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Renato Fucini
Le veglie di Neri
INDICE
• Il Matto delle giuncaie
• Perla
• Lucia
• L'oriolo col cucùlo
• La fatta
• La pipa di Batone
• Vanno in Maremma
• Primavera
• Il merlo di Vestro
• Tornan di Maremma
• Lo spaccapietre
• Fiorella
• Sereno e nuvoloso
• Passaggio memorabile
• Dolci ricordi
• Scampagnata
Il Matto delle giuncaie
Quella sera non stavo bene di spirito. Alla smodata allegria d'un
intiero giorno passato sulle praterie in mezzo a cari amici,
laggiù convenuti per esser pronti la mattina dopo ad aprire
la caccia, era subentrata una profonda tristezza, alimentata forse
dalla scena mestissima d'un tramonto di sole in padule.
Alcuni de' miei compagni, occupati in varie faccenduole riguardanti
la caccia del domani, si erano accoccolati sull'erba, smontando
schioppi, lustrando fiaschette, facendo cartucce e tante altre
simili cose; altri, stanchi, s'eran buttati sopra uno strapunto di
paglia nella Casina delle Guardie e s'erano addormentati; ed io,
senza avvedermene, avevo preso lungo l'alberata e, passo passo,
m'ero allontanato d'un buon tratto, quando, accortomi di non esser
seguìto da nessuno, provai come un senso di repugnanza ad
inoltrarmi maggiormente in quella solitudine; ma siccome ero stanco,
prima di tornare indietro, mi fermai un poco per riposarmi.
Seduto sull'argine erboso d'un canale, lasciavo correre l'occhio
smarrito su quella immensa superficie d'acqua stagnante e di lunghe
cannéggiole, e fantasticando dinanzi a quel malinconico
quadro, richiamavo alla mente i più minuti ricordi della
prima giovinezza, e per un misterioso fenomeno psicologico, anco le
più liete memorie prendevano in me in quel momento l'aspetto
di tristissime cose. E mi sentivo stringere il cuore, e quasi avrei
pianto senza saperne di perché.
Il caldo era soffocante e non dava respiro nonostante una leggera
brezza di marino che sulla sera si era alzata languida languida e
che, insieme con qualche raro fischio di uccelli palustri, rompeva
l'alto silenzio di quella deserta pianura, correndo fra i
biódi e le cannéggiole che, tremolando e lievemente
fra loro percotendosi, mandavano un rumore come d'una moltitudine
che lontana lontana applaudisse gridando e battendo le mani.
A mano a mano che il sole calava dietro le colline dal lato opposto
del padule, si stendeva su quello un leggiero velo di nebbia
bianchiccia, rendendo di minuto in minuto più squallida la
scena che mi stava davanti.
Ed intanto io pensavo; e quasi che un velo di nebbia si addensasse
anche su i miei pensieri, mi si affollavano alla mente mille idee
confuse e ondeggianti, che rapidamente passavano per dar luogo ad
altre più delle prime annebbiate, confuse ed incerte. E quel
vasto campo che un istante prima mi parlava di morte, lo vedevo ora
popolato da una quantità innumerevole di pallide e rabbuffate
figure padulane dalla fibra d'acciaio e dall'animo generoso e
feroce, nel petto delle quali le passioni scoppiano con tal
violenza, che il delitto ne diventa spesso il termine funesto. E
idillj soavi e drammi sanguinosi si svolgevano dinanzi alla mia
immaginazione, e la tristezza intanto si faceva maggiore nell'animo
mio, quando una voce di fanciulla, di una di quelle tante miserabili
che vivono felici in quell'ambiente mefitico i mesi e gli anni
interi, lavorando con l'acqua fino alla cintola e il fango fino alle
ginocchia, intonò un canto malinconico, piano come la
superficie dello stagno, lento come le acque del canale, e
portò fino a me queste dolenti parole:
È morto l'amor mio che amavo
tanto:
Ahi! dal dolor più reggere non
posso;
L'han portato laggiù nel
camposanto,
E gli han buttato anco la terra
addosso.
Dimmelo te, te che lo sai, gran Dio,
Se mai lo rivedrò l'angiolo
mio;
Dimmelo te, gran Dio... ma il mio
lamento
Vola e si perde sull'ali del vento.
«Ho bisogno di veder gente... ho bisogno di rivedere i miei
amici... mi annoio, mi annoio, mi annoio troppo.» E
così pensando mi alzai, e con passi concitati tornai al punto
di convegno.
«Son tutti a dormire», mi disse una guardia.
«Come! così presto?», osservai.
«Cascavano a pezzi. O lei non va?»
«No.»
«O che vòl fare?»
«Non lo so nemmen'io; ma qualche cosa inventerò: non ho
sonno.»
«Vòl venire con me? vado a rivedere i bertuelli.
[1]»
«Se mi lasci andar solo, vado; con te non vengo.»
«Ma sarà bono di maneggiare il barchino?»
Lo guardai ridendo.
«O senta, veh. Una dozzina sono nel canaletto subito dopo il
ponte; altri sei a quello degli Sparacannelle, e due, quelli meglio,
al canale traverso... Che lo sa il canale traverso?»
«Non me ne ricordo, ma ne domanderò.»
«O a chi ne vòl domandare?»
«Ho sentito cantare...»
«Ah, sì ha ragione! c'è quelle donne; eppoi a
quest'ora, verso le Svolte, troverà il Matto di certo.»
Una mezz'ora dopo, aiutandomi col forcino [2] a sfondare le foglie
di copripentole e quei viluppi foltissimi di alghe d'ogni genere che
nell'estate permettono appena la navigazione negli stretti fossi del
padule, avevo già vuotato sul pagliòlo [3] una dozzina
di libbre di pesce fra lucci, tinche e anguille, quando, non sapendo
dove trovare chi mi indicasse il canale traverso, mi alzai in piedi
per vedere se potevo scorgere anima viva da domandarglielo...
«Che ci ha una pipata di tabacco?»
A quella voce che si partiva da un folto cespuglio di salci, mi
scossi quasi impaurito e, voltomi indietro, vidi una figura
semiselvaggia che, mostrandomi una pipa spenta, aspettava la mia
risposta.
«Tabacco non ne ho», risposi. «Se vuoi un
sigaro...».
«E allora lo ringrazierò. Lo butti, lo butti.»
«Non vorrei che andasse nell'acqua.»
«O aspetti, veh.»
Così dicendo si alzò e reggendosi con la destra ad un
ramo, si spenzolò tenendo nella sinistra il cappello, e:
«Lo butti, lo butti qui; se va nell'acqua lo ripiglio
io».
Tirai il sigaro nel suo cappello; lo prese e mi ringraziò di
nuovo, mettendosi subito a stritolarlo nella pipa.
«Che vado bene per andare al canale traverso?»
«Sissignore; eccolo subito lì... O chi è
lei?»
«Sono il figliolo del sor Giuseppe.»
«Senti, senti! Del sor Giuseppe! O il sor Federigo come
verrebbe a essere di lei?»
«Zio. O che lo conosci?»
«Se lo conosco! Siamo stati ragazzi insieme e mi rammento di
quando veniva in padule... Ah!» e mandò un sospiro.
«Sarà ora un affar di trent'anni.»
«Non per sapere i fatti tuoi, o tu chi sei?»
«Oh! non se ne dia pena, di saperlo.»
«E perché?»
«Perché... perché... Che ci ha un
fiammifero?»
«Tieni. O che mestiere fai?»
«Ott'anni sono stato in galera; dopo andai guardia con un
signore... e ora pesco e vo a caccia.»
«In galera?!...»
«Ah! non abbia paura. Lo vede questo ràgnolo che mi
rampica su per le gambe? non l'ammazzerei per tutto l'oro del
mondo... ci hanno a essere anche loro, povere bestie! ma se mi
pinzasse, oh! allora...»
«Otto anni in galera! O come mai? Forse qualche sbaglio di
gioventù?»
«Sbaglio?! L'ammazzai quel cane... Lì... guardi...
lì era quel demonio... e m'impostò lo schioppo, e
rideva e il pinsacchio [4] restò a lui... ma non lo
mangiò!»
«Come! E un miserabile pinsacchio fu la causa...?»
«Non mi pigli per un assassino, signore; non mi pigli per un
òmo disonorato... Bisognerebbe saperle tutte, bisognerebbe...
La faccia l'avrò brutta, ma me l'hanno fatto diventar loro...
E ho voluto tanto bene a tanti! E chi chiedeva un piacere a
quest'assassino, lo veniva a conoscere se dentro a queste costole
c'era qualcosa... E ora mi chiamano il Matto!»
«Ah! sei il Matto delle Giuncaie?»
«Sissignore. E patisco la fame, capisce? la fame; e non ho
fatto mai male a nessuno... Eh! a lui sì, glielo feci;... ma
la volle, la volle... glie l'avrebbe tirata anche la Santissima
Vergine.»
«Ma dunque, racconta...»
«O andiamo, via; mi servirà anche di sfogo,
perché n'ho bisogno... Ah!... lei non l'ha conosciuta di
certo, ma non importa. Era bionda e si chiamava Stella, ma le stelle
eran meno belle di lei. Cantava sempre e io passavo le giornate
intere acquattato tra i giunchi per starla a sentire. Ma un giorno
non potei più reggere e glielo dissi. Lei cominciò a
piangere e scappò via, e io stetti quasi un mese senza
rivederla, ché tutti mi domandavano cosa avevo fatto,
perché, dice, ero diventato che parevo un morto... Io avevo
diciannov'anni e lei quindici... La vede quella cappellina
bianca?... è sotterrata lassù!... Ah! lei signoria non
l'ha conosciuta. Son già passati dodici anni e se fossi
com'un pittore la dipingerei.
Finalmente una sera trovo su' padre, e mi dice: "Che è vero
che vo' discorrereste volentieri colla mi' Stella?". Io, da primo
restai un po' abusato [5] ma poi dico: "Sì". "Dunque", dice
lui, "state a sentire. Dispiacere non mi dispiacete, perché
de' fatti vostri nessuno m'ha detto nulla di male, ma a mezzi come
si sta? Io a quella ragazza qualche soldarello glielo darò,
non gran cosa, ma insomma...".
Cotesta sera si fissò tutto. Lui mi disse che pensassi a
trovare i mezzi di metter su un po' di casa; lei mi disse che mi
voleva bene, e la mattina dopo, avanti giorno, ero già per
strada che andavo in Maremma a lavorare. Abbia pazienza, che ci ha
un altro fiammifero?...
Dopo un anno e mezzo tornai... Arrivo a casa... picchio, e la mi'
povera mamma bon'anima (non avevo altro che lei) mi viene ad aprire.
Appena mi vede, senza dirmi nulla, mi si butta al collo e comincia a
piangere.... Se non mi venne un accidente fu un miracolo del
Signore! "È morta?", urlai... Dio lo volesse che fosse stato
vero! Avrebbe patito meno anche lei, povera creatura, e forse chi
sa?... Ma Dio benedetto, però, ci pensò lui a quel
cane di vecchio, perché il giorno preciso dell'anello, appena
esciti di chiesa, lo prese un accidente a gocciola e crepò
nel mezzo di strada com'un rospo!»
«O come mai? e allora perché promettere?...»
«L'interesse, capisce, l'interesse! Gli venne fra' piedi
quell'altro infame a fargli vedere una casuccia e qualche cento di
scudi, e quell'aguzzino di vecchio... Già è meglio che
mi cheti perché è morto... e ai morti c'è chi
ci pensa.
A me mi venne una malattia che mi tenne a letto tre mesi. Patii
dimolto, ma mi chiusi tutto nel core, perché ormai non c'era
rimedio, e lei, poverina!, che non ci aveva che fare, era più
disgraziata di me e non gli volli dare altri dispiaceri.»
A questo punto tacque; si alzò in piedi, dette un'occhiata in
giro al di sopra delle piante palustri, e ricadde a sedere con le
braccia incrociate sulle ginocchia e il mento su quelle, quasi
aggomitolato sopra se stesso, fissando nell'acqua gli occhi
invetrati.
A che pensavo io? Quale poteva essere la causa di un brivido che mi
gelava? Il ribrezzo o la compassione? Non lo so... L'avrei
volentieri invitato a seguitare, ma non me ne dava il core. Dopo
qualche momento, però, sempre tenendo gli occhi ficcati al
suolo, proseguì:
«Doveva finire a quella maniera!... Sapevo che lui se n'era
anche vantato e m'era stato perfino fatto risapere che mi voleva far
cavare il sonetto! [6]... Ma io li scansavo tutti e due,
perché non lo sapevo dove sarei andato a cascare se mi fossi
combinato faccia a faccia con lui; e per un pezzo mi riescì,
ma poi...
La prima fu lei, che me la trovai quanto di qui a lì per la
processione delle Rogazioni. Non l'avevo nemmeno riconosciuta:
povera Stella, non aveva altro che gli occhi! La guardavo fissa
fissa, perché mi pareva e non mi pareva, e quando mi
passò davanti fece le viste di accomodarsi i capelli e
inciampò due o tre volte e gli cascò la candela di
mano: io mi messi la pezzòla in bocca e la morsi com'un cane
arrabbiato per non urlare. Chi mi riportasse a casa cotesto giorno
non lo so!».
A questo punto alzò di nuovo la testa per guardarsi
d'intorno; scosse con un movimento convulso la cenere della pipa e
dopo un sospiro che parve un ruggito, seguitò:
«Poi rintoppai [7] anche lui... la mattina dopo!... Quando si
levò il pinsacchio s'era nel folto, e io non avevo visto lui
né lui aveva visto me. Gli si tirò quasi insieme; io
un batter d'occhio prima di lui, e non lo sbagliai di certo. Mi
ficco giù per le cannéggiole, faccio una diecina di
passi e me lo trovo davanti!... Anime sante del Purgatorio, che
v'avevo io fatto di male?
Il prim'impeto fu di tirargli, ma Dio benedetto mi dette tanta forza
che mi voltai per tornare indietro.
Quest'assassino, che avrebbe dovuto attaccare il voto alla Madonna
del Rosario, cosa ti fa? Comincia a ridermi dietro e a urlare:
"T'avevi a provare a raccattarlo, pezzo di galeotto, eppoi...". "Io
in galera e te all'inferno!", urlai, e gli lasciai andare la canna
mancina nel core... Gli avrebbe tirato anche lei, dica la
verità, gli avrebbe tirato anche lei!».
Così dicendo, cominciò a gesticolare come un ossesso e
saltò, per andarsene, nel suo barchino, sempre guardandosi
d'intorno quasi che uno spettro lo perseguitasse.
«Pare che tu abbia paura di qualche cosa; perché vai
via?», gli domandai.
«Mi lasci andare, mi lasci andare, m'è parso di
sentirla di certo.»
«Ma che cosa?»
«Lei, la su' sorellina minore che canta come cantava
lei.»
«Ma io non sento nulla.»
Stette un po' in orecchio, e:
«Ha ragione; m'era parso».
Io che mi struggevo di sentirlo dell'altro raccontare, lo tentai di
nuovo così:
«E dopo quegli otto anni, andasti guardia con quel signore,
eh?».
«Sì.»
«Eppoi venisti via anche da lui?»
«Mi mandò via.»
«Ah! e perché?»
«Da tanto che mi voleva bene, tutti gli altri servitori
s'erano perfino ingelositi di me: mi rivestì tutto da capo a
piedi; mi regalò un bello schioppo, eccolo qui: mi dette
anche l'oriolo e mi menava sempre con sé, e quando veniva de'
signori di fòri, mi mandava a chiamare perché ci
discorressi. E il giorno che gli ripresi il su' figliolo che era
cascato nel pollino [8] cominciò a piangere e mi baciò
e mi disse che sare' morto in casa sua.
Cotesta sera fu di cattivo augurio. Arrivò un branco di
signori di Volterra e uno di questi mi guardò tanto, fisso
fisso...
La mattina dopo, quando m'aspettavo che il padrone m'ordinasse di
menarli a caccia, mi sento invece chiamare dal fattore nello
scrittoio e mi dice: "Il padrone ha saputo tutto: dice che gli
dispiace, ma che vi dà licenza subito, sul tamburo! A voi,
questo è il vostro schioppo e queste son cinquecento lire che
vi regala"
Le cinquecento lire non le volli; presi solamente lo schioppo e me
ne venni.»
Fece una breve pausa; s'asciugò il sudore con una manica
della cacciatora e continuò:
«Ora son nov'anni che son qui! mi chiamano il Matto; mi
rincorrono, m'urlano dietro e mi tirano le schioppettate da lontano
per farmi paura. Ma me le merito, perché dopo ammazzato lui,
invece d'andare dal maresciallo a farmi pigliare, mi dovevo legare
un sasso al collo e farla finita».
«Ma se tu avessi un bisogno... nel caso d'una malattia non hai
un parente?»
«Nessuno!»
«Nemeno un amico?»
«Un amico sì; e che amico! Lo vòl
conoscere?»
Fece un fischio, e sbucò, sguazzando nell'acqua fino alla
pancia, un vecchio restone, quasi non reggendosi in gambe, il quale
movendo festosamente la coda, andò con fatica a mettere le
zampe davanti sul barchino del suo padrone, e guardandolo con occhi
lustri, mandò con voce rauca un latrato di gioia.
Il Matto lo accarezzò ruvidamente tirandogli un orecchio; e
siccome il cane sentì male, si mise a guaire.
«Zitto, zitto, Moro!», disse il Matto. «Eppure lo
sai che se qualcuno ci sente, bisogna scappare, se non si vòl
essere impallinati. Tieni, povero vecchio!»
E così dicendo, gli buttò un tozzarello di pan secco,
che sparì, senza toccargli un dente, nella gola del povero
Moro, come un sasso buttato nell'acqua.
Il cane rimase un momento a guardarlo con la testa alta e legermente
inclinata sopra una parte, come per domandargli: «Ce
n'è altro?».
Il Matto guardò lui con tenerezza e scotendo il capo, rispose
sospirando: «Per oggi, no».
«Gli vuoi bene a cotesta bestia?», domandai.
«Più che all'anima mia.»
«Lo venderesti?»
«Piuttosto l'ammazzerei!»
«O se ti morisse?»
«Morirei anch'io.»
In questo momento lo vidi puntare il forcino con furia vertiginosa,
e, datasi una vigorosa spinta, si dileguò come un fantasma
tra i ciuffi di vetrice e la nebbia che si era fatta foltissima,
mentre una lieve folata di vento mi portò all'orecchio ma
quasi impercettibile, la voce della fanciulla che ripeteva la sua
canzone:
Dimmelo te, gran Dio... Ma il mio
lamento
Vola e si perde sull'ali del vento.
Circa due mesi dopo, tornando in padule domandai alla solita
guardia:
«O il Matto?».
«Glielo dicevo che era mezzo stregone quel brutto coso?... O
che non ne sa nulla?»
«No...»
«O di quel canaccio nero che aveva, se ne rammenta?»
«Quel restone vecchio?»
«Sissignore. Cotesto serpente, gli cascò morto di
vecchiaia, di cimurro, di fame, o che lo so? e quattro giorni dopo
fu trovato stecchito anche lui nelle giuncaie mezzo mangiato dagli
animali... Dica la verità, ci ha avuto piacere anche
lei?!»
Non risposi e mutai discorso.
Perla
«Secondo me, siccome son tre o quattro giorni che non fa altro
che passar militari che vanno alla finta battaglia, questo qui lo
deve avere smarrito di certo qualche uffiziale, perché, lo
so, que' signori ci ambiscono a tenere di questi animali buffi. Ma
guardi com'è festoso! Io lo terrei magari per me, ma è
proprio un peccato che non abbaj punto, perché io sul
barroccio ho bisogno di tenerci un cane che quando s'accosta gente
si faccia sentire, se no, addio la mi' roba. L'avrebbe a pigliar
lei, vede. E a lei glielo do volentieri anche per nulla.»
Così mi diceva una mattina Pasquale barrocciaio, che
incontrandomi per la strada aveva fermato il mulo per mostrarmi un
bel cagnolino da lui trovato la sera avanti sul greto d'Arno, mentre
era per buttarsi nell'acqua e traversare il fiume a guado.
«Lo prenderei tanto volentieri», risposi,
«perché dopo esser così festoso è anche
d'una razza molto rara; ma, che vuoi? fra grossi e piccini ce n'ho
cinque per la casa, e non ho voglia davvero di mettermi d'intorno
un'altra di queste seccature.»
«Guà! mi rincresce. A lei signoria gliel'avré
dato dimolto volentieri.»
«Ti ringrazio, Pasquale.»
«O andiamo. Dunque, mi comanda nulla lei, di
lassù?»
«Se vedi il sor Luigi e il sor Roberto, salutameli
tanto.»
«Non pensi, sarà servito. A rivederlo signoria.
Là, Giovanni, là, s'è fatto tardi.»
E accompagnando con una frustata queste ultime parole che erano
rivolte al suo mulo, si allontanò.
Quello che segue, lo seppi qualche giorno dopo.
Circa due miglia lontano dal punto dove c'eravamo lasciati, Pasquale
trovò da esitare il cane per una dozzina di carciofi a una
famiglia di contadini che stavano lungo la via maestra. Concluso il
contratto con la consegna del cane da una parte e dei carciofi
dall'altra, il capoccia chiese al barrocciaio:
«Dico bene: o come si domanda egli quest'animale?».
«Io lo chiamavo Pillàcchera, perché quando lo
trovai era più lercio del fruciandolo del forno; ma se poi
questo nome non vi garbasse...»
«E allora si chiamerà Pillàcchera anco noi. To',
Pillàcchera, to'.»
E il canino corse a leccare la mano del nuovo padrone che lo
menò in casa.
Il povero Pillàcchera non dette nel genio al resto della
famiglia: ed anche lo stesso capoccia, dopo il mezzogiorno, aveva
già cominciato a lavorare di pedate alla sua usanza,
perché l'aveva visto ricusare un pezzo di pan nero e non
aveva voluto abbaiare dietro al calesse del fattore.
Ai giovani non piacque, perchè quando si doveva prendere un
cane, dissero loro, era meglio prenderlo da caccia.
La massaia poi era implacabile. Con quella dozzina di carciofi
attraverso all'anima, diceva che cani a quella maniera non n'aveva
mai visti; ma sopra tutto, poi, quel pelo lungo che gli nascondeva
affatto gli occhi, era per lei qualche cosa che non le voleva andar
giù in nessuna maniera.
Pillàcchera passò la giornata fra 'l dolore d'una
pedata e la paura d'averne un'altra. Finalmente, sulla sera, la
famiglia si radunò tutta in cucina per la cena. Dopo aver
messo in tavola il tegame della minestra, la massaia
s'accostò al capoccia che stava pensieroso nel canto del
fuoco, e gli disse in tono burbero all'orecchio:
«O voi l'avete preso l'ulivo benedetto?».
«Per che farne?»
«A voi; e tenetevelo addosso, vecchio grullo! e datene una
foglia per uno anche a que' ragazzi.»
Si misero a tavola serî e molto sospettosi, serrandosi l'uno
addosso all'altro, perché ormai, col calar della sera, s'era
fortemente insinuato nell'animo di tutti il dubbio d'essersi messi
le streghe in casa. Masticavano scongiuri, facevan corna ad ogni
momento, e pareva loro mill'anni d'arrivare in fondo alla cena per
dire il rosario.
In un momento di silenzio, Pillàcchera, che s'era rintanato
sotto la madia, stimolato dalla fame, escì di là sotto
adagio adagio e inosservato; e cercando forse di mettere a profitto
una delle sue abilità per intenerire i nuovi padroni, si mise
in mezzo alla stanza, ritto sulle gambe di dietro.
Un grido straziante escì dal petto della massaia; tutti
impallidirono e quasi fuori di sé si precipitarono
spaventati, facendosi segni di croce e urlando
«misericordia!», verso un crocifisso che pendeva ad una
parete della stanza.
Pillàcchera rientrò spaurito sotto la madia.
«Animo, Angiolo!», disse il capoccia al maggiore de'
suoi figlioli. «Io, con quell'animale in casa la nottata non
la passo. Fànne quel che ti pare, ma levamelo di
lì.»
Angiolo non rispose.
Il capoccia che intese di che si trattava, replicò:
«Se hai paura, piglia con te chi ti pare, ma levami quella
bestia di casa, se no mi danno».
Angiolo legò il cane con una cordicella e s'avviò,
strascinandoselo dietro, verso l'uscio, fra le imprecazioni dei
rimasti, mentre la massaia non trovando altro che le venisse alle
mani o forse annettendoci qualche importanza antidiabolica, si
levò uno scarpone di vacchetta e lo tirò con tanta
rabbia contro il povero Pillàcchera, che lo ridusse ad
allontanarsi zoppicando e mandando lamentosi guaiti.
Angiolo ed il suo compagno tornarono presto e con aria molto
soddisfatta; la cena fu terminata tranquillamente, ed il rosario,
cotesta sera, fu detto di quindici poste.
Il giorno dipoi, su tutte le cantonate del paese vicino si leggeva
quest'avviso:
Quattrocento lire di cortesia a chi riporterà al Comando
militare una cagnolina maltese di pelame bianco finissimo, che
risponde al nome di Perla. Oltre che alla detta somma, colui che la
riporterà, avrà diritto alla imperitura gratitudine
del proprietario.
Passarono tre giorni, e nessuno comparve al Comando militare.
Intanto, nella famiglia dei contadini, dopo che ebbero saputo
dell'avviso, seguirono violentissime scene che dettero poi motivo al
padrone di licenziarli dal podere ed alla massaia di convincersi
sempre più che il diavolo in forma di cane era stato in casa
sua.
Quello stesso giorno fu veduto un Colonnello d'artiglieria
percorrere ansante le vie del paese, parlare concitato con Pasquale
e dopo poco, con aria lietissima, entrare con lui in un legno di
vettura e prendere la via della campagna.
Il vento della mattina, impregnato del profumo dei fiori di
mandorlo, si divertiva ad arruffare i folti baffi del Colonnello,
tutto buonumore, offrendo a Pasquale un sigaro d'avana gli
domandava:
«Che è molto distante?».
«Neanche quattro miglia. In una mezz'ora siamo
lassù.»
«E l'avranno sempre loro, ne siete proprio sicuro?»
«Perdinci bacco! o che n'hanno a aver fatto?»
In un trasporto d'allegrezza il Colonnello abbracciò
Pasquale; gli parlò dell'affezione di sua figlia per la
piccola Perla e dello stato di disperazione nel quale da tre giorni
si trovava; lodò il sistema toscano della mezzeria e
parlò con entusiasmo dell'indole mite e de' costumi semplici
e patriarcali de' nostri contadini.
Il cavallo intanto divorava la via a trotto serrato, e dopo poco, di
sopra ad una svoltata a secco della strada, dalla quale si dominava
la vallata, Pasquale gridò:
«Eccola laggiù!».
«Chi?», domandò con impeto il Colonnello.
«La casa...»
Dieci minuti dopo erano già arrivati. Il Colonnello
tirò fuori il portafogli perché era impaziente di
ricompensare, così diceva lui, quelle buone creature;
saltò dal legno e tutto lieto corse incontro alla massaia che
era comparsa arcigna sulla porta. Dopo che ebbero scambiato fra loro
poche parole, la massaia rientrò in casa brontolando e
voltandosi indietro a squadrare sospettosa il Colonnello che
immobile e taciturno era rimasto a guardarla con le braccia
incrociate sul petto.
Pasquale, che aveva osservato attento quella scena scacciando le
mosche al cavallo: «Dio del cielo!», gridò a un
tratto spaurito, «o che è stato?».
«Queste buone creature!...», esclamò il
Colonnello con angosciosa ironia. «Queste buone
creature!» E stringendo convulsamente il portafogli,
tornò frettoloso alla vettura...
La povera Perla, sotto il nome di Pillàcchera, già da
tre giorni dormiva accanto alle radici d'un olivo, con la testa
fracassata da un colpo di vanga.
In quella casa ora ci si sente, e nessuno dei dintorni
s'azzarderebbe a dormir solo in una certa camera, nemmeno per tutto
l'oro del mondo. Eccone le cause.
Dopo quel fatto, ogni volta che un cane passava davanti alla casa
del contadino, tutti gli uomini gli erano dietro per prenderlo: ma
per qualche tempo fu possibile d'agguantarne nemmeno uno. Finalmente
uno si lasciò prendere, ma con gran fatica, e dopo aver
addentato ripetutamente il capoccia alle gambe ed alle mani.
Costui aspettò ansioso il desiderato avviso su le cantonate,
ma comparve invece un certo malarello che in tre giorni lo
mandò nel mondo di là, senza che nemmeno al Priore
potesse riuscire di fargli prendere l'ostia consacrata.
«Neanche nell'acqua! capisce?», mi diceva Pasquale con
gli occhi stralunati dallo spavento, «neanche nell'acqua, Dio
del cielo! ci fu verso di fargliela ingozzare! E quando la vedeva:
mugli che pareva un liofante... Arrabbiato?... O senta, veh! il
dottore è padrone di dire quel che gli pare e piace; ma
quello lì, e giocherei la testa, è morto, Gesù
ci liberi tutti, dannato!»
Lucia
Con la sua voce d'argento chiamò: «Bianchina,
Bianchina» e rimase attenta ad ascoltare... Un merlo,
spaurito, fuggì chioccolando da un cespuglio prossimo alla
rupe, in vetta alla quale stava Lucia chiamando la sua capretta, ma
la capretta non rispose. «O Dio! chi mi rende la mia
Bianchina? Chi mi rende la Bianchina mia?» e ponendosi
afflitta a sedere, col mento appoggiato ad una mano, tende l'occhio
addolorato alle pendici del colle e tristamente si abbandona ai suoi
pensieri.
Il sole bacia le sue spalle nude, e la brezza della sera la investe
fasciandole i panni alla persona elegante e le assalta briosa la
chioma, come se volesse rubarle quel fiore dei campi che agitato
rosseggia fra le sue lucide trecce.
Come sei bella in mezzo alla primavera, o fresca Lucia! e sei sola
sulla terra, povera Lucia!
Il padre suo morì di febbre in Maremma: la madre è
lontana, ha la sua casetta su quelle montagne azzurre laggiù
in fondo in fondo, ed è vecchia per gli stenti ed inferma...
se a quest'ora non è già a riposarsi nel cimitero di
fianco alla chiesa. E il fratello? Chi sa! Andò soldato; lo
mandarono di là dal mare; e non ha scritto più nulla
da due anni... dove sarà?
Cacciata dal bisogno, dopo aver abbracciato i suoi cari, scese dalle
montagne natie, ed ora, garzona di un contadino delle valli, fila,
guarda quei monti lontani e guida le capre alla pastura.
La madre ed il fratello erano così da lei chiamati, ma non
erano tali. L'avevano allevata e tenuta cara finché l'Ospizio
dei Trovatelli passò loro quindici lire al mese; dopo, con un
tozzo di pane ed un paio di scarpe nuove, le insegnarono la strada,
e serrandole dietro la porta: «Dio t'accompagni, bambina
mia!» e Lucia scese al piano ed ora fila, guida le capre alla
pastura e guarda quei monti lontani.
«Se ritorni senza la capra, pover'a te!», le ha detto
dianzi Rosalba cacciandola a spintoni fuori della stalla. E Lucia lo
sa che cosa l'aspetta se la capretta fosse smarrita per sempre; lo
sa, e col mento appoggiato sopra una mano tende l'occhio addolorato
alle pendici del colle e pensa e singhiozza.
«Se non ritrovo la mia capretta, stasera non mi daranno da
cena e Rosalba mi picchierà come l'altra volta... mi fece
tanto male al petto! O Dio, Dio!»
Un ramarro, verde come le foglie del fico selvatico sul quale si era
arrampicato per cercare gli ultimi raggi del sole cadente, vibrando
la lingua veloce, la fissava, non visto, coi suoi occhi d'ebano, e
Lucia singhiozzando pensava:
«Mi manderanno via... domani! forse stasera! e non ci ho
colpa. Le ho munte stamani alle sei, le ho contate e c'erano
tutte... Dodici lire! e dove le trovo per dire a Rosalba: "Tenete;
la capra è smarrita e queste sono le dodici lire che
costava?". Non mi daranno da cena; Rosalba mi picchierà e mi
chiameranno... O Dio, Dio!».
Una folata di vento più forte le portò via il fiore
dai capelli; si alzò lesta per riprenderlo e il core le fece
un balzo d'allegrezza al rapido fruscio che sentì tra le
foglie a pochi passi da lei e credé ritrovata la sua
capretta. Il ramarro, spaventato dal movimento di Lucia, s'era
lasciato cadere dal ramo del fico selvatico, e, strisciando come una
saetta, era corso a rifugiarsi nel cavo d'una ceppa di castagno.
Raccolse il fiore e se lo accomodò più forte tra i
capelli. A Lucia era caro quel fiore come tutti gli altri che ogni
mattina coglieva per adornarsene il capo e per offrirli la sera alla
Madonna che pendeva a capo del suo letticciuolo. Anche quella sera
non sarebbe mancato alla Vergine l'omaggio di quel povero fiore.
Lucia guardò il sole, e vedendo il suo disco mezzo tuffato
sotto l'orizzonte lontano, sentì il proprio sgomento farsi
maggiore e disperata chiamò per l'ultima volta:
«Bianchina, Bianchina mia, teeeh!».
Un leggiero belato si udì ad un trar di ramo da lei; un lampo
di gioia le balenò nei limpidi occhi celesti e, tra le spine,
tra i sassi, attraverso ai rovi, ferendosi i piedi scalzi e gridando
allegramente: «Bianchina, Bianchina bella, Bianchina
mia», corse affannata verso il cespuglio dal quale era partito
il belato, e, ficcandosi smaniosa tra i suoi rami fronzuti,
sparì fra quelli tutti lieta, e sorridente.
Lucia dall'alto della sua rupe non aveva scorto due occhi umani che
da un'ora lacrimavano di stanchezza, avventando faville assetate
agli occhi suoi, alle sue spalle, al suo colmo seno, e credé
messo dalla sua capretta il belato che il ruvido Tonio scaltramente
aveva imitato, ed era corsa... ed era corsa, povera Lucia! lieta e
sicura, come l'usignolo innocente corre gorgheggiando nella bocca
del rospo che digiuno lo guarda.
Il vento è cessato; di quel ciuffo di frassini nessuna foglia
si muove, e il sole già tramontato si tira dietro gli ultimi
lembi del suo manto di luce.
Appena scesa la notte, la capra tornò belando alla casa in
cerca delle sue compagne. Tutti le mossero lieti incontro; Lucia
sola non si mosse né si rallegrò. Aveva il viso
acceso, un livido in una gota e i capelli e le vesti in disordine...
«Se ti senti male, va' a letto», le disse Rosalba
fattasi cortese dopo il ritorno della capra. E Lucia s'avviò
stanca alla sua cameretta... Cercò il fiore per offrirlo alla
Regina degli Angioli, ma l'aveva perduto! Sentì una stretta
al core, dette in uno scoppio di pianto e cadde sul suo letticciuolo
dove aspettò il giorno spasimando.
Tonio quella sera non aveva sonno. Aguzzò tutti i pali per i
gelsi della colmata; rifece la traversa all'erpice vecchio e fino al
tocco dopo la mezzanotte rimase a frescheggiare sull'aia, cantando a
gola spiegata.
Era uno stellato di paradiso.
L'oriolo col cucùlo
I tre soliti scoppi di frusta convenzionali dati dal braccio robusto
di Fiore si fecero finalmente sentire; la vecchia e fida Gigia si
mise al galoppo scotendo allegra la groppa umida e fumante; Fiore
sbadigliò pensando alla cena, e il sor Pasquale, levando per
un momento la destra, che il freddo gli aveva intorpidita,
dall'involto che gelosamente si teneva sulle ginocchia,
s'asciugò con un moto rapido il naso, e con altrettanta
rapidità la rimise al posto, brontolando un «Oh!»
di compiacenza che voleva dire: «Finalmente siamo
arrivati!».
In quello stesso momento, alla quiete ordinaria che aveva regnato
dalle ventiquattro in poi nella casa del sor Pasquale, successe un
movimento rumoroso: i ragazzi cominciarono a strillare, Toppa
s'avviò latrando incontro al calesse del padrone e la sora
Flaminia corse in cucina a buttar giù ogni cosa. Buttò
giù nella pentola i taglierini fatti in casa colle sue
proprie mani; buttò giù nel paiolo che brontolava da
un pezzo il cavol fiore còlto nel suo campicello della fonte;
buttò in padella quattro manate di bròccioli
saltellanti, pescati la mattina da' suoi ragazzi; buttò
giù quella po' di dose di malumore che aveva messa insieme
nel veder passata d'una quarantina di minuti l'ora solita del
ritorno del suo marito dal mercato di Cutigliano, e attese
seriamente a dare l'ultima mano alla sua faccenda prediletta.
Cinque minuti dopo la Gigia, che fu tirata subito in rimessa per non
lasciarla così sudata alla brezza tagliente della montagna,
rispondeva soffiando e dimenando gli orecchi alle sgarbate carezze
dei monelli di casa e alle linguate di Toppa, che non era tanto per
saltare addosso al padrone, a Fiore e al muso della cavalla.
Ma quella sera, o almeno in quel momento, il sor Pasquale non voleva
carezze né dai figlioli né dal cane. Domandò
che ore erano, brontolò una buona sera a' suoi ragazzi, dette
un'ombrellata a Toppa e corse subito in camera col suo misterioso
fagotto.
La sora Flaminia, che lo aspettava a stirizzirsi alla fiammata del
fritto, restò sorpresa di non vederlo comparire in cucina; ma
pensando che fosse andato subito a levarsi da dosso i panni fradici,
continuò a soffiare nel fuoco e a tirare avanti la cena, che
in quel giorno, come in tutti gli altri di mercato, diventava un
vero e proprio desinare.
«Lo lascino stare stasera il babbo», disse Fiore ai
ragazzi mentre faceva il letto alla Gigia; «lo lascino stare
perché stasera non è serata.»
«O che ha? o che ha?»
«Che sappia io, nulla; ma mi pare che abbia de' pensieri e
dimolti.»
«Che t'ha gridato per la strada?»
«No, gridato no; ma tutte le volte che aprivo bocca mi dava
del bestione per nulla. Io l'ho lasciato sempre dire, perché
tanto lo so che è fatto a quella maniera: ma mi c'è
voluta tutta la mi' pazienza! Si figurino che m'ha avuto a mangiare
perché gli ho detto che l'oriolo vecchio di cima scala me lo
giocherei con mezzo mondo.»
E lui a dirmi che ero un bestione! e io a dirgli che in
ventiquattr'anni che sono nella su' casa non l'ho ma' visto
né dal maniscalco né fare un minuto... O non l'ha
detto tante volte anche lui? Ma stasera, no! E lì a dire che
non era vero nulla; e io a lasciarlo dire. E lì brontola, e
lì brontola!... O che lo so che abbia in corpo stasera?
Cecchino si fermi, lasci stare la cavalla! eppure l'altro giorno...
se n'avrebbe a rammentare!... Natale, codesto povero cane! Ecco! o
se gli desse un morso, o che non gli starebbe bene?... Ahi! no,
Peppe, colla frusta poi s'ha a fermare... ahi, perdio!
«Ragazzi! Pasquale!»
«Sentono? la padrona li chiama a cena. Via, via, si levino un
po' di torno.»
«Pasquale! ragazzi! a tavola!», ripeté la sora
Flaminia.
«Accidenti ai ragazzi!», disse Fiore fra i denti, e
rimettendo al suo beccatello la frusta, la fece vedere a Toppa, che,
capìta l'antifona, corse di galoppo in casa colla coda fra le
gambe.
Per liberare le tre eterne vittime di quelle quattro forche di
figlioli, non ci voleva altro. Corsero tutti in salotto
scapaccionandosi, e si piantarono a tavola tirando su col naso e
preparati alla solita osservazione, appena fosse scodellata la
minestra: «Così poca?».
Rimasero meravigliati di non vedere ancora scodellato; si guardarono
fra loro, tossirono, shignazzarono, s'asciugarono coi tovaglioli la
bocca e tutto il resto, e dimenandosi sulle seggiole, domandarono
tutti insieme: «O babbo?».
La sora Flaminia intanto, col cucchiaione in una mano e la prima
scodella nell'altra, aspettava guardando la porta dalla quale doveva
comparire il marito.
Era quasi un par di minuti che la zuppiera mandava la sua nuvola di
fumo appetitoso ad investire il lume a petrolio attaccato al palco
sul mezzo della tavola, quando compare Fiore nella stanza, e appena
entrato:
«O il padrone?», domandò.
«Ma dove s'è cacciato? che fà? Signore
Dio!», domandò impazientemente Flaminia. «Dategli
una voce, via, Fiore; mi pare di sentirlo su nello scrittoio.»
«Sissignora; senta! è su che armeggia. Pare che metta
delle bullette.... chi lo sa?»
«Sì, sì. Andatelo a chiamare e ditegli che io
intanto scodello, perché se no, questi taglierini mi
diventano un pastone.»
Il sor Pasquale in quel momento era felice. S'era già
alleggerito del misterioso fagotto che con tante pene aveva portato
intatto attraverso al freddo e al nevischio per quattordici miglia
di montagna, ed ora, prima di scendere a mangiare, contemplava
attaccato a una parete del suo scrittoio un ordinarissimo oriolo col
cucùlo, che gli era stato appiccicato da un imbroglione
qualunque come un oggetto d'una rarità favolosa. E
pregustando le gioie della sorpresa che preparava ai suoi ragazzi,
ai montanini dei dintorni, al parroco e alla sora Flaminia, la quale
in quel momento pensava che il suo marito doveva avere per la testa
qualcuna delle sue solite grullerie, e pregustando, come dicevo, le
gioie di tale sorpresa, dimenticò perfino il malumore che gli
avevano messo addosso alcune persone incontrate in un caffè,
le quali glielo chiamarono girarrosto, stimandogli dodici lire
quell'oriolo che lui aveva pagato quarantacinque, credendolo una
bazza.
«Eccomi, eccomi, Fiore; vengo subito», rispose
amorosamente al servitore che lo chiamava, e allegro come quella
pasqua dalla quale aveva preso il nome, tutto inzaccherato e con gli
stivali motosi sempre in piedi, scese in mezzo alla sua famiglia.
Nel movimento d'allegrezza che si manifestò nei ragazzi alla
vista del babbo, che in quel momento significava
«mangiare», un bicchiere schizzò, dopo avere
empito di vino la tovaglia, a stritolarsi in mezzo alla stanza,
accompagnato da una sonora risata del sor Pasquale, che due sere
innanzi, alla stessa ora precisa, s'era mezzo slogato il pollice
della mano destra a scapaccionare Cecchino per un caso simile.
La sora Flaminia allora sempre più si persuase che Pasquale
doveva averla fatta grossa. Pensa tu, - per dire come pensò
lei, - pensa tu che razza di lavativo gli hanno appiccicato questa
volta!
E i timori della sora Flaminia erano anche troppo giustificati,
perché dai tre mercati ai quali era stato in quell'anno, non
era mai tornato colle mani vuote. La prima volta tornò con
una dozzina di pezzuole di seta tutte di cotone; la seconda. con la
Bibbia del Diodati per il priore che gli aveva ordinato quella del
Martini: la terza, con un par di calzoni bell'e fatti di casimirra
inglese di Prato, che quando se li provò gli arrivavano a
mezza polpa.
«E questa volta? Dio me la mandi bona!», pensò la
sora Flaminia; e guardò pietosamente le pillacchere di
Pasquale, che ingozzava rumoroso la minestra ridendo da sè
sotto i baffi.
«Dio me la mandi bona!», e in tempo che raffreddava,
soffiandovi, la prima cucchiaiata:
«Dimmi», domandò a Pasquale che guardava il suo
oriolo da tasca, «o quello delle castagne l'hai veduto?»
«Chi?... Ah!! zitta, zitta, via!», rispose Pasquale
indispettito. «Guarda con che mi viene fòra ora!»
«O non sei andato apposta al mercato?»
«Fiore!», chiamò il sor Pasquale.
«Fiore!» E rispondendo alla moglie:
«Sì, hai ragione; ma credo che l'abbia visto Fiore...
Fiore!».
«Comandi sor padrone...»
«Ditemi, Fiore, che ci avete parlato voi con
Luc'Antonio?»
«Nossignore; siccome lei signoria m'aveva detto che ci voleva
parlar da sé...»
«Ma poi non v'avevo anche detto?...»
«Sissignore, che se lo vedevo l'avessi mandato da lei
all'appalto, come di fatti alle dieci precise...»
«Non ce l'avete mandato!»
«Sissignore che ce l'ho mandato! ma gli hanno detto che
lei...»
«Avete ragione, sì, avete ragione! Con tanti affari per
la testa... Ma che ce n'avevo una stamani? Ci avevo da veder
Luc'Antonio... ci avevo... ci avevo da veder Luc'Antonio, eppoi ci
avevo... insomma ce n'avevo tante che questa m'è passata di
mente. 'Gnamo, 'gnamo, finiamola con queste seccature! guardate se
questo è il momento!... Andate, andate, Fiore, e fate chetare
quell'accidente di cane, se no vengo di là e lo stronco. O a
chi abbaia?»
«C'è il contadin novo...»
«Ah! ditegli che stia zitto anche lui.»
La signora Flaminia stava zitta e non alzava il capo dalla scodella.
«Andate, andate», disse poi anch'essa a Fiore;
«con Luc'Antonio ci ho parlato io. Ho mandato Cecco sulla via
maestra a aspettarlo, e l'ho fatto venir qui.» Poi cavandosi
un foglio di seno e mostrandolo al marito: «Tieni»,
disse; «il fattore delle monache t'ha rimandato questa
ricevuta perché tu ci faccia la data che ci manca».
Il sor Pasquale rimase sconfitto. Guardò la moglie,
guardò la ricevuta, adagio adagio rimise in tasca l'oriolo,
poi, con un movimento brusco, si rinsaccò nelle spalle, non
sapendo come giustificarsi, e ripeté a tutti che stessero
zitti mentre nessuno fiatava.
L'ora solenne, intanto, s'avvicinava a gran passi.
Il sor Pasquale, dopo aver attaccato l'oriolo alla parete dello
scrittoio, proprio di faccia alla sua poltrona, l'aveva rimesso col
suo da tasca già regolato scrupolosamente al mezzogiorno di
quello di Cutigliano, e fra due minuti doveva sonare le sei; fra due
minuti la sua famiglia avrebbe goduto della cara sorpresa, e la sua
vittoria contro gli eterni dubbi, contro il tormentoso malumore di
sua moglie sarebbe stata completa.
Voleva star fermo sulla sedia, e non gli riusciva: avrebbe voluto
mangiare e bere indifferentemente, e non poteva: tantoché una
volta si mise in bocca un tappo di sughero sbagliandolo col pane; e
un'altra, vuotò l'ampolla dell'aceto nel bicchiere di
Cecchino, credendo di mescergli il vermutte. Avrebbe voluto anche
stare zitto, e questa era la cosa più importante, ma anche
quello non gli riuscì, e:
«Ragazzi, ci manca poco!», disse non potendo più
reggere! «Ci manca poco!» e dette un sogghigno e
rimpiattò furbescamente la testa fra le spalle e il petto,
come uno spinoso al quale si tocchi la groppa. «Ci manca
poco!»
«A che? a che?», domandarono tutti strillando,
credendosi autorizzati da quella confidenza paterna a fare un
baccano del diavolo. «A che? a che?»
«A nulla!», rispose desolatamente Pasquale mortificato
da un sospiro della moglie, più sonoro di tutti gli altri.
«A nulla!», disse un'altra volta il sor Pasquale;
quando, cavato fuori l'oriolo sotto la tavola, sentì
rintuzzarsi il dolore che gli era costato quel sospiro, nel vedere
che mancava soltanto un mezzo minuto alle sei, e:
«Ora poi, zitti davvero!», disse con voce tremante;
buttò sotto la tavola un pezzo di lesso per chetare Toppa che
mugolava e con una mano alzata e guardando in estasi la sora
Flaminia, che mangiava distratta e più seria di prima, rimase
ad aspettare.
Che tempesta di pensieri deve aver attraversato la testa di lui in
quel mezzo minuto! Cambiò due volte colore, sorrise,
aggrottò le ciglia spaurito come se guardasse in un
precipizio, gli occhi gli si inumidirono di tenerezza, poi
tornò cupo un'altra volta; tratteneva il respiro, ma il core
gli si vedeva battere sotto il corpetto di pelle d'agnello, quando
ad un tratto mandò un urlo roco, i ragazzi strillarono come
anime dannate. Toppa cominciò ad abbaiare disperatamente, ma
fu subito chetato dagli scarponi del signor Pasquale, e il cuculo
mandò a breve intervallo tondo e sonoro, il suo secondo
cuccù in mezzo al silenzio generale; eppoi mandò il
terzo, e il sor Pasquale arrantolò un «Ah!» di
ruvida gioia verso la moglie; e il cuculo, continuando, mandò
il suo quarto lamento, eppoi... rimase lì.
L'oriolo di cima scala, puntuale, suonò in quel momento le
sei.
La sora Flaminia guardò Pasquale, e nel vederne tanto
grottescamente stralunata la faccia, non si poté più
contenere e scoppiò in una larga risata che per un mezzo
minuto almeno, buttatasi indietro a braccia aperte sulla spalliera
della seggiola, rimase con la sua fresca bocca spalancata,
ripigliando a stento respiro.
Il sor Pasquale era rimasto come fulminato. I ragazzi avrebbero
voluto fare allegria, ma un'occhiata della madre, aiutata da un
certo senso di paura che, a quel rumore nuovo che veniva di su
d'accanto alla camera dove era morto lo zio Nastasio, era entrato
nelle loro teste già riquadrate dalle novelle di quella
vecchia che veniva prima a fare il burro, bastò a tenerli al
posto.
La sora Flaminia, intanto, dopo aver cantato l'inno alla sua
vittoria con quella omerica risata, si trovò a sua volta
sconfitta ad un tratto dal dolore del suo Pasquale, che cogli occhi
ammammolati guardava stupefatto ora i figli, ora la moglie, senza
poter pronunziar parola che accusasse il suo profondo turbamento.
Fiore interruppe quel silenzio doloroso comparendo sulla porta a
domandare a bassa voce, tutto spaurito:
«Hanno sentito nulla loro? O che è stato».
«Fiore, accendetemi un lume», disse il sor Pasquale,
facendo un movimento come per alzarsi: ma la sora Flaminia lo
prevenne, si alzò, e amorosamente gli disse: «Dove vuoi
andare? sei stracco; vado io». E preso un lume s'avviò
allo scrittoio.
Passarono pochi momenti, alla fine dei quali, avendo la signora
Flaminia rimediato allo sbaglio che Pasquale aveva commesso nella
furia rimettendo l'oriolo, il cucùlo cantò
allegramente le sei.
Il sor Pasquale allora dette la via a tutto il suo buonumore.
Mangiò pochissimo, sorrise alla moglie, accarezzò i
figlioli, fece prendere una mezza indigestione a Cecchino che gli
stava accanto, empiendogli continuamente il piatto e il bicchiere; e
lo stesso Toppa, incalorito dagli ossi del lesso e dalle lische dei
bròccioli che il sor Pasquale gli dette e gli fece dare,
insudiciò nella nottata anche il salotto bono, e stette tutto
il giorno dipoi nell'orto a mangiare il palèo che scaturiva
di sotto la neve.
Il contadin novo, che era venuto per parlare di stime morte, fu
fatto passare in salotto, e anche con lui il sor Pasquale si
sfogò quando poté. Lo chiamò sempre galantuomo,
lo prese tre o quattro volte per il ganascino, gli dette da bere, e
poi gli parlò un po' di tutto: di politica, d'orioli, di
storia, di geografia e del lunario novo; gli disse che le stelle
eran mondi come il nostro, che dentro la terra c'è una
fornace di foco come in una carbonaia, e tante altre cose, con molto
disordine, ma con senno abbastanza; e soltanto perdeva la bussola
quando il contadino gli entrava nelle stime morte E allora,
giù attraverso, mescolava stime morte e cucùli vivi, e
stime vive e cucùli morti, e durò finché i
ragazzi, che avevan cominciato a cascare addormentati per le
seggiole e sulla tavola, non furono uno dopo l'altro raccattati
tutti, come feriti sul campo di battaglia, da Fiore e dalla sora
Flaminia, che li portarono a letto.
Allora il sor Pasquale si chetò; licenziò il
contadino, soffiò il lume della tavola, e, presa la sua
lucernina, s'avviò soddisfatto e rosso com'un pomodoro verso
la sua camera, dove la sora Flaminia l'aspettava per vedere se
almeno fosse stato possibile cavargli di sotto quanto l'aveva
pagato.
Come son volati gli anni! e come tutto è cambiato anche in
quella famiglia di buoni campagnoli! Belli quei giorni per il sor
Pasquale! Che gioie sconfinate erano per lui quando dal suo
scrittoio, dove stava chiòtto chiòtto ad ascoltare,
sentiva i contadini aggruppati sul prato discorrere del suo oriolo
d'autore e della somma favolosa che doveva essergli costato e della
impossibilità di trovare il compagno, perché quello
doveva esser venuto dicerto dall'Americhe di là dal mare. E
che risate di core, quando sentiva gli uomini far la baiata alle
donne e ai bambini che ad ogni canto del cucùlo correvano a
rimpiattarsi dietro al faggio della burraia tappandosi gli orecchi
colle dita! Che carnevale fu quello per lui! Ma quando lo vide per
la prima volta il priore! O quando lo fece vedere al cappellano che
ebbe paura? O il sindaco che non ci voleva credere? Ma quel prato,
che cos'era quel prato le domeniche dopo le funzioni! Bisogna
essercisi ritrovati, via, se no, è inutile ragionarne.
Ed ora su quel prato un mucchio di passerotti beccuzzano fra l'erba
e si leticano tranquillamente, perché da quella casa non
parte nessun rumore che possa disturbarli.
Gli anni volano! Ne sono già passati quindici da quella sera
che fu tanto procellosa per l'animo del buon Pasquale, e tutto
è cambiato anche in quella casa di allegra e buona gente! I
due figli mezzani, Natale e Gosto, sono morti: Peppe è
segretario in un lontano comunello della Garfagnana, e non rimane in
casa che Cecchino, ora giovinotto di ventidue anni, destinato a
continuare nell'amministrazione del piccolo patrimonio.
E anche il povero Toppa non è più! Morì di
vecchiaia cinque anni sono, ed ora si riposa sotto al ciliegio
vìsciolo delle ghiacciaie, dove Fiore lo sotterrò
pietosamente, pensando che per due anni almeno lì non ci
sarebbe stato bisogno di pecorino. Ogni cosa è cambiata!
Fiore è incanutito, la vecchia Gigia l'ebbe un barrocciaio di
Pracchia, e non se n'è saputo più nulla; la sora
Flaminia ha perso quasi tutti que' bei denti bianchi che metteva
fuori fino agli ultimi quando rideva di core e il sor Pasquale
è su a letto malato: oggi sta un po' meglio, ma è
malato gravemente.
La sua forte costituzione, che pareva dovesse condurlo senza
difficoltà oltre la settantina, restò profondamente
scossa alla morte del primo figliolo, ma per allora il colpo
più forte lo risentì nel morale, poiché si fece
malinconico e taciturno al punto che solamente un giorno o due della
settimana usciva di casa, standosene tutti gli altri, tranne poche
ore, ritirato nel suo scrittoio a leggere e a pensare. Alla morte
del secondo, poi, si ammalò. Passò fra letto e
poltrona qualche mese, e dopo non fu più lui.
Nella sua mente, insieme con gli altri generi di turbamento, era
entrata una specie di fissazione, per una di quelle strane
combinazioni che si crederebbero opera soprannaturale, se il caso
non ce ne fornisse esempi continui.
Fosse il tonfo di un uscio sbatacchiato, fosse una dimenticanza di
caricarlo o qualunque altra malaugurata accidentalità, il
fatto si è che il suo impareggiabile oriolo col cucùlo
che, sia detto fra parentesi, era riuscito una perla, in due anni si
fermò due volte, e quelle due volte erano state appunto alla
morte del primo ed a quella dell'altro figliolo.
«Quando si fermerà un'altra volta, tocca a me!»,
diceva sospirando il povero sor Pasquale tutte le sere, mentre lo
caricava prima d'andarsene a letto. «Quest'altra volta tocca a
me!» E lo diceva con tanta convinzione che nessuno fu buono di
levargli dal capo quel pregiudizio che a poco a poco diventò
una vera fissazione che finì di rovinare affatto la sua
indebolita salute.
La primavera era inoltrata, e colle prime tepide brezze del maggio
quella oppressione di respiro che lo tormentava, si aggravò
tanto, che il medico credé suo debito dire alla sora Flaminia
che pensasse a parlarne col parroco; e la sora Flaminia mandò
un sospiro e disse che l'avrebbe fatto. Ma la misura era presso a
poco inutile, perché il taciturno don Silvio, già da
un paio di settimane, passava quasi intere le giornate a capo del
letto del suo vecchio amico, tenendogli affettuosa compagnia quando
quelli di casa dovevano allontanarsi per le loro faccende.
«Ma che oriolo, don Silvio!», osservò un mattina
Pasquale dopo che da diverse ore, oppresso dall'affanno, non aveva
aperto bocca. «Che oriolino è stato quello! Ha sentito
le dieci? guardi a cotesto costì della piletta.»
«Son le dieci precise», rispose don Silvio.
«Ha capito?! Oggi finiscono venti giorni che lo rimessi quando
m'alzai e non ha fatto un minuto; ma quando si
fermerà...»
Don Silvio lo pregò di stare zitto, e con una scusa si
allontanò tutto contento in cerca della sora Flaminia che era
scesa a scaldargli una tazza di brodo, per dirle che Pasquale aveva
discorso tanto e che proprio stava veramente benino. E
ritornò su dietro di lei che, entrando in camera con la
tazza, accennò subito sorridendo al marito che non parlasse.
Lo trovò infatti che stava un po' meglio; se non che un'ora
dopo Fiore correva ansante a chiamare il medico per il padrone che
da un momento all'altro aveva fatto un peggioramento da mettere in
pensiero.
Quando entrò il medico, Pasquale gli sorrise e gli disse:
«Mi rincresce per lei, povero sor dottore, che l'hanno fatto
scomodare...». Eppoi, rivolgendosi alla moglie e a Cecchino:
«Voi altri badate che non resti scarico e non abbiate paura di
nulla...». E rivoltosi di nuovo al medico: «Che mi
farebbe male quell'uscio e quella finestra aperta?».
«Anzi...», rispose il medico.
E Cecco e la sora Flaminia corsero subito a spalancare ogni cosa, e
alla folata di maestrale che inondò la camera, Pasquale
mandò un sospiro di contentezza e disse: «Ah! come mi
fa bene!».
I boscaioli cantavano nella faggeta; il medico e il priore si misero
alla finestra a contemplare silenziosi l'orizzonte che di là
si stendeva immenso sulla pianura lontana.
Dopo qualche momento, il priore, sentendo sonare il mezzogiorno alla
sua parrocchia, si ricordò del desinare, si staccò
dalla finestra andando verso Pasquale per congedarsi, e lo vide con
gli occhi fuori dell'orbita che, senza articolar parola, ma
indicando di voler parlare, stendeva un braccio tremante verso il
suo oriolo da tasca appeso a capo del letto.
Corsero là tutti, intesero, staccarono l'oriolo dal muro e
glielo mostrarono. Il sor Pasquale si alzò a sedere sul
letto, ci ficcò sopra gli occhi e cadde giù spossato
balbettando: «Anche l'ora di Pasquale è sonata...
è sonata... è sonata!».
Erano le dodici e due minuti; l'oriolo di cima scala le aveva
sonate, e il cucùlo era rimasto in silenzio!
La sera dipoi, quando la campana della parrocchia sonava alle forre
della montagna l'Ave Maria della sera. il sole mandò i suoi
ultimi raggi a riflettersi sulle fronti aduste e madide di sudore di
un gruppo di boscaioli che, inginocchiati sui tronchi de' faggi
abbattuti, accanto alle loro scuri luccicanti, dicevano il primo De
Profundis all'anima benedetta del povero sor Pasquale.
La fatta
«E allora», disse furibondo il signor Cavaliere,
«quando uno è testardo fino a questo punto, si fa
così.» Tirò fuori il roncolo, si chinò e,
ficcandolo nel terreno acquitrinoso del prato, levò un
piccolo piallaccio sul quale era una macchia biancastra come di
gesso spento; lo rinvoltò nella pezzola e piantatoselo nella
carniera, sputò con rabbia un pezzo di canfora che teneva
sempre in bocca pel dolore di denti, e senza neanche guardare i suoi
compagni disse: «Io me ne vo!».
I suoi compagni erano due: il Guardia della bandita nella quale si
trovavano a caccia, e il sor Alceste, figlio del segretario comunale
e promesso sposo alla figlia del signor Cavaliere, il quale, alla
improvvisa sfuriata del futuro suocero, rimase allibito a bocca
spalancata a guardare ora il Guardia, ora il signor Cavaliere, che
zoppicando, perché i calli, con la variazione del tempo, non
gli avevano dato pace in tutta la mattinata, proprio se n'andava
senza voltarsi neanche una volta indietro.
Aveva già passato il ponte della Fossaccia quando il Guardia
si risentì:
«Sangue d'un cane! quelle lì non son le maniere. O
dunque se la fatta a me non mi pareva di beccaccia, dovevo stare
zitto e dirgli: 'gnorsì, sissignore, come vòl lei?...
Di beccaccia, Dio mi mandi un tremoto, non è positivo. E
quando farò lo speziale m'ha a venire a dettar leggi su
quest'affari; ma ora come ora, a Gianni Cerri no, per los Deo
santissimo benedetto!».
Il Sor Alceste sospirava. E il Guardia continuò:
«Lei signorìa ha fatto da omo a non riscaldarsi. Ma
quando m'ha detto che come cacciatore aveva più stima a me
che a lui, gli avre' dato un bacio. E come l'ha presa attraverso!
Ecco, ora si fa per dire, o che son mosse quelle da un signore par
suo? E ora che ha preso la fatta con sé, com'essere, che ne
vorrà fare?».
E il sor Alceste guardò la buchetta fatta dal roncolo del sor
Cavaliere e sospirò di nuovo.
«Se a me, per esempio, mi dicessero: Cerri, te lo vòi
giocare il cane? Mi gioco anco lo schioppo, risponderei, che la
fatta è di péccola o, a sprofondare, di porciglione;
ma di beccaccia no, eppoi no, anche se Santa Lucia benedetta
m'avesse fatto la grazia di vedergliela fare.»
Il signor Alceste non dava segni d'attenzione; per cui il Guardia
gli domandò:
«Che si deve andar via anche noi, oppure s'ha a guardare...?
Badi! stia attento, perché 'l mi' cane ha un fiato nel
naso».
Difatti l'egregio Burrasca, un cane che Gianni Cerri diceva che
neanche 'n palazzo Pitti di quelle razze li non n'avevan mai
bazzicate, se n'andava a vento, a testa alta, indicando d'aver nel
naso qualche cosa di buono davvero.
«Avanti! avanti, sor Alceste, venga via, venga via!»,
diceva il Guardia a mezza voce, seguitando il cane. E il sor
Alceste, tutto cascante e sempre pallido come un morto, si
avviò dietro al Cerri, che badava a dire:
«Non faccia furia, non faccia furia, perché tanto, alle
mani di Burrasca, si va sul sicuro; punta che pare un masso... Ora
sente a bono davvero! S'accosti, s'accosti, perché gli si
potrebbe levare anche avanti... Ma che canino! cento lire m'avrebban
dato que' signori di padule! Ma io gli mandai a dire... Guardi! Ma
lo guardi ora, eppoi mi dica se un cristiano potrebbe andare con
più delicatezza sull'animale!... e io gli mandai a dire che
se anche Vittorio Emanuelle...».
Il Cerri non finì. Burrasca, dopo una braccata furiosa, aveva
agguantato roba. Gianni riconobbe subito il posto dove, il giorno
avanti, il Piovano aveva fatto colazione con quel signore
forestiero, cambiò colore, corse, s'avventò a
Burrasca, e fu in tempo a fargli posare la seconda buccia di cacio
con una tal pedata furibonda che se l'avesse colto in pieno, il
povero Burrasca avrebbe finito per sempre di far digiuni.
«Gianni», disse finalmente il sor Alceste, che assorto
ne' suoi pensieri non aveva visto la scena che era accaduta,
«se ti vuoi trattenere, fai pure il comodo tuo: io arrivo qui
dal contadino a bere un bicchier d'acqua e me ne vado.»
Ma Gianni non poteva intendere, perché era già un
chilometro distante, sempre a corsa dietro al cane, quando, non
potendolo raggiungere, per fargli pagar cara la brutta figura che
gli aveva fatto fare, mandando fischi e urli, gli lasciò
andare dietro una schioppettata che fortunatamente non lo colse.
Alle ventiquattro e mezzo il padre d'Alceste, tutto rannuvolato in
viso, bussava alla porta del signor Cavaliere suo buon amico; ma la
serva gli disse che era fuori. Domandò allora della signorina
Ginevra.
«È sul letto, perché si sente male.»
«Potrei vedere la signora Irene?»
«È di là in camera della signora Ginevra, tutta
sottosopra; e io direi di lasciarle stare.»
«Ritornerò più tardi.»
Il signor Cavaliere intanto, dopo aver sigillato accuratamente in
una cassettina di truciolo il piallaccio colla fatta, era andato a
consegnarla al procaccia insieme con una lettera, raccomandandogli
di depositare il tutto in proprie mani della persona alla quale era
diretto, via tale, numero tale, secondo piano a destra:
«Procaccia, mi raccomando!».
«Lei non dubiti.»
All'or di notte tutto il paese era al fatto dell'accaduto. La serva
del Cavaliere l'aveva detto con segretezza, dalla finestra sulla
corte, all'ortolana; e l'ortolana l'aveva detto, come in
confessione, al suo marito, il quale, dopo dieci minuti, l'aveva
fatto risapere a bassa voce nella calzoleria del Nardini, che quella
sera appunto era più zeppa del solito dei medesimi fannulloni
freddolosi, seduti in giro al braciere di rame, coi capi abbassati
su quello, a mescolare il fumo e lo sfriggolìo delle loro
pipe lerce di gruma.
Di lì partì la bomba: e un quarto d'ora dopo non v'era
anima viva, dallo zoppo di Lacchie al Sindaco, e da Melevizze al
signor Piovano, che non s'occupasse seriamente della cosa.
Come capitò a proposito quell'avvenimento per gli sfaccendati
del paese! Erano cinque o sei giorni che in verità non
sapevano che pesci si pigliare. Passò quell'omo coll'orso tre
settimane fa, è vero; ma se n'era già parlato tanto,
s'eran buttati all'aria tanti libri di storia naturale, s'erano
agitate tante questioni zoologiche in canonica, dallo speziale e da
Cencio tabaccaio, che ormai tutti erano stufi. Era stata proprio
un'annata senza risorse. Che altro era accaduto? Mah! poco o nulla:
lo scandalo di que' villeggianti col su' figliolo che s'era messo
colla macellarina, ma finì presto perché se
n'andarono; quelle po' di legnate quella sera della prova della
banda; eppoi? È finito qui. Ma ora, se Dio vòle, ce
n'è per tutti, se l'oste ne còce.
Ci furono molti quella sera che non finiron neanche di cenare per
andar fuori ad informarsi meglio; e molti lasciarono perfino la
briscola e il fiasco, perché, secondo loro, l'affare era
serio.
In farmacia, dopo l'otto, v'eran già cose gravi, e lo
dimostravano anche al di fuori i capannelli di curiosi che vi
passeggiavano davanti, accostandosi più che fosse possibile
alla vetrata; e lo dava a divedere anche il Piovano che al rumore
che veniva di là dentro era sceso sul cimitero in ciabatte e
colla pipa per ascoltar meglio e per domandar notizie ai passanti.
«A me non me la cantate, caro speziale, perché io l'ho
vista!», diceva il Sindaco passeggiando concitato in su e in
giù per la bottega. «Me l'ha fatta vedere prima di
portarla al procaccia; e per me il Cavaliere ha ragione!... Che ne
dice lei, maestro? Eppure c'era anche lei!»
Il maestro della banda era di parere contrario; ma non volendo
compromettersi, badava a strisciare la groppa al gatto che gli era
saltato sulle ginocchia, e non trovava la via a rispondere. Ma
finalmente, per uscirne, disse a fior di labbra: «Eh!
sì! lo direi anch'io».
«Allora poi cotesto, abbia pazienza se glielo dico, cotesto si
chiama aver quattro facce come Giano della Bella!»,
gridò lo speziale invelenito, che la mitologia l'aveva sulle
dita quasi più della storia. «Sissignore! lei,
precisamente lei, dieci minuti fa, prima che entrasse il signor
Sindaco, si spassionava tutto in un'altra maniera! Giano della
Bella, sissignore, caro il signor maestro dei miei tromboni!»
«Ma se lei avesse un po' d'educazione», saltò su
il maestro masticando veleno, «lei non offenderebbe, e lei
è un ignorante!»
Il medico che in quel momento smaltiva taciturno la solita sbornia
d'aleatico asciutto: «Bravo!», urlò al maestro,
al quale curava la moglie anche quando stava bene.
«Bravo!»
«Eh sì! anche lei è un buon arnese!»,
gridò al medico lo speziale, più inviperito che mai.
«Si sanno tutte, non pensi, noi! Si sa, non abbia paura, di
quel disgraziato che ammazzò alle Case Rosse, eppoi, sotto
sotto, andò a dire che avevo sbagliato io la ricetta!... Oeh!
non s'accosti al banco, perché gli rompo un barattolo nel
muso!... Noe, noe! lasciami stare anche te, camorro sdentato!»
Quest'ultima apostrofe era toccata alla sua moglie che lo reggeva
per le braccia, la quale mandò uno strillo acuto al tonfo che
fece, sfondando uno staccio attaccato al muro, la ciotola del
polverino tirata con quanta forza aveva, dal medico, il quale
urlando: «Vado via per non compromettermi!» prese la
porta e se n'andò.
Di fuori intanto s'eran già formati i partiti; ed il medico
ebbe una salva di fischi dalla metà di que' venti o trenta
che s'eran radunati, mentre l'altra metà batteva le mani e
urlava «Bravo!» a squarciagola. E lo speziale, che era
corso sull'uscio, gridava da sentirlo a un miglio di distanza:
«C'è il tribunale, però, per la canaglia di
cotesta risma! c'è il tribunale! E domani... stasera...
subito!... tanto lo vo' dire a tutti, sissignore! a tutti lo vo'
dire che quel disgraziato delle Case Ros...».
Ma non finì perché il Sindaco gli tappò la
bocca col pastrano, e con un spintone lo rificcò in bottega.
Il maestro della banda, uscendo, poco dopo, colla coda fra le gambe
dietro al Sindaco, si provò a dirgli:
«Sa? e' son gente quelle che dopo cena...».
«Che li era anche un calunniatore me l'avevano detto...»
«Ma lei signorìa ora...»
«Basta così! Della fiducia immeritatamente accordatami
da Sua Maestà saprò farne quell'uso che crederò
migliore; intanto non mi occorre nulla da lei; vada pure, ché
a casa so andarvi anche solo.»
E si allontanò soddisfatto e altamente compreso del suo
dovere, mentre il maestro schizzando bile se n'andò anch'egli
a casa, dove quella sera devon esser accadute di gran cose
vergognose, dissero i casigliani di sotto, perché si sentiron
di gran tonfi e di grand'urli della sora Giuseppina, povera
creatura, fin dopo la mezzanotte sonata. Ce ne passa tante,
poverina, con quell'omaccio!
Il Piovano, che per raccattar notizie aveva mandato lo Scardigli a
prendere un sigaro da cinque e una scatola di fiammiferi, seppe che
nella bottega della Biagiotta s'eran picchiati, e gli avevan rotto
un vetro che costava du' franchi. In fattoria poi, il sor Gustavo e
il Rapalli (un fiero agente elettorale che prima d'aver sette ponci
in corpo non andava mai a letto) avevan fatto una scommessa di cento
lire.
«Poco giudizio, poco giudizio!», osservò il
Piovano. E dopo aver disputato un po' col Cappellano, al quale
quella sera dette anche di bestia mentre in tempi normali lo
chiamava solamente zuccone, dette un'occhiata al tempo e se
n'andò a letto.
In casa del Cavaliere non si sa quello che accadesse, perché
dopo tornato lui da consegnare quella roba al procaccia, tutte le
finestre restarono chiuse ermeticamente, e soltanto l'uscio di
strada si riaprì un momento alle dieci quando Gustavo
tornò di fattoria; poi silenzio perfetto.
In casa del Segretario erano sgomenti. Le donne non fecero altro che
piangere tutta la sera; lui andò a letto alle nove con un
dolor di capo da impazzire, e il povero sor Alceste non
trascurò, è vero, per distrarsi, la sua occupazione
geniale di fare fiorellini di carta colorata, ma svogliato e senza
ombra d'ispirazione.
Nessuno a cena volle mangiare, e lui solo, per non dare, disse,
altri dispiaceri alla mamma, inzuppò un biscottino nel
rosolio, e alle nove e un quarto si ritirò.
Siamo all'ottavo giorno dopo l'accaduto. Il postino è
disperato perché il signor Cavaliere da sei giorni non gli
lascia pelle addosso, e lo minaccia di fargli perdere il posto,
perché, secondo lui, deve avergli smarrito una lettera. O
quell'altro noioso del Rapalli che ha la febbre addosso per via
della scommessa! Ma stamani gliel'ha detto, veh! «O senta: la
lettera non c'è, l'ha capita? e smetta di rompermi...
Perché se siamo poveri, non ci hanno mica a mangiare a morsi
peggio del pane... Sissignore! E quando la lettera ci sarà,
accidenti a chi gliel'ha scritta!»
Il postino si lasciò andare un po' troppo, lo disse anche il
Nardini; ma era compatibile, perché bisogna sapere che il
Rapalli da due anni si scordava di dargli il Ceppo, e il povero
postino l'avrebbe infilato, tanto più che da otto mesi,
facendo il Rapalli all'amore con una di Certaldo, tutte le settimane
c'era due o tre lettere che parevan processi, e gli toccava
portargliele fino a casa sua, quasi un miglio più su della
Madonna del Grilli.
«Questi bighelloni mangiapanacci a ufo!»,
continuò il postino, fermandosi a dare una cartolina alla
Biagiotta.
«Che v'hanno fatto, che v'hanno fatto, postino?»,
domandò la Biagiotta, che a sentir dire male del prossimo ci
stava con più devozione che alla messa cantata.
«A me? nulla. Ma da una parte gli stanno bene, veh! Intanto
quel prepotente del dottore, se Dio vòle, se ne va.»
«A rotta di collo!»
«Brava Biagiotta! a cotesta maniera!»
«E più che altro, l'ho caro per quella strega muffosa
della su' moglie. Bella, collo spènserre di velluto! e poi lo
leva e va a rigovernare. L'ho vista io, sapete? con tutta la su'
superbia che quando passa di qui a naso ritto, par che si puzzi
tutti!»
«O quell'ignorante del maestro, Biagiotta?! Già, quello
lì, levato de' piatti di cucina, credo che non sappia sonare
neanche le campane.»
«Non potevi dir meglio. E per me, se avanti che se ne vada,
gli dessero un carico di legnate, come l'ebbe quello delle
Scòle anno di là, vorre' dare una candela d'un paolo
al Santissimo Crocifisso, e da cena a tutti. O del Guardia Cerri
l'avete saputo?»
«Che gli hanno fatto?»
«Dice che è sotto processo, perché quel giorno
che il signor Cavaliere e Alcestino si presero a parole ne' prati
dell'Arzillo, tirò, dice, una schioppettata al su' cane, e
prese invece un contadino che era a far l'erba in una fossa, che
l'acciecò mezzo, e gli fece subito referto.»
«Non lo sapevo.»
«È un affar di nulla! Fu arrestato la mattina subito, e
dice che gli ci vorrà du' mesi di prigione e secento lire di
multa, se gli basteranno.»
«Ci ho gusto!»
«Sode!»
«Guah! ecco quello sbuccione del procaccia. O che va dal sor
Cavaliere?»
«Pare!»
«Ah! ho capito. Di certo gli porta la risposta di quella
famosa roba.»
«Mah!»
«A proposito! e questo matrimonio dice che sia bell'e andato
all'aria. Ma sia vero?»
«Dice di sì. Meglio per lui, povero sor Alcestino,
meglio per lui.»
«Arrivederci, Biagiotta.»
«Addio, postino. Vi volete rinfrescare?»
«Grazie tante; un'altra volta.»
«Come vole.»
«Addio.»
«State bene, postino.»
La tranquillità monotona del paese era in quel giorno
apparentemente la medesima, ma gli animi bollivano. Il Segretario
era ben visto da una gran parte della popolazione per la sua
bontà; il Cavaliere era nelle grazie dei più pei suoi
quattrini. E i partiti s'erano definiti nettamente in questa
occasione, e si guardavano in cagnesco.
Il procaccia s'era fermato davvero a bussare alla porta del
Cavaliere, ed era già entrato, quando Cencio tabaccaio, che
era sull'uscio a sbirciare, chiamò il Rapalli:
«Sor Rapalli, sor Rapalli!».
«Che c'è?», domandò il Rapalli che era
occupatissimo a non far nulla dal caffettiere difaccia, per arrivare
all'ora del desinare.
«Il procaccia è andato dal sor Cavaliere. Secondo me ci
ha la risposta di quella roba. Vada, vada.»
«Vado subito. E voi, Cencio, fatemi il piacere: mandate ad
avvisare il sor Gustavo che a quest'ora dev'essere in quel posto di
certo.»
Il Rapalli andò dal Cavaliere; Gostino corse a cercare del
sor Gustavo, e Cencio rimase a far gente sulla bottega.
La notizia si sparse come il baleno; lo speziale fece capolino dagli
impostoni socchiusi, di sopra alle spalle di sua moglie: il Piovano
scese sul cimitero affettando la più grave indifferenza; il
fabbro e il calzolaio vennero fuori coi loro arnesi in mano
figurando di guardare il tempo e dopo poco tutti gli abitanti del
paese, eccetto il Segretario e il sor Alceste, che la Biagiotta
giura d'aver visti alla finestra a guardare dalle stecche della
persiana, erano fuori per qualche loro faccenda straordinaria che
non volevano dire a nessuno.
Un gruppo abbastanza importante s'era radunato davanti all'Appalto,
dove Cencio s'era preso col Nardini, il quale sosteneva essere
impossibile anche per un professore il decidere sulla provenienza
della fatta.
«Ma, abbiate pazienza», badava a dire Cencio,
«cotesto è segno che non avete girato e che del mondo
ne conoscete poco. E io avre' fatto precisamente come il signor
Cavaliere, perché per decidere non ci voleva altro che un
professore... oh! aspettate... come li chiamano?... insomma un
professore come quello che il signor Cavaliere gli ha mandato a
deciferare l'oggetto.»
«O che volete che vi dica? potrà anche stare, ma me non
mi persuadete.»
«E allora vòl dire che con voi non ci si ragiona,
perché la chimica... ora m'è venuto. È un
professore di chimica quel professore. E quando a quella gente
lì, vedete? gli avete fatto vedere, vo' dir poco, quanto di
qui al pozzo, con rispetto parlando, anche uno sputo, loro vi sanno
dire fino a un puntino se il vostro sangue sarebbe come se uno
dicesse... anche se uno è stregato. Mi rammento che quando 'l
mi' figliolo... Riverito, sor Gustavo, vada, vada, perché
c'è roba.»
Il sor Gustavo passava in quel momento davanti all'Appalto,
camminando a gran passi verso casa. Aveva la faccia lieta e tanto
sicura, sognando la vincita delle cento lire, che Cencio ne prese
buon augurio per vincere quella beccaccia che aveva scommesso col
Cappellano; ma appena fu in casa, la scena cambiò aspetto.
Il Cavaliere aveva una lettera aperta in mano, scoteva il capo, e
guardava desolato in un amaro silenzio il Rapalli, che, appoggiato
alla spalliera d'una poltrona, stringeva le labbra per non lasciarsi
scappare una risata, e ad intervalli, scotendo anch'egli la testa,
diceva: «Eh! pur troppo che è così!».
Gustavo capì che bisognava stare zitti, e si mise in disparte
a sfogliare un album di fotografie, senza aprir bocca.
Dopo qualche minuto di silenzio, il Rapalli fece un inchino al
Cavaliere; strinse la mano a Gustavo e se ne andò.
Appena fu per le scale, s'ingozzò il cappello fino agli
occhi, si rizzò il bavero del giubbone foderato di pelle di
lepre, lasciandosene abbassata la punta dalla parte dell'Appalto,
escì fuori rasentando il muro, e quando vi fu giunto davanti,
Cencio, l'abbordò dicendogli:
«Ma dunque è deciso, sì o no? perché a me
mi preme la beccaccia del Cappellano. Si pòl sapere di che
bestia era questa famosa fatta?».
Il Rapalli lo tirò da parte, e, accostatagli la bocca
all'orecchio:
«Zitto! Cencio», gli disse, «mi raccomando, se no
la prima fischiata è nostra... Era di pollo!».
La pipa di Batone
Lo scoppio d'una tempesta di grida e di tonfi sulla tavola, che
partiva da un gruppo di quattro allegri giovinotti, l'uno figlio di
Batone e gli altri amici di casa, era la chiusa obbligatoria d'ogni
partita di calabresella; ma questa volta il baccano fu tanto forte
che il vecchio Batone, mezzo addormentato nel canto del fuoco, fece
un tale scossone che, battendo la nuca nella mensola della cappa,
gli cadde la pipa che gli ciondolava dalla bocca, andando a rompersi
in cento pezzi sul piano del focolare.
«Eh! maledetto voi altri e la vostra calabresella!»,
gridò Batone, buttandosi carponi a raccattare i frammenti
della pipa; ma la sua imprecazione restò affogata sotto un
nembo di:
«Tutte nostre, se buttavi l'asso quando ti ci ho
chiamato!».
«E della napoletana a còri che te ne volevi
fare?»
«Te, piuttosto...»
«Ha ragione lui!»
«Nossignore, perché quando gli ho calato l'asso
terzo...»
«Ma allora mi ci dovevi battere!»
«Sì, sì!»
«No, no!»
E giù, un altro diluvio di tonfi, urli e imprecazioni
più grosso del primo.
«Benedetto voi altri e le vostre gole intremotate! Vi volete
chetare, sì o no? Ecco, guardate che bel sugo!»,
esclamò la Carlotta, nuora del vecchio Batone. «Questa
povera creaturina dormiva che era un amore, e ora sentite che bella
musica! E ninna e ninna e nanna...» E così
canterellando si mise a cullare sulle ginocchia una bella
bambocciona grassa e fresca come una rosa, la quale sbertucciandosi
lo scuffiotto di lana gialla univa i suoi strilli alle grida dei
giocatori, formando un casa del diavolo da sgomentare un campanaro
di professione.
Finalmente si chetarono, ma dopo avere esaurito affatto la questione
durante la quale ognuno aveva detto o creduto di dire un sacco
d'eccellenti ragioni, lasciando però nella mente dei compagni
precisamente il tempo che vi avevan trovato.
«O di che cercate costì nella cenere, babbo?»,
domandò Cencio che nel voltarsi aveva visto il vecchio
razzolare a capo basso, inginocchiato sul sodo del camino.
«Di che cerco, eh?», rispose Batone, fra il desolato e
lo stizzito, «di che cerco, eh? Eran diciott'anni che ci
fumavo!»
«Vi s'è rotta la pipa! o come mai?»,
domandò uno degli amici.
«Diciott'anni!», brontolò Batone con un sospiro;
«grumata che era una delizia!»
«Povero nonno! o com'è andata?», domandò
anche la Carlotta, sospendendo la sua ninna-nanna.
«Com'è andata! È andata che se vi si seccasse la
gola a quanti siete, non sarebbe il vostro avere... Eh, sie! Il
pezzo più grosso eccolo qui! Va' all'inferno anche te!»
E con un calcio mandò nel fuoco gli avanzi della pipa e si
rincantucciò di nuovo taciturno nel fondo della sua panca.
La bambina aveva ripreso sonno, la ninna-nanna era cessata, ed al
rumore di pochi momenti fa era succeduto un profondo silenzio. I
quattro giovani si guardavano fra loro, guardavano il vecchio e
quindi la Carlotta, quasi interrogandola con lo sguardo sulla
catastrofe della pipa. Alle quali mute interrogazioni la Carlotta
rispondeva con un movimento della testa e degli occhi che voleva
dire:
«Non ne so nulla nemmen'io; stiamo zitti, se no si fa troppo
dispiacere a questo pover'omo».
Tutti tacquero per alcuni altri momenti, e Batone mandò fuori
a breve intervallo due lunghi sospiri, dopo i quali, quasi
rispondendo a una domanda del suo pensiero, esclamò con
tristezza:
«Se ci ero affezionato!». Eppoi rivolgendosi agli amici:
«Vedete, giovinotti; se mi fosse cascato un tegolo sulla
testa, sarei crepato, sì, ma avrei patito meno».
«Eh, lo capisco!»
«Io mi metto ne' vostri piedi.»
«Anch'io.»
«Figuratevi io!», rispondevano uno dopo l'altro i
quattro giovani che, sentendo un certo solletico di riso, avevano
però nel fondo dell'animo una certa compassione del vecchio,
perché fino da bambini erano avvezzi ad amare quella mite e
robusta natura di popolano, e perché, correndo col pensiero
alla pipa che tutti avevano in bocca, comprendevano abbastanza il
suo dolore.
«Non vi starò a dire, perché tutti fumate e ve
lo figurerete», riprese Batone, «se in una pipa di
diciott'anni ci si fuma bene! Ma quello che più di tutto
m'addolora è di dover dire addio a un oggetto che mi
rammentava troppe cose... troppe! La comprai l'anno della piena, e
la rinnovai per l'appunto quella mattina... 'Gnamo, 'gnamo, guardate
dove mi fate entrare; Noe, noe, via, lasciatemi stare; accidenti
alla calabresella, a chi l'ha inventata e a' vostri urlacci
dannati!»
«Giù, giù, Batone, raccontate,
raccontate!», chiesero ad un tempo i tre amici.
«Che volete che vi racconti, ragazzi miei? Son vecchio, ecco
quello che vi posso raccontare; son vecchio, e non son più
bono a nulla. Ma quand'ero ne' mi' cenci... Un gigante non son mai
stato, si vede ancora; ma con queste braccia che ora paion du' ossi
vestiti di pelle, ho fatto qualche cosa anch'io, e a que' giorni,
omo per omo, ve lo giuro sul capo di quella creatura, a Batone, non
gli ha fatto mai paura nessuno, mai! Prepotenze no; ma mosche sul
naso, per grazia di Dio e del mi' fegato, mi ce ne son lasciate
posar sempre poche, ma poche davvero. E dite pure che quando voi
altri sarete arrivati a fare la metà di quel che ho fatto
io... Basta; ho fatto quello che ho potuto, e quel che ho fatto, Dio
mi vede nel core, l'ho fatto sempre a bòn fine, e per aver
voluto bene a tanti, che poi se m'hanno potuto far del male, se ne
sono ingegnati». Si guardò le braccia, scosse la testa
sorridendo malinconicamente, e con voce stanca continuò:
«Mòio povero, ma se non mi fosse toccato altro, di
questo me ne vanto, all'età di settant'anni sonati che mi
trovo sul groppone, posso portare il cappello alto e dimolto; e
tanti signori, ma proprio di quelli di garbo, quando m'incontrano
per la strada non hanno scrupolo né punto né poco a
fermarmi e a stringer la mano, come dicon loro, al vecchio
galantòmo».
I quattro giovani a poco a poco si erano tirati con le seggiole
intorno al focolare, fissando in silenzio con aria mista di
curiosità e di trista compiacenza, l'abbronzata faccia del
vecchio, ne' cui occhi, allorché riandava i tempi passati,
guizzava agile e fiera un'ultima scintilla di fuoco giovanile. Ed
anche la Carlotta, che dopo aver posata la bambina nella culla si
era accostata al camino per mettere una palettata di fuoco nello
scaldino, sentendo le ultime parole del vecchio, partecipò
all'attenzione degli uomini, adagio adagio si pose a sedere
sull'altra panca del camino, facendo macchinalmente la calza, e
guardò il vecchio silenziosa ed attenta.
Batone, che aveva alquanto rallegrata la faccia rammentando gli anni
della sua robustezza, ritornò cupo ad un tratto, e dopo esser
rimasto alcuni momenti con la testa fra le mani, triste e silenzioso
come coloro che si preparavano ad ascoltarlo, alzò la faccia
sgomenta, e fissando lo sguardo sopra una seggiola disoccupata che
era rimasta in un canto della stanza, parlò:
«L'Agnese voi altri l'avete conosciuta tutti».
«Se l'abbiamo conosciuta!»
«Era una buona creatura; ma si vede che era nata sotto cattiva
luna. E su' primi tempi era stata anche fortunata. Sposò quel
maniscalco, Giacinto delle Morette, che poi gli morì tisico:
ma quando lo prese aveva fior di quattrini, salute da vendere e la
bottega sempre piena, perché ferrava che, come lui, bisognava
girare dimolte miglia eppoi fermarsi lì. E che bella sposa
s'era fatta!»
«Bella!», disse Tonio.
«E che belle creature che aveva!», osservò la
Carlotta.
«Povera figliola! era destinato che non se le dovesse
godere», continuò Batone. «E quel che è
vero bisogna dirlo, che per la su' bimbina maggiore ci aveva un gran
debole; e si vede che Gesù benedetto la volle visitare,
perché sul più bello, quando se la teneva come una
reliquia, perché cominciava già a saper leggere quasi
come il sor Annibale e a mettere in carta anche una lettera, la
bolla gliela portò via come uno ruberebbe la pisside di
sull'altare.»
Una zanzara s'era posata sulla fronte della piccina, la quale senza
destarsi, alzò una manina e si percosse dove sentiva pinzare.
E siccome la Carlotta si voltò a guardarla riscotendosi come
se una vipera le fosse passata tra i piedi, Batone le disse:
«Dio voglia che tutti i su' mali somiglino a quello che gli ha
fatto quell'animale».
«Dio lo voglia!», rispose la Carlotta, e si chinò
sulla culla a respirare il fiato della sua creatura.
«Dunque, già», riprese Batone, «quella
bambina gli morì... gli morì com'essere alle nove e
mezzo di stamattina... Che giornata fu quella, ragazzi miei! voi
altri eri a lavorare foravia e non ve lo potete mai figurare... Gli
morì alle nove e mezzo, come dicevo, si messe subito a
pulirsela e a vestirsela da sé, che Dio guardi a avergli
detto: "Lasciate fare a noi"; alle due aveva finito d'accomodarla
co' su' fiori del su' orto e ogni cosa, e mezzo minuto dopo la
raccattavano giù nel mezzo di strada con la testa fracassata,
che venne di sotto in un àmmenne a capo fitto a sbacchiare
sulla breccia stesa d'allora. Il Signore abbia misericordia
dell'anima sua!»
Batone tacque; nessuno degli ascoltatori disse parola, perché
ognuno conosceva l'accaduto; soltanto si voltarono tutti in un tempo
verso la porta contro la quale una folata di scirocco frustava la
pioggia che veniva giù a torrenti. Si voltò anche
Batone, e dopo aver dato un'occhiata alla solita seggiola:
«Era una serata come questa», proseguì.
«Eccola laggiù! mi par d'averla sempre davanti agli
occhi, Cencio, la mi' Rosa, la tu' povera mamma. Pareva che da un
momento all'altro ci dovesse cascare la casa addosso... un vento!
un'acqua! un buio!... Lei era lì in un cantuccio su quella
seggiola laggiù colla spalliera troncata, che fra uno
sbadiglio e l'altro dava de' punti alle toppe del mi' pastrano
vecchio, e a ogni ventata più forte si scoteva e mi guardava
e mi diceva: "Batone, o che sarà di noi? Dio ce la mandi
bona! senti l'Arno come muglia! ho paura" E aveva ragione, poverina,
perché in tempo che si discorreva aveva già strappato
in du' posti e aveva già portato via la capanna di Natalino e
tutte le cataste del sor Ippolito, che ci perse quasi più di
trecento monete. "Lascia piovere, lascia", gli dissi; "siamo a mezzo
novembre, e se non si sfoga ora sarà peggio poi. Piuttosto,
guarda, mi viene in mente una cosa: se invece di rassettare cotesta
calìa tu volessi ripigliar du' maglie alla bilancia,
domattina di levata vorre' andar a far du' cale a bocca di rio per
vedere se mi riesce buscare un par di paoli...". Allora c'era i
paoli.
Si alzò, povera donna, prese la bilancia, si messe a
riguardarla, e quando io che m'ero appisolato qui nel canto mi
svegliai e sentii sonare la mezzanotte, lei era sempre lì che
taroccava perché la rete era tanto vecchia che per ogni
maglia ripresa gli se ne strappava due. "Lascia andare, Rosa", gli
dissi, "se hai rassettato le buche più grosse me n'avanza;
basta che mi regga le lasche d'oncia: in quanto alla frittura
minuta, se ne piglierà quando avrò qualche paolo da
comprare una bilancia nova." E ci avviammo a letto.
La mattina andai. Per la strada mi fermai all'Appalto a comprare una
crazia di tabacco e quella pipa... Arrivo sul puntone, do
un'occhiata all'Arno: faceva paura! Monto la mi' bilancia, accendo
la mi' pipetta, e tutto contento mi metto a calare lì dalla
farnia vecchia dell'arginello.
Avevo già fatto quattro o se' cale quando mi parve... Dio del
cielo! altro che parere! Sentii una vocina sottile sottile come
d'una ragazzetta che urlava: "Aiuto, aiuto! aff... affogo!" , e mi
vedo venir contro, lesto come una saetta, un fagotto bigio che si
svoltolava nell'acqua. Lasciare la fune della bilancia, levarmi gli
scarponi e la cacciatora fu un baleno e, giù... Aaah! l'acqua
era troppo ghiaccia. Per un momento mi sentii tutto come rattrappito
dal granchio e almanaccavo di qua e di là, tanto per tenermi
a galla, ma senza quasi sapere quello che mi facessi; quando a un
tratto risento: "Aiuto, aiuto!", e ti vedo forse a un mezzo tiro di
schioppo lei, in mezzo a un rèmolo che se la frullava in
tondo come una penna, e che urlava da schiantare il core: "Oh, moio!
oh, moio! mamma, mamma, moio!". Batone, hai sangue nelle vene?
Tiralo fòri fino all'ultima gocciola perché ora
è tempo.
Mi sentii una vampata al cervello; tutto il freddo che m'intirizziva
si mutò in un bollore che mi pareva di prender foco, e mi
sentii tornare nelle braccia la forza d'un liofante. Notavo com'un
pesce e in quattro palate gli fui addosso. Lei che s'accorse
d'avermi vicino, ricominciò a urlare più disperata che
mai: "Salvatemi, salvatemi", e si storceva e allungava le mani per
agguantarmi...».
«Vergine santissima!», esclamò la Carlotta
rabbrividendo. Gli uomini tacevano e guardavano fissi la faccia del
vecchio.
Nel calore del racconto, Batone si era alzato dalla sua panca e,
ritto nel fondo del camino, sulla cui parete affumicata campeggiava
la sua bruna figura scabra e robusta come il tronco d'un vecchio
cerro, con una mimica più eloquente della rozza parola,
così proseguiva il suo racconto:
«Subito che gli fui sopra: "Ferma!" gli urlai... "Ferma, ti
salvo... Se non mi lasci andare, s'affoga... Per carità...
ahi! ma fai male... mi strozzi!". Chi gli avesse dato quella forza
non lo so. Con un braccio mi si avviticchiò al collo tanto
strinta che mi faceva schizzar gli occhi di testa, e con quell'altra
mano mi s'agguantò alla barba e me la tirava da farmi vedere
le stelle. Per fortuna avevo sempre le braccia libere e alla peggio
mi tenevo a galla.
In questo tempo la corrente ci aveva ripresi e ci volava via come
fulmini. Io con quanta forza avevo, lavoravo per staccarmela, ma non
c'era verso; la staccavo da una parte e mi si riattaccava da
quell'altra; mi levava l'unghie dalla barba, e me le ficcava nelle
gote e ne' capelli... A un tratto m'avvedo che la corrente ci
portava a sbacchiare nella sassaia delle grotte! "Dio eterno! ecco
la mi' ora, son morto, son morto!" E nello stesso tempo, come se
fossi entrato nel ritrécine d'un mulino, mi sento svoltolato
e sbatacchiato giù attraverso alle palafitte... E quella a
stringermi più che mai! Nell'abbaruffarci mi s'imbrogliarono
anche le gambe fra le sottane e in un batter d'occhio mi sentii
tirare a capo fitto nel fondo, come se m'avessero legato una
màcina al collo».
«Dio del cielo! e voi, babbo?», domandò Cencio
spaventato.
«La disperazione mi prese; non vi saprei dire bene quello che
feci; ma ho un barlume d'idea che gli strappai i vestiti, la morsi,
mi spellai le mani e la faccia nelle pietre... A un tratto eccoci
daccapo a galla! "Lasciami!" Dio eterno... nulla! Ebbi appena tempo
di ripigliar fiato e daccapo giù... Quello che mi
passò per la testa in que' momenti, non lo pòl sapere
altro che chi ci s'è ritrovato. Mi pareva di scoppiare;
sentivo un buratto negli orecchi e un frizzore negli occhi e nel
naso come se mi ci fosse entrato dello zolfo. Pensai alla mi' Rosa,
al mi' Cencio, al mi' cane, alla mi' bilancia, al mi' orto... Dio,
Dio! che momenti, che momenti son quelli! Volevo urlare aiuto
anch'io, ma tutte le volte che mi provavo mi pareva che mi tirassero
una martellata nel capo, e sentivo la morte che veniva... Faccio un
ultimo sforzo per liberarmi da quelle tenaglie... Angioli del
paradiso! sento le braccia di quella creatura che m'abbandonano
cionche...»
«Era morta?!»
«...e mi scivola via e non me la sento più accanto!
Cercai, annaspai colle mani e co' piedi, ma nulla! Allora poi
cominciai a sentire che non resistevo più; le forze se
n'andavano, la memoria m'abbandonava e, Dio mi perdoni, non pensai
più a lei; cercai di tornare a galla e mi riescì, ma
rovinato e sfinito com'un moribondo, raccomandandomi l'anima
perché ormai m'ero fatto perso.
A un tratto mi sento strisciar roba sul petto, l'agguanto, era un
vergone di vétrice della ripa. Comincio a tirarmi su con quel
po' di fiato che mi dava la disperazione quando mi vedo rammulinare
d'intorno un ciuffo di capelli. Dio onnipotente! era lei, lì,
a fior d'acqua, accanto a me! Agguantarla, rammucchiare quel po' di
sangue che mi restava e tirarmela dietro sulla ripa fu tutt'una...
Quello che feci dopo non lo so. La sera verso le sette mi trovai in
casa di Bagnolino delle Steccaie sopra uno strapunto vicino al foco,
e lì mi resero ogni cosa: le mi' scarpe, la cacciatora, la
bilancia e quella pipa, ché avevan ritrovato tutto sul
puntone, e mi dissero che era viva anche lei.»
«Ah! ma dunque?...»
«Era viva anche lei, povera Agnese!...»
«Agnese!»
«Lei; proprio lei! Che bella carità gli feci a
salvarla, eh? Ma Dio c'è per tutti e avrà pensato
anche a quell'anima sconsolata!», disse Batone, e
ritornò a sedere in fondo alla sua panca, brontolando:
«Com'è finita male! com'è finita male! e non se
lo meritava... Il destino, il destino!». E per alcuni minuti
rimase immobile col capo alto appoggiato alla mensola a guardare le
faville che si perdevano crepitando su per il buio della cappa.
In questo tempo la Carlotta, dietro un cenno di Cencio, s'era alzata
camminando in punta di piedi, e dopo aver messo sulla tavola sei
bicchieri e un fiasco di vino, era ritornata al suo posto.
Batone la guardò, e:
«Carlotta, accèndimi il lume; voglio andare a
letto».
«No, no!», dissero tutti insieme. «Un momento,
Batone, cinque minuti soli; si vòl bere un bicchier di vino
alla vostra salute, e voi dovete bere con noi, se no ci fate
torto.»
E gli si accostarono porgendogli ognuno il proprio bicchiere colmo.
Batone non voleva parere, ma era commosso, e ricusò di bere
finché, vinto dalla affettuosa insistenza dei giovani, prese
in mano un bicchiere, lo alzò per guardarne la limpidezza
attraverso al lume, ma il suo braccio tremava e nel portarselo alla
bocca se lo versò mezzo giù per la barba.
«Ah! lo vedete?», disse indispettito, «non sono
più bono a nulla. Lasciatemi stare, lasciatemi stare,
giovinotti.»
«È allegria, Batone, è allegria! alla vostra
salute!», e bevvero battendo insieme i bicchieri.
«Sì, sì; voi altri chiamatela allegria, e io la
chiamo vecchiaia. Carlotta, il lume.»
Lo prese e, accompagnato dagli sguardi de' suoi giovani amici, con
passo vacillante si allontanò nel fondo della stanza,
grattandosi il capo e brontolando: «Eran diciott'anni che ci
fumavo... E anche lei è finita... Com'è finita male!
com'è finita male!».
Vanno in Maremma
Questa me la raccontò nel canto del fòco l'amico
Raffaello, quella sera che m'invitò a cena a mangiare le
pappardelle sulla lepre.
Il sei di dicembre dell'anno passato, te ne ricorderai e se non te
ne ricordi non importa, fece un tempo da diavoli. A guardare la
montagna poi, era uno spavento; e anche di quaggiù si sentiva
la romba della bufera che mugolava fra i castagni, mandando fino a
noi qualche foglia secca insieme col sinibbio che strepitava sui
vetri delle finestre come la grandine. Io son fatto peggio delle
gru: più cattivo è il tempo, e più sento il
bisogno d'essere in giro. E volli uscire con lo schioppo in cerca di
qualche animale.
A un mezzo miglio da casa, sulla via maestra, incontrai Maso del
Gallo tutto imbacuccato, e lo fermai per sentire se sapeva punti
beccaccini.
«Dio signore! sor Raffaello», mi disse soffiandosi nelle
mani, «non mi faccia fermare; mi par d'esser diventato un
pezzo di marmo.»
«Insegnami un beccaccino.»
«Ce n'ho uno nella madia che l'ammazzai l'altra sera
all'aspetto. Se vòl quello, lo vada a pigliare, ma altri non
ne so davvero.»
«O come mai?»
«O dove li vòl trovare, benedetto lei, se è
tutto una spera di ghiaccio? Torni, torni indietro, ché
piglierà un malanno. Ma non lo sente che lavoro è
questo?»
Infatti si durava fatica a star ritti, tanta era la forza del vento
gelato che, avendogli voltato contro le spalle, ci tormentava
sbacchiandoci nel collo un nevischio duro e tagliente come vetro.
Distratto da una truppa di cinque persone che ci passarono accanto,
domandai a Maso: «O que' disgraziati?».
«Son montanini; non li vede? Vanno in Maremma... Arrivederlo
signorìa, in bocca al lupo; ma torni indietro, dia retta a un
ignorante... brèèè!...»
E si allontanò lesto lesto, battendo forte i piedi per
riscaldarsi.
Io rimasi un momento a guardare impensierito quei poveri diavoli.
Quella era di certo una di quelle famiglie che nell'inverno emigrano
dalla montagna, snidate dal rigore della stagione e dalla fame: il
babbo, la mamma, due ragazzetti sotto i dodici anni e una bambina
che, come seppi dopo, ne aveva otto appena compiti.
Il babbo, un ometto sulla cinquantina, basso, già curvo, con
le gambe a roncolo, stava avanti alla piccola brigata,
strascicandosi dietro faticosamente i suoi gravi zoccoli con le
suola di legno alta tre dita; aveva in capo un berrettaccio
intignato di pelle di volpe, calzoni formati di cento toppe di
altrettanti colori sudici e sbiaditi, e giacchetta di mezza lana
quasi nuova, di sotto alla quale scaturiva la lama d'una roncola e
il manico d'una mannaretta raccomandate alla cintola, e teneva per
il ferro una scure, servendosene come di mazza. Col bastone si
teneva sulla spalla sinistra un sacchetto di castagne.
Dietro a lui subito venivano i due bambini vestiti press'a poco come
il babbo; con più una straccio di pezzola passata sopra al
berretto e legata sotto la gola per difendersi il collo dalla neve.
Il primo, con un ombrellone a tracolla tenuto da uno spago, se la
rideva divertendosi a fare i passi lunghi dietro a quelli del babbo,
mentre tirava a stratte misurate il fratello minore che gli andava
dietro frignando e zoppicando, forse pei geloni ammaccati dentro un
paio di scarponi da uomo sfondati e senza legàcciolo.
Questo piccolo disgraziato, a forza di rasciugarsi il moccio e le
lacrime con la manica della giacchetta, se l'era ridotta, fino al
gomito, un cartoccio di ghiaccio.
Dieci passi addietro veniva la mamma, pallida, smunta, impettita,
con gli occhi a terra, camminando a ondate gravi come tutti gli
abitanti delle montagne, la quale, avendo infilato il braccio
sinistro nel manico d'un paniere, teneva la mano sotto al grembiule,
e con l'altra quasi strascicava la bambina che, inciampando in tutti
i sassi, le andava dietro come un orsacchiotto, rinfagottata in un
lacero giacchettone da uomo che le toccava terra. Aveva i suoi duri
zoccoletti di legno, e le mani rinvoltate dentro a degli stracci
fermati al polso con fili di ginestra.
La strada doveva a loro sembrare in quel momento poco faticosa,
perché il vento se li portava quasi in collo e li balestrava
ora di qua, ora di là dalla via, facendo schioccare come
fruste que' po' di cenci che avevano addosso.
«Vanno in Maremma!», aveva detto Maso. «Quando ci
arriveranno? Come ci arriveranno?»: questo chiedevo a me
stesso, e non sapevo levar gli occhi da dosso a quel compassionevole
gruppo che fra pochi minuti non avrei più potuto scorgere
attraverso alla nebbia del nevischio.
Volli andargli dietro, volli discorrere col vecchio capofila, e
affrettando il passo, in pochi salti gli fui accanto.
«Stagionaccia, galantuomo», dissi per attaccar discorso.
«Bella non è davvero, signor mio.»
«Andate molto lontano?»
«Per le Maremme.»
«In che luogo?»
«Talamone.»
Egli, vedendomi fare un movimento che voleva dire un
«perdio!» di quelli che chi li tiene in corpo è
bravo, mi guardò, sorrise, e continuò:
«Non c'è mica poi tanto, sapete. Di qui passerà
poco le cento miglia. Si va su su, adagio adagio, coll'aiuto di Dio,
e quest'altra settimana, alla più lunga sabato, s'arriva. La
strada, non dubitare, la conosco bene; sono trentacinque anni che la
faccio; la sorte m'ha sempre assistito, e per grazia del cielo
eccomi qui. L'anno passato ci menai questo solo», disse,
accennandomi con una spallata il bambino che misurava il passo, il
quale nel sentirsi rammentare perse il tempo per guardarmi, e dando
un inciampicone negli zoccoli di suo padre, andò a battere il
naso nel sacchetto delle castagne che il vecchio teneva a spalla.
«Ci menai questo solo l'altr'anno. Fino a Grosseto, come Dio
volle, ce la fece; lì però gli si sbucciò un
piede e mi toccò a portarmelo a cavalluccio... Son poche
miglia di lì a Talamone. Ma quest'anno, caro signore,
m'è toccato menarli tutti.»
«È la tua famiglia questa?»
«Questi due sono miei, sissignore; e quella bimbetta lì
che, se la guardate, ha ott'anni finiti e non gli se ne darebbe sei
da' gran patimenti di su' madre che non gli ha mai voluto bene,
è d'un mi' fratello che anno di là morì alla
macchia d'una perniciosa. Mi si raccomandò tanto che ci
pensassi io, che quando la su' mamma quest'agosto riprese marito,
non gliela volli lasciare; come che avendo anche l'approvazione del
curato, non gliela rendo più. E quella è Zita, la mi'
moglie.»
«Buon giorno, sposa», risposi ad un saluto malinconico
che mi fece con gli occhi, movendo appena la testa.
«E perché, dovendo condurre questi poveri piccini, non
sei andato col vapore o almeno con un po' di barroccio?»
«Ci sarei andato volentieri anch'io, caro signore, con un bel
barroccio che ci si va anche con poco», disse guardandomi
sgomento, «ma come si fa? Se le cose anderanno bene, state
allegri ragazzi», disse volgendosi ai piccini, «si
vedrà di farne un po' in barroccio al ritorno.»
«Più volentieri», continuò volgendosi di
nuovo a me, «più volentieri li avrei fatti restare
tutti a casa; ma non avevo da lasciargli nulla, signore mio, nulla!
nemmanco un po' di farina per isvernare.»
«Sta bene; ma per la via come la rimedî?»
«Si fa alla meglio, a dirlo a voi; si va alla carità di
questi contadini, e, per dirla giusta, pochi fin qui me l'hanno
ricusata la capanna per dormire e un tozzerello di pane. Lì
ci abbiamo de' necci,» e mi accennò il paniere della
moglie, «e qui dentro ci ho delle castagne, che se non ci
segue disgrazie di doverci fermare, ci basta quasi per arrivare al
posto.»
Detti un'occhiata al paniere, al sacchetto e a quelle cinque facce
sofferenti, e mi sentii correre instintivamente la mano al
portafogli. Presi quel poco che mi parve, perché, tu lo sai,
disgraziatamente ho da pensare troppo a me, e accostatomi al bambino
maggiore gli detti con cautela, perché non vedesse suo padre,
un piccolo foglio. Mi guardò spaurito, guardò quel che
aveva nella mano, e chiamando suo padre incominciò a gridare:
«O babbo! o babbo! guardate cosa m'ha dato questo signore! O
cos'è? o cos'è».
«Digli "Dio vi rimeriti" a questo signore, Tonino; digli "Dio
vi rimeriti"...»
«Non importa, non importa. Addio, monello; buon viaggio e
buona fortuna, galantuomo.»
«Altrettanto a voi, signore, e state fiero.»
Quando la madre, che aveva mantenuto i suoi dieci passi di distanza,
mi passò davanti «Dio vi benedica!» mi disse. E
stetti qualche momento a vederli allontanare tra la bufera, che
rammulinava la neve sempre più gelata e più folta,
fischiando attraverso gli alberi brulli della via.
Qui Raffaello s'interruppe per dire a Gano che buttasse un altro
ciocco sul fuoco; poi, dopo esser rimasto qualche momento col capo
basso a pensare, lo rialzò per domandarmi: «Che ne
sarà stato?».
Primavera
Folta delle sue nuove foglie, una vecchia querce gode la vita
slanciando al sole di maggio le braccia robuste, e il vento canta
alla primavera tra le sue fronde sonore.
Canta alla primavera che ride intorno odorata, e nuota voluttuosa
sull'onda delle verdi mèssi e tra i pampani e tra i fiori
ondeggianti a un limpido sole, cullando ne' loro aperti calici
l'amore di mille insetti felici; e il polline giallo, commosso da
tante ebbrezze, vola col vento a preparare altri profumi, altri
fiori alla eterna giovinezza dei campi.
In mezzo a tanto lusso di vita, stanchi nelle membra e freddi nel
core, una bianca vecchierella e un magro vecchietto, seduti uno
accanto all'altro all'ombra della querce, godono tranquilli il
riposo del meriggio.
«Fa caldo oggi, sapete? fa caldo.» E così
dicendo, la giovereccia vecchierella si allenta il busto, si
scioglie il nodo alla pezzuola che le fascia la testa, e facendosi
vento con quella, si abbandona resupina col capo fra i fiori rossi
del suo fascio di lupinella.
Il vecchio la guarda distratto; una folla di nebbiose reminiscenze
gli corre alla memoria, e appoggiandosi anch'egli al suo fascio di
trifoglio, ripesca un frammento d'ottava da lui improvvisata
sessanta anni or sono, una notte d'agosto, sotto la finestra della
sua Gioconda; e guardando smemorato all'aria, pensa e canta a bassa
voce:
Se ancor, dolcezza mia, non lo sapete
Dove per me s'è aperto il
paradiso,
Guardatevi allo specchio e lo vedrete
Tutto dinanzi a voi nel vostro
viso...
Oh! com'era bella, com'era bella Gioconda a sedici anni! Nella sua
bianca casetta accucciata all'ombra d'un noce e di due giovani
gelsi, stava sempre la gioia, e Gioconda era l'idolo di tutti,
perché anche le sue compagne, buttato da parte ogni piccolo
sentimento d'invidia, se la guardavano compiacendosene e le volevano
bene.
La stanza del suo telaio situata a terreno dava sulla via; lì
era il ritrovo favorito delle sue liete vicine, e fra i discorsi, i
canti e le cordiali risate, moveva sempre di là un festoso
baccano che riempiva di buon umore il viso delle povere nonne,
sedute lì presso sulle porte a filare, le quali si beavano in
quelle risa e in quei canti come in un ritorno soave alle gioie
perdute dei loro giovani anni.
I giovanotti che passavano gettando la grassa arguzia in quel
crocchio di spensierate, o che si fermavano sulla porta ad agognare,
erano le loro vittime predilette; Cecco aveva le gambe torte; Pippo
si struggeva de' baffi e s'insegava e si martirizzava continuamente
quelle quattro setole che non volevano allungare; lo Spagnolino
buttava i piedi a gallo, e Rocco, povero Rocco! aveva la lisca. E lo
strapazzavano e gli facevano il verso tutte le volte che timido
timido si affacciava a tartagliare qualche goffa galanteria; e
allora ridi pure, amore mio! ed erano tali risate che quelle monelle
duravano, a volte, a sganasciarsi per una ventina di minuti senza
aver tempo né discrezione di chetarsi neanche per un momento
a ripigliar fiato.
E Rocco si allontanava afflitto, colla coda fra le gambe, pensando
alle trecce della sua Gioconda, e sospirava più fitto dei
colpi del telaio che lo accompagnavano insieme con gli scoppi di
risa, finché, rintanato nel fondo della stalla, si sfogava a
dar pedate nella pancia del suo povero ciuco, e a palpare le cosce
delle sue giovenche, orgoglio della casata, invidia dei contadini
dei dintorni e ghiottoneria troppo preziosa per Simone macellaro.
Ma quelle risa e quei canti a volte cessavano ad un tratto; e allora
le bianche nonne del vicinato, capito subito di che si trattava,
alzavano gli occhi dal fuso e voltandosi verso la porta del telaio
vedevano Maso, che, appoggiato con artistica posa allo stipite di
quella, girava su quel gruppo di fresche giovinotte i suoi fieri
occhi innamorati per incontrarsi con quelli dolci e sereni della sua
Gioconda, la quale, fatto un languido saluto, arrossendo li
abbassava sulla spola che allora cominciava a correre più
agile e più umorosa attraverso all'ordito della sua tela.
Oh! che bei tempi erano quelli! Quanti ricordi amaramente soavi
scendono al core dalle mura di quella bianca casetta! Quante confuse
memorie sotto l'ombra di quel noce e di quei gelsi, sempre verdi e
frondosi come a quei giorni tanto lontani!
E nulla par cambiato là intorno. Quelle siepi cariche di
fiori di biancospino, quegli argini smaltati di rosolacci e di
pratoline che fiancheggiano la via che mena alla chiesa, pare che
aspettino sempre le limpide domeniche di maggio, quando Gioconda, in
mezzo a una corona di giovani amiche che godevano al riflesso della
sua bellezza, passava fresca e profumata come una rosa, con gli
sguardi a terra fra le occhiate di fuoco dei giovanotti che
l'aspettavano sparsi qua e là in piccoli gruppi lungo la via.
E fra quei giovanotti c'era anche Maso, ravviato, lindo, con la
barba fatta d'allora, con la sua bella giacchetta di frustagno
turchino, cappello nero di felpa e garofano rosso dentro al nastro
di quello. E a lui toccava un'occhiata e un lieve sorriso che lo
spingeva a stendere affettuoso un braccio sul collo dell'amico
più vicino, ed a correre subito in fondo di chiesa accanto
all'altare, per chiedere, in tempo della messa, un altro sorriso
almeno e un'altra occhiata alla sua Gioconda, che tutta rossa e
confusa gliene dava mille pur non volendogliene dare nemmeno una.
Dio avrà perdonato a Maso la profanazione, perché
anche il povero priore morto non credeva di far male quando
voltandosi al Dominus vobiscum, guardava il cielo, il viso di
Gioconda, e riportava puri i suoi occhi sulla mistica mensa.
E Gioconda e Maso non poterono mai essere sposi. Si amarono
lungamente, si amarono molto, si amarono forse troppo... ma il
destino non li volle uniti.
Quando lui tornò da fare il soldato, dove stette diciotto
anni, la trovò sposa e madre di quattro bambini. Rocco,
quello della lisca, delle pedate al ciuco e delle grasse giovenche,
l'aveva sposata già da dodici anni. Rocco ebbe da quel tempo
fino alla morte tutto l'affetto della sua Gioconda: a Maso,
restò sempre l'amore.
«E ora è tardi!», pensò Maso, alzando
adagio adagio il capo dal suo fascio di trifoglio. «È
tardi!» e si mise a guardare il viso della sua Gioconda mezza
addormentata col capo tra i fiori di lupinella, per cercarvi almeno
una ultima traccia della perduta bellezza.
La pelle floscia e lentigginosa di quel collo la vide a poco a poco
ritornar bianca e levigata; sparirono ad una ad una le mille rughe
di quelle gote vizze che gli apparvero fresche e piene di giovane
sangue: al terreo colore di quelle subentrò l'incarnato della
rosa; i radi e bianchi capelli ritornarono biondi e raccolti in
trecce abbondanti, e dopo sessant'anni la rivide giovane e bella, e
riamò, giovane anch'egli, quella che soleva chiamare la
passione dell'anima sua.
La primavera intanto sospirava calda pei campi, rubando odori e
gorgheggi ai fiori sbocciati con l'erba e alle cinciallegre in
amore.
Maso si spenzolò col suo sul viso della sua Gioconda per
deporvi un bacio, ma Gioconda, sentendo un alito caldo sulla faccia,
aprì gli occhi, colse il pensiero del vecchio nel sorriso che
gli brillava negli occhi imbambolati, e guardandolo fisso e
sorridendo anch'essa: «E ora che avete? vecchio pazzo!»,
gli disse.
Il vecchio non rispose, ma accostandosi agli orecchi di lei, vi
sussurrò qualche parola che provocando in ambedue uno scoppio
di omeriche risa, li ributtò supini tra i fiori dell'erba a
mostrare al cielo ridente le loro povere bocche larghe e sdentate.
Il vento prese quelle voci, e portandole a volo aggiunse anche
quella rauca nota alle misteriose armonie del creato.
Il merlo di Vestro
Il benemerito signor canonico Sinigaglia, capitato in paese per la
solenne occasione, teneva quella sera la presidenza dell'innocuo
conciliabolo reazionario. Vestro aveva perfino fatto le ballotte, ed
aveva rifrustato con tanto calore la povera cantina da portar su in
bottega una mezza dozzina di bottiglie di vinsanto vecchio, colle
quali tanto si comunicarono i priori e i cappellani indigeni ed
esotici del circondario, da preparare più che comodamente il
letto alla pappatoria della mattina seguente, dovendosi festeggiare
appunto il giorno dipoi, nella pievania, la festa del titolare, il
beato San Remigio martire.
La conversazione era stata briosa fino dal principio, ma alla quinta
bottiglia vi fu un momento di vero entusiasmo a beneficio
dell'illustrissimo signor Canonico. Ribevvero tutti alla sua
preziosa salute, parlarono della santa causa, lessero, fra le
acclamazioni, un articolo furibondo della Stella Cattolica,
mangiarono un libero pensatore per uno ed empirono il pavimento di
gusci di ballotte biasciate.
Vestro schizzava dalla contentezza trovandosi in mezzo ad un
elemento così omogeneo ai suoi principii ultracattolici, e si
fece diventare il naso gonfio e rosso come un peperone dalle gran
prese di tabacco offertegli dal signor Canonico; regalo che non
volle mai rifiutare, quantunque non prendesse tabacco, per non
disgustare l'eminente personaggio che quella sera erasi degnato di
onorare la sua povera merceria.
E il Canonico gonfiava come un tacchino, rosso scarlatto e tutto
sudato per la commozione di vedersi fatto segno d'un rispetto e
d'una ammirazione, dalla quale i suoi colleghi del Capitolo l'avevan
divezzato già da un bel pezzo, «Birbanti!»,
diceva tra sé il povero Canonico, ripensando alle sue
amarezze, «birbanti!», e stringeva forte la mano e si
voltava sorridendo malinconicamente a Vestro, che, guardandolo
estatico, prendeva per emanazione del cielo le zaffate composte che
gli dava nel naso il buon reverendo, il quale non finiva mai di
lodare a gloria il trattamento tanto più gradito, quanto
più semplice e spontaneo offertogli dal popolano esemplare.
Vestro sorrise tutta la sera imbambolato, tacque e sospirò
come l'innamorato novizio accanto alla bella, e fece sentire per la
prima volta la sua voce quando mostrò il suo merlo, tanto
bravo, al signor Canonico; il quale, dopo averlo esaminato con
severa attenzione, si compiacque assicurare l'uditorio che era
maschio. E:
«Ditemi, Silvestro; in che consisterebbe la bravura di questo
animale?».
I priori e i cappellani esotici ed indigeni dettero, a quella
domanda, in una gran risata, per la quale la dignità del
Canonico restò alquanto offesa. Ma il Piovano che se ne
avvide, gli si accostò e sotto voce gli dette la spiegazione
di quella risata, che fu seguita subito da un'altra grossissima,
alla quale anche il signor Canonico si compiacque di prender parte
battendo con una mano sulla zucca bernoccoluta di Vestro, come per
dire «Ah! gran cervello bizzarro c'è qui dentro! Che
matto, che matto!».
«Eppoi, sa? lustrissimo; il bello si è che c'è
quel calzolaro là difaccia... lo chiamano Ciuciante di
soprannome... è un liberale lui!.. che quando lo sente piglia
certi cappelli! perché dice che l'ho ammaestrato apposta per
fargli dispetto. Ma che crede che ci si faccia poche risate?... Eh
Cappellano?»
«Ma ci s'è ammattito tanto a ammaestrarlo!»,
osservò il Cappellano; «quante mattine ci s'è
perso di là in corte a fischiare perché
imparasse...»
E tirato il Canonico in un cantuccio, gli raccontò come
Vestro e lui avevano davvero ammaestrato il merlo a dire a quella
maniera, perché «Deve sapere che quel vile ci ha il su'
figliolo più piccolo, al quale specialmente quando passa
qualche sacerdote, domanda: "Palestro", senta che nome! "Palestro
chi ci stà lassù?", accennandogli il cielo. E il su'
figliolo, una creatura di tre anni, signor Canonico! gli risponde...
gli risponde a quella maniera».
Il Canonico fece un atto d'orrore, al quale corrisposero gli altri
preti dando un'occhiata in cagnesco alla bottega di Ciuciante, il
quale era dentro a lavorare, e la cui ombra, come un'apparizione
infernale, si disegnava mobile e nera in grotteschi atteggiamenti
sui cristalli appannati della vetrata.
«E sa con che cosa, lustrissimo», riprese Vestro;
«con le mosche! Me le porta Stefano droghiere, che le piglia a
manate sotto 'l velo de' pasticcini. Guardi che fogliata me n'ha
portata dianzi!»
Ne dette una al merlo che venne a prendergliela in mano, e dopo una
strizzatina d'occhi al Cappellano:
«Ma che gli si deve far sentire davvero, Cappellano, al signor
Canonico?».
«Per me, fate come volete, Vestro; ma ricordatevi che son du'
giorni che quel birbone è dimolto nero perché ci ha 'l
su' ragazzo a letto, malato. Badate che non gli salti il ticchio di
farvi qualche bravata.»
Ma Vestro, un po' pel vinsanto che aveva in corpo e un po'
perché si credeva inviolabile sotto la protezione del signor
Canonico:
«Si starà a vedere», disse, «se quel
mangiacristiani m'ammazzerà. Stasera s'ha a stare
allegri».
E così dicendo prese la gabbia e, dopo averla attaccata fuori
a un chiodo di fianco alla porta, rientrò in bottega ad
aspettare il canto del merlo.
Ai preti garbò poco quella faccenda, perché, sia detto
qui fra noi, avevano una paura maledetta di quel birbone, e furono
contentissimi di sentire che il merlo non apriva bocca. Ma Vestro
non la intendeva così, e:
«Ora, ora sentiranno!», disse. Prese il foglio delle
mosche, lo svolse e sporgendo un braccio fuori dell'uscio, lo fece
vedere al merlo, il quale, volteggiando rapido per la gabbia,
fischiò subito, forte forte... a quella maniera.
Nell'istante si sentì aprire e richiudere bruscamente la
vetrata di Ciuciante, e nello stesso tempo una gran botta nel muro e
un sinistro sgretolìo di stecchi, come se la gabbia fosse
andata in bricioli.
«Me l'ha ammazzato, quell'infame!», ruggì Vestro
disperatamente. Corse fuori e rientrò in bottega bianco come
un panno lavato, tenendo in mano la gabbia sfondata dentro alla
quale, in luogo del merlo, stava immobile e grave una forma da
scarpe quasi più grande del vero.
Vestro rimase qualche momento con la gabbia in mano a guardare tutti
con occhi stravolti, dicendo con voce di spasimo lenta e soffocata:
«Quell'infame, cosa m'ha fatto!... Cosa m'ha fatto
quell'infame!...».
I preti, inchiodati sui loro panchetti dalla paura, non aprivano
bocca.
Improvvisamente Vestro fu preso come da una ispirazione divina:
agguantò un lume e corse a guardare per terra sotto al chiodo
della gabbia... «Nulla! È volato!... Infame!»
Chiuse la forma dentro una cassetta, si ficcò il cappello, e:
«Signori mi scusino... Signor Canonico, mi compatisca...
bisogna che chiuda. E lei, signor Piovano, se mai domani quella
bestia capitasse alla su' uccelliera... mi raccomando a lei
signorìa... Riconoscere lo deve riconoscere di certo anche
lei dall'ugnòlo che gli manca, se ne ricorda? qui alla zampa
sinistra... ma per carità...».
«Non dubitate, Vestro: ma ricordatevi che domattina presto
abbiamo bisogno di voi.»
«Non mancherò, non dubiti. Felice notte,
signorìa.»
«Felice notte.»
«Buon riposo.»
«Buona notte, Silvestro.»
«Signor Canonico, buon riposo.»
«Buona notte.»
I preti sfilarono chiòtti chiòtti al buio rasente al
muro, e Vestro corse a dare le intese a tutti i tenditori del
vicinato.
Ciuciante, battendo il tempo col martello sopra un tomaio, cantava a
gargàna spiegata la vecchia aria:
Né lingua né becco,
né gola non ha...
Povero merlo! come farà a
canta'?
«Nulla, Filandro stamattina?», domandava il Piovano
entrando groppon gropponi nel capanno dell'uccelliera.
«Non si vede nulla, signor padrone. Du' stipaiole uniche, e
c'è un merlo impaniato che andavo a pigliarlo ora.»
«Giurammio baccaccio! o dunque come si rimedia?»
«Che cosa?»
«Si resta corti coll'arrosto!»
«Che vòl che gli dica? gliel'allunghi con un po' di
maiale.»
«L'ho bell'e fatto prendere, che tu sia benedetto! Ma se non
gli do almeno un par di tordi e se' uccellini a testa a que' ventri
di lupo, son capaci d'andar a dire che non si son levati la
fame.»
«Mah! faccia lei, signorìa.»
«Va' a pigliare il merlo, lesto...»
«Signor padrone!»
«Che c'è?»
«Eppure mi pare... Dio onnipotente! ma dica, le
combinazioni!... guardi quest'ugnòlo! eppoi è quasi
agevole! Figuriamoci la contentezza di Vestro quando gli
dirò...»
«Dàmmi qua.»
«Tenga: ma badi... O che lo schiaccia? No!.. ecco o
perché?... lei signorìa fa celia, eh... Dio signore,
non s'è stato sugo!»
Il merlo, buttato in un cantuccio del capanno, fece un par di
capriole sbatacchiando le ali, aprì la coda a ventaglio, la
tòrse lentamente di qua e di là, tremò,
spalancò il becco, lo richiuse e s'allungò stecchito
accanto alle due stipaiole.
Vestro ha già sonato cinque volte la campana grossa,
perché Filandro è alla tesa; ha già servito
quattro messe e ora serve la quinta. Ma si vede chiaro che
quell'uomo oggi ha qualche cosa per la testa, perché non la
serve bene come gli altri giorni. Ha sbagliato un par di volte, e
dianzi ha fatto degli ammicchi a Perzillo, il tenditore del Palazzi,
che era laggiù in fondo dalla piletta. Ora fa lo stesso garbo
al Tentoni. E il Tentoni? Ha scosso il capo come per dirgli di no.
Ma!.. chi ne capisce nulla?
«Giurammio baccaccio! o quante volte le devo dire io le cose?
T'ho detto che te e Filandro dovete servire a tavola, e lo Scopetani
non deve uscire di cucina! L'hai capita, sì o no?»
«Sì, signore: l'ho capita. Ma come fa quell'omo solo a
bastare a tutto?»
«Non c'è nessuno che gli possa dare una mano?»
«Si deve dire a Vestro?»
«Dillo anche al diavolo, ma spicciati. La minestra è
cotta?»
«Fra cinque minuti li mando a tavola.»
«Dunque via!»
Questo dialogo accadeva in sagrestia fra la serva e il Piovano, il
quale, insieme col Canonico e con altri due preti spiccioli si
spogliava, finita la messa cantata.
«Prosit, signor Piovano.»
«Grazie.»
«Signor Piovano, signori, prosit!»
«Grazie.»
«Grazie.»
I contadini benaffetti uscivano di chiesa passando attraverso alla
sagrestia dalla porticina della canonica, dalla quale, ogni volta
che l'aprivano, sbucava una nuvolata di fumo di fritto a mescolarsi
con quello dell'incenso; e tra la nebbia grassa si vedeva Vestro
accerito com'un gambero, con un gran grembiulone bianco, un tegamino
d'olio e una penna di falco in mano che, mogio mogio, ungeva
l'arrosto. Teneva fissi gli occhi allo spiede, e i suoi pensieri
intanto giravano anch'essi lenti e malinconici, quando gli parve...
«Ah! che imbecille che sono!..» il girarrosto andava, e
le zampe degli uccelli si voltarono tremolando e sfrigolando dalla
parte del fuoco. Ma ricomparvero presto nere e intirizzite a turbare
l'animo del povero Vestro il quale... «Signore Dio»,
disse, «tenetemi le vostre sante mani in capo, se no mi
rovino!» Détte una lunga fregata con la penna e si
abbassò col viso per osservar meglio... Ma il girarrosto
andava, e i buzzi dei frolli s'erano già tolti alla sua
vista, seminando unto e budella sui tizzi che fiammeggiavano
fumanti. Passarono i petti, passarono i capi, passarono le groppe
gialle, ripassarono i - tac - il girarrosto si fermò.
Filandro che in quel momento rientrava in cucina carico di scodelle
vuote, quando vide il girarrosto fermo e Vestro che non alitava, con
tanto d'occhi fuori, abbassato sullo spiede:
«È mi garba davvero cotesto lavoro!», disse a
Vestro. «Ricaricatelo, e subito, se no vi brucia tutto da una
parte.»
Vestro per tutta risposta, gli si avventò al collo come una
pantera, e:
«Chi m'ha ammazzato il merlo?».
«Ah... ahi!»
«Chi me l'ha ammazzato? Dillo, dillo, dillo: se no ti strozzo,
per la dannazione dell'anima mia!»
«Io no permio... ahi!»
«Dunque chi?»
«Il signor Piovano: ma io... No, no, Vestro no, permio, lo
sciupate! Ma che siete impazzato? Smettete, via, troncherete ogni
cosa... E ora?... Uh! pover'a noi! pover'a noi! pover'a noi!»
Era passata una ventina di minuti dopo lo zampone, e l'arrosto non
veniva in tavola. I commensali tutti, compreso il benemerito signor
Canonico, cominciavano a impensierirsi seriamente per quel famoso
cantuccino dello stomaco lasciato appositamente per il tordo. Per
fortuna a divagarli fu intavolata in tempo una disputa animatissima
sulla non ancora ben definita questione: «Se le anime dei
dannati, intervenendo nella valle di Giosafat, continueranno a
soffrire ossivvero avranno, come opinano i più, una breve
tregua ai loro tormenti durante il supremo giudizio», nella
quale il canonico Sinigaglia, mi dicono, disse delle cose
bellissime... ma l'arrosto non veniva.
Il Piovano non era soltanto impaziente pel ritardo, ma siccome gli
era parso d'aver sentito poco avanti un certo fracasso in cucina...
«Ma insomma, dico io, che siete cascati morti tutti di
costà?», gridò finalmente, picchiando a mano
aperta una gran botta sulla tavola.
«Giurammio baccaccio! ora passa la parte!»
Filandro si affacciò tutto arruffato e spaurito a far cenno
al Piovano che andasse di là.
«Con permesso...»
«Faccia, faccia pure.»
E andò di là sbuffando e reggendosi le brache
sbottonate che non gli vollero arrivare, quantunque dopo la lombata
cogli spinaci avesse ammollato le serre fino all'ultimo punto.
Chi capitasse oggi nella merceria di Vestro troverebbe parecchi
cambiamenti, come ne troverebbe anche nell'indole e nelle abitudini
del cattolico merciaio.
Sulla mensola di legno che sosteneva il tabernacolo dell'Immacolata
Concezione c'è ora un busto di Garibaldi, di gesso colorato;
e i due mazzi di fiori secchi, uno di qua e uno di là, sono
sostituiti da due bandierine rosse ritagliate dal baldacchino del
tabernacolo.
La vecchia stampa dell'Arcangelo San Michele che aveva in mano
quello spadone lungo lungo di lingue di fuoco, ha ceduto il posto a
una cattiva litografia di Ugo Bassi, anche quella colorata; e il
palmizio della mostra e le quattro rappe d'olivo benedetto che erano
sulla vetrata, allo scaffale de' bottoni, a quello di faccia e
sull'uscio che mette nell'interno della casa, sono sparite. Del
ritratto di Leone XIII non se n'è saputo più nulla.
Quando le campane della Pieve suonano a messa, quando passa la
comunione, se una folata di vento porta fino alle sue orecchie il
suono dell'organo o le voci dei già suoi fratelli della
compagnia che cantano a coro, la faccia di Vestro si turba e la sua
bocca si atteggia ad un sorriso beffardo e quasi feroce, il quale,
qualche volta, a poco a poco si cangia prendendo un'espressione
dolorosa di profonda malinconia.
Ciuciante, con tre o quattro amici suoi, viene a veglia da Vestro
quando Vestro non va da lui. Stanno allegri che è un gusto, e
per il 20 settembre hanno fissato una cena e un gran bandierone da
mettersi fuori la mattina.
Il Cappellano è un pezzo che non si vede, ed anche il Piovano
ha dovuto finalmente proibirsi di passare davanti alla merceria,
perché due volte che s'è provato a farlo gli è
costato una spietata amarezza all'anima il vedere Vestro che correva
subito a prendere sulle ginocchia il figliolo minore di quel
birbone, e gli domandava ad alta voce, perché lo sentisse:
«Su, su, Palestro, diglielo a Tato: chi ci sta
lassù?». E il figliolo di Ciuciante, una creaturina di
tre anni... Basta: Dio gliela perdoni, perché questa è
grossa davvero!
Tornan di Maremma
In una botteguccia d'un povero casolare alle falde della montagna
stavano due pastori attempati oltre la cinquantina, i quali, appena
che fui entrato, attirarono tutta la mia attenzione a motivo di una
certa loro aria d'impazienza e di sgomento, per la quale pareva non
potessero trovare fermezza. Si asciugavano il sudore dalla faccia
senza che fosse caldo, sospiravano forte, e barattando fra loro
occhiate dolorose e pochi monosillabi, non levavano un momento gli
occhi dalla vetrata per guardare attenti sulla via che per quattro
buoni tiri di schioppo si stendeva bianca e polverosa davanti alla
porta.
«Voi vorrete bere, eh giovanotto?», mi domandò la
padrona, vedendomi sedere in disparte a un tavolino di legno tinto.
«Mangerei anche un boccone, Verdiana, se ci avete qualcosa di
buono da darmi.»
«E sa», disse dopo avermi un po' osservato, «mi
scusi tanto perché proprio non l'avevo raffigurato. Che fa?
sta bene? o la su' famiglia è fiera?»
«Tutti bene: grazie. E voi?»
«Sissignore, mi contento. Quando deve andar male, vada sempre
così. O con chi si discorreva di lei l'altro giorno?... Ah!
ci passò quello delle strade che viene a contare i monti de'
sassi.... sarebbe l'ingegnere? Mi domandò se c'era più
stato, e io gli dissi di no. Se vole che gli affrittelli dell'ova,
si fa in un momento; se no, gli posso dare un po' di cacio fresco,
ma proprio bono. Non ci ho altro.»
«Tre uova pochissimo cotte, e subito.»
«Sissignore.» E si avviò per andarmele a
preparare. Ma quando ebbe fatto quattro passi, tornò indietro
per dirmi: «A proposito! ci sarebbe del baccalà che ho
lessato per quest'omini e per quelli che devon arrivare. Si deve
sentire se gliene voglion ricedere un po'?».
«No no; lasciate correre, Verdiana. Piuttosto, a proposito di
questi uomini, ditemene qualche cosa: chi sono? di dove vengono? chi
deve arrivare? che hanno, ché mi par di vederli tanto
affannati?»
«Hanno il mal del povero, glielo dico io cos'hanno; quel
malaccio che si tira dietro le sette piaghe peggio della carestia Se
lo crede, da un par d'ore che son qui m'hanno straziato il core che
mi par d'essere come quando s'è fatto un sognaccio colla
febbre. Proprio, a volte, si dà certi casi che, in
verità, anche a esser cristiani, ci sarebbe da dire certe
eresie da mettere a risico la salvazione dell'anima. Lo vede quello
appoggiato al banco, che si gratta la barba? Quello li è il
babbo d'un giovanotto che s'innamorò della figliola di
quell'altro. Son tutt'e due di per in su; il posto come si chiama
non gliel'ho domandato: ma dev'essere dimolto lontano perché
dianzi alle dieci quando mi sono arrivati erano stanchi che non ne
potevano più, e m'hanno detto che s'eran partiti a levata di
sole. Insomma, per fare il discorso breve, dice che que' ragazzi si
volevano sposare a tutti i costi, e non c'era, dice, neanche tanto
da comprare le panchette del letto. Allora lui, si direbbe il
giovanotto, che non s'era mai mosso da casa, perché pare che
avesse poca salute, fece un cor risoluto, s'attruppò con de'
pecorai di Fiumalbo, e se n'andò per le Maremme a tentar la
ventura anche lui. Ma ora, aspetti, gli dico che faccia sentire
anche a lei l'ultima lettera che gli ha scritto 'l su'
figliolo.»
«No, No! Dio ve ne guardi! Raccontate, raccontate,
Verdiana.»
«O l'òva non le vòle?»
«Non importa. Datemi un po' di cacio e tornate qui.»
Io, benché non sapessi ancora di che cosa si trattasse,
guardavo con crescente compassione que' due poveri vecchi
stralunati, pallidi e polverosi, i quali ora sedendo ora guardandomi
sconsolati, e non trovando mai posa in un luogo, pareva che
cercassero dove liberarsi da un pensiero tormentoso che li
perseguitasse.
«Che ore sono, signore?», mi domandò finalmente
uno dei vecchi.
«Sentite? suona mezzogiorno ora alla Pieve.»
Si levarono il cappello, dissero l'Angelus Domini appoggiandosi coi
gomiti ai regoli della vetrata, e, dopo essersi scambiati uno
sguardo meno desolato degli altri, tornarono a guardare attenti alla
via.
In quel momento la padrona mi pose in tavola una fetta di cacio
sopra un foglio giallo, un bicchiere e un fiasco di vino, e
sedé di nuovo di faccia a me, domandandomi dove s'era
rimasti. «Alla lettera che il giovanotto...»
«Ah! sissignore, e sentisse che bella lettera! Quello, secondo
me, dev'essere un giovanotto che deve aver letto di molto,
perché... Ma, aspetti, gli domando se gliela vòl far
legg...»
«No, no! v'ho detto di no.»
«Insomma, una lettera gli dico!.., che, a male agguagliare,
dice così: Dice che hanno fatto bene a mandargli a dire della
malattia della ragazza; che in quanto a restar butterata nel viso
non se ne dessero pena, ché a lui non gliene importava nulla,
purché la su' ragazza fosse restata sempre della medesima
idea di volergli bene; che lui era fiero; che la Maremma, grazie a
Dio, gli era andata bene, e che intanto gli mandava una ventina di
lire per le prime spese. Eppoi tant'altre cose, eppo' da ultimo dice
che il dì otto, che sarebbe oggi, ritornava, e che mandava un
bacio a tutti, e anche alla su' Giuditta. Eppoi, prima di finire,
gli dice che in caso d'una disgrazia gliel'hann'a mandare scritto
subito, perché lui a casa non ci sarebbe più
ritornato.»
I vecchi s'eran fermati a sedere, e ci guardavano fissi, a bocca
aperta.
«Dite più adagio, Verdiana, perché vi stanno a
sentire.»
«Eh, povera gente! chi sa dov'hanno la testa!», mi
rispose la padrona, e continuò: «Il su' babbo, del
giovanotto, dice che gli rispose subito la settimana passata che
l'aspettavano a gloria, e che la ragazza era addirittura fuori di
pericolo».
«Eppoi?»
«Eppoi per fare il discorso breve, la ragazza cominciò
a peggiorare appena andato via il postino; la sera, peggio; la
mattina dopo, peggio che mai, e ieri sera, per fare un discorso
solo, rese l'anima a Dio, e a quest'ora è per la strada che
la portano al camposanto.»
«O mio Dio, mio Dio, pigliate anche me, non ne posso
più, non ne posso più!» Così dicendo, il
babbo della ragazza, che aveva sentito le ultime parole del
racconto, si buttò attraverso alla tavola già
apparecchiata per loro, dando in un largo scoppio di pianto e
lamentandosi con voce rantolosa: «Ah! ah! ah!».
Detti un'occhiata di rimprovero alla padrona e mi alzai
all'improvviso per andare da lui; ma tornai subito al mio posto,
perso da un senso di rispetto per la santa disperazione di
quell'uomo.
Il suo compagno gli si avvicinò, gli pose le mani sulle
spalle e si piegò su lui per dirgli qualche parola di
consolazione; ma, il pianto gli serrava la gola. E allora guardava
noi e accennava il suo compagno, e si contorceva e si mordeva le
labbra con un'espressione ora di stupido dolore, ora di rabbia
feroce.
Finalmente fece un cor risoluto: si strisciò con una mano la
barba, scosse la testa e, voltosi al suo compagno, gli disse con
voce ferma e sonora:
«Animo, Marcello; fatevi coraggio, via, fatevi...».
Ma non poté continuare, ché singhiozzando si
buttò sulle spalle dell'amico a lamentarsi: «Dio ci
vedeva nel core, non ci doveva gastigare così».
«Che mondo, eh, Verdiana?», dissi sbacchiando il
cappello e il pugno sulla tavola.
«Che vòl che gli dica? Ho cinquant'anni sonati e a un
affare a questa maniera non mi c'ero ancora ritrovata.»
Il vecchio, sentendo come io partecipassi al loro dolore, corse da
me; e quasi che io solo fossi stato buono di rendergli la pace, mi
si raccomandò, stringendomi forte la mano fra i grossi calli
delle sue, che non l'abbandonassi, per carità; che
l'assistessi, per l'amor di Dio.
«Figuratevi, amico mio! Ma che posso fare per voi?»
«Non ci abbandoni. Non si voleva neanche venire. Ma quelle
donne non c'è stato versi di persuaderle; ci hanno voluto
mandare per forza incontro a quel ragazzo per vedere di prepararlo,
che se ne facesse una ragione...»
«Sta tutto bene. Ma che gli devo dire io meglio di voi che
siete suo padre?»
«Non ci importa, gli dica quello che vòle, lei
signorìa gli dirà sempre meglio di noi che siamo du'
poveri ignoranti. Mi faccia la carità, signore, perché
io, ormai lo sento, appena lo vedo mi manca il core e mi tradisco.
Mi prometta di non lasciarci soli, me lo prometta; se no, quel
ragazzo mi fa qualche pazzia. Eppoi, ci comandi, e da poveri che
siamo c'ingegneremo di ricompensare la su' carità.»
«Mi tratterrò, via. Ma ora datevi pace e bevete un
bicchier di vino.»
«Non potrei... No, in coscienza, non potrei... no, lo
ringrazio, non lo bevo davvero.»
«O il vostro compagno?»
«Ora s'è dato un po' di pace; lasciamolo stare.»
«Come volete.»
Il vecchio tornò adagio adagio dal suo compagno e tutti e due
si misero di nuovo a guardare silenziosi in fondo alla via.
«Non lo finisce il cacio?», mi domandò la
padrona.
«Non ho più fame.»
«Beve più?»
«No; portate via ogni cosa; ho finito.»
Accesi la pipa e mi misi in fondo alla bottega seduto a guardare di
sopra alle spalle dei vecchi la campagna allegra e gli alberi
sottili della via che tremolanti alla brezza del marino lasciavano
il loro cotone, il quale vagando intorno per l'aria, cadeva fra gli
olivi bianco, lento e silenzioso come la neve. Mi perdevo dietro
alle mie fantasticherie malinconiche, quando: «Il cartello di
sull'uscio non l'ho mica fatto murare ancora sa?» mi venne a
dire a bassa voce la padrona.
«Che cartello?»
«O non si ricorda che l'altra volta ci rise tanto e mi disse
che era pieno di spropositi?»
«Ah! sì, sì.»
«Aveva ragione, sa? Un giorno il figliolo dello Scoti, quello
che va a scuola dal Piovano, che come lui, dice, per quel che sia la
rattenitiva d'imparare le cose, non ce ne pò l'esser altri,
ci stette quasi un'ora per ricopiarlo tal quale; eppoi, dopo, fra
lui e il signor Cappellano ci hanno studiato tanto e m'hanno detto
che lo sbaglio c'era sicuro, perché dice che ci mancava l'i
dove si diceva generi... Di che ride?»
«Io?!»
«Credevo... sa, a volte... Dunque anche lei mi dice che ora
sta bene?»
«Divinamente. E non lo fate toccar più, se no ve lo
sciupano.»
«E allora, sissignore, vòl dire che quando torna
Cecchino legnaiolo glielo fo accomodare, si direbbe, in questa
conformità.» E tirò fuori di seno la copia
corretta del cartello per farmela vedere:
Pane vino ligori
e caffè d'altri gieneri
«Non torce un pelo!»
Era passata una ventina di minuti, quando in fondo alla strada
comparve un cane bianco da pastori. I vecchi si alzarono con impeto
e si misero a guardar bene, facendosi ombra agli occhi con la mano.
Ma il cane, dopo aver dato una nasata all'aria, tornò
indietro.
«È ci sono, sapete?» disse la padrona ch'era
andata a guardare dalla finestra di cucina. «Non li sentite i
campanacci delle pecore?»
«Sta'! sono loro davvero, Gian Luca,» disse il babbo
della ragazza. «Animo, fatemi core, e andiamogli
incontro.»
Gian Luca era diventato bianco come un panno lavato. S'alzò
vacillando e, appoggiandosi al braccio dell'amico, s'avviò
incontro al su' giovinotto. Io non mi mossi.
Già da qualche minuto avevo perso di vista i due vecchi alla
svoltata della via, quando vidi riapparire Gian Luca solo, che
correva in su a balzelloni, gesticolando colle mani all'aria come un
demente. E dietro a lui subito l'altro vecchio che si affaticava a
seguitarlo, e smaniante lo chiamava senza essere ascoltato.
«Che sarà stato, Verdiana?»
«Vergine santissima! che sarà stato?»
Il vecchio passò davanti alla bottega... «Gian Luca!
che v'è accaduto?»
«Ah! Ah!» disse trafelando dall'ambascia e dalla fatica,
e continuò la sua corsa affannosa, mandando un lamento ad
ogni sospiro.
«Ma che è accaduto, che è accaduto?»
Il vecchio Marcello me lo disse. Il giovinotto impaziente di
rivedere la sua ragazza, alla prima scorciatoia, che gli avrebbe
anticipato d'un par d'ore l'arrivo a casa, aveva lasciato i suoi
compagni, e via, come una capra, era sparito in un batter d'occhio
su pei viottoli della poggiata, distruggendo così le
previsioni amorose con tanta cura studiate da que' poveri vecchi e
dalle loro donne sconsolate, perché la barbara notizia non lo
colpisse atrocemente improvvisa.
Marcello seguitò la sua corsa dietro all'amico, raccomandosi
che l'aspettasse e chiamandolo a nome inutilmente.
Passarono le pecore quasi a corsa, stimolate dalle grida e dalle
vergate degli uomini, i quali, sgomenti dell'accaduto, senza sapere
che nella bottega c'era un boccone preparato anche per loro,
tirarono innanzi mandando fischi e sassate alle pigre; passarono i
somari legati a fila per le cavezze, sballottando fra sacchi e
corbelli una donna e due ragazzi che li cavalcavano; passò il
nuvolo di polvere sollevato da questa truppa tumultuosa, si
allontanò adagio adagio il tintinnìo de' campanacci, e
dopo poco si perse per le forre del monte anche la voce di Marcello,
che sempre più fioca e dolente chiamava: «Gian Luca!
Gian Luca!»
La padrona, dando allora un'ultima occhiata dalla parte dei poggi:
«Povere creature!», esclamò. Poi volgendosi con
un lungo sospiro alla sua bottega: «E ora, di tutto quel
baccalà che me ne faccio?»
Lo spaccapietre
Quando il sole piomba infocato sulle groppe stridenti delle cicale,
e il ramarro, celere come l'ombra d'una rondine, attraversa a coda
ritta la via; o nel tempo che la bufera arriccia e spolvera all'aria
l'acqua delle grondaie ficcandoti nell'ossa il freddo e la noia, lo
spaccapietre è al suo posto. Un mazzo di frasche legate a
ventaglio in cima d'un palo lo difende dal sole nell'estate; un
povero ombrello rizzato fra due pietre e piegato dalla parte del
vento, lo ripara dalla pioggia nell'inverno.
Il barrocciaio che la mattina passa scacciando con una frasca i
tafani di sotto alla pancia del mulo trafelato, gli dà il
buon giorno; il contadino, tornando la sera fradicio e intirizzito
dai campi, gli augura la buona notte.
E all'ombra di quelle frasche o sotto il riparo di quell'ombrello,
seduto sopra una pietra bassa e quadrata, consuma le sue lunghe
giornate, finché la massa di macigni che la mattina stava
alla sua sinistra non è passata all'altra parte, ridotta dal
suo pesante martello in minuti frantumi di breccia acuta e
tagliente.
Allora egli è contento, perché ha guadagnato gli
ottanta centesimi che gli paga puntualmente l'accollatario del
mantenimento della via. Ma non sempre gli va così. Non
perché l'accollatario, che è un vero galantuomo, sia
capace di defraudarlo; ma perché molte sono le cause che
possono assottigliargli il guadagno o allontanarlo affatto dal
lavoro. Di frequente la pietra che ha da spezzare è troppo
forte, e il lavoro non gli comparisce; qualche volta gli si guasta
il martello, e perde tempo a riadattarlo; non di rado nell'inverno
il maltempo infuria così impetuoso che lo scaccia dal lavoro;
spesso, quando il sole d'agosto è troppo rovente, è
costretto a cercare d'un albero e quivi all'ombra riposarsi,
perché sente che le forze gli mancano; qualche altra volta,
col braccio tremante per la stanchezza, e questo accade più
spesso, cala il martello in falso e si percuote sul dito,
ammaccandoselo sempre dolorosamente, non di rado fino al sangue. E
in quel caso gli tocca a fasciarsi o a correre alla più
vicina fontana, se pure non deve abbandonare il lavoro,
perché lo spasimo non gli permette di continuare. E i
cinquanta e gli ottanta centesimi allora non vengono, e la fame si
ferma alla sua casa e lo veglia e l'assiste e non l'abbandona,
finché non l'ha ricondotto estenuato e pallido presso il
monte di pietre che da otto giorni l'aspetta lungo la via. E quella
sera mangerà; mangerà poco, perché poco
potrà lavorare; ma l'accollatario, che per fortuna è
un vero galantuomo, gli misurerà puntualmente il lavoro
fatto, e puntualmente gli darà i suoi venti o trenta
centesimi trascurando i rotti in più della misura,
perché lui a queste piccolezze non ci bada; ha trattato
sempre bene chi lavora, e se ne vanta.
Io ne conosco uno di questi splendidi esemplari di carne da lavoro.
Ah! ma questo che conosco io è stato sempre un signore, il
Creso degli spaccapietre, perché fino a sessant'anni sonati,
stomaco di cammello e muscoli di leone, ha guadagnato sempre il
massimo che può fruttare il suo lavoro, e la polenta gialla o
il pane bigio non sono mai spariti altro che per eccezione dalla sua
tavola.
E i suoi colleghi lo rammentano con ammirazione, e raccontano ai
loro amici attoniti come tutto l'inverno del '57 fu capace di
spezzare due metri cubi arditi di pietra ogni giorno che Dio metteva
in terra, senza mai fumare, senza bere un dito di vino e senza
ammalarsi.
Ma le sue mani paiono due pezzi informi di carne callosa, il suo
viso, screpolato piuttosto che solcato da rughe, pare un pezzo di
pane da cani, e i suoi occhi, dopo tanti anni di sole, di polvere e
d'umidità, sono contornati di rosso e gli lacrimano di
continuo nelle occhiaie infiammate, che la notte gli bruciano e non
gli dànno riposo. Ha le gambe torte e rigide dal lungo starsi
a sedere, la schiena fortemente curvata, il corpo intero di mummia,
lo spirito consumato dai dolori.
Se gli domandi delle sue sventure, egli ti agghiaccia col racconto
freddo e conciso che, tra un colpo e l'altro del suo martello, te ne
fa come di cose che debbano necessariamente accadere.
La sua figliola maritata partorì alla macchia dove era andata
a far legna, e fu trovata morta lei e la creatura; il genero, che
pareva tanto un buon giovane, scappò con una donnaccia e
finì per le prigioni dopo avergli lasciato un nipotino che
era la sua consolazione. Ma anche quello il Signore lo volle per
sé, perché si vede che non lo credeva degno di tanta
fortuna. Quando parla della figliola e del genero, non dà
segni di commozione; ma se rammenta il su' povero Gigino posa il
martello, si prende la testa fra le mani e, dondolandola come fa
l'orso nella gabbia, racconta la sua fine pietosa.
Aveva già cominciato a menarlo con sé a spezzare,
perché era un ragazzetto che per la fatica prometteva
dimolto, quando un giorno, povero Gigino! non potendo più
reggere dalla sete che lo tormentava dopo aver mangiato una salacca
senza lavare, entrò in un campo e s'arrampicò sopra un
ciliegio. Sopraggiunse il contadino gridando da lontano; il bambino
per scender presto, cadde, si fece male a una gamba, non poté
fuggire e fu mezzo massacrato dal contadino che lo raggiunse. Parte
per lo spavento, parte per le percosse, dopo quindici giorni gli
morì di convulsioni, che tutti non fecero altro che dire
«Peccato!», perché delle creature belle a quella
maniera non era tanto facile vederne.
Finito il racconto, rimane un momento fermo a pensare; poi ripiglia
il martello e continua il suo lavoro.
La sua donna è cieca da un occhio, e di quella disgrazia la
colpa l'ha tutta lui, perché, se ci avesse badato, non
sarebbe accaduta. Quando le gambe la reggevano, la mattina andava a
chiedere l'elemosina, e, se aveva fatto qualche tozzo di pane, verso
il mezzogiorno glielo portava dove era a spezzare e si fermava
lì a tenergli un po' di compagnia; e qualche volta, in tempo
che lui mangiava, si metteva lei a spezzare, tanto per non perder
lavoro. Una mattinaccia, in tempo che la su' donna svoltava la
pezzòla del pane, passò un signore in calesse che
buttò via un mozzicone di sigaro acceso, il quale andò
a cascare vicino al monte de' sassi. La donna si chinò per
raccattarlo e porgerlo al marito, e in quel tempo una scheggia
d'alberese la colpì nell'occhio e l'accecò senza
rimedio. Da quella mattina non è stata più lei: gli
dole sempre il capo, non si regge più ritta dalla debolezza e
non sa come curarsi, perché il dottore non gli ha ordinato
altro che carne e vino generoso. E ora passa le sue giornate
sull'uscio, seduta a chiedere la carità ai viandanti; ma da
che hanno fatto la strada ferrata non passa quasi più
nessuno, e spesso, dopo essersi accostata, mezza cieca, a chieder
l'elemosina a chi le viene incontro per chiederla a lei, vede andar
sotto il sole senza aver fatto né un centesimo né un
boccone di pane. Allora, s'accuccia per abitudine accanto al fuoco
spento, dove, aspettando il marito e dicendo la corona,
s'addormenta.
Un giorno che, meno brusco del solito, mi parlava delle sue miserie,
dei suoi bisogni e delle sue privazioni, gli domandai quasi
scherzando:
«Dimmi: se tu potessi in questo momento ottenere tutto quello
che ti paresse, che desidereresti?».
«Una fetta di pane bianco per darlo inzuppato alla mi' vecchia
che non ha più denti!»
Ma quando quest'uomo s'ammalerà, il medico, andando a suo
comodo dopo la terza chiamata, lo troverà agonizzante; il
prete invitato per carità a spicciarsi, vorrà finire
il suo desinare e lo troverà morto; il becchino, guardandogli
i piedi scalzi e il camicione topposo, gli reciterà la breve
orazione: «Accidenti a chi ti ci ha portato!».
Fiorella
Percorrendo il crine di quel monte che, staccandosi dall'Appennino a
Serravalle, va a perdersi con dolci declivi nelle strette gole della
Golfolina, presso Signa, l'alpinista discreto che non aspiri alle
pericolose glorie del camoscio, può incontrare i suoi
stupendi quadri, dei quali l'amica natura ha fatto tanto ricca e
malinconica la poesia dei nostri facili colli toscani.
La cima sulla quale sorge la torre di Sant'Alluccio è
certamente la più pittoresca del Monte Albano; e mi rincresce
che i nostri alpinisti l'abbiano dimenticata nel loro itinerario,
additando invece la prossima vetta di Pietra Marina, bellissima anco
quella, ma senza dubbio da posporsi alla mia preferita, quantunque
s'innalzi circa cento metri di più sul livello del mare.
La prima volta che giunsi lassù quasi mi si abbagliarono gli
occhi, e per qualche minuto, incantato dal maraviglioso spettacolo
che mi stava dinanzi, non seppi fare altro che guardare attonito in
giro, senza distinguere nulla di definito nel largo e verde
orizzonte, finché, quetato il primo stupore, potei scorgere
vicina a me una bionda fanciullina di circa dodici anni, vestita nel
suo povero costume di pecoraia, la quale, venendomi incontro con un
mazzolino di mammole, si fermò a due passi da me e, tenendo
gli occhi bassi per vergogna, mi disse:
«Le vòle?».
«Cara monelluccia mia, sicuro che le prendo! e ti
ringrazio», le dissi accarezzandole una gota. «Le hai
còlte tu?»
«Sissignore.»
«O per chi le avevi còlte?»
«Per lei.»
«Per me! O che mi conosci?»
«Nossignore.»
«E allora come mai t'è venuto questo bel
pensierino?»
Abbassò gli occhi sorridenti, e gingillandosi con una
còcca del grembiule, guardò verso un ciuffo di
càrpine poco discosto e rispose:
«Me l'ha detto lui!».
Mi volsi anch'io verso quella parte e vidi la faccia vispa d'un
ragazzetto che appariva tra le frasche, il quale, di sotto al suo
cappellaccio di lana bianca, mi sorrideva timido e malizioso.
La fanciullina, quando vide scoperto il suo compagno, lo
chiamò con queste parole:
«O di che ti vergogni, grullo? vieni fòri!».
Il ragazzetto si accostò a noi adagio adagio, tenendo il
cappello in mano e masticando un ramoscello di ginestra.
«O che cosa fate quassù soli soli, monelli che non
siete altro, rimpiattati nei ciuffi di càrpine?», dissi
loro in tono tra il serio e il burlesco.
Si guardarono in viso e dettero in uno scoppio di risa.
«Ah! ridete anche?»
Un'altra risata più sonora della prima.
«Ora t'insegnerò io a ridere in faccia alle persone per
bene, pezzo di sbarazzino!», e così dicendo mi misi a
correre dietro al ragazzetto che scappò spaurito, saltando
fra le scope come un capriolo e gridando:
«Tanto che non mi pigliate mica!». Né si
fermò finché non mi vide cessare di rincorrerlo.
Quando tornai vicino alla bambina, la trovai che piangeva.
«Tu piangi!?», le dissi. «O non vedi,
giuccherella, che faccio il chiasso? Ma che credevi davvero che gli
volessi far del male? Andiamo, andiamo, via; sta' zitta e dimmi
piuttosto come ti chiami.»
«Fiorè...ella.»
«Su, su, povera Fiorelluccia mia, sii bona, e con questi
comprati i brigidini domenica, quando anderai alla messa. Dimmi: o
lui come si chiama?»
«Pipetta.»
«Pipetta è il soprannome: io domandavo del nome:
com'è il suo nome?»
«O che lo so? Lo chiaman tutti Pipetta.»
E sollevò gli occhi di lacrime e rasserenati.
«Ah! tu ridi? Dunque s'è fatto la pace!»
«Sì.»
«O brava! Ora si che mi piacciono i tuoi belli occhioni
lustri! Animo Pipetta!», dissi al ragazzo, «noi
s'è fatto la pace; se la vuoi fare anche tu, ritorna qua e ti
darò da comprare i brigidini anche a te, se vorrai farmi un
piccolo favore.»
L'idea del brigidino l'addomesticò subito, e venne correndo.
«Sai punte fonti qui vicine?»
«Sissignore; ce n'è una lì sotto subito, e
com'è bona!»
«Tieni, empi questa barchettina di cuoio e riportamela.»
Pipetta, tutto soddisfatto per la fiducia, a salti, a sbalzelloni
andò per l'acqua correndo; e fece in seguito parecchi di quei
viaggi e molto allegramente, perché il mastice d'una
fiaschetta che tenevo a tracolla, buttato nell'acqua che diventava
turchiniccia, piacque tanto ai miei nuovi e piccoli amici che non
cessarono di chiedermene e di beverne con ghiottoneria fanciullesca
finché non fu finito.
Ci mettemmo insieme a sedere sull'erba e dopo poco ci fu scambio tra
noi della più franca e cordiale confidenza. Cantarono
stornelli con le loro voci argentine; m'additarono giù
davanti Firenze, Prato e Pistoia, distinte come gruppi più
folti di pratoline in mezzo ad un'ampia prateria, e dietro alle
spalle il mare lontano, domandandomi se fosse vero che era tanto
più grande delle padulette del Poggio a Caiano. Mi additarono
quindi gli Appennini sui quali Pipetta era nato, e giù in
basso le casucce dove ora abitavano, sprofondate nell'ombra d'una
stretta forra, presso alle quali un molino lavorava mandando fino a
noi il fresco rumore del suo ritrécine.
A Pipetta mi toccò promettere che nel settembre sarei tornato
a trovarlo cacciando, e lui mi disse che sapeva tante brigate di
starne e che me le avrebbe insegnate. Fiorella mi disse che c'erano
tante lepri e tante volpi. Poco dopo, quando si sentì sonare
la campana delle ventiquattro a Bacchereto, i miei amici mi
lasciarono in gran fretta correndo giù per le balze del
monte, ed io non mi volli muovere finché non persi nella
lontananza i fischi e le grida da loro mandate per raccogliere le
pecore disperse giù per le pendici erbose della selva.
«Sono contenti, poveri ragazzi!», pensai tra me dando
un'ultima occhiata al tetto verdastro delle loro casette accucciate
fra gli ontani. «Sono felici!» E ripetendomi in mente
queste parole, me ne tornai passo passo a casa conversando
lietamente con l'amico Ciacco, che accortosi del mio buonumore.
dimenticò affatto la sua gravità di bracco reale e,
finché fu giorno, non fece altro per tutta la strada che
puntar lucertole e guardare festoso a me e alle lodole che
frullavano trillando dai campi di lupinella lungo la via.
Le promesse fatte furono puntualmente mantenute da ambedue le parti,
e presi presto l'abitudine d'andare a caccia in quei luoghi, dove mi
attirava la relativa abbondanza di selvaggina e la simpatia di que'
due spensierati monelli.
Ogni volta che mi scorgevano da lontano mi correvano incontro. Il
buon Pipetta m'insegnava le brigate di starne e me le badava in
tempo che le cacciavo, e Fiorella, tutta contenta, restava presso a
qualche fonte a disporre le pietre per sederci a merenda e a
preparare il fuoco per arrostire le castagne.
Le mie visite ai giovani amici erano frequenti nell'autunno, ma
raramente nelle altre stagioni io li vedevo o avevo notizie di loro;
tantoché gli anni passarono rapidi, e presto i due monelli si
fecero due bellissimi giovani svegli e robusti. D'un altro fatto
m'accorsi anche col tempo. Il germe d'un amore selvaggio, nato e
sviluppato in quelle solitudini dove tale passione si manifesta in
tutti gli esseri con le forme del dolore, dalla lodola che sospesa
come un punto d'oro nelle alte regioni dell'aria canta il suo trio
mattutino, alla passera solitaria che si lamenta nel cavo d'una
rupe, aveva dato ai loro occhi una tinta d'ineffabile malinconia. I
loro canti allegri erano cessati; al mio arrivo non mi correvano
più incontro festosi, e il più delle volte li
sorprendevo seduti a qualche distanza fra loro, immobili e
taciturni.
«Fiorella, tu sei innamorata!», le dissi una sera che
inutilmente si sforzava di nascondermi il suo turbamento nel veder
tardare il ritorno del suo amico da un prossimo casolare. Si fece
rossa come un fiore di melagrano e corse a cercare un capretto
smarrito che si sentiva belare in lontananza.
Una mattina d'agosto, mentre mi riposavo sotto un leccio, Pipetta mi
sedé accanto e prendendomi una mano nelle sue che tremavano,
mi confessò che era innamorato di Fiorella, e mi
domandò se avrebbe fatto bene a sposarla.
«Se ti senti la volontà e la forza di provvedere ai
bisogni d'una famiglia», gli dissi, «devi farlo; e farai
bene, perché Fiorella è una buona ragazza, ti vuol
bene, e... e Fiorella non può essere sposa d'altri... Tu
m'hai capito!... E nelle vostre famiglie sono contenti?»
«Se sono contenti? anche troppo. Solamente, quelli di lei
m'hanno fatto sapere che se non compro altre venticinque pecore, non
me la dànno.»
«Se il male sta tutto qui», dissi a mezza voce,
«si rimedierà.»
A queste parole Pipetta parve che mi desse un abbraccio con gli
occhi. Stette silenzioso qualche momento, quindi riprese:
«C'è anche un altro inciampo... e grosso
dimolto!».
«Quale?», domandai.
«Io sono di leva. Fiorella lo sa; ma non sa che ho tirato su
basso e che in questi giorni mi deve arrivare il foglio della
visita. Non so chi sia stato, ma gli hanno anche detto che a
primavera ci sarà la guerra di positivo...»
«Non è certa, amico mio», dissi interrompendolo.
«No, no; lei lo sa meglio di me che ci sarà di sicuro,
e con me è inutile che dica di no, perché io ormai mi
ci son preparato... Ma quella ragazza?! Senta, l'altra sera, che
cosa mi fa. Mi prende per la mano, e senza aprir bocca, mi mena sul
muro del bottaccio: e quando si fu lì, mi guardò e
mandò un sospiro. "E ora?", dico. Dice lei: "La vedi
quell'acqua? Se ti portano via e ti mandano alla guerra, quando
tornerai cercami laggiù sotto". E si chetò e non disse
altro per tutta la sera.»
Il nostro colloquio fu interrotto dalla voce di Fiorella che dal
poggio di faccia chiamava: «O Pipettaaa!».
«Che vòi?»
«Corri subito a casa, c'è chi ti vòle.»
Pipetta s'allontanò frettoloso ed io andai verso la ragazza.
La trovai che piangeva; ma questa volta il suo pianto era diverso da
quello passeggero che le avevo veduto versare da piccola nello
scoperto della Torre. Cercai di calmarla, ma per qualche minuto non
mi fu possibile. Le dissi qualche parola di conforto; ma di che
dovevo io confortarla? La rimproverai dolcemente: non mi dette
ascolto. Le sedei accanto e aspettai. A poco a poco parve calmarsi e
io le posai dolcemente una mano sulla testa; ma la mia carezza non
fece altro che farle raddoppiare i singhiozzi più disperati
che mai.
«Ma che cos'hai, per l'amore del cielo, che cos'hai? Eppure tu
mi conosci; tu sai tutta l'amicizia che ho per voi due, tutto il
bene che vi ho sempre voluto...» Si buttò bocconi per
terra, gridando:
«O Dio, o Dio! per carità ci soccorra, ci soccorra per
carità, mi raccomando a lei».
«Ma che è stato? dimmi qualche cosa.»
«Me lo rubano, me lo rubano, me lo portano via!» E non
disse altro.
Restò lì come tramortita a tremare e a lamentarsi.
«Me lo portano via, me lo portano via!»
Io non sapevo che mi fare, solo a quel modo, senz'altra compagnia
che del cane, il quale ci saltava dintorno sgomento, abbaiando e
leccando ora la mia faccia, ora quella della ragazza; quando
riconobbi la voce di Fiorancino boscaiolo, che da lontano ci
gridava:
«Ehi di costassù: o che è stato?».
«Fiorancino, mi raccomando a te», risposi,
«è venuto male a Fiorella. Corri subito quassù o
va' a casa sua ché venga qualcuno di corsa; ma corri di
volo!»
Cinque minuti dopo il povero Fiorancino, tutto ansante arrivò
da noi. Appena vide la ragazza in quello stato brontolò,
gettandomi un'occhiata sospettosa:
«Dio del cielo! o qui che è stato?!».
«Zitto, zitto», gli risposi risoluto, «ora
è tempo di fare e non di dire. Portiamola a casa e
laggiù lo sapremo. Vieni: tu reggila qui sotto e
andiamo.»
Fiorancino aveva una gran voglia di discorrere, e io punta.
Non gli risposi mai e stetti sempre attento a mettere i piedi in
sicuro giù per gli scoscesi viottoli della montagna.
Quando arrivammo al molino, Pipetta non c'era, perché era
corso, mi dissero, dal priore con un foglio in mano che poco fa era
stato portato da un donzello del comune, il quale aveva detto
qualche cosa di coscrizione.
Fiorella si riebbe dopo poco e si mostrò assai tranquilla; ma
in ogni modo volli che la mettessero a letto, perché mi parve
che avesse un po' di febbre. Dissi a quella gente che a mandare il
medico ci avrei pensato io, e me ne venni a casa.
Tornai il giorno dipoi e, con mia grata sorpresa, trovai Fiorella a
sedere sulla porta di casa che mi dette buon giorno sorridendo
mestamente. Mi raccontò che Pipetta era di leva e che fra
quattro giorni sarebbe andato a Samminiato alla visita e di
lì subito a Firenze in Fortezza da Basso, perché un
bel giovinotto come lui, disse, sarebbe stato buono di certo.
Tutta quella calma mi sorprese alquanto; ma non ne feci allora gran
caso. Mi rallegrai con lei d'averla trovata così ragionevole,
e cercai, sebbene con repugnanza, di farle credere che il suo
Pipetta sarebbe tornato presto, perché di guerra non se ne
parlava nemmeno. Le dissi che in fin dei conti tutto il male non
viene per nuocere, perché tutti e due erano un po' troppo
giovani; che qualche mese di separazione non avrebbe fatto che
accrescere il loro amore, e tante altre cose che io credei adatte ad
assicurare quella rassegnazione che pareva già avesse
nell'animo.
Essa mi prestò grande attenzione; parve grata alle mie parole
e mi pregò di accettare una ricotta fatta quella mattina da
lei, perché Pipetta non era bastato per correre dal prete al
sindaco, dal sindaco al dottore, e via discorrendo.
Sul far della sera, al momento di lasciarla, le dissi che per
qualche giorno non mi sarei fatto rivedere, perché un affare
di molta importanza mi chiamava a Livorno, dove mi sarei trattenuto
almeno una settimana. Mi disse che facessi un buon viaggio, e niente
altro. Ma quella sera mi allontanai occupato da tristi
presentimenti. «Dio non voglia!...»
Credevo di non dovermi trattenere a Livorno più d'una diecina
di giorni; ma per le lungaggini afose dei procuratori e degli
avvocati dovetti star là un mese e qualche giorno, tanto
sopraffatto dalle noie d'una lite, che durante tutto quel tempo
dimenticai perfino i miei disgraziati amici.
Ritornato a casa, nessuno di famiglia seppe darmene notizie,
perché non avevo mai parlato ad alcuno di quella avventura.
Di modo che sul far della sera, poche ore dopo il mio ritorno, ero
già in sella che galoppavo verso il monte. Quando passai
davanti alla casa del dottore, era alla finestra e mi chiamò.
«Oh dottore! buon giorno.»
«Buon giorno. Che va lassù?»
«Vado lassù.»
«Non ci vada.»
«Perché?»
«Dia retta a me, non ci vada.»
«Ma che è stato? È seguìto qualche
disgrazia? Non mi tenga in questa ansietà.»
«Abbia la pazienza di scendere e di passare un momento da me.
Giuseppe!», disse poi al suo servitore, «portagli il
cavallo nella stalla e buttagli un mannello di fieno.»
«La prego, dottore, mi dica presto quello che mi vuol dire,
perché, in verità, non mi posso trattenere.»
«S'accomodi.»
«No.»
«Vuol passare in salotto?»
«No, no.»
«Vedo che è sudato; si vuol prima rinfrescare?»
Bisognò che passassi in salotto, bisognò che
m'accomodassi, bisognò che mi rinfrescassi, e finalmente,
pagandolo così caro, mi riuscì a sapere quello che era
accaduto durante la mia assenza.
Il giovinotto andò alla visita, fu trovato bonissimo, e il
giorno dopo era in Fortezza vestito da recluta. Appena la ragazza ne
ebbe sentore, non disse nulla, non si lamentò, non pianse; ma
cominciò allora a dar da pensare seriamente per la sua
ragione, perché quel giorno stesso non ci fu modo di levarla
di sull'uscio di casa, dove stette fino alla sera, accovacciata a
far dei circoli nella polvere con un fuscello, senza chiedere
né da mangiare né da bere e dando nelle furie tutte le
volte che sua madre la pregava d'uscir di lì, perché
il sole non le bruciasse il cervello.
«Ma lei, dottore», dissi interrompendolo, «non
fece, non provò, non tentò nulla?»
«Fu provato tutto, si tentò ogni cosa; ma inutilmente.
Si scrisse al Comando, e ci risposero di no; si scrisse daccapo che
ci rimandassero quel ragazzo almeno per un giorno, e ci risposero
un'altra volta di no. Feci scrivere al priore; il signor Leopoldo
telegrafò alla Prefettura... insomma, dàgli, picchia e
mena, oggi a quindici me lo vedo comparire qui più morto che
vivo, che veniva da Firenze, e io, per vedere l'effetto
dell'incontro, volli accompagnarlo a casa.»
Appena la ragazza ci vide da lontano, si mise a guardarci fissa
fissa; poi, a un tratto, si alzò come una molla e corse in
casa per dare, ci parve, l'avviso del nostro arrivo; ma
ritornò fuori subito con una roncola in mano e
cominciò a correrci contro e s'avventò a Pipetta
urlando come una disperata: «Ammazzatelo! ammazzatelo!»,
ché se, per combinazione, non c'era lì Fiorancino che
mi dette una mano per tenerla, gli tirava alla testa e l'ammazzava
di certo, perché lui rimase lì come un masso e non si
sarebbe scansato.
«Ma dunque è pazza?!»
«Pur troppo! e, dolorosamente, non più furiosa,
perché, dopo quell'accesso, la sua alienazione ha preso una
forma...»
«Mi lasci andare, dottore.»
«No, no. Senta ora di lui...»
«Non m'importa, non m'importa, me lo dirà poi, me lo
dirà poi...»
E col dottore che mi correva dietro per fermarmi, corsi alla stalla,
saltai in groppa e via come il vento.
A mezza strada incontrai Fiorancino che da lontano mi fece cenno di
fermarmi. Rallentai un po' il galoppo e quando gli fui vicino:
«Ma eh?!», mi disse, «di lui poi non me lo sarei
ma' creduto».
«Che è stato?»
«O che non lo sa che quando riasciugarono il bottaccio del
molino?...»
«Affogato?!»
«Sissignore. Perché pare che invece di tornare a
Firenze, siccome andò via la sera tardi...»
Non lo lasciai finire, e mi allontanai spronando rabbiosamente la
mia povera bestia.
A pochi passi dal molino, il cavallo mi s'impennò come se
avesse avuto ombra e dette indietro sbuffando. La madre di Fiorella
uscì di casa gridando: «Me la pestate! me la
pestate!». Poi, quando m'ebbe riconosciuto: «Ah, che
è lei? ben tornato, signoria». Dette in un pianto
dirotto e mi accennò alla sua figliola accovacciata sul
ciglio della via che dondolando il capo cantava sommessa un'aria
malinconica con una voce che pareva lontana, lontana, lontana.
Scesi da cavallo e corsi da lei chiamandola per nome; ma non si
mosse nemmeno. Le sedei accanto, presi il suo capo fra le mie
braccia e cominciai a parlare così: «Fiorella! povera
Fiorella! son io. Non mi riconosci? Dimmelo che cosa ti senti: hai
male qui?» e le toccavo la testa. «O del povero Pipetta
te ne rammenti? Guarda, le desideravi tanto! t'ho portato le buccole
di corallo.»
Non si mosse. Ponendole una mano sotto al mento, le alzai dolcemente
la faccia. Mi fissò in viso i suoi occhi smarriti, si
chetò, parve che si provasse a muovere le labbra, ed aspettai
una risposta; ma invece mi respinse da sé adagio adagio, e si
lasciò ricadere la testa abbandonata sul petto. Mi voltai a
sua madre che singhiozzava in disparte:
«Maria, povera donna!», le dissi prendendole una mano.
«Ah! caro signore... guardi a che ci siamo ridotti!»
Il ritrécine del molino taceva, e nella quiete del tramonto
si sentivano su all'alto cantare le starne che dalle cime dei poggi
si chiamavano fra loro al riposo.
Sereno e nuvolo
Il primo sole del novembre si affaccia malinconico alle ultime cime
della montagna, già biancheggianti per la neve caduta di
fresco e, mandando i suoi languidi raggi attraverso ai rami brulli
dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile e
l'asta della bandiera fitta sulla vecchia torre del castello.
Qualche nuvola bianca sta fissa sui monti più lontani, uno
strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il villaggio dorme
ancora sotto un freddo e splendido sereno d'autunno.
I cacciatori sono già tutti partiti, dopo che Doro ha sonato
la campana dell'alba; vi è stato allora un breve segno di
vita, qualche latrato, qualche fischio, qualche colpo alle porte per
destare i compagni addormentati, eppoi deserto e silenzio turbato
soltanto ad intervalli dal fruscìo delle foglie secche dei
platani della piazzetta, che bisbigliano lievi lievi, menate in giro
sul lastrico da radi sbuffi di tramontana.
Ma stamani l'aspetto della piazzetta non è quello degli altri
giorni. Quintilio, per il solito, a quell'ora aveva già
aperto e spazzato la bottega; Graziano era già comparso in
maniche di camicia ad attaccar fuori dell'uscio il solito coscio di
vitella al solito gancio, e il barbiere, che viene tutte le mattine
a lavarsi il viso in mezzo di strada, aveva già mandato du'
altri accidenti al cane della signora Giuseppa, che appena aprono va
abitualmente a pisciargli sull'uscio. Le altre mattine a quell'ora
tutti i «buon giorno» erano stati scambiati, i
prognostici sul tempo erano stati fatti, e ciascuno aveva già
ripreso le sue stracche occupazioni fumando, bestemmiando e dicendo
male del prossimo fra uno sbadiglio e l'altro.
Ma stamani è silenzio. Dormono sempre per rimettere il sonno
perduto, perché dalla mezzanotte, quando sono stati destati
da quel casa del diavolo, nessuno fino alle tre ha potuto più
chiudere occhio.
Ecco come sta la faccenda. Da varî giorni v'erano state delle
cose brutte e che minacciavano di farsi anche peggiori, fra Pierone
e Cecco del Birindi. Ma ieri, che era domenica, ci entrò
finalmente di mezzo il Priore, e le cose furono appianate con
soddisfazione di tutti. Pierone dette parola a Cecco che ormai,
avendo tirato su basso e dovendo andar via chi sa per quanto tempo,
alla ragazza non ci avrebbe più pensato, e gli promise che
lui non avrebbe più messo difficoltà. Cecco lo voleva
abbracciare, ma Pierone si tirò indietro e non ne volle
sapere, dicendo che quelle eran ragazzate. Soltanto accettò
di trovarsi la sera a cena all'osteria di Giannaccio per bere il
bicchiere dell'addio e per fare du' salti di trescone, se fossero
venuti anche que' giovanotti di Vallicella con la chitarra e
l'organino.
Alle tre famiglie interessate nella faccenda parve di sognare e fu
per loro una giornata di vera baldoria. Polli e vino a cascare, e un
viavai continuo d'amici e di conoscenti a rallegrarsi e a bere, nel
tempo che le donne erano tutte sottosopra in cucina a friggere di
gran padellate di frittelle di riso, che appena portate di là
in larghi vassoi ricolmi sparivano prima d'aver finito il giro della
comitiva. La mamma di Chiarastella stette tutto il giorno a ridere,
a levar l'olio a' fiaschi e a piangere di consolazione. I vecchi
babbi poi non si lasciarono mai un momento; e anche al vespro, dove
andarono a braccetto, tutti e tre avvinati che era un desìo a
vederli, si misero accanto a berciare come calandre, per mostrare a
San Vitale martire, protettore della cura, la loro riconoscenza per
la grazia ricevuta.
Fu insomma un'allegrezza generale, non tanto per veder felice e
contento il povero Cecco e quella bona figliola della su' ragazza,
quanto per sapere che presto, se Dio vòle, si levava di
torno, e per un pezzo, quell'altro birbaccione, che anche
giovedì passato tirò una pedata, pezzo di figuro, al
su' vecchio, perché quel pover'uomo s'era azzardato a dirgli
che mettesse giudizio!
«Basta. Anche questa è fatta», diceva il Priore
compiacendosene, «e, per grazia di Dio, non ci si pensa
più.»
Que' giovanotti di Vallicella, che avevan risaputo l'affare, non
mancarono di comparire verso l'un'ora coi loro arnesi musicali; anzi
l'orchestra era più numerosa del solito, perché per la
strada avevan raccattato due altri compagni, uno con lo
scacciapensieri e l'altro col treppiede, che lo sonava che pareva
impossibile.
Andarono a prender Cecco a casa, e sonando allegramente
attraversarono spavaldi il paese, con gran sigaroni accesi e
cappelli sbertucciati, per andarsene all'osteria di Giannaccio, dove
trovarono anche Pierone che in compagnia di altri amici stava
sull'uscio ad aspettarli.
Fu lieto l'incontro delle due comitive: abbracci, evviva, strette di
mano cordialissime, e poi tutti a tavola, dove Giannaccio aveva
già preparato un catino di vermicelli al sugo e un diluvio di
braciole di maiale in gratella, che furono spolverate in un baleno
dalla chiassosa brigata. Finita la cena, comparvero le figliole di
Giannaccio per salutare la conversazione; alcuni della comitiva
andarono a far ragazze nelle case vicine; le tavole furono tutte
portate in corte, meno quella sulla quale montarono i sonatori, e
cominciò la festa.
Il vino lavorava; ma lavorava bene, perché tutti erano sempre
nel periodo della tenerezza; e giù, baci a iosa e strizzoni e
carezze e pizzicotti e risate da strapparsi la pancia. E la festa
non era soltanto dentro, perché con l'uscio di strada aperto
s'era formato lì davanti un capannello di gente del vicinato
e di contadini, sulle cui facce estatiche, illuminate dalle tre
candele di sego che Giannaccio aveva attaccato con de' chiodi alle
pareti, si rifletteva in boccacce, contorsioni e smanacciate il
movimento della stanza. Ed anche per loro erano risate da crepare
tutte le volte che una coppia delle più sfrenate, presa dal
capogiro, andava giù a rotoloni menando altre coppie nella
rovina a fare un monte di vestiti e di ciccia sudata fra le gore del
vino versato e gli ossi delle braciole seminati per la stanza.
Da un paio d'ore si deliziavano in quel baccano, quando una voce
propose d'andare a far la serenata sotto le finestre di
Chiarastella. La proposta fu accolta con urli di acclamazione, i
sonatori saltaron giù dalla tavola, e via, con un lume di
luna magnifico, a casa della ragazza.
Pierone, quando fu alla svoltata che menava a casa sua, voleva
andarsene, ma i compagni lo costrinsero a seguirli. Cecco che era
stato tanto allegro alla veglia, per la strada si cambiò a un
tratto, non fece più una parola e andò avanti solo,
col cappello sugli occhi e mordendosi i baffi distratto. Forse in
quel momento ciascuno si pentì dell'idea della serenata,
perché il silenzio si fece generale, ma nessuno ebbe il
coraggio di proporre di tornarsene indietro. Sarà quel che
sarà.
Chiarastella dopo le commozioni della giornata, stanca era andata a
letto prestissimo, e quando giunsero i sonatori sotto la finestra
della sua camera, dormiva. E forse sognava la sua felicità
allorché fu dolcemente svegliata dal suono degli strumenti.
Si mise in orecchi, ascoltò tremando la musica gradita,
finché, cessati i primi accordi, sentì bisbigliare e
riconobbe la voce di alcuni della comitiva che si davano la parola
per improvvisare ottave o rispetti e per trovarsi d'accordo col
passagallo. Si alzò allora sopra un gomito e stette
più attenta ad ascoltare.
«L'ottava.» «Lo stornello.» «Il
rispetto.» «Sì, sì, il rispetto.»
«Lo canti te?» «No, non sono in vena.»
«Allora, te!» «No, no!» «Sì,
sì, lui, lo canta lui!»
Vi fu una breve disputa, e finalmente toccò a Cecco a
cantare. Rimase qualche momento col capo basso a pensare,
alzò dopo gli occhi al vaso di geranio che era sulla finestra
della sua ragazza, e con voce da prima tremante ma poi sicura,
cantò:
Sulla finestra tua c'è nato un
fiore.
C'è nato un fior che non si
cambia mai...
E i sonatori dettero nel passagallo.
Verde la foglia speranza d'amore
E quando nacque, bella, tu lo sai...
Qui di nuovo il passagallo: ma Cecco l'interruppe e andò in
fondo ispirato:
E quando nacque lo sapesti, o bella,
C'innamorammo al lume d'una stella;
E quando morirà, speranza
cara,
La croce avanti e noi dentr'alla
bara.
Gli applausi furono pochi e stanchi, perché se il rispetto
era molto piaciuto, altrettanto aveva rattristato gli amici. E
già uno de' più accorti si preparava ad interrompere
con un allegro stornello il tono troppo malinconico che aveva preso
la serenata, quando la finestra fece spiraglio all'improvviso e
comparve una mano bianca che strappata una foglia di geranio, la
tirò sul gruppo dei giovanotti e disparve.
Tutte le braccia si stesero verso la foglia che calava lenta girando
per l'aria; ma, nella confusione, nessuno fu buono d'afferrarla.
Allora accadde una specie di zuffa e si buttarono tutti, fra manate
e spintoni, a cercare la foglia che era caduta per terra. Pierone
ebbe la sorte di trovarla. Cecco, che se n'avvide, diventato
pallido, come la morte, tentò di strappargliela: ma non
bastandogli la forza, si avventò carponi fra i piedi de'
compagni a mordergli a sangue la mano. La foglia l'ebbe Cecco, ma in
quel momento balenò sinistro il lampo d'un coltello.
«Ah! cane vigliacco! Chi è stato l'assassino che ha
tirato fòri il coltello?!»
«Nessuno!», gridò subito Cecco. «Era
l'anello, era l'anello!» E alzò nell'aria la destra,
nel cui indice luccicava un largo anello d'argento.
Pierone rimise in tasca il coltello e si allontanò
succhiandosi il sangue al morso della mano.
La serenata non andò più avanti. I sonatori tiraron
diritto per Vallicella, e gli altri tornarono verso il paese,
affrettando il passo senza scambiare una parola. Alla svoltata che
menava alla casa di Cecco si fermarono un momento per i saluti, e da
qualcuno fu detto d'accompagnarlo, ma Cecco non volle e lì si
lasciarono.
Appena solo, gli rincrebbe d'aver voluto fare troppo il bravo
rifiutando la compagnia degli amici, e se n'andò innanzi
adagio e circospetto, tenendosi in mezzo alla strada e guardandosi
ora alle spalle e ora spingendo avanti lo sguardo fra le siepi e
giù per la campagna lungo i filari degli olmi.
«Nessuno! meglio per me; meglio per tutti!»
L'orologio della torre sonò i tre quarti dell'undici, e
Cecco, ormai rassicurato, si fermò a guardare e a rimettere
il suo; poi tirò fuori la pipa, ci trinciò una
spuntatura, e:
«Corpo di Dio! ci siamo!».
Fece qualche passo avanti per accertarsi meglio:
«Non c'è dubbio!».
Si fece animo sbacchiando in terra la pipa, e con voce abbastanza
ferma:
«Chi c'è costà?», gridò.
«Fòri, fòri dall'ombra.»
Nessuna risposta; ma una figura d'uomo si staccò di dietro un
albero e venne a piantarsi in mezzo alla strada a gambe larghe e con
le braccia incrociate sul petto.
«Non mi far del male, Pierone; t'ho conosciuto; hai famiglia
anche te, non ci facciamo del male!»
E Pierone zitto e immobile.
«Non ci roviniamo, Pierone; pensaci; non mi ci mettere, fammi
la carità, non mi ci mettere al cimento. Pierone; le braccia
l'ho anch'io, e le tasche non l'ho vòte.»
Così dicendo, Cecco era andato sempre avanti nella fiducia di
poter placare il suo nemico; ma quando gli fu a una diecina di
passi, Pierone gli si avventò com'una bestia, menando
coltellate a morte.
Cecco sopraffatto cominciò a dare indietro tenendoselo
distante con pedate negli stinchi e colpi nello stomaco; ma non
c'era riparo, e ad ogni scarica si sentiva toccato come dal fuoco,
ora nelle mani, ora nelle braccia, dove il coltello di quel
furibondo lo poteva arrivare.
L'orrore del pericolo dette a Cecco il sangue freddo. Stette un
istante con l'occhio alla lama, prese il tempo e si avventò
con le due mani al polso di Pierone, che se lo sentì serrato
come in una morsa. Con la rapidità del gatto, Pierone corse
con la sinistra al coltello per continuare a dare con quella; ma se
la sentì abboccata da Cecco che in quello stato d'orgasmo
disperato gli affondava i denti nella carne fino all'osso. Pierone
si piegò su di lui e gli addentò l'orecchio.
Questi movimenti si successero con la rapidità del baleno e i
contendenti rimasero li zitti a contorcersi soffiando e mugolando
come bufali al laccio. Erano per cadere spossati, quando Cecco
lasciò andare improvvisamente la presa. Pierone fece
altrettanto per avventurarsi di nuovo; ma Cecco, agile come un
tigrotto, gli scivolò via e si dette a correre verso il
villaggio. Pierone lo raggiunse alle prime case e gli si
avventò più furibondo che mai.
Cecco, difendendosi alla peggio e rinculando sempre dentro al
caseggiato, incominciò allora a gridare aiuto con quella voce
squarciata che ti dice tutto e ti ficca il gelo nell'anima e subito
si vide qua e là comparir luce alle finestre, e poi lumi che
correvano incerti per le stanze, e ombre umane che si allungavano
fantastiche sulle case di faccia; ma nessuno ancora usciva nella via
e la lotta continuava feroce tra gli urli fuochi di Cecco e quelli
delle donne che spenzolate alle finestre gridavano:
«Assassini! correte! s'ammazzano! s'ammazzano!».
A un tratto s'udì un «Aah» di rabbia disperata;
uno dei contendenti cadde e l'altro si dette alla fuga fra le
imprecazioni degli uomini che incominciarono allora a sbucare mezzi
nudi dalle porte, armati di schioppi e di vanghe. Ma troppo tardi,
perché Graziano macellaro, che fu il primo a correre gridando
e scotendo all'aria la mannaia delle vitelle, quasi inciampò
nel corpo di Pierone, che disteso attraverso alla strada mandava
l'ultimo fiato.
Nessuno è comparso ancora sulla piazzetta. Su all'alto, dopo
la levata del sole, s'è messo a nevicare, il vento è
rinfrescato, e giù pei poggi si rincorrono le ombre delle
nuvole ad investire il villaggio che ora brilla al sole e ora rimane
bigio nella penombra, prendendo un'aria di freddo e di tristezza,
che s'intona perfettamente coll'aspetto della piazzetta in fondo
alla quale un cane della campagna passa arruffato dal vento e fiuta
sospettoso il terreno.
Passaggio memorabile
All'ordine del giorno c'erano anche queste tre proposte: «Una
gratificazione di cinquanta lire al medico pel servizio
straordinario prestato al tempo del colera; un sussidio di latte a
Ferdinando degl'Innocenti barrocciaio; e la consueta elargizione di
cento lire alla compagnia di Santo Stefano per i fuochi d'artifizio
nella ricorrenza della festa triennale del santo patrono». La
compagnia di Santo Stefano ebbe la consueta elargizione, ma il
medico e Nando barrocciaio dovettero per questa volta grattarsi il
capo e stare zitti.
Questa decisione del Consiglio comunale pare che a qualcuno piacesse
poco; ma, come di solito accade, il giorno dopo non se ne
parlò più. Chi aveva della bile, se l'era già
ingozzata; chi aveva delle ragioni, s'era sfogato a dirle, e i
più ormai guardavano quasi in cagnesco il dottore che aveva
dato di canaglia a tutti, e Nando, che dalla finestra, mentre
uscivano di Palazzo i consiglieri, s'era lasciato scappare di bocca
che, tanto, doveva andare a finire in legnate. E tutti facevano eco
al signor Girolamo sindaco, un già mercante d'olio
arricchito, ma sempre mercante più di quand'era mercante
d'olio, il quale, senza mai parlare direttamente del medico, calcava
molto la parola co-le-ra, accennava a dubbi gravi su un certo
medicamento, che era stato dato a tutti quelli che morirono, e
inveiva furibondo contro i ciarlatani. Di Nando diceva che tutti i
poveri non li fa il Signore, che ci doveva pensare per tempo e non
mettere al modo quella conigliolaia di mangiapani. Questo lo diceva
qua e là fra gli amici; in Consiglio aveva dimostrato con
cifre eloquenti che il Comune non poteva assolutamente fare spese
straordinarie, e sostenne che sarebbe stata una vera barbarie levare
anche un centesimo per uno di tasca ai contribuenti ormai aggravati,
povera gente, in un modo intollerabile.
Quest'ultima osservazione fu trovata giudiziosissima, e non ci
furono altro che i soliti quattro o sei birbaccioni che seguitarono
a brontolare. Il medico incominciò da quel giorno a guardare
nello Sperimentale se c'eran punte condotte vacanti, e Nando
fissò con un contadino un mezzo latte da scontarsi alla fine
di marzo in tante vetture di concio, se la creatura fosse campata.
Così fu sistemata ogni cosa, e la mattina dipoi non si
pensava ad altro che ad affrettare col desiderio il giorno della
festa, impensieriti che quella stagionaccia, se durava, l'avesse a
sciupare. Ed era, davvero, un freddo da crepare. Per la strada non
c'era anima viva, e tutti se ne stavano rintanati per le case e per
le botteghe ad aspettare che passasse quello strizzone di ghiacci,
perché proprio un freddo come quello, anche a detta de'
più vecchi, sarà stato trent'anni che non s'era fatto
sentire.
La solita vita d'uggia pareva già ricominciata stabilmente,
quand'ecco che in fondo alla strada comparisce, glorioso e
trionfante, questo famoso terzetto: un uomo, una donna e un
giovanotto, che arrivavano a passo di carica non si sa di dove. Lui
(si seppe dopo che si chiamava il signor Fabio), lui a destra, secco
allampanato, a testa ritta, col cappello di paglia, con una
valigetta di pelle scrostata in mano, vestito da capo a piedi di
tela chiara che gli sventolava da tutte le parti, pareva Zeffiro in
persona che tornasse dalle bagnature. A sinistra, il suo figliolo
Clementino, lungo anche lui come una pertica, anche lui mezzo nudo,
verde nel viso, con le spalle in capo e gli occhi incavati e lividi,
pareva il gran Turiferario dei sacerdoti d'Honan. Nel mezzo, la
signora Matilde, grassa, chionza, viscida come una pentola di sugna,
la quale con un tronchetto alla polacca, sfondato, nel piede destro,
e nell'altro una ciabatta, veniva avanti ponzando dietro alle
gambacce di quegli omini, rinfagottata in uno scialle in brandelli,
di sotto al quale sbucava, fino alle calze gialle, una sottana
strapanata, piena di pillacchere secche. Pareva un trionfo di cenci
da lumi.
Che voglia di ridere e che ribrezzo squallido metteva addosso la
vista di que' tre disperati! Eppure erano allegri! Eppure, dai loro
modi disinvolti pareva, in verità, che volessero proteggere
qualcuno e che de' caldi a quella maniera ne fosser venuti di rado
anche nell'agosto. Arrivati in piazza, si fermarono a dare
un'occhiata in tondo, poi entrarono nel caffè. Un mucchietto
di disoccupati andaron dentro poco dopo con una scusa o con
un'altra, per vedere da vicino quello spettacolo: ed anche io, non
potendo resistere alla tentazione, mi avvicinai alla bottega.
Quando entrai dentro, il signor Fabio, proprio lui! leticava con
Gianni caffettiere, perché non ci aveva burro.
«Paesi barbari! paesi da lupi!», badava a urlare
inviperito; e per avvalorare il suo nobile sdegno, gli ci
schioccò anche il suo bravo giuraddio.
Lui n'avrebbe fatto anche a meno, diceva; ma la signora era
abituata, e senza burro era impossibile che lei la mattina potesse
mangiare. E dava certe manate sulla tavola da spezzare il marmo.
«Soffro d'intestini, ha capito?», disse sorridendo a
Gianni la signora Matilde con un vocione che pareva l'Orco.
«Che gli ho da dire, signori miei?», osservò
Gianni guardandomi. «Se voglion del caffè, non
sarà una gran bona cosa, ma ce l'ho; se voglion de'
biscottini, ci sono anche quelli; se no, un ponce o un bicchierino
di qualche cosa... Ci abbiamo della bona coca, della benedettina,
del curassò...»
«Bistecche, carne, arrosto, ci sarebbe da averne?»,
saltò su il signor Fabio.
«Eh! carne, nossignore, perché ieri l'avevan già
finita, e fino a sabato non ammazzano. Eppoi qui non si fa
cucina.»
«Uova bòne e fresche, nemmeno?»
«No, no, Fabio, lo sai, mi son troppo calorose»,
ruggì amorosamente la signora Matilde.
«Cameriere!»
«Comandi?»
«Un bicchierino di mescolanza: acquavite e rumme.»
«Da un soldo o da due?»
«Da uno.»
Poi attaccò discorso con noi. Ci salutò tutti a uno a
uno, volle sapere i nostri nomi, ci domandò dove si stava di
casa, si mostrò incantato delle nostre belle campagne e
chiese informazioni dell'agricoltura, delle industrie e della
popolazione del comune. Quindi ci raccontò una parte della
sua storia. Ci disse che andavano in Romagna a dare un'occhiata a
certi loro possessi, che in una locanda erano stati derubati del
loro vestiario, che viaggiavano a piedi per diletto; e volle sapere
se c'era almeno un po' di teatro per passare la serata, se no
avrebbero proseguito subito il loro viaggio.
Il quel tempo la signora aveva tirato fuori un pezzo di pane, e dopo
averne dato a Clementino la metà, se lo mangiava guardando il
bicchiere del marito. E intanto mi accorsi che, infreddati come
erano, avevano una pezzòla da naso in tre e se la passavano
fra loro con elegante noncuranza. Soltanto, due o tre volte, un
lembo dello scialle della signora Matilde risparmiò a
Clementino l'incomodo della passata.
Dopo quella che lui chiamò colazione, ci chiese un sigaro
perché i suoi li aveva nella valigia, della quale, per
maledetta disgrazia, aveva perduto la chiave. Gli fu dato, lo
dimezzò perché intero non tirava, cominciò a
fumare saporitamente, poi chiese a Gianni un mazzo di carte.
«Trovami il sette di picche!»
Gianni sfogliò il mazzo delle carte, e il sette di picche non
lo trovò.
«Ah! briccone. Mi davi un mazzo di carte scompleto! Guarda
dove se l'era ficcato questo birbante per canzonarmi!» E gli
levò con uno scapaccione il cappello di capo, dentro al quale
era il sette di picche.
Fu una risata generale. Gianni restò confuso e tutti si
accostarono al tavolino, domandando al signor Fabio come aveva fatto
(ormai cominciavano a prenderci confidenza) ed invitandolo a fare
qualche altro giuoco.
Il signor Fabio non si fece pregare. D'una pallottola di midolla di
pane ne fece sette, levò un dente al su' figliolo, fece
sparire un coltello e un cucchiaio che li trovarono in tasca del
Bandoni tabaccaio, mangiò una libbra di stoppa e un
fiammifero e durò un'ora a sputar fuoco e a tirarsi fuori
nastri di bocca; e da ultimo, senza destarla, levò un tappo
di sughero dal naso della sua signora che s'era addormentata ritta e
russava come un trombone.
Intanto pioveva gente da tutte le parti, e la bottega riboccava di
ammiratori, molti dei quali, per veder meglio, erano montati sui
panchetti, sui tavolini e perfino sul banco, con grande stizza di
Gianni che lì su, poi, non ce li voleva un accidente.
«Silenzio! non lo vedete, lègge!»
Il signor Fabio lesse, fra la più accigliata attenzione
dell'uditorio, alcuni brani d'un libro di segreti da lui composto.
Smacchiò i panni a tutti con una boccetta di liquido che
aveva in tasca, e con una polvere bianca ridusse d'argento tutti i
cucchiai, tutte le forchette e tutti i coltelli di Gianni. Le
occhiate, i gesti e le dimenature di capo dicevano chiaramente che
nessuno s'era mai trovato a veder fare delle maraviglie a quella
maniera. Qualche cosa di quel genere o più qua o più
là, parecchi l'avevan visto; ma a quel modo no.
A poco a poco era comparso in bottega anche qualche pezzo grosso, e
allora le acclamazioni erano ricominciate e da ogni parte si
chiedeva qualche cos'altro. E perché il signor Fabio aveva la
gola secca, gli fu fatto presentare un altro bicchierino d'acquavite
e rumme, e uno simile fu offerto a Clementino e alla signora; ma la
signora volle rumme solo, perché l'acquavite gli restava
calorosa. Allora pel signor Fabio non fu più possibile
liberarsi: i giuochi più belli furono ripetuti, le
acclamazioni andarono al cielo, e l'entusiasmo e l'ammirazione
arrivarono al tal segno, che a mezzogiorno preciso il signor
Professore, la signora Matilde e Clementino, liberati dai volgari
applausi della canaglia, sedevano alla mensa del signor Sindaco,
riveriti e accarezzati da quella rispettabile e brava famiglia.
Mangiarono come lupi anche la roba calorosa. Ma dopo desinare,
Clementino e la sua signora madre si sentiron male. Lei ebbe uno dei
soliti disturbi d'intestini, e Clementino dei giramenti di testa,
come gli accadeva spesso, disse il signor Fabio, quando a pranzo
usciva dai tre consueti piatti di famiglia.
Il Professore, però, era in testa e in gambe. Non aveva un
soldo da far ballare un cieco; bisognava farne in serata per andar
via la mattina dipoi, e gli riuscì senza darsene tanta pena.
«Mi occorre da lei un piacere, signor Professore», gli
disse il Sindaco, tirandolo in disparte.
«Sono ai suoi comandi.»
«Ma non me lo deve negare.»
«Ripeto: signor Cavaliere, lei mi comandi.»
«Allora senta. Il Proposto ha da tre anni una sorella inferma
d'un tumore, dicono, in corpo; hanno fatto venir professori da tutte
le parti e glien'hanno fatte di tutte senza poter ottener mai nulla.
Lei deve esser tanto garbato di venirla a vedere, eppoi sapremo
riconoscerlo...»
«No, no, non parliamo di queste cose!...»
«Venga qui, non se n'offenda, lasci fare a me perché il
merito va ricompensato, e per arrivare a saper qualche cosa, parlo
per esperienza, so che il solo talento non basta e che ci vogliono
de' quattrini e dimolti.»
«Lei, signor Girolamo», rispose il professore,
«forse senza pensarci, mi ha colto nel mio debole: amare,
soccorrere il prossimo quando e finché si può...
così sta scritto sulla mia bandiera. Ed ora, prima d'andare
dal signor Proposto chiedo un favore a lei. Per consumare utilmente
la giornata, vorrei dare qualche consultazione, e mi abbisognerebbe
una stanza...»
«Quella dell'elezioni giù in piazza! Mando subito a
prendere la chiave.»
«La ringrazio. Stasera, poi, per finire allegramente, vorrei
dilettare questi buoni popolani e questi gentili signori...»
«Di là in sala. Benissimo, benissimo! È tutto
fissato, e ora andiamo.»
Chiesero notizie della signora Matilde che stava meglio, e di
Clementino che era uscito a prendere una boccata d'aria, e se
n'andarono dal Proposto.
Prima di buio aveva già sganasciata mezza popolazione;
vendé un cento delle sue boccette da smacchiare, altrettante
cartine di polvere bianca e una cinquantina di copie del suo libro
di segreti; tutto al modicissimo prezzo d'una lira e mezza lira,
tranne i numeri del lotto, che la signora Matilde li dava gratis a
chi comprava uno specifico qualunque o si levava un dente.
Nello sbuzzare un tumore, tagliò un'arteria a un contadino
che fu salvato generosamente dal medico, il quale corse subito ad
allacciargliela; più tardi andaron tutti a cena dal Proposto,
dove il signor Professore e la signora Matilde furono d'una
lepidezza da innamorare; e dopo, tutti dal Sindaco per l'accademia.
E fu quella, davvero, una serata memorabile per la famiglia del
signor Girolamo e per tutto il paese. Prima, giuochi di prestigio
nei quali il Professore fu, come al solito inarrivabile. Dopo
rinfreschi e colletta a favore del signor Fabio, e il signor Fabio
diceva: «A favore dei miei contadini più poveri».
Ci furono giuochi di sala, e Clementino fu impareggiabile per il
brio, e per la novità di quelli che seppe organizzare. Ci fu
musica , e la signora Matilde, quantunque infreddata, cantò:
Addio mia bella, addio, con tal sentimento che tutti piangevano,
disse il signor Girolamo, come nel '59. In ultimo ci fu ballo, e il
signor Fabio sonò il pianoforte in tal modo che nessuno aveva
mai sentito una cosa simile.
Insomma, fecero il tocco dopo la mezzanotte e finì la veglia
quando tutti credevano che non fossero né anche le dieci.
«Ah! che peccato che quei signori se ne debbano andare
così presto!», diceva il signor Girolamo, mentre si
spogliava per andare a letto. «Quella è una famiglia
che io la vedrei dimolto volentieri stabilirsi qui. Che brav'uomo!
che testa dev'esser quella!... Hai sentito, Carlotta? m'ha dato due
o tre volte di cavaliere!... Ma che ci sia qualche cosa alle viste
per me, e lui l'abbia già risaputo da quel su' amico di
Roma?!»
«Domandaglielo domattina», osservò sua moglie.
«Gliene voglio domandare davvero, perché qualche cosa
sotto ci deve essere... Glie l'hai messo il piumino bono?»
La mattina, non ci fu verso di trattenerli: alle otto partirono. Il
Proposto era alla finestra a sventolare la pezzòla; un numero
vistoso di ammiratori erano in piazza per salutarli; ci fu anche
qualche abbraccio, e a mezzogiorno i tre ospiti rimpianti, seduti
sulla spalliera d'un ponte, in mezzo alla campagna, mangiavano
allegramente una cartata di salame, e vuotarono un bel fiasco di
vino, gongolanti come pasque per la retata che avevan fatto quando
meno se l'aspettavano.
Appena finito il salame, il Professore tirò fuori un lapisse
e, fatti pochi numeri sulla carta unta, annunziò alla sua
Matilde che, senza contare i regali di vestiario usato, avevano in
cassa centonovantasette lire e venticinque centesimi.
Fu un urlo di trionfo. La signora Matilde poco mancò che in
uno scatto di gioia non andasse di sotto al ponte; Clementino
sbadigliò sonoro, e il Professore, gridando:
«Mòia l'avarizia!» scagliò in aria il
fiasco vòto che andò a rompersi fischiando sul greto
del torrente.
A quell'ora precisa, il medico sfogliava gli ultimi fascicoli dello
Sperimentale per trovarci qualche condotta vacante, e Nando
barrocciaio scordava la fame abballottandosi in braccio la sua
creaturina che rideva.
Dolci ricordi
Ed anche lui è morto! Sotto quell'aspetto mite e sereno,
sotto quel sorriso che, tra gli amici, gli brillava fisso nei
piccoli occhi azzurri, tutti credevano ad un'anima lieta e
spensierata; nessuno, tranne io, ad un carattere pensoso e forte.
A dodici anni lasciò, per gli studi, la casa paterna e, solo,
lontano da' suoi, in quell'età nella quale, pur vagheggiando
lo spazio, sentiamo sempre il bisogno d'esser covati dalla mamma
come rondinotti prima di fidarsi al volo, dovette avventurarsi nel
turbine della vita a farvi da uomo quasi innanzi d'esser ragazzo.
«Ma fu la mia salute e vinsi!», mi diceva spesso con
orgoglio, «vinsi, perché armato, fino dall'infanzia, di
quell'educazione larga ma onesta, qualche volta romantica ma sempre
vigorosa, che i nostri vecchi liberali davano ai loro figli,
allevando uomini forti d'animo e di braccio, non ganimedi
parrucchieri ed isterici.»
«O senti», mi diceva una notte mentre lo vegliavo
ammalato, «senti un saggio originale del metodo, una scenetta
di famiglia che, dopo tanti anni, ho sempre fresca qui nella memoria
fra i miei ricordi più dolci.
Mio padre, medico in un comunello di montagna, guadagnava, quando io
ero ragazzetto, cinque paoli al giorno, che oggi sarebbero due lire
e ottanta centesimi. Coi miseri incerti di qualche consulto, di
qualche operazioncella e di qualche visita fuori della condotta si
può calcolare che il suo guadagno arrivasse a circa quattro
lire, piuttosto meno che più. Con queste doveva mantenere
decorosamente la sua famiglia, un cavallo, un servitore, e me
all'Università... Vado per le leste e perché sento che
il discorrer troppo mi aggraverebbe il petto e tu forse ti
annoieresti.
Una sera dopo le vacanze del Natale, avevo allora diciassette anni,
torno a Pisa con la mia mesata d'ottanta lire nel portafogli. Il
rivedere gli amici mi mette allegria, vado a cena con una brigata di
quei bontemponi, bevo, mi elettrizzo, giro cantando per le vie della
città fino ad ora tarda, e da ultimo casco in una casa da
giuoco, dove in un paio d'ore lascio tutta la mesata, più
trenta lire di debito con un amico che me le prestò. Una
piccolezza, se vogliamo, ma una piccolezza che per le condizioni
della mia famiglia era grave, forse troppo grave.
Arrivato nella mia cameruccia, mi buttai sul letto, ma non potei
dormire. Sbuffai, mi svoltolai continuamente senza trovar riposo.
Ebbi qualche breve dormiveglia, ma fu peggio. Brillanti, assassini,
miniere d'oro, coltellate, mostri paurosi, corse a perdita di fiato
per deserti a perdita d'occhio, urli, fischi, imprecazioni... sognai
un po' di tutto; e finalmente un grande scossone e tanto d'occhi
spalancati, grondante di sudore.
"Che si fa?", pensavo. "Chiedo a qualche amico? Scrivo a qualche
parente? a mia madre? a mio...? Ah!... qui bisogna uscirne presto.
Un atto di contrizione, un po' di dramma, quattro urlacci, due
tonfi, magari... e perché no? magari una fitta di
scapaccioni, e tutto è finito, e non ci si pensa più."
Salto giù dal letto, mi faccio prestare pochi soldi dal primo
amico mattiniero che incontro, mi rincantuccio in un vagone di terza
classe, e via a casa.
Il viaggio mi fece bene. Parlai continuamente di politica, di guerra
e di donne con un associatore di libri che andava a Signa, ed ebbi
dei momenti nei quali, sognando sul serio gloria, armi ed amori, in
faccia al mio associatore che mi guardava, stava zitto e fumava la
pipa, dimenticate le mie miserie, mi sentii quasi orgoglioso d'aver
anch'io la prima bravata da raccontare.
Ma quando vidi spuntare fra i boschi la torre del mio paesello,
eppoi il tetto della mia casa e il fumo che usciva dalla torretta
del suo cammino, la baldanza mi cadde e sentii le gambe che mi
tremavano.
Quand'arrivai a casa, mio padre non c'era. Mia madre si
spaventò perché, vedendomi pallido, mi credette
malato.
"Non ho nulla, sto bene... proprio sto bene."
Il suo viso si rasserenò subito e, fatta forte da questa
buona certezza, ascoltò abbastanza tranquilla, mentre
preparava il desinare, il racconto che le feci dal canto del fuoco,
dove m'ero rannicchiato, scaldandomi alla fiamma che schioccava
allegra sotto un paiolo di rape. Quando ebbi terminato:
"Figliolo!... io ti domando come si deve fare a dirlo a quell'omo!",
esclamò guardandomi sgomenta. Poi dopo una lunga pausa
pensosa:
"È impossibile! Come vuoi che faccia a renderti ora una
mesata, se ce n'ha appena tanti per andare avanti noi?!...
Trovarli!... E dopo?... Non c'è carità, in questo
momento non c'è carità... Gli sta peggio quel malato e
pare che vada a morire..."
Io stavo zitto a guardarla, lei si chetò.
Il tepore del mio nido, la stanchezza e il mugolìo del vento
su per la gola del camino mi conciliarono il sonno e, senza
accorgermene, mi addormentai col capo appoggiato sulla spalliera
della seggiola.
Quando mi destai, vidi mio padre seduto dall'altra parte del
focolare, che si asciugava alla fiamma i calzoni fradici di pioggia.
Pareva stanco ed era pallido. Tossiva malamente ed aveva schizzi di
fango fino sulla faccia.
Sentendomi muovere, alzò la testa.
"Buon giorno, babbo."
"Buon giorno", mi rispose. E non mi disse altro.
Dopo qualche momento si alzò, disse a mia madre d'affrettare
il desinare perché aveva bisogno d'escir subito, e
andò in camera sua.
"Glie l'hai detto?", domandai trepidante a mia madre.
Essa mi accennò di sì.
"Che ha detto?"
"Ha domandato come stavi e s'è messo a leggere."
Il desinare fu nero. I miei vecchi barattarono fra loro poche parole
d'affarucci di famiglia, ed io, sempre aspettando una tempesta, che
mi avrebbe fatto tanto bene al core per votarlo d'urli, di bile e
magari di pianto; per vedere se in una sfuriata trovavo la gretola
di non avere tutto il torto io, ebbi a rimanere gelidamente trafitto
dalle poche parole che nel tòno usuale e quasi con
amorevolezza mi rivolse mio padre.
"Beppe l'hai veduto?" (era un suo vecchio compagno di studi che io
avevo sempre l'incarico di salutare quando andavo a Pisa).
"No..."
"Domattina partirai col primo treno... Ti chiamerò presto
perché dovrai andare alla stazione a piedi... Del cavallo ne
ho bisogno io."
"Sì."
Finito il desinare, andò via. Tornò a sera inoltrata,
prese un boccone e andò a letto, dopo avermi fatto con gli
occhi stanchi una burbera carezza.
La mattina dopo, mi svegliò alle cinque. Era buio, freddo,
vento e nevicava forte. Quando uscii di camera, mia madre,
già alzata, mi aspettava per dirmi addio.
"Gli ha lasciati a te i quattrini?" le domandai sotto voce.
"È là fòri che ti aspetta."
Corsi sulla porta e alla luce della lanterna con la quale il
servitore ci faceva lume, lì davanti, mio padre già a
cavallo, immobile, rinvoltato nel suo largo mantello carico di neve.
"Tieni" mi disse, parlando rado e affondandomi ad ogni parola un
solco nell'anima. "Prendi... Ora è roba tua... Ma prima di
spenderli!... Guardami!...", e mi fulminò con un'occhiata
fiera e malinconica. "Prima di spenderli, ricòrdati come tuo
padre li guadagna."
Una spronata, uno sfaglio, e si allontanò a capo basso nel
buio, tra la neve e il vento che turbinava.
Scampagnata
È inutile, caro mio; ci sono certe occasioni nelle quali
è impossibile dire di no. Ti pressano, ti conquidono, ti
obbligano con tante premure che il rifiutare sarebbe lo stesso che
commettere una vera sconvenienza verso persone le quali non hanno
altro pensiero che di farti una gentilezza.
Accusi gli affari? «Per un giorno», ti rispondono,
«non cascherà il mondo.» Fa troppo caldo?
«Venga la mattina pel fresco.» La via dalla stazione al
paese è lunga? «Lo mando a prendere col
barroccino.» Hai fissato di passar la giornata con un amico?
«Meni anche lui...» Insomma, gli dissi di sì, e
domenica mattina andai e la feci finita.
Appena arrivato in paese tra la folla dei contadini che uscivano
dalla prima messa e mi guardavano come una bestia feroce, domandai
della casa del signor Cosimo, alla quale domanda otto o dieci mi si
offersero per accompagnarmici.
«Eccola lassù: la vede quella palazzina con una
torricella sul tetto? è quella. Che lo conosce lei il sor
Cosimo? Buon signore quello! O il su' fratello prete?! ah! o lui? O
la su' moglie, la sora Flavia? Bona signora è quella, e
quante elemosine fa! Ma anche la sor'Olimpia, veh! la sorella, si
direbbe, del signor Cosimo... Ha le su' idee anche lei, diremo, come
se uno dicesse che ha la gran passione de' libri che n'ha sempre uno
per le mani e ci ha perso quasi la testa; ma dopo, vede? lo ridice
tutto a mente che a volte non ci si crederebbe nemmeno. Gran bona
ragazza però, anche lei! e per la su' famiglia, quando
c'è da mettere in carta qualche cosa, se non ci fosse lei,
non saprebbero da che parte rifarsi. Prima c'era Bistino, il su'
figliolo maggiore del sor Cosimo; ma ora è a Volterra in
Seminario, dove dice che si fa tanto onore che neanche per le
vacanze non lo voglion mai rimandare. È dimolto bravo quel
ragazzo! E quando c'era lui, anche il Cappellano alla su' tesa, col
su' aiuto... pigliavan più uccelli loro in un giorno che
tutte quest'altre tese in una settimana... Guardi; lei pigli di qui
e su e ci va a battere il capo senza sbaglio.»
Tutte queste notizie sui miei ospiti, che in parte già
conoscevo, mi furono date per via dai contadini, i quali, uno dopo
l'altro, facevano a gara a favorirmele, finché, messomi
all'imboccatura d'un breve viale che menava alla villa, mi ebbero
lasciato, salutandomi rispettosamente e domandandomi se m'occorreva
servitù.
«Non mette male!», dissi, dandomi una fregatina di mani.
Era tanto che mi struggevo di passare una giornata di riposo in
campagna, che affrettai il passo per anticiparmi la contentezza
d'un'ora di pace fra le pareti patriarcali di questa buona famiglia
campagnola, lontano dalle noiose etichette, dalle cordiali
accoglienze fatte col compasso, dai freddi entusiasmi, dalla gretta
ospitalità, infine, che spesso siamo costretti a ricevere e
qualche volta, pur troppo! anche a dare fra le esigenze della vita
di città.
Appena sonato il campanello, un giovanotto in maniche di camicia e
col grembiule bianco tirato su e fermato alla cinghia dei calzoni,
mi venne ad aprire sorridendo.
«C'è il signor Cosimo?»
«Eh! sissignore. Passi, passi. Lei è quel signore di
Firenze che ieri mandò a dire che facilmente sarebbe venuto,
eh?»
«Sì.»
«E allora venga, venga. M'ha detto il padrone che lo faccia
passare nel salotto bono, e ora vien subito anche lui. Bravo
signore! Ha fatto bene, sa, a venire. Era tanto che lo dicevano e
che l'aspettavano! Stanno tutti bene a Firenze? Guardi: passi qui
dentro e s'accomodi. Con permesso.»
«Andate, andate, giovanotto.»
Mi misi a sedere, sotto la finestra, sfogliando un vecchio album di
fotografie, e intanto potei accorgermi che il mio arrivo aveva
destato, davvero, rumore, perché si sentiva su, al primo
piano, un gran sbatacchio d'usci e un gran vai vieni di piedi
calzati e scalzi pei quali cascava giù dal palco una
pioggiolina fitta di bianco d'intonaco, e i vetri della finestra e
la campana d'un Gesù bambino di cera, che si vedeva sulla
cantoniera, trillavano come se desse il terremoto.
Dopo qualche minuto sentii raspare alla porta, poi una gran pedata;
s'apre ed entra un bambino di circa sei anni, con una mela in mano
mezza rosicata, che si mette a guardarmi e con aria dispettosa mi
domanda:
«O che è vostro cotesto libro? L'avete a posare, se no
lo dico allo zi' prete».
Io poso l'album e lui séguita a guardarmi in cagnesco.
«Che siete quel forestiero che doveva venire?».
«Sì, piccirillo.» Affettando dolcezza per
ammansirlo, stesi la mano per prendergli il ganascino. Lui si
tirò indietro due passi, e mi accennò di tirarmi la
mela nel viso.
«V'avete a fermare colle mani, v'avete! O che ci siete venuto
a fare quassù?»
Mi seccava e non risposi.
«Sìe, sìe, tanto lo so, 'un pensate, che ve
l'aveva detto mi' padre; ma mi' madre nun voleva perché gli
è toccato ammazzare tutti que' polli che li pela ora Gostino.
Ma stasera ve n'andate?... Nun mi volete rispondere? Ma intanto ci
ho gusto, sì; perché quando mi' madre v'ha visto per
la strada v'ha mandato tanti accidenti...»
La porta si spalancò e comparve in ciabatte la mole magnifica
del signor Cosimo, il quale cordialmente sorridendo mi buttò
le sue manone sulle spalle, dicendomi tre volte: «Bravo,
bravo, bravo!».
Poi, voltosi al ragazzo:
«E lei che ci fa qui?».
«Cosa mi pare.»
Con uno scapaccione lo mise fuori dell'uscio e m'invitò a
sedere.
Mi dettero subito nell'occhio le frittelle d'unto e le sgocciolature
di vino e di caffè che il sor Cosimo aveva sui calzoni e
sulla camicia. E, per dire il vero, provai un senso spiacevole come
di poco riguardo verso di me; ma fui subito tranquillizzato dalle
scuse che mi fece d'essersi fatto aspettare perché era andato
su in camera a ripulirsi un poco.
«Oh! ma le pare... Dio mio! signor Cosimo!»
«O bravo, bravo, bravo! Ma che stagione, eh? Senta, lei deve
aver bisogno di rinfrescarsi... Gostinooo! Che ne dicono, che ne
dicono a Firenze di questa sementa?... Bravo, bravo, bravo! Lei
s'è degnato e ci ha fatto veramente un regalo.»
«Comandi, signor padrone?»
«Andate su, Gostino, fatevi dare dalla padrona le chiavi della
credenza e portate da rinfrescarsi a questo signore.» E al
bambino che era ritornato dietro al servitore: «E lei vada
subito a lavarsi il muso e si pulisca il naso, porco!». E con
un altro scapaccione lo rimise fuor dell'uscio.
«E di frutte, caro lei, anche quest'anno, nulla!»
«Ah!»
«Eh! che vòl che gli dica? Da tre anni si vede che
c'è entrata la malìa. Si figuri che prima ne rimettevo
anche quattrocento libbre di parte, e ora... quando cinquanta,
quando sessanta sì e no... Ma poi che roba! imbacan tutte!
Scusi, venga con me in granaio... Ma, no... Sento il mi' fratello
che scende: s'aspetterà lui.»
«Aspettiamo lui.»
«È un bell'originale, sa?... un brontolone!... Ma poi
in fondo è bono, veh! L'altro giorno, per esempio, vede? lui
soffre tanto di mal di stomaco e, con rispetto, d'un vespaio che ha
qui...»
Gli anticipati della presentazione furono interrotti perché
entrò nella stanza don Paolo, facendo una profonda riverenza.
M'alzai per andargli incontro, ma:
«Non permetto; stia comodo, signore. Se non gli dispiace,
tengo in capo perché è la mia abitudine. S'accomodi,
s'accomodi pure».
Ci fu un momento di silenzio, eppoi il sor Cosimo riprese la
conversazione:
«Vedete, Paolo, questo è quel signore che si diceva
anche l'altra sera...».
«Lo so, lo so; benedetto voi che non la fate mai finita. O
quante volte le volete ridire le cose?»
«No, vi volevo dire...»
«L'avete fatto rinfrescare?»
«L'ho detto a Gostino. Ora verrà.»
«E lei è di Firenze, eh?», mi domandò il
Cappellano.
«Per servirla.»
«Annataccia, caro signore. Se non piove non si fa la prima.
Anno, in questo giorno d'oggi, alle dieci, n'avevo presi
cinquantasei! e stamani... dianzi me ne son venuto all'otto per la
messa, s'era preso tre uccellucci e un maledetto falco che m'ha
rovinato, guardi, mezza questa mano. O a Firenze ne pigliano?»
«Per dir la verità, non ne ho domandato.»
«O il priore di San Gaggio ne piglia quest'anno, ne
piglia?»
«Che sappia io... non glielo saprei dire.»
«Ah! perché venerdì passato mi mandò a
dire che non aveva fatto nemmeno l'ingabbiature. Dice che c'è
padre Lorenzo della Santissima Annunziata che non sta punto bene.
Che è vero?»
«Se debbo dirle la verità... non lo so.»
«O dunque, o che non sa nulla lei?»
«Le dirò... Parliamo piuttosto di lei. Mi diceva ora il
signor Cosimo...»
«Io torno un momento alla tesa. Il desinare, dite Cosimo, per
che ora?»
«Ditegliela voi a quelle donne l'ora che vi fa comodo.»
«Ah! eccone una!», disse don Paolo che era sull'uscio
per andarsene.
«A che ora si mangia, Flavia? a mezzogiorno?»
La signora Flavia, moglie del mio ospite, accennò di
sì col capo entrando nella stanza, mentre il Cappellano,
insalutato ospite, se n'andò alla tesa. Mi venne incontro
pari pari, mi domandò come stavo, mi disse che ci aveva
piacere prima che io le rispondessi «bene», e si
piantò a sedere a guardarmi. Il sor Cosimo, che faceva tutte
le parti:
«Vedi, Flavia: questo è quel signore che ti dicevo
l'altra sera...». E la sora Flavia daccapo.
«Che fa? sta bene?»
«Sissignora,»
«O la su' sposa?»
«Benissimo: grazie.»
«La saluti.» Eppoi, guardando il marito come per
domandargli se mi doveva dire altro, si rimise zitta a contemplarmi.
Per fortuna il signor Cosimo mi levò dall'imbarazzo di
trovare un tema per la conversazione e la riattaccò colla
politica. Ed essendoci allora sul colmo la questione di Tunisi,
naturalmente cascò addosso a Tunisi e s'arrabbiò,
s'infiammò, e spiattellò sbuffando le sue idee sulla
politica estera, e concluse che se lui e 'l su' fratello prete
fossero stati al ministero, i Francesi a Tunisia non c'erano neanche
per la misericordia di Dio, perché... Ma lo interruppe la
signora Flavia per domandarmi se nella roba del mio vestito c'era
cotone. Tenni dentro una risata e le risposi a caso di no.
«E allora costerà dimolto, eh?»
«Sì... mi pare sette lire il metro.»
«Ah, fanno a metri loro! Dev'esser roba bona, però!
Vedi, Cosimo, te l'avresti a fare compagno...»
«Sìe, sìe, benedetto vizio di venire a troncare
i discorsi in bocca! se ne parlerà poi... poi se ne
parlerà.» E rivolgendosi di nuovo a me:
«Perché se la Francia...». Ed era per riattaccare
su Tunisi quando si vide aprire la porta e compare la sua sorella,
la signora Olimpia, nubile sulla cinquantina, quella che i contadini
m'avevan dato come una letterata.
Aveva un vestito celeste chiaro sbiadito col cerchio, una mantiglia
color pulce sul braccio, in capo una pamela di paglia giallo-sudicio
guarnita con un tralcio d'ellera naturale, e due pendoni di capelli
impecettati le scendevano con dolce voluta quasi fino sulle guance
leggermente salsedinose. In una mano aveva l'ombrellino da sole e un
mazzetto di vainiglia, e nell'altra un libro dentro al quale teneva
l'indice per segno. Si avanzò con disinvoltura ostentata, e
con un inchino a occhi strizzati: «Oh! signore», mi
disse, «ella è benvenuto in questo modesto
abituro».
«Delizioso abituro, signorina, dove non vorrei essere
importuno.»
Strizzò gli occhi di nuovo e mi sorrise. E sculettando meglio
che poteva, andò a sedere con le spalle voltate alla
finestra. Le grossolane malizie di fanciulla molto matura le
conosceva.
Io la osservavo con la più grande attenzione, quando mi sento
arrivare una gran manata sulle spalle, e il sor Cosimo mi dice:
«Sentirà come scrive in poesia quella ragazza! Ce l'hai
costì, Olimpia, quel sonetto che facesti domenica
passata?».
«Quell'ode, via, volevi dire.»
«Sie... o sonetto o ode, è lo stesso. Ma sentisse!...
colle rime e ogni cosa!! Ma gli dico!... Faglielo sentire,
via.»
«Poi, Cosimo, poi.»
Dio mi tenga le sue sante mani in capo! E rivolgendomi alla signora
Olimpia che teneva sempre il dito nel libro:
«Che cosa legge di bello, signorina?».
«Do un'occhiata al Leopardi.»
«Ah!... Ah...»
E il sor Cosimo:
«Bello! bello! bello!».
«Lo conosce anche lei, signor Cosimo?»
«Perbacchissimo! Ce lo lèsse domenica passata alle
frutte che ci fece pianger tutti come bambini.»
«No, Cosimo, avete inteso male. Il signore voleva dire di
questo libro qui.»
«Ah! io!? chè, chè, chè,! Dicevo del
sonetto, io. Ma poi lo sentirà... E gli devi dire anche
quello di quando vestirono abate il figliolo del Calamai. O quello!
Eppoi... Ma che crede che ce n'abbia uno? Ce n'ha una cassettata
tutta piena che, se uno è bello, quell'altro non canzona...
Poi, poi sentirà.»
Io che ero impaziente di sentire i suoi giudizi sul Leopardi:
«Come trova cotesta lettura, signorina?» domandai alla
signorina Olimpia.
«Le dirò», mi rispose, «per dire la
verità, in fondo non ci sono ancora arrivata... ma, se devo
essere sincera, mi pare che ci sia poco interesse.»
«Ah!»
«Non le pare a lei?»
«Eh! in certo modo... sì...»
«Scusi; non c'è mai un episodio finito. Lei trova
Consalvo (quella, già, è rubata dal Tasso: la scena di
Clorinda e Tancredi); trova Consalvo, va bene? Consalvo muore;
eppoi, almeno fin dove sono arrivata io, di lei non se ne sa
più nulla. E lo stesso è dei caratteri! Ci sarebbe
quello di quella Nerina, che sarebbe bello; ma, Dio mio, è
così poco spiegato!... Ne conviene?»
«Eh! sì, per dire la verità...»
«Vedete, Cosimo, se avevo ragione, quando se ne parlò
l'altra sera colla signora Amalia!»
«Ma lo credo!», disse il sor Cosimo, approvando con una
gran risata. «Ma che ti vorresti confrontare con quella
superbiosa lì? Vada sett'anni alle Salesiane come ci sei
stata te, eppoi venga a ragionare. Tanto è inutile»,
disse poi mezzo stizzito, «m'hanno a tirar fòri quanti
gli pare; ma come il Metastasio... Che dico male?»
«Tutt'altro...».
«Ma che mi burla! Io scommetto che anche a mettersi in
cento... se son boni di scrivere tanti libri... neanche la
metà di quelli che ha scritto lui. Ma poi come bene! E non ce
n'è stati altri, veh!
Chiama gli abitator dell'ombre
eterne...
Ah! no; questo è dell'immortale Torquato...
Sogna il guerrier...
Sogna il guerrier le...?
«Sì, si; questo è vero», riprese,
interrompendolo, la signora Olimpia che al discorso del fratello
aveva sempre mosso la testa approvando. «Il Metastasio va
lasciato stare; ma anche questo qui, badate, Cosimo, è carino
dimolto. E anche lui ha scritto con que' versi uno più lungo
e uno più corto che mi piacciono tanto perché
c'è il comodo di metterci quanti vocaboli si vòle...
Ma come son difficili! e come li tratta bene anche il Clasio!»
«O quello», saltò su il sor Cosimo: «o
quello, che è scritto poco bene, con tutte quelle
sentenze!...
Ma l'uom saggio mai non falla
Né in superbia né in
viltà;
O sia bruco, o sia...
«O le Mie prigioni!?»
Io ero rimasto rintontito.
«Bravo, bravo Gostino! posa costì sulla tavola e mesci
al signore», disse il sor Cosimo a Gostino che in quel momento
entrò con una bottiglia e un vassoio di bicchieri.
«Sentirà che questo gli garba», mi disse Gostino
mescendomi. «Le fanno appassire loro l'uve?»
«Andate, andate, Gostino», gli disse la signora Olimpia.
«Lesto, Gostino», continuò il sor Cosimo,
«andate a prendere du' altre bottiglie: una del '62 sulla
tavola di cantina fonda e un'altra del '59 (l'anno della
rivoluzione!) e sentirà», rivolgendosi di nuovo a me,
«sentirà che come quello, non per fargli torto, ma come
quello lei non n'ha mai bevuto.»
«Ma... mi basta questo, signor Cosimo.»
«'Gnamo, 'gnamo: smettiamo coi complimenti... Intanto un altro
gocciolino di questo, eh?»
«Grazie: non lo potrei bere, signor Cosimo. Non sono
abituato...»
«Guardi, ne ripiglio anch'io: per compagnia prese moglie un
frate... Glielo mesco?... Lo butti via, ma glielo mesco.»
«E allora, se vuole così, me ne dia un altro sorso per
gradire... Basta... basta così...»
«Nossignore! o pieno o nulla.»
Ritornò Gostino con altre due bottiglie, e allora mi furon
tutti addosso, cominciando dalla signora Flavia e non escluso il
servitore stesso, perché assaggiassi anche di quelle. Il
signor Cosimo mi reggeva il braccio.
Cosimo mesceva, e le due donne mi scongiuravano con gli occhi
perché non volessi far loro il torto di rifiutare quella
gentilezza.
Resistei un poco; ma finalmente mi toccò a cedere, ed ebbi la
malaventura di lodarne la qualità e d'osservare che non
solamente dovevano avere uve squisite, ma anche vasi e cantine
eccellenti. Non l'avessi mai detto!
«Gliele voglio far vedere», disse subito il sor Cosimo.
M'infilò a braccetto, e, lasciate le donne in salotto, con
Gostino avanti che ci faceva lume, mi trascinò in cantina,
ora dicendomi «badi, c'è un altro scalino», ora
«abbassi il capo», e mostrandosi finalmente più
maravigliato di me di quella bellezza, la quale non era altro che
una stanza tutta ragnateli, con quattro botti a una parete e due
caratelli in un angolo.
Bisognò che mi maravigliassi e che lodassi anch'io qualche
cosa, e lodai, giudicandone dai muri di fondamento, la
solidità della casa.
«Ora gliela faccio vedere.»
Dalla cantina si risalì al piano terreno che mi fece girar
tutto: salotto da pranzo, stanza da stirare, cucina, forno,
dispensa, armadi a muro... Eppoi la scala nuova che prima era dove
ora è la coppaia; eppoi lo scrittoio che il su' fratello
prete lo voleva fare dove ci levarono la stalla, ma che c'era
umido... Eppoi su al primo piano dove mi fece entrare di sorpresa
nella camera della sora Olimpia che era allo specchio a provarsi la
mantiglia color pulce. E via, tutte le altre camere, la sala, i
salotti e perfino i due luoghi di comodo, che uno bisognava che lo
levassero perché dava noia al pozzo... «Ora guardi che
occhiata!... e quello è l'orto. Dopo s'anderà anche
lì; ma prima gli voglio far vedere anche il secondo
piano.»
Andammo anche al secondo piano; e dopo avermi fatto girare una
ventina di minuti, illustrandomi ogni stanza con gli avvenimenti
più notevoli in quelle accaduti, dallo stanzone dove fanno i
bachi allo stambugio dove il Cappellano mette in chiusa i
fringuellotti da accecarsi, si fermò davanti a una porta per
la quale, facendomi prima alcuni segnali che volevano prepararmi ad
ammirare qualche cosa di veramente straordinario, il sor Cosimo
m'introdusse in una cameruccia disfatta, dicendomi che indovinassi
chi ci aveva dormito la settimana passata.
«Che vòl che sappia, caro lei?»
«Gliela do in mille... Nientemeno che il sor Angiolo!!»
«Andiamo!», esclamai, così per dare un po' di
soddisfazione ai suoi entusiasmi! E lui, presa sul serio la mia
esclamazione, mi tessé sul tamburo il panegirico del sor
Angiolo, il quale era, nientemeno che il fratello dell'arciprete
Dòdoli e nipote del benemerito signor Canonico Sinigaglia,
che era venuto con lui quando Monsignore lo mandò a fare i
saldi alla fattoria delle Monache!... «Ha capito?... E ora
deve vedere anche la piccionaia... Sta'!... Si vedrà poi,
perché ora non c'è tempo da perdere. Sòna
l'entrata e bisogna far presto, perché la messa cantata
dell'undici la dice il Proposto delle Sièpole che è il
Dio della furia. Bon omo, però, veh! Ah! E con lui ci
troverebbe il su' pascolo anche lei perché, chieda e domandi,
lui sa ogni cosa. Ne parli anche colla mi' sorella... qui ci dorme
Gostino!... e sentirà che razza di talento è quello...
E qui, vede? Prima c'era un uscio che metteva nel granaio; ma si
fece chiudere per via de' topi. Poi gli farò vedere ogni
cosa: ma ora bisogna andare, se no s'arriva che è
entrata.»
In fondo alle scale c'incontrammo col Cappellano che tutto sbuffante
tornava dalla tesa, brontolando della furia del Proposto. «Che
aveva paura di non essere a tempo a desinare, quello strippone?
Avviatevi, Cosimo, fatemi il santo servizio, accidenti a questi
lavori! e ditegli che si parino intanto loro e che io fra dieci
minuti vengo; se no, se la cantino da sé e non mi
scoccino...»
«Vede?», mi disse il sor Cosimo, «lui è
sempre a quella maniera. Quando non piglia uccelli diventa una
bestia. Venga, venga; queste donne verranno da sé.»
«Son bell'e andate, sor padrone», disse Gostino.
«Meglio così. Andiamo.»
E io, che avrei avuto tanto bisogno di sciorinarmi e di riposarmi un
momento, mi misi dietro al sor Cosimo che, per paura del fratello,
allungava tanto il passo da tenergli dietro a fatica.
Attraverso a una caligine grassa di sudore e di moccolaia, osservavo
la scena. Nell'emiciclo del coro, i cantori, fra i quali il sor
Cosimo, che s'era messo in prima linea a sinistra, per non restare
invisibile dietro all'altar maggiore; intorno all'altare, i preti
celebranti, imbacuccati nei loro piviali ricamati d'oro che
mandavano riflessi abbaglianti secondo che si movevano, percossi da
un raggio di sole giallastro e polveroso che da una lunetta
semichiusa attraversava in diagonale la chiesa. Poi uno spazio
libero, e dopo, due ali di panche per le donne; in mezzo, quattro o
sei eleganti alla moda, dal fazzoletto bianco sotto i ginocchi, unti
nei capelli e inchiodati nelle scarpe, e in fondo, gli uomini
serî, i veri credenti senza ostentazione, le luccicanti zucche
pelate, i catarri produttivi, le pezzòle da naso turchine.
La signora Flavia, in una panca separata dentro alla cappella de'
sette dolori, pregava calorosamente con la faccia quasi nascosta nel
libro, e la signora Olimpia, che le sedeva alla destra, fantasticava
sorridendo angelicamente verso qualche fantasma che pareva attirare
i suoi sguardi su nella misteriosa penombra delle navate.
I mantici dell'organo russavano, e dai pieni polmoni scappava fuori,
di quando in quando, una nota sola e fuggiasca o un do-re-mi-fa
bricconcello che faceva voltare subito lietamente il sor Cosimo
verso di me e il Cappellano verso l'organo, con due occhi da
basilisco che mettevan terrore.
Le montagne stanno ferme e gli uomini camminano. Quando il sor
Cosimo, infilando in fretta l'uscio della Canonica, m'ebbe lasciato
sotto il porticato della chiesa, mi dette nell'occhio un uomo
decentemente vestito, la cui fisionomia non m'era punto nuova; e
nemmeno pareva che la mia fosse nuova a lui, perché
nell'incontrarci che facevamo passeggiando in su e in giù, mi
ficcava gli occhi in viso e quasi pareva che accennasse a un sorriso
amichevole e a rivolgermi la parola. Io facevo altrettanto, quando,
passandomi per la terza volta vicino, pronunziò a bassa voce
il mio nome: mi venne allora subito in mente il suo, mi voltai e ci
abbracciammo con una stretta e un bacio affettuosamente fraterno,
che quando ci guardammo negli occhi, li avevamo umidi di lacrime.
«Dopo diciannove anni! O come mai ti trovo qui?»
«Sono medico di questo comune. E tu?»
«Son qui per diporto.»
«Verrai a desinare da me.»
«Sono impegnato.»
«Da chi?»
«Poi se ne parlerà. Ora parliamo di noi; dimmi di te,
de' nostri amici, della tua vita... Ah, perdio! quanto avrei bisogno
di sapere da te, quante notizie da chiederti di tanti vecchi
compagni d'Università... e quante avrei da dartene io!»
E qui un assalto di domande: «E del tale che ne fu?... E il
tal altro che fa?... Tizio è vivo?... Caio dove si
trova?» E quasi ad ogni notizia reciproca corrispondeva una
voce di rimpianto e una parola di commiserazione: «È
morto!... È un disgraziato!... Scappò e non se
n'è saputo più nulla... È in galera». E
raramente: «Sta bene... Vive... È contento».
«E tu come te la passi?»
«Da medico di campagna.»
«E coi paesani?»
«Male.»
«Perché?»
«Non sono una bestia come loro e sono un galantuomo.»
«Ti capisco. E con le autorità locali?»
«Male. Sono in odio al Sindaco e mi toccherà andarmene
presto.»
«La ragione?»
«Ebbi l'imprudenza di contraddirlo in pubblica farmacia,
quando, a proposito di galateo, citò monsignor Della Casa e
Flavio Gioia.»
«E chi è questo mostro di sapere?»
«La più agiata, la più colta, la più
rispettabile persona del paese: un certo signor Cosimo...»
«Il mio ospite!»
«Sei da lui?»
«Sono da lui.»
«O come mai?... Ma ora, no; dopo desinare verrai a trovarmi,
mi racconterai tutto e staremo insieme fino alla tua partenza. Ho
molte cose da confidarti, ti accompagnerò alla stazione col
mio cavalluccio; ma ora entriamo in chiesa, perché la messa
è cominciata... Sorridi?»
«Penso che diciannove anni indietro un invito simile non mi
sarebbe venuto da te.»
«Ho sei figlioli!»
Mi fece strada in chiesa mentre io, standogli alle spalle, osservavo
rattristandomi la sua cambiata persona. Quante speranze svanite!
Quante illusioni stavano raggrinzate giù dentro all'anima di
quel corpiciattolo smunto, già più che mezzo
canuto!... E quel provvidenziale egoismo stillato dalla natura anche
nell'animo dei migliori, venne a soccorrermi; e le mie malinconiche
riflessioni mi si convertirono in una spasimosa compiacenza
confrontandomi con lui.
«Ecco i miei padroni», mi disse sorridendo amaramente,
appena ci fummo fermati in un angolo in fondo alla chiesa.
«Sono tutti lassù. Conosci nessuno?»
«La famiglia del signor Cosimo e nessun altro.»
«Merita il conto di presentartene qualcuno, perché son
degni della tua attenzione. Non sarebbero cattivi, se non li facesse
pessimi la loro ignoranza orgogliosa. Tutti celebri, però!
tutta brava gente; tutti ammirati, perché il resto è
più ciuco di loro. Vedi quello che celebra? è un certo
Proposto delle Sièpole. Teologo profondo, negoziante d'oli,
confessore delle monache, mangiatore strepitoso e gran protettore
delle molte sue nipoti. Non mi vuol bene, ma mi tollera dopo che lo
curai d'una indigestione di cacio salato e baccelli.»
Il Proposto delle Sièpole in quel momento sedeva tutto
compunto, e dal suo stallo d'onore, stringendosi al petto le braccia
incrociate, mandava occhiate e sospiri al cielo.
«E vecchiotto però!», osservai.
«Sopra la sessantina. E quello che gli sta alla destra»,
continuò il medico, «è il suo Cappellano, il
quale mi fa una guerra accanita, spargendo nel contado che sono un
eretico, perché mi rifiutai di fargli un certificato falso di
malattia. Credo che fra loro non se la dicano molto per ragioni di
nepotismo. Però non si lasciano mai; e l'occupazione del
Cappellano, quando seguita il principale, è d'annacquargli i
moccoli. A ogni primiera ammazzata, il Proposto, un "Giuraddio!" e
il Cappellano un "Bacco". E così vanno avanti, salvando
l'apparenza e l'anima; ma il Proposto qualche volta la crede una
umiliazione e se n'ha per male, e lo rimprovera; e allora, nella
stizza, i "perdii" gli scivolan giù come chicchi di corona
sfilati; e il Cappellano coi suoi "bacco, bacco" ripara a tutto,
impassibile alle minacce e pronto al martirio piuttosto che cedere.
È il primo cacciatore di lepre dei dintorni e giuocatore di
briscola da sfidare la piazza. I popolani l'adorano perché
dice la messa in dieci minuti, confessa a maniche larghe, e a chi
gli fa de' soprusi, legnate da olio santo.
Quel cosino magro dalla parte di qua è uno de' così
detti preti spiccioli; è un buon figliolo, povero in canna,
che con una salute da far pietà s'arrabattta a tirarsi avanti
con una sorella vecchia e due nipotini che educa e istruisce da
sé, facendo da maestro, da zio e da babbo; e intanto s'aiuta
con altri quattro o cinque scolarucci che può raccapezzare a
una lira al mese, e campa non si sa come, mantenendosi, nella sua
miseria, illibata la reputazione di cittadino onorato e di sacerdote
esemplare. E quel che più monta, egli, rara avis, non invoca
la maledizione di Dio sulla sua patria. In paese, come è
facile a capirsi, o non se ne occupano o lo rammentano con
disprezzo.
Quell'altro è il fratello del sor Cosimo, che tu conosci. Ti
dirò qualche cosa anche di lui; ma ora inginocchiamoci,
perché siamo all'elevazione.»
Tutto il popolo si prostrò in un solenne raccoglimento, e
l'organo, allargandone il tempo, travestì da adagio maestoso
l'allegro del Trovatore: «Di quella pira l'orrendo
fuoco».
Alla cerimonia della consacrazione tenne dietro il solito rumore
confuso di stropiccio di piedi, di tintinnìo di medaglie e
l'indispensabile scarica di tossicone generale. E l'aria si faceva
sempre più pesa e nauseante, quando il medico
riattaccò sotto voce la conversazione.
«E il fratello del sor Cosimo, detto di soprannome Cotenna,
è quel tale che, nientemeno...» E qui mi si
accostò all'orecchio e mi disse:
«...».
«Andiamo!», esclamai meravigliato. «Tutti i
giorni?!»
«Sulla mia parola d'onore!»
Il sor Cosimo mi sorrideva in fondo alla chiesa e mi accennava
all'organo come per dirmi: «Ha sentito, eh? che razza di
strumento e che sonatore!».
«E quello con quel ciarpone di seta nera al collo, che
è inginocchiato accanto al sor Cosimo», continuò
il Dottore, «è lo Stelloni mugnaio, assessore della
pubblica istruzione. Il sor Cosimo lo prescelse alla carica,
perché, vista l'antipatia che fin da bambino lo Stelloni
aveva dimostrato per le scuole, poté tranquillizzare il
Consiglio che lui delle spese inutili non ne avrebbe fatto fare. E
l'assessore Stelloni, fedele al suo mandato, non ha mai messo piede
in una scuola. Lui dice per non compromettersi, perché le
cose non vanno a modo suo; la canaglia dice che ha paura di dovere
interrogare i ragazzi. È un buon diavolo, però, e non
ha odio con altri fuori che col maestro comunale, quel giovanotto
pallido lì dalla piletta, perché sopra un componimento
del suo figliolo corresse appetito divoratore dove era scritto
appetito divoratrice. Lo Stelloni lo compatì benignamente
finché la questione rimase dubbia; ma quando fu accertato che
il maestro aveva ragione, il benigno compatimento dell'Assessore si
convertì in odio implacabile, e ora cerca tutte le gretole
per poterlo mettere nella strada a morire di fame.
Quel vecchietto magro, in capo fila a destra, è uno dei
più ricchi possidenti del paese, cavalocchi e notaro in
ritiro e già Sindaco prima del sor Cosimo. La sua passione
è di schiacciare le noci colla testa e di contraddire
sistematicamente in Consiglio tutto quello che il signor Cosimo
propone. Si è immortalato con due iscrizioni che ha fatto
porre col proprio nome in lettere maiuscole durante la sua gestione:
una al pozzo pubblico quando ci fece mettere la pompa, e un'altra,
che eccola laggiù dove è quello scalcinato, quando
fece ridorare a sue spese il ciborio alla cappella de' sette dolori.
Braccò il sindacato per far passare un braccio di strada
obbligatoria dalla sua villa; ma poi, non avendola potuta ottenere
ed essendogli stata imbiancata la proposta pel cavalierato, si
ritirò fremendo, e ora si sfoga a fare opposizione in
Consiglio, manda via un contadino l'anno e dice ira di Dio del
Governo in ogni occasione, non esclusa quella che la brinata gli
sciupi nell'orto i pomodori primaticci.»
«E tu sei alle mani di questa gente!», osservai.
«Sono alle mani di questa gente.»
L'«Ite, missa est» interruppe il nostro colloquio. Il
Proposto delle Sièpole lo annunziò a occhi chiusi, a
giugulari iniettate e a gote livide sull'ultimo, sollevando la testa
per trovare note di voce più poderose, in mezzo agli altri
preti che stavano reverenti ai suoi fianchi. E se lo patullò
per due minuti buoni, finché dopo un i... i... i... i... che
pareva non dovesse finir più, rotolò sfiatato:
«issa est».
Il sagrestano s'avventò collo spegnitoio alle candele; i
preti allicciarono verso il desinare, e il popolo, dopo un breve
raccoglimento, s'affollò alla porta per uscire.
Quando fummo sotto il porticato, il medico mi lasciò subito
per fuggire l'incontro de' suoi padroni, non senza avermi prima
ripetuto caldissimamente che dopo desinare fossi andato da lui, che
mi avrebbe accompagnato alla stazione e che aveva cose
importantissime da dirmi.
Il sor Cosimo venne correndo a ritrovarmi, accompagnato da varie
persone alle quali mi presentò, dandomi di gran manate sulle
spalle, scansando il lei e dicendomi un monte di villanie per dare a
credere che con me ci aveva confidenza. Aspettammo un momento il
Cappellano e le donne, e tutti insieme ci avviammo, come disse il
sor Cosimo e ripeté la signora Flavia, a far penitenza.
Al momento d'andare a tavola il sor Cosimo mi disse, dandomi uno
strizzone: «Oggi si deve stare allegri! Bravo, bravo,
bravo!». La signora Flavia mi ripeté per la sesta volta
che avrei fatto penitenza, perché non avevano alterato per
nulla il solito desinare delle altre domeniche.
«Dio mio!...», esclamai, fingendomi di esser
mortificato, ma in realtà perché non ne potevo
più di ogni cosa. E con la signorina Olimpia che ci precedeva
sculettando, dopo avermi presentato un'occhiatina ladra e un
mazzetto di gelsomini, entrammo nel salotto da pranzo, tutto parato
per le grandi occasioni, in un ambiente odoroso di biancheria,
levata allora allora di fra le mele cotogne e lo spigo.
«Ecco qui», ribatté il sor Cosimo, «noi non
si fa complimenti; un po' di minestra, un po' di lessuccio, du'
altri gingilli come il solito, e s'è finito.» Si
segnò e recitò il Benedicite.
Il bambino, che appena entrato in salotto era rimasto a bocca aperta
guardandosi d'intorno, quando ebbe visto i preparativi tutti e
specialmente una tavola in disparte tutta piena di crostini, dolci e
bottiglie, non poté più reggere, e, rivolgendosi a me,
urlò battendo le mani sulla tavola:
«O Dio, bene! Guardate, oggi che ci siete voi, quanta bella
roba c'è!».
Il signor Cosimo gli lasciò andare un calcio di sotto la
tavola, che per fortuna non lo prese; ma fra i commensali si sparse
istantaneamente un silenzio glaciale.
Le donne sospirarono; gli uomini rimasero a guardare il bambino con
due occhi da incenerirlo, e io mi voltai al signor Cosimo a
domandargli che cosa il bambino aveva detto. Il mio stratagemma
riuscì perfettamente, e tutte le fisionomie erano già
rasserenate quando comparve Gostino in maniche di camicia a mettere
in tavola la zuppiera.
La signora Flavia lo chiamò subito e gli disse qualche cosa
all'orecchio. Al fritto Gostino tornò con la cacciatora e col
cappello in capo. La signora Flavia lo chiamò di nuovo, e
quando tornò col lesso comparve senza cappello. interrogando
con gli occhi la padrona come per domandarle: «Ora va
bene?». La signora Flavia gli rispose di sì col capo;
ma il signor Cosimo gli disse con un'altra occhiata che quelle cose
avrebbe dovuto saperle da sé. Gostino con una spallucciata
gli fece capire che l'avevan seccato, e mi disse che pigliassi un
altro po' di pollo.
Questa gentilezza di Gostino fu il segnale dell'attacco. Il vino
aveva cominciato a rallegrare la comitiva e più che altri il
sor Cosimo. Un contadino venne a dire che al paretaio del signor
Cappellano avevano fatto un tiro di sette frusoni, per cui anch'egli
rallegrò il suo umore, e mi trovai investito allora in pieno
dalla spaventosa valanga delle cortesie di cotesta buona gente.
Gostino mise a sdrucciolo il piatto del pollo sul mio, e giù
una frana di ciccia da sfamare un can da pagliaio, fatta rovinare
dalla forchetta del sor Cosimo e da una gran manata del Cappellano
nel gomito di Gostino.
«Non lo finisco.»
«Senza pane, permio!»
«È impossibile.»
«Dunque è segno che il pollo non gli piace!» E
giù, anche una targa di manzo. E bisognò che mangiassi
ogni cosa, tormentato a doppio dal pensiero che ancora non s'era a
nulla! Infatti cominciò subito la succulenta dinastia degli
umidi. Sette ne comparvero! Due di pollo; uno di vitella di latte;
due di carne grossa; uno d'animelle, e l'ultimo di tacchino coi
maccheroni... Scoppiavo!... E bisognò assaggiarli tutti!...
tutti! Quello bisognò prenderlo perché era col cavol
fiore, una primizia! quell'altro perché se no si sarebbe
guastata la relazione; questo perché è con gli spinaci
che ora sono una rarità; quest'altro perché ci ha
fatto la salsa la signora Olimpia... Dio signore! non ne posso
più. E crepavo di ripienezza e di caldo, e, come se tutto il
resto non bastasse, le mosche insistenti dell'autunno mi finivano di
conciare impaniandomisi al sudore che mi colava a gore giù
per le gote!... E il sor Cosimo, sempre più feroce,
m'assaliva con una cucchiaiata d'erba perché era roba
leggiera, e il prete con una stiappa di ciccia che mi buttava nel
piatto da lontano; e in quel tempo Gostino badava a predicarmi di
dietro che non mangiavo nulla, e la signora Flavia a lamentarsi che
non mi fosse piaciuto il desinare!
«Ecco l'arrosto! ora siamo in fondo; coraggio!» Ma
coll'arrosto cominciarono le bottiglie. Il prete n'agguantò
per il collo una di vin santo, il sor Cosimo una d'aleatico e
Gostino una di vermùtte spumante.
«Aspettate! no... no... aspettate, Gostino!», gridavano
le donne parandosi coi tovaglioli. E il sor Cosimo, posato
l'aleatico:
«Ah! permio!», esclamò, «qua, qua, mi
ricordo dell'altra volta. Guardi», volgendosi a me,
«guardi che chiosa nel soffitto. Ora sentirà che lavoro
è questo. Qua, qua, Gostino, la voglio stappare da me».
Il sor Cosimo in piedi, con la bottiglia spianata, cercava un posto
nella stanza dove rivolgerne impunemente la bocca, ma non lo
trovava. Su c'era il soffitto dipinto; giù la stoia nova; di
faccia le donne che s'eran buttate il tovagliolo in capo e si
tappavano gli orecchi con le dita; a destra il prete e la credenza
bona...
«Alla finestra, sor padrone!», gli gridò Gostino.
«Bravo Gostino!» E andò alla finestra dove, dopo
che ebbe lavorato un pezzo, adagio adagio e colla massima
precauzione, si sentì a un tratto un gran:
«Giurammio! o come mai?...». E per assicurarsi meglio
continuò a mandare in su col dito pollice il tappo che
finalmente cascò a piombo ai piedi del boia come la testa
d'un decapitato.
«Un'altra, Gostino; subito!» E quell'altra venne; ma
appena tagliato lo spago, fu una catastrofe. Il vino schizzò
via soffiando come un gatto arrabbiato; e il sor Cosimo che girava
in tondo per scansare ogni cosa, infradiciò invece ogni cosa,
fra i sagrati del Cappellano che aveva avuto una zaffata nella nuca
e gli strepiti delle donne che s'eran ficcate col capo sotto la
tovaglia.
«Un'altra, Gostino!»
«Cosimo, per carità!...», esclamaron le donne.
«Mi parete diventato un ragazzo!», brontolò don
Paolo. Ma il sor Cosimo ormai, visto compromesso il suo decoro di
enologo premiato da se stesso alla mostra che fecero per la fiera
anno di là, voleva andare in fondo, e ci arrivò
finalmente con onore. Gostino portò una terza bottiglia, la
quale lavorò stupendamente, e la pace fu ristabilita.
Ma la tempesta delle gentilezze si scatenò addosso più
furibonda che mai dopo il buonumore suscitato nei miei aggressori
dalla riuscita dell'ultima bottiglia. Mi trovai il piatto pieno a
cupola di uccelli che mi piovevan da tutte le parti; e uno me ne
tirò nel viso il bambino fra le risate dei parenti che
restarono sorpresi dello spirito di quel ragazzo. E anche quelli mi
toccò mangiarli!...
«Senza pane!»
«Sissignore; accidenti a' fornai!», dissi ridendo in un
certo modo che doveva parere che volessi mordere. La signora Olimpia
volle poi che accettassi da lei una stipaiola.
«Un uccellino di becco fine, signore», mi disse,
«è tanto delicato!»
«Da lei, signorina, non posso ricusarlo.»
«È l'ultimo!» gridai nel fondo del petto,
«sacrifichiamoci per uscirne.»
«Grazie, signorina; ma si accerti che faccio un gran
sacrificio.»
«Gliene sarò riconoscente per tutta la vita.» E
guardò sorridendo dietro alle mie spalle. Mi voltai e vidi il
Cappellano che, branditi due bravieri per le zampe, rigido come la
statua del Fato, me li affondava nella faccia, dicendomi freddo e
arcigno:
«Questi non li rifiuterà di certo. Gli ho presi io
stamani, e freschi e grassi così, lei a Firenze non li trova;
o, se li trova, per meno di quattro palanche l'uno non glieli
dànno».
Me li posò nel piatto e rimase a guardarmi con gli occhi
stralunati da un accesso di simpatia avvantaggiata dall'ultimo
bicchiere d'aleatico, che secondo me, cominciava a lavorare a vele
gonfie.
Poi venne l'insalata coll'ova sode, poi le frutta, poi i dolci, poi
altre bottiglie, eppoi... perdio! fu finita. Ma credo che anche i
miei vincitori avessero poco da cantar vittoria. Era uno
sbracalìo generale di calzoni, di panciotti e di fascette:
sbuffate da tutte le parti e ceffi infiammati e occhi rossi, tranne
la signora Olimpia, la quale, vivendo tutta di spirito, s'era
mantenuta inalterata, posando sempre in attitudini soavi e mostrando
qualche volta, nei momenti più serî, una gentile
pietà per la mia posizione.
E i nostri discorsi durante il pranzo? Nulla! Fu una lotta sorda e
continua di offerte, di repulse e di nuove offerte; di
«pigli» e di «grazie»; di «lei non
mangia, lei non beve», e di risa sgangherate tutte le volte
che avevano inventato un nuovo tranello per farmi scoppiare.
«Le poesie, Olimpia, le poesie!», urlò il signor
Cosimo alla sorella, «il sonetto del Calamai!»
Io mi volsi subito alla signora Olimpia per leggerle negli occhi la
gravità di quello che mi minacciava; e la vidi atteggiata a
una espressione che mi fece pena. La signora Flavia mi destò
lo stesso sentimento e perfino nella faccia del bambino mi parve di
scorgere qualche cosa che sapeva di paura. Guardavano tutti il
signor Cosimo in aria pietosamente interrogativa, eppoi si volgevano
in un punto verso il fondo della tavola, alla sua destra.
In quel tempo il signor Cosimo chiamò con voce alterata
Gostino, il quale comparve con due contadini, che, agguantato don
Paolo sotto le braccia, lo trascinarono quasi di peso fuori della
stanza. Io m'alzai di scatto per prestarmi in aiuto; ma il sor
Cosimo mi trattenne dicendomi in aria mista di dolore e
d'umiliazione che non mi spaventassi perché era cosa
consueta.
«Fra un paio d'ore non è altro. Insulti di core. Quando
lui s'aggrava un po' di cibo...»
«Ma perché non cerca di moderarsi?» Il sor Cosimo
si rinsaccò nelle spalle.
«E gli accade spesso?», domandai.
«Tutti i giorni, povero zio!», mi rispose la signora
Olimpia. «Ah! è un grand'incomodo quello!»
«E il medico che dice?»
«Ah!», esclamò il sor Cosimo. «Giusto! lei
lo conosce quel... quel... Il medico ride, glielo dico io quel che
dice il medico: il medico ride; e quando si mandò a chiamare
la seconda volta per una di queste solite mancanze, dopo che gli ho
fatto avere io la condotta, io capisce? io gliel'ho fatta avere!
ebbe l'audacità di dire a quel pover'omo: "Cappellano,
un'altra volta l'annacqui". Ha capito cosa dice il medico? Ma in
casa mia non ci ha messo più piede, e spero bene... eh,
Flavia?»
Gostino venne a dire qualche cosa nell'orecchio al padrone, il quale
gli rispose indispettito che ci buttasse un po' di segatura, che ci
ripulisse subito e la facesse finita.
«Ooooh! allora allegri, perché tanto non è
nulla, Flavia, il caffè dove ce lo dài? qui o
nell'orto?»
«Lasceremo decidere al signore.»
«Nell'orto, nell'orto!», dissi subito io, desideroso
d'uscire da quelle strette e di godermi una boccata d'aria
autunnale, tanto più che, a maggior contrasto col mio
compassionevole stato di prigioniero, era una giornata incantevole.
E da due ore invidiavo i fringuelli del paretaio, che si sentivano
nel poggio di faccia tirare i loro versi boscherecci, e le lodole di
passo che trillando si allontanavano giù nella caligine del
piano dalla parte di mezzogiorno.
Il signor Cosimo si allontanò dicendomi che tornava subito.
La signora Flavia corse dietro a Gostino che era venuto a chiederle
le chiavi della legnaia; il ragazzo s'era addormentato attraverso a
due seggiole, e anche la signora Olimpia mi lasciò
frettolosamente, dicendomi che una forte necessità la
costringeva ad allontanarsi.
Ma io non connettevo quasi più. Gonfio come un rospo e con un
cerchio di ferro alla testa, accesi un sigaro, allungai le gambe
sotto la tavola, e mi lasciai andare col capo all'indietro sulla
spalliera della seggiola, dove avrei schiacciato tanto volentieri un
pisolino, perché proprio ero fatto. Quando sentii una gran
strappata al campanello che avevo suonato io la mattina arrivando, e
i miei ospiti, meno don Paolo, tornarono di corsa nella stanza,
annunziandomi che c'era que' signori al cancello dell'orto e che
bisognava andargli incontro.
«Vengo, vengo subito», dissi quasi in sogno; e mi mossi
automaticamente dietro a' miei ospiti. Gostino s'avviò di
corsa ad aprire, e vidi venire avanti, su pel viale, un gruppo
sciamannato di cinque persone, tre preti e due secolari rossi come
gallinacci, che urlavano e smanacciavano gesticolando come anime
dannate, mentre una turba di ragazzi e di contadini erano rimasti di
fuori, parte arrampicandosi sul cancello e parte col capo tra i
ferri, a guardare a bocca aperta quello che si faceva dentro.
Il sor Cosimo mi prese per un braccio, e portandomi avanti, mi
presentò al Proposto delle Sièpole, poi al suo
Cappellano e al Piovano del luogo, e da ultimo all'assessore
Stelloni e al Segretario comunale.
Fummo subito condotti sotto la pergola dove i contadini avevan
disposto delle sedie intorno a una tavola di pietra, e dopo poco
arrivò Gostino, colle maniche rimboccate perché aveva
principiato a rigovernare, a portarci il caffè. Pareva che la
conversazione avesse dovuto continuare animatissima; ma invece si
raffreddò per una certa soggezione credo, che io forestiero
davo a' quei signori; e fu uno stento di domande brevi e di risposte
a monosillabi, finché il Segretario non entrò negli
affari del Comune. Prima un po' di maldicenza, eppoi tirò
fuori due fogli da far firmare al sor Cosimo, il quale chiese subito
a Gostino il calamaio. Firmò mettendosi gravemente gli
occhiali, e dopo rimase qualche momento a guardare di traverso la
propria firma con quell'aria dell'uomo soddisfatto che dice a chi lo
sta a vedere «Ma che ne sistemo uno, io, degli affari in capo
all'anno!?».
«E il vaiolo, Stelloni?»
«Pare che si promulghi sempre di più, caro signor
Cosimo. E, quel che è peggio, si fa maligno», rispose
lo Stelloni, tirando in su col naso e accavallando le gambe. E qui
il colloquio cominciò a farsi animato. E quasi che lo
Stelloni con quel «promulghi» avesse gettato la prima
pietra d'un grande edifizio, il Proposto delle Sièpole
cominciò a parlare de' suoi fiori estatici, che lui li aveva
già messi in casa per paura delle brinate. Il suo Cappellano
mi disse che lui non era agrario, perché limoni nell'orto non
ce n'aveva mai tenuti; e lo Stelloni mi fece anche sapere che
qualche anno fa andava molto a caccia, ma ora s'era fatto astemio,
un po' perché le gambe non gli dicevano più il vero, e
un po' perché il su' cane più bravo era rimasto
alienato nella vista degli occhi, pare, dal grand'umido preso in
padule. Riguardo a scuole miste mi osservò che eran molto
economiche; ma che a lui quel misticismo di maschi e di femmine
tutti insieme non gli garbava né punto né poco. Il
signor Cosimo, poi, per non restare al disotto, deplorò di
non potermi far vedere gli scherzi acquatici che aveva fatto intorno
alla vasca, perché le chiavi dei macchinismi le aveva nel
cassettone don Paolo.
La signora Flavia ci guardava smemorata, con gli occhi tra 'l sonno,
che spalancava tutte le volte che veniva più forte il rumore
de' cocci dalla cucina dov'era Gostino a rigovernare. E la signora
Olimpia, forse disgustata da quella conversazione indegna di lei,
girellava pel giardino, accarezzando con lo sguardo i suoi fiori,
finché fermatasi davanti ad una rosa d'ogni mese, tra le cui
foglie due api si abbaruffavano dolcissimamente:
«Cari insetti!», esclamò.
«E suggendo un breve istante
Ora questo, ora quel fiore,
Nauseata, disprezzante...
Ahi! dicea...»
«Sempre poetessa la signora Olimpia», gridò il
Proposto delle Sièpole, «sempre poetessa! Son suoi
cotesti versi, signora Olimpia, son suoi?»
«Ora poi, Olimpia, non se n'esce, se no si fa tardi»,
saltò fuori il sor Cosimo. «Il sonetto del Calamai, e
subito, perché quello è una bellezza...»
«È una meraviglia», osservò il Proposto.
«E io, guardi, l'ho qui... l'ho tutto qui, che lo ridirei come
se l'avessi davanti stampato... Non n'ho sentiti altri!
Gioisci, o giovin garzon: t'attende
intanto
Il divin Paracleto...»
«Ah! perdio!...»
«Bacco!»
Il Proposto delle Sièpole dette un'occhiata in tralice al
Cappellano; e la signora Olimpia si preparava a dire il sospirato
sonetto, quando s'affacciò all'uscio di casa don Paolo con
gli abiti, le braccia, la bocca, gli occhi, i capelli e ogni cosa a
grondaia, che si fermò sulla soglia a guardare fisso in
terra.
Tutti gli andammo incontro a congratularci e a domandargli come
stava...
«Còre, signori miei, còre.» E si portava
le mani alla parte sinistra del petto, strizzando gli occhi e
accennando a bocca stravolta come una puntura che gli levava il
respiro. E:
«Alla tesa, Cosimo, hanno fatto altro?».
«Altri cinque, don Paolo!», gridò Gostino di
cucina.
«Cinque? Dunque siamo arrivati a quindici oggi!»,
gridò don Paolo, rianimandosi come per incanto.
«Gostino, la mazza e il cappello.»
Il sor Cosimo ci fece d'occhio per dirci che bisognava andare alla
tesa anche noi; un'attenzione che sarebbe stata graditissima al suo
fratello. Ma i tre preti, adducendo che fra poco sarebbe sonato a
vespro, si disimpegnarono bravamente, e andammo noi quattro: il sor
Cosimo, il Segretario, l'assessore Stelloni e io, con gran
compiacenza di don Paolo, il quale, precedendoci a sbalzelloni, mi
raccontava che aveva fatto serbare un bel frusone maschio pel Priore
di San Gaggio e che io gli avrei fatto il favore di portarglielo.
Ma il tempo passava, eran già sonate le tre; alle sei il
treno partiva, dal paese alla stazione c'eran tre quarti d'ora e io
volevo, volevo in tutti i modi stare un po' col mio amico dottore,
volevo sentire quel che aveva da dirmi, volevo rinfrescarmi l'anima
nei ricordi della nostra giovinezza, volevo, sopra tutto, liberarmi
da quella tortura che da qui avanti cominciava un po' troppo a
passare la parte.
«Io... signor Cosimo, mi scusi, ma ho necessità di
arrivare in paese.»
«Le occorre qualche cosa?»
«Sì... non ho più sigari.»
«Eccogliene mezzo!», mi disse a bruciapelo l'assessore
Stelloni.
«Ma... avrei anche da scrivere una cartolina...»
«Badi», osservò il Segretario, «che ora
l'appalto lo troverebbe chiuso.»
«Gliela do io, e la scrive ora quando si torna a casa»,
mi disse il sor Cosimo.
Era inutile! Dirgli che avevo un appuntamento col medico era lo
stesso che tirare uno schiaffo ai padroni di casa.
«Andiamo alla tesa. Ma se non dispiacesse a questi signori,
vorrei far presto.»
«In una mezz'ora si va, si sta e si torna», disse don
Paolo. E su, come pecore dietro a lui che, rimettendosi a vista
d'occhio dell'insulto di cuore, animato dalla sua passione, ci
faceva sfiatare su per una viottola tutta sassi e ripida come un
calvario.
Al capanno accadde una scena violenta perché trovammo il
tenditore addormentato. Si stette lì una mezz'ora senza
prender nulla, in tempo che don Paolo, senza mai levar gli occhi dal
finestrino e dicendo ogni tanto: «Zitti, ecco roba!»,
non si chetò mai a raccontarci sotto voce tutti gli
importantissimi perfezionamenti che aveva introdotti nel suo
paretaio, e finalmente, quando Dio volle, si venne via.
Ma non tornammo diritti a casa, perché il sor Cosimo volle
farmi vedere la coltivazione nuova, eppoi il bosco disfatto; e di
lì don Paolo volle passare dal paretaio vecchio per farmi
fare il confronto con quello nuovo. Lo Stelloni, per quattro passi
di più volle che arrivassimo in cima al poggio per farmi
vedere di lassù la sua casa; e chi sa dove diavolo
m'avrebbero menato, se le campane benedette non cominciavano a
sonare a vespro fitte fitte.
E allora tutti giù a gran furia, perché senza il sor
Cosimo e senza lo Stelloni, in coro non avrebbero neanche
principiato. A casa bisognò ribere; le donne ci aspettavano
già preparate; Gostino domandò per che ora doveva
esser pronta la cavalla, e andammo al vespro a passo rinforzato
perché s'era fatto tardi.
Nell'attraversare la piazza, in mezzo al gruppo dei miei
ricattatori, avendo a braccetto la signora Olimpia, vidi da lontano
il medico sulla farmacia, che mi faceva cenno come per domandarmi:
«O dunque?».
Io gliene feci un altro come per rispondergli:
«Non so se mi spiego!».
Scosse la testa sorridendo e riprese la conversazione interrotta con
un contadino che gli sedeva accanto.
In coro mi piantarono nel posto d'onore in mezzo al gruppo dei
cantori, e lì sbercia che ti sbercio, e zaffate d'aglio
stantìo, e urli a bruciapelo, che parevan legnate nelle
tempie. E anch'io in mezzo a quegli energumeni, cominciai a
boccheggiare dietro ai cantori, tanto per dare un po' di
soddisfazione ai contadini che a occhi sgranati, in giro in giro al
leggìo, stavano a guardarmi senza batter ciglio, aspettandosi
di certo da me qualche cosa di strepitoso come, in quella occasione,
avrebbe dovuto fare un forestiero per bene. Ma ero fioco in
verità, e anche il sor Cosimo mi tenne scusato quando
rifiutai di entrare terzo con lui e lo Stelloni nelle antifone.
E i miei ammiratori devono esser restati male sul serio
allorché, stando sempre a guardarmi dopo che era finito ogni
cosa, mi videro sfilare con gli altri in canonica, dove il Piovano
volle per forza, se no se ne sarebbe avuto per male, che si
pigliasse un dito d'aleatico.
Il Proposto delle Sièpole attaccò la briscola con tre
contadini, e noi ci movemmo per venircene...
«A meno che», mi disse il sor Cosimo, piantandomisi in
faccia a squadrarmi con occhi supplichevoli, «a meno che per
una nottata, lei non voglia...».
«E impossibile!» E lo dissi con tanta forza che dopo me
ne rincrebbe, perché a questo rifiuto che gli tirai in faccia
come un insulto, rimase lì mogio mogio senza alitare.
«Non credevo... d'averlo offeso... mi scusi.»
Povero diavolo! aveva ragione. Gli feci due carezze scherzevoli, e
mi ci volle poco a rimettergli l'animo in pace. Infatti, appena
usciti sul cimitero, si fermò al primo banco di brigidini e
volle per forza empirmi le tasche, ficcandoceli da sé a
manate.
L'ora si faceva tarda. Attraversando di nuovo la piazza, il dottore
mi salutò accennandomi che ormai ci saremmo riveduti a
Firenze e tirai avanti come un reo d'alto tradimento che di mezzo
alla forza vede i parenti e gli amici che gli tendono addolorati le
braccia, e non gli è concesso né un bacio né un
abbraccio prima di lasciarsi forse per sempre. Mi voltai indietro e
vidi da lontano l'amico che mi diceva: «Addio, addio!».
Gostino aveva già attaccato, e a quella vista mandai un
sospiro di tale compiacenza che mi parve di sentirne subito i
benefizi anche nel fisico. E veramente ne avevo bisogno
perché ero in uno stato da far compassione. Non mi reggevo
quasi più ritto da quel moto ozioso e continuo di tutta la
giornata; non stavo bene di stomaco e la ragione si capisce; la
testa mi bruciava e me la sentivo come impiombata.
Oh! casa mia, casa mia!...
Ma il sospiro m'ebbe a restare attraverso quando, nel tempo che
m'accomodavo sul calesse la signora Flavia mi si accostò
tranquilla tranquilla, e cominciò a dirmi, stando gli altri
di casa immobili a sentire:
«Ecco, giacché lei è tanto garbato, vorrà
farci un piacere. Guardi, qui gli ho fatto anche la noticina
perché non s'abbia a scordare di nulla». E lesse alla
luce del crepuscolo:
«1° Portare da quell'occhialaio dal Canto alla Paglia gli
occhiali della sora Amalia perché ci rimetta il vetro
rotto... Gli ha in tasca Gostino e alla stazione glieli darà.
2° Quattro metri... o se no sette braccia... come crede
meglio... di roba come quella del su' vestito, e mandarla
giovedì per il procaccia...».
«O della pania gliel'avete messo, Flavia?»
«Ci ho messo tutto. Ora state zitto... per il procaccia che
rimette subito fuori della porta San Frediano dove sopra c'è
scritto: Rimessa e stallaggio.»
«O del vino?», domandò il sor Cosimo.
«Eccolo qui subito:
3° <I>Dire allo Scatizzi vinaio di Borgognissanti - lei lo
conoscerà di certo - che se volesse un 'altra barrocciata di
quel vino, ora ci sarebbe».
«Ma dunque della pania e del frusone ve ne siete
scordata!», disse impaziente don Paolo.
«Eccovi servito anche voi:
4° Tre libbre di pania da quello in quella traversa di via
Calzaioli che va in Ghetto... Il pentolo l'avete messo in cassetta,
Gostino?».
«Sissignora; ma si spiccino, se no si fa tardi.»
«5° Un frusone da portarsi al Priore di San Gaggio.
L'avete preso, Gostino?»
«Padron Paolo, sì. È lì sotto legato alla
sala.»
«E me lo saluti, sa?», mi disse don Paolo; «e
glielo dica che io n'ho presi quindici oggi, e che mi mandi a dire
che cosa fanno a quelle tese laggiù.»
«E qui», disse la signora Flavia, accennandomi un
fagotto voluminoso dietro al calesse, «qui gli ci ho messo un
po' d'insalata di campo, che lei ha detto dianzi che anche a casa
sua gli piaceva tanto.»
«Ma io... veramente... Grazie, signora Flavia... grazie,
signori...»
«E questo», accostandomisi la signorina Olimpia,
«questo vorrà tenerlo per mio ricordo.» E mi
consegnò un foglio piegato in quattro, stringendomi con tre
scosse la mano, e: «Buon viaggio!...».
«Salute, salute, signori!...»
«Arrivederlo.»
«Buon viaggio.»
«Si ricordi di noi.»
«Ci compatisca.»
«Torni presto...»
«Salute, signori, salute!»
Gostino dette un pizzocotto alla cavalla, e via di galoppo.
«Aaaah! Come va, Gostino?»
«Come vòl che vada? Dieci lire al mese, eppoi
vorrebbano anco la pelle, Dio der Cielo!»
«Bella serata!»
«Il tempo è bono, sissignore.»
Appena fuori del paese, detti un'occhiata al ricordo della signorina
Olimpia, e lasciai libero il petto a una di quelle risate capaci di
rimettere a nuovo un cristiano. Era l'autografo del sonetto di
quando vestirono abate il figliolo del Calamai.
FINE
Note:
[1] bertuelli: specie di reti da pesca, formate a guisa di sacco con
strozzature, dalle quali il pesce entrato non trova più la
via per uscire.
[2] forcino: pertica di legno, terminata in una delle due
estremità da una forcella metallica, perché,
incontrando le radiche di piante palustri, non si sprofondi nel
fango, la quale serve a spingere e guidare le piccole barche.
[3] pagliòlo: fondo del barchino.
[4] pinsacchio: uccello palustre.
[5] abusato: sconcertato.
[6] far cavare il sonetto, equivale a far comporre versi satirici.
[7] rintoppai: incontrai.
[8] pollino: chiamansi pollini quei luoghi di padule dove alcune
masse di detriti vegetali si formano compatte, galleggianti e
pericolosissime, perché facilmente si sfondano sotto i passi
del mal pratico e dell'imprudente che su quelle si avventura.