione pubblica ostilissima ad essa, e di ciò credo sia anche Ella informata.
Quanto alle trattative in corso, mi consta che le ottime intenzioni della Germania incontrano ostacolo insuperabile nella mala volontà dell'Austria, la quale fa offerte assolutamente non tali che possano condurre ad una soluzione pacifica.
Anche ora l'Austria arriverà troppo tardi, perchè la sua mentalità non le permette di comprendere la mentalità e i sentimenti degli italiani.
So che il Governo italiano fa domande ragionevoli,, e chiede il minimo occorrente ad una soluzione pacifica; la sola opera che praticamente possa conservare la pace deve essere rivolta a persuadere l'Austria a cedere ciò che non potrà a meno di perdere, e che per essa oramai non costituisce più che una debolezza, poiché non potrà contare mai sulla devozione degli attuali suoi sudditi italiani.
Sono proprio dolente di non potere avere una conversazione con Lei; ma da un lato non potrei dirle che ciò che Le scrivo, e dall'altro ogni mia anche indiretta ingerenza potrebbe avere per effetto di creare equivoci dannosi.
Gradisca, signor Conte, gli attestati della più distinta stima
Giovanni Giolitti».

Questi, furono i cosidetti obliqui contatti che io ebbi coi rappresentanti e personaggi austriaci e tedeschi in quei mesi della neutralità italiana.

Altre lettere ricevetti da Roma, nei primi giorni di maggio, da parte di amici che insistevano sugli indizi che ormai il Governo fosse deciso alla guerra. Sino all'ultimo io non avevo però avuta notizia alcuna di impegni che il Governo avesse preso, o anche soltanto di deliberazioni in tale senso; e quando partii da Torino per Roma, io non venivo che per la prossima apertura della Camera, ed anche per rendermi conto da vicino di ciò che stava accadendo. Alla partenza da Torino ci fu un primo episodio di tentata intimidazione, evidentemente preordinato; un certo numero di giovanotti vennero a fischiarmi alla stazione, e furono redarguiti dagli amici che mi accompagnavano. Arrivando a Roma, la cosa si ripetè in maggiori proporzioni.

Alla stazione fui avvertito che una folla di nazionalisti mi attendeva per farmi una dimostrazione ostile, e fui consigliato di uscire, non dalla porta solita, ma da una di passaggio; ma io rifiutai, rispondendo che volevo passare per dove ero passato sempre, e che se c'era una dimostrazione contro di me era bene che io la vedessi. E infatti un gruppo di dimostranti attorniò me e gli amici che erano venuti ad incontrarmi, e mi accompagnò sino a casa mia, fischiando e gridando abbasso. Quando io fui al portone, mi rivolsi e dissi loro: — Ma almeno per una volta tanto gridate «viva l'Italia!» —

Nella giornata e nella mattinata seguente ricevetti oltre trecento biglietti da visita e lettere di deputati che si dichiaravano d'accordo con l'opinione, da me sempre apertamente manifestata, che non si dovesse allora entrare in guerra; e pure molte lettere e biglietti di Senatori. Erano una dimostrazione del sentimento e del pensiero della maggioranza parlamentare. Quei deputati e senatori furono poi accusati di faziosità, e di avere tentato di sovrapporsi alle prerogative della Corona, a cui compete nello Statuto la decisione per la guerra e per la pace. Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò la guerra alla Francia, Asquith, dopo avere convocato il Consiglio dei Ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: — Il Governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento. — La Costituzione nostra è in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al  Parlamento.

La mattina del giorno 7 ricevetti un biglietto di Carcano, allora Ministro del Tesoro, che mi diceva di avere bisogno di parlarmi nella giornata. Io gli fissai un appuntamento per le quattro e mezza del giorno dopo, perchè nel pomeriggio mi recavo a Frascati, dove era mia moglie, e dove intendevo trattenermi sino al pomeriggio dell'indomani. Il Carcano venne all'appuntamento fissato, ed avemmo una lunga conversazione, nella quale egli mi espose largamente le ragioni per le quali il Governo credeva necessario di entrare allora in guerra. Io ribattei pure lungamente le sue argomentazioni, dimostrandogli tutti i pericoli ai quali l'Italia sarebbe andata incontro. Il Carcano si commosse molto alle mie parole, e gli vennero le lacrime agli occhi; ma concluse che ormai la decisione del Governo di entrare in guerra era definitiva. Egli non mi parlò però in alcun modo, né fece il menomo accenno di un trattato che fosse stato sottoscritto; e il suo silenzio su questo punto lo compresi solo qualche anno dopo quando, il Trattato di Londra essendo stato pubblicato dai bolscevichi, vidi che c'era in esso l'impegno formale di tenerlo segreto. Prima che mi spiegassi il suo silenzio per tale ragione, era perfino sorto in me il dubbio che egli non ne avesse conosciuta l'esistenza, perchè fra lui e me vi era tale intimità, sino dal tempo che egli era stato mio sottosegretario nel 1893, che senza quell'obbligo del segreto non avrei capito che egli non me ne avesse parlato più apertamente e non me l'avesse confidato, sapendo che poteva fare pieno assegnamento sul mio silenzio.

Ricevetti poi l'invito di recarmi da Sua Maestà il Re, che vidi il mattino del giorno appresso, ed al quale io esposi tutte le mie ragioni contrarie alila guerra; ma anche in quella conversazione l'obbligo del segreto, scritto nel Trattato, impedì che io ne fossi informato. Più tardi, verso mezzogiorno, venne da me Bertolini, che mi aveva già informato delle offerte fatte dall'Austria con la garanzia della Germania, e le quali del resto erano state messe largamente in circolazione negli ambienti italiani dal deputato tedesco Erzberger, e che si avvicinavano assai alle domande fatte dall'Italia, come apparve poi con la pubblicazione del Libro Verde; per dirmi che Salandra desiderava vedermi. Io gli risposi che non avevo nessuna difficoltà; e siccome il Salandra, nell'ultimo nostro incontro era venuto a casa mia, così mi proposi di recarmi questa volta a casa sua. E vi andai alle quattro dello stesso giorno.

Salandra mi disse .che sapeva della mia conversazione col Re; io ripetei a lui tutte le ragioni per le quali credevo che l'Italia avrebbe commesso un errore entrando in guerra nelle condizioni in cui la guerra si presentava allora; e nessuno certo allora immaginava nemmeno che potessero intervenire gli Stati Uniti. Salandra mi rispose che il Governo aveva ormai presa la deliberazione di entrare in guerra; che gli era impossibile di tornare indietro, e che se non avesse potuto dichiarare la guerra per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe dovuto dimettersi. Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati avevano espresso al mio punto di vista, donde desumeva la possibilità che il Parlamento potesse votargli contro. Queste stesse dichiarazioni dell'on Salandra escludono che io venissi informato dell'esistenza del Trattato di Londra, perchè altrimenti la conversazione e la discussione si sarebbero rivolti ad altri punti ed avrebbero preso altro corso. Anche per lui si comprende che l'obbligo del segreto valse ad impedirgli di darmi intera notizia del come stessero le cose.

E dopo compresi pure che il Governo aveva un'altra e specialissima ragione per mantenere il segreto più assoluto. L'articolo secondo del Trattato disponeva infatti così: — L'Italia da parte sua s'impegna a condurre la guerra con tutti i mezzi a sua disposizione d'accordo con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, contro gli Stati che sono in guerra con esse. — La guerra, per l'articolo ultimo, doveva iniziarsi entro il 26 maggio. Per effetto di questi patti l'Italia avrebbe dovuto entrare in guerra nello stesso tempo contro l'Austria e contro la Germania: invece il Ministero di quel tempo parlò sempre esclusivamente di guerra all'Austria per la liberazione delle terre italiane irredente; Parlamento e Paese non seppero, come non seppi io, che si entrava in guerra contro la Germania, alla quale la guerra infatti non fu dichiarata finché rimase al potere quel Ministro, che mancava così al patto, destando nei paesi alleati diffidenze che cessarono solamente quando, oltre un anno dopo, il Ministero Boselli dichiarò la guerra alla Germania.

Tutto questo spiega perchè a me non si parlò nel maggio del 1915 del Patto di Londra.

Ad ogni modo, ritornando agli avvenimenti di quei giorni, il Salandra parve rendersi conto delle difficoltà della situazione, ed all'indomani, 11 maggio, presentò le sue dimissioni, lo fui chiamato nuovamente dal Re per le consultazioni d'uso che si fanno quando avviene una crisi ministeriale. Sempre nell'ignoranza degli impegni formali che l'Italia aveva assunti verso le potenze dell'Intesa, io espressi l'avviso che non potesse essere incaricato del Governo un uomo il quale fosse ritenuto come avverso all'entrata dell'Italia in guerra, e suggerii i nomi di Marcora o di Carcano, i quali essendo conosciuti come uomini che in caso di necessità sarebbero arrivati anche alla guerra si trovavano in condizioni di ottenere dall'Austria le maggiori concessioni.

Il Marcora, dopo essere stato in udienza dal Re, mi scrisse che desiderava di vedermi, e venne effettivamente a trovarmi, il giorno 14, e mi dichiarò che egli pure era d'opinione della necessità di entrare in guerra senz'altro. Carcano non lo rividi più. L'indomani il Re non accettò le dimissioni dell'on. Salandra; ed io, avendo considerata finita la mia missione, il giorno 17 partii per Cavour. Per tutti quei giorni che fui a Roma, nell'intervallo fra le dimissioni e la riconferma del Ministero Salandra, si promossero per la città dimostrazioni e comizi, diretti contro di me particolarmente e contro il Parlamento, senza che la polizia intervenisse anche quando le cose passavano la misura.

Ricordo che in un comizio tenuto al teatro Costanzi, vicino a casa mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone di cavalleria ed un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise che arrivasse fino a me. La sera dopo, quando non c'era più alcuna minaccia, si fece intorno a casa mia uno spiegamento enorme di forze, bloccando tutte le strade che conducevano a Piazza Esquilino. In quei giorni ricevetti un'immensa quantità di lettere anonime, direttemi da ogni parte; erano tante che ne riempii due volte il cestino della cartaccia. Il fatto più curioso e caratteristico di quelle lettere anonime, provenienti da paesi lontani l'uno dall'altro, dal Veneto, dalla Sardegna, dalla Toscana, dalla Sicilia, era che tutte contenevano la stessa formula, e cioè l'accusa che io avessi presi venti milioni dall'Austria e dalla Germania per cercare di impedire la guerra. Alcuni degli anonimi scrittori, trovando forse la cifra troppo modesta, l'avevano raddoppiata.

Questa strana coincidenza della identità di un'accusa fantastica e canagliesca, mi fu di conforto in quei torbidi gioirai; perchè capii che essa non era la spontanea espressione di cittadini che ragionassero con  la  propria testa, ma una cosa preordinata ed organizzata dai fautori e dagli interessati alla guerra ad ogni costo.

Mi ritirai a Cavour; e poiché, dopo dichiarata la guerra, ogni cittadino, qualunque sieno le sue opinioni, ha il dovere di fare quanto può per assicurare la vittoria, da quel giorno non una parola uscì dal mio labbro che potesse generare sconforto o turbare la concordia cittadina, prima necessità per un paese in guerra. Per cui mi astenni anche dal rilevare gli insulti e dal rispondere alle più assurde calunnie di giornali i quali, in nome del patriottismo, seminavano la discordia. Era evidente che non mancava chi cercava di sfruttare quella situazione agli effetti della politica interna; e ci furono parecchi che, pretendendo di fare del super-patriottismo accusando gli altri, in realtà compivano una pericolosissima opera di disgregazione.

Ebbi occasione di parlare della guerra poco dopo, il 5 luglio del 1915, al Consiglio Provinciale di Cuneo, e così mi espressi: — «I sentimenti della rappresentanza di una provincia come la nostra, la cui storia è da secoli una serie non interrotta di lotte per l'indipendenza dallo straniero e di devozione alla Monarchia di Savoia, non possono essere dubbi. Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzione di partiti e senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell' appoggio incondizionato al Governo, nella illimitata fiducia nell'esercito e nell'armata. L'impresa alla quale l'Italia si è accinta è ardua e richiederà gravi sacrifizi; ma nessun sacrifizio ci parrà troppo grave se ricorderemo sempre che dall'esito di questa guerra, dalle condizioni della pace che vi porrà termine, dalla situazione politica nella quale ci troveremo a pace conclusa, dipenderà l'avvenire dell' Italia per un lungo periodo della sua storia». — E terminavo con un appello alla concordia.

Tale appello, fatto anche da altre parti, rimase inascoltato da molti che del patriottismo volevano il monopolio per poterlo meglio sfruttare, ed io, che per la saldezza del paese credevo necessario evitare perfino qualunque apparenza di discordia, mi astenni per molto tempo dall'intervenire alla Camera. Nella condizione che mi era stata creata, era quello l'unico servizio che io potessi allora rendere al mio paese.

La notizia delle infauste giornate di Caporetto, io la ebbi a Cavour da un tenente degli alpini, Palazzoli, che fu mandato a me da Bissolati per dirmi se io avevo modo di fare qualche cosa per sostenere lo spirito pubblico. Io risposi che non potevo prendere una iniziativa individuale; ma siccome si sarebbe certo convocato il Parlamento, io non avrei mancato di intervenire e di fare la parte che si fosse creduta più utile. Ricevetti quasi subito dopo una lettera del Presidente del consiglio Orlando ed una del Presidente della Camera Marcora che mi chiedevano di intervenire all'apertura della Camera. Giunto a Roma fu convocata presso il Presidente della Camera una riunione degli antichi Presidenti del Consiglio; cioè Salandra, Boselli, Luzzatti ed io. Ricordo che appena entrato nella sala fui io il primo a stendere la mano a Salandra, per dimostrare che, in quel momento non doveva esserci alcuna divisione di persone.

In quella riunione, in cui intervenne anche Orlando, che pochi giorni prima di Caporetto aveva assunto la Presidenza, si accennò di dare ad uno solo l'incarico di parlare alla Camera, e capii che si voleva evitare che parlassi io, pel timore di qualche dimostrazione il cui significato potesse parere ambiguo. A questo io non potevo consentire, non volendo parere che ad intervenire al Parlamento io fossi stato trascinato quasi riluttante, e dichiarai che avrei parlato, in forma brevissima, e procurando che per parte dei miei amici nessuna dimostrazione fosse fatta che potesse dare luogo ad ambigue interpretazioni. Allora si convenne che ognuno di noi avrebbe parlato; ed io feci infatti nella solenne seduta dell'11 novembre 1917 una brevissima dichiarazione.

Questo, e i discorsi che pronunciai alle aperture annuali del Consiglio Provinciale di Cuneo, alcuni dei quali riguardavano anche il futuro e causarono viva impressione, furono i soli miei atti pubblici durante la guerra. Privatamente, nella corrispondenza con amici e con persone, fra le quali anche alcuni che nel maggio del '15 si erano da me distaccati, io sostenni sempre la necessità della resistenza e della lealtà verso i nuovi alleati sino all'ultimo, quantunque le mie più gravi preoccupazioni sulla lunghezza del conflitto, sulle sue difficoltà e l'enormità dei sacrifizi si fossero purtroppo avverate. La caduta della Russia, che già io avevo prevista nelle conversazioni e nelle lettere scambiate durante il periodo della nostra neutralità, e la cui previsione era stata una delle maggiori ragioni per cui io avevo raccomandata la prudenza, non mi giunse naturalmente inaspettata. Per fortuna ci fu la coincidenza dell'intervento americano, che io consideravo decisivo, sopratutto perchè mentre assicurava a noi i mezzi finanziari ed i rifornimenti necessari, rendeva assolutamente impossibile qualunque ulteriore rifornimento del nemico, col conseguente effetto morale.

Io avevo sempre, sino dall'inizio, considerata la guerra come uno di quei supremi conflitti storici nei quali vengono poste a repentaglio le intere fortune ed i destini secolari delle nazioni; per cui le nazioni che vi sono impegnate non cedono e non si rassegnano sino a che tutti i loro mezzi di resistenza non siano esauriti. Trattandosi quindi di una guerra di esaurimento, l'intervento americano, chiudendo qualunque sia pure indiretta strada ai rifornimenti nemici, ed assicurando i rifornimenti nostri, segnava già la decisione finale del conflitto.

Quanto alle cose interne, io seguii sempre con grande ammirazione lo spirito di sacrifizio e il valore dei soldati, come pure la resistenza e la fermezza del paese; ma non potei non constatare anche la deplorevole avidità di soverchi guadagni in molti che avevano rapporti d'interesse con lo Stato, e l'ostentazione di lusso e di divertimenti degli arricchiti della guerra, che facevano una sinistra impressione sui soldati che venivano dalle trincee pei loro brevi congedi presso le loro famiglie.

Caporetto fu una grande sventura, ma servì però anche a risvegliare in tutto il paese la coscienza della gravità della situazione e della necessità di affrontarla con sentimento più austero. E le cose migliorarono, non solo nell'opinione pubblica, ma anche nell'esercito, con la sostituzione nel Comando Supremo del generale Diaz al Cadorna, che aveva lanciata la indegna accusa di viltà ai nostri soldati, i quali pure avevano risposto con così esemplare abnegazione e cruenti sacrifici per due anni e mezzo a tante sue richieste.

Gli effetti del mutato indirizzo nel trattamento dei soldati, si videro poi nella gloriosa battaglia del Piave, che pel momento in cui venne combattuta e vinta dai soldati italiani, fu una delle più importanti battaglie della guerra europea, e fu preludio alla grande vittoria di Vittorio Veneto, che segnò la definitiva sconfitta dell'esercito austriaco e la distruzione dell'Impero degli Asburgo.

Nessuno potè sentire per la definitiva vittoria una gioia più viva di me, che avevo avuto chiara la visione delle spaventevoli conseguenze che per l' Italia avrebbe avuta la guerra, se non fosse terminata con una vittoria completa e definitiva.

Non ebbi alcuna parte nella pace, e non fui richiesto da alcuno. Io considerai però che alla grandezza della vittoria non corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle trattative diplomatiche; e particolarmente ingiusto mi parve il rifiuto di riconoscere alla città di Fiume il diritto di ricongiungersi alla madre patria. Bisogna però riconoscere che la responsabilità di ciò risaliva a quel Governo che nel Trattato con cui eravamo entrati in guerra aveva scritta una clausola nella quale era detto espressamente che Fiume doveva essere data alla Croazia. Questa rinuncia, ingiustificabile perchè fatta in un momento in cui i futuri alleati nulla avrebbero negato all'Italia, fu la prima fonte delle difficoltà che si incontrarono nelle trattative di Parigi. Nessun argomento, per negare Fiume all'Italia, avrebbe potuto trovare il Presidente Wilson, che fosse così forte come la esplicita adesione del Governo italiano di consegnarla ai Croati.

Ed altro grave errore era pure stato commesso quando, entrando in guerra, il Wilson aveva dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero riconosciute le stipulazioni dei trattati segreti. Il ministro degli esteri italiano avrebbe dovuto fare subito fronte a quella dichiarazione del Presidente americano, mettendolo al corrente del nostro Trattato con gli altri alleati, per togliergli lo stigma della segretezza, e per provocare spiegazioni che potevano riuscire più favorevoli mentre la guerra durava, anzi doveva affrontare ancora alcune delle più aspre prove, che non a guerra finita. Ed è a ricordarsi che nelle polemiche diplomatiche che seguirono poi fra Wilson, l'Italia e gli Alleati, il Wilson si lagnò appunto, e con asprezza, del segreto mantenuto verso di lui, su gli accordi intervenuti fra gli Alleati e l'Italia.

Con l'avvento della pace, anche a parte le difficoltà internazionali per la soluzione dei problemi del nostro confine, io prevedevo pure gravi difficoltà •interne» e ritenevo opportuno che al più presto si rafforzasse l'autorità del Governo e del Parlamento, con elezioni che portassero alla Camera una rappresentanza che fosse in piena corrispondenza con il sentimento ed il pensiero del paese; tanto più che per le necessità della guerra, la Camera eletta con i comizi dell'ottobre 1913, aveva sorpassati i limiti fissati alla sua vita dallo Statuto, e non possedeva più alcuna autorità, essendo effettivamente una Camera di semplici futuri candidati. E credevo pure opportuno che la nuova Camera fosse eletta quando l'entusiasmo della vittoria non fosse stato troppo attenuato ed oscurato dalla constatazione delle nuove, gravissime difficoltà che l'Italia doveva affrontare pure nella pace, col conseguente malcontento. Quindi nel mese di aprile del 1919, scrissi due volte al mio amico Facta, che era Ministro Guardasigilli con Orlando, esponendogli le ragioni per cui conveniva che si procedesse al più presto alle elezioni politiche. Orlando conveniva pienamente con me, riconoscendo la giustezza delle mie osservazioni; ma impegnato nelle trattative internazionali, non si decise a tempo a interrogare il paese.

Chiusasi la Conferenza senza che le aspirazioni dell'Italia fossero soddisfatte, Orbando cadde e gli successe l'on. Nitti.

Per quanto concerne l'opera compiuta dall'onorevole Orlando, durante il suo Ministero che s'iniziò con l'avvenimento più infausto della guerra, e finì con la vittoria completa, io riconobbi sempre il grande merito che egli ebbe nel sostenere, con incrollabile fervore, lo spirito pubblico dopo Caporetto. Sul modo con cui egli condusse poi a Parigi le trattative, nessun giudizio posso esprimere, mancandomene i necessari elementi.

XVII.

Il Ministero del dopo guerra.

Il programma - L'Albania - La pace - Fiume.


Il Ministero Nitti; sue incertezze e sua caduta— Il programma con cui assunsi il governo — Necessità di risolvere le questioni internazionali e quella di Fiume — Progetti radicali presentati al Parlamento per la politica estera e finanziaria — L'episodio di Ancona — Perchè sgomberai Vallona — Mio incontro con Lloyd George a Losanna e con Millerand a Aix-les-Bains — Il progetto del governo per la soluzione della questione jugoslava — Abbandono dei progetti antecedenti per chiedere il confine naturale — Rapida conclusione dal trattato di Rapallo — Vani tentativi per persuadere D'Annunzio — L'azione per ristabilire la situazione normale a Fiume.

Il primo Ministero dell'on. Nitti aveva cominciato abbastanza bene, fronteggiando le agitazioni della piazza, provocate sopratutto dal rincaro del costo della vita, che i socialisti rivoluzionari tentavano di volgere a fini politici, con una certa fermezza che valse per un momento a vincere le diffidenze con cui era stato accolto, e gli assicurò larghi suffragi tanto alla Camera quanto al Senato. Questo suo atteggiamento però non fu duraturo; presto, e sopratutto dopo le elezioni del 1919, egli cedette sempre più alle imposizioni dei partiti estremi, dando l'impressione di credere che ormai le sorti dell'Italia e dello Stato fossero irrevocabilmente nelle loro mani. Per la politica estera non riuscì a risolvere la nostra questione con lo Stato Jugoslavo e ad assicurarsi il cordiale appoggio degli Alleati, vedendo l'una dopo l'altra le sue troppo frettolose e mutevoli proposte respinte; per le questioni interne si ridusse a ripetere continuamente la raccomandazione della necessità dell'ordine e della parsimonia; ma nella storia politica non c'è esempio che le prediche abbiano mai avuto grande effetto, richiedendosi dall'uomo di Stato non il sermoneggiare, ma l'agire.

Riuscì a lanciare l'ultimo prestito nazionale con notevole successo, la borghesia italiana rispondendo con larghezza alle domande dello Stato nella persuasione che con quel prestito si riuscisse a sanare la situazione; ma invece i proventi, che in danaro ammontavano a sette miliardi effettivi, furono divorati dai disavanzi, specie per l'assurda politica del prezzo del pane che portava via all'erario oltre sei miliardi all'anno.

L'on. Nitti ebbe la debolezza di lasciarsi imporre, pel timore di una crisi, a proposito del prezzo del pane, l'ordine del giorno Casalini, che stabiliva che tale prezzo non fosse modificato se non dopo che fossero tassati tutti i generi di lusso e solo col consenso della Camera; mentre la responsabilità della eliminazione, sia pure graduale, di quel prezzo politico, adottato d'autorità dal governo per le ragioni della guerra, competeva interamente al governo stesso. Poi, disperando di ottenere il consenso parlamentare di fronte all'opposizione socialista, che minacciava tumulti ed ostruzionismo, e rendendosi pure conto  del  baratro  che  quel  prezzo  assurdo   apriva nel bilancio dello Stato, tentò di abolirlo mediante un decreto legge, che viceversa dovè poi ritirare, quando il suo terzo Ministero si presentò già dimissionario.

L'unica legge che l'on Nitti riuscì a far votare dal Parlamento, fu quella del mutamento del sistema elettorale, dal collegio uninominale alla proporzionale. È giusto riconoscere che l'infatuazione per questa riforma fu in quel momento quasi universale, alcuni vedendovi in buona fede un progresso; altri, e forse i più, quelli che erano sicuri di avere perduto l'antico collegio, accettandola con la speranza di migliore fortuna. Per conto mio, agli amici che mi scrivevano magnificandola ed invitandomi a venire a Roma per dare ad essa anche il mio voto, io, limitandomi quanto al merito ad esprimere gravi dubbi, avevo risposto che a mio avviso una Camera, la quale aveva già da tempo oltrepassati i cinque anni, termine massimo fissato dallo Statuto, e che quindi non era più la rappresentante della volontà degli elettori, non aveva il diritto di mutare così in fretta e furia una delle fondamentali leggi politiche dello Stato.

Alla caduta del terzo Ministero Nitti, io fui indicato alla Corona dalla unanimità degli uomini politici consultati, ed assunsi il Governo.

Quali fossero le mie idee riguardo il compito che spettava ai governi dell'immediato dopo guerra, io l'avevo già largamente indicato col discorso pronunciato a Dronero per le elezioni dell'ottobre 1919, tanto nei riguardi finanziarii, quanto in quelli politici, interni ed internazionali.

Per la politica finanziaria io avevo rilevato l'enorme aumento del debito dello Stato, che si poteva allora calcolare in circa novantaquattro miliardi, ai quali altri poi se ne sono aggiunti per il mancato raggiungimento del pareggio del bilancio. Per questo bilancio io constatavo in quel discorso un disavanzo di almeno quattro miliardi, che il mantenimento dell'assurda politica del prezzo del pane, ed altri coefficienti derivati dalla svalutazione della moneta, avevano poi portato rapidamente ad oltre quindici miliardi.

Per la politica estera io insistevo sulla necessità di assicurare la pace, ancora assai dubbia per noi per la mancata soluzione del problema dei nostri confini orientali; e rilevavo la strana contraddizione dei nostri ordinamenti politici, pei quali, mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, né creare o abolire una Pretura o un semplice impiego d'ordine, senza la preventiva approvazione del Parlamento; può invece, a mezzo di trattati internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né il Parlamento né il Paese ne siano o ne possano essere in alcun modo informati. Ed avevo osservato che un tale stato di cose andava radicalmente mutato, dando al Parlamento, riguardo alla politica, estera, gli stessi poteri che esso ha riguardo alla politica finanziaria ed alla politica interna, prescrivendo cioè che nessuna convenzione internazionale possa stipularsi, nessun impegno si possa assumere senza l'approvazione del Parlamento.

Avevo pure richiamato l'attenzione sulla necessità di accrescere l'autorità del Parlamento contro il quale i partiti reazionari avevano condotta una campagna di diffamazione, a cui si era aggiunto il fatto che quattro anni di pieni poteri governativi avevano di fatto soppressa l'azione del Parlamento italiano, in un modo che non aveva avuto riscontro negli altri Stati alleati. Per noi ogni discussione di bilancio, ogni controllo sulle spese dello Stato e sulle operazioni finanziarie era stato soppresso; il Parlamento era tenuto all'oscuro circa gli impegni finanziari che si andavano assumendo, come di ogni provvedimento militare e di ogni atto diplomatico; l'azione legislativa era stata assolutamente nulla, sostituita anche in materie estranee alla guerra da innumerevoli decreti luogotenenziali, preparati senza discussione, nel chiuso degli uffici, spesso da persone incompetenti, ignare delle vere condizioni del paese; ispirati talora a concetti contraddicentisi e che spesso aggravarono i mali a cui intendevano portare rimedio, producendo lo spreco di miliardi.

A ristabilire l'autorità del Parlamento, io osservavo che non basterebbe ora aumentarne i poteri; ma occorreva che il Parlamento stesso dimostrasse coi fatti di volerli efficacemente esercitare. La pace doveva chiudere quel periodo così deleterio  pel  prestigio del  Parlamento  e così dannoso al Paese, ed aprirne uno nuovo di attività eccezionale. La rappresentanza nazionale, dopo così grave esperimento di governi senza controllo, avrebbe dovuto sentire fortemente l'autorità sovrana che le è delegata dal paese; ed a mio parere, come suo primo atto, essa avrebbe dovuto deliberare inchieste solenni per accertare le responsabilità relative alla guerra; esaminare il modo, con cui erano stati esercitati i pieni poteri; come erano stati stipulati ed eseguiti i grandi contratti di forniture tanto all'interno quanto all'estero, e fare conoscere chiaramente al paese come erano state spese le immani somme di decine di miliardi, delle quali fino allora nessun conto era stato dato.

E riguardo al risanamento del bilancio dello Stato, riconoscevo che esso avrebbe richiesto, oltre le economie nuove, ingenti entrate. Ora queste si possono ottenere in due modi, o portando il peso delle imposte sui consumi, o coll'imporre maggiori oneri sulla ricchezza accumulata. La mia tendenza a questo riguardo non poteva essere dubbia, avendo già per tre volte, quando ero al governo, proposta l'imposta progressiva sui redditi e le successioni. Considerando però che tanto alla imposta sul reddito che a quella di successione sfuggivano quasi per intero i titoli al portatore, che costituiscono grande parte della ricchezza mobiliare, e che a nulla gioverebbe l'inasprimento delle aliquote quando non si impedissero le evasioni, avanzavo la proposta che tutti i titoli di azioni e di obbligazioni dovessero farsi nominativi.

Infine, nel riguardo economico, io dichiaravo che l'Italia non avrebbe potuto trovare la salvezza al di fuori di una austera politica di lavoro, con l'intelligente utilizzamento di tutte le sue risorse materiali e morali, tanto nell'agricoltura che nelle industrie e nei commerci. E concludevo che se il paese, lasciandosi addormentare da quella vuota retorica che tanto danno aveva già recato all'Italia, non si rendesse conto delle vere sue condizioni; seguisse la facile via degli sperperi e dei debiti; non reagisse energicamente contro lo spirito imperialista, iniziando una forte politica di lavoro e di sacrifizio, sarebbe andato incontro al fallimento dello Stato, al discredito nel mondo ed alla rovina economica e politica.

Se invece, seguendo la via del dovere, avesse guardato arditamente alla realtà, affrontando energicamente le gravi difficoltà della situazione e dimostrando in pace quella magnifica resistenza e quel mirabile spirito di sacrificio che in guerra lo avevano portato alla vittoria, esso avrebbe vinto anche le difficoltà presenti, riprendendo le vie del progresso.

Sette mesi dopo, constatando che la situazione rimaneva purtroppo immutata, anzi peggiorava; che la Camera si perdeva in vane declamazioni, senza che il Governo riuscisse a indirizzarla ai suoi compiti, così che anche a guerra finita, si aveva l'ironica situazione che si aspettava che la Camera fosse chiusa, per emanare le leggi a mezzo di decreti; che il disavanzo del bilancio diventava sempre più pauroso e si viveva sui debiti, niente facendosi d'altronde per recuperare il danaro mal tolto allo Stato durante le necessità della guerra; in una intervista, pubblicata sulla Tribuna, io avevo ribadito ancora questi concetti, adattandoli al momento.

Ed avevo detto:

«Nelle gravissime condizioni nelle quali si trova l'Italia, occorre, a mio avviso, un programma di vera ricostruzione, che necessariamente sarà assai complesso, molte essendo le riforme sociali indispensabili, e specialmente riguardo ai lavoratori della terra; ma pure nei provvedimenti necessari vi è una gradazione di urgenza, ed è mio fermo convincimento che due pericoli sopratutto minacciano ora la compagine dello Stato; il discredito del Parlamento e la disastrosa condizione della finanza.

Il prestigio del Parlamento è profondamente scosso nella pubblica opinione per l'assenza assoluta di qualsiasi attività legislativa, avendo esso abdicato ai suoi poteri che da molto tempo vengono esertati dal governo sotto forma di decreti legge. A questo sistema incostituzionale, e che toglie ogni serietà al lavoro legislativo, si deve rinunciare; e non solamente si deve ridare al Parlamento il pieno esercizio del potere legislativo, il controllo effettivo sulle pubbliche spese e sull'ordinamento dei pubblici servizi; ma gli si devono dare anche nella politica estera poteri eguali a quelli che gli spettano sulla politica interna e finanziaria, modificando l'art. 5 dello Statuto, e istituendo nei due rami del Parlamento commissioni permanenti di controllo sulla politica estera.

È necessario inoltre che cessi la facoltà nel potere  esecutivo di  prorogare  le  sessioni del   Parlamento, poiché tale illimitata facoltà pone il Parlamento in condizioni di vera dipendenza del governo.

Quanto alla condizione della finanza dello Stato, per dimostrare l'imminente pericolo che le sovrasta, basta considerare che nei dodici mesi dell'esercizio in corso si avrà un disavanzo non inferiore a 18 miliardi, il quale si copre con debiti e in parte, pur troppo, con emissione di altra carta moneta. L'ultimo grande prestito ha dato, in denaro, 7 miliardi che bastano appena a coprire il disavanzo di cinque mesi.
«Mentre dal 1860 al 1914, in cinquantaquattro anni l'Italia ha fatto appena 14 miliardi di debiti, ora in un solo anno, a guerra finita, ne fa 18. Se non fosse mancato il controllo del Parlamento, ciò non sarebbe avvenuto.

Così si cammina a gran passi verso il fallimento se non si dà, subito, un potente colpo di arresto alle spese, e se non si procurano, senza ritardo, così forti entrate al Tesoro, da escludere in modo assoluto ogni ulteriore aumento di circolazione cartacea, aumento che necessariamente importerebbe una nuova svalutazione della moneta, e quindi un ulteriore aumento del costo della vita.

Per procurare al Tesoro questo forte aumento di entrata due mezzi principalmente si offrono: la revisione dei contratti stipulati dallo Stato durante e dopo la guerra, allo scopo di ricuperare quanto sia stato pagato al di là di una equa misura; e la rigida applicazione della imposta sul capitale.
 
Questa imposta può dare grandi risultati se si
riesce a colpire tutta la ricchezza mobiliare, poiché
il contributo della proprietà fondiaria, come fu determinato con decreto legge, sarà molto limitato. Ora
la ricchezza mobiliare sfuggirà in molta parte all'imposta se non si disporrà, immediatamente per legge,
che tutti i titoli al portatore, di qualsiasi specie, azioni,
obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di debito pubblico, ecc., debbano essere convertiti in titoli nominativi.    

Il valore complessivo dei titoli al portatore sale ad oltre 70 miliardi, i quali sfuggono ora per la maggior parte alla tassa sulle successioni e sfuggirebbero egualmente alla imposta sul capitale, e alla imposta progressiva sul reddito.

Quei 70 miliardi sono in buona parte concentrati nelle grandi fortune, le quali dovrebbero pagare il venti, il trenta, il quaranta e fino il cinquanta per cento, e quando si trattasse di patrimoni formati da profitti di guerra dovrebbero pagare aliquote ancora maggiori; è quindi evidente quanto grande sia il contributo che può averne il Tesoro; ciò però a patto che la nominatività dei titoli renda impossibile la frode.

Il provvedimento è necessario alla finanza, ed è imposto da un'alta considerazione morale, per imprimere nelle masse popolari la sicurezza che gli oneri fiscali sono distribuiti con giustizia, e che non vi possono sfuggire appunto le maggiori ricchezze; ed è consigliato anche da considerazioni di giustizia regionale, in quanto quei 70 miliardi di titoli si trovano per la maggior parte nell'Alta Italia, e solo in piccola parte nel Mezzogiorno.

Una giusta repartizione degli oneri fiscali è condizione indispensabile per ottenere che il Paese li
accetti.

Ho fiducia che gli uomini politici i quali hanno la responsabilità del governo, in tempi così difficili, sentiranno il dovere indeclinabile di rialzare il prestigio del Parlamento, restituendogli l'esercizio dei suoi poteri, e di evitare, con radicali e immediati provvedimenti, il fallimento dello Stato che travolgerebbe in una comune rovina tutte le classi sociali.»

Tutte queste pubbliche manifestazioni del mio pensiero sulle principali questioni non potevano lasciar dubbio sul programma che avrebbe informata l'azione di un Ministero da me presieduto.

Io formai senza difficoltà il nuovo Ministero, chiamandovi uomini di tutti i partiti costituzionali, per stabilire un accordo su un programma preciso e concreto, che mirasse a risolvere le questioni di maggiore urgenza per far salvo il credito e la compagine dello Stato. Affidai il ministero degli Esteri ad un giovane diplomatico che aveva già fatta ottima prova nella sua carriera ed anche reggendo il sottosegretariato di quel dicastero nel governo precedente, il Conte Sforza; al Tesoro chiamai l'on. Meda; alle Finanze l'on. Tedesco; alla Guerra l'on. Bonomi; alle Colonie l'on. Luigi Rossi; all'Istruzione il Senatore Benedetto Croce, come rappresentante della più alta cultura; alle Poste l'on. Pasqualino Vassallo; alle Terre Liberate l'on. Raineri; ai Lavori Pubblici l'on. Peano; ed alla Marina mantenni il Senatore Sechi. Affidai la gestione dell'Ente degli approvvigionamenti e consumi, che doveva essere liquidato, all'on. Soleri. E sino dal primo Consiglio dei Ministri, distribuii ai miei colleghi una serie di progetti di legge, che dovevano essere immediatamente sottoposti alla discussione parlamentare.

II Ministero si presentò al Parlamento il 24 giugno. Nel discorso con cui esposi il mio programma, ripresi e riaffermai i concetti sopra indicati. Per la politica estera indicai chiaramente che il nostro proposito era di condurre a termine la conclusione della pace, ristabilendo rapporti amichevoli con tutti i popoli; dichiarando che come salda garanzia di pace il Parlamento doveva avere nella politica estera la stessa autorità che aveva nella politica interna e in quella finanziaria. E per la completa applicazione di quel principio presentai un disegno di legge, il quale, modificando l'art. 5 dello Statuto, disponeva che i trattati e gli accordi internazionali, quale si fosse il loro oggetto e la loro forma, non sarebbero validi senza l'approvazione del Parlamento, e che senza la preventiva autorizzazione del Parlamento non potesse essere fatta dichiarazione di guerra. E perchè tale controllo parlamentare sulla polilica estera potesse essere esercitato,  io proponevo pure la creazione di Commissioni permanenti presso i due
rami del Parlamento, alle quali dovevano essere comunicati immediatamente i documenti relativi alle
questioni in corso, fra le quali quella dell'Adriatico
predominava.    

Per la politica interna io proclamavo il concetto già esposto della necessità di ritornare all' osservanza dello Statuto; al quale scopo bisognava anzi tutto bandire l'uso dei decreti legge, con le sole eccezioni che si riferissero alla revoca o modificazione di decreti legge non ancora convertiti in legge, alla soppressione di istituti e di impieghi divenuti inutili, ed ai provvedimenti necessari per le terre redente, fino a che non fossero legalmente annesse al Regno. E prospettavo poi provvedimenti minori per le rappresentanze operaie in corpi deliberanti o consultivi; per l'incremento della cooperazione; per le autonomie amministrative basate sul referendum; e per l'esame di Stato, che io consideravo come unico mezzo serio ed efficace pel controllo non solo del profitto degli allievi, ma anche dell'operosità e della attitudine dei professori all'insegnamento.

Per la politica economica richiamavo la necessità di frenare l'aumento del costo della vita, contro esose speculazioni, sostenendo però il concetto che la vera e permanente causa di quell'alto costo, era il deprezzamento della moneta, dovuto all'eccessiva circolazione ed al grave squilibrio fra esportazione ed importazione, e che contro queste cause bisognava indirizzare i rimedi. Per cui era d'uopo estendere la cultura di quelle materie per le quali eravamo più gravemente tributari dell'estero, come il grano, chiedendo al Parlamento poteri speciali per costringere a coltivare a grano tutte le terre suscettibili di tale cultura; di ridurre la necessità delle importazioni di carbone mediante un più vasto utilizzamento delle forze d'acqua, e di iniziare una razionale esplorazione del nostro sottosuolo per lo sfruttamento delle sue ricchezze minerarie.

E per la politica finanziaria proponevo di avocare totalmente allo Stato i sopraprofitti di guerra, in quanto che è ingiusto e immorale che la guerra possa essere fonte di guadagno; di procedere ad una inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e per la revisione dei relativi contratti; di rendere più fortemente progressiva la tassa sulle successioni; di aumentare di molto l'imposta sulle automobili private e di imporre l'obbligo di rendere nominativi i titoli al portatore, che rappresentavano almeno settanta miliardi, la maggior parte dei quali sfuggiva alle tasse sulle successioni, a quella sui redditi ed a quella sul capitale.

E disegni di legge riferentisi a tutti questi punti furono da me in quella stessa prima seduta presentati; perchè il mio primo pensiero era di ridare al Parlamento quell'autorità che solamente poteva venirgli dalla dimostrata capacità di riprendere con ogni energia il suo compito essenziale, e cioè l'opera legislativa, e di dare all'interno e all'estero la prova del fermo proposito di ristabilire l'equilibrio del bilancio.

Assumendo il governo io trovai una situazione gravissima sotto tutti i rapporti. Nella politica estera, i cui problemi dovevano essere per primi risolti, perchè l'attenzione e l'opera del governo potesse poi portarsi tutta alla politica interna e di ricostruzione economica e finanziaria, trovai aperta una guerra in Albania, dove morivano oltre cento soldati al giorno di febbre malarica, e Vallona minacciata e stretta d'assedio, perchè lo sgombero e la ritirata dai territori dell'interno, in se stessa una buona decisione, era stata condotta con troppa manifesta fretta e con conseguente disordine; trovai Fiume occupata da D'Annunzio, con una situazione che costituiva una minaccia continua di guerra; trovai che i negoziati con la Jugoslavia per la definizione del nostro confine orientale erano arenati, perchè tutte le proposte e richieste avanzate dal nostro Governo per una soluzione erano state costantemente respinte.

All' interno l'irrequietezza dei partiti estremi era giunta al colmo; non solo, ma era cominciato un disgregamento negli stessi organi dello Stato, tanto che non si poteva fare viaggiare la forza pubblica senza che i ferrovieri arrestassero immediatamente i treni, e contro un tale stato di cose non era stata tentata la menoma reazione o preso alcun serio provvedimento.

Nel rispetto della politica finanziaria trovai un disavanzo di quattordici miliardi nel bilancio dello Stato, sei dei quali dovuti, come ho già detto, al prezzo politico del pane, ciò che avrebbe in breve volgere di tempo condotto al fallimento.

Tutti questi problemi, ognuno di per sé gravissimo, e che tutti insieme formavano una situazione piena di pericolo, dovevano essere risolti. Il primo che affrontai per forza delle cose fu quello dell'Albania. Le tremende condizioni sanitarie in cui si trovavano le truppe nell'Albania erano note nell'esercito, anche per il rimpatrio continuo dei soldati colpiti dalla malaria; e la notizia che un reggimento di bersaglieri, che si trovava acquartierato ad Ancona, sarebbe stato inviato in Albania per rafforzare la guarnigione di Vallona, provocò una sedizione militare, a cui concorse la sobillazione di elementi anarchici, allo scopo di provocare un movimento insurrezionale. In quella occasione io percepii in tutta la gravità le condizioni del paese, in quanto non si poterono trasportare con la ferrovia le truppe e i carabinieri necessarii a domare la rivolta ed a ristabilire la disciplina e l'imperio della legge; e per l'urgenza della situazione dovemmo provvedere al trasporto delle truppe a mezzo di camions. Che un tale stato di cose fosse in buona parte effetto di inerzia e troppa paura da parte del precedente governo, che nulla aveva fatto per impedire che si formasse, o per arrestarlo alle sue prime manifestazioni, fu poi mostrato dal fatto che per rimettere un po' di disciplina fra i ferrovieri, non fu necessario ricorrere a mezzi eccezionali; e che in breve tempo si riuscì, parte con la persuasione ed il richiamo al dovere, e parte con la ferma applicazione delle punizioni comminate dai regolamenti, ad ottenere che le ferrovie servissero da allora in poi all'interesse dell'ordine pubblico, né si ebbe più alcun caso di rifiuto pel trasporto di truppe, guardie e carabinieri.

Per quanto concerneva l'Albania io ero venuto immediatamente ad una decisione radicale, e l'avevo comunicata ai miei colleghi, dandone le ragioni che avevano ottenuta la loro piena approvazione. A mio parere la questione dell'Albania e di Vallona era profondamente mutata per noi dopo la caduta dell'Impero degli Asburgo. Fino a che esisteva quell'impero militare, le cui coste si estendevano per così grande tratto lungo l'Adriatico, noi avevamo un primario interesse a che esso, penetrando nel territorio albanese, non creasse una situazione per noi ancora più diffìcile, diventando padrone dell'entrata di quel mare; donde gli accordi speciali intervenuti fra l'Austria e noi, allo scopo di evitare gravi conflitti. Dopo la guerra balcanica e la quasi totale rovina del dominio turco in Europa, la nostra politica, nella quale avevamo pure potuto procedere abbastanza d'accordo con l'Austria, era stata di assicurare l'autonomia del territorio albanese, impedendo che la Serbia l'invadesse da settentrione e la Grecia da mezzogiorno. Nelle nuove condizioni sortite dalla guerra europea, l'interesse nostro era pure che l'Albania fosse autonoma, e che nessuno potesse insediarsi nelle sue coste e nei suoi porti; sicuri che l'Albania per conto proprio non avrebbe avuta mai una flotta che potesse essere una minaccia alle nostre coste ed alla nostra libertà di traffico in questo mare.

Riguardo poi a Vallona, io facevo questo ragionamento: che in caso di guerra, se  noi fossimo  i più  forti in mare non avremmo avuto bisogno di Vallona; se fossimo i più deboli, non potendo difenderla e rifornirla per mare,  saremmo costretti ad abbandonarla. E ciò prescindendo anche dalla considerazione della radicale trasformazione che il più largo uso dei sottomarini e degli idrovolanti porterà, secondo i tecnici, nella guerra navale del futuro. Ad ogni modo, ciò che veramente ci interessa è che Vallona non possa costituire una base di operazioni contro di noi; e questo scopo è raggiunto con l'occupazione dell'isolotto di Sasseno, che sta all'imboccatura della baia stessa. Per fare di Vallona una base navale nostra, data la enorme portata delle artiglierie moderne, sarebbe necessaria una occupazione territoriale estesissima perchè il porto non fosse esposto al tiro delle artiglierie nemiche; il che avrebbe importato non solo spese ingenti e continuative, ma, in caso di guerra, l'immobilizzamento di nostre considerevoli forze, che verrebbero sottratte al teatro principale della guerra ed alla difesa del territorio nazionale.

Per tutte queste ragioni io decisi di rinunciare al mandato, conferitoci dalla Conferenza di Parigi, sull'Albania, che avrebbe rappresentata una enorme passività senza alcun utile, e di limitare la nostra azione alla protezione diplomatica dell'Albania contro le mire di altri Stati, e di abbandonare Vallona, assicurandoci però il riconoscimento del possesso di Sasseno; ed inviai in Albania il Barone Alliotti, con tutti i poteri per trattare col governo albanese a questo scopo. Si venne facilmente, come era da presumere, all'accordo, e Vallona fu sgombrata. Io definii quella decisione e la sua esecuzione, l'estirpazione di un dente, per la quale il paziente esita e ritarda, ma di cui poi alla fine è lieto di essersi liberato.

Assai più difficile si presentava la soluzione della questione dei nostri confini orientali col nuovo Stato della Jugoslavia, tanto più che essa era stata in certo modo compromessa dal Ministero precedente, con negoziati che non avevano approdato a nulla. Il che però era stata anche una fortuna, perchè in quei negoziati era stata da parte nostra richiesta e non ottenuta, una linea di confine non conveniente, in quanto non corrispondeva al confine naturale. Quella nostra domanda costituiva una grave compromissione, che rischiava di fare sentire i suoi effetti anche su trattative nuove, intralciando l'opera dei nuovi negoziatori.

Per questa ragione io mi astenni per parecchi mesi dall'entrare in rapporti col governo di Belgrado, premendomi di fare ben capire che le nostre eventuali trattative non dovevano in nessun modo considerarsi come una ripresa o continuazione di quelle precedenti, ma come trattative ex-novo. Resistei perciò anche alle pressioni, che ricevevo da alcune parti, perchè io mi affrettassi a risolvere quella questione, che pure io stesso giudicavo pericolosa.

Ricordo a questo proposito che, nei primi giorni di agosto, da parte inglese ci si manifestò una certa ansietà per la ripresa delle trattative nostre con la Jugoslavia. Al Foreign Office si temeva che i serbi, incoraggiati dagli avvenimenti di Albania, che naturalmente essi interpretavano dal loro punto di vista, fossero tentati a seguire lo stesso sistema usato dagli albanesi; e, a riprova di questi timori, e come un indizio di tali disposizioni da parte dei serbi, ci si indicava l'ammassamento di truppe serbe che si calcolava a trentasei divisioni, pronte a marciare contro di noi. Si lasciava intendere di temere che potesse nascere, provocato dalla Serbia, un conflitto, con le più gravi conseguenze, fra Serbia ed Italia; ma noi avevamo qualche ragione per ritenere pure che il Trumbic facesse pressioni a Londra perchè noi fossimo indotti alla ripresa dei negoziati, in un momento che a lui pareva specialmente opportuno, con la preoccupazione evidente di giungere ad un risultato prima che il Presidente Wilson, della cui protezione la Jugoslavia aveva particolarmente goduto, lasciasse il potere; mentre l'interesse nostro era l'opposto.

Non credetti poi, né allora né dopo, opportuno di invocare il Trattato di Londra, per l'altra compromissione che esso conteneva riguardo alle sorti della città di Fiume.

Io giudicavo poi opportuno, prima di riprendere quelle trattative, di mettermi in rapporti diretti prima con Lloyd George, poi con Millerand. Lloyd George mi aveva già fatto sapere che riteneva utile d'incontrarsi meco; e si convenne che io mi sarei recato a visitarlo a Lucerna nel periodo in cui egli si sarebbe trovato colà per le sue vacanze. Così c'incontrammo nella seconda metà di agosto. Le lunghe conversazioni che io ebbi seco nei tre giorni che restai a Lucerna, ebbero sempre per principale obbiettivo lo studio dei mezzi coi quali si sarebbe potuto ottenere il più rapidamente possibile la pacificazione dell'Europa. Io rilevai che fra i punti che più urgeva di sistemare, era la questione dei confini fra l'Italia e la Jugoslavia. Io partivo, in questo, dallo stesso punto sostenuto nel Parlamento, e cioè la necessità della pacificazione definitiva fra i due paesi. Io feci conoscere a Lloyd George quali erano i punti dai quali l'Italia non poteva assolutamente recedere, senza però entrare con lui in alcuna discussione su tutte le varie questioni che concernevano semplicemente i rapporti fra noi e la Jugoslavia; e Lloyd George pure, per parte sua, si astenne dal discutere la ragionevolezza di ciò che noi chiedevamo; limitandosi a manifestare cordialmente il proposito di adoperarsi perchè la Jugoslavia entrasse in trattative con noi con la stessa intenzione di giungere ad una pace conclusiva.

E mi risultò in seguito che, entro questi limiti di un intervento generico inteso a favorire la soluzione del problema, egli aveva poi fatta opera molto amichevole verso l'Italia. La mia ferma intenzione, insomma, era che i negoziati per le decisioni sostanziali dovessero svolgersi unicamente fra noi e gli jugoslavi, convinto come ero e come sono tuttavia, che comune interesse dei due popoli fosse di stabilire e mantenere amichevoli rapporti, sia politici che commerciali; e che, in genere, sia assai preferibile che qualunque negoziato si svolga direttamente ed unicamente fra le parti interessate; l'intromissione di un terzo, sia pure con le migliori intenzioni, avendo spesso l'effètto di introdurre nella questione altri interessi, che la rendono più complicata e di più difficile soluzione.

Passando alla situazione generale, Lloyd George, mostrandosi sopratutto ansioso del ristabilimento di una pace sicura per tutto il mondo, osservava che la prima garanzia di tale pace doveva trovarsi nei trattati firmati, e nel modo della loro applicazione. I vincitori, secondo lui, dovevano mostrare uno spirito di moderazione, ed i vinti uno spirito di lealtà nel metterli in esecuzione. A parte però le questioni risolte coi trattati, vi erano pure numerose questioni pendenti, la maggioranza delle quali indissolubilmente connesse con gli avvenimenti della Russia. Egli osservava che finché la pace non fosse stata raggiunta fra la Russia e gli altri paesi, l'atmosfera internazionale rimarrebbe sempre torbida e minacciosa. Qualunque attacco della autocrazia soviettista russa contro l'indipendenza nazionale dei suoi vicini, renderebbe impossibile la pace con la Russia, e gli Alleati avrebbero dovuto opporvisi con tutti i loro mezzi, tenuto conto degli altri loro obblighi. Qualunque tentativo d'imporre ad un altro paese qual si voglia forma di governo, costituirebbe una violazione della sua indipendenza.

Noi ci trovammo quindi d'accordo nel compiacerci che nulla di simile si trovasse nelle condizioni allora in discussione per la conclusione della pace fra Russia e Polonia. Constatammo pure che l'esperienza aveva dimostrato che qualunque tentativo esteriore di intervenire nella lotta interna russa, avrebbe avuto il solo effetto di prolungare lo spargimento di sangue e di ritardare la soluzione pacifica desiderata.

L'impressione della personalità di Lloyd George,, che io ritrassi da quelle conversazioni, fu di un ingegno grande e vivido, e di una straordinaria prontezza ad afferrare tutti i lati di una questione; come pure di una sincera e passionata volontà per la reale pacificazione dell'Europa, dopo le tremende rovine della guerra. Il mio pensiero in ciò coincideva pienamente col suo, come pure coincidevano gli interessi dei due paesi, e noi lo constatammo su tutti i punti in discussione con la più viva, reciproca soddisfazione.

Nel mese di settembre ebbi pure un convegno col Millerand, presidente del Consiglio dei ministri francese, avendo entrambi ritenuta opportuna una intervista personale. Siccome allora io ero a Bardonecchia, il Millerand, con molta cortesia, fece fissare il luogo del convegno ad Aix-les-Bains, che è a poca distanza dal confine. Vi restai due giorni, ed anche con lui si parlò di quasi tutte le questioni generali europee, ma in modo più speciale di quelle che riguardavano i rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia ed anche la Grecia, come pure dei rapporti di carattere economico fra l'Italia e la Francia.

Le conversazioni si svolsero sempre nel tono più cordiale; ed a lui pure esposi, come avevo fatto con Lloyd George, quali fossero i punti sui quali l'Italia non poteva transigere nella soluzione della nostra questione cogli jugoslavi. Ci fermammo sopratutto sulla questione dei nostri confini orientali; esaminando sopra una carta le varie linee, inaccettabili, proposte dal Presidente Wilson, e quella, pure non conveniente, che si denominava la linea Nitti. Io insistetti che l'Italia, per necessità strategiche, doveva possedere la linea del Monte Nevoso; cosa che era stata pure riconosciuta autorevolmente, in una sua conversazione con Badoglio, dal Maresciallo Foch. Aggiunsi che, non avremmo insistito per il possesso della Dalmazia, la popolazione della quale era nella immensa maggioranza slava, salvaguardando però la città di Zara, che doveva essere italiana, e chiedendo garanzie per gli altri centri in cui fossero elementi italiani.

Millerand, senza entrare nell'esame delle singole questioni, discussione che dovevamo fare direttamente con la Jugoslavia, manifestò il fermo proposito di adoperarsi per una soluzione che corrispondesse ai giusti desideri dell'Italia; e tali buoni uffici in favore dell'Italia furono poi da lui cordialmente fatti, sia quando era ancora Presidente del Consiglio, sia dopo quando assunse la Presidenza della Repubblica.  S'informò  poi  delle nostre  intenzioni  riguardo l'Albania, ed io gli risposi che l'Italia aveva rinunciato già ad ogni possesso diretto in Albania, come pure a qualunque mandato o protettorato; ma che avrebbe sostenuto costantemente il diritto dell'Albania all'indipendenza entro i confini segnati dalla Conferenza di Londra, e che non dovevano essere violati né dalla Serbia né dalla Grecia.

E siccome il Berthelot, segretario generale del Ministero degli esteri francese, mi chiedeva se l'accordo concluso fra Tittoni e Venizelos, durante la permanenza del Tittoni nel Ministero Nitti, — accordo che fra l'altro implicava la cessione delle isole del Dodecaneso — non fosse d'ostacolo all'indipendenza ed integrità albanese, io gli risposi che quel trattato era stato da me denunciato appena avevo assunto il governo ed aveva cessato d'esistere, checché se ne potesse pensare ad Atene. Al che il Berthelot esclamò: — Politis sera désespéré quand il le saura.

Si parlò poi della pace fra la Russia e la Polonia; dei rapporti fra gli Alleati e la Russia; dell'applicacazione dei trattati; della pace colla Turchia, ecc.; ed in tutte queste questioni, anche dove vi era divergenza di vedute, io ebbi a notare nel Millerand un grande senso di responsabilità e di moderazione. Pure denunciando lo spirito pericoloso che, secondo lui, permaneva in Germania, ove il popolo pareva ancora persuaso di essere stato aggredito e di avere subito una guerra difensiva, si mostrava disposto ad applicare i trattati con moderazione.

Parlando della Russia, io gli dissi essere mia convinzione che, lungi dall'impedirlo, convenisse incoraggiare i socialisti nostrani a visitare la Russia, donde sarebbero ritornati disgustati in modo da fare esitare i più esaltati, e convinti che il paese dei soviety non è un paradiso terrestre; come infatti è poi accaduto. Millerand mi rispose che non voleva in Francia un rappresentante dei soviety, che si dedicherebbe certamente alla propaganda sovversiva ed alla corruzione.

Discutemmo poi della questione del tonnellaggio austro-ungarico a noi dovuto; di quella del carbone, dei fosfati, dell'emigrazione e delle relazioni commerciali generali fra i due paesi, arrivando su ogni punto a ragionevoli intese o ad impegni di studio pel futuro.

Del Millerand ebbi una impressione simpaticissima, pel suo carattere evidentemente franco e leale, e per le buone disposizioni che egli mostrava verso l'Italia.

Qualche tempo dopo il governo di Belgrado, a mezzo dell'Inghilterra, ci fece sapere che avrebbe volontieri ripreso le trattative. Lloyd George esprimeva però, in una conversazione col nostro ambasciatore, qualche dubbio sui possibili risultati pratici dei negoziati, data la complicata situazione del regno Jugoslavo. Una carta in nostro favore, a suo avviso, era però il quasi certo trionfo dei repubblicani nelle elezioni presidenziali americane; ciò che produrrebbe un grande abbattimento fra gli jugoslavi, per la scomparsa dell'uomo che li aveva così pertinacemente sostenuti nelle loro pretese. Ed aveva aggiunto che, se egli fosse stato al mio posto, qualora questi negoziati definitivi fallissero, procederebbe senz'altro ad occupare ciò che volevamo mantenere, e ad evacuare il resto. Ad ogni modo io, d'accordo con Sforza, aderii volentieri alla richiesta di Belgrado, e fu stabilito che il convegno dei plenipotenziari avrebbe avuto luogo a Santa Margherita.

Intanto io e Sforza, insieme anche a Bonomi ministro della guerra, avevamo esaminato accuratamente l'intero problema, ed avevamo fissati i punti seguenti:
1.° Una frontiera terrestre sicura, che non poteva essere, come si era tentato nei vari progetti antecedenti, una semplice correzione della linea di Wilson. Il confine doveva essere al Monte Nevoso, ed includerlo, saldandosi ai massicci montuosi settentrionali secondo una linea prossima a quella del Patto di Londra, escludendo solo quei territori che non fossero indispensabili alla nostra difesa;
2.° Indipendenza dello Stato di Fiume (Corpus separatimi) senza ingerenze o controllo della Società delle Nazioni. Tale Stato doveva risultare contiguo al territorio italiano, o adottando il confine del Patto di Londra, o attribuendo allo Stato di Fiume alcuni dei territori intermedi;
3.° Annessione all'Italia delle isole di Cherso e di Lussino;
4.° Rinuncia a favore della Jugoslavia delle altre isole e della Dalmazia del Patto di Londra, ad eccezione di Zara, con inoltre garanzie per la cultura italiana, e col diritto dei dalmati di optare per la cittadinanza italiana, conservando il loro domicilio ed i loro beni.

Nel caso che i negoziati fossero falliti, sarebbe seguita una azione decisa da parte nostra, per l'annessione dei territori sopra indicati, e col mantenimento della occupazione militare, in virtù dell'armistizio, delle isole e della Dalmazia, e con la dichiarazione che saremmo stati pronti a negoziare la sorte definitiva di quei territori in relazione al riconoscimento internazionale della indipendenza di Fiume.

Le linee di questo programma furono poi da noi esposte nel Consiglio dei Ministri, ed ebbero l'unanime approvazione; tutti convenendo che, a parte Zara, non convenisse di insistere per la Dalmazia, l'immensa maggioranza della sua popolazione non essendo  italiana.

Prima che i delegati jugoslavi venissero a Santa Margherita, non ci fu alcun scambio di idee, né di domande, né direttamente né a mezzo di intermediari di qualunque genere, fra una parte e l'altra. La delegazione jugoslava che arrivò in Italia per la data convenuta, era composta dei signori Vesnic, Trumbic e Stoianovich; per l'Italia c'eravamo io, Sforza e Bonomi. Prima andarono Sforza e Bonomi, io riservandomi d'intervenire se dalle prime conversazioni apparisse la possibilità di giungere ad un accordo. Ed infatti partii appena essi mi telegrafarono che le cose parevano bene avviate, e la delegazione jugoslava sinceramente volonterosa di giungere ad una soluzione. I negoziati procedettero infatti assai rapidamente.

Arrivando ed intervenendo nel dibattito, io sostenni immediatamente la necessità di non lasciare
che la discussione divagasse, e di venire subito alle questioni precise. La seconda giornata dopo il mio arrivo, i negoziati cominciarono alle nove del mattino; lavorammo tutto il giorno, ed alla sera si arrivò alla conclusione. Io volli che si procedesse senz'altro alla compilazione del trattato, che fu firmato alle due dopo mezzanotte. La discussione fu molto serrata, ma pure sempre amichevole. Uno dei fattori che concorse maggiormente a tale rapido raggiungimento dell'accordo, fu la convinzione, che era in entrambe le parti, della convenienza di stabilire fra i due paesi rapporti commerciali molto intimi; in quanto la Jugoslavia poteva trovare sul mercato italiano un largo sfogo della sua abbondante produzione agricola, e noi potevamo rifornirla di prodotti industriali, e specialmente di macchinario ferroviario e per l'agricoltura. Quando ci separammo, Vesnic mi disse: — Le farà molto piacere di apprendere che anche qui abbiamo ricevute delle premure di Millerand perchè arrivassimo ad una conclusione. —

Il testo del Trattato fu redatto in italiano, poi in serbo; però io insistetti che dovesse fare testo la versione italiana; perchè i delegati serbi conoscevano benissimo l'italiano, mentre il serbo non era conosciuto da alcuno di noi.

Concluso il Trattato di Rapallo, che fu approvato-dal Parlamento ed accolto con soddisfazione dalla grandissima maggioranza dell'opinione pubblica, bisognava eseguirlo; e ciò importava anzitutto che Fiume si costituisse come Stato indipendente, e quindi ne uscisse un Comando che era italiano e non fiumano.

Avevo già dichiarato, in discorsi pubblici, il mio rammarico che la Conferenza di Parigi avesse rifiutato di riconoscere il carattere italiano di Fiume, e di soddisfarne le aspirazioni; e nei negoziati di Rapallo mi ero proposto ed ero riuscito a salvarne l'indipendenza contro l'assegnazione che nel Trattato di Londra ne era stata fatta alla Croazia. I miei sentimenti in proposito non erano dubbi; ed io avevo potuto comprendere l'atto compiuto dal D'Annunzio e dai suoi compagni con l'occupazione di Fiume in un momento in cui la sua sorte pareva minacciata. Ma quell'atto aveva però un lato oscuro e deplorevole per le infrazioni che aveva portato alla disciplina dell'esercito, inducendo dei soldati a venire meno al loro giuramento ed al loro dovere; e qui va ricordato che il più glorioso condottiero popolare della nostra storia, Garibaldi, anche quando credette, nel fervore della ricostituzione nazionale dell'Italia, di dovere compiere un' azione distinta ed anche contraria a quella a cui il Governo era obbligato per i suoi impegni e le necessità internazionali, non fece mai appello all'esercito, e non volle mai che la compagine morale dell'esercito fosse in alcun modo offesa.

Il D'Annunzio ed i suoi, d'altra parte, una volta occupata Fiume, non si tennero entro i limiti degli scopi che al primo momento li avevano mossi ed avevano procurato loro l'approvazione di molta parte dell'opinione pubblica, irritata pel modo con cui la questione di Fiume era stata trattata nella Conferenza della pace, e fermamente decisa a non consentire che quella città italiana cadesse nelle mani dei croati, con violazione dei diritti che erano ad essa riconosciuti anche nel regime imperiale austroungarico; ma avevano concepito ed annunziati, più o meno apertamente, ogni sorta di grandiosi e fantastici progetti, sia di politica internazionale, sia nei riguardi della politica interna italiana; mentre, per rifornirsi di mezzi e di armi, avevano di fatto consumata una quantità di atti illegali, rasentanti la pirateria.

In tali condizioni Fiume era diventata un centro di turbamento per la vita italiana, ed anzi di pericolo, anche per l'enorme quantità di armi e munizioni che vi erano state adunate; basti dire che quando noi la occupammo, solo nella prima settimana ne caricammo diciotto piroscafi per trasportarli a Pola e si continuò anche dopo, per parecchio tempo, a scoprirvi depositi clandestini.

Io dunque, sia per gli impegni presi col Trattato
di Rapallo, divenuto, dopo la approvazione del Parlamento, un solenne impegno internazionale, sia per
ovviare a nuovi pericoli, avevo il preciso dovere
di agire e di ristabilire a Fiume una situazione
normale. Il pericolo più imminente, di cui avemmo
poi sentore, era che il D'Annunzio e i suoi precipitassero le cose compiendo un atto di aggressione
verso la Jugoslavia; il che avrebbe involta l'Italia
in nuovi guai e nella peggiore delle umiliazioni;
 perchè niente vi è di più umiliante per un paese, e niente può più gravemente ferire la sua dignità, che il dimostrarsi incapace di tenere fede ai propri impegni internazionali, ed il venir meno alle norme dei diritti delle genti.

Io sperai per qualche tempo che queste ragioni decisive sarebbero state comprese e sentite dal D'Annunzio, e che la situazione avrebbe potuto risòlversi senza che io dovessi compiere un doloroso dovere ricorrendo alla forza. E contavo che, dopo i risultati raggiunti a Rapallo, fra l'altro col conseguimento di un confine che dava all'Italia, nel giudizio dello Stato Maggiore dell'esercito, la piena sicurezza, il D'Annunzio, ascoltando il consiglio dei suoi amici più autorevoli, non avrebbe turbata la concordia del paese, che si mostrava sempre più necessaria per il nostro prestigio fra le nazioni, e per l'urgente opera di ricostruzione morale ed economica. Ed infatti questi migliori amici del D'Annunzio, fra cui l'Ammiraglio Millo che era allora governatore di Zara, fecero a questo scopo del loro meglio. Il Millo, richiesto dal D'Annunzio stesso, l'incontrò in mare ed ebbe con lui una lunga conversazione, dissuadendolo sopratutto dal tentare una qualche azione in Dalmazia, di cui in quei giorni era corsa la voce; ma neanche egli riuscì ad ottenere precise assicurazioni o a rendersi chiaramente conto delle sue intenzioni.

Anche alcuni dei compagni che erano stati seco alla spedizione di Fiume, se ne uscirono dichiarando di riconoscere che  col  Trattato  di  Rapallo  i destini di Fiume erano ragionevolmente salvaguardati. Il governo fu pure richiesto di fare il possibile per rispondere alle domande che D'Annunzio avanzasse per i bisogni di Fiume dal punto di vista economico, e per questo riguardo io detti pieno affidamento.

Ma tutto questo a nulla valse; e si mettevano avanti sempre nuove pretese o questioni, intese a condurre le cose per le lunghe e a intorbidire la situazione. Si giocò sopratutto sulla questione di Porto Baros. Ora io avevo dovuto riconoscere che Porto Baros era fuori dal Corpus separatum di Fiume, nel cui statuto noi avevamo l'appoggio diplomatico e storico alla nostra tesi della indipendenza della città; e che Porto Baros apparteneva effettivamente ai croati, ai quali serviva pel commercio del legname; ed in questo senso io avevo fatto nelle dichiarazioni davanti alla Commissione parlamentare degli esteri. Ma del resto tutto questo era una quisquiglia; il problema dovendosi considerare sotto un aspetto ben più alto.

Il porto di Fiume aveva un grande valore per i paesi del retroterra, e specie per la Croazia e per l'Ungheria, come lo sbocco più prossimo e naturale per il loro, movimento commerciale; ma viceversa il porto per sé stesso sarebbe stato morto, senza la disposizione dei paesi del retroterra a servirsene, e senza l'uso delle ferrovie che a quei paesi appartenevano. Era dunque il caso di interessi reciproci, che avrebbero trovato la loro soddisfazione in un accordo fatto con spirito cordiale e con larghe vedute. La vita di Fiume è nel suo porto, ed era quindi precipuo interesse dei fiumani di evitare qualunque rottura su questioni secondarie, e trovare coi popoli del retroterra un largo accordo di carattere commerciale, ed evitare fra l'altro che essi cercassero altri sbocchi o si procurassero un altro porto.

Quando compresi che oramai era inutile cercare di indurre alla persuasione il D'Annunzio e i suoi compagni della necessità e del dovere di inchinarsi alle disposizioni del Trattato di Rapallo, e di permettere che esse fossero eseguite riguardo a Fiume, dovetti, con mio rammarico, decidermi ad agire. Io quindi detti incarico al Generale Caviglia, che aveva il comando delle truppe della regione Giulia, di fare comprendere definitivamente al D'Annunzio che il Trattato doveva essere eseguito, e che egli e i suoi dovevano sgomberare da Fiume. Ritardare più oltre questa esecuzione sarebbe riuscito ad avvilire l'Italia agli occhi del mondo.

Alla Camera ed al Senato vi fu una certa agitazione fra i deputati combattenti e nazionalisti, e si formò una commissione per recarsi a Fiume a persuadere il D'Annunzio a non opporsi ormai all'esecuzione del Trattato. Questa missione si mise prima in contatto meco, offrendo la sua opera per evitare incidenti certo dolorosi per tutti; ma io, pure apprezzando Io spirito da cui era mossa, dovetti dichiarare che non potevo dare ad essa alcun incarico, in quanto l'incaricato del Governo era il Generale Caviglia, la cui autorità e la cui libertà d'azione, nei termini assegnati, non dovevano essere in alcun modo diminuiti. Anzi, perchè non nascesse nessun dubbio, e ad evitare qualunque equivoco, io telegrafai al Caviglia per avvertirlo che i deputati e senatori che si recavano a Fiume facevano ciò per conto proprio e con la propria responsabilità personale e non avevano alcun incarico, ne dal Governo, né dal Parlamento. Questo mio telegramma, a scanso di ogni equivoco, io partecipai ai deputati che andavano a Fiume.

Pur troppo essi pure non riuscirono a smuovere dai suoi propositi il D'Annunzio, il quale, come apparve poi dopo, si era fatta qualche illusione che l'esercito e la marina non avrebbero agito contro di lui, o che almeno vi sarebbero state defezioni, e che l'opinione pubblica si sarebbe commossa ed agitata in suo favore. Nulla invece di ciò avvenne: i soldati e i marinai d'Italia compirono, come sempre, austeramente il loro dovere, non ostante il rammarico di dovere agire contro dei loro concittadini e commilitoni; e l'opinione pubblica, anche nella maggioranza di coloro che avevano innanzi approvata l'opera del D'Annunzio, non lo seguì affatto in questa sua ultima azione. Segno codesto che in tutti era l'intima convinzione che essa, in quella sua ultima fase di opposizione alla volontà del paese, espressa nel Governo e nel Parlamento, ed agli impegni del Trattato, non rispondeva più agli interessi ed alla dignità della Nazione.

XVIII.

Il Ministero del dopo guerra.

La politica interna.



La restaurazione finanziaria dello Stato — Necessità di cominciare col colpire la ricchezza — La nominatività dei titoli e i creditori dello Stato — La legge sul pane e l'ostruzionismo socialista — L'occupazione delle fabbriche e la condotta del governo — Azione di polizia ed azione politica — I progetti di controllo delle fabbriche — La crisi industriale — Perchè indissi le elezioni e il loro risultato — Dissoluzione della maggioranza e la crisi.

Il compito del Ministero da me presieduto in questo fortunoso e difficile periodo del dopo guerra, oltre la soluzione delle questioni di politica estera, e cioè dell'Albania, dei confini con la Jugoslavia e di Fiume, comprendeva, secondo ho già accennato, numerose questioni di politica interna, la cui soluzione, o almeno l'avviamento ad essa, non era meno urgente per la salute del paese. Erano questioni di ordine, di finanza e di rapporti fra le classi sociali, strettamente connesse le une alle altre, e che richiedevano quindi un'azione parallela e contemporanea, non essendo presumibile di risolvere una di esse senza tenere conto delle altre e lasciandole pel momento sospese. La più grave ed urgente di tali questioni era, per me, quella delle finanze dello Stato, il cui bilancio aveva una perdita di non meno di quattordici miliardi. Se non si rimediava a un tale stato di cose, riducendo in notevole parte tale enorme deficit, si sarebbe andati rapidamente incontro al fallimento; o ad evitarlo si sarebbe dovuto ricorrere ad un continuo aumento della circolazione, già larghissima in confronto a quella di avanti la guerra, con la immancabile conseguenza del rinvilio della moneta e di una crisi generale della economia nazionale, come mostra l'esempio dei paesi vinti che si sono lasciati scivolare per questa china pericolosa, nella quale a un certo punto non è più possibile fermarsi.

Uno dei fattori più gravi nello spareggio del bilancio era costituito dal prezzo politico del pane, che imponeva allo Stato una perdita di sei miliardi all'anno; ma era pure evidente che nessun governo avrebbe potuto affrontare con vera autorità morale questo problema che toccava le masse, se non avesse prima dimostrata la sua capacità a imporre i sacrifizii, necessarii al bilancio dello Stato, alle classi più fortunate, e specialmente a coloro che avevano fatta la loro fortuna nella guerra; questo esempio di giustizia sociale essendo necessario per acquetare le masse, e togliere gli argomenti più impressionanti alla propaganda dei loro agitatori.

Per queste considerazioni, nell'opera legislativa intesa a restaurare nei limiti del possibile le finanze dello Stato, alla legge che doveva condurre all'abolizione del prezzo politico del pane, io feci precedere i progetti intesi a colpire la ricchezza. E il Parlamento, ritornando finalmente alla sua più alta funzione, rispose nel modo più soddisfacente ai miei scopi. Tutti quei progetti, che più sopra ho enumerati, furono infatti discussi fra il giugno, il luglio, e la prima metà di agosto ed approvati, e non solo dai gruppi costituzionali che avevano la loro rappresentanza nel governo, ma anche dal partito socialista, che pure nei sei mesi precedenti si era mostrato insofferente di qualunque seria discussione.

Più tardi, quando anche la legge sul pane fu approvata, ed il disavanzo del bilancio ridotto a meno di un terzo di quello che io avevo trovato assumendo il potere, si cominciò a lamentare che i provvedimenti da me proposti e che avevano ottenuta la quasi unanime approvazione del Parlamento, in entrambi i suoi rami, fossero troppo gravosi, ed una campagna fu iniziata specialmente contro la nominatività dei titoli, non ancora in gran parte applicata, per la evidente preoccupazione dei detentori di tale forma di ricchezza, di trovarsi poi obbligati a pagare l'imposta sul reddito, quella sul capitale e quella sulle successioni, alle quali con l'espediente dei titoli al portatore, erano fino allora in gran parte sfuggiti.

Codesta preoccupazione è figlia dell'ignoranza, in quanto mostrava e mostra che costoro, pure di non sottomettersi, a vantaggio dello Stato, ad un certo sacrifizio, non si peritano di andare incontro a danni ben maggiori, se non alla totale rovina. Nessuno dovrebbe essere infatti più interessato alla salute del bilancio dello Stato che i detentori dei suoi titoli, cioè i suoi creditori; perchè, a prescindere dalla ipotesi del fallimento, se si fosse prolungata una condizione di cose, nella quale lo Stato si fosse trovato costretto a provvedere al disavanzo mediante l'aumento continuo della circolazione, ne sarebbe seguito un correlativo rinvilio della moneta, che avrebbe ridotto a poco o niente il valore della ricchezza a reddito fisso, quale è appunto la ricchezza costituita da crediti, sia verso lo Stato che verso i privati, nella forma di titoli, ipoteche ed obbligazioni.

In Inghilterra, dove la quasi totalità dei valori privati o di Stato sono nominativi, e non possono quindi sfuggire all'imposta sul reddito, mirabilmente congegnata, quella imposta durante la guerra e dopo fu portata a percentuali che arrivano sino al sessanta per cento. Ma mediante quel sistema, che ha rapidamente assicurato il pareggio al bilancio, il valore della moneta inglese è stato presso a che interamente salvato, con vantaggio appunto dei detentori di titoli pubblici, che pagano le imposte come gli altri, ma ricevono i loro interessi in una moneta non deprezzata. Non occorre una eccezionale perizia finanziaria per rendersi conto di come sia più vantaggioso pagare dal trenta al cinquanta per cento d'imposta allo Stato, e ricevere da esso gli interessi in moneta alla pari, che sfuggire all'imposta ed essere viceversa pagato con moneta che perda, come ora la nostra, il settantacinque per cento del suo valore.

L'interesse dello Stato e l'interesse dei suoi creditori sono strettamente connessi; per cui costoro, anziché cercare di non adempiere i loro obblighi di contribuenti, dovrebbero essere i primi a dare l'esempio del dovere compiuto, per potere poi esigere, anche a sicurezza del proprio capitale, l'adempimento degli obblighi tributari da parte di tutti.

La legge sul pane fu da me presentata quando la Camera si riaperse nel novembre, con lo scopo che si arrivasse a sopprimere ogni intervento statale nella produzione e vendita del pane, ed a ristabilire pei cereali e la loro macinazione la piena libertà di commercio. Il progetto era congegnato in modo che l'aumento del prezzo del pane, che sarebbe derivato da tale ritorno alla libertà, avvenisse gradatamente, perchè il divario era in quel momento altissimo, e per colmarlo il prezzo avrebbe dovuto essere di un colpo pressoché triplicato. Ma una notevole parte del costo del frumento d'importazione, che costituiva circa la metà del fabbisogno, veniva dai noli marittimi, ancora assai alti; e si aveva quindi la ragionevole persuasione che col miglioramento dei mezzi di trasporto, dei quali vi era un enorme tonnellaggio in costruzione in tutti i cantieri del mondo, il costo dei noli dovesse rapidamente abbassarsi, con una correlativa diminuzione nel prezzo dei cereali; come poi è avvenuto.

E intanto, per coprire la differenza transitoria, che non poteva prolungarsi, secondo i calcoli fatti, oltre un anno, nel mio progetto si stabilivano alcune imposte speciali, la più importante delle quali era quella sul vino; parendomi giusto e conveniente che chi, anche nelle classi popolari, volesse usare ed anche abusare di un genere di lusso, quale è il vino, dovesse contribuire a diminuire il costo di quella che è la base dell'alimentazione per tutti.

La discussione di questa legge fu assai lunga. Vi era, a proposito del prezzo del pane, una duplice compromissione: quella che il Ministero precedente si era lasciato imporre dai socialisti, sotto forma di ordine del giorno, accettato dal governo e votato dalla Camera, che impegnava a non mutare il prezzo del pane se non con legge approvata dal Parlamento; impegno che io avevo ereditato e che per ogni verso era conveniente mantenere, perchè la discussione e l'approvazione parlamentare avrebbe aiutato assai a disarmare, o a togliere forza a quella opposizione che vi potesse essere nelle classi popolari; l'altra, che i socialisti, con la politica eccessivamente demagogica a cui si erano lasciati andare nel dopoguerra, avevano assunta verso le masse.

Quegli impegni e quelle compromissioni non avevano nemmeno un'ombra di ragionevolezza; volere mantenere il prezzo del pane di prima della guerra con una moneta svalutata, quando in ragione appunto di tale svalutazione i salari erano stati presso che ovunque più che quadruplicati, sarebbe equivalso a pretendere di dare il pane, prima della guerra, al prezzo di quindici centesimi al chilo, cioè per due terzi gratis. Ora, se le distribuzioni gratuite di grano e farina si potevano fare qualche volta alle popolazioni povere delle città antiche o delle repubbliche cittadine medievali; non ci poteva essere chi non sentisse l'assurdità, anzi l'impossibilità economica di tali disposizioni per un paese di quaranta milioni di abitanti.

Quel socialismo granario delle repubbliche cittadine di un tempo, aveva la sua base sui tributi riscossi dai popoli soggetti; ma lo Stato italiano, per pagare il pane gratuito avrebbe dovuto stabilire tributi interni, che sarebbero ricaduti su tutti egualmente, creando un semplice circolo vizioso, con di più il danno degli inevitabili sprechi di tali amministrazioni a cui lo Stato non è assolutamente adatto. Tali ragioni erano perfettamente comprese dagli stessi capi socialisti più serii; ma essi poco potevano fare contro la deliberazione dell'ostruzionismo presa dalla direzione del Partito; in obbedienza alla quale ogni deputato socialista era impegnato a presentare un ordine del giorno ed a svolgerlo e sostenerlo con un lungo discorso.

Ma l'ostruzionismo può essere una valida arma di lotta quando abbia dietro di sé ragioni serie e salde convinzioni; quando invece esso non è che un artificio ed un pretesto, alla lunga non riesce a sostenersi. Ed infatti l'ostruzionismo socialista contro la legge del pane, fu lungo, in ragione al numero grande di oratori iscritti a parlare contro, ma non energico; ed a vincerlo bastò molta pazienza da parte del governo e dei partiti che lo sostenevano. Con l'approvazione di quella legge il bilancio dello Stato fu sgravato di sei miliardi, e con gli altri miliardi forniti dalle nuove imposte sui guadagni di guerra, sulla ricchezza e sul lusso, e le riduzioni di spese, il disavanzo, che minacciava di travolgere l'intera amministrazione statale, fu ridotto a circa quattro miliardi e mezzo, ai quali poteva sopperire per un certo tempo il risparmio normale del paese.

Se l'opera di risanamento del bilancio dello Stato fosse poi stata continuata con pari energia, le condizioni della nostra finanza sarebbero ora assai migliori; ma pur troppo i piccoli interessi riuscirono a prendere il sopravvento sui grandi interessi del paese.

Qualche settimana dopo la chiusura del Parlamento, che fra il maggio e la metà d'agosto aveva lavorato con efficacia ad un programma di restaurazione e di giustizia, imponendo quasi una non patteggiata collaborazione agli stessi socialisti, si ebbe, nel settembre del 1920, l'episodio cosiddetto della occupazione delle fabbriche, che causò impressione vivissima non solo all'interno, ma anche all'estero, e fu considerato quasi come l'inizio di un grandioso movimento rivoluzionario, consapevolmente condotto. In realtà quell'occupazione, con tutti i suoi episodi concomitanti, non rappresentò che lo sfogo supremo di quella situazione, rivoluzionaria sì, ma disordinata, che si era lasciata formare sotto il precedente Ministero. E che nell'occupazione delle fabbriche ci fosse una vera preparazione a scopo rivoluzionario, per parte almeno dei suoi più immediati istigatori, fu poi provato dal fatto che, dopo terminata l'occupazione furono sequestrate in molte delle fabbriche occupate, ed in ogni parte del paese, oltre a parecchie migliaia di fucili e rivoltelle e bombe a mano ed armi bianche di ogni genere, circa cento tonnellate di cheddite e di nitroglicerina.

Ed essendo da presumersi che molta parte delle armi e degli esplosivi fossero portati via nello sgombero, che fu compiuto dagli operai volontariamente e senza contrasti, quel notevole residuo così abbandonato può dare la misura della mole di quella preparazione. A un certo momento, durante l'occupazione, in un convegno indetto a Milano dalle varie organizzazioni socialiste, fu apertamente discusso se il movimento dovesse essere spinto ad una decisiva azione rivoluzionaria, e fu fortuna che prevalesse il buon senso, specie da parte delle organizzazioni che rappresentavano in modo più genuino le masse lavoratrici, evitando al paese episodi sanguinosi.

L'occupazione delle fabbriche, per il modo con cui era avvenuta, presentava al governo tutta una serie di problemi, immediati e lontani; da quelli di semplice polizia a quelli di politica sociale. Gli operai che avevano effettuata l'occupazione, in ogni parte d'Italia, ma prevalentemente nella zona industriale della Lombardia, del Piemonte e della Liguria, non erano meno di seicentomila; e l'occupazione, provocata da una intempestiva minaccia di serrata da parte di alcuni industriali, che non avevano bene misurata la situazione ed i suoi pericoli, era basata sul concetto, da parte della massa degli operai, di poter essi gestire ed utilizzare le fabbriche senza intervento di capitalisti e dirigenti; mentre i caporioni comunisti si ripromettevano di fare uscire da quel movimento la vera e propria rivoluzione sociale, come era avvenuto in Russia, contrastati però in ciò dai socialisti laboristi più moderati, che in recenti visite avevano già potuto rendersi conto della reale situazione russa e dei mali infiniti che quella rivoluzione aveva inflitto non solo ai vinti, ma anche a quelli che parevano i vincitori.

Io ebbi, sino dal primo momento, la chiara e precisa convinzione che l'esperimento non avrebbe potuto a meno di dimostrare agli operai l'impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi capitali, istruzione tecnica ed organizzazione commerciale, specie per l'acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti che pure fossero riusciti a fabbricare. Per tale aspetto dunque questo episodio rappresentava per me, in altre forme e condizioni, la ripetizione del famoso esperimento dello sciopero generale del 1904, che aveva prodotto tanto spavento, per poi dimostrare la propria inanità; ed io ero fermamente convinto che il governo dovesse anche questa volta condursi come si era condotto allora; lasciare cioè che l'esperimento si compiesse sino a un certo punto, perchè gli operai avessero modo di convincersi della inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento. Questa convenienza politica più larga e lontana coincideva del resto con le convenienze immediate di polizia.

Io fui allora accusato di non essere ricorso all'uso della forza pubblica per fare rispettare la legge ed impedire la violazione del diritto privato; di non avere, insomma, né impedito
l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai,
nò provveduto a cacciarli in ogni modo dopo che
l'occupazione era avvenuta. Ma ammettendo anche
che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima
degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno assai diffìcile considerata la ampiezza e universalità
del movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco
comoda condizione di avere pressoché la totalità della
forza pubblica di polizia, Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi i mezzi di
mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè nelle
strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero, rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei rivoluzionarii, che non avrebbero
domandato niente di meglio. Se poi, più tardi, fossi
ricorso alla forza pubblica per costringere gli operai a lasciare le fabbriche occupate, ne sarebbe nato
un vasto e sanguinoso conflitto, e con ogni probabilità le masse operaie che le occupavano, prima di
cederle alla forza pubblica le avrebbero devastate.


Quindi, tanto le ragioni politiche quanto quelle economiche, e le convenienze immediate e quelle lontane,
coincidevano a consigliare quella linea di condotta
che io ho allora seguita. Quella mia condotta sul momento suscitò grandi allarmi e preoccupazioni; ed
ebbi pressioni di ogni genere perchè adottassi misure più energiche e mettessi fine con la forza ad
uno stato di cose che si considerava assai pericoloso.  

A cose finite ebbi poi la soddisfazione che gran parte di quegli stessi che mi spingevano per quella via, riconobbero che quella da me seguita era la sola che potesse ricondurre alla tranquillità; con l'ulteriore vantaggio di togliere agli stessi operai molte illusioni pericolose inducendoli a cominciare a diffidare delle parole lusinghiere di chi li spingeva ad esperimenti che avevano dati risultati ad essi dannosi. Ho poi saputo con sicurezza che chi deplorò più vivamente la mia condotta, furono appunto quegli agitatori che avevano calcolato di prendere le mosse dall'occupazione delle fabbriche per arrivare ad un movimento rivoluzionario generale.

Non occorse molto tempo perchè gli operai ed i loro capi più autorevoli e ragionevoli si rendessero conto che la posizione da essi assunta non poteva essere mantenuta; che le fabbriche venute in quel modo nelle loro mani, senza direzione tecnica ed amministrativa, e senza rapporti col mercato, non servivano a nulla; e in alcuni casi si ebbero curiosi episodi che confermavano questa dimostrazione; gli operai tentando di rapire nelle loro case quei direttori ed industriali che avevano voluto mettere fuori delle officine, per obbligarli a riassumere la direzione. Ma la situazione non poteva prolungarsi, e gli stessi dirigenti degli operai presero l'iniziativa e fecero passi per venire ad una soluzione, con lo sgombero delle fabbriche occupate. Le trattative a tale fine furono condotte fra i rappresentanti della Confederazione del lavoro da una parte, e quelli della Confederazione degli "industriali dall'altra; e furono iniziate a Torino personalmente da me, con l'intervento dei due prefetti di Torino e Milano, senatori Taddei e Lusignoli, e furono poi concluse a Roma, in una lunga riunione, i cui risultati furono da me riassunti col prò memoria seguente:

«— Premesso che la Confederazione Generale del Lavoro ha formulata la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi, — traverso i loro Sindacati — siano investiti della possibilità di un controllo sulla industria, motivandola con l'affermazione che con simile controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento dei rapporti disciplinari fra datori e prenditori d'opera ed un aumento della produzione, al quale è a sua volta subordinata una fervida ripresa della  vita economica  del  paese;
«Premesso che la Confederazione Generale della Industria non si oppone a sua volta che venga fatto l'esperimento di introdurre un controllo per categorie di industrie, ai fini di cui sopra;
«Il Presidente del Consiglio dei Ministri prende atto di questo accordo e decreta:
«Viene costituita una Commissione paritetica, formata da sei membri nominati dalla Confederazione Generale della Industria e sei dalla Confederazione Generale del Lavoro, fra cui due tecnici o impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che possano servire al Governo per la presentazione di un Progetto di Legge, allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o all'amministrazione dell'azienda.    
«La stessa Commissione proporrà le norme per risolvere le questioni relative alla osservanza dei regolamenti e all'assunzione e al licenziamento della mano d'opera.
«Il personale riprenderà il suo posto. —»

I rappresentanti degli operai avevano insistito con molta energia su questo principio che l'operaio fosse messo in grado di controllare in qualche modo l'andamento della industria, per accertarsi sopratutto che la sua rimunerazione fosse proporzionata ai guadagni che l'industria conseguiva; ed anche i più avveduti fra gli industriali, che sentivano già avvicinarsi la grave crisi industriale che ha poi colpito tutto il mondo, e che sapevano che le industrie generalmente non avrebbero potuto rispondere nel futuro immediato alle continue domande di aumento dei salari, e neppure mantenere i salari vigenti, non vedevano di mal'occhio che agli operai fosse dato il modo di constatare quale fosse veramente la condizione delle industrie.

La Commissione fu poi composta; ma, come non era difficile prevedere, le due parti non riuscirono ad accordarsi su un progetto comune, e finirono per presentare due progetti fondati su principii diversi; gli operai per una parte sforzandosi di estendere il principio del controllo e gli industriali di limitarlo. Siccome io avevo assunto l'impegno di investire il Parlamento dell'arduo e complesso problema, nella mancanza di un progetto nel quale le due parti si fossero accordate, compilai io stesso un disegno di legge che fu subito presentato alla Camera, ed al quale io aggiunsi come allegati i progetti presentati dalle due parti, ed inoltre un terzo, compilato dal Partito popolare sullo stesso argomento, e fondato sul principio della partecipazione degli operai agli utili dell'azienda, senza però alcun accenno di controllo. A questo riguardo però io avevo osservato che quando si ammette il principio che l'operaio abbia diritto ad una quota degli utili, non gli si può negare di controllare quale sia il vero utile a cui ha diritto di partecipare, diventando egli in qualche modo un azionista.

Questo progetto presentato alla Camera, secondo l'impegno che io avevo assunto, fu però lasciato in disparte, e neanche il partito socialista ebbe più ad insistere per la sua discussione. Il che si spiega con la grave crisi industriale, la quale, già assai avanzata pure nei maggiori paesi industriali, quali l'Inghilterra e gli Stati Uniti, cominciò a farsi sentire in Italia appunto nella seconda metà del 1920, e si è poi sempre più incrudita.

Le organizzazioni operaie dovettero riconoscere la realtà di questa crisi, che non potrà essere superata che fra lunghi anni, col riassetto generale dell'economia mondiale; e preoccuparsi, più che delle tendenze ideali, dei problemi immediati della disoccupazione e della riduzione delle giornate di lavoro, con conseguente diminuzione di salari.

A mio avviso, il concetto del controllo o di un più diretto interessamento degli operai nelle vicende delle industrie in cui sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non è che una estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti di lavoro e per la determinazione della misura dei salari; ma l'introduzione o l'estensione di riforme di tale carattere nella vita economica richiedono condizioni floride e non già tempi di crisi, più adatti a promuovere agitazioni e aspirazioni vaghe, che a fornire  gli  elementi  per  solide  costruzioni.

Dopo la firma del Trattato di Rapallo, che con l'assetto definitivo delle nostre frontiere, lasciato sospeso nella Conferenza di Parigi, compiva l'unità nazionale entro i confini segnati dalla natura, s'imponeva al governo il dovere di chiamare i cittadini delle nuove Provincie a partecipare pienamente alla vita politica della nazione, eleggendo i loro rappresentanti al Parlamento.

A questo fine si poteva giungere in due modi; o facendo elezioni parziali per le nuove Provincie, chiamando i loro rappresentanti a fare parte della Camera eletta nelle altre provincie del Regno coi Comizii del 1919; o indicendo elezioni generali che chiamassero contemporaneamente l'intero popolo italiano a determinare l'indirizzo politico, economico, culturale ed amministrativo che doveva essere dato al paese nel nuovo periodo storico che col grande avvenimento del compimento della unità nazionale si iniziava. Questo secondo modo appariva più degno, ed era inoltre confortato dai precedenti.

Nel 1866 si erano veramente fatte elezioni parziali, dopo l'annessione del Veneto, alla fine di novembre; ma poi soli tre mesi dopo la Camera, che pure non aveva che un anno e quattro mesi di vita, era stata sciolta, ed erano state indette elezioni generali, con che le nuove Provincie avevano avuto l'inconveniente di due elezioni politiche a tre mesi di distanza. E quattro anni più tardi, per l'occasione dell'annessione di Roma, si indissero le elezioni generali. Ma a queste considerazioni di carattere storico e morale, se ne aggiungevano altre di carattere politico, di più sostanziale importanza.

Le elezioni del 1919 erano state tenute in condizioni estremamente sfavorevoli, quando, sia per le difficoltà interne, sia per gli scacchi subiti nella Conferenza della pace, all'entusiasmo della vittoria era succeduto un grave periodo di agitazioni e di malcontento. Nell'autunno del 1919 l'Italia era ancora impegnata in guerra nell'Albania; la nostra posizione nell'Adriatico appariva debole e precaria, tanto che c'era da temere che gravi difficoltà di ordine internazionale, che non si era riusciti a superare, ci imponessero una soluzione del problema dei nostri confini orientali contraria ai nostri più vitali interessi; a Fiume si era creata una situazione che minacciava di dare origine a nuovi conflitti;  lo Stato  era sempre  sul  piede di  guerra.
perchè vi era armistizio, non pace; e questa condizione di cose imponeva alla sua volta un regime di monopolio e di ingerenze statali di così vaste proporzioni da sopprimere quasi ogni libertà commerciale; infine la finanza dello Stato, con un disavanzo di almeno quattordici miliardi, poneva innanzi al Paese lo spettro del fallimento, con le terribili conseguenze che ne sarebbero derivate dalla completa svalutazione della moneta, dal fantastico aumento del costo della vita, dalla caduta di Istituti di credito e delle principali industrie; disastri questi che avrebbero colpito tutte le classi sociali, ma sopratutto, e in modo più duro, le classi lavoratrici.

Ed infatti codesta situazione, materiale e morale, del paese, ebbe appunto la sua espressione nella Camera uscita da quelle elezioni; non tanto pel gran numero dei deputati dei partiti estremi che erano stati eletti, quanto per lo spirito generale da cui era dominata, come apparve dalla sua stessa prima seduta pel discorso della Corona, che risultò in una affermazione tracotante degli elementi sovversivi, senza che gli elementi costituzionali si mostrassero disposti e pronti a presentare una energica resistenza.

Le condizioni generali del paese in un anno e mezzo di tempo erano naturalmente mutate. Per il problema albanese si era ritornati alla nostra migliore tradizione, intesa ad assicurare le indipendenza dell'Albania, senza mire di dominio; il trattato di Rapallo ci aveva alfine data la pace, assegnando all'Italia i suoi confini naturali ed iniziando una politica di cordiali rapporti non solo coi jugoslavi, ma anche con gli altri popoli che avevano formato parte della Monarchia asburgese; la situazione di Fiume era stata risolta, assicurandone l'indipendenza e l'italianità ed eliminando i pericoli che potevano sorgere dalla irregolare posizione in cui quella città si era trovata per oltre un anno e mezzo.

All'interno lo stato di pace con tutte le sue conseguenze aveva ormai sostituito lo stato di guerra; al regime del monopolio statale succedendo quello della piena libertà commerciale. Infine, mercè l'eliminazione del sistema del prezzo politico del pane, e con l'applicazione delle imposte sui profitti di guerra, sulla ricchezza e sul lusso, il disavanzo del bilancio era disceso da quattordici a poco più di quattro miliardi; ad una cifra cioè che con la rigida applicazione delle imposte vigenti, con migliori ordinamenti che ne rendessero più efficace la riscossione, e con una forte politica di economie si aveva ragione di sperare che potesse in  un  tempo  non  remoto  essere   pareggiata.

Era sempre stato, nel passato, mio fermo concetto che ogni legislatura debba compiere il ciclo consentito dallo Statuto, per poter così svolgere il programma pel quale il Paese ha affidato ai deputati la sua rappresentanza; ed a questo concetto io avevo sempre conformata la pratica nella mia opera di governo. Le ragioni sopradette mi persuasero però della convenienza, anzi della necessità, nel caso attuale, di derogare da tale pratica, e di chiamare, alla distanza di circa un anno, e mezzo dalle elezioni precedenti, il
paese a manifestare le proprie tendenze politiche nelle condizioni di cose notevolmente mutate; tanto più che per certi problemi che io consideravo di primo ordine, e che erano parte integrale del programma con cui avevo assunto il governo, quale il problema della libertà della scuola e dell'esame di Stato, si erano manifestate, fra gli stessi partiti costituzionali dal cui appoggio il governo dipendeva, contrarietà ed incertezze che solo dal responso dei comizii generali potevano essere risolte.

Il programma col quale il governo si presentò alle elezioni non era che un proseguimento di quello annunciato e in parte attuato nei mesi precedenti, con più particolari richiami alle necessità di riforme nell'amministrazione dello Stato e ad una politica sociale intesa ad aprire nuovi campi di attività ed a dare nuovi mezzi di graduale elevazione alle masse popolari. Per lo svolgimento della lotta elettorale, considerando che la più grave debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro frazionamento, in confronto alla unione e compattezza dei socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi in cui tutte le forze dei vecchi, partiti liberali e democratici fossero raccolte.

Le elezioni furono indette per il 15 maggio. Negli ultimi giorni non mi fu più possibile occuparmi del mio ufficio perchè colpito da atroce sventura, la morte di mia moglie Rosa Sobrero già da tempo malata, che morì il 10 maggio a Torre Pellice, dopo 52 anni di matrimonio passati nella più completa concordia. La stima universale che essa godeva per il suo elevato carattere diede luogo alle più commoventi manifestazioni di sincero cordoglio.

Contro le elezioni si erano dichiarati violentemente i socialisti e il un gruppo di deputati che facevano capo all'on. Nitti, pronunciando perfino minaccie contro la Corona. Fra l'altro era stato addotto come argomento per ritardare le elezioni, le condizioni alquanto turbate di alcune provincie; ma a mio avviso la irrequietudine, che si manifestava appunto in episodi riprovevoli e dolorosi, era una ragione di più per accelerarle, perchè la manifestazione solenne della volontà del paese è la più grande delle forze morali per imporre a tutti di cessare dalle violenze ed inchinarsi alla legge.

Ad elezioni compiute, quegli stessi che le avevano deprecate credettero di trovare nei loro risultati la conferma della giustezza del loro punto di vista, in quanto che tali risultali non rappresentavano spostamenti di numeri tali da mutare decisamente la situazione. Tale giudizio era però assolutamente erroneo; né io mi ero ne proposto né aspettato un capovolgimento della situazione in tale senso, a cui fra l'altro si opponeva il sistema elettorale della proporzionale, che pare appunto sia stato inteso sopratutto, da parte dei suoi ideatori, ad impedire tali bruschi e radicali mutamenti, che venivano qualificati come rivoluzioni parlamentari, a cui appunto si prestava troppo, secondo loro, il sistema maggioritario.

Infatti, in confronto di quelle del novembre 1919 le elezioni del maggio  1921, dettero,  su circa otto milioni di votanti, uno spostamento di oltre mezzo milione di voti dai partiti sovversivi a quelli costituzionali; proporzione certo assai alta in così breve volgere di tempo, e che col sistema maggioritario e il collegio uninominale sarebbe stata sufficiente a ridurre di più della metà il numero dei deputati socialisti, comunisti e repubblicani eletti nei Comizi antecedenti; mentre tale spostamento di voti, col sistema proporzionale non poteva portare che allo spostamento da venti a trenta seggi, quale appunto si ebbe.

Ma, specie con l'uso di tale sistema, il risultato elettorale non va misurato solo col numero dei seggi guadagnati o perduti dai varii partiti, ma anche col carattere generale della nuova Camera che ne deriva. Ora indubbiamente la Camera eletta nel maggio del 1921, riuscì ed apparve subito assai diversa, nel suo spirito, da quella uscita dalle elezioni del 1919. A parte la perdita di ventiquattro seggi da parte dei socialisti e comunisti, si ebbe in quelle elezioni un notevole miglioramento nella qualità degli eletti. In quelle elezioni entrò pure nel parlamento, con un manipolo di una trentina di deputati, la più parte giovani ed animati da spiriti combattivi, il partito fascista; ciò che io considerai cosa vantaggiosa, perchè il fascismo costituendo ormai una reale forza nel paese, era bene avesse la sua rappresentanza parlamentare, secondo il mio antico concetto che tutte le forze del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi il loro sfogo.

Complessivamente la nuova Camera rappresentò anzi tutto una rianimazione delle forze costituzionali, che nella Camera precedente, specie nei primi mesi, erano apparse assai disanimate.

La nuova Camera fu convocata per l'11 giugno, pel discorso della Corona, che ribadì nelle sue linee generali il programma che io avevo annunciato assumendo il governo un anno innanzi.

Nei giorni seguenti si venne ad una discussione generale, nella quale il governo si trovò di contro, oltre i socialisti e gli altri elementi di costante opposizione, che gli rimproveravano le elezioni e la costituzione dei blocchi, anche i nazionalisti e la destra, che lo attaccavano per la politica estera e specie per la meschina questione di Porto Baros. Venuti ad un voto di fiducia, il governo ottenne una maggioranza di trentaquattro voti, infirmata però da una dichiarazione fatta dall'on. Girardini a nome del gruppo della Democrazia sociale, il quale, pure votando pel governo, faceva delle riserve sul significato del suo voto. Ora, è stata sempre mia abitudine di contare i voti di favore, dati con limitazioni e riserve, come dei voti contrari, quali essi diventano sempre, prima o poi, in una qualche successiva votazione, perchè chi vota con riserva ha già ragioni o la disposizione a votare contro. Nel caso attuale poi, il governo che io presiedevo essendo un governo di coalizione costituzionale, formato essenzialmente per l'attuazione di un programma, era evidente che il distacco di gruppi costituzionali importanti, toglieva ad esso l'autorità necessaria per compiere l'opera che si era proposta.

Nei giorni che avevano preceduto il voto, io mi ero poi trovato personalmente in contatto con rappresentanti o porta voce dei varii gruppi costituzionali, dai quali avevo avuto vive premure perchè mi decidessi ad un rimpasto del Ministero. Io ho già espresso, in queste mie memorie, la mia ripugnanza a tale sistema dei rimpasti, che non mi è mai apparso ne politicamente utile, né leale verso i miei collaboratori. Nei Ministeri che ho presieduti io sono sempre stato, in tutto e per tutto, senza riserve e limitazioni, consenziente e solidale con la politica svolta dai miei colleghi, e non ho mai ammesso che si possa esimere il capo del governo delle responsabilità che toccano i suoi colleghi; ciò che non sarebbe nemmeno suo onore, perchè farebbe supporre che questi colleghi agiscano contro la sua volontà o a sua insaputa. Tutte queste ragioni, come erano valse per il passato, valsero anche questa volta a farmi dichiarare esplicitamente e formalmente a coloro che insistevano, esprimendomi fiducia personale, che io salvassi la situazione mediante un rimpasto, che ciò non intendevo di fare; aggiungendo che la politica del Ministro degli esteri, del quale più specialmente si chiedeva la sostituzione, era stata condotta in tutte le sue parti in pieno accordo con me.

Aggiungo che se anche io avessi accettata come sufficiente, per restare al governo, quella maggioranza apparente di treutaquattro voti, avrei poco dopo incontrato un altro ostacolo, tale da determinare da solo la crisi ministeriale.

Io avevo presentato un disegno di legge, approvato ad unanimità dal Consiglio dei Ministri, coi quale chiedevo i pieni poteri per effettuare la riforma burocratica, resa necessaria per le condizioni del bilancio, per l'enorme numero di impiegati e di istituti inutili, e per la convenienza di dare maggiore efficacia e più sicuro indirizzo a molti servizii pubblici. A far ciò ritenevo indispensabili i pieni poteri, unico mezzo per superare la resistenza degli interessi di classe degli impiegati, e degli interessi locali, ai quali i deputati difficilmente possono resistere, e che uniti nella resistenza creano nella situazione parlamentare difficoltà invincibili. Io comprendevo perfettamente che il Ministero, quando avesse compiuta seriamente tale opera, avrebbe dovuto lasciare il potere con molte maledizioni di interessi privati offesi, ma, convìnto di rendere un servizio al paese, ero deciso ad affrontare così grave responsabilità. Però in quei giorni la direzione del partito popolare aveva deciso di negare al Ministero i pieni poteri, e l'opposizione già era incominciata nella Commissione incaricata di esaminare quel disegno di legge. Ora, senza il voto dei deputati popolari il disegno di legge non poteva essere approvato; e senza i pieni poteri una riforma seria era, a mio avviso, impossibile. Data una tale situazione, se anche la crisi non fosse avvenuta subito dopo il voto della
Camera, sarebbe avvenuta pochi giorni dopo sulla questione della burocrazia, lasciando ai successori definitivamente compromessa la questione stessa.

Quindi, la mattina dopo il voto, io convocai il Consiglio dei Ministri, ed osservai che dopo il distacco della destra e le riserve della democrazia sociale, il Gabinetto non poteva evidentemente contare più su una sicura maggioranza parlamentare, che gli desse modo di esplicare il concreto programma di riforme richiesto dalla situazione generale, economica e politica del paese. I miei colleghi approvarono unanimamente la mia interpretazione della situazione e le conseguenti decisioni, e dopo quindici minuti il Consiglio fu sciolto.

Io mi recai immediatamente da Sua Maestà, a cui riferii le decisioni prese dal gabinetto di presentare le dimissioni. Ed alle tre dei pomeriggio il Ministero si presentò alla Camera, dove io lessi la seguente dichiarazione: — «Ho l'onore di annunciare alla Camera che, in seguito al voto di ieri, il Ministero ha considerato che la piccola maggioranza riportata dal Ministero, maggioranza il cui valore politico è diminuito da riserve fatte nel corso della discussione, non dà al governo la forza necessaria per affrontare le gravi questioni che si devono risolvere; e quindi ha presentate a Sua Maestà le dimissioni. Sua Maestà si è riservata di deliberare». —

Quando mi recai al Senato a ripetere tale dichiarazione, fui accolto dall'alto consesso con un applauso quasi unanime, che, lo confesso, mi fu di grande soddisfazione.

Nei giorni seguenti mi furono rinnovate da ogni parte premure perchè io assumessi l'incarico della formazione del nuovo Ministero; ma mantenni il mio rifiuto, ed indicai al Re gli on. De Nicola e Bonomi, il quale ultimo formò poi effettivamente il nuovo governo.

Nell'ultima adunanza del Consiglio dei Ministri,
tenuta il 1.° luglio 1921, avanti la consegna del governo al nuovo Ministero, i miei Colleghi mi presentarono, con grande cortesia, una specie di ben
servito, scritto da Benedetto Croce, e recante la loro
firma, e col quale mi è grato chiudere queste memorie della mia vita.    

«Al nostro illustre Presidente, in questa ultima riunione del Consiglio dei Ministri, non abbiamo bisogno di dire con quanto desiderio ci separiamo da lui. Il nostro sentimento risponde a quello di tutto il popolo italiano, che in questi giorni mostra con mirabile unanimità di sapere ricordare e riverire. Ma ha anche qualcosa di particolare e di proprio: l'orgoglio di essere stati, in un periodo difficile e storico della vita nazionale, suoi collaboratori.»

Raineri — Croce — Luigi Rossi — Facto. — Giulio Alessio — Sechi — Peano — Carlo Sforza — Luigi Fera — Pasqualino Vassallo — Marcello Soleri — Antonio Labriola — G. Micheli — Giulio Rodino.

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.



INDICE-SOMMARIO DEI DUE VOLUMI



I.
LA FAMIGLIA E L'EDUCAZIONE
La mia famiglia e la sua  origine — Una  democrazia medievale — La  famiglia di mia madre: i Plochiù —   La   mia  prima   educazione in  montagna — Gli studi a Torino: letture letterarie, storiche  e filosofiche — Esercizi fisici: le escursioni e la scherma.
II.
LA CARRIERA AMMINISTRATIVA
Entro al Ministero di Grazia e Giustizia — La mia prima caricatura — La morte di mia madre e il mio matrimonio— Mia opera pel riordinamento della riscossione delle imposte — La figura e l'opera di Sella e di Lanza — Entro segretario generale ali • Corte dei Conti — Sono nominato consigliere di Stato — La mia candidatura e l'elezione a deputato.
III. DA DEPUTATO A  MINISTRO
Il passaggio del Governo dalla Destra alla Sinistra — L'opera della Destra: i suoi meriti e i suoi difetti — Che cosa rappresentò la vittoria della Sinistra — La personalità di Depretis e il trasformiMno — Le divisioni della Sinistra: la Pentarchia e i «dissidenti» — La lotta contro la finanza del Magliani e il mio primo discorso parlamentare — Come Cri<pi formò il suo primo Ministero — La mia entrata nel Ministero Crispi — Le difficoltà politiche e la mia prima politica sociale — Perchè mi dimisi — Il Ministero Rudinì, i suoi travagli e la sua caduta — Personalità del tempo: Crispi, Zanardelli, Nicotera, Magliani
e di  Rudinì.
IV. IL PRIMO MINISTERO
GII scandali bancari e I Fasci del lavoratori
Un ritorno al governo di partito — I punti fondamentali del mio programma: politica liberale e politica sociale; mantenimento della Triplice e rapporti amichevoli con la Francia — Le elezioni e la vittoria della Sinistra — L'inchiesta sulla Banca Romana e i suoi precedenti — Il pericolo pel credito nazionale e la riforma delle Banche d'emissione — Gli inizii del movimento socialista — I 'Fasci» siciliani e l'azione economica dei lavoratori — De Felice, Barbato, Verro — La reazione conservatrice — Il Comitato dei Sette e la sua opera inadeguata — Le accuse mosse contro di me e le mie dimissioni.
V. LA STORIA DEL PLICO
L'incarico a Zanardelli e il suo fallimento — Crispi inizia l'azione reazionaria e dittatoriale — Minacce contro me perchè ero passato all'opposizione — Le scandalose assoluzioni nel processo della Banca Romana — Come nacque l'accusa di sottrazione di documenti e con quali scopi — Pressioni sulla Magistratura e irregolarità processuali — Perchè e come presentai il plico — La relazione della Commissione dei cinque e un voto sfavorevole al Governo — La proroga della Camera ed un mandato di comparizione — Tentata violazione delle prerogative statutarie annullata dalla Cassazione — Le elezioni — Come fu sepolta la questione morale.
VI. DA ADUA AGLI EVENTI  DEL 1898
La guerra d'Abissinia e la sua incerta condotta — Dissensi fra Crispi e Son-nino — La sconfitta d'Adua e la caduta di Crispi — La frettolosa liquidazione della guerra fatta dal Rudinì — Titubanze tra liberalismo e reazione — Gli avvenimenti del 1898 — La fase liberale del governo Pelloux — Il passaggio alla reazione e ì provvedimenti eccezionali — La lotta dell'ostruzionismo — Il colpo di mano per mutare il regolamento della Camera — Il trionfo dell'estrema Sinistra nelle elezioni e la caduta di Pelloux— I concetti da me proclamati per la soluzione della crisi  nazionale.
VII. IL  RITORNO AL LIBERALISMO
Il ritorno alla costituzione — Il Ministero di transizione Saracco — Il Ministero Zanardelli — II completo esperimento liberale — La mia opera al Ministero degli interni — La lotta fra capitale e lavoro — Le leghe e gli scioperi agrari — La duplice lotta, contro gli estremisti alla Camera e contro i reazionari al Senato — Perchè mi dimisi dal Ministero Zanardelli.
VIII. IL MINISTERO DEL 1903
Il problema ferroviario e I trattati di commercio - La questione meridionale -Lo sciopero generale e le elezioni
La formazione del Ministero: uomini nuovi — L'invito a Turati e il rifiuto -dei socialisti — Una campagna di calunnie e la tragica fine di Rosano — Inizio di riforme sociali, economiche e finanziarie — La rinnovazione dei Trattati di commercio — Perchè si addivenne all'esercizio ferroviario di Stato — Lo sciopero dei ferrovieri e la loro militarizzazione — Vasta opera di legislazione e riforme — Epidemia di scioperi; sua ragione ed effetti economici — Lo sciopero generale, come fu affrontato e suo fallimento — Le elezioni e il loro risultato conservatore — L'istituto internazionale d'agricoltura — La visita a , -Roma di Loubet — Mia visita a Bùlow ad Homburg — Una malattia mi obbliga alle dimissioni.
Indice-sommario dei due volumi    625
IX, IL MINISTERO DEL 1906-1909
11 Ministero Fortis — Il Ministero Sonnino e la sua caduta — Il mio nuovo Ministero: programma di riforme concrete — Dal problema politico al problema economico — La lotta contro il malessere economico nel Mezzogiorno e nelle Isole — Alleviamento delle imposte sui consumi — Impulso alla istruzione popolare ed alla istruzione tecnica — La conversione della rendita — L'incremento della economia nazionale e il florido bilancio dello Stato — La visita dello Czar a Racconigi e gli accordi russo-italiani per Tripoli, i Balcani e l'Oriente — L'Università di Trieste e l'Arciduca' Ferdinando — La ferrovia Adriatico-Mar Nero — La crisi dei servizii marittimi — La mia proposta di imposta progressiva e la caduta del Ministero — Nuovo insuccesso dell'ori. Sonnino, e le sue ragioni.
X. IL SUFFRAGIO UNIVERSALE E IL MONOPOLIO
Il Ministero Luzzatti: perchè cadde — La necessità dì un più ampio suffragio — Il mio programma e il nuovo invito ai socialisti — Manovre contro il monopolio e il suffragio universale — L'opposizione diplomati a al monopolio — La guerra di Libia — Perchè avevo anteposto il progresso economico a quello politico delle classi popolari — La partecipazione delle classi popolari alla vita politica, ed il rafforzamento politico e l'incremento economico dello Stato — Come fu congegnato il mio progetto di riforma — La lotta mascherata contro di esso — I risultati del primo esperimento.
XI. LA GUERRA DI  LIBIA
Gli antecedenti della guerra libica — Gli accordi con la Francia, Inghilterra € Russia e un memorandum aggiunto al Trattato della Triplice — Quali furono le ragioni che mi determinarono all'impresa — La scelta del momento — La politica antitaliana della Porta: minacce e agitazioni — Nostri moniti al Governo turco — La preparazione diplomatica — Cordiale atteggiamento dell'Inghilterra, Francia e Russia — Difficile situazione dei nostri alleati: l'atteggiamento di Aerenthal — Tentata intromissione conciliatrice del barone Marshall — Kiderlen Wachter sconsiglia l'azione — Una campagna internazionale di stampa contro l'Italia — La preparazione milita-e — Perchè non cercammo di attaccare la flotta turca — L'episodio del Denta _— Il nostro ultimatum — La risposta evasiva turca e la dichiarazione di guerra.
XII. LA GUERRA NELLA LIBIA, NELL'EGEO E NEL MAR ROSSO
Rapida azione militare iniziale e séguito di guerriglia — Complicazioni internazionali — Proteste dell'Austria per l'Adriatico — Proposta di un'azione conciliativa delle Potenze: diffidenze ed intrighi — Il Decreto della sovranità sulla Libia — Iniziativa di pace del  Sazonoff:   sue fasi e suo fallimento  — L'incidente del Manouba e del Carthaffe — La guerra navale nell'Egeo: proteste e chìcanes austriache — Diuturno dibattito sull'art. VII della Triplice per l'occupazione delle isole — L'attacco ai Dardanelli e loro chiusura — Iniziativa a noi sfavorevole dell'Inghilterra, e nostra rivendicazione del diritto di belligeranti — Il partito militare austriaco in cerca di pretesti per agire — L^spulsione degli italiani dalla Turchia — Ripresa di operazioni in Tripoiitania e Cirenaica — La piccola guerra nel Mar Rosso.
XIII. I  NEGOZIATI DI LOSANNA E DI  CAUX
Nuovi passi per la pace e proposte inaccettabili — Nostri rapporti indiretti col governo turco — Conversazioni di Volpi con personaggi turchi — Prima proosta di negoziati e successive complicazii ni — La nomina del principe Said lalem a fiduciario turco, di Bertolini, Fusinatn e Volpi per l'Italia — La figura e i modi di Said Halem — Inizio quasi comico — Si manda un verbale a Costantinopoli, ma non arriva risposta — Schemi di compromesso dei nostri delegati, da me non accolti — Far ciò fare nuove domande per poter poi cedere su di esse — Crisi a Costantinopoli e ritiro di Said Halem — Un cristiano al Ministero degli esteri turco — Strana condotta dell'ambasciatore tedesco a Costantinopoli — Una proposta del Gran Visir a mezzo della Germania da me respinta — I nuovi fiduciari: Nabi e Feredin Bey — Cinque proposte turche respinte — Convegno di Torino e mio schema per la pace — Ridda di proposte turche di ogni genere — La missione dilatoria di Reschid pascià — Mia minaccia di allargare la guerra ed avvertimento alle Potenze.
XIV. LA CONCLUSIONE DELLA PACE
Ultimatum di otto giorni alla Turchia — Il governo turco dichiara di accettare lo schema da noi proposto — Nuovi espedienti turchi — Invio della flotta italiana nell'Egeo — Ordine di attaccare Smirne e Dedeagatch — La pace alfine firmata — Critiche diverse mosse contro la guerra e la sua condotta diplomatica e militare — I pacifisti ad ogni costo, gli umanitari ed i nazionalisti — Una critica postuma: la guerra di Libia spinse alla guerra europea?
XV. LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA BALCANICA E UN DUPLICE TENTATIVO D'AGGRESSIONE DELL'AUSTRIA
La rinnovazione della Triplice Alleanza e le sue ragioni — La grave questione albanese — Le aggressioni serbo montenegrino e greche — Sentati e il Canale di Corfù — Pericoli e minacce fra l'Austria e la Russia — Proposta austriaca all'Italia contro il Montenegro — Mio rifiuto motivato dalla convinzione che quell'azione avrebbe portato alla guerra europea — Scambio di dispacci e lettere fra me e San Giuliano — Pressioni dell'Imperatore Guglielmo — La Conferenza degli ambasciatori — La questione del Dodecaneso: rigido atteggiamento dell'Inghilterra — Compromissione della Francia per la Grecia — Mantengo fermo il punto di vista italiano, che è accettato — Secondo tentativo di aggressione dell'Austria contro la Serbia — Io nego l'intervento italiano-mancando il casus foederis — Gli accordi per l'Asia Minore — Il pacifismo-dell'lmperatore Guglielmo.
XVI. LA    GUERRA   EUROPEA
La neutralità e la guerra Italiana
La crisi e il Ministero Salandra — Lo scoppio della guerra mi trova a Londra
—Esprimo l'opinione della mancanza del casus foeaerìs e della convenienza della neutralità — Lettere di San Giu'iano e Salandra — Mici giudizi, apertamente espressi, della lunghezza, d Stolta e sacrifici della guerra — Polemiche fra neutralisti e interventisti — Accuse smentite su l'impreparazione militate — Leggende sui miei rapporti con Bulow e sulla mia neutralità assoluta — L'azione drl Governo per ottenere concessioni dall'Austria e mio appoggio — Una mia lettera ad un personaggio tedesco — Allarmi ai primi di maggio sulla condotta del Governo — Vengo a Koma per la riapertura della Camera: dimostrazioni ostili — Trecento deputali approvano  le mie  opinioni —Conversazioni con Carcano, Salandra, Marcora — Non sono informalo del Patto di Londra — Altre minacce ed accuse contro me — Il Ministero Salandra riconfermato dopo le dimissioni — Mia condotta durante la guerra per non provocare dissensi — Ritorno al Parlamento dopo Caporetto.
XVII.
IL   MINISTERO   DEL   DOPO   GUERRA
Il programma - L'Albania - La pace - Fiume
Il Ministero Nittì: sua incertezza e sua caduta — 11 programma con cui assunsi il governo — Necessità di risolvere le questioni internazionali e quella di Fiume — Progetti radicali presentati al Parlamento per la politica estera e finanziaria — L'episodio di Ancona — Perchè sgomberai Vallona — Mio incontro con Lloyd George a Losanna e con Millerand a Aix-les-Bains — Il progetto del Governo per la soluzione della questione jugoslava — Abbandono dei progetti antecedenti per chiedere il confine naturale — Rapida conclusione del trattato di Rapallo — Vani tentativi per persuadere D'Annunzio — L'azione per ristabilire la situazione normale a Fiume.
XVIII. IL MINISTERO DEL DOPO GUERRA
La politica Interna
La restaurazione finanziaria dello Stato — Necessità di cominciare col colpire la ricchezza — La nominatività dei titoli e i creditori del'o Stalo— La legge sul pane e l'ostruzionismo socialista — L'occupazione delle fabbriche e la condotta del Governo —Azione di polizia ed azione politica — 1 pn geni di controllo delle fabbri' he — La crisi industriale — Perchè indissi le elezioni e il loro risultato — Dissoluzione della maggioranza e la crisi.