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RENATO FUCINI

ALL'ARIA APERTA

SCENE E MACCHIETTE DELLA CAMPAGNA TOSCANA


R. BEMPORAD & FIGLIO, FIRENZE, 1897

INDICE
La fonte di Pietrarsa
Il battello
L'eredità di Vermutte
Non mai, non mai!
Temperamenti sani
Il monumento
Menico
La giacchetta rivoltata
Il professore
Pelliccia
Questioni d'interessi
La strega
Tipi che spariscono
La giovenca rossa
La visita del Prefetto


LA FONTE DI PIETRARSA

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Lo riconobbi da lontano. Lo riconobbi dal suo cavallino bianco. tanto fido e trottatore, e dall'arsenale di pertiche, di biffe e di altri arnesi del mestiere che lui, ingegnere del Comune, si affastellava sul barroccino tutte le volte che aveva da battere la campagna per affari della sua professione.

Quando mi fu vicino gli feci un cenno con la mano, e lui rallentò il trotto e si fermò per il saluto e per la chiacchierata indispensabile quando due persone di conoscenza s'incontrano su per i monti, in mezzo ai boschi e in luoghi solitari.

- Lei torna dalla strada nuova dell'Acquaviva !

- No. Vengo da Pietrarsa dove mi son trattenuto due giorni per quella benedetta fonte....

- Ah, a proposito! Siamo ancora a nulla?

- Sì; finalmente è tutto sistemato: livellazioni, espropriazioni, permesso della Provincia.... è fatto tutto; ho sfilato i fondamenti, ho dato gli ordini all'accollatario, e lunedì, salvo che ce lo impedisca la stagione, si mette mano al lavoro.

- E lei, ingegnere, ci crede proprio! Crede proprio sul serio che la fontana sarà fatta?

- Per bacco! Che impedimenti vuole che saltino fuori al punto nel quale siamo?

- Si vede che lei, caro ingegnere, mi scusi, veh! si vede che lei non conosce ancora bene che panni vestono i buoni villici di questi poggi remoti.

- Ma, abbia pazienza, cotesto è un pessimismo....

- Ebbe'; oggi siamo agli otto di marzo. Scommettiamo che fra un anno il primo mattone della fontana non è stato ancora

murato.

- Le rubo la scommessa; ma scommetto.

- Che cosa scommettiamo!

- Una bella pipa di radica di scopa.

- Va bene; va bene la pipa di scopa.

- Il dì otto di marzo.

- Il dì otto di marzo. Siamo d'accordo; ma è una pipa rubata.

- Sarà quel che sarà. Dì otto di marzo.

- Pipa di radica. -

E stipulammo il contratto con una risata e una stretta di mano.

- E lei si trattiene molto quassù?

- No; forse un paio di giorni. Giovedì sera sarò di ritorno a casa. Anzi, ingegnere, lei potrebbe farmi un gran favore. Se stasera vede il mio fratello, mi faccia il piacere di dirgli che quella ricevuta, che ho cercato tanto stamani prima di partire, la troverà di certo sotto a quel libro giallo nella cassetta a destra della scrivania.

- Lei sarà servito puntualmente. Dunque ?....

- Il dì otto di marzo!

- Il dì otto di marzo! A rivederci, e buona passeggiata.

- Salute, ingegnere. E si ricordi di quella ricevuta, e....

- E della pipa di radica! -

Dette in un gran ridere e riprese la corsa, a martinicca serrata, giù per la china tortuosa.

Allontanatosi il rumore delle ruote e il cigolìo della martinicca, cominciai a sentire lo scroscio d'una cascata d'acqua lontana. Era il famoso sbocco d'una quantità di polle ricchissime, le quali, venendo dall'alto dei poggi e scorrendo quasi alla superficie sotto il paese di Pietrarsa, facevano tutte capo in quel punto, pochi metri sotto la via, e, con un largo gètto, di lì si scaricavano sonore nel sottoposto torrente.

Lo sbocco di quelle acque era inaccessibile; il paese soffriva la sete, e il Comune deliberò, fai fai, l'allacciamento delle vene superiori e la costruzione della fontana.

La deliberazione era stata accolta con suono di campane, musica e sbandierate per tutto il giorno, e gran baldoria di lumi e di fiammate, la sera.

Non c'è dubbio, pensavo; non manca altro che metter mano ai lavori. Ma fra un anno, caro ingegnere, voi pagherete, e io fumerò alla vostra bella pipa di radica di scopa.

Il paese di Pietrarsa, un piccolo borgo con quattrocento abitanti circa, si stende tutto lungo la via provinciale, senza alcuna strada traversa. Di sopra, il monte ripido; di sotto, il precipizio in fondo al quale va a frangersi la cascata. Il paesello ha tre punti che chiameremo centrali: a un capo la chiesa, all'altro un piazzaletto dove trovasi l'unico albergo e le rimesse della posta; nel centro il palazzotto comunale, un caffè e le botteghe più importanti.

Naturalmente fu scelto il mezzo del paese come più comodo a tutti, e lì, un rientro di muro accanto al palazzo comunale,  facilitava i lavori e si prestava ad accogliere con decoro la fontana che, con fregi barocchi e ceffi di leoni spaventosi, aveva ideato e disegnato il mio ingegnere della pipa.

Dopo un'ora di cammino, arrivato a Pietrarsa quasi a buio, mi accorsi subito che gli eventi precipitavano e che gli affari andavano assai peggio di quello che avrei potuto supporre. Gli usci, le  finestre e tutte le botteghe del centro erano chiuse; e un grosso assembramento di persone, armate di quei picchetti, di quelle biffe e di quei pali che l'ingegnere aveva piantati la mattina, dopo chi sa quante fatiche e pentimenti, urlavano sotto le finestre del sindaco.

Erano gli abitanti dei due punti estremi del paese i quali, alleati per l'occasione, protestavano di non volere la fonte nel centro. E i più violenti, brandendo alti i pali e le biffe, minacciavano legnate, morte e distruzione a chi si fosse azzardato di murare anche una pietra sola nel rientro di miro accanto al palazzo comunale. Le donne e i ragazzi erano i più feroci.

Il sindaco si provò tre volte a persuaderli dalla finestra; ma la sua voce fu soffocata sotto un uragano di urli, finchè non ebbe promesso di sospendere l'incominciamento dei lavori e di scrivere alla Prefettura.

La mattina dopo, tutto era ritornato nella calma; tutti avevano ripreso le loro faccende, e soltanto l'accollatario della fonte girava stralunato per il paese, con una gran pèsca in un occhio prodotta da una legnata ammollatagli, non sa nè anche lui chi ringraziare,  quando jersera, in quel trambusto, si trovò a dire la sua.

In fin dei conti, considerata bene la cosa, i protestanti non avevano torto. Sempre ogni cosa per comodo dei signori! La fontana nel mezzo, eh! perchè nel mezzo ci sta il sindaco, tre assessori e quel porcone del sor Girolamo! Bene, eh? Tutti i lampioni gli hanno a cavare di cima e di fondo, e piantarli tutti davanti alla spezieria! Hanno a lastricare solamente lì, se voglion far bene! Non gli basta il vino, e vorrebbero anche l'acqua! La fonte lì, il telegrafo lì, la farmacia lì, la balia l'hanno voluta lì, e lì ci avrebbero a portare anche un serpente che s'avventasse a mangiargli il core a tutti quanti sono! Legnate! schioppettate! veleno!... E noi poveri si creperà. E la chiesa non conta nulla? E il povero Gambacciani, che ha da lavare le diligenze tutti i giorni e ha tre gubbie di muli nella stalla, dovrebbe andare fin laggiù a pigliar l'acqua?! Ma il sindaco è un galantuomo, e lui, vedrete, accomoderà ogni cosa. Speriamo!

Questi, press'a poco, i discorsi nel caffè e dal tabaccaio; ma, alla peggio, in capo a due giorni, tutti si abbonacciarono, e, quando me ne venni per tornare a casa, nessuno si sarebbe accorto che poche ore avanti s'era scatenata in paese quella po' po' di tempesta.

Intanto l'acqua della sorgente che si scaricava impetuosa giù nella profondità del dirupo, scrosciava con tanto rumore da dare perfino noia alla figliola del signor Girolamo, la quale da due mesi, Dio glielo perdoni, studiava al pianoforte il valtzer della Traviata per un'accademia a benefizio degli Ospizj marini.

Quando fui a metà di strada per tornarmene a casa, incontrai l'ingegnere il quale, facendo sfegatare il suo povero cavallino su per quelle salitacce, veniva verso Pietrarsa. Aveva un diavolo per capello. Mi provai a rammentargli il dì otto di marzo e la pipa di radica; ma non agguantò la conia. Mi salutò, fece le viste di ridere e, scusandosi, tirò avanti per la sua strada.

Passavano i mesi. E in quel tempo io vedevo spesso alla sfuggita l'ingegnere, il quale, quando poteva farlo senza dar nell'occhio, scantonava e mi scansava come un creditore molesto.

Intanto a Pietrarsa gli affari andavano di male in peggio. Il Consiglio comunale deliberò, e la Prefettura approvò, che la fontana fosse costruita sulla piazzetta delle rimesse, riconoscendo quello il luogo più adatto per il comodo della popolazione. Ma allora quelli del centro e della chiesa ripeterono le solite scenate, e tutto fu nuovamente sospeso e accomodato con una gran bastonatura all'accollatario, il quale questa volta si dovè mettere a letto e uscirne dopo un mese per andare, tutto fasciato, al debà.

Andai per curiosità alla prima seduta del tribunale, dove trovai l'ingegnere chiamatovi come testimone; e allora non potè nè scantonare nè scansarmi.

Era indemoniato. - Venti disegni, questi assassini! cento viaggi m'avranno fatto fare questi malfattori! e nessuno paga gli straordinari! M'hanno rovinato tutti gli strumenti, ho dovuto vendere il mi' povero cavallino e son vivo per miracolo! Ma oggi mi vendico! Ma oggi mi vendico, dovessi anche rimetterci la paga, la reputazione e la pelle! Oggi mi vendico! -

Cercai di calmarlo, ma fu inutile. Smanacciando e sbatacchiandosi il cappello nelle ginocchia, mi lasciò per entrare nella stanza dei testimoni, dicendomi di sull'uscio: - Lei avrà la pipa; ma con questa canaglia oggi mi vendico! -

Come si svolgesse il processo non lo so, perchè gli affari  m'impedirono di tenerci dietro; ma so che ci furono tre condannati: Il sor Girolamo a quindici giorni di carcere per ingiurie al pubblico dalla finestra; l'accollatario a quattro settimane per eccesso di difesa, e l'ingegnere a trecento lire di multa per contravvenzione alla legge sul bollo.

- Ma perchè, santo Dio! - osservò un ombrellaio ambulante, chiacchierando una sera nel caffè, - perchè non vi mettete d'accordo e costruite, invece d'una sola fontana dispendiosa, tre modeste fontanelle nei tre punti contrastati del paese ?! -

La fece bona! - Sperperare a quel modo i quattrini del pubblico quando una fontana sola bastava! Eppoi perchè disonorare Pietrarsa con tre indecenti pioli di sasso quando ci sono i mezzi per averne una di marmo coi delfini, coi leoni e ogni cosa? Voi non siete nativo di questi posti, e vi si compatisce. -

In quel momento, la cascata, presa da un'improvvisa onda di vento, mandò uno strepito gaio come scoppio di risa d'una moltitudine lontana.

Anche la seconda deliberazione del Comune andò, naturalmente, all'aria; e dopo molti, molti mesi venne la terza. Venne, cioè, quella buona, quella vera, quella definitiva per conciliare gl'interessi di tutto il paese; una deliberazione giusta, ponderata e distesa con mirabile chiarezza d'argomentazione ed eleganza di forma dal consigliere Balestri; una deliberazione che, riandando scrupolosamente la storia dei fatti, terminava inneggiando alla concordia dei popoli e alla santa religione dei nostri padri. Fu deliberato di costruire la fontana in faccia alla chiesa.

Prima che questa deliberazione tornasse al Comune col visto della Prefettura, gli abitanti del centro e quelli della piazzetta delle rimesse, s'erano già trovati d'accordo: - Se murano un mattone davanti alla chiesa, segue un macello! -

La deliberazione tornò approvata; ma nessuno si fece più vivo. Il Sindaco dette le dimissioni per procurarsi la soddisfazione d'essere rieletto, e il Segretario fu lesto a mettere tutte quelle carte in uno scaffale a dormire.

Dell'accollatario non se n'è saputo più nulla. L'ingegnere ha da pensare alla sua famiglia dopo la multa che ha dovuto pagare, e ha da imporsi privazioni d'ogni genere per estinguere il debito di parecchie centinaia di lire, che gli è toccato contrarre per accomodature e per acquisto di nuovi strumenti.

Son passati due anni, e della pipa non si è più parlato. Lui sta zitto; io non ho il cuore di rammentargliela.

Intanto il paese di Pietrarsa soffre la sete. Ma nelle sere d'agosto, quando le fronde dormono raggrinzate sui rami, e le cicale stesse tacciono spossate, è un gran conforto all'arsura lo scroscio della cascata che larga e perenne, rumoreggiando si perde nelle profondità del dirupo.



IL BATTELLO1

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Dopo una nottata d'inferno, nevica sempre. I faggi, nudi e stecchiti, agitandosi sotto la furia del vento, si frustano tra loro con le cime, mandando uno strepito secco come di scheletri  combattenti nel buio per l'aria. Fra poco spunterà il giorno. Lo dice quell'albore squallido che si affaccia laggiù in fondo dalla parte di levante; ma che trista giornata si prepara per i taciturni abitatori della montagna!

La scala del misero albergo risuona ai colpi d'un passo grave e ferrato.

- O che volete andare in giro anche stamani, Battello, - domandò dal letto la padrona.- Io dico che siete impazzato! -

- O che oggi non si mangia, Mariannina? Dio ci assista. Sempre avanti, Savoia! -

E con questa risposta fra il desolato e il burlesco, il Battello, curvo sotto il peso del suo grosso carico di mercanzia, si sbacchia l'uscio dietro le spalle e via, nel buio, fra la neve che lo accieca e il vento che lo tribola, frugandolo fino alla carne, attraverso agli strappi della giacchetta sempre umida dalla pioggia dei giorni passati.

- Donne, il Battello! - grida quel martire, passando vicino alle prime casette affumicate. Nessuno risponde. Dormono. - Avanti, avanti! - Sul far del giorno, la bufera rinforza e il freddo diventa più acuto. Il Battello non se ne accorge. Anzi ha caldo, anzi è sudato, e la fronte gli cola a goccia a goccia. - Avanti, avanti! - La salita è di una asprezza diabolica; l'andare è un pericolo, fra la neve sempre più alta e insidiosa, su per quei dirupi e per quei viottoli tracciati dalle pecore lungo gli orli delle forre profonde. Ecco un'altra casetta!

- Donne, il Battello.

- Ce n'avete salacche. Battello? - domanda una donna dallo spiraglio d'una finestra.

- Sì; levate ora dal mare.

- O matasse di cotone?

- Anche quelle. Specialità della casa; prodotti di Parigi. -

Dopo un quarto d'ora il primo affare è fatto, e il Battello riprende la via, tastandosi nelle tasche della giacchetta i tre soldi e le due uova che ha guadagnato. Anche le uova! perchè lui, dove i suoi clienti non abbiano da pagarlo con danari, si adatta a far cambio della merce con polli, cacio, agnelli, castagne e che so io.  Ma le uova sono pericolose. La settimana passata, rotolando in un burrone, se ne schiacciò addosso una dozzina, e tutto il guadagno della giornata andò in fumo.

La luce del giorno è finalmente comparsa; una luce bianca e diffusa come in una notte di luna. La neve è quasi cessata, ma il vento si scatena più indemoniato che mai, e il freddo si fa sempre più intenso. Dalla fronte del Battello cola abbondante il sudore che, scorrendogli a gore per la faccia, si rappiglia in gelo all'estremità della barba. - Avanti, avanti! - La neve del terreno, che già arriva al ginocchio, comincia a indurire. Fra poco, se il freddo aumenta ancora, sarà capace di reggere alla superficie il peso del suo carico e quello del suo carico di mercanzia. - Allora sarà un andare da principi, - pensa rallegrandosi il Battello. - Dio ci assista! Dio ci assista! Sempre avanti, Savoia! - Era il suo grido di guerra favorito.

Ma quelle invocazioni si dispersero, non ascoltate, fra gli urli della bufera che, dopo una breve sosta, incominciò a turbinargli dintorno più minacciosa e più folta.

Girò tutto il giorno, facendo sentire ad ogni casa il suo grido: - Donne, il Battello - che da ultimo pareva un lamento; cadde più volte, rovesciando la merce del corbello; si riposò sfinito a ridosso dei castagni spaccati; soddisfece la fame con una coda d'aringa e si dissetò succhiando la neve. - Donne, il Battello.... Donne, il Battello.... -

A notte fitta, la padrona del l'alberguccio dove era alloggiato il Battello, e un gruppo dei suoi conoscenti, stavano seduti davanti al fuoco, parlando impensieriti di lui e della sua famiglia lontana.

- Eccolo! - gridò a un tratto la padrona.

- È lui, è lui!

- Questa, sì, è la sua voce! - gridarono gli uomini.

Il Battello, appena rientrato nella via maestra e visto ormai assicurato il suo ritorno, veniva avanti cantando un'ottava della Gerusalemme.

Entrò acclamato nella cucina calda e piena di fumo, si alleggerì del suo peso, e girandosi allegro intorno alla fiamma, annunziò i buoni affari della giornata, dichiarando che quella sera voleva fare scialo.

La padrona intese, e si mise subito all'opera. Lo scialo del Battello voleva dire una farinata gialla col soffritto di porri, e un'aringa intera sul treppiede.



L'EREDITÀ DI VERMUTTE

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Col tempo freddo e piovoso che s'era messo, il Caffè del Popolo quella sera era tanto pieno che, non essendoci posto per tutti a sedere, molti bevevano ritti intorno ai tavolini o passeggiando per la stanza. E, di fra la nebbia dei lumi a petrolio che filavano e il fumo delle pipe gorgoglianti, si alzava nella fuligginosa stamberga un tal diavoleto di risa e di voci squarciate che anche le figliole di Terzilio, benchè si struggessero di piantarsi lì dietro il banco a guardare e a sentire, eran costrette a stare in cucina, accanto alla finestra aperta, per salvar la modestia e per respirare.

A un tavolino, i giocatori di scopone discutevano sulle combinazioni della partita con tali urli da parere che si volessero scannare. A un altro, i cacciatori raccontavano le loro gesta con gran sinfonia di fischi, di canizze dietro alla lepre, di frulli di starne e di tonfi di schioppettate. E i cani accucciati sotto le tavole, destati di sussulto e ingannati, qualche volta, dalla perfetta imitazione, si mettevano ad abbaiare in coro e a piena orchestra, e in ultimo a guaìre dalle pedate dei padroni perchè si chetassero. A un'altra tavola, i puzzolenti e crudeli bracaloni, tenditori di reti e di panie, si raccontavano, con un tono di voce più dimesso, le loro prodezze della giornata, spincionando, zirlando, chioccolando e moltiplicando ogni cosa almeno per cinque.

Dalla tavola di fondo venivano voci più umane e risate più schiette. Era la tavola dei buontemponi di professione, dei cacciatori per amore dell'arte e dei novellieri, i quali, tra un frizzo e l'altro lanciato alle fanfaronate e alle bombe che scoppiavano intorno, raccontavano aneddoti, scene e avventure della loro vita di campagna.

Quella sera teneva cattedra Pippo del Mugelli.

- Di questa scenetta, per esempio - diceva Pippo - fui parte e testimone l'altro giorno quando andai da Beppe di padule per quel fieno delle forniture.

Era tanto che non mi era mosso per una passeggiata un po' lunga, che mi venne voglia di farmela gamba gamba passando dalla scorciatoia delle Fornaci, che era quasi nuova per me e decantata da tutti come tanto bella. Arrivato a un borghetto di tre o quattro case, trovai un vetturale che attaccava, e che subito mi domandò se volevo imbarcare con lui.

- Dove vai?

- Vado in padule - mi rispose - a ripigliare due signori che ci ho portato stamani. O lei?

- Vado per quelle parti anch'io.

- Allora - dice lui - monti su; mi dà da fumare un sigaro, e ce lo meno io. -

Guardando gli arcioni tricuspidali della sua povera brenna arrembata, e quella carega di bàgherre sfasciato, con un mantice che pareva un centopelle, mi sentii la voglia di continuare a piedi, ma.... montiamo !

In tempo che finiva di attaccare, mi raccontò un monte di miserie della sua famiglia e del mestiere che non andava più come una volta; mi disse che lui si chiamava Vermutte, e volle sapere come mi chiamavo io, da qual paese venivo e che cosa andavo a fare in padule. Quando ebbe saputo tutto, parve soddisfatto e, siccome nell'armeggiare intorno ai finimenti, s'imbrogliava spesso e doveva rifare il lavoro, ora per allungare una tirella e ora perchè non avea passato una guida dagli anelli del sellino, mi chiese scusa se mi faceva tanto aspettare, e mi disse che lo compatissi fioichè quella sera aveva tanti pensieri per la testa da levarlo di sentimento. Aveva infatti l'aspetto d'uomo molto impensierito e non fece più parole dopo soddisfatta la prima curiosità. Appena tutto fu all'ordine, saltò brusco a cassetta e, giù! frustate da orbi alla sua ossuta carogna.

La via che si doveva percorrere era un continuo succedersi di brevi spianate, di ripide salite e di scese maledette. Per Vermutte era tutta pari. Pizzicotti da levare il pelo e via!

- Ah, no! caro Vermutte; quest'affare mi garba poco. Alle salite devi rispettare il cavallo; alle scese, la nostra pelle. Se vuoi trottare alla piana solamente, va bene; se no, scendo e me la faccio a piedi come avevo ideato. -

Vermutte rimase mortificato, si voltò verso di me dal seggiolino e, in aria compunta e con un gesto di desolazione, mi disse:

- Lo crede, signor Filippo? stasera non so quello che mi fo.

- Che t'è accaduto?

- Lo conosceva lei il sor Augusto?

- Chi Augusto?

- Il sor Augusto!... il Fronzoni!... quello di que' be' cavalli.... che ha quella bella villa, con quel bel viale che c'è quella bella torre con quella bella pineta....

- Fronzoni.... Fronzoni.... Ah! ho capito. Ebbe'?

- È morto stamattina alle sei!

- Pace all'anima sua.

- .... e stasera, dice.... dianzi è arrivato il notaio.... dice che stasera apriranno il testamento.

- Va benissimo. Ma che hai tu che fare col notaio, col testamento e col Fronzoni?

- Sono un su' parente lontano, perchè....

- Eh, eh! Tanto faremo che c'intenderemo !....

- .... perchè.... capisce? una zia della su' sorella bon'anima, quella tanto ricca che lasciò ogni cosa a lui, sposò un cugino d'una nipote del fratello di Gianni di Boldrino che è cognato....

- Bada, Vermutte, è inutile che tu seguiti, perchè ora, anche se ti cheti, ho capito benissimo ogni cosa.... Sicchè sei partito povero, e c'è il caso.... o Vermutte! c'è il caso che stasera, quando torni a casa tu sia diventato....

- Ahu! ahu! - tonfi, urli, schiocchi, e giù, a rotta di collo, per una scesa che faceva rizzare i capelli. Era uno sganascio di legno, uno scatenìo di bubboli e di ruote, una grandine di sassi che schizzavano frullando nei campi e nelle fosse, di qua e di là dalla strada, e un palio di cani che ci rincorrevano abbaiando, tutte le volte che la nostra tempesta passava davanti a qualche casa.

- Vermutte, permio! - Era lo stesso che dire al muro.

- Ahu! ahu! Stasera, sor Filippo, deve pigliare una sbornia anche lei!... Ahu! ahu!.... -

Per fortuna la scesa era breve e, come Dio volle, s'arrivò sani e salvi in fondo. Riattaccava subito una salita aspra, e il cavallo messe giudizio per Vermutte.

Dopo un mezzo miglio, però, avevo imparato, osservando, a moderare tanto foco di passioni, a mia volontà. Vermutte si abbandonava a quegl'impeti di entusiasmo tutte le volte che gli facevo intravedere la possibilità che il Fronzoni, nel testamento si fosse ricordato di lui; cadeva in uno stato di prostrazione desolata quando lo facevo escire di speranza. Da questa osservazione trassi profitto per garantirmi le costole e per fare il comodo mio.

- Troppi, troppi questi parenti, caro Vermutte! Eppoi, da quello che mi dici, c'è in casa quella nipote promessa sposa che con voialtri ci se la dice poco.

- Sissignore!

- Gua', tutto può essere! Ma io, se fossi in te, caro Vermutte, mi affiderei alle mie braccia, mi affiderei ai figlioli che vengono su robusti e avvogliati di lavoro. Quella, caro Vermutte, quella è la vera ricchezza, quella è la vera farina di Dio, quella è la vera roba che i ladri non ce la rubano e i bruciamenti non ce la consumano! -

Vermutte sospirava, le guide calavano fino in terra e il cavallo si metteva al passo.

- Signor Filippo..., lei parla come un angiolo del cielo!

- Nulla, caro Vermutte. Ti ho detto la semplice verità, ti ho detto quello che il cuore mi suggeriva, pensando alla tua famiglia e al tuo stato.

- Oh, se tutti i signori fossero come lei! -

Arrivati in cima a quella pettata, si presentò un lungo tratto di via pianeggiante.

Questa, pensai, si può fare benissimo al trotto..

- Con questo, intendiamoci bene, Vermutte, con questo non intendo toglierti di speranza ed escludere la possibilità... -

Vermutte ripigliava fiato!

- In fin dei conti, ho sentito dire che questo signor Augusto era un bon diavolo, religioso, caritatevole....

- Eh, questo sì; sissignore. -

Le guide erano ritornate su e la frusta cominciava già a far per aria dei giri che puzzavano di caso sospetto. La strada è buona - pensai dentro di me - ora bisogna correre.

- Allegri, Vermutte! Se il signor Augusto era quel galantuomo che dici, non può aver dimenticato, in punto di morte, i suoi parenti poveri....

- Sissignore, sissignore! - e faceva scuotere il legno, ballonzolando sul seggiolino, e le prime frustate cominciavano a pizzicare fitte gli ossi del cavallo che si buttava, traballando, in carriera.

- Ma se stasera tu fossi diventato un signore?!...

- Maria santissima! Vergine delle misericordie ! Ahu! ahu! - E giù un diluvio di bòtte col manico della frusta, sulle costole di quel disgraziato animale, e: via, via, via! e trapatà, trapatà, trapatà!

- Cinquantamila lire, stasera, Vermutte !

- Ahu! ahu! -

E anch'io urlavo per superare con la voce il fracasso della vettura:

- Cinquantamila lire! Che faresti stasera, Vermutte, se fosse vero?

- Bastono la moglie, brucio la casa e piglio una sbornia da olio santo - e: via, via, via! e trapatà, trapatà, trapatà....

La strada piana era vicina a terminare e cominciava subito la scesa, quella scesaccia delle Fonte, dove c'è quella croce che ci morì per una ribaltatura quell'armeggione del fattore Spinelli.

- Adagio, Vermutte! ricordiamoci delle Forre. - Non mi sentiva nemmeno. E allora serriamo le valvule.

- Sai, Vermutte, che cosa mi garba poco? A me.... chi lo sa? mi garba poco quella serva vecchia, perchè, se è vero quello che mi raccontavi dianzi, cotesta donna era diventata, pare, da ultimo, padrona d'ogni cosa lei. E, con voialtri, cotesto serpente, ci se la dice?

- Ci darebbe foco!

- Ohi, ohi, ohi! -

La frusta andò subito nel bocciòlo, le guide ricominciarono a ciondolare, e il cavallo non intese a sordo. Anzi, fatti pochi passi, ebbi a dire a Vermutte che lo toccasse; se no, si fermava.

- E sai, amico mio, non c'è la peggio di quel genere di donne lì!

- Si figuri se ci ho pensato anch'io!

- Ha parenti quella donna?

- Una conigliolaia.

- Male, caro Vermutte, male!

- Eh, non pensi che lo so.

- Tira in mezzo il cavallo e dagli un po' di martinicca.

- Ma che crede, signor Filippo, che sia un arnese da nulla quell'accidente! Si figuri elle, prima prima, il povero sor Angusto, per le ricordanze, ci mandava sempre un fiasco di vino e, a volte, la schiacciata o il panforte, secondo se s'era di Pasqua o di Natale. Appena entrata lei in quella casa, tutti zitti! Eppoi, così ogni tanto, o arrivava le salsicce se avevano ammazzato il maiale, o il paniere dell'uva se vendemmiavano la vigna; ora quella cosa, ora quell'altra.... Insomma, bisogna dirlo perchè è vero, quel pover omo non si fermava mai. Arrivata in casa quella versiera, tutti morti! Ma se non gli mangia il core Vermutte, non glielo mangia nessuno!... O sor Filippo; la vede quella croce? Mi guardi bene in viso. Se stasera quando torno a casa sento dire che a noi non ci ha lasciato nulla e che ha lasciato anche venti lire sole a quella donna.... Signor Filippo, ho cinque creature! Ho cinque creature che quest'inverno hanno patito anche la fame!... Ma se quella donna la dovessi vedere riderci in faccia, a ganasce piene e con quelle venti lire in mano.... Se tutta quella grazia di Dio dovessi vederla andare a quella schiuma di canaglie de' suoi parenti.... son cenciaioli arricchiti non si sa come.... Se questo dovesse accadere.... Signor Filippo, lei dica subito: Vermutte more in galera! Signor Filippo, quella lì è una croce. -

E si levò il cappello. Capii che aveva fatto un giuramento. Quell'atto, quel ricordo ai figlioli, quella risolutezza fredda, mi levarono le burle dal capo e cominciai a guardare da un altro punto di vista quel disgraziato.

- Tu non ammazzerai nessuno, Vermutte. Hai rammentato i tuoi figlioli, e questo mi basta per assicurarmi.

- Signor Filippo....

- Mettiti in calma e ragioniamo.

- Signor Filippo, io faccio qualche pazzia.... lo sento, lo sento. -

La scesa era finita e si era entrati nella valle tutta piana come un pallottolaio fino al padule. Di trottare non se ne parlò più e lasciammo andare il cavallo lemme lemme come voleva.

Vermutte si accomodò raccolto a sedere, si abbottonò il cappotto alzandosi il bavero spelacchiato perchè s'era levato vento, e si piegò sul seggiolino, col capo fra le mani. Dopo qualche minuto mi accorsi che piangeva.

- Su, su, Vermutte! È vergogna! Che diavolo! un uomo non deve piangere! -

Cercavo di fargli coraggio; ma anch'io ero commosso, pensando alla burrasca di passioni che si scatenava sotto alle toppe di quel povero cappotto lacero e scolorito.

Avvoltolò le guide agli anelli del cruscotto, scese dal seggiolino e, dopo aver dato un'occhiata sgomenta alla sua bestia che grondava sudore:

- Che mi permette?

- Vieni, vieni - e venne a sedere accanto a me, sotto il mantice. Era pallido, e torbido negli occhi. Stirò le braccia, si fece crocchiare le noccole e sospirò, fissando la carcassa fumante del suo tribolato cavallo, sul quale era assicurato lo scarso pane della sua famiglia. Poi, continuando ad alta voce i suoi pensieri:

- Il servizio, per ora, me lo fa; ma è vecchio! Se mi more questa bestia, sono all'elemosina. Ora, se non gli rincresce, lo tengo al passo fino a quelle case laggiù. Che ha bisogno d'arrivar presto?

- No, no. Anzi, ho piacere anch'io....

- Bisognava che lei signoria avesse visto il cavallo e il bàgherre che avevo prima di questi! Non fo per dire perchè era roba mia; ma quando Vermutte batteva le strade con quell'attacco, anche le pariglie dei signori bisognava che tirassero da parte, e la gente che lo riconoscevano dalla sonagliera, s'affacciavano alle case con tanto d'occhi sgranati. M'è toccato a disfarmi d'ogni cosa! m'è toccato fare un baratto!... Figlio d'un cane! Mi chiappò che avevo l'acqua alla gola; mi fece veder venti lire quando una lira mi sarebbe parsa la manna del cielo, e m'appiccicò.... Basta: m'appiccicò quella disgraziata carogna che regge l'anima co' denti e questo vergognoso trabiccolo che sta ritto per miracolo a forza di tinta e di spago. E, fin che dura. Dio ci aiuti.... Ladro del mi' povero sangue! me l'appiccicò perchè avevo bisogno! E lui lo sapeva come si campava a casa mia, lui lo sapeva! E ora lui ha bell'e rivenduto ogni cosa e ci ha guadagnato sessanta lire! E lui lo sapeva come m'andavano le cose! Signor Filippo.... quelle cinque creature, quella povera donna di su' madre e questa ghigna di galeotto che gli sta davanti non s'è toccato pane in tutto l'inverno! Farina gialla, acqua della fonte e una salacca.... una salacca, signor Filippo... una salacca sola in sette persone, la sera di Ceppo! -

E gli colavano fitte le lacrime giù per la barba arruffata.

- E quella donnaccia e que' ladri arricchiti de' su' parenti avranno ogni cosa! E nessuno lo sa quello che si patisce! e nessuno ci vede, e nessuno ci compiange perchè l'onore preme a tutti e si ha vergogna di portare la nostra miseria a mostra per le vie. - Vermutte canta - dice la gente - Vermutte è allegro; dunque gli affari di Vermutte vanno bene. - Altro, se vanno bene! Se chi dice a quella maniera mi potesse vedere nel core, cascherebbe in terra di picchio dallo spavento. Debiti! E poi chi li pagherà? L'affare delle vetture s'è ridotto a nulla con tutto questo seminìo di diligenze, di tranvai e di vapori. Avevo aperto una botteguccia di pentole,  granate.... sa? un po' d'ogni cosa. Messero su la cooperativa, e m'è toccato chiuderla. Signor Filippo, Dio mi vede nell'anima: quelle creature che ho lasciato a casa e questo disgraziato che a sentirlo discorrere pare che voglia ammazzare bestie e cristiani, da jersera alle sette, ch'i' possa sprofondare se non è vero, siamo con una libbra di pane in tutti! Da jersera alle sette, sor Filippo; e ora, se non giudico male dal sole, si deve andar verso le tre e mezzo o giù di lì.

- Sono le tre e venti.

- Glielo dicevo! -

Io lo guardavo senza fiatare, pensando a un visibilio di tristissime cose. Anche Vermutte si chiuse nel suo dolore e continuammo in silenzio la strada. A un tratto fummo scossi da una voce che gridava dietro di noi. Ci voltammo e si vide un ragazzo in lontananza, che correva facendoci segnali che si aspettasse,

- Toh! - disse Vermutte - è il mi' ragazzo maggiore. O questa?

- O babbooo.... - gridava scalmanato il ragazzo, da lontano.

- Che volevi?

- Tornate subito indietro.

- Che è stato?

- Dice mi' madre che vi cercano a casa del sor Augusto,... Dice che v'ha lasciato mille lire! - E cominciò a fare delle capriole in mezzo alla strada e a buttare il cappello per aria.

- Dio del cielo! - urlò Vermutte. E senza ricordarsi che io dovevo andare in padule, voltò a precipizio il cavallo, e:

- Ahu! ahu! via, via, via!...

Io gridavo e lui non mi badava, e:

- Via, via, via! -

Per fortuna ebbe a fermarsi per imbarcare il figliolo, e allora scesi lesto con un salto, per non correre il pericolo di rimanere in trappola. Ma lui mi si buttò addosso e voleva menarmi con sè ad ogni costo.

- Signor Filippo, me n'ho per male. Se non viene a pigliare una sbornia con me, me n'ho per male da cristiano battezzato! -

E m'abbracciava, e mi strizzava; eppoi saltava addosso al ragazzo tutto bianco dagli svoltoloni fatti nella polvere, e giù: baci a josa, e scapaccioni e solletico.

- Mille lire! Dio del cielo! -

E senza accorgersene, in quel tempestìo, buttò lontano, con una manata, un pezzo di pane che il figliolo gli aveva portato e che gli porgeva perchè lo prendesse.

- Raccattalo: lo mangio poi. Ora m'è passata la fame. La pipa. Un sigaro. Signor Filippo, me lo dà lei? Grazie. O le guide? O la frusta? O il ragazzo? O io? -

Pareva impazzato.

- Mille lire! O il sigaro? Ah, eccolo qui. -

Se lo ficcò in bocca e, senza neanche accenderlo, senza ricordarsi di me che lo salutavo, saltò in legno, e, via, a perdita di fiato, verso casa.

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Pippo del Mugelli chiese a Terzilio un fuscello di granata e si mise a sfruconare il cannuccio della pipa, che gli s'era intasato; e, appena compiuta l'operazione, domandò che ore erano perchè voleva andare a letto.

- Toh! o che è bell'è finita? - brontolarono gli ascoltatori che, adagio adagio, si erano affollati intorno al tavolino.

Pippo del Mugelli, sentendo che erano appena le nove e che pioveva a diluvio, ordinò un altro ponce e si rintanò a succhiarselo in un canto.

- O dunque? O Vermutte la bastonò la moglie! La bruciò la casa? O la sbornia da olio santo la prese?

- Se domani è una bella giornata - rispose Pippo, guardando in viso i più accaniti; - se domani è una bella giornata andate a domandarglielo. -



NON MAI, NON MAI!

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Fuori del cancello della villa era già, da una ventina di minuti, una fiorita di strilli e di risate argentine da mettere l'allegrezza nell'anima più desolata. Erano i ragazzi dei contadini, i quali, fatti avvisare dalla padrona, s'erano radunati lì, in quel sereno e tepido pomeriggio d'aprile, ad aspettare il padroncino minore che, anche quell'anno, per la prima volta, dopo una rigida invernata, fra poco sarebbe uscito, col permesso del medico, a respirare l'aria della campagna, adagiato nel suo doloroso carrozzino col mantice di tela bianca.

Il padroncino comparve sulla porta della villa, due contadini alzarono di peso il triste veicolo per depositarlo in piana terra ai piedi della gradinata, e se ne andarono salutando muti appena compiuta la loro opera.

Il carrozzino, spinto dolcemente da una vecchia cameriera, calava lento, per evitare scosse brusche al piccolo malato, giù pel viale pieno di sole, mentre la madre, camminandogli al fianco, accarezzava con gli occhi, Dio sa con quale spasimo nel core!, la sua infelice creatura la quale rispondeva a quelle carezze con un sorriso di rassegnato dolore.

I ragazzi, aggruppati fuori del cancello in fondo al viale, si erano levati involontariamente il cappello, avevano cessato come per incanto dai loro strilli e guardavano.

- Mamma, gli hai presi i dolci per i miei amici?

- Sì, figliolo mio.

- E il vino bianco?

- Anche quello. -

La carrozzina scendeva lentamente e si fermava ad ogni dieci passi per non affaticare troppo, in quel primo viaggio dopo tanti mesi, lo sventurato giovinetto.

- Che ti ha detto il medico, mamma?

- Che presto guarirai.

- Siii?... -

E un sorriso malinconico di speranza sfiorava le sue pallide labbra. Le due donne si scambiarono un'occhiata piena di lacrime.

Il medico non aveva detto nulla, perchè era inutile. Disse tutto nove anni addietro, e pur troppo non sbagliò!, quando il bambino cadde di collo alla balia, dalle braccia di quella spensierata la quale ora, infelice anche lei, sconta amaramente fra i rimorsi la pena della sua spensieratezza. Pur troppo il dottore non sbagliò quando, dopo aver tentato ogni mezzo suggeritogli dalla sua scienza, dichiarò incurabile il fanciullo e gravissime e irrimediabili le lesioni prodotte alla spina dalla caduta. -

Forse vivrà - aveva detto il dottore - vivrà per mezzo di cure speciali ed assidue, ma di una vita languida e dolorosa; e mai non potrà servirsi delle sue gambe. -

E il presagio non fallì. Da nove anni il giovinetto infelice campa miseramente, alternando il letto con quella dolorosa sedia mobile a ruote. Quanto durerà quello stato? Forse molti, molti anni!

Arrivato in mezzo al gruppo dei suoi amici, che gli si accostarono cautamente festosi, il giovinetto guardò sorridente quei lieti visi abbronzati, quei corpicini vigorosi e diritti, e porse alle loro carezze le sue mani ghiacce, del colore della perla.

- E ora rallegratemi, - chiese il pallido giovinetto - rallegratemi con la vostra allegria. Correte, saltate.... Sì, sopra tutto, saltate. Saltate quella fossa, rampicate su quegli alberi, fate a chi primo arriva in fondo al prato, correte dietro alle farfalle e gridate.... gridate forte, che qui, all'aria aperta, le vostre grida non mi danno noia. -

I suoi occhi brillavano, una lieve sfumatura di rosso tinse le sue gote, e si chetò perchè era stanco.

Nell'aria e per i campi era una festa di luce e di fiori; e i ragazzi si sparpagliarono intorno, trillando come uno sciame di rondini.

Il giovinetto, appoggiata di fianco ad un cuscino la tempia  fradicia di sudore, mesto sorridendo, seguiva con lo sguardo avido e profondo la gioia de' suoi giovani amici. Guardava, guardava, e il pensiero gli fingeva liete e sicure speranze; ma il cuore sgomento gli diceva: - Non mai, non mai! -

Superando lo strepito gaio di tante voci giovanili, montava dai campi, fioca dalla distanza, la voce di un canto lontano:

- O giovinezza, o giovinezza cara,

Luce della mattina, alba fiorita,

Altro non sei che ricordanza amara,

Altro non sei che inganno della vita.


E mi parevi, allor che teco andai.

Tanto fedel da non lasciarmi mai;

Fedele mi sembravi e amica tanto,

E m'hai lasciato solo in mezzo al pianto! -

La madre del pallido giovinetto, seduta lì presso, tenendo gli occhi fissi nel cielo, pareva guardasse quella voce che passava sconsolata per l'aria.



TEMPERAMENTI SANI

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Quella mattina erano arrivate tristissime notizie dall'Affrica. Il signor Felice e il signor Pietro, l'uno negoziante d'olio e l'altro di granaglie, parlavano costernati fra loro, in mezzo alla strada, tenendo in mano un giornale.

Si leggeva sui loro volti biechi e accigliati il tumulto delle passioni che agitavano i loro animi di patriotti. Lo scoraggiamento per il disastro, la pietà per le vittime, l'ira contro i barbari vincitori, il rancore contro i responsabili dell'eccidio, si rimescolavano bollenti nel loro cuore, traducendosi esteriormente in brusche movenze, in convulsi serramenti di pugni, in animi monosillabi, in torbide occhiate, in gesti minacciosi.

Suonò in quel momento la campana di mezzogiorno. Come all'annunzio improvviso di una strepitosa vittoria delle nostre armi, le loro fisionomie si irradiarono di serena beatitudine; si strinsero con effusione la mano e, uno per un verso uno per l'altro, si allontanarono sorridenti e frettolosi.

Tutti e due ci avevano per desinare il loro piatto favorito. Il signor Felice ci aveva la fricassea d'agnello; il signor Pietro, il cavolo ripieno.



IL MONUMENTO

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- La questione, caro signor Annibale, è semplice, semplice. Noi, in questa faccenda, se non si rimedia, ci si fa una di quelle figure da vergognarci, tutte le volte che metteremo il capo fuori di casa nostra, a dire che siamo abitanti di questa ricca, di questa industriosa, di questa nobile Terra.

- Verità sacrosanta!

- Come! un paesucolo di duemilacinquecento abitanti appena, un borghettaccio d'affamati come Nebbiano, un branco d'accattoni deve avere la sua brava statua di marmo al suo concittadino.... al suo illustre concittadino! e noi, tremilacentosei anime, nè anche un piolo di pietra serena da mostrare a un forestiero che capiti nel nostro Paese?

- È una vergogna!

- Continueranno a vituperarci, e avranno ragione; ci chiameranno incivili, e nessuno potrà dar loro torto; ci additeranno come ingrati verso i nostri grandi, e non avremo argomenti per tappar loro la bocca; ce ne diranno di tutti i colori, caro signor Annibale, e noi dovremo abbassar la testa perchè....

- Quanto agli affari del decoro, dell'onore e di tutta questa roba da signori e da poeti, io, caro Falsetti, me n'occuperei poco. Si lascian dire e buona notte. Penso, piuttosto, ad un'altra cosa; penso all'utile che potrebbe venirne al nostro amato paese.... penso.... Ma che mi burla!... Ma ci pensa, lei, dato che si potesse arrivare allo scopo di erigere sopra una delle nostre piazze un monumento da fare strepito, il vantaggio che ne potrebbero ricavare gli alberghi, le trattorie, i caffè....

- O i vetturini?

- Giusto! o i vetturini? -

E, infiammati dall'amore del luogo natìo, i due conoscenti, dopo essere arrivati perfino a credersi amici nel calore della discussione, si esaltarono talmente che, in pochi minuti, giunsero, d'amore e d'accordo, alla conclusione che anche il loro paese avrebbe avuto una statua, e che la statua sarebbe stata equestre.

- Sissignori, equestre! - esclamò il signor Annibale, guardando spavaldo e minaccioso ai colli di Nebbiano. - E crepino d'invidia tutti quelli che ci vogliono male!

- O equestre o nulla! Quel che ci va, ci vuole!

- Al naturale o più grande del vero?

- Più grande del vero, diavolo mai!

- Due volte?

- È poco.

- Quattro?

- Siamo d'accordo.

- Sta bene.

- Qua la mano.

- Ecco la mano. -

E, nel fervore dell'entusiasmo, non si erano accorti nè anche del signor Leopoldo il quale, seguendoli a breve distanza e avendo inteso tutto, alzò la voce plaudendo, e dichiarò solennemente che, se aprivano una sottoscrizione, lui si sarebbe subito firmato per cinque lire.

- Bravo signor Leopoldo!

- Grazie, signor Leopoldo. E ora, non per presunzione.... ma, se noi tre ci mettiamo all'opera sul serio, l'affare è fatto. -

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Con delle tempre d'uomini a quel modo, c'era poco da scherzare.

Il giorno dopo fu messo insieme, nella giornata, un comitato di sette persone; e la sera erano già riuniti a discutere nello scrittoio del computista Machioni il quale, avendo un figliolo avvocato, s'era messo generosamente a loro disposizione, calcolando che da cosa nasce cosa.

Fatta la nomina delle cariche e aperta la discussione, fu, per prima cosa, deliberato all'unanimità che la statua sarebbe stata equestre sul serio e, possibilmente, di bronzo; e fu anche convenuto che il monumento sarebbe sorto sulla Piazza del Plebiscito, sebbene alcuni avessero addotto delle buone ragioni per preferire la Piazza Cavour. Furono sciolti inni al patriottismo, al progresso dell'umanità, alle glorie paesane, e venne fissato il modo di raccogliere la somma occorrente, mandando in giro schede di sottoscrizione, ma facendo assegnamento, più che sopra ogni altra cosa, sulle tombole pubbliche, sulle fiere di beneficenza, sulle accademie che gratuitamente avrebbe dato la banda cittadina, e sulle recite dei dilettanti filodrammatici della Società Ernesto Rossi.

Intanto, seguendo il nobile esempio del signor Leopoldo, e dopo avere spiegato a quattro membri del Comitato che equestre voleva dire «a cavallo», firmarono tutti per una offerta di cinque lire.

- Mi pare - disse il presidente, stropicciandosi di compiacenza le mani - mi pare che il più sia fatto. E ora, prima di sciogliere l'adunanza.... Corpo di Bacco!... mi pareva d'avere qualche altra cosa da dire, ma ora.... con la testa un po' confusa.... Ah! eccola. Dicevo io... E questo monumento, a chi lo facciamo? -

Il silenzio che si sparse fra i radunati, dimostrò che l'osservazione era stata trovata acuta e meritevole d'attenzione; e atteggiati in pose da crepuscoli michelangioleschi, rimasero tutti fermi a pensare.

Dopo un quarto d'ora buono, il professor Bandernoli, uomo di grande dottrina accoppiata a una rara modestia e a una condotta esemplare, chiese la parola.

- Parli.

- Fra le molte glorie paesane, tra le più immacolate, tra le più fulgide gemme intellettuali della seconda metà del secolo passato, io non esito, o signori, a pronunziare un nome.... il nome del canonico Palandri ! -

Una gran risata troncò la parola al Bandernoli il quale, roteando inveleniti quegli occhi abitualmente carichi di miele, batteva i pugni sopra la tavola, chiedendo di essere ascoltato.

- Ma no, ma no, caro Professore...

- Ma, via, Professore; un canonico a cavallo! -

E giù, un'altra gran risata.

- Si abbandoni l'idea del cavallo - urlò il Bandernoli, scattando come una molla - si abbandoni l'idea del cavallo! Davanti a un nome come quello di un Agostino Palandri, si abbandona qualunque idea preconcetta;... e il riso, o signori, è una irriverenza indegna; è una profanazione sacrilega.... è.... oh! E io... io me ne vado.

- No, no, Professore.

- La preghiamo, signor Professore.

- Senta, senta; mi dia retta, Professore.

- Non sento e non do ascolto a nessuno. Scancellino il mio nome e quelle cinque lire, e io me ne vado. -

E se ne andò davvero.

Ma il giorno dopo, il vuoto lasciato dal professor Bandernoli fu riempito col nome di Celestino Chiavacci farmacista; nome caro ad Igèa per le sue inimitabili imitazioni delle pasticche Gérodel. Vorrei tesserne qui il meritato elogio, ma la sua rara modestia e il sentimento della mia incompetenza mi costringono a tacere.

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Passarono tre mesi di inutili premure. Il professor Bandernoli non fu possibile tirarlo nuovamente alla fede.

- Faremo da noi! - disse il presidente. E invitò il comitato per una nuova adunanza, nella quale, ai tre soli membri che intervennero, ritornò il fervore nell'animo e la sicurezza d'arrivare vittoriosamente allo scopo prefisso.

Il maestro della banda mandò a dire che aderiva all'invito del Comitato purchè pensassero loro alla illuminazione e alle spese di servizio. Il direttore della filodrammatica Ernesto Rossi scrisse di accettare, chiamandosi onorato, ma libero da spese. Un gruppo delle più distinte gentildonne avevano espresso con una bella lettera la loro ammirazione per la nobile idea, e promettevano di mettersi subito all'opera per raccogliere doni e organizzare una fiera di beneficenza.

Tutte queste comunicazioni del presidente furono accolte da entusiastici applausi. E l'adunanza fu sciolta fra vivaci strette di mano, rallegramenti reciproci e allusioni di disprezzo, e abbastanza palesi, al professor Bandernoli e a quelli straccioni di Nebbiano.

Due mesi più tardi l'idea della statua equestre era andata all'aria. Girando per il paese si sarebbero ravvisati, anche senza conoscerli personalmente, i membri del Comitato e i loro aderenti, dallo sconforto che appariva sui loro volti.

Uno scultore amico del presidente aveva scritto che, dando egli quasi gratuita l'opera sua, il monumento, tutto compreso e calcolato, sarebbe venuto a costare dalle cinquanta alle sessantamila lire.

- Sorbe! - disse il Falsetti, tastandosi il portafogli nella tasca di petto.

- Alla macchia! - esclamò il signor Annibale, schiacciando una cimice di bosco, quando il Machioni andò a dirglielo in giardino, dopo desinare.

- Ci ho gusto! - brontolò il professor Bandernoli, pensando che, soppresso il cavallo, forse si apriva uno spiraglio di probabilità per il suo canonico Palandri.

Il paese, in genere, sentì male la cosa. Le signore, poi, erano inconsolabili, e specialmente quelle che avevano già dato delle ordinazioni alla modista o alla sarta per andare in giro a raccogliere offerte.

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- E allora, signori miei, che si fa? Mi pare che ogni esitazione sia inutile.

- Pur troppo!

- Bisogna piegare il capo dinanzi alla ineluttabile difficoltà, e rinunziare coraggiosamente all'idea del cavallo. -

Questo diceva una sera il presidente ai membri del Comitato, che, mogi mogi, lo stavano a sentire. E l'adunanza si sciolse malinconicamente silenziosa.

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La popolazione, adagio adagio s'era tutta interessata della grave questione; e, in ogni bottega e in ogni luogo di riunione serale erano discussioni, dove più dove meno, secondo l'ambiente, aspre e tumultuose.

I socialisti tacevano minacciosi; gli anarchici preparavano i sassi da tirarsi alla statua appena fosse stata messa al posto; i clericali soffiavano discordia da tutte le parti dopo che era stata messa in ridicolo l'idea del Canonico equestre; i vetturini, i caffettieri e gli albergatori, brontolavano perchè svanite le loro più belle speranze d'un monumento sbalorditoio da chiamare gli Inglesi nel loro paese a branchi come le pecore; le persone civilmente equilibrate.... quelle non dicevano nulla perchè non ce n'era nè anche una.

Cioè!... No, non è vero. Dicendo che non ce n'era nè anche una, ho esagerato. Ce n'erano tre. Ma tutt'e tre si guardarono scrupolosamente di far palese il loro pensiero, per lo spavento di vedersi diradare gli avventori in bottega.

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Il medesimo scultore aveva scritto al Presidente che per la sola statua in piedi, a grandezza naturale, ci sarebbero volute circa ventimila lire.

- Troppe! sempre troppe, permio baccone! - osservava il presidente ai membri del Comitato che lo stavano a sentire con la coda fra le gambe - sempre troppe, dopo le defezioni di chi ci aveva, con tanto slancio, promesso il suo appoggio....

Chi lo sa! Lo scultore, questo ve l'assicuro io perchè ci diamo del tu, lo scultore è un galantuomo dicerto. Mah! Io m'informerò meglio, sentirò magari da qualchedun altro, ma, secondo me, con tutti questi affari d'Affrica, ci deve essere stato un rincaro nel marmo. -

La banda civica era entrata in un periodo di dissoluzione e, come quei vermi che a spezzarli diventano due, già dal suo seno era sorta una fanfara di dissidenti, tutti suonatori di strumenti d'ottone. I filodrammatici Ernesto Rossi si erano sciolti dopo che il loro presidente aveva preso le difese di quelli di Nebbiano quando ne bastonarono quattro quella sera che si azzardarono a passare dal paese in barroccino. Le signore dissero che a stare in mezzo a quella cagnara ci andava del loro decoro e dichiararono che, se qualcuno voleva la fiera di beneficenza, se la facesse da sè.

Quando fu tastato il Sindaco per sentire se si sarebbe adoprato a ottenere dal Comune un sussidio per un monumento da erigersi alla memoria di.... di.... (a questo ci si sarebbe pensato dopo), il Sindaco rispose che ben volentieri lo avrebbe fatto, ma a cose definitivamente stabilite. Il deputato al parlamento e il consigliere provinciale, badando a non perder voti nel caso di nuove elezioni, promisero il loro caloroso appoggio, lodando la patriottica iniziativa, degna veramente del nobile collegio che altamente si onoravano di rappresentare.

Ma, nonostante la buona volontà spiegata da tutti, le cose non andavano punto bene. Il presidente fu costretto a dimettersi per causa di gravi scissure sorte in seno del Comitato dopo quella benedetta questione fra la Misericordia e la Pubblica assistenza.... una questionaccia, via.... Già è meglio non parlarne.

Ne fu sostituito un altro: il veterinario Trabalzi, una specie d'uomo di paglia, come lo credevano il Falsetti e il Machioni; ma il bravo Trabalzi aveva le sue idee e le sostenne. Accettò, ma, a condizione che si parlasse d'un busto e non d'una statua, poichè lui a fare il pagliaccio non c'era avvezzo e, quando s'era ingolfato in una impresa, lui non era uomo da tornare indietro.

Sotto una mano di ferro come quella del nuovo presidente, pareva, dopo un paio d'adunanze, che le cose accennassero a una piega migliore; ma tutti i nuovi progetti andarono in fumo quando un altro scultore ebbe scritto che un busto di marmo sopra una colonnetta di bardiglio, sarebbe costato duemila lire circa.

- Che ladri questi scultori! - disse il presidente Trabalzi, sbacchiando con impeto la lettera sul tavolino.

- Quanto a quello che lei chiama «un ricordo marmoreo qualunque» - aggiungeva in un poscritto lo scultore - gradirei una spiegazione. Se si trattasse d'un medaglione, si può andare, secondo le dimensioni, dalle cinquecento alle mille lire. Trattandosi di altra cosa, me lo sappia dire, e io sarò fortunato di mettermi a sua disposizione.

- Che concludiamo, signori? - domandò il presidente Trabalzi, interrogando l'accigliato uditorio..

In poche battute fu concluso tutto e, questa volta, finalmente, in modo definitivo. L'uomo da onorarsi col monumento era stato trovato. Il busto sarebbe stato eretto al nonno del Trabalzi, a quel gran benefattore il quale, sessant'anni addietro, aveva impiantato la florida industria delle mattonelle lucide di asfalto impenetrabile per le terrazze scoperte.

Venuti ai voti, furono tre favorevoli e tre contrari, essendosi astenuto, per un riguardo delicatissimo e che gli fece tanto onore, il nipote del grande industriale. A una seconda votazione: lo stesso; a una terza: lo stesso. Bisognò abbandonarne l'idea. Rifece allora  capolino il nome del canonico Palandri, ma gli fu opposto, e prevalse subito, quello di Garibaldi, non tanto per fare un dispetto al professor Bandernoli, quanto perchè si era venuti a risapere che uno scalpellino d'un paese sopra a Firenze, che si chiama Fiesole, ce n'aveva uno di pietra serena avanzatogli dal tempo della Capitale e che avrebbe potuto rilasciarlo, messo e murato al posto, per trentacinque lire, cioè quante erano quelle già versate dal Comitato nelle mani del Cassiere. Il giorno per l'inaugurazione: la festa del titolare; il posto dove collocarlo: una nicchia nella facciata del palazzo comunale.

La sera di poi gli affari del Comitato si trovarono al medesimo punto di quando avevano incominciato, perchè il Sindaco si oppose energicamente al progetto di deturpare con una nicchia la facciata storica del palazzo comunale, e non ci fu verso di poterlo smuovere.

- Mettiamolo di faccia, nella casa del Tempesti.

- Già! e io vi lascio sfondare il muro. Quanto mi date? - rispose il Tempesti quando il Comitato, rappresentato dal suo segretario, andò a domandargliene.

Dopo una violenta protesta, nella quale ne toccarono di mattonella anche gli abitanti di Nebbiano, il Comitato si sciolse e, alla unanimità, fu deciso di spendere le trentacinque lire in una bella cena, mandando al diavolo tutti quelli che per filantropia o per amor patrio si occupano di far del bene al proprio paese.

- Una bella cena da Beppe del Cervo d'Oro! e questa è la minuta. Tieni, Bavetta (Bavetta era il giovane di banco del computista Machioni) portagliela e digli che stasera alle nove precise saremo da lui. -

Bavetta tornò dopo poco a dire che stava bene ogni cosa e che alle nove potevano andare. Ma una mezz'ora dopo, Beppe del Cervo d'Oro, il quale aveva fatto meglio i suoi conti, mandò un ragazzo a dire al Presidente che scorciassero la minuta o allungassero il prezzo perchè lui, per cinque lire a testa, tutta quella roba non gliela poteva dare.



MENICO

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All'età di sedici anni entrò a mezza paga tra le opre della fattoria. A diciotto era già a opra intera e con assegno fisso perchè trafficasse intorno alle botti e al granaio anche in que' giorni nei quali la pioggia impediva i lavori della campagna.

Il fattore Ippolito, vecchio merlo, ammaestrato da sessant'anni d'esperienza, ne aveva subito aocchiato la qualità della carne e la quadratura delle spalle. Tanto che, ogni volta che si presentava l'occasione d'un lavoro aspro e delicato: - Ditelo a Menico. - Così, quando c'era da portare alla villa una barrocciata di roba fragile e grave, col tempo piovoso e le strade guaste: - Attaccate il Moro. -

Ma per Menico erano trionfi. Un soldato valoroso che si sente chiamare per nome nei momenti di maggior pericolo, poteva aprire il core all'orgoglio come lo apriva quel vigoroso ragazzo quando il fattore diceva: - Chiamate Menico. -

E Menico non fece pentire chi aveva riposto in lui tanta fiducia. Sobrio, forte e obbediente, incominciò a lavorare quei terreni quasi da fanciullo; e non ha mai cessato, e non ha mai rallentato fino agli ottantadue anni, quanti ora ne conta. Taciturno e insocevole, ora come da giovane, punto si espande coi suoi pettegoli compagni di lavoro. Chi canta, chi ciarla, chi ride. Lui tace e lavora, niente lo distrae, niente lo commove. Quando sente rammentare i suoi genitori che tanto somigliavano a lui, increspa la fronte, aggrotta le ciglia e lavora.

A chi gli domanda perchè non ha preso moglie, lui non risponde con le parole: alza in alto con una mano la vanga, e battendone il manico con l'altra, fa capire che quella è la sua sposa. Gira in tondo un'occhiata di compassione ai suoi fratelli di fatica, e ripiglia silenzioso il lavoro.

In ogni angolo di quei poggi egli ha un ricordo che basta a riempirgli a trabocco quelli che altri crederebbero vuoti del suo cuore.

Dove è quella bella strada carreggiabile, sessant'anni fa era un abisso di frane scoscese. Lui ci lavorò.

Quei bei vigneti sulla costa di levante erano, trent'anni addietro, desolate prunicce dove un grillo sarebbe morto di fame. Lui ci lavorò.

La vedete quella bella chiudenda d'olivi, quasi pianeggiante?   Là, cinquanta anni or sono, era un dirupo. Tutto a forza di colmate. A quelle colmate lui ci lavorò.

Quella bella posta, tutta a viti scelte e a fruttami, elle è la delizia di chi la vede, lui la piantò, lui fece tutti gl'innesti; e quando fu finita, il padrone vecchio, bon'anima, gli regalò una bella cacciatora usata e gli disse: - Bravo! -

Quante gioie sconfinate in quel core vergine di animale da  lavoro! Ma anche a lui non sono mancati gli affanni. Le lunghe siccità che minacciavano i raccolti del padrone; le piene irrompenti che strisciavano i seminati, erano pene ineffabili al core di Menico. L'anno che la grandine devastò tutto il raccolto di quelle colline fiorenti, Menico stette a letto due giorni con la febbre. La sola febbre che egli abbia avuto in tanti anni di vita, i soli due giorni nei quali egli non sia comparso sul lavoro.

Il padrone vecchio, morendo lasciò due lire il giorno per Menico quando egli non fosse stato più buono al lavoro. Menico sorrise a quell'annunzio, e piantò più profonda la vanga nel terreno.

Ieri, quando comparve con gli altri a mietere nelle terre a mano, non si sentiva bene. Lui, sempre innanzi nella proda, ieri rimaneva indietro ai più fiacchi e perfino alle donne.

- Non vi sentite bene oggi, Menico!

- Non mi sento bene. -

E si asciugava il sudore e si ergeva impettito per respirare, a bocca spalancata.

Alla merenda non volle mangiare. Seduto all'ombra d'un albero, con le spalle appoggiate al tronco, rimase lì, con la testa in seno e le braccia incrociate, e non si mosse nè anche quando gli altri ripresero il lavoro.

I vecchi si voltavano ogni tanto a guardarlo pensierosi. I giovanotti e le ragazze avevano voglia di scherzare e, magari, di sfogare un po' la loro ruggine contro quel serpente che, per tenergli dietro, bisognava consumarsi un'ala di fegato.

- Fai fai, v'è preso la fiaccona anche a voi, eh, Menico!

- Bona, eh, quella liretta e quaranta guadagnata in panciolle!

- Volete una materassa, Menico! -

Menico non rispondeva.

- Ora vi cantiamo la ninna nanna. La volete, Menico, un po' di ninna nanna? -

E due giovinastri e due ragazzacce sguaiate, battendo il tempo con le falci sui covoni, si misero a cantare:


E ninna e ninna e nanna

Piccino della mamma

E dormi, e ninna e nà,

Se no, si dice al gatto,

E il bimbo dormirà.


Un vecchio si accostò a Menico per accertarsi e per domandargli se avesse bisogno di qualche cosa; e posatagli una mano sulla spalla, lo scosse lievemente per destarlo.

Il corpo di Menico, già morto da una mezz'ora, strisciando la schiena al tronco scabroso dell'albero, andò a fermarsi, a rotoloni, in un solco.



LA GIACCHETTA RIVOLTATA

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È curiosa. Dopo tanti anni d'una relazione che poteva quasi chiamarsi amicizia, non ero stato mai nella sua stanza di studio.

Avendo da parlargli d'un affarucolo, della rettificazione del confine fra un suo podere e quella mia vignuccia del paretaio, ci capitai, come s'era fissato, l'altra sera. Ti ricordi? Tu eri alla finestra e mi domandasti: - O dove vai? - e io ti risosi: - Vado dal sor Maurizio. -

Quando entrai, lui scriveva. Mi disse che avessi pazienza un momento, mi pregò di sedere, e continuò a scrivere. Io approfittai di quel momento per dare un'occhiata alla stanza. Era un salottino caldo caldo, ornato con signorile semplicità e pieno d'ogni ben di Dio; una specie di arsenale artisticamente arruffato che dava chiara e sicura idea dell'indole gentile di quel buon vecchione il quale, chi sa da quanti anni, accatastava lì dentro tutta quella roba. Oggetti curiosi da meritare una spiegazione ce n'erano parecchi; ma più di tutti mi dètte nell'occhio una giacchetta di panno bigio, tutta logora e strapanata, la quale, appesa a un beccatello, ciondolava dentro la vetrina delle armi. - Forse, è la sua cacciatora prediletta - pensai. - Ma no: è troppo lacera e indecente per un vecchio signore sempre lindo e sempre ravviato con severa eleganza com'è lui. È una curiosità che voglio levarmi. Quando avremo finito di parlare delle nostre faccende, gliene voglio domandare.

- Eccomi da lei - mi dissi il signor Maurizio, posando la penna e stendendo la mano verso quella pipa di spuma che tu gli rubi con gli occhi tutte volte che scende in paese per i suoi affari.

- Mi scusi - continuò il signor Maurizio. - Avevo qui una lettera di gran premura... Anzi.... ma non vorrei esser troppo esigente.

- Mi dica, mi dica.

- Che ritorna in paese, lei, stasera?

- Subito, appena ho finito qui con lei.

- Che vorrebbe farmi il favore d'impostarmela?

- Ma si figuri! -

Parlammo dei nostri affari, e dopo, chiacchierando del più e del meno, quando mi parve il momento opportuno.... Non me lo so spiegare neppure io.... Da tanti anni ci conosciamo; io gli voglio un ben dell'anima, so che anche lui ne vuole a me, ma.... è inutile, quando discorro con lui, non son buono di vincere una certa suggezione. A volte in verità, mi darei magari dell'imbecille: m'impappino, piglio lucciole per lanterne... Basta. Quando, come dicevo, mi parve il momento opportuno:

- Lei, signor Maurizio, mi deve levare una curiosità. Mi dice che cos'è quella giacchetta! -

Scosse il capo sorridendo:

- Ragazzate, ragazzate! Ricordi lontani lontani. C'è una storiella intorno a quella giacchetta.... c'è una storiella. I miei figlioli la conoscono. Delle persone di fuori non la conosceva che il suo povero babbo al quale, guardi le combinazioni! ebbi a raccontarla una sera quando, ma son molti, molti anni!, quando capitò qui come ci è capitato lei, e per un affare press'a poco, se ben mi ricordo, dello stesso genere. -

E, in tempo che mi parlava, teneva gli occhi a quella giacchetta, un po' sorridendo malinconico, un po'accigliandosi dolorosamente.

- Era un galantuomo suo padre, ed era un uomo di cuore come sono tutti i galantuomini. Quanto rise quella sera! E come andò via commosso e addolorato quella sera! Ragazzate, ragazzate! Quella giacchetta lì me la misi addosso per la prima volta trentasette anni or sono. Fra mia madre e un sartuccio che veniva qui a casa a giornata, me la fecero per andare a Pisa il terzo anno che ero a quella Università. -

E sorrideva sotto i suoi baffoni bianchi.

- Senza cavarmela mai da dosso, feci il ganimede tutta l'invernata perchè era di panno per quei tempi assai pregiato e perchè, non so come, me l'avevano, fra tutti e due, inciampata discretamente di taglio. Per quell'anno andò bene, ma l'anno seguente, dopo tanto struscìo, non si riconosceva quasi più. S'avvicinava il carnevale coi nostri ballonzoli, con un po' di teatro, e.... un'altra giacchetta per cambiarmi non l'avevo. Altri tempi, amico mio. Oggi uno studente parte per l'Università con un corredo da sposa, e due grosse valigie non bastano, qualche volta, a contenere il ricco ed effemminato bagaglio. A quei giorni: il vestito che avevamo addosso, quattro libri e un po' di biancheria dentro una sacca di traliccio da tappeti, i nostri sedici anni e il nostro cuore vergine e spensierato.

Un altra giacchetta per cambiarmi non l'avevo, e mi piaceva di essere decente. Se avessi scritto a casa, non ci sarebbe stato pericolo, ma non volli farlo. Cerco d'un sartino abbastanza affamato, lo trovo e gli dico: - Quanto vuoi per rivoltarmi questa giacchetta? - Dalla bramosia di agguantar l'occasione, senza neanche guardarmela, dice: - Cinque paoli.

- Te ne dò quattro.

- Quattro e mezzo.

- Quattro.

- Sta bene.

- Ma - dico io - ne ho bisogno subito.

- Mi ci metto nel momento - dice lui - e domani in giornata gliela riporto. Me la lasci.

- Vieni a casa mia; sto qui vicino. - (Stavo in via Cacciarella e lui in Piazza Santa Caterina).

Quando fummo a casa gli detti la giacchetta, lo lasciai partire e, poco dopo, uscii anch'io, infilzandomi il cappotto sopra alla camicia.

Fu puntuale, il giorno dopo riebbi la mia giacchetta che pareva tornata nuova.

L'anno seguente siamo alle solite. Verso la fine dell'inverno non era più portabile. Senza ricordarmi che l'avevo già fatta rivoltare, chiamo il solito sarto e gli do la stessa commissione. Egli, o smemorato come me o, come è più probabile, molto furbo, la piglia e me la rivolta.

- Eh! caro mio. O che lavoro è questo ? - Gli osservai quando me la riportò.

- Perchè? - mi domandò lui.

- O se ò peggio di prima!

- Era già stata rivoltata; me n'accorsi appena ebbi incominciato il lavoro.

- E perchè non sospendesti e venisti a dirmelo?

- Noi stiamo agli ordini, signor Maurizio. -

I miei compagni non mi lasciarono pelle addosso. - Bau, bau! - mi facevano da lontano. La chiamavano il cane, quella povera giacchetta. «Bada, bada! non la toccare perchè si rivolta!» Ma io la trattengo qui con delle scemerie, mentre i suoi affari....

- Senta, signor Maurizio - dissi io - se lei mi dice «vattene» me ne vado, ma se lei mi onora....

- Poco onore e poco merito. Il rammentare le cose passate è sempre un conforto per noi vecchi, e specialmente quando se ne può parlare con un giovane, al quale si vuol bene come io voglio bene a lei.-

Mi stese la mano, e io gliela strinsi con una voglia matta di baciargliela.

- E allora continuo - riprese il signor Maurizio. - Dovendo presentarmi ai professori prima degli esami, buttai giù buffa e scrissi a mia madre. Otto giorni dopo il procaccia mi consegnò un bel vestito nuovo e una lettera affettuosa. - E dètte un'occhiata al ritratto di sua madre appeso alla parete, in faccia alla scrivania.

- Per lo stesso procaccia - continuò il signor Maurizio - mandai a casa la vecchia giacchetta, pregando mia madre di regalarla a Nando. Nando era un ragazzo della mia età, figlio d'una famiglia di nostri contadini; il mio compagno di giochi puerili nell'infanzia, il mio compagno indivisibile alla caccia, alle gite alpine e alle prime scappate giovanili.... Una specie di negro bianco, un cane, una innamorata, la mia ombra. Se gli avessi detto: «Buttati in quella fornace perchè ho freddo,» mi avrebbe ringraziato e ci si sarebbe buttato. Eccolo qui. -

E mi accennò, alle sue spalle, un vecchio tocco in penna ingiallito, fatto da lui, che rappresentava Nando nell'atto di sollevare in alto una lepre perchè i cani, che gli facevano ressa intorno, non gliela sciupassero.

- Torno a casa - continuò il signor Maurizio. - Torno a casa per le vacanze del Ceppo e trovo Nando che m'era venuto incontro con la cavalla, alla stazione. Pareva uno zerbino.

- O cotesta!? - gli domando io.

- Che cosa?

- Cotesta bella giacchetta nuova.

- È la sua.

- Quale?

- Toh! quella che mandò lei alla signora padrona perchè me la regalasse.

- Sì, press'a poco la riconosco; ma.... Fammi un po' vedere. O se è meglio di quando te la mandai!

- L'ho fatta rivoltare. -

Venne la primavera e, con la primavera, le prime voci di guerra. Incominciaron subito gli arrolamenti dei volontari. Sul principio clandestini, poi palesi. Inni, suoni e bandiere per le vie. Italia, Italia! Il solo nome di Garibaldi metteva la febbre nel sangue dei giovani generosi. - Garibaldi è sul continente! - Garibaldi è a Torino! - Ha parlato con Vittorio Emanuele! - Cavour gli ha dato una missione segreta! - L'hanno arrestato! - No! - È a Genova! - Ha preso la via delle Alpi! - È sempre a Caprera! - È a Como! - Il sangue di noi giovani bolliva. Era un esaltamento nuovo, era un delirio. L'Università era deserta. Il campano, quel vecchio e malinconico bronzo mugolone che da tanti secoli, imprecato o benedetto, chiama i dormienti alla pace della scuola, pareva che, mutata indole e voce, mandasse gridi di guerra e cantasse gloria a Dio per la patria, mettendoci i brividi nelle ossa.

- Tu sei pronto? - Sì. - Il tale? - È partito. - Il tal altro? - Partito. - E tu? - Stasera. - E ogni sera erano lacrime di gioia, erano abbracci lunghi lunghi, erano addii di fuoco, baci sonanti di promessa e di speranze. L'Italia, l'Italia!

Tre giorni dopo, alla stazione di Genova (chi glielo avesse detto non lo so) mi sento chiamare:

- Signor padrone.

- Nando!... Via, via sul momento!... Via subito, via subito a casa! - E, a spintoni, me lo cacciavo avanti, spingendolo verso un treno in partenza per la Toscana. Quando fummo dinanzi a uno sportello aperto, si voltò opponendomi resistenza, e:

- Sotto le rote ci vado, in vagone, no! -

Io lo guardavo supplichevole e sconcertato; lui guardava me, rispettoso e risoluto.

- La padrona mi ha dato un ordine. «Riportami a casa il mio figliolo» - mi ha detto - «o parti con lui!» -

L'abbracciai come un fratello e lo menai nel branco dei miei compagni che, nella furia dell'entusiasmo, poco mancò che non gli mettessero in brani quella povera giacchetta.

Eccola là! Nando non tornò più a casa sua. -

E mandò un sospiro. Il signor Maurizio soffriva. Lo vedevo bene da una vena che gli era gonfiata, serpeggiando su quella nobile fronte di galantuomo. Non ebbi il coraggio di interromperlo.

- Nando non tornò più a casa sua! Arrivato a Piacenza, m'ammalai.... Una cosa leggiera, ma dovetti star là in uno spedale parecchi giorni. Le notizie delle prime vittorie affrettarono la mia guarigione; intanto i miei compagni erano già lassù.... forse qualcuno morto.... pur troppo! E io avevo perduto il tempo migliore!

Appena potei reggermi sulle gambe via! - Il quartier generale dov'è? - La settimana passata era qui. Ieri partirono per in su. Non lo sappiamo. - Io e il mio ragazzo non avevamo nè abiti militari nè armi. Bisogna arrivare al quartier generale. Ai primi carri di feriti che incontrammo, potei avere due fucili.

- Che ne volete fare, senza cartucce? - ci fu domandato.

- Dateci anche quelle e qualche cosa ne faremo.

- Non ne abbiamo.

- Son cannonate questo rumore sordo che sentiamo?

- Sì

- Dove siamo?

- A Varese.

- È molto distante?

- Lo vedete quello sprone di montagna lontano? È là dietro. Fra un'ora ci arrivate.

- E Garibaldi?

- Lassù.

- E le cose della giornata?

- Per noi che dobbiamo tornare indietro male; lassù, bene.

- Saremo in tempo a far nulla?

- Andate, andate; oggi, lassù, ce n'è per tutti. Di dove siete!

- Toscani.

- Bravi Ragazzi! Liquore ce ne avete?

- Eccovene.

- Grazie. -

Da un'ora, il mio compagno ed io, si andava di passo accelerato, e l'ultimo gomito della via, presso lo sprone di montagna indicatoci, era poco distante. Il cannone si era chetato, ma il crepito della fucileria si faceva più fitto e pareva vicinissimo a noi; tanto vicino, che il miagolio di qualche palla, forse deviata, si sentiva, di quando in quando, passare alto sulle nostre teste. - Nando, fra poco siamo in ballo anche noi! - Mi guardò, sorrise e tirò innanzi, a capo basso. Dopo qualche minuto di cammino silenzioso.... Chi sa? I suoi pensieri dovevano essere lontani lontani. Forse andavano coi miei alle nostre famiglie, alle nostre case....

- Signor padrone.

- Che?

- Quel bell'innesto che si fece insieme al ciliegio della vigna è seccato. Lo troncò il vento. Si ricorda quel vento?... quel ven.... Ah! Dio.... Dio mio! -

Non disse altro. Aprì le braccia, raggrinzò il viso e cadde riverso per terra!

Tanti anni, tanti anni sono passati! Là! fumiamo. -

Il signor Maurizio si alzò da sedere e andò lento lento verso la vetrina delle armi. Prese quella giacchetta e scotendone la polvere con una mano, leggermente come se avesse voluto farle ina carezza:

- Guardi! - mi disse; e puntò l'indice verso un piccolo foro tondo accanto a un bottone di sinistra. - Di qui passò la palla che aveva spezzato il core a quel mio povero ragazzo.



IL PROFESSORE

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Un gran cartellone rosso vinato aveva annunziato alle turbe attonite un visibilio di roba per l'inaugurazione del nuovo teatro Giacomo Puccini. Accademie vocali e strumentali, un corso di recite della società filodrammatica Gustavo Modena, giochi di prestigio, quadri viventi e, da, ultimo, due grandi veglioni per gli abbonati. Terminava con un elenco di nomi delle principali celebrità che vi si sarebbero prodotte e di quelli dei sette professori che avrebbero fatto parte dell'orchestra.

Si aprì il corso delle rappresentazioni con la Pianella perduta nella neve, novissima per la maggior parte di quel pubblico, che ebbe un vero e clamoroso successo, attribuito specialmente all'esecuzione dell'orchestra, che fu dichiarata addirittura insuperabile. Se non che, dopo la prima rappresentazione, i sette professori erano diventati otto, perchè vi fu aggiunto improvvisamente Cecco d'Orsola, con gran sorpresa dei suoi concittadini, i quali, a quella notizia, fecero la bocca fino agli orecchi dalle risate. Narrando questo, io non intendo denigrare la reputazione di Cecco; Dio me ne guardi! Eppoi ogni allusione maligna sarebbe inutile, perchè tutti ormai conoscono le sue eccellenti qualità: figliolo esemplare, marito e padre amorosissimo, amico impareggiabile, impiegato zelantissimo, sonatore.... Qui bisogna che mi fermi un momento per trovare l'epiteto conveniente.... L'ho trovato. Come sonatore lo chiameremo innocuo, perchè lui non ha mai molestato nessuno; lui non conosce affatto la musica e lui non ha mai toccato nessuno strumento, se si eccettua quel violino che gli fu consegnato la seconda sera delle rappresentazioni, senza che egli sapesse nè anche da che parte si pigliava in mano,

Il direttore d'orchestra esasperato e piccato da un articolo del Sistro che metteva in ridicolo i suoi sette sonatori, chiamandoli i sette peccati mortali, volle aumentarne uno a tutti i costi e, per non spendere a farlo venir di fuori, non essendovene altri in paese, inventò la trappola di metter Cecco d'Orsola nel branco a fare da comparsa.

Quando egli viene in orchestra, va di ritto al suo posto di coda, si mette a sedere, smoccola il lume, accomoda la parte sul leggìo e, dopo una diecina di minuti, alla più lunga, s'addormenta. Generalmente fa tutta una tirata fino al termine dello spettacolo, ma qualche volta si desta di sussulto, prima del tempo, quando lo pigliano nel naso o in un occhio con le pallottole di midolla di pane, coi tappi di sughero o con le cicche che gli tirano dalla barcaccia. Si ricompone subito trasognato, guarda di traverso quei giovanottacci che ridono alle sue spalle e tira giù una gran fregata alle corde, come viene viene, non tanto per vendicarsi dell'offesa, quanto per dimostrare che il pane lui non lo guadagna a ufo, e che sa tenere alto il decoro del suo titolo di professore e quello della sua posizione sociale di bidello della cooperativa di consumo.

- Ha riposato bene, professore!

- Professore, ben alzato. -

A questi complimenti che gli rivolgono quei giovanottacci della barcaccia quando, finito lo spettacolo, attraversa l'atrio per andarsene, egli, qualche volta, specialmente quando vede gente di fuori, risponderebbe volentieri per le rime; ma pensando ai sessanta centesimi che ha guadagnato quella sera, tira innanzi a capo basso e se ne va a casa dove l'aspettano una moglie, un cane da lepre e, se non ho fatto male il conto, nove figlioli.

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Eppure, Cecco d'Orsola, poco tempo addietro era stato a un pelo di diventare un grosso e danaroso commerciante.

Quando prese moglie, il guadagno sul quale poteva fare un incerto assegnamento, montava a circa centocinquanta o dugento lire l'anno, che raspollava sù sù, portando lettere alle ville dintorno, allevando nidiate di merli e d'usignoli, tosando cani e facendo la barba per un soldo ai contadini. La moglie faceva la treccia e, col suo guadagno di trenta o quaranta centesimi la settimana, provvedeva alla biancheria e alle spese minute della famiglia.

Finchè non vennero figlioli, fu per i due sposi una cuccagna, e, vero miracolo della miseria, lei trovava il modo di mettersi addosso anche qualche trina; lui trovava quell'altro di fumare a pipa e di prendere il ponce tutte le domeniche.

Fino al terzo figliolo, nessun cambiamento si notò nei costumi dei due coniugi; al quarto, come le vele di due paranze prese al largo dal libeccio s'imbrogliano una dietro l'altra via via che il vento rinfresca, così sparirono le trine di lei e fu soppresso il ponce di lui. Al quinto sparì la pipa; al sesto.... al sesto, Cecco pensò seriamente ai casi suoi e aprì in un sottoscala una rivendita d'ogni cosa: pentoli, granate, ventole per il fuoco, salvadanari, trabiccoli per il letto, fiammiferi ecc. ecc. Ma il commercio veramente remunerato le lo faceva di certe paste con gli anaci, di sua invenzione, che chiamava parigine, le quali, ogni mattina, andavano via a ruba fra i ragazzi delle scuole, a un centesimo l'una.

Delizioso mestiere per lui! La piccolezza dello stambugio gli permetteva di fare ogni cosa da sedere; e lì si grogiolava, nell'inverno stando dentro tutto stoppinato con lo scaldino fra le gambe e la pipa in bocca; nell'estate, seduto sulla porta, tutto sbracalato, a sonnecchiare, a sbadigliare e a scacciarsi le mosche col giornale.

- Bravi, bravi bambini! Fermi, fermi con quelle mani. Si guarda e non si tocca. Quante lei? E voi?... Cinque? E il soldo dove l'avete? Va bene!... Passa via! pezzo di ladro, se non t'ammazzo io, non t'ammazza nessuno! -

Un cane aveva dato una linguata nella cesta delle parigine. E i ragazzi, fra grandi risa:

- L'ha leccate, l'ha leccate! -

La seggiola di Cecco volava dietro al cane, e il cane se la batteva a precipizio, con la coda fra le gambe.

- Non ha leccato nulla! - gridava Cecco.

- Sì, l'ha leccate, l'ha leccate! - gridavano i ragazzi, più forte di lui.

- Ha leccato questa e quella lì.

- È vero, è vero: questa e quella lì!

- L'ho veduto anch'io....

- Sì, sì, l'ho veduto anch'io. -

Cecco, allora, levava dalla cesta le due parigine sospette, dicendo: «Queste le mangerò io» di sotterfugio ce le rimetteva appena allontanatosi quel primo gruppo di avventori, e riprendeva coi nuovi che arrivavano lo scambio rumoroso di paste e di centesimi, e la distribuzione di consigli paterni, dei quali Cecco era prodigo con tutti, ma specialmente con quelli che acquistavano una maggior quantità di parigine.

- Bravo, bravo bambino! studia e fatti onore. Oggi un dieci a tutti! Bravi ragazzi, così va bene! E tenetelo a mente: quando si compra, bisogna pagare; e la roba degli altri non si tocca, se no, siamo ladri.... Dico bene? -

Finita la vendita, poco prima delle nove, consegnava la bottega alla moglie e dormiva fino all'ora di desinare. Dopo mangiato, faceva un pisolino di due o tre ore, e verso buio andava in piazza a prendere una boccata d'aria, perchè proprio ne aveva bisogno prima d'andare a cena e a letto.

Una mattina, avanti giorno, mentre preparava assonnato le sue parigine, sbadigliando, brontolando e impastando, sbagliò la qualità e la dose degli ingredienti. Invece di sale, ci buttò zucchero; invece di anaci, coriandoli.

Da quello sbaglio, la sua fortuna. Il grido dei nuovi biscotti coi coriandoli passò presto dai ragazzi alle famiglie, e alla bottega di Cecco fu una processione continua di gente del paese e della campagna, fra le quali primeggiavano i villeggianti dei dintorni che non davano respiro al povero Cecco, il quale fu costretto a chiamare in aiuto un suo fratello calzolaro. Ma nemmeno in due poterono bastare al lavoro, e bisognò, dopo pochi giorni, mettere all'opera anche la moglie e i tre figlioli maggiori.

Dai villeggianti, la fama delle parigine si estese ai loro amici e parenti lontani, e cominciarono allora a fioccar lettere, cartoline, telegrammi e vaglia postali in tal quantità, da mettere alla disperazione Cecco e il suo fratello che non sapevano più dove battersi la testa, in mezzo a quel trambusto indiavolato. Ma Cecco e il suo fratello, da buoni toscani, amici sinceri del quieto vivere, e previdenti, annusata la tempesta che li minacciava, pensarono seriamente ai casi loro, e si misero al coperto prima che incominciasse a piovere più forte.

- Mondo birbone! e questa si chiama vita da cristiani?

- Se non ci si piglia rimedio a tempo, qui, caro mio, ci si lascia la pelle!

- Sangue d'un cane! qui non si mangia più un boccone in pace!

- Qui c'è appena tempo di riprender fiato la notte!

- Qui non si conosce più quand'è festa e quando è giorno di lavoro!

- E servitori di tutti!

- Eppoi che maniere! - Io n'ho bisogno di un chilo per domattina!... Io di due chili in tutti i modi, per domani sera. Io di tre per... Ma, signori, abbiamo due braccia sole!

- Siamo di carne anche noi!

- Io non ne posso più!

- Io mi tengo ritto per miracolo!

- Si chiude e si fa finita?

- Finiamola! -

E presi da un sacro orrore per quella vita da galeotti, i due fratelli decisero di vendere la bottega allo Svizzero, di mandare al diavolo tutti i loro tormentatori e.... crepi chi vuol crepare!...

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- Professore, ben alzato.

- Ha riposato bene, professore? -

Fra quei giovanottacci della barcaccia v'era anche il figliolo di quel birbone dello Svizzero che a forza di parigine aveva comprato, in due anni, pezzo di figuro! un bel cavallo, un bel calesse e una bella casa colle persiane, col giardino e ogni cosa!



PELLICCIA

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Pare che anche lui, povera bestiaccia, venisse al mondo sotto cattiva luna. Di quattro fratelli, nati e allevati insieme in una solitaria capanna di pastori dell'Appennino, Pelliccia fu il meno favorito dalla sorte sebbene fosse il più bello e, quel che val meglio, il più buono.

Leone fu comprato da un ricco signore americano, e ora se la passa fra i tappeti e le carezze della padrona che gli parla sempre in inglese e alla quale egli, povero pastore incivilito, dimostra la propria riconoscenza strappandole spesso, a forza di tenere zampate, gli abiti preziosi e i guanti finissimi delle mani che lo accarezzano.

Lupa andò in campagna con un fattore, e ora, padrona di vaste possessioni boscose, passa le belle giornate abbaiando dietro ai fagiani dei quali non conosce il valore che dai rimproveri bonarj di Milord, un vecchio cane da penna, e dai loro ossi gustosi che sono tutti a lei riservati perchè a Milord non piacciono.

Argante, forse più fortunato di tutti, morì di cimurro all'età di sette mesi.

Lui, Pelliccia, capitato per una lunga trafila di peripezie nelle mani di un villanzone brutale, legato da sei anni a una corta catena, fa ora da guardia a una casaccia mezza in rovina, abbaiando a chi passa e stroncandosi i denti ai sassi che i ragazzi gli tirano. Che giorni lunghi, povera bestia! Che notti interminabili quando il freddo, la pioggia e la fame gli fanno veglia nel casotto umido e sgretolato, e quando il sole lo arrostisce, gl'insetti lo divorano e la sete lo brucia! Oh, i bei giorni dell'infanzia! Che corse, che strillìo di guaìti, che rotoloni fra l'erba lunga della selva intorno alla capanna! Che scorpacciate di ricotta e di siero avanzato, che bevute lunghe e ristoratrici al rio del mulino dopo mattinate intere di gazzarra dietro alle galline spaurite o dietro alla mamma che non aveva più pelo negli orecchi dalle nostre tirate! Povera mamma, quanta pazienza! Tutto sopportava in pace, e solamente mandava qualche represso guaito quando le nostre giovani zanne, affilate come lesine, le cavavano sangue da un orecchio o da un labbro. E a quei guaìti il babbo, acchiocciolato in un canto e sonnacchioso, apriva gli occhi e guardava. Che sarà stato di loro?

Questi ricordi lontani e dolcemente dolorosi dovevano passare per la testa di Pelliccia quando, spesso, sentendo su in casa l'acciottolìo dei piatti dei suoi padroni che mangiavano, seduto al vento fuori del casotto, mandava alla finestra sbadigli e sospiri.

Povero Pelliccia, quanto è cambiato dai giorni sereni della sua giovinezza! Quel bel pelo lucido e bianco che gli procurò il nome al quale risponde, è diventato ora un feltro sudicio e giallastro; quegli occhi dolci i quali pareva non cercassero che amore e carezze, sono ora iniettati di sangue e feroci; quei bei denti bianchi i quali prima non chiedevano che un po' di pane per campare e niente altro, affacciandosi ora gialli e smozzicati dalle labbra pallide e arricciate, non chiedono che carne viva di uomini da lacerare.

E la sua fama era terribile nei dintorni. Molti operai e contadini, quando erano costretti a passare di notte da quella casa, si armavano d'un randello o d'una pistola per paura che quel canaccio avesse strappato la catena: il prete, prima di venire per le rogazioni o per l'acqua santa, ordinava che lo chiudessero in capanna; e le mamme del vicinato, quando i loro figlioli erano più forche del solito, li minacciavano di farli mangiare da Pelliccia.

Ma, da qualche mese, questa fama paurosa non era più meritata da quel disgraziato animale. Gli stenti d'ogni genere ne avevano affrettata la vecchiezza, e Pelliccia non era più buono neanche per il facile servizio che doveva prestare ai suoi padroni. Non esciva quasi più dal casotto dove stava tutto il giorno e tutta la notte a russare, e ogni volta che passava gente, o non abbaiava affatto o, se abbaiava, la sua voce era tanto fioca da non sentirsi di casa quando le finestre erano chiuse. Il continuo latrare di tanti anni, l'arsura della sete e le stratte del collare quando si avventava ai passanti, gli avevano rovinato la gola.

- La cagna di Poldo mugnaio - disse un giorno il capoccia ai suoi figlioli - ha fatto sei cuccioli. Me n'ha promesso uno, e io direi di disfarsi di Pelliccia. -

I figlioli approvarono con un movimento del capo. Pelliccia avendo sentito rammentare il suo nome, li guardava con amore dal suo casotto, dimenando lentamente la coda. Tutto fu concertato in un momento. Due giovanotti entrarono in casa ed escirono subito dopo, uno con un fucile e l'altro con una vanga sulle spalle. Il capoccia andò a staccare dall'arpione del muro la catena di Pelliccia il quale, saltandogli addosso a festeggiarlo meglio che poteva, abbaiava di gioia e gli correva dintorno a balzellone, arrotolandogli la catena alle gambe. Una forte pedata fece capire a Pelliccia che i suoi entusiasmi affettuosi erano, come sempre, poco graditi in quel momento; e con la coda fra le gambe, si mise dietro alla taciturna comitiva.

Sul tratto di via maestra che i tre contadini percorrevano per arrivare alla coltivazione nuova dove Pelliccia doveva essere ammazzato e sepolto al piede d'un olivo, veniva verso di loro una lucente carrozza tirata da due magnifici cavalli al trotto. Dentro alla carrozza scoperta erano due persone: un signore e una signora che parevano bearsi conversando allegramente e contemplando lo splendore di quei colli festosi. Erano marito e moglie, due ricchi possidenti del piano, i quali capitavano per la prima volta in quei luoghi solitarj a fare la loro passeggiata mattutina.

Il cocchiere, non pratico di quelle vie, scorgendo gente, rallentò la corsa per domandare notizie della strada che aveva da percorrere per tornare a casa. La signora, alla vista dei tre uomini e del cane, forse sospettando del vero, ordinò al cocchiere che fermasse.

- È vostro cotesto cane? - domandò la signora al vecchio che strascicava Pelliccia per la catena.

- Sì, signora.

- E dove lo menate? che volete farne! Perchè quel fucile e quella vanga? -

Il capoccia, sorridendo come se avesse dovuto rispondere che lo menavano a spasso, disse che andavano ad ammazzarlo. La signora impallidì, gli occhi le si inumidirono, guardò Pelliccia e stringendo nella sua la mano del marito, domandò al capoccia:

- Perchè, perchè lo ammazzate?

- Se lei signoria ci vuol canzonare - rispose il vecchio - è un conto; se dice sul serio, guardi meglio questa bestia, e si persuaderà che a tenere intorno casa questo mangiapane puzzolente è quasi vergogna. Noi s'era pensato di governare un olivo. -

La signora disse qualche cosa nell'orecchio al marito, il quale rispose di sì con un lampo dei generosi occhi sorridenti. E rivolta al contadino, balbettò dalla commozione e dallo sdegno represso:

- Cotesto cane lo voglio io. Ditemi il prezzo, ditemi quanto vi devo dare. Cotesto cane è mio. -

Il contadino dette in una grande risata, alla quale fecero coro le due facce melense dei figlioli.

- Lei signoria fa chiasso; e noi s'ha poco tempo da perdere - rispose il capoccia, accennando a continuare per la sua via.

- Vi ripeto che cotesto cane è mio, e non v'inganno - riprese la signora, frenando a fatica lo sdegno che le faceva saltellare convulsamente il labbro superiore.

- Sbrighiamoci e presto; quanto vi devo dare?

- Se lei signoria dice davvero - rispose il contadino, quasi intimidito dal modo aspro e risolato della signora - se lei dice davvero, e allora mi dia.... mi dia quello che vole. -

Il contadino, con la prontezza che hanno per il calcolo a loro vantaggio quelle volpi mascherate da polli, aveva subito riflettuto che a non chiedere ci avrebbe guadagnato, e rimase al «mi dia quello che vole», e si mise a far carezze al cane che intenerito gli saltava addosso, uggiolando.

Un foglio di banca passò nelle mani del contadino, e Pelliccia, riluttante e spaurito, fu messo di peso nella carrozza e obbligato, da due manate dei giovanotti, ad accucciarsi sulla pedana di pelle d'orso.

I cavalli spiccarono il trotto, e i contadini rimasero in gruppo sulla via, con gli occhi sgranati sopra un bel foglio da cinquanta lire, mentre Pelliccia spenzolava la testa fuori della carrozza, mandando lamenti ai vecchi padroni e sforzandosi di vincere la resistenza dei nuovi che lo tenevano forte alla catena perchè non si buttasse di sotto.

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Oh.... ora sì che va bene, povero e calunniato Pelliccia! Veramente è un po' tardi, ma meglio tardi che mai.

In verità, chi non l'avesse conosciuto prima, chi non avesse visto la sua passata miseria, avrebbe potuto prenderlo ora per un signore. Il suo giubbone era sempre un po' spelacchiato, ma in compenso era bianco e lucido come una felpa di seta. Di pulci non se ne parlava nemmeno, le mosche gli giravano intorno alla larga, e l'odore che mandava faceva pensare ai chilogrammi di sapone fenicato che ci saranno voluti per la lunga e paziente cura igienica alla quale doveva essere stato sottoposto. Sebbene camminasse sempre un po' a stento, sembrava più giovane di quello che non fosse. Era un po' ingrassato, la sua voce era meno fioca e i suoi occhi avevano preso un'espressione insolita di dolcezza da parere quasi che il ringhioso e taciturno Pelliccia avesse ora imparato anche a ridere. Intorno al collo gli girava un bel collare a placche d'ottone lucente, il quale aveva da una parte una larga campanella e dall'altra, ornamento che dava una certa aria di grottesco al vecchio villano rivestito, aveva un gran flocco di seta celeste.

Quel luccichio del collare e il fiocco svolazzante lo facevano somigliare a una balia. E veramente il paragone non era lontano dal vero, perchè Pelliccia, nella nuova casa che lo aveva ospitato, esercitava il delicato ufficio di bambinaio.

Eccolo lì. Seduto davanti alla porta del giardino aspetta il suo allievo, aspetta che arrivi per la solita passeggiata mattutina. E che attenzione! che tremori d'impazienza! che rizzate d'orecchi ogni volta che sente cigolare un uscio o scopre il passo di persone che si avvicinano.... Eccolo, questo è proprio lui! Ecco il padroncino! Pelliccia scodinzola più forte, si alza, si scuote il pelliccione traballando, sbadiglia sonoro e, correndo di qua e di là, risponde abbaiando agli strilli del suo alunno che da lontano lo chiama pronunziando male il suo nome.

Tenuto per le mani dalla madre e da una cameriera, il bambino, che da pochi giorni ha incominciato a muovere i primi passi, comparisce sulla porta dove Pelliccia gli è andato incontro; e le due donne, dopo averlo fatto aggrappare alla campanella del collare, lo abbandonano sicure alle tenerezze del cane.

Ed ecco che incomincia il lavoro di Pelliccia, quel lavoro per il quale forse egli ha capito di ricompensare i nuovi padroni per il bene che gli hanno fatto e di guadagnarsi onoratamente quel ghiotto catino di zuppa che il guardaboschi gli prepara ogni giorno profumandogliela deliziosamente con le risciacquature di tutti i ciottoli di cucina.

Non più salti, non più sbalzelloni, non più bruschi scotimenti della groppa. Sono pericolosi. Pelliccia lo sa e si ricorda dei rimproveri e degli ammaestramenti dei primi giorni. Va, si ferma, ripiglia il cammino o torna indietro; ora prende per le aiuole erbose, ora per gli stradelli inghiaiati, secondo i capricci del suo piccolo amico. E se lo guarda, e lo interroga con gli occhi e si schermisce con garbo da quelle manine prepotenti che gli tormentano gli orecchi e gli tirano il pelo; si piega e gli porge il collo perchè si riagguanti alla campanella quando è cascato a sedere per terra; e, ogni tanto, perchè proprio non può farne a meno, con una gran linguata gli ripulisce tutta la faccia.

E sono strilli, son guaiti, son risate che non hanno fine, alle quali partecipa anche la madre che si è fermata a lavorare sulla porta, tutte le volte che Pelliccia, invitato dal suo allievo, si mette a fare il bambino anche lui. Lo butta in terra con una prudente musata, finge di scappare, gli corre in tondo, e poi si arruffano e si svoltolano e ruzzolano insieme tra i fiori, color dei fiori anch'essi in quell'affastellamento, in quella confusione di fiocchi, di pelo, di trine, di guance rosee e di occhiolini lucenti.

E in quei momenti, guai al forestiero che si azzardi ad entrar solo nel giardino! guai all'imprudente che capiti a turbargli quell'idillio! L'antica ferocia, quella ferocia che gli è stata insegnata dagli uomini, ribolle sinistra nei suoi occhi, quasi ritornano giovanili gli scatti delle sue membra, si pianta rigido davanti al suo padroncino per fargli scudo del corpo, e mostrando le zanne sgangherate, ringhia minaccioso e, all'occasione, s'avventa.

Son passati sei mesi, e da qualche giorno Pelliccia non è più in condizioni da fare quel mestiere troppo faticoso per lui. Fa quello che può; ma girate e salti per il giardino, non più. Accucciato presso la porta, sul ripiano di quella gradinata che egli, ogni mattina, si prova inutilmente a discendere perchè le forze gli mancano, rimane lì sospiroso a guardare, finchè dura la ricreazione del suo giovane amico. Nonostante, non si è ancora dato per vinto. Allorchè le persone che ne prendono cura hanno messo il fanciullo sul suo seggiolino e lo hanno accostato a una tavola piena di balocchi. Pelliccia gli si avvicina a tentoni, strascicando le gambe di dietro. Siede accanto a lui, e appoggiandosi di fianco a una gamba della tavola, rimane lì pensieroso a sonnecchiare, col capo ciondoloni. Se cade in terra un balocco, si scuote, si abbassa a stento, lo raccatta con la bocca e lo porge al suo vivace e impazientissimo allievo. Non può fare altro. Fa quello che può. Ma quando il trattenimento del bambino si prolunga oltre le sue forze, dopo una breve lotta contro le cascaggini, adagio adagio si accuccia e si addormenta.

Da qualche giorno, a raccattare i balocchi che cascano dalla tavola è stata messa una vecchia cameriera tedesca; ma il fanciullo ci se la dice poco. Di nulla nulla sono bizze, pianti e strilli disperati, perchè lui rivuole il suo cane; e quando essa, per calmarlo, gli racconta che Pelliccia è andato a fare un viaggio lontano lontano, i soldati, i cannoni e i cavalli di piombo volano intorno per l'aria, e magari nella sua testa, peggio della grandine.

- Voglio Pelliccia! voglio Pelliccia! -

Ma Pelliccia non risponde più alla voce che lo chiama. Un piccolo marmo, all'ombra d'un abeto del parco, ricorda il suo nome e narra in brevi parole la sua onesta e travagliata esistenza.



QUESTIONE D'INTERESSI

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Il cavallo del fattore, passando pochi minuti avanti, aveva lasciato in mezzo alla strada un discreto mucchio di quel che i cavalli sogliono lasciare in mezzo alle strade. Un bianchetto di passere vi si affollarono sopra, bisbigliandosi e beccandosi fra loro accanite. Intorno intorno erano duelli feroci di scarabei. Due uomini, con un corbello in spalla e una corta pala in mano, arrivando di corsa da direzioni opposte, si incontrarono lì, e lì si fermarono guardandosi in cagnesco.

- Starò a vedere se avrai il coraggio di toccarla! - disse uno dei due uomini, mandando faville dagli occhi.

- Starò a vedere se questo coraggio l'avrai te! - rispose l'altro, scotendo in alto la pala.

- Io l'ho veduta prima!

- Io, prima di te!

- Io, dalla svoltata.

- Io, dall'olmo del ponticino.

- A mezzo!

- No.

- A pari e caffo?

- No, perchè è mia di diritto.

- Ghigna di ladro!

- Muso di porco!

- O toccala, se hai core!

- O pròvati, se hai fegato! -

E si puntarono biechi, pronti allo slancio, come bestiacce in amore.

Le passere, appollaiate sulle cime dei pioppi dintorno, guardavano aspettando.

Gli scarabei, rotolandosi nella polvere, continuavano, zitti zitti, a darsele a morte.

- Insomma, io direi di farla finita!

- Lo direi anch'io.

- Dunque, la raccatto io?

- Se ti ci provi, ti mangio!

- Prepotente!

- Puzzone!

- Vigliacco!

- Pidocchioso!

- Morto di fame!

- Smetti con cotesta pala! - Butta giù cotesta mano!

- No! - Sì - Già - Ma - Ppun!.., -

E si azzuffarono, e si avvoltolarono in un diluvio di botte così furibonde che, poche ore dopo, il medico ricuciva e incerottava la testa d'uno di quei disgraziati, e i carabinieri portavano in prigione quell'altro, mezzo sciancato e pieno di lividi.


LA STREGA

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L'aria era fredda, piovigginava fitto e sottile, e gli alberi lungo la via, tristi e aggrondati, lasciavano cadere, ad ogni sbuffo di vento, una scossa di grosse gocciole e di foglie gialle sul piano fangoso della via.

Una vecchia oltre la settantina e un ragazzetto sui nove anni, nonna e nipote, andavano lentamente, riparandosi stretti sotto un solo ombrello d'incerato verde, accecando con le scarpe inzaccherate tutte le pozzanghere: la vecchia perchè non le vedeva, il ragazzo perchè ci si divertiva.

- Con questo tempo in giro, nonna Pelagia ?

- Se Dio m'aiuta, volevo arrivare alle Capannacce; ma ho paura di non farcela.... O chi siete? -

La vecchia aveva risposto senza riconoscere la donna che le aveva rivolto la domanda.

- Toh!... Non mi riconoscete? Maria del Tognetti!

- Ah, già! già! Vi riconosco alla voce. Maria del Tognetti! Scusatemi, Maria, perchè proprio non vi avevo riconosciuta. Un po' son mezza cieca; eppoi, col grembiule in capo a cotesta maniera, se non vi facevi avanti per la prima, non v'avrei raffigurata davvero. Vado alle Capannacce dalla povera Veronica che ci ha la sua creatura malata, e, da quel che si sente dire, quasi moribonda. Quegli omini e quelle donne, che oggi son tutti fermi per via di questa stagione, guardano a casa; e io mi son messa in testa d'arrivare fin lassù; ma ho paura che le forze non mi bastino. Ne sapete nulla voi. Maria ? Ma sia vero quello che raccontano che quel figliolo sia stregato?

- Dice che sia vero; ma poi....

- Dio Signore, quanti malanni c'è in giro per il mondo! Ohi ohi. Crediatemi, Maria, non ne posso più. Ma, oramai che mi ci son messa, vo' vedere se mi riesce d'arrivarci. O a casa vostra, Maria, tutti in salute?

- Ci contentiamo. Ma se sapeste, Pelagia mia, quanti dolori da parte di quel benedetto ragazzo che non conosce altro che sigari e osterie!

- Ma dunque non vi basta l'animo....?

- Ah, Pelagia mia! -

Le due donne si fermarono in mezzo alla strada a conversare con gran calore sotto la pioggia che rinforzava; e Cecchetto, approfittando di quella breve sosta, sgattaiolò di sotto l'ombrello e si mise a far le ture con la mota nei rigagnoletti che correvano per la via in fondo ai solchi delle ruote.

Maria aveva urgenza d'arrivar presto a casa, e frettolosa proseguì il suo viaggio, con un dolce rimprovero alla vecchia imprudente e augurandole che Dio la rimeritasse per quell'atto di carità. Cecchetto rientrò fradicio come un pulcino sotto l'ombrello e, dando la spalla alla nonna perchè vi si appoggiasse, ripresero il cammino.

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Sul verone coperto d'una delle quattro case delle Capannacce stava riunito un gruppo di contadini intorno a una giovane donna la quale, seduta, teneva sulle ginocchia una creaturina magra e pallida come un cadavere, che, contorcendosi smaniosa, piagnucolava con un filo di voce appena sensibile.

La madre cercava di calmarla con ruvida tenerezza, e ogni tanto volgeva la faccia per dare un'occhiata feroce alle due strade che facevano capo sull'aia. Gli uomini che le stavano intorno, torvi e taciturni, davano anch'essi sguardi sinistri alla campagna.

V'era su quelle facce un così strano miscuglio di rassegnato dolore e di ferocia selvaggia, da mettere i brividi nelle ossa.

Che genere di tempesta si scatenava negli animi di quella gente?

Da qualche tempo, quel bambino che prima era un fiore di bellezza e di salute, aveva cominciato a scemare a vista d'occhio. Fu chiamato, così per fare, il medico condotto; ma dopo tre o quattro visite, avendo egli capito che lo credevano pazzo perchè aveva parlato di ferro e di mare, aveva pensato bene di risparmiare il cavallo, e non s'era fatto più rivedere.

Intanto il bambino andava ogni giorno di male in peggio. S'erano consultate, senza cavarne nessun costrutto, tutte le donnicciole dei dintorni, l'avevano fatto benedire dal prete, gli erano stati già scongiurati i bachi; ma tutto inutilmente, e nessuno della famiglia sapeva più. a che santo votarsi.

Fra i contadini del casolare più reputati per saggezza ed esperienza vi fu una specie di consiglio, e venne deciso di chiamare il capostregone.

- Ooh! ora sì che mi garbate! - esclamò una vecchia ringhiosa, la nonna di quel misero bambino, quando gli uomini, rientrando in casa, le dettero la lieta novella.

- Ora sì che mi garbate! E Dio ci assista e la beatissima Vergine ora che finalmente ci siamo ricordati di quella povera creatura! - E fingendoselo già risanato, corse ad accarezzare il suo nipotino che la respingeva divincolandosi bizzoso, e voltando indietro la faccia.

E il capostregone venne. Acclamato, accarezzato come un messo della Provvidenza, venne finalmente il professor Baronto, sensale di bestie, vetturale in ritiro e, a tempo avanzato, benefattore dell'umanità sofferente.

Fattosi presentare il bambino, lo guardò attento per qualche minuto, masticando a fior di labbra parole incomprensibili; poi trinciò nell'aria, con quelle manacce nere e bernoccolute, alcuni segni cabalistici, e dopo aver fatto un gesto di speranza ai contadini che attoniti e imbambolati pendevano dai suoi occhi di volpe, disse di aver bisogno di riconcentrarsi un momento. Chiese un ramoscello d'olivo benedetto, accese la pipa e si rintanò in un angolo della cucina a meditare.

Gli uomini di casa, immaginandosi il bambino già guarito e franco al lavoro, e vedendolo ardito bifolco in mezzo alle vitelle sitose, o dietro all'aratro a rompere i maggesi, cantando al sole d'agosto, se lo passavano da braccio a braccio, spalancandogli sugli occhi spenti le loro boccacce che ridevano.

Le donne, affaccendate e premurose, dopo aver posato il bambino nella culla, asciugavano a una gran fiamma, maneggiandolo caute come una santa reliquia, il pastrano giallo e pillaccheroso di Baronto.

Finita la meditazione, Baronto si alzò, fingendosi ispirato, e chiese alla massaia una scodella bianca, un'ampolla d'olio vergine e una penna di gallina vecchia.

Tutto fu approntato sollecitamente con premura febbrile e presentato a Baronto il quale, presi quegl'ingredienti misteriosi e rimboccatesi le maniche della camicia, si ritirò in una stanza, pregando silenzio e che lo lasciassero solo per qualche momento a compiere il sortilegio per la salute di quella innocente creatura.

I contadini si raccolsero in gruppo attorno al fuoco, bisbigliando sottovoce e correndo solleciti a tappare con le mani la bocca al bambino, tutte le volte che si attentava a mandare qualche fioco vagito.

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Distante ancora quasi un chilometro dalle Capannacce, la vecchia Pelagia, strascicandosi a stento sotto la pioggia, veniva avanti, ora recitando la corona, ora bisticciandosi col suo Cecchetto, su per l'ultimo tratto di via ripida e fangosa.

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- Eccolo, eccolo! - I contadini avevano sentito il rumore degli scarponi ferrati di Baronto, il quale si accostava alla porta. Si voltarono tutti da quella parte, pallidi e a bocca spalancata, sapendo imminente la sentenza della loro creatura.

Baronto ricomparve in cucina sorridendo. I contadini, capito iò suo cenno, si alzarono di scatto e corsero da lui, serrandoglisi intorno e guardandolo negli occhi, senza fiatare.

- La creatura è salva!

- Aaah! -

Fu un urlo di gioia bestiale. Le due donne dettero in un pianto dirotto e si buttarono in ginocchioni presso la culla dentro la quale il bambino, forse già entrato in agonìa, boccheggiava a occhi chiusi, senza più flato di piangere.

- La creatura è salva! - riprese Baronto. E mostrando la scodella il cui fondo era pieno d'olio:

- Le vedete quelle sette bollicine in croce! Quelle non falliscono. La vostra creatura ha il maldocchio che gli corre per le vene....

- Uuuh!

- Quell'angiolo innocente ve l'hanno stregato!

- Uuh! Uuh!

- Ah, infami!

- Ma io me lo pensavo!

- Ah, scellerati!

- Ma io l'avevo detto!

- Dio, Dio, Dio! -

E contorcendosi di rabbia furibonda e sollevando in aria i pugili serrati, gli uomini giravano per la stanza a occhi stralunati, dando guizzi da belve come se lo avessero davanti e volessero avventarglisi a sbranarlo, l'assassino infernale che aveva guastato, che aveva soffiato veleno nel sangue di quell'angiolo del Signore.

- Calma, calma! e statemi a sentire - continuò Baronto con voce avvinata e solenne.

- La creatura è salva; ma ci vuol giudizio, risolutezza e discorsi pochi. Quelle sette bollicine in croce mi dicono anche chi è che vi ha stregato la creatura; ma il nome della persona io non ve lo posso dire....

- Ditelo! ditelo! - urlarono i contadini, mandando fiamme dagli occhi.

- Se potessi, lo direi; ma non posso. L'arte della magìa che esercito per amore dei miei fratelli in Cristo mi mette degli obblighi che, se li trasgredissi, le sette fiaccole dell'Apocalisse mi brucerebbero l'anima in eterno. Il giuramento l'ho fatto, e qui ve lo ripeto. -

E, chiudendo gli occhi, tese in avanti le braccia nerborute, irte di lunghe setole nere.

I contadini lo guardarono attoniti.

- Ecco la verità! - sacramentò Baronto, guardando accigliato la culla. - Ecco la verità! La prima persona che oggi, dopo la campana del credo, capiterà sull'aja.... quella vi ha stregato la creatura e quella solamente ve la potrà guarire, se vi riescirà di fargli promettere l'anima al demonio.... -

Una mezz'ora dopo, Baronto, tenendo in braccio un fiasco d'aleatico e nel taschino del panciotto un foglio di dieci lire, se ne andava a pancia piena, accompagnato dalle benedizioni di tutta quella buona gente.

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La campana del credo era già sonata da una ventina di minuti, e nessuno compariva sull'aja. I contadini, aggruppati sul verone coperto della casa, torvi nelle facce e silenziosi, mandavano occhiate sinistre alla campagna e alle strade.

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La vecchia Pelagia, dopo tanta fatica, era finalmente arrivata. Appena giunta all'ultima svoltata, dalla quale si vedeva la casa e il verone dove stavano raccolti i contadini ad aspettare, ringraziò Dio sospirando e, per riposarsi un momento, si mise a sedere sulla spalletta fradicia d'un ponticello. Cecchetto, utilizzando quel tempo, si mise a tirar sassata a un cardo di marroni il quale, passato d'occhio nella colta, dondolava al vento sull'ultima cima d'un castagno.

Appena ripreso flato, la vecchia si mosse e, in pochi minuti, arrivò sfinita sull'aja delle Capannacce.

- La strega!... La strega!... - brontolarono con la voce tra i denti, i contadini, stringendosi fra loro le mani ghiacce dal ribrezzo.

Le due donne dal verone si ritirarono in casa, senza badare alla vecchia Pelagia che le chiamava per nome. In quel mentre, gli uomini, scambiate poche parole fra loro, si mossero in gruppo serrato giù per la scala e le vennero incontro risoluti.

Cecchetto era rimasto a tirar sassate al castagno.

- Isidoro! - chiamò la vecchia sorridendo, appena ebbe riconosciuto il capoccia fra gli uomini che le stavano dinanzi.

- Isidoro!... La vostra creatura! Dio la benedica e ve la salvi! Ma che è vero?... O la povera Veronica?... Non ne posso più; ma non potevo stare, se non venivo a vedere con quest'occhi.... -

Ma, a un tratto, tirandosi indietro:

- Che avete? che avete, che mi parete tanto stralunati? Forse qualche disgrazia?...-

Gli uomini le si serrarono intorno minacciosi, mentre la vecchia, senza raccapezzarsi, ma presentendo qualche cosa di grave, guardava spaventata quelle facce tenebrose.

Il capoccia, agguantata la vecchia per un braccio e balbettando come se le parole gli si annodassero giù per la gola, ruppe primo il silenzio.

- Pelagia.... quella creatura more!... Non abbiamo altro che quella, Pelagia!... Quella creatura è nelle vostre mani.... Voi lo sapete.... lo sapete meglio di noi, Pelagia.... Una promessa.... fate una promessa, Pelagia, e ritornerete viva a casa.

- Una promessa! - ruggirono gli altri, facendole sentire sulla faccia il caldo dei loro fiati.

- Vergine santissima! - esclamò la vecchia.

- Rispettate il nome della Madonna, Pelagia.... La promessa!...

- La promessa!...

- Ma che è stato? Ma io non vi capisco.... Ahi! me lo troncherete questo braccio - gridava la misera vecchia, guardando supplichevole, con gli occhi pieni di lacrime. E sperando protezione dalle sue amiche, chiamava:

- Veronica.... Nunziata.... non mi rispondono !

- La promessa, Pelagia! la promessa!

- Ma che cosa vi devo promettere?

- Lo sapete meglio di noi.

- Dio mi vede nel core: non lo so.

- Ah, non lo sapete!

- Non lo so; ve lo giuro per la salute di questa mia creatura.... O dove è andato? - e chiamava con voce squarciata:

- Cecchetto.... Cecchetto....

- Ah, non lo sai, vecchia scellerata! Che male ti s'era fatto, vecchia assassina, perchè tu ne facessi tanto a noi? Prometti l'anima al demonio, strega maledetta, salvaci il nostro figliolo che more..., e se non bastano le parole....

- No, no, siete cristiani....

- Piglia, piglia!

- Una povera vecchia! una vostra amica!... anime sante! Ahimè, Dio mio. Dio mio!

- Piglia, versiera indemoniata! piglia, piglia, piglia! -

E si sentivano i tonfi sordi dei pugni e dei calci scaricati su quella povera carcassa.

- Cecchetto.... Cecchetto!... Ahi, mi ammazzate! O Dio, Dio, Vergine santissima, vi raccomando l'anima mia!...

- Al forno, al forno! foco nel forno! - gridavano gli uomini, sempre più inferocendosi a quelle preghiere; e dieci mani sacrileghe raddoppiavano la loro furia sulla misera vecchia la quale, cascata in ginocchio, con voce sempre più fioca, continuò a raccomandarsi a Dio, chiamando il suo nipotino, finchè non cadde in terra stordita, fra le imprecazioni di quei furibondi.

Le donne erano uscite sul verone a far coraggio agli uomini, e urlavano: - Finitela, finitela! Sode a cotesta birbona ! Cavategli il core a cotest'anima dannata! -

E da tutte le finestre del casolare erano grida di implacabile ferocia e gesti di maledizione; quando, in mezzo a quel diabolico tumulto, giunse il povero Cecchetto il quale, appena vista la sua nonna per terra con le vesti strappate, immobile e sanguinosa nella faccia, perduto il lume degli occhi, si avventò al gruppo dei contadini, urlando disperato:

- Non me l'ammazzate! è la mi' nonna, non me l'ammazzate! - E dava pedate, e graffi e morsi a quei manigoldi, i quali, non accorgendosi nè anche di lui, avevano alzata la vecchia da terra, e trasportandola verso la casa, gridavano:

- Al forno, al forno la strega! foco nel forno! -

Pioveva a diluvio. Cecchetto, pazzo dallo spavento, correva di qua e di là per l'aja, guardando ora alle finestre, ora alle strade, come se da qualche parte potesse arrivargli un soccorso. Ma dalle finestre non venivano che occhiate e grida feroci; dalla campagna e dalle strade il rumore del vento e il gorgogliare delle fosse gonfie a trabocco.

A un tratto il ragazzo mandò una voce acutissima, restò un momento a guardare per accertarsi, poi, rapido come il vento, si precipitò a salti giù per una strada, gridando: - I soldati! i soldati! -

Due carabinieri, sorpresi dal mal tempo in aperta campagna, affrettavano il passo verso le Capannacce, per ripararvisi dall'improvviso diluvio.



TIPI CHE SPARISCONO

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Le linguacce dicevano che era vino calato alle gambe; ma, in verità, senza escludere affatto che anche il vino ci avesse la sua parte, erano vene varicose. Con questo malanno addosso, il dottor Prospero non era più buono di fare un passo a piedi; e per poter visitare i suoi malati, quelli soli che per loro fortuna stavano di casa lungo la via maestra, si faceva caricare sopra un calessino sgangherato, e tutti i giorni, dalle sei della mattina alle undici, andava a giro per il Comune.

In quelle condizioni, senza scender mai dal suo veicolo, perchè gli era affatto impossibile, andava a portare, diceva lui, mezzo scherzando e mezzo sul serio, la salute alle case. E questa salute andava a portarla in un certo suo modo particolare che, a giudicarne così a occhio e croce, pareva promettere imminente un allargamento del cimitero, se i fatti non avessero dimostrato che in quel Comune le faccende della salute andavano precisamente come in quegli altri, dove ad averne cura v'erano certe barbe di scienziati da creder vicina, in grazia loro, l'abolizione della morte o giù di lì.

Ma per capir meglio il dottor Prospero da vecchio e nell'esercizio delle sue funzioni, non è male conoscerlo giovane studente dalle leggende che i suoi condiscepoli d'Università gli avevano applicate con le loro fervide fantasie.

Di lui si raccontava, fra le altre, che all'esame di matricola, in clinica medica, aveva preso un panciotto per un attacco di petto; e alla prova di medicina operatoria, dovendo fare l'amputazione di una gamba, sbagliò, non si sa bene se per una fatale distrazione, per timor pànico o per entusiasmo scientifico, e tagliò una gamba del letto invece di quella del malato; tantochè, rovinando il letto, quel malcapitato paziente, ruzzolò sull'impiantito, fratturandosi in tre posti la gamba sana.

Queste, come si capisce, erano spiritose invenzioni di quei capi scarichi; ma quest'altra è vera.

Venuto in condotta, accadde sui primi tempi che un giorno, chiamato da un contadino per una urgentissima operazione al figliolo, egli non voleva andare; ma finalmente si decise a muoversi quando lo scaltro contadino, gli ebbe detto che nel bosco sotto casa c'era la beccaccia.

- Vede, sor dottore - diceva il furbo, lacrimando - lei signoria potrebbe fare un viaggio e due servizj: ammazzare la beccaccia e salvarmi la creatura. -

Il dottor Prospero andò e, naturalmente, ammazzò la creatura, e la beccaccia fu salva.

Ma torniamo dove eravamo rimasti. Una mattina, stanco dopo una lunga passeggiata, mi trovavo a riposarmi e a mangiare un boccone in una botteguccia di campagna nella quale si parlava di un pover'uomo, che abitava su nella stessa casa, gravemente ammalato di febbre tifoidea accompagnata da una polmonite doppia. Le critiche sul sistema di cura e le espressioni di trepidazione e di dubbio sulla sorte che si preparava a quella povera famiglia minacciata della perdita del suo unico sostegno, si succedevano accalorate e piene di sconforto; quando comparve e si fermò davanti alla bottega il dottor Prospero, bianco di polvere e arrostito dal sole. Appena fermata la sua brenna, quasi invisibile dentro una nuvola di mosche e di tafanelli, si voltò in su e chiamò:

- O Rosa.

- Sor dottore - rispose la moglie del malato, affacciandosi alla finestra, nel tempo che di dentro si sollevò un pigolìo lacrimoso di bambini.

- Come sta cotest'uomo?

- Male, sor dottore, male dimolto.

- Ah, ah, ah! - Si udiva la voce fioca del malato il quale, sentendo parlare in quei termini della sua pelle, si lamentava.

- E allora - disse il dottore, aggrottando le ciglia - qui bisogna fare un esame minuto, bisogna vedere sul serio di che si tratta perchè non vorrei....; basta, ora si vedrà. - E alla donna che si era ritirata dalla finestra:

- O Rosa.

- Sor dottore.

- Affacciatevi, Rosa.

- Che mi diceva?

- Bisogna guardargli la lingua a cotest'uomo. Rosa. L'ha sempre rustica e appiccicosa come giovedì, oppure?...

- Veramente, stamani mi parrebbe un po' meno peggio del solito.

- O quelle screpolature che mi diceste l'altra settimana, ce l'ha sempre?

- Sissignore.

- Tosse dimolto?

- Ora no; ma stanotte non ha avuto pace un momento.

- Suda?

- Nossignore.

- O nella nottata ha sudato?

- Fino alla mezzanotte è stato in un mar di sudori; ma poi, ha avuto un bisogno, e m'è toccato scompannarlo tutto; e ora eccolo sempre qui colla pelle secca che pare una serpe.

- Non è nulla, Rosa. Poi vi dirò quello che gli dovrete fare per riattivargli la traspirazione alle acute. Ora seguitiamo il nostro esame e guardiamo se ci riesce d'orizzontarci con sicurezza perchè al terzo settenario.... cioè.... siamo al terzo o al secondo, Rosa?

- Badi, veh; la febbre, salvo errore, gli entrò, mi pare, la mattina del.... Si ricorda quando ribaltò la diligenza di Natale!

- Il dodici.... domenica a quindici.

- Sissignore. Dunque oggi s'entrerebbe...

- Nel terzo settenario....

- Nossignore; s'entrerebbe nella quarta settimana, perchè, badi: dodici e sette fa diciannove, diciannove e sette....

- Be' be': questo importa poco. Diciamo piuttosto un'altra cosa, Rosa: cotesta benedetta pancia come l'ha? l'ha sempre dura come ne' giorni passati o gli s'è un po' ammorvidita?

- O come devo fare a dirglielo, sor dottore! A me mi parrebbe sempre dimolto gonfia; ma sarà vero?

- Benedetta voi! ci vole anche tanto poco a conoscerlo. O gli occhi e le mani per tastargliela, non l'avete! Com'è? floscia o tirata! Dateglici delle manate a mano aperta.... Giù! sentiamo.

«Ccià, ccià, ccià.»

- Va meglio, va meglio, Rosa; molto meglio dei giorni passati! - disse pronto il dottore, giudicando dal suono. Ma era un malinteso. La donna lo chiarì, venendo subito alla finestra a raccontare che quelle bòtte erano sculaccioni dati al suo figliolo maggiore il quale s'era messo, quel birbante! a fare i baffi con un fiammifero spento, alla Madonna di Pompei. Gli strilli e i pianti disperati del ragazzo non lasciavan dubbio sull'equivoco.

- E allora, via, non mi fate perder tempo, Rosa, - brontolò un po' stizzito e un po' mortificato il dottor Prospero. - Sentiamole, via, queste condizioni dell'addome, e vediamo se ci riesce di venire a qualche cosa di concludente. -

La donna andò ad eseguire gli ordini, e:

«Ccià, ccià, ccià» faceva la pancia del malato; e il malato, a ogni bòtta:

- Ah, ah, ah.

- Pare che vada meglio davvero, Rosa. Copritelo, copritelo. E il polso!

- Questo, poi, sor dottore....

- Eh, Gesù mio Signore, affoghereste in un bicchier d'acqua! Pigliategli il polso in mano.... Gliel'avete preso!

- Sissignore.

- Lo sentite battere?

- Nossignore.

- Scorrete con le dita e lo troverete.... L'avete trovato?

- Mi parrebbe di sì. Ma ora lei signoria come fa a sentirlo?

- Eh, permio baccone! credevo che mi aveste un po' più di stima. Le sentite bene le pulsazioni?

- Sissignore.

- Vi riesce di fare «ta, ta, ta»?

- Sissignore.

- O via! A ogni colpo del polso, fate a cotesta maniera e vedrete....

- Ta, ta, ta, ta...

- Basta, basta, Rosa; ho sentito. Va meglio, va meglio. Oh, sia lodato il Signore! O i soliti vaneggiamenti gli ha avuti anche stanotte! -

La donna, spenzolandosi dalla finestra e parlando sotto voce per non essere sentita dal malato:

- Gli ha avuti anche stanotte, sissignore. Stia zitto, chè, a avere avuto voglia di ridere.... in verità.... Ma mi dica! l'aveva presa con lei. Diceva che era una bestia, gli faceva il verso quando lei signoria sbadiglia come ha fatto ora, eppoi gli voleva tirare una schioppettata....

- Ma insomma, da quel che sento, si tratta di cosa leggiera perchè proprio fuori di sentimento addirittura....

- Questo no, nossignore. Proprio fori di sentimento non c'è andato mai.

- Meglio così, meglio così. E la voce gli s'è punto rialzata? -

E senza aspettare la risposta, il dottor Prospero cominciò a chiamare:

- O Gosto.... Gostooo!

- Uh, uh - rispondeva con voce spenta e cavernosa il malato. E il dottore, che non aveva sentito, seguitava a chiamare:

- O Gosto.... Gostooo!...

- Gli ha risposto, dottore; non lo sente?

- Uh, uh, uh!...

- Allegri, allegri, Gosto, - gridò il medico il quale finalmente aveva sentito. - Allegri, Gosto; anche questa burrasca è passata. -

Si dette una fregata di compiacenza alle mani, accese la sua gran pipa di ciliegio, poi disse a Rosa che gli portasse giù una serqua d'ova che egli ricambiò con una ricetta che aveva preparata col lapis sopra un brincello di carta. Ma prima di consegnargliela, voleva riempirvi una lacuna che aveva lasciato, non ricordandosi il nome del medicamento.

- Corpo di bacco! - brontolava il dottor Prospero, grattandosi la zazzera arruffata. - O che mi vol tornare in mente! Già, accidenti a tutte queste medicine nove, che ne 'nventano una la settimana! Voi ve ne dovreste ricordare, Rosa. Come si chiamava quella polverina sottile che vi segnai anche l'altra volta?

- Bicarbonato, dottore - disse l'oste, di fondo alla bottega dove era andato a preparargli il solito bicchiere di vino.

- No, Gianni. Ci corre poco perchè finisce in ato anche quella; ma bicarbonato non è dicerto.

- Precipitato?

- Neanche.

- Sublimato?

- Nemmeno. -

Qui nacque una discussione animata fra l'oste, la donna e il medico, il quale si ricordò finalmente che era salicilato.

Bevve allora più contento il suo bravo bicchier di vino a digiuno, e poi, lui e il cavallo, acclamati come veri benemeriti della salute pubblica, si allontanarono fra lo scatenìo del suo trespolo sgangherato, in mezzo a una nuvola di tafani e di polvere.

Gosto, è superfluo dirlo, si ristabilì perfettamente in una quindicina di giorni; e ora, prima Dio eppoi il dottor Prospero, ha già ricominciato a dare certe legnate alla moglie, che anche lei non fa altro che dire di quella gran bella salute.



LA GIOVENCA ROSSA

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Il vecchio Ambrogio, padre di quei cinque giovanotti e di quelle due ragazze, era a letto con mia polmonite gravissima.

Anche il figliolo minore, Eusebio, un ragazzaccio di quattordici anni, messo in apprensione da quello che aveva detto il medico la mattina uscendo burbero dalla camera del malato, era venuto a casa presto, lasciando soli alla pastura quattro vitelli e la giovenca rossa, il più bel capo della loro stalla.

- Sole a quel modo, saranno sicure quelle bestie, ragazzo? - domandò a Eusebio il fratello maggiore.

- Prima di lasciarle ho assicurato tutte le pastoie. Non c'è pericoli. -

Le pastoie erano state assicurate, ma non era vero che non ci fossero pericoli.

- Son bestie giovani. Mi fido poco. Va' a dargli un'occhiata, ragazzo. -

E il ragazzo andò, brontolando. Una mezz'ora dopo, tutte le persone di casa, dalle finestre e di sull'aia, attente e spaurite, guardavano in direzione del poggio dal quale venivano grida e pianti disperati.

- È la voce d'Eusebio!

- No.

- Sì.

- Sì.

- È lui, è lui!

- Qualche disgrazia, qualche disgrazia! -

E, cupi negli sguardi e senza una parola, via tutti, tutti (li corsa in quella direzione.

La giovenca rossa, in mezzo a una piaggia scoscesa, mugliava, a gambe all'aria, con una gamba troncata. Poco distante, Eusebio, si rotolava per la terra, dandosi pugni nel capo e mandando grida acutissime.

Il fratello maggiore, a quella vista, perso il lume degli occhi, gli si avventò con urli bestiali. Gli altri, gli si attaccarono addosso per trattenerlo.

- Lasciatelo fare, ha ragione, lasciatelo fare chè m'ammazzi. Ah, ah, ah! - gridava forte il ragazzo, battendo il capo tra le zolle dure e tra i pruni.

- Infame! hai rovinato la nostra famiglia ! - gridava il. fratello, con voce soffocata.

- Ammazzatemi, ammazzatemi! - chiedeva disperato il ragazzo, e si percoteva coi pugni la testa, supplicando smanioso che lo punissero.

La giovenca rossa soffiava e mugliava, leccandosi la zampa troncata.

- Via, lesti, per il veterinario! -

Un giovanotto si staccò di corsa dal branco, e gli altri, sbagliando, imbrogliandosi, urtandosi nella foga, si misero intorno alla bestia per incannucciarle la gamba.

- No, è troppo corto questo.

- Quel palo laggiù!

- No, quell'altro.

- Quello più là.

- Cotesto.

- O una fune?

- Non ce n'è.

- Un legacciolo, donne, un salcio, una sottana, un grembiule....

- Bòna lì.... Ahi!... Bòna, Rossa!... -

La giovenca, spaurita da tutto quell'armeggìo, sferrava calci e mandava mugli squarciati, tentando d'alzarsi.

Alla peggio e dopo fatiche inaudite, fu improvvisata intorno alla gamba rotta un'armatura di pali e di canne, tenuta insieme da forti legature di salci, e di grembiuli di quelle donne. Ma appena finito il lavoro, la giovenca, buttandosi via da dosso tutta quella gente, con un grand'urto improvviso, si rizzò in piedi sbuffando per ricadere subito, con un tonfo sordo, fra lo sgretolìo dei pali e delle canne che si troncarono come fuscelli secchi, non appena la bestia si appoggiò sulla gamba fiaccata.

Quando arrivò il veterinario, accompagnato da Zeno macellaro, i contadini, senza speranza e dopo tante fatiche, scapigliati e lordi, nelle mani e nei visi, di sangue, di sudore e di lacrime, sedevano muti intorno alla giovenca la quale, spossata anch'essa, giaceva immobile al sole, dentro un nuvolo di mosche.

- Ho portato Zeno con me, - disse il veterinario - perchè quando ho sentito di che si trattava, ho pensato che, più che di me, ci sarebbe stato bisogno di lui. -

Un pianto dirotto dei contadini tenne dietro a quelle parole. Il veterinario guardò la gamba della giovenca, scosse il capo e, voltosi al macellaro:

- Zeno, intendetevi con cotesta gente. È affare vostro. Io non posso far nulla.

- E allora, che mi dite, voi, Pasquale? - domandò Zeno al giovanotto maggiore. - Vostro padre è malato; si deve contrattare fra noi? -

Pasquale si alzò lentamente e, fatto un cenno a Zeno, andarono insieme a parlare in disparte, a ridosso d'un cespuglio di marruche.

La discussione fu animata e lunghissima. Ma finalmente il contratto fu concluso, e questo si capì dalle parole che Pasquale rivolse al macellaro, con voce alta e cavernosa:

- Siete un ladro! M'avete strozzato perchè sapevi che di macellari, in questi dintorni, non ci siete che voi. Ladro! -

E brontolando la parola «ladro» venne, con le braccia ciondoloni e il cappello affondato sugli occhi, a dare ai suoi fratelli la notizia del magro contratto.

- Ladro! - ripeterono tutti in coro, buttandosi di nuovo a singhiozzare desolati.

Zeno, perchè la carne della bestia non avesse a soffrire, andò sollecito a piantare nella gola della giovenca il suo coltello affilato.

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Il vecchio Ambrogio, dimenticato per tre ore da tutta la famiglia, anche lui aveva sistemato in quel tempo, Dio sa come, le sue faccende; e, freddo, allungato nel letto, non fu a tempo a sapere che quel cane di macellaro, d'una bestia che ne valeva cinquanta, non aveva voluto dar più di trentadue scudi.



LA VISITA DEL PREFETTO

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Passeggiando per le vie del paese, nessuno, sul momento, si sarebbe accorto che ci era alle viste qualche cosa di grosso, dopo che il Sindaco aveva ricevuto quel telegramma dalla Prefettura. Una gran folla dentro e davanti alla farmacia del Verdiani e niente altro. Ma dai cortili e dai giardini, per chi avesse dato un'occhiata sul di dietro delle case, l'affare cambiava aspetto. A quasi tutte le finestre era uno sventolìo di sottane e di vestiti neri tesi al sole, mentre un odore acuto di naftalina volava sottile per l'aria, mescolandosi al profumo degli amorini e delle mammole in fiore. Sulle terrazze e all'aria aperta era uno sbacchettìo e uno stropiccìo generale per levar polvere e frittelle, e per rimettere possibilmente a nuovo un arsenale di calìe, che da qualche diecina d'anni dormivano saporitamente in fondo agli armadi

Un vero disastro per le tignole!

Il telegramma giunto al Sindaco gli annunziava l'arrivo del Prefetto per il giorno dopo, col treno delle dodici e quaranta.

- È un'ora brutta! - diceva il Sindaco di Torrefosca ai membri della Giunta riuniti per l'urgenza.

- È un'ora brutta per sapere se si deve preparare una colazione, un desinare o un rinfresco.... Basta. Di questo ne riparleremo più tardi, quando sarà arrivato anche l'assessore Verdiani. Ooooh! dove s'era rimasti?... Ah! E allora, dunque resta fissato che lei pensa subito in serata a far avvisare i capifabbrica e la Direttrice delle scuole; lei si occupi del maestro della banda....

- L'ho già avvisato.

- Bravo! Lei mi diceva che si prenderà l'incarico delle vetture; e io penserò al Proposto e alle suore del Conservatorio. Ma il Verdiani, dico io, che fa quest'assessore Verdiani?... Segretario!

- Son subito da lei, signor Sindaco - rispose il segretario, movendosi dalla stanza accanto e comparendo sollecito in quella della Giunta.

- Ma dunque, dico io, questo Verdiani, segretario, viene, sì o no?

- Ho mandato il Trambusti....

- Ma il Trambusti che fa? Che fa questo Trambusti? Torni almeno lui, corpo di...! sangue d'un!... -

Il Sindaco cominciava a impennarsi a buono e, sentendo tutta la responsabilità che gli pesava addosso, era impaziente di sistemare degnamente le cose.

- Chi c'è di là, segretario?

- Il Torrini e l'ingegnere.

- Mi mandi subito di qua il Torrini.

- Se non sbaglio, eccolo, signor Sindaco.

- Chi?

- Il Trambusti. Lo sente? - rispose il segretario - è per le scale che monta. O che urlìo è questo? corpo di!... - e affacciandosi alla porta: - Silenzio! Che maniera è cotesta! Sangue d'un!... O che vi credete d'essere al mercato? Bell'educazione davvero!

- Ma io, signor segretario....

- 'Gnamo, 'gnamo; pochi discorsi e chetiamoci ! -

Il Trambusti entrò tutto scalmanato a raccontare che il Verdiani l'aveva mandato via come un birbone, e che gli aveva detto che facessero senza di lui, perchè lui non poteva venire in punte maniere.

- Segretario, abbia pazienza, ci arrivi un momento lei e senta un po' di che cosa si tratta, e mi mandi di qua l'ingegnere. -

Il Verdiani, cognato del Bargelli trattore, era un elemento troppo necessario per l'occasione, ora che si doveva parlare di colazione, di pranzo o di rinfresco.

Con l'ingegnere tu stabilito che quel monte di materiali in piazza Garibaldi sarebbe stato levato subito in serata, e che avrebbe fatto riempire con un po' di ghiaia tutti gli avvallamenti del lastrico in Via Mazzini e nel Corso Umberto I. Dello sprillo della fontana, l'ingegnere disse che s'era provato, ma era tempo perso per via della ruggine.

Finalmente arrivò anche il Verdiani con un diavolo per capello. E in verità, povero Verdiani! aveva ragione. Non è tollerabile, via! non si può sopportare che in un paese civile accadano scene come quella accaduta a lui dopo la notizia del telegramma! Belle prepotenze! Come se lui fosse obbligato a tenere in farmacia una botte di benzina! Dice: lo doveva prevedere. Prevedere un corno! Quando in tempi ordinarj, se ne vende una boccia o due l'anno, a far dimolto, chi va a pensare?... Ma poi che maniere! Appena ebbe detto che la benzina era finita e che, se avevan delle frittelle sui soprabiti, se le levassero col sapone: urli, fischi, trattamenti che neanche a un galeotto; eppoi una sassata in un vetro, e Dio sa come poteva andare a finire se non arrivavano i carabinieri a vuotare la farmacia e a dargli tempo di chiudere. E, quel che è peggio, c'era la serva del Sindaco che era la più accanita di tutti....

- Ma, in fin dei conti - interruppe il Sindaco, scattando - nessuno le chiedeva altro che di trovarsi in grado di corrispondere ai bisogni del pubblico e di aver fornita la farmacia, come prescrive il regolamento dei medicinali.

- Sissignore; e siamo perfettamente d'accordo; ma la benzina, lei m'insegna, non è un medicinale. Permicio baccone! Eh, sarebbe bella davvero che mi volessero contare per medicinali anche le candele, i bottoni e i gomitoli di refe che mia moglie tiene in uno scaffale a parte!

- Ma io volevo dire....

- Lei dica quello che vole; e io direi che sarebbe l'ora di farla finita....

- Signor Verdiani!...

- Sissignore; sarebbe l'ora di farla finita con queste persecuzioni.

- Andiamo, andiamo, signor Verdiani: lei non è penetrato della gravità della situazione, e lei, mi permetta di dirglielo, lei non possiede il senso dell'opportunità.

- Ma, signor Sindaco....

- Consideri se questo è il momento....

- Già! E il vetro rotto me lo ripaga lei?

- Si metta a sedere, e finiamola!-

Questo «finiamola» il Sindaco lo disse con un tono di voce così grosso, che il Verdiani non ebbe fiato di replicare. Si levò la papalina e andò a sedere tutto rannuvolato sopra una seggiola in disparte.

- Si diceva, - riprese il Sindaco, dirigendo la parola al Verdiani - si parlava di questa refezione da offrirsi al signor Prefetto, se sarebbe bastato un bel rinfresco, o....

- A che ora arriva?

- Ve l'ho detto anche dianzi: a mezzogiorno e mezzo circa.... Ma poi si capisce che, fra un ninnolo e un altro, si pena poco a fare il tocco sonato e magari le due.

- E se n'anderà?

- Di questo non se ne sa niente. Ma, dicerto, gente d'affari come quella, se n'anderà coll'omnibusse delle cinque.

- Il treno delle cinque è stato soppresso. - disse uno dei presenti.

- Male! - osservò il Verdiani.

- E allora - continuò il Sindaco - se n'anderà con quello delle nove o, alla più lunga, col diretto delle dieci e quaranta.

- Gua'! Se non fosse per la spesa, un desinare a quell'ora farebbe comodo anche a noi - osservò l'assessore Zingoni. - Sarebbe il male del ritardo d'una mezz'ora o giù di lì, ma finalmente....

- Mi dica, - chiese il Sindaco all'assessore Verdiani - il suo cognato, che lei sappia, sarà in casa a quest'ora?

- Credo.

- Io vorrei parlare un po' con lui. Che ne dicono lor signori!

- Mi parrebbe fatto bene - osservò lo Zingoni - perchè, se la spesa....

- Segretario!

- Mi diceva, signor Sindaco!

- Mandi subito il Trambusti a dire al trattore Bargelli se può arrivare un momento qui, chè abbiamo bisogno di lui.

- Lo mando nel momento. -

Il segretario uscì, ma rientrò, dopo qualche secondo, per dire al Sindaco che di là c'era il presidente della società operaia che aveva bisogno di parlargli.

- Vengo, vengo subito. Con permesso, signori. -

- No, no.... tutti son troppi! Io direi che bastasse una rappresentanza - diceva il Sindaco al presidente della società operaia.

- Quando lei ne ha mandati otto o dieci, mi parrebbe.... Se no, si fa una processione da non finir mai, perchè..., badi, le faccio il conto: Giunta, consiglio.... cioè, prima la banda. Dunque: Banda, giunta, consiglio, clero, scuole, società operaia....

- Noi dopo le scuole!? - osservò il presidente, con l'amaro sulle labbra.

- E allora diremo così:... oh, dunque si diceva: banda, giunta, consiglio, clero, reduci, società operaia....

- Noi dopo i reduci, noi?! - balbettò il presidente, col veleno nel fiato.

- Ma, caro lei, in qualche modo bisognerà adattarsi! bisognerà che qualcuno....

- Vediamo, vediamo, signor Sindaco, guardiamo se fosse possibile....

- C'è poco da guardare, amico mio. Il proposto mi manda a dire che lui e i suoi preti, se non son messi subito dopo il consiglio, si rifiutano di venire; i reduci hanno detto che dietro la società operaia loro non ci stanno; lei mi dice a cotesta maniera.... E allora ditemi come si fa a contentarvi!

- Se si trattasse di cosa mia particolare, capirà bene, signor Sindaco.... Ma quei giovanotti? Sa.... son ragazzi piuttosto allegri.... di mano lesta....

- Be'! Parlerò nuovamente col Cangialli e guarderò se si piega.... Mi rincresce.... ci ho di là la Giunta adunata.... mi rincresce di non potermi trattenere....

- Ma che le pare, signor Sindaco! Anzi, mi scusi - Sa! glielo ripeto, non è per un'idea mia, ma ripensando che....

- Vedremo, vedremo; vedremo di fare il meglio che sarà possibile.... Arrivederlo.

- Signor Sindaco, arrivederlo. -

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- Il Bargelli trattore non s'è anche visto, eh? - domandò il Sindaco, rientrando nella stanza della giunta. Poi, avendo veduto l'assessore Zingoni il quale, cascato di traverso, con un braccio allungato sulla tavola, dormiva come un tasso:

- Che sconvenienza, che sconvenienza! - esclamò disgustato.

- Verdiani, mi faccia il favore, lo scota un po' che si desti. -

Il Verdiani, nero come era, gli fiancò una gomitata nel groppone, da stroncargli una costola; e lo Zingoni, destandosi di sussulto: - Eh? Oh! Il Prefetto? Ah! - Sorrise si stirò le braccia e brontolò una specie di scusa per fare intendere che lui dopo desinare.... È una sconvenienza.... si capisce... ma, anche a casa sua, quando ha mangiato.... Cascaggini, cascaggini!...

- Segretario, - chiamò il Sindaco - che è tornato il Trambusti?

- Sissignore.

- C'era il Bargelli a casa?

- Sissignore. E ha mandato a dire che a momenti sarà qui.

- Va bene. Chiuda perchè vien vento, e dica al Trambusti che vada subito a chiamarmi il Cangialli perchè ho bisogno di vederlo.

- Eccolo il Bargelli, signor Sindaco - disse il segretario che s'era affacciato alla finestra a guardare in piazza.

- Meglio così. Appena salito, lo faccia passare; e quando torna il Trambusti gli dica che vada di corsa a far chetare quell'accidente di trombone che ci leva di sentimento. -

Angiolino della Baciocca, per non perder tempo, s'era già messo a provare per la prova che il maestro della banda aveva fissato per la sera alle otto. Di cima e di fondo al paese, e perfino dalle colline d'intorno venivano stonature e berci di strumenti; ma quelli son lontani e.... lasciamoli fare.

Il segretario, tornando indietro:

- Un telegramma, signor Sindaco.

Ah! è il deputato. Sentiamo.

«Trattenuto capitale - importantissimi lavori commissione Bilancio - non posso - mio grande rammarico - presenziare festa - ricevimento solenne - Prego ossequiare mio nome conte senatore prefetto.

DEL-MAZZO»

- Guarda, l'aveva saputo anche lui! - osservò il Sindaco. - Non c'è pericolo che gliene scappi una, veh, a quell'uomo! Che mente! che mente! Segretario, bisognerà rispondergli.

- Ho già preparato il telegramma, e quando avremo finito qui, vado subito a spedirglielo.

- Va benissimo; e si ricordi anche del Prefetto.

- Me ne ricordo; ma ho pensato che per oggi è inutile telegrafare, perchè a quest'ora gli uffizi della prefettura son chiusi, e domattina sarà inutile ugualmente perchè gli uffizi non si aprono fino alle dieci, e alle nove poco più il signor Prefetto sarà già in viaggio per venire da noi. Che mi dice?

- Va bene, va bene. Faremo i nostri ringraziamenti e le nostre scuse a voce, così non si sta ad ammattire....

- E si risparmia una lira! - osservò lo Zingoni, con quella rapidità e larghezza di vedute, che tutti gli hanno sempre riconosciuto come assessore delle finanze.

Il Sindaco approvò, dandogli una manata sulla collottola grassa, e disse al segretario che andasse a cercare del Bargelli.

- Vado a chiamarlo subito. -

Quando il segretario uscì per andare in cerca del Bargelli, sul pianerottolo delle scale si trovò faccia a faccia con la signora del Sindaco, la quale gli domandò se erano sempre adunati.

- Sissignora. Che voleva vedere il suo signor consorte?

- Sì

- L'avviso subito. -

Il Sindaco, sentendo raspare alla maniglia dell'uscio:

- Chi è?... Ah! Che è lei, segretario?

- C'è di qua la sua signora che desidera vederla.

Auff! Vengo subito. -

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Attraversando la sala dei donzelli, si fece incontro al Sindaco un giovinetto, chiedendogli, per favore, una mezza parola.

- Chi è lei?

- Sono il segretario del Circolo dei velocipedisti....

- Non posso, non posso.... Parli col segretario.

- E lo piantò lì a bocca spalancata per andare dalla sua signora.

- Illustrissimo....

- Ah, bravo Bargelli! Passate, passate di là da quei signori e parlate intanto con loro. Fra un momento ci sarò anch'io. -

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La moglie del primo cittadino di Torrefosca, comunicando il tremore delle sue membra agitate al catafalco di fiocchi, di fiori e di spennacchi che le trionfava sul capo, aspettava accigliata nella sala dei matrimonj. Entrato il Sindaco nella stanza, essa non si mosse. Lo fulminò con un'occhiata di disprezzo, e con voce soffocata dalla rabbia:

- Bella figura farà tua moglie domani al ricevimento!

- Che c'è, che c'è? Siamo alle solite?

- Guarda tua moglie! Guardi, signor Sindaco di Torrefosca! - E si mostrava tutta, allargandosi la sottana. - Belli domani! io a braccetto, e lei alla sinistra di un conte, con queste calìe addosso! Bella figura! Guardi questa bavera, spilorcio! - e gliela sventolò davanti. - Guardi quest'ombrellino! - e l'aprì. - Si guardi cotesta cravatta, signor cavaliere!

- Ma io non vedo, poi....

- Sei un avaraccio!

- Ma, scusa, Letizia....

- Vergogna, con quattro poderi e un mulino!

- Ma, corpo d'un...! Giurammio baccaccio!... Ma che vuoi che supponessi, io?... Chi va a pensare?... Ma si rimedia, ma si provvede, ma dimmi, ma fai, ma se vuoi quattrini....

- Ora, eh? E di qui a domattina si stacca e si cuce un abito! E di qui a domattina si riveste quella tua povera figliola che non ha un cencio di vestito decente da mettersi addosso, e che è a casa che piange!

- Ma almeno la cravatta per me....

- L'egoista!... Ma tua moglie non è formata di cotesta pasta; il sangue della mia famiglia, casa Stanganini! non si smentisce; e tua moglie a te ci aveva già pensato, e la cravatta l'avresti già avuta nel cassettone, se Gonippo merciaio non le avesse finite tutte stamani. -

Fu battuto con le noccole nell'uscio.

- Chi è?

- Amici.

- Chi amici?

- Io, signor Sindaco.

- Chi io?

- Il Trambusti.

- Avanti! -

Il Trambusti si affacciò sulla porta per dire al Sindaco che di là l'aspettavano perchè il Bargelli aveva furia, se no, col tempo così contato, lui non poteva restar galante d'aver preparato tutto.

- Ho capito. Vengo subito. Andate.

- Dammi una trentina di lire - disse la moglie al Sindaco - e guarderò di fare quello che mi sarà possibile.

- O venti non basterebb...!

- Giuliano!...

- No, no, non t'inquietare, via. Letizia, non t'inquietare. Tieni, tieni. - E, spaurito dagli occhi della moglie, che, nei momenti più gravi, diventavan gialli come quelli de' gatti, fu lesto a metter fuori le trenta lire e a domandarle se le occorreva altro.

- Vorrei menare con me il Trambusti per un paio d'ore?

Non so quel che ci sia da fare in uffizio. Senti il segretario. Io torno di là. Ooooh! -

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Un branco di gente l'aspettava nell'andito:

«Signor Sindaco, ha detto l'ingegnere che quelle antenne non è stato possibile trovarle.

«A che ora la riunione? Qui o alla stazione?

«Il presidente dei reduci e fratellanza militare è di là che l'aspetta.

«Il Grassi della banda è venuto a dire che la montura la mandò a allargare e ancora non gliel'hanno riportata. Come si rimedia?

«Dice Pallino se quel mandato glielo vuol firmare ora o se deve ripassare più tardi.

«La signora Direttrice ha scritto che si sente male.»

- Dal segretario, dal segretario! - brontolava il Sindaco, cercando di liberarsi da quell'assalto. - Dal segretario, dal segretario! - e si precipitò nella stanza della Giunta, dicendo al Trambusti che lui non c'era per nessuno.

- Mi tocca a escire, signor Sindaco.

- O dove andate?

- M'ha detto la sua signora che ha bisogno di me.

- Ah, sì! Allora ditelo al segretario. Non ci son per nessuno, anche se venisse.... - e chiuse l'uscio con uno sbatacchione tale, che fece quasi cascare dalla seggiola l'assessore Zingoni che s'era addormentato un'altra volta.

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Il Trambusti, prima di mettersi dietro alla signora Letizia, mandò un ragazzo a dire a sua moglie che poi alle sette gli facesse trovar preparato il solito paiolo d'acqua calda; ma che, per carità, non se ne scordasse.

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Il Sindaco e la Giunta, alle ventiquattro sonate, escivano dal palazzo comunale allegri e soddisfatti per andarsene a cena. Tutto era ordinato: pranzo, legni, banda, associazioni...; tutto era stato previsto e ora, per grazia di Dio, non mancava altro che una bella giornata piena di sole, perchè ogni cosa riuscisse come era stata immaginata.

- Quando fece la luna nova, Zingoni?

- Sabato notte alle quattro e venticinque.

- Ne siete sicuro?

- Perdiana baccone! Ho letto il lunario stamani; e quello non fallisce.

Allora siamo a cavallo! -

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La sera alle dieci, dopo il tempestìo della banda che provò per tre ore, senza prender respiro, quel bel passo doppio che, cinque anni fa, piacque tanto anche al professor Buonamici, tutto il paese dormiva.

Tutti no. Il Sindaco, ritirato nel suo scrittoio, scriveva il saluto da farsi alla stazione e il brindisi per il pranzo. Ora pensava profondo col capo fra le mani; ora sorrideva ispirato, guardando il Prefetto negli occhi; ora gestiva tanto concitato da schizzare intorno l'inchiostro, fino alla tenda bianca della finestra.

Nella stanza degli armadj, la signora Letizia e la figlia, aiutate da due sartine del paese, ansando dalla bramosia e senza una parola, tiravano via a cucire, con la febbre nelle mani.

In una povera catapecchia in fondo al paese, il Trambusti, con le gambe in un catino, non trovava la via di farsi calmare lo spasimo che gli era entrato nei piedi.

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- Ah! che mattinata di paradiso!.... Bravi, bravi giovanotti! -

Il Sindaco, spalancando la finestra di camera, aveva salutato quel bel cielo sereno e quattro suonatori i quali, già in montura, passeggiavano pavoneggiandosi per la strada.

- Ben alzato, signor Sindaco.

- Bon giorno, Zingoni. Ma che mattinata, eh? -

Lo Zingoni che stava di casa di rimpetto al Sindaco, aveva aperto anche lui la finestra e guardava, stropicciandosi gli occhi gonfi e assonnati, quella spera di azzurro incantevole.

- Bella entratura di mese! Ma per le campagne ci vorrebbe un po' d'acqua. Per i grani non dirò; ma le robe baccelline ne toccano. Eppoi, caro Sindaco, i proverbi non mentiscono:


Acqua d'aprile

Ogni gocciola vale un barile.


- Arriverà.... cioè: pioverà, non dubiti.... -

Il Sindaco era distratto: «In questa solenne occasione, in questa classica Terra, non seconda a nessuna di questa patriottica e fertile vallata...» Ripassava mentalmente il saluto della stazione.

- Signor Sindaco. - Non sentiva la voce che lo chiamava, e: «Mentre al di là degli oceani....»

- Signor Sindaco.

- Che volevi, bambino!

- M'ha mandato il legnaiolo, quello che prepara la tavola da mangiare, a sentire se lei ci avesse una ventina di bullette di Francia perchè alla magoncina non hanno anche aperto.

- Ci dovrebbero essere. Senti un po'giù da coteste donne.... Costì.... O dove vai?... Sona il campanello.... Più forte!... «mentre al di là degli oceani, la nostra bandiera....»

- Bon giorno, signor Sindaco.

- Bon giorno, signori.

- Signor Sindaco, ben alzato.

- Bon giorno, ragazze. Brave, brave!... Uh, come siete belle!

- O la signora Esterina?

- È al di là degli oceani che cuce.... cioè.... no.... volevo dire: son giù che fanno colazione.

- Signor Sindaco, ben alzato.

- Salute, signori, salute!

- Bella giornata, eh?

- Stupenda! -

Un organetto ambulante si fermò sotto la finestra dello Zingoni a russare e a belare sfiatato:


Ah che la morte ognora

È tarda nel venir....


- Che opera, che opera la Semiramide! - esclamò il Sindaco, buttando un soldo nella strada.

Lo Zingoni spaventato dal pericolo del soldo, dette una gran finestrata, e per tutta la mattina non si seppe più nulla di lui.

Benchè fossero appena le otto, il paese si animava a vista d'occhio. La strada brulicava di gente, e le botteghe si aprivano, una dopo l'altra, tutte abbellite a festa davanti a quel bel cielo di primavera. Chi metteva fuori bandiere, chi imbullettava festoni, chi lustrava, chi spolverava, chi lavava.... Laggiù in piazza si vedeva da lontano il Raglianti che, sbatacchiando di qua e di là il tubo di tela della botte, annaffiava la strada, con un branco di ragazzi d'intorno, i quali, fra grandi risate, si divertivano a farsi infradiciare. L'ingegnere e il segretario passarono di fuga, seguiti a stento dal Trambusti che s'arrancava sotto un fascio di bandiere per la sala del banchetto.

Era un viavai affaccendato e giocondo; un gridare, un ridere, un ciarlare a voce alta; saluti festosi, chiamate da lontano, sberci di tromboni e strilli di ragazzi matti dalla contentezza perchè era vacanza; e uno scatenìo di sonagliere e di legni che arrivavano dalla campagna; e un brillare acceso di sole sui colori diversi della folla; e un pigolìo di rondini, e uno svolazzare di vento innamorato tra i profumi delle terrazze e delle finestre adornate di fiori e di giovani occhi sorridenti.

Il Sindaco, tornato a casa dal Comune dove era stato un paio d'ore per invigilare e per dare le ultime disposizioni, dopo essersi bardato dei suoi finimenti di gala, non esclusa quella famosa tuba, quella specie di lupo campatoio che da quindici anni perdeva il pelo ma non il vizio, quella tuba solenne dalla tesa tanto larga da sembrare un paracadute, si affacciò alla finestra a dare un'occhiata.

- Viva il nostro Sindacooooo!

- Zitti, zitti! - accennò con la mano, come per dire: «È presto ora, è presto. Più tardi, più tardi» e si tirò indietro quasi commosso nel pensare che, in fin dei conti, tutta quella roba era merito suo, e:

«In questa solenne occasione, in questa classica Terra....» Allungando passi smisurati per la stanza, dava un'ultima ripassata al saluto della stazione.

A mezzogiorno preciso, la giunta e una rappresentanza di consiglieri, vennero a prenderlo a casa per fargli scorta fino al palazzo del Comune. Salutata da uno scoppio d'applausi, seguito da uno più grosso di risate, comparve prima la serva a spalancare i due battenti della porta, e subito dopo, il Sindaco si presentò raggiante sulla soglia, avendo a fianco la sua signora che sfolgorava sotto una fiammante bavera della stessa roba di quella della sua cravatta nuova, e:

- Addio, buona Letizia; fra poco ti mando il legno. Signori, andiamo.... -

Chi non ha visto quel gruppo, incedente maestoso tra la folla che si allargava salutando al loro passaggio, chi non ha visto quello sciamannato sbrendolìo di falde, di barbe arruffate, di calzoni a tromba, di solini sfilaccicati e di ciarponi neri svolazzanti, Ha visto ben poco nel suo mondo o, per dir meglio, non ha visto nulla.

Avete mai veduto?...

Che cosa?

Vi siete mai trovati?...

Dove?

Parevano.... Dio mio! che cosa parevano!... Parevano un branco d'uccellacci di padule, uno sciopero di saltimbanchi fischiati, una processione di quacqueri in lutto, parevano.... Chi me lo sa dire che cosa parevano?... Parevano il Sindaco, la Giunta e una rappresentanza del Consiglio comunale di Torrefosca.

Davanti al palazzo del Comune, la folla variopinta era così fitta, che un chicco di panico non sarebbe cascato in terra a buttarcene sopra una manata.

Al passaggio dei rappresentanti, fu fatto largo alla peggio, e, preceduti da una guardia che dava spintoni a destra, e dal Trambusti che dava gomitate a sinistra, poterono finalmente arrivare alla gradinata dove il segretario, con uno scartafaccio in mano, aveva già cominciato a far la chiama per ordinare il corteggio.

- Reduci e fratellanza militare.

- Presenti.

- Sfilate, sfilate e andate al vostro posto.

- Società operaia....

- Società operaia... - Nessuno rispondeva.

- Società operaia....?

- Non vengono - disse una voce.

- Si farà anche senza di loro - osservò un'altra.

- Avanti, avanti, giovinotti, se no si fa tardi.

- Filodrammatici «Provando e riprovando.»

- Presenti.

- Costà dal lampione. Bravi, bravi! costì. C'è recita stasera, giovanotti?

- Nossignore: domenica. Stasera si prova.

- Circolo ricreativo «l'Amicizia.»

- Presenti.

- Laggiù dietro a loro. Va benissimo!

- Circolo ricreativo «Onore e Concordia.»

- Hanno protestato e son andati a fare una merenda in campagna.

- Buon appetito.

- Legnate!

- Silenzio!

- Velocipedisti.

- Presenti.

- Si mettano costì. E voi, Trambusti, andate in testa a dire alla banda che faccia una cinquantina di passi avanti, se no, quaggiù non ci riman posto.... Ammodo.... ammodo! Costì.... Va bene!

- Tiro a segno.

- Presenti.

- Più serrati.... A cotesta maniera.... Bravo sor Giuseppe!

- Scole elementari. -

Uno strillìo di ragazzi rispose:

- Presenti.

- No, no, signora maestra.... In fondo, in fondo.... Ma facciano un po' di largo, santo Dio benedetto!... O le guardie! Ma dove si son ficcate queste guardie? Lo vedete che, se non vi tirate indietro, non è possibile far nulla!... Silenzio!... Che bel gusto, eh? Indietro, donne, indietro! -

E sbracciandosi e scalmanandosi, il segretario cercava di supplire a tutto, sventolando un gran faldone bruno-rossiccio, senza essersi ancora accorto che da un gomito gli si vedeva la camicia, attraverso a un sette che s'era procurato armeggiando intorno alla tavola del banchetto.

- Ooh! dunque noi qui siamo all'ordine.... Giudizio costassù! -

Il segretario aveva gridato a un suo cugino dilettante fotografo, il quale, appollaiato sopra un tetto, per metter meglio in foco la macchina, era venuto quasi in cima alla gronda. E dietro a lui tutti i ragazzi del casamento.

- Dice il signor Sindaco, se ci possiamo movere - domandò il Trambusti da lontano.

- Ai suoi ordini. -

- Zun, zun, zun.... -

La banda attaccò il famoso passo doppio che cinque anni fa piacque tanto anche al professor Buonamici, e il corteggio si mosse.

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La cornetta dell'ultimo cantoniere avvertì che il treno era alle viste. Un fremito lungo si levò dalle due banchine gremite di popolo e, come a una folata improvvisa di vento in un campo fiorito, ombrellini, bandiere, nastri, penne e fazzoletti si agitarono festosi nell'aria.

- Indietro, signori, indietro! -

Ansando maestoso e balenando scintille dai vetri e dagli ottoni, quasi fosse consapevole di portar chiusi sotto alle sue squamme tanto onore e tanta gioia per un popolo intero che l'aspettava, il gran rettile d'acciaio, con un alto e lunghissimo sibilo, entrò nella stazione.

- Torrefosca.... Torrefosca.... -

Un uomo sulla quarantina, di aspetto grave e signorile faceva cenni alle guardie, con la mano inguantata, perchè venissero ad aprirgli.

Fu un urlo generale.

- È lui! è lui!... Viva.... Vivaaa.... Viva il nostro Prefetto! Vivaaaaa....! -

Il Sindaco, buttata indietro con uno spintone la guardia che si avvicinava allo sportello, si avventò alla maniglia e, appena aperto, si tirò indietro due passi pestando un piede alla moglie che s'era avvicinata sporgendo un mazzo di fiori, fece un profondo inchino e rimase a fronte bassa e a braccia spalancate, con un guanto nella destra e la tuba nella sinistra.

In quell'istante, le suore dell'Immacolata, a un cenno del Proposto, fecero intonare alle loro alunne la cantata, così detta, dell'omaggio.


Salve, salve! all'orizzonte

Spunta fulgida una stella,

Salve, salve!...


Il momento era grandioso e commovente.

L'uomo sulla quarantina, dall'aspetto grave e signorile, scendeva dal vagone, fra l'ammirazione e i commenti simpatici della folla:

«Che bell'uomo!» «Così giovane, già prefetto!» «Ha gli occhiali d'oro, avete veduto? ha gli occhiali d'oro!» «È un conte, non è vero?» «Dice di sì» «Come si vede bene che è un conte!»

Il Sindaco, visibilmente commosso, aveva già attaccato col saluto: «In questa solenne occasione, in questa patriottica Terra non seconda....»

La voce gli si strozzò nella gola e si interruppe bruscamente.

- Che è accaduto?

- Il Prefetto gli ha dato un biglietto e ora se ne va!

- O questa!

- Mah! -

L'uomo sulla quarantina, dall'aspetto grave e signorile, era un viaggiatore di commercio della premiata Casa Fratelli Broken e Compagni di Zurigo.

- E allora?... Segretario!... signor capo.... Ma come? -

Dal vagone di fondo, sorretto da una donna e aiutato da una guardia, scese a stento un vecchio con la testa tutta fasciata, il quale tornava da Sovigliana dove era stato a farsi tagliare una natta dal professor Bellucci. Una gran botta per chiudere lo sportello, eppoi:

- Partenza! partenza!

- No! no!... signor capo.... signor capo!...

- Partenza.

- Signor capo.... Segretario!... No, no! un momento!... -

Il Sindaco pareva impazzato. Correva in su e in giù, chiamando con voce rantolosa, il segretario e il capostazione, senza sapere dove battersi la testa. Ma il capostazione e il segretario non era possibile trovarli tra la folla che incominciava a tumultuare confusa.

- Che si sia addormentato in un vagone ?!

- Partenza.... Pronti!

- Noooo! - urlò il Sindaco, con una steccaccia che parve un ruggito. E si precipitò lungo i montatoj a guardare dentro ai vagoni.

A un tratto mandò un grido, spalancò lo sportello d'un vagone di prima classe alla coda del treno, dove un signore dormiva, e s'infilò dentro, senza accorgersi che il convoglio era già in movimento.

Il conduttore, visto da lontano uno sportello aperto, corse, lo chiuse e, affrettandosi brontolando, rientrò rapido nella galleria2 mentre il treno, che aveva dodici minuti di ritardo, accelerava, sbuffando, la corsa.

- No, no! Stia fermo! Lei si vole ammazzare!... Non si provi! Dentro! dentro!... - gridavano due guardie, correndo dietro al convoglio e minacciando.

Il Sindaco, spenzolato fuori del finestrino, cercava d'arrivare la nottola di sicurezza per aprire, e non intendeva ragione.

- Non si attenti! no! no!

- No, no! - gridò con un solo urlo il popolo inorridito.

Il primo cittadino di Torrefosca, perduta ogni speranza di evasione, inquadrò la sua dignità nel finestrino, e battendosi tragicamente la destra sullo sparato della camicia dove, a ogni botta, lasciava cinque ditate nere:

- Sono infamie, signor capo! Sono infamie, segretario! Primo aprile! È una burla sanguinosa! Sono infamie!... Ma io! Ma io! Auff.... Auff....-

Pavesato a festa da centinaia di braccia che si agitavano e di facce che si spenzolavano fuori dai vagoni ridendo sonore, il treno si allontanò inesorabile dentro una nuvola di fumo.