NOTA
A QUESTA NUOVA EDIZIONE
(1.ª edizione Treves - 1911).
Edmondo De Amicis fu eccellente
oratore. Quale concetto avesse della pubblica eloquenza, come
sentisse quella "enorme fatica di tutte le potenze vitali",
spiegò egli medesimo nelle Confessioni d'un conferenziere,
che servono d'introduzione al libro intitolato Capo d'anno, pagine
parlate. Quale fascino di persuasione e d'entusiasmo egli
esercitasse sugli uditori, attestano tutti quelli che ebbero
occasione di ascoltarlo. Dal ricco e vario vibrar della voce, dal
gesto semplice, dal balenare dell'anima nella chiara onesta
faccia, da tutta l'espressione della sua figura emanava la
medesima virtù di simpatia, per cui ebbero e serbano tanta
nobile popolarità i suoi libri. La tempra del suo ingegno e
il suo gran cuore erano fatti apposta per assicurargli quella
immediata corrispondenza spirituale con la moltitudine degli
uditori, senza la quale ogni più dotta eloquenza è
invano.
E fu oratore di attitudini
così diverse che parrebbero opposte: seppe con mirabile
giustezza di modi parlare via via alle persone colte e alla plebe,
alle donne, agli studenti, ai fanciulli; fu conferenziere elegante
e arringatore ardente di patria e di partito; sopra tutto
riuscì spontaneamente maestro dell'eloquenza men tentata
dai letterati e più difficile, quella che si rivolge alle
menti inesperte, al popolo privo di cultura e agitato dalle
passioni politiche, ai ragazzi che cominciano appena nelle scuole
a sentire la forza della parola che illumina e commuove. Chi gli
fu più vicino ricorda poi com'egli avesse felice la vena
del breve detto d'occasione e del brindisi, sì nelle
pubbliche cerimonie, sì nei conviti amichevoli, che gli
piacevano tanto al suo tempo migliore, e nei quali studiò
da par suo le significazioni e le bizzarrie dell'Eloquenza
convivale.
Un senso nativo della misura e
dell'opportunità governava sempre la sua parola; e il culto
interiore della parola stessa, il vigile intuito dell'artista
faceva sì che, qualunque cosa, in qualunque circostanza
dicesse, non gli venisse, mai meno quel decoro letterario, che non
lascia perdere dignità ad alcuna delle sue scritture, anche
alle più umili e famigliari. D'ordinario non improvvisava;
diceva prosa scritta, ma scritta per essere parlata, e però
colorita e mossa secondo l'intento oratorio che si proponeva. E
del resto parlata, per suo istinto e per suo istituto, era tutta
la prosa del De Amicis; parlata fu virtualmente tutta quanta la
sua opera letteraria, la quale tanto può sui lettori
perchè a tutti fa l'effetto di una conversazione immediata
dello scrittore con loro.
Egli non diede alle stampe tutte le
sue conferenze, non tutti i suoi discorsi lasciò
raccogliere. Pubblicò prima nel 1880, insieme con quelle di
dieci altri amici, la conferenza sul Vino, ora entrata nelle nuove
edizioni delle Pagine allegre; e l'anno dopo, nella Gazzetta
letteraria di Torino, quella su L'espressione del viso, che aveva
fatto al teatro Carignano per sovvenire ai figli del morto amico
Roberto Sacchetti. Delle tre conferenze che disse al teatro
Colón di Buenos Aires e poi al teatro Solis di Montevideo,
fra l'aprile e il giugno del 1884, su Vittorio Emanuele, Cavour e
Garibaldi, quest'ultima sola rifece e stampò in Italia,
quale si legge nel presente volume. Più volte fu ristampata
l'altra conferenza su I nostri contadini in America, tenuta il 31
gennaio 1887 alla Società filarmonico-drammatica di
Trieste, e compresa ora nel volume di Capo d'anno: la quale diede
agli uditori e all'oratore argomento di commozione indicibile,
ricordata da lui nell'ultima pagina delle Confessioni d'un
conferenziere, scritte appunto l'anno seguente.
Rimangono in volumetti separati la
conferenza su La lettera anonima e i famosi discorsi Ai ragazzi,
stimati un capolavoro di letteratura infantile, che segue ed
integra l'universale libro del Cuore. Poco si conserva, e quel
poco monco e disperso, dei discorsi fatti dal De Amicis in private
adunanze e in comizi del partito socialista, massime in occasione
di elezioni politiche: salvo i due grandi discorsi Per il 1.º
maggio e Per la questione sociale, compresi in questo volume, e
alcune minori cose contenute nell'altro libro che s'intitola Lotte
civili.
L'ultima volta che il De Amicis
parlò in pubblico fu il 20 marzo 1898, per pronunziare la
commemorazione, pur essa qui stampata, di Felice Cavallotti, al
teatro Nazionale di Torino; teatro popolare, riboccante quel
giorno, ricordo bene, del popolo più misto che si potesse
vedere, e che l'oratore sollevò tutto nel consenso e
nell'ammirazione irresistibilmente.
Egli fu eletto deputato del
1.º collegio di Torino il 17 luglio di quell'anno. S'era
lasciato presentare candidato per obbedire al bisogno di una
protesta politica del suo partito allora insorto e perseguitato.
Ma rinunziò all'ufficio, e il Parlamento non udì mai
la sua parola. Due giorni prima dell'elezione gli era morta la
madre amatissima. E pochi mesi dopo gli morì il figlio
primogenito Furio: dolore atroce che non trovò mai
più conforto.
"Folgorato nel capo", lo scrittore
si ritrasse nell'ombra e nel silenzio della sua casa desolata;
abbandonò per sempre la vita pubblica, non accettò
più di fare conferenze e discorsi; e da allora in poi fu
tutto nel quotidiano solitario lavoro, col quale però il
suo spirito chiuso ai richiami esterni comunicava così
largamente con gli innumerevoli lettori fedeli.
In questo libro, Speranze e Glorie,
edito prima dal Giannotta di Catania, il De Amicis riunì i
suoi più importanti discorsi d'argomento commemorativo e
sociale. Un altro simile volume, Lotte civili, raccoglie i suoi
scritti polemici per il socialismo e per la pace dei popoli. Con
questi due libri si determina l'azione politica dello scrittore;
la quale, a riscontro della sua opera letteraria, non deve
rimanere dimenticata, perchè è troppo gran parte di
quella generosa vita intellettuale, a cui non mancò mai la
rispettosa e affettuosa attenzione degli italiani.
Torino, aprile 1911.
DINO MANTOVANI.
I.
Per una distribuzione di premi.
ALLE ALUNNE.
Vi parlo, non perchè io
pensi che non sarebbe compiuta senza le mie parole questa cara
festa dedicata a voi; ma per prolungare a me di qualche momento il
piacere vivissimo di vedervi.
Quanto vi potrei dire di più
opportuno e di più degno ve lo dicono ogni giorno le vostre
brave insegnanti, e con assai maggiore autorità che non
possa esser la mia; perchè esse vi esortano al lavoro e ve
ne dànno le prime l'esempio; vi raccomandano la
bontà e vi dimostrano con gli atti che cosa sia l'esser
buone; vi dicono: - Studiate, educatevi per la famiglia e per la
patria - e alla patria, alle famiglie rendono con l'opera loro un
servigio che soverchia ogni ricompensa e ogni gratitudine.
A me non resta che rallegrarmi con
voi per il premio che avete meritato e che abbiamo avuto la gioia
di porgervi.
Ma il dire che v'abbiamo dato un
premio non è l'espressione propria della verità. Il
vostro premio non è nel modesto ricordo che, per nostra
mano, vi ha offerto la vostra città natale, per dimostrarvi
che ha a cuore i vostri studi e che v'è grata della gloria
che dànno alle sue scuole, dell'onore che fanno al suo nome
gli sforzi vittoriosi della vostra volontà e del vostro
ingegno.
Il vostro premio è nella
serenità della vostra coscienza, nella stima delle vostre
compagne, nella compiacenza delle vostre maestre, nel bacio dei
vostri parenti; è nel raddoppiato vigore di volontà
che questo trionfo delle vostre fatiche v'infonde; è nella
dolce memoria, che v'accompagnerà per tutta la vita, d'aver
ricompensato degnamente tutti coloro che vi hanno amate e educate,
che hanno lavorato e palpitato per voi.
Sì, il vostro miglior premio
l'avrete, nell'avvenire, quando questo tempo vi parrà tanto
lontano da confondersi quasi nella vostra mente con quello della
primissima infanzia. Anche allora, fra molti e molti anni,
ricordandovi della vostra fanciullezza, voi rivedrete sovente col
pensiero questa sala affollata, i visi delle vostre compagne e
delle vostre maestre, e la vostra piccola immagine sorridente, col
premio stretto sul cuore, illuminata dalla stessa luce che in
questo momento v'illumina, e ogni minima cosa come in questo punto
la vedrete, come se riviveste in questo giorno. E direte tra voi:
- Che bel giorno! La mia maestra era contenta, mia madre era
commossa, mio padre m'aspettava a casa col cuore pieno di gioia e
d'alterezza, ed io.... quant'ero felice! - E rimarrete
maravigliate di risentirne ancora tanta dolcezza. E se in
quell'ora avrete il cuore amareggiato da un'offesa, vi sentirete
più disposte a perdonarla. E se avrete da compiere uno
sforzo per mettere in atto un proposito gentile o per fare un
sacrificio generoso, vi riuscirà più facile di
compierlo. E se avrete sotto gli occhi il ritratto di vostra madre
lo bacierete con più affettuosa tenerezza perchè vi
parrà di vederla sorridere per ringraziarvi di questa
giornata luminosa che le avete data.
Continuate dunque a studiare e a
esser buone per aver nell'avvenire molti di questi ricordi che
migliorano l'animo e abbelliscono la vita.
Un solo consiglio vi dò
ancora. Per proseguire sempre più rapidamente e con
più lieto animo il cammino che avete incominciato con tanto
onore, destate in voi un impulso allo studio anche più
forte di quello del sentimento del dovere. Sia il sentimento del
dovere la vostra scorta, diventi lo studio il vostro amico;
abbellite questo così nella vostra immaginazione che egli
vi attragga con tanta forza da rendervi superfluo ogni sforzo
della volontà; cercate in ogni modo di suscitarvi in petto
questa passione nobilissima che, accesa una volta, non s'estingue
più, ed è alimento e premio a sè medesima per
la vita intera; perchè anche nel campo del lavoro
intellettuale, anzi in questo più che in ogni altro, se la
volontà fa maraviglie, la passione fa miracoli. Sapete che
cosa rispose un grande uomo di scienza, ammirato dal mondo, a chi
gli domandò in qual maniera, non concedendogli la salute
malferma che poche ore d'occupazione ogni giorno, egli avesse
potuto compiere tante scoperte, scrivere tante opere utili e
gloriose, a cui pareva che appena sarebbero bastate le fatiche
assidue di una lunga vita vigorosa? - Vi riuscii - rispose -
convertendo il lavoro forzato in lavoro spontaneo; - che era
quanto dire: facendo con amore, quasi per diletto e per bisogno
dello spirito, più che per forza di proposito e per iscopo
di vantaggio proprio ed altrui, tutto quello che fece. E
così potete far voi pure nel vostro piccolo campo
scolastico; ma rammentandovi sempre, badate, che per studiare con
facilità e con profitto bisogna aver la mente serena, che
non s'ha la mente serena se non s'ha il cuore in pace, e che per
avere il cuore in pace dovete adempiere con pari zelo tutti i
doveri: esser riverenti coi genitori, rispettose con le
insegnanti, affabili con le compagne, pietose con gl'infelici,
buone con tutti.
E vedrete sempre alla prova, care
fanciulle, che per lavorare ed esser buone non avrete da fare due
sforzi distinti, perchè dal lavoro esce la bontà,
come dal moto il calore, perchè dalla bontà sorge il
lavoro come dalla luce la vita, perchè lavoro e
bontà sono due virtù gemelle che non si scompagnano
nelle anime elette se non quando le disgiungono a forza
l'infermità e la vecchiezza, e tendono a ricongiungersi
sempre per trarre l'una dall'altra ardore e vigore, e se non
vincono ogni avversità e non sfuggono alla legge del
dolore, ad ogni dolore trovano un grande conforto e ogni
avversità sostengono nobilmente, quando quello e queste
affrontano insieme.
Sì, siate buone,
perchè dovete agli altri la bontà che loro chiedete
e che, anche senza merito, per semplice virtù
dell'età vostra, ottenete da tutti; perchè la
bontà apre ed affina l'intelletto come il fuoco dilata e
purifica l'aria; perchè è la sorgente inesausta dei
sentimenti soavi e delle idee grandi; perchè è la
madre e la nutrice di tutte le passioni più nobili,
più operose, più benefiche, di cui si onori l'anima
umana. E lavorate perchè il lavoro vuol dire allegrezza e
coraggio, è attività del sangue e pace dello
spirito, è sicurezza della coscienza e dignità della
vita; perchè chi lavora, prega, spera, combatte, semina e
costruisce, per sè e per gli altri, per il presente e per
l'avvenire, e spande intorno con lo esempio, come fiore il polline
fecondo, e trasfonde nel petto altrui l'onestà, la salute,
la forza dell'anima sua.
Ma voi, d'animo e d'ingegno eletto,
non avete bisogno d'intender da noi questi consigli. Questi vi son
dati continuamente da mille voci, da mille forze più
potenti della nostra parola. È lo spettacolo del lavoro
immenso e perpetuo della natura, della grande forza operosa, come
dice il poeta dei "Sepolcri", che affatica le cose di moto in
moto, è il procedere non interrotto di ogni scienza,
è il trasformarsi continuo d'ogni istituto sociale,
è la notizia quasi quotidiana d'una scoperta nuova, d'una
nuova via dischiusa al progresso civile, d'un nuovo ardimento
dell'ingegno umano, è l'incessante, multiforme,
infaticabile agitarsi di tutti gli esseri viventi per conservar
l'esistenza propria e migliorarla per sè e prepararla
migliore ai futuri, è tutto questo che vi dice con mille
voci, ad ogni ora, ad ogni momento del giorno: - Lavorate!
È l'azzurro infinito che vi
si stende sul capo, è l'alba che imbianca il mondo, il
tramonto che lo imporpora e la primavera che lo infiora, è
lo splendore degli astri, l'immensità del mare, il riso dei
campi, la grazia dell'infanzia, sono i lampi divini che mandano
dal volto le anime belle e le visioni celesti che v'apre al
pensiero la musica e l'incanto sovrano che vi versa nel cuore la
poesia, è questo grande linguaggio misterioso ed eterno
della bellezza, che alla vostra anima pura, ancora tutta aperta ad
accoglierlo e a sentirlo, vi dice da tutte le parti, ad ogni ora,
ad ogni momento del giorno: - Siate buone!
Ma a che ripetervi queste parole in
questo momento in cui la bontà vi splende nello sguardo e
nel sorriso così dolce e limpida che ciascuna di voi ci
pare della bontà un'immagine vivente, la quale desta nel
nostro cuore tutti i sentimenti gentili che vorremmo infonder nel
vostro?
Andate, non avete che da serbarvi
in codesto stato d'animo per esser felici voi e fare intorno a voi
tutti felici. Portate a casa i vostri premi e la vostra gioia; noi
portiamo in cuore le vostre care immagini, l'eco del vostro canto
e la dolce speranza di ritrovarvi fra un anno in questa scuola e
di rivedervi ancora, come oggi siete, fiorenti di salute e
raggianti di contentezza, festeggiate dalla famiglia, onorate
dalla città, benedette dalla patria.
II.
Per l'inaugurazione d'un Circolo Universitario.
AGLI STUDENTI.
A voi, studenti, e agl'invitati
illustri che sono tra voi, domando perdono se non fui abbastanza
modesto da rifiutare l'onore immeritato che mi faceste,
chiamandomi a inaugurare il vostro Circolo con un breve discorso.
Ma v'era nel vostro invito un significato che accarezzava
irresistibilmente quel particolare amor proprio, sospettoso
d'altri e di sè, che viene coi capelli grigi; il vostro
invito voleva dire che, nonostante la disparità degli anni,
non mi credete ancora tanto lontano da voi per calore d'affetti e
per fede nei belli ideali della giovinezza, da non poter
interpretare il pensiero e l'animo d'un'adunanza di studenti. Io
non seppi vincere la tentazione di mostrare pubblicamente
l'attestato di gioventù spirituale, di cui m'onoraste.
Ma una ben altra ragione mi spinse:
furono due modeste parole ch'io lessi nel secondo articolo del
vostro statuto.
In questo tempo in cui un troppo
gran numero d'insecutori furiosi della fortuna cerca d'estendere
le leggi biologiche della lotta per l'esistenza dai regni
inferiori della natura alla società umana, per trarne
cagione a sciogliersi da ogni più alto dovere di
generosità e di gentilezza, è bello questo vostro
intento, col quale voi rinnegate formalmente per parte vostra la
prima e più dura di quelle leggi, che è l'egoismo;
intento con cui mirate ad attuare, in mezzo a voi, uno dei
più arditi concetti degli apostoli della giustizia e
dell'eguaglianza assoluta: il diritto di tutti a procacciarsi la
vita con la cultura e con l'esercizio delle loro facoltà
migliori, nel campo a cui la natura li ha destinati. "Mutuo
soccorso": è l'espressione con cui avete delicatamente
significato il vostro scopo: io la saluto, come l'insegna
gentilizia della vostra casa.
Ma anche senza di questo, anche se
la vostra Associazione non avesse avuto altro fine che quello di
un ritrovo geniale, io sarei stato lietissimo e mi sarei tenuto
onorato dell'invito, per queste ragioni. Perchè il corso
fortunato di molte fra le idee più feconde degli ultimi
tempi, perchè la formazione del primo manipolo dei
propugnatori di molte cause elette, diventati col tempo
moltitudine vittoriosa, perchè l'autorità e la forza
di molti uomini predestinati a grandi opere, ebbero cominciamento,
voi lo sapete, in riunioni abituali della gioventù
consacrata agli studi; perchè ciascuno di noi, cercando
dove si siano aperti prima alla sua mente certi orizzonti, dove
siano cadute certe arroganze pericolose del suo orgoglio, dove
egli abbia prima imparato il rispetto del pensiero altrui, la
sapiente diffidenza del giudizio proprio e il nobile ossequio
dell'ingegno alla critica, trova il principio di tutto ciò
nel periodo delle sue discussioni ardenti coi colleghi di
vent'anni; perchè, in fine, l'intrecciarsi degli ordini
diversi della coltura, l'azione reciproca delle virtù
opposte dei caratteri, l'educazione delle facoltà agili e
battagliere dell'intelligenza, e la conoscenza degli uomini che
è il rincalzo e la scorta di tutte le facoltà, e la
generazione spontanea delle amicizie che durano quanto la vita,
strette da un legame di memorie senza amarezze, non sono quasi
altrimenti possibili che nelle vostre riunioni e all'età
vostra, la quale mette nelle sue controversie un ardore, una
schiettezza, una fede nella fecondità della lotta che con
gli anni scema, pur troppo, o si perde.
Sia dunque bene inaugurato, anche
per questo, il vostro Circolo. Fate, come dice il poeta, cozzare i
vostri pensieri dalle loro parti sonore; discutete - disputate -
battagliate; correte per tutti i versi il vostro campo sterminato
in cerca d'avventure e di cimenti dello spirito; affrontate
audacemente tutti i problemi con codesta invidiabile
facoltà di lampeggiamento dell'intelletto per la quale
v'appare tante volte improvviso quello che trovano a fatica la
meditazione e l'esperienza; fate fiammeggiare e rombar senza posa
la grande fucina delle passioni e delle idee; e siano ben venute
le vostre discussioni, anche le più tempestose, anche
quelle che v'inaspriscono e v'adirano, se saranno seguite dallo
slancio gentile con cui i cavalieri dell'idea si porgon la mano
dopo i duelli della parola, riconoscendo che agli occhi luminosi
della Scienza e dell'Arte non deve salire il fumo impuro dei
nostri rancori.
Ma perdonatemi se ho rasentato un
momento il sermone: tendenza consueta di chi parla a persone di
cui desidera il bene ardentemente. E di questo voi non dubitate,
ne son certo. Voi non credete a quello che dice un grande poeta
malinconico: che lo spettacolo della gioventù è
odioso agli uomini maturi. No, non è vero, per la
maturità che lavora e che pensa. Può bene anche un
uomo di senno e di cuore risentire, in mezzo a voi, quell'ombra di
mestizia che ci suol dare la vista d'un nostro ritratto di
vent'anni addietro, il quale ci rammenta affetti morti e illusioni
perdute. Ma da questo leggero senso di rammarico si scioglie
prontamente il nostro pensiero quando la gioventù che ci
sta dinanzi è quella che siede nella più alta scuola
d'uno Stato, quella a cui è affidato per l'avvenire l'onore
intellettuale d'un popolo. Dal rimpianto del nostro passato noi ci
volgiamo allora all'ammirazione del vostro, o studenti; del
passato, voglio dire, della grande famiglia universitaria, giovane
eternamente. Poichè questo ci tocca nel vivo dell'animo:
che nella classe a cui appartenete sia eguagliato lo splendore
delle speranze da quello delle tradizioni; che lungo tutta la via
della nostra storia nuova, dalla prima germinazione oscura
dell'idea nazionale fino agli ultimi trionfi dorati dal sole, si
ritrovino mille nomi della vostra bella schiera; che non si sia
dato da settant'anni a questa volta un momento triste, difficile o
solenne, in cui la patria non abbia udito la gran voce sonora
delle vostre legioni esprimere prima di lei i suoi entusiasmi
più nobili e le sue risoluzioni più audaci. Questi
ricordi ci ridesta la vostra presenza. Voi avete consolato della
vostra ammirazione festosa gli ultimi anni travagliati dei grandi
vecchi, avete vendicato col grido giovanile ingiustizie
memorabili, scosso da inerzie colpevoli classi cittadine troppo
paurose d'ogni cosa; avete dato teste eroiche ai patiboli, petti
di ferro alle barricate, rigagnoli di sangue ardente fra il Ticino
e l'Adige, sui monti di Sicilia e sulle mura di Roma. E la gioia
infinita che troviamo in queste memorie viene in gran parte dalla
profonda, incrollabile, superba certezza che, se la storia si
ricominciasse, essa non avrebbe per cagion vostra nè un
dolore di più nè una gloria di meno.
Ma v'è un'altra ragione,
anche più potente, del nostro affetto per voi. Quando noi
ci arrestiamo sgomenti davanti alle affollate e multiformi
difficoltà, contro le quali, nel campo della speculazione e
dell'opera, urta la fronte la generazione a cui appartengo e
quella che la precede, noi ricorriamo con la mente alla
gioventù universitaria, come in una grande guerra dubbiosa
l'esercito di prima linea volge il pensiero al secondo esercito,
che si ordina e si addestra nei campi, aspettando la sua ora. E
con un conforto grande ci raffiguriamo nuove forme dell'arte, una
più alta sapienza della legge, nuove infermità
vinte, nuovi e maravigliosi cooperatori delle braccia umane,
qualche idea splendida e semplice, oggi ancora velata, cospirante
alla soluzione di quell'enorme problema sociale che ci tormenta la
ragione e ci affanna l'anima; e come i contorni incerti di una
bella terra lontana, vediamo le somme linee di una società
più giusta, più fraterna, più felice della
nostra; che, in fondo, è il più santo voto del cuor
di tutti. E allora diciamo in cor nostro: - Là, in mezzo a
loro, tutto questo cova, spunta, s'abbozza, ribolle - sono essi
l'avvenire in cui abbiamo fede - le speranze che ci aiutano a
vivere son le loro ambizioni - e la luce più viva che
scalda il nostro tramonto è quella che c'irradia alle
spalle l'aurora della loro gioventù. E allora, quanto
v'amiamo! Allora quel sentimento d'orgoglio chiuso che tien poco o
molto ogni generazione matura si stacca come scoria vile
dall'animo nostro; allora non comprendiamo più
perchè ciascun di noi non debba desiderare come una fortuna
che voi gli passiate sul corpo per salire a un gradino più
alto sulla scala dell'arte e della scienza: allora benediciamo ai
vostri studi, alle vostre gioie, alle vostre irruenze con un
entusiasmo nel quale è ancora tutta la freschezza della
vostra età, con un affetto di cui non vi può dar
l'immagine che la stretta dell'amplesso paterno.
Sì, noi v'amiamo come
l'avvenire vivente. E seguitiamo i vostri passi con quel
sentimento di curiosità pensierosa, col quale si guarda chi
parte per un paese sconosciuto e mirabile, come s'egli avesse
già sulla sua persona un riflesso delle maraviglie verso
cui move. E infatti, che cosa sia per avvenire di questa mole
deforme della società presente, di cui la cima sfolgora e
il fondamento vacilla, che cosa sia per nascere dalle condizioni
attuali del vecchio mondo, rimasto nell'ombra in mezzo agli
opposti crepuscoli degli astri tramontati e di quelli non sorti
ancora, battuto dal flutto di moltitudini irritate, delle quali
cresce il malcontento con la cultura, e schiacciato dal peso di
eserciti immensi, destinati a conflitti che sgomentano
l'immaginazione, e a cui la ragione e il cuore dei popoli sempre
più minacciosamente repugna; nè noi lo sappiamo,
nè v'è scienza che lo prevegga. Ma certo è
che il mondo si prepara con vasti e lenti sforzi a una profonda
mutazione, e che nell'età che s'apre voi avrete a lottare,
come cittadini e come uomini, con difficoltà diverse in
gran parte da quelle che a noi contrastarono e contrastano, che
altre virtù v'occorreranno, che altri sacrifizi vi saranno
chiesti, ai quali noi non fummo chiamati. Ma a tutto voi andrete
incontro con animo ardito, confortati non soltanto dalla fede
nella vittoria ultima della giustizia e del bene, ma anche da
questo pensiero: che per quanto maravigliose sian le novità
che vi vedrete d'intorno, non saranno da meno quelle che
sorgeranno dentro di voi, non tanto per effetto naturale del
tempo, quanto per virtù delle cose esteriori mutate.
Fioriture improvvise e stupende di facoltà latenti,
fecondate da nuove passioni, nate alla loro volta da avvenimenti
inattesi; svoltate subitanee e corse conquistatrici dell'ingegno
per vie non solo non cercate, ma ignorate fino a poc'anzi; forze
imprevedute dell'animo, suscitate da pericoli e da dolori comuni,
e appassionate consacrazioni di tutte le potenze dell'intelletto e
della volontà a ordini d'idee a cui per vent'anni non s'era
mai affacciata la mente se non forse per combatterle o per
dileggiarle: tutto questo avverrà tra voi, e tanto
muteranno alcuni, che, ricercando sè stessi nelle memorie
di questi giorni, stupiranno della loro immagine antica. Tutto
questo avverrà. E forse fra quelli che m'ascoltano vi sono
già dei fidanzati inconsapevoli dell'era nuova, campioni
fortunati di idee benefiche, vittime illustri od oscure, ma
egualmente nobili, di grandi passioni, fronti che si alzeranno
sopra l'altre come segnacoli, nomi che saranno amati e benedetti.
Noi salutiamo con riverenza in voi questo cumulo di promesse, di
predestinazioni e di misteri, e se qualche cosa ci turba nel
gridarvi l'evviva della partenza, è il timore di non aver
abbastanza lavorato, pensato, sofferto per spianarvi la via su cui
vi lanciate, la via dove v'accompagneremo con l'anima fin che ci
si velerà l'orizzonte.
Ed ora, che vi potrei dire di
più? Finita questa bella serata, voi rimarrete soli alle
vostre liete riunioni. Ma noi, di mezzo alle cure e alle fatiche
di ogni giorno, ritorneremo spesso con la mente alle poche ore di
gioventù che ci avete fatto rivivere, tra queste pareti
dove pure vi verrà a ritrovare il desiderio di tanti
lontani che v'amano, dove vi verranno a stringer la mano colleghi
d'altre provincie e d'altri popoli, dove tanta allegrezza, tanta
vita, tanta primavera di pensiero e d'affetto darà fiori e
frutti al futuro. Abbia dunque lunga vita, il vostro Circolo. E
non sia soltanto il luogo dove le buone amicizie si cementino: sia
anche quello dove, vinti dalla forza della cordialità
altrui, i nemici si riconcilino, dove le gelosie dell'ingegno si
spuntino, dove le opinioni dei partiti avversi si ricambino
l'omaggio della cortesia; in modo che possiate dire: - Emuli negli
studi, concorrenti nella vita, sciolti da ogni vincolo nella
politica; ma qui - siamo fratelli. - Questo è il mio
augurio al vostro Circolo. A Voi, avanguardia intellettuale della
vostra generazione, a quelli che nella battaglia della vita
vinceranno, a quelli che cadranno, a quelli che, crivellati di
ferite, dureranno a combattere fino all'estremo, a voi tutti,
sangue nuovo e generoso della patria, figliuoli prediletti del
nostro pensiero e speranze sacre del nostro cuore, salute,
fortuna, gloria!
Torino 1891.
III.
Per la quistione sociale.
AGLI STUDENTI.
Quando per la seconda volta mi
faceste l'onore d'invitarmi a parlare, sopra un argomento di mia
scelta, nella vostra Associazione, mi venne in mente alla prima di
parlarvi della quistione sociale. Ma quasi ad un tempo pensai che
non sarebbe stato onesto il venir qui ad esporre intorno a un
soggetto gravissimo opinioni e giudizi, da cui molti potevan
dissentire, senza esser preparati a confutarli. Dissi quindi tra
me: non entrerò, per questa volta, nel cuore
dell'argomento; non enuncierò uno solo dei principii del
socialismo, i quali, d'altra parte, son noti: mi
restringerò a parlare ai miei giovani amici del dovere,
che, a senso mio, spetta a loro più che ad altri, di
occuparsi della quistione; e compirò io stesso, così
facendo, un dovere. Debbo anche premettere che non ho l'arroganza
di rivolgere le mie parole a quelli tra voi, che le quistioni
sociali e economiche hanno nel loro corso universitario,
poichè questi potrebbero venire al mio posto e parlare in
vece mia. Io non mi rivolgo che alla parte di voi, che della
quistione sociale non s'occupa, e suppongo sia la parte maggiore;
del che non ho ragione di stupirmi nè di farvi rimprovero,
essendo un fatto razionale e comune che, nella vita affollata di
passioni e di pensieri a cui tutti, di tutte le età, siamo
costretti oggigiorno, sfuggano a molti per lungo tempo interi
aspetti della società, ordini interi di idee, e anche di
avvenimenti periodici e notissimi, che per l'osservatore attento
sono i segni indubitabili di una grande trasformazione sociale.
Mi domanderete per prima cosa: ma
voi, per quistione sociale, che cosa intendete?
È questa una delle molte
domande alle quali non si può meglio rispondere che con
un'altra domanda.
Ed ecco la mia risposta
interrogativa.
Questo fatto della vita misera e
del malcontento giustificato del maggior numero degli uomini,
fatto comune a paesi poveri e ricchi, di tutti i gradi di
civiltà, è effetto d'una legge di natura o delle
leggi umane? Questa forza che accumula a un polo della
società la ricchezza e la cultura, e all'altro il
pauperismo e l'ignoranza, che restringe quasi a una classe sola
gli effetti benefici della civiltà e della scienza, che
preclude quasi affatto alle moltitudini l'educazione e la vita
dello spirito, che fa sussistere gli uni in faccia agli altri
tanti tesori superflui e tanti bisogni insoddisfatti, tanti ozi
felici e tante disperate fatiche, è un destino
dell'umanità o deriva da viziose istituzioni sociali? Che
la civiltà procedente stritoli sotto i suoi passi miriadi
di creature umane; che sotto i piedi di questa società
incivilita stia aperta, come una minaccia per tutti, la voragine
spaventosa della miseria; che prenda forma più selvaggia
ogni giorno questa battaglia per la vita che assorbe il meglio
delle forze di tutti, e perverte le coscienze e inferocisce i
cuori, atterrando intorno a ogni vincitore cento vinti; che
milioni d'uomini che lavorano sian ridotti a paventare e a
maledire come un flagello ogni invenzione dell'ingegno umano la
quale abbia per effetto di scemare il bisogno che ha la
società dei loro sudori; che il pane, che l'esistenza di
famiglie innumerevoli dipendano anche in tempi ordinari dalle
mille vicende di una disordinata e furiosa guerra mercantile,
della quale esse non hanno nè colpa nè coscienza;
è una necessità ineluttabile o è conseguenza
d'una lunga serie d'errori? Che, in fine, ogni nazione abbia nel
suo seno due popoli, di cui l'uno diffida e teme e l'altro freme e
minaccia; che per contenere non pochi ribelli, ma moltitudini
intere, sian necessari il terrore delle leggi e la forza delle
armi; che le grida festose di pochi inneggianti al progresso siano
costantemente coperte dal lamento immenso, crescente, implacabile
d'una folla infinita, è questo il prodotto d'una misteriosa
legge sociale su cui l'uomo non può nulla, o è
effetto dell'egoismo umano compenetratosi con le istituzioni e con
gli usi, di qualche impedimento enorme che sia nell'organesimo
della società, rimosso il quale circolerebbe agevolmente il
sangue in tutte le sue membra e le verrebbe la salute e la pace?
In una parola, v'è o non v'è qualche sovrano
rimedio, o un complesso di rimedi, a tanto cumulo di mali?
A questa domanda il socialismo
risponde: - Sì.
Milioni di voci rispondono: - No.
Ebbene, io non son qui per
sostenere l'affermazione. Io son venuto - poichè suppongo
che nella classe in cui vivete v'accada più sovente di udir
la seconda risposta che la prima - son venuto a dirvi: - Non
accettate la risposta che vi suggeriscono: cercatela voi stessi; -
son venuto a combattere le ragioni di coloro che vi voglion
distogliere dal cercarla perchè accettiate a occhi chiusi
la loro.
Queste ragioni son parecchie e
assai diverse, e credo che a pochi tra voi non sia già
occorso di udirle tutte.
La più ovvia è
questa. Vi dicono: - Raccoglietevi nei vostri studi, pensate a
diventar nella vostra professione valenti ed utili, e avrete
compiuto il vostro dovere verso la società; pensino altri a
raddrizzare il mondo. - Non date retta a costoro. Non è
più onestamente possibile di restringersi a servire la
società solo quel tanto che è necessario per
provvedere ai nostri interessi. Le condizioni del tempo in cui
viviamo son così fatte che convien correggere la
definizione antica dell'uomo onesto, e dire che per essere tale
non basta più ad alcuno neppur l'esercizio delle più
elette virtù private, se egli chiude l'orecchio e il cuore
al grido dei dolori umani, s'egli non s'adopera direttamente per
la rigenerazione dei suoi simili e per il trionfo della giustizia,
se non volge almeno una parte della propria operosità a
cercare coscienziosamente al servizio di qual dottrina sociale,
per il bene di tutti, debba impiegare le sue forze. E non badate
neppure a chi vi consiglia l'astensione, dicendo che v'occuperete
della quistione sociale più tardi, perchè quelli
stessi che vi dicono ora: - Attenetevi ai vostri studi - vi
diranno allora: - Attenetevi ai vostri affari, - e vi vorranno
relegare nella fortezza della casa e dell'ufficio come ora vi
vogliono chiudere nel santuario della letteratura e della scienza.
Occupatevi ora di quella quistione, ora che avete l'intelletto e
l'animo aperto a tutte le grandi idee, ora che potete
esperimentare in voi la verità di quello che un economista
dottissimo disse: che l'intelligenza della scienza sociale procede
dal cuore anche più che dallo spirito, ora che la durezza
della lotta per la vita e la esperienza della tristizia umana non
v'hanno ancora rintuzzato il senso della generosità e della
compassione. Milioni di vostri fratelli a cui la fortuna ha negato
il conforto e l'onore degli studi, e chiuso la via d'ogni
agiatezza, confidano nell'opera della gioventù studiosa,
sperano che almeno voi studierete spassionatamente la loro causa;
e a questo noi v'esorteremmo del pari, quand'anche dalle vostre
meditazioni doveste esser condotti a una fede opposta alla nostra,
poichè noi pure, come quel focoso flagellatore
dell'"Indifferenza religiosa", preferiamo gli avversari dichiarati
che, combattendoci, soffiano nel nostro ardore, agli indifferenti
che rifiutano di combattere; davanti ai quali ci cadono le armi
dal pugno e gli entusiasmi dal cuore. Occupatevi della quistione
fin d'ora, perchè in nessun modo riuscirete a scansarla
nell'avvenire, qualunque campo d'azione siate per scegliere;
perchè essa vi si leverà davanti negli studi
solitari, nell'esercizio della professione, nell'educazione dei
figlioli, nell'adempimento d'ogni vostro ufficio di cittadini;
perchè essa s'attraversa oramai a tutti i passi della vita
e s'affaccia a tutti gli sbocchi dell'intelligenza; perchè
tutte le questioni di politica europea, e le lotte dei partiti
parlamentari, e le splendide feste delle arti e delle industrie, e
le grandi solennità patriottiche, e perfin le guerre
internazionali, non son che episodi della storia, che la
nascondono per brevi spazi di tempo; passati i quali essa riappare
all'orizzonte, altissima, immobile, eterna, come la piramide di
Cheope quando cade il vento del Sahara e il turbinìo delle
arene si queta.
Non dovrei ribatter nemmeno coloro
che vi consigliano di lasciar da un lato la quistione sociale
dicendovi che essa riguarda una classe sola, o certe classi, non
la vostra; perchè son certo che voi non siete tanto
sdegnati dell'egoismo miserabile di quest'argomento quanto mossi a
pietà dall'insensatezza di chi considera come una parte
trascurabile della società la parte di lei più
importante per il suo numero, più necessaria per la sua
funzione, più benemerita per le sue fatiche; quella senza
di cui la nazione non ha fondamento, la patria non ha difesa, e il
mondo non ha nè vesti, nè tetto, nè utensili,
nè pane. Ma l'argomento, pure intrinsecamente è
falso. La quistione sociale abbraccia ormai tutte le classi
poichè anche le classi medie, sebbene con minore
intensità, per ora, e con effetti meno visibilmente
dolorosi, risentono già tutti i danni di cui le inferiori
si lagnano. Vi è già una gran parte della borghesia
per cui l'esistenza non è meno minacciosamente precaria che
per le classi chiamate con maggior proprietà lavoratrici;
vi sono in tutti i campi del commercio e dell'industria le mezze
fortune oppresse nella lotta disperata con le grandi; vi è
un popolo di possidenti che mendica; v'è una concorrenza di
cento paria per ogni stipendio che basti appena alla vita; vi sono
migliaia di giovani d'ingegno e di studio a cui non è
possibile di guadagnare quanto un bracciante prima dei trent'anni;
v'è la vecchiezza pensionata che disputa il posto alla
gioventù esordiente, la donna che lo contende all'uomo,
l'uomo che lo contrasta al ragazzo; v'è una tal ressa di
naufraghi intorno a ogni trave galleggiante, che quando uno per
negligenza o per forza lascia andare la sua, non gli resta quasi
più speranza d'afferrarne un'altra, e annega le più
volte nella miseria. Il posto umilissimo che, per
l'inferiorità forzata della sua educazione e per la
falsità vanitosa della nostra, è assegnato nella
società al lavoratore manuale, la cui opera si onora in
astratto e si disprezza impersonata, e la scarsa e mutevole e
spesso umiliante mercede con cui quell'opera è retribuita
avendo per effetto che tutti rifuggano o cerchino d'uscire in
qualunque modo dalla bolgia delle classi inferiori, ne segue che
s'abbia un eccesso di produzione anche nel campo
dell'intelligenza, che vi sia una sovrabbondanza enorme di
gioventù colta alla quale la coltura non serve a nulla come
l'oro all'affamato in mezzo al deserto, un esercito di riserva
intellettuale, che, come quello della classe operaia, offre il suo
lavoro in ribasso, e accetta ogni condizione di vita, e non trova
a vivere nemmeno accettando ogni condizione. E il torrente
ingrossa ogni giorno, e la piena è giunta per tutto a tal
segno, che fin nel paese che deve alla sua grande coltura la
supremazia politica e militare in Europa, si vede costretto il
Governo a rifiutare il suo consenso alla fondazione di nuovi
istituti d'insegnamento, perchè quelli che esistono sono
già esuberanti al bisogno che ha la società di
candidati. Lasciate ora che alle donne, poichè v'è
anche per esse una quistione sociale, si schiudano tutte le vie,
come accadrà per forza invincibile delle cose; supponete
che si compia il voto del cor di tutti, d'un dimezzamento degli
eserciti, che getterebbe nella concorrenza altre migliaia di
giovani, i quali, per l'indole della loro educazione e per i
pregiudizi connaturati allo stato presente della società,
rifuggirebbero dal lavoro meccanico; e s'avrà allora un
proletariato borghese non meno temibile, benchè men
numeroso, anzi più potente e più attivo
perchè più colto, di quel della plebe. Ma egli
è già tale, e non più legato che da un
così tenue vincolo di tradizione e d'interesse con la
classe superiore, che è diventato in qualche paese una
delle forze più vive del socialismo, un focolare spaurevole
di malcontento e di ribellione acceso nel seno stesso della
borghesia. Che se per ora, e fra noi specialmente, si fa meno
avvertire, perchè è sparso e dubitante e
perchè, trovandosi i suoi elementi in più diretta
dipendenza dai privilegiati della fortuna, corrono maggior
pericolo d'esser segnati e buttati sul lastrico, lasciate che
scemino i suoi timori e ingrandiscano le sue speranze con
l'allargarsi del socialismo nella moltitudine, nel parlamento e
nella stampa, e vedrete come leverà il grido delle
rivendicazioni, senza che gli si possa negare il diritto di
levarlo. Non date dunque ascolto a chi vi dice che la quistione
sociale non è che una quistione operaia ed agricola: il che
sarebbe già qualche cosa, mi sembra; no, è la
quistione di tutti, fuorchè di un pugno di ciechi e di
sordi.
Altri vi dicono: - A che pro
occuparvi della quistione sociale? Essa è antica come il
mondo. Non mutano che i nomi: invece di schiavi, servi; invece di
servi, salariati; i vinti della lotta darwiniana hanno sempre
empito il mondo delle loro querele. Il socialismo rimarrà
nello stato permanente di spauracchio e di freno
all'individualismo prevaricatore, e sarà bene; ma
null'altro. La miseria del maggior numero, come disse il Thiers,
è nel piano della Provvidenza. - Domandate prima di tutto a
costoro se la Provvidenza abbia mai fatto vedere al Thiers o ad
altri il suo piano. Quanto alla teoria del Darwin, contentiamoci
di domandare se le leggi della lotta fra le razze inferiori
s'abbiano da riferire all'umanità, nella quale i vinti, che
invece di sparire, si moltiplicano, non avrebbero che da unirsi, e
lo possono, perchè i vincitori svaniscano come un nuvolo di
polvere nell'uragano. Dicono: - la quistione è antica
quanto il mondo. - E sia concesso. Ma quel che non è antico
quanto il mondo è il grado a cui è pervenuto lo
svolgimento del principio dell'uguaglianza, che è il fatto
più generale, più costante, più ribelle a
ogni umana opposizione che si conosca nella storia. Quel che non
è antico come il mondo è la coscienza acquisita
dell'uguaglianza civile e politica, che fanno sentire più
profondamente che mai le disuguaglianze economiche; è la
cultura maggiore che acuisce nelle moltitudini tutti i patimenti
dell'animo derivanti, dallo spettacolo delle troppo grandi
disparità delle classi; è la miseria relativa
smisuratamente cresciuta col moltiplicarsi delle ricchezze e dei
raffinamenti sensuali della vita in un piccolo numero; è il
decadimento progressivo di quello spirito religioso di
rassegnazione che faceva sopportare i mali presenti con la
speranza di una ricompensa futura; è, infine, un clero di
tutte le chiese che, sollecitando delle riforme sociali, ossia
riconoscendo che ai mali della terra c'è rimedio, fa
comprendere agli sfortunati, se non con le parole, col fatto, che
non si può pretendere da loro l'antica rassegnazione.
Sì, la quistione sociale
sarà antica come il mondo. Ma quello che è nuovo
è la gigantesca potenza accumulatasi con l'oro in mano di
cittadini privati, che s'alzano come sovrani in mezzo a popoli
liberi, che posseggono parti della loro patria vaste come Stati,
che tengon nella propria borsa la sorte di centinaia di migliaia
d'uomini, che possono turbare a vantaggio proprio gl'interessi
d'un'intera nazione e corrompere scopertamente moltitudini e
poteri. Quello che è nuovo è che di fronte a questi
monarchi della ricchezza, e alle loro strapotenti federazioni, che
allargano intorno a sè come una landa sinistra la
servitù morale e il salariato, siano sorte delle
società di settecento mila lavoratori, delle "Unioni di
mestieri" numerose come popoli e organate come eserciti, che in
tutte le città dei paesi civili, chiamati a raccolta dalla
grande industria, si vadano agglomerando i proletari in
battaglioni e in reggimenti, che s'intendono, si disciplinano, e
s'affratellano. Quello che è nuovo pure è che si
raccolgano congressi operai ai quali intervengono i delegati di
diciannove nazioni, rappresentanti cinque milioni di lavoratori;
che vi sian paesi dove venti città si dichiarino in favore
del "socializzamento" della terra; che nel paese più colto
e più potente d'Europa si mandino al Parlamento quaranta
campioni della nuova idea, con maggior numero di voti che non ne
raccolga alcun altro partito della nazione; quello che è
nuovo è un accordo internazionale di agitatori che con una
parola d'ordine lanciata da Parigi a Sidney e da Berlino a Nuova
York fa nello stesso giorno dell'anno disertar gli opifici a nove
milioni di operai, e vegliare sull'armi dieci eserciti come sotto
l'imminenza d'uno sfacelo degli Stati. Quello che è nuovo
affatto è che si spandano ogni giorno, da mille
città, verso ogni parte, su tutta la faccia della terra,
milioni di fogli parlanti, che predicano una speranza comune e
soffiano in una sola passione, e s'accumulano nelle soffitte e nei
tuguri come una provvigione di polvere da guerra. Ed è
un'altra cosa nuova, che migliaia di poveri lavoratori d'ogni
paese, finite le loro dieci ore di lavoro estenuante, si
assoggettino la sera a una nuova fatica per istruirsi nelle
quistioni sociali, si strappino il pane dalla bocca per sostenere
il giornale che li protegge, e consacrino gli ultimi resti delle
proprie forze alla propaganda delle loro idee e all'ordinamento
del loro partito, e perdurino in questa opera con una febbre di
passione, che ne conduce molti alla fossa. E non è men
nuovo nè men grave che questa gran moltitudine incolta e
ribollente abbia e sappia d'avere alla sua testa uno stato
maggiore intrepido d'uomini di studio e d'uomini di Stato, di
vessilliferi di ogni scienza e di ogni arte, che propugnano la
loro causa in tutte le regioni del pensiero e in tutte le
congiunture della vita. Infine, la quistione sociale sarà
antica quanto il mondo; ma quello che è tutto proprio del
tempo nostro, credo io, e che non fu nemmeno negli ultimi anni che
precedettero la rivoluzione francese, nei quali le classi
minacciate andavano incontro all'avvenire con una quasi balda
spensieratezza, è questo turbamento che tutti risentiamo,
qualunque sia il nostro grado di fortuna, qualunque siano le
nostre idee sociologiche, davanti allo stato attuale delle cose;
è questa scontentezza della ragione e del cuore, è
questa lotta sorda e continua fra la nostra coscienza di cittadini
e il nostro interesse di privati, è questo sentimento
confuso di colpa, è questo presentimento vago di qualche
cosa di grande e di fatale, che ci fa guardare intorno con occhio
inquieto come viaggiatori senza guida che s'avanzino alla ventura
per una terra sconosciuta.
V'è pure chi cerca di
stornarvi da questo pensiero affermando che non bisogna lasciarsi
illudere da certe scosse improvvise e solitarie, dalle apparenze
ingrandite ad arte di certi avvenimenti; che, in realtà, il
movimento è lentissimo e intralciato da discordie
inconciliabili, che ha periodi lunghi di sosta, e che non saranno
neppure i figli dei nostri figli che vedranno la società in
grave pericolo. - Non credete nemmeno a costoro. Sotto le maggiori
apparenze di quiete, anzi più sotto queste, il movimento
procede con una celerità non sperata neanche da chi lo
seconda. Il socialismo germanico fece i suoi più rapidi
passi nel periodo delle leggi eccezionali, da cui pareva stato
strozzato. La maggior parte delle sue conquiste è
silenziosa, ed è la loro continuità medesima che,
come quella della cresciuta di un fiume, non ci consente di
seguirne con l'occhio la progressione. Dalla parte dov'è
combattuto, all'ira ch'era stata preceduta dal dileggio, è
susseguita ora una discussione universale e quasi continua, nella
quale ai colti paladini della borghesia accade assai sovente, con
loro grande stupore, di trovarsi davanti degli avversari
d'officina, che in quistioni economiche di propria spettanza non
sono men forti di loro. A poco a poco il socialismo invade il
giornale, il libro, il teatro, penetra nelle accademie dei dotti e
nei gabinetti dei monarchi, si rizza sui pergami, assalta l'una
dopo l'altra le cattedre; le quali in più d'uno Stato, con
maggiore o minor restrizione di idee, sono in massima parte
già sue. Si può quasi asserire che meno rapidamente
egli si diffonde alla superficie di quanto si propaghi dal basso
all'alto. Nella vasta polemica scientifica ch'egli promove su
tutte le quistioni che gli si legano, e gli si legano tutte, ogni
giorno strappa agli avversari una concessione, disarma una
resistenza, fa accettare un'idea. Ogni giorno, nell'esercito
formidabile che gli sta a fronte, nel campo della politica, della
scienza e delle lettere, un combattente s'arresta incerto, o butta
via le armi, o le ritorce contro i suoi; e molti che continuano a
combattere si sentono già spuntare nell'anima l'amor del
nemico, e hanno già la diserzione nel cuore, e non la
compiono se non per ragioni di personale interesse, o per timori e
per riguardi sociali, o perchè non hanno fede che in un
trionfo troppo lontano della causa che credon giusta. E di questo
vacillamento e rimescolìo di coscienze si vedon mille segni
ed effetti per tutta la scala della cittadinanza, dal maestro di
scuola impacciato a dar ragione alla fanciullezza di tante
mostruose anomalie sociali che non si possono più palliare
coi sofismi antichi, al giudice che non sa più troncare in
bocca all'accusato volgare la dichiarazione di principii che lesse
egli medesimo nel libro d'un senatore del Regno, fino allo
scrittore borghese che non può più scrivere pel
popolo senza girare con artifici infiniti intorno alla grande
quistione che gli si presenta inevitabile e molesta a ogni passo,
scompigliandogli nella mente tutta la sua vecchia precettistica
morale e patriottica, fino ai grandi predicatori dell'igiene
pubblica, fino agli amministratori ufficiali dell'istruzione
popolare, che dubitano e si scoraggiano vedendo l'opera loro
urtare da ogni parte ed infrangersi contro la ferrea barriera
della miseria e contro l'architettura stessa degli ordinamenti
sociali. La resistenza alle nuove idee si riduce sempre più
dal campo delle coscienze in quello degli interessi; per il che
può ben essere ancora risoluta e tenace e terribile; ma non
ha più per sè le grandi e belle passioni, davanti
alle quali la furia degli avversari dubita qualche volta e
s'allenta. Ond'è che gli assalitori che andavano ieri col
passo di marcia, vanno oggi col passo di carica, e andranno di
corsa domani. E non è da credere che gli impediscano gran
fatto i dissensi e le divisioni che turbano le loro file. Come, -
secondo il detto di un di loro, - tutte le teorie e concezioni
diverse del socialismo, dal socialismo di stato del professore
tedesco al comunismo pastorale del romanziere russo, viste
dall'alto, non appaiono in antagonia fra di loro, ma si mostrano
come i piani graduali di un vastissimo panorama, o meglio come le
forme successive, le attuazioni o i tentativi di attuazione a mano
a mano più larghi e compiuti d'una stessa idea; così
nell'ordine dell'azione, fautori del collettivismo, apostoli della
società senza Stato, ministri socialisti della chiesa
cattolica e delle chiese protestanti, benchè proponendo
riforme diverse e arrestandosi a diverse mete, poichè son
tutti quasi concordi, e quasi violenti del pari nella critica del
presente, concorrono tutti, volenti o no, ad uno stesso effetto
finale, tutti apparecchiano e spingon le moltitudini alla grande
evoluzione, tutti, o levino in alto il libro del Marx o la Bibbia,
o la fiaccola, tutti lavorano ad allargare e ad accelerare un
moto, di cui non si riscontra l'eguale - per dirla con le parole
del più autorevole giornale dell'Inghilterra - se non
risalendo ai primi tempi del Cristianesimo o a quelli dello
sconvolgimento dello impero romano.
Altri, pure riconoscendo
l'importanza del movimento socialista in Europa, vi dicono: - Non
ve ne date pensiero perchè il nostro paese ne è
fuori, - e ripetono la sentenza pronunziata l'anno scorso alla
Camera da un illustre pensatore, a parer del quale, per ragion
dell'indole e delle condizioni proprie del popolo italiano, ci
vorranno più secoli prima che il socialismo metta larghe
radici fra di noi. - Non credete neppure a costoro. Come se
intorno all'Italia ci fosse la gran muraglia del Celeste Impero,
come se il socialismo dottrinale e popolare che ci venne tutto in
questi ultimi anni dal di fuori non dovesse continuare a
discendere per le stesse vie per le quali è entrato!
Sarà vero che la quistione sociale in Italia sia agraria
principalmente, come tra i nostri fratelli latini d'occidente, e
che anche sotto questo aspetto, per la costituzione particolare
del nostro suolo, essa non sia della natura medesima che in altri
paesi; ma non scema l'importanza e l'urgenza della quistione per
la singolarità della sua natura. Certo v'è terreno
men preparato al socialismo fra noi, perchè v'è
più bassa che altrove la coltura del popolo, perchè
v'è appena nascente la grande industria, perchè in
più di mezzo il paese, come gli stessi socialisti
riconoscono, il ceto operaio come ente collettivo non è
ancor nato, e nell'altra metà è nato appena. Ma non
dobbiamo credere che non esista l'esercito perchè, invece
di esser serrato in colonne, è sparso in tiragliatori,
nè che mancanza d'organamento voglia dir mancanza
d'elementi, nè che non vi sian le passioni perchè
mancano o sono informi le idee. E in questo appunto, per chi ben
considera, dovrebbero riconoscer gli illusi il maggior pericolo.
Le verità generali d'ordine sociale e economiche - è
un vecchio assioma - si ritrovano allo stato di intuizione
istintiva anche nell'animo dei più incolti, e però
anche la parte più incolta del proletariato italiano,
confusamente, le intende. Senonchè le idee - come dice un
grande psicologo - seminate in menti incolte e feconde si svolgono
in escrescenze selvagge e si trasformano in chimere mostruose; che
è quel che avviene fra noi dove è tanto maggior
temerità di dottrine quanto minor capacità vera di
metter in atto anche le più ragionevoli. In luogo di
rallegrarci, dunque, dell'ignoranza e della mancanza d'ordinamento
collettivo che rallentano il moto fra noi, avremmo gran ragione di
dolercene, poichè è appunto quest'ignoranza e questo
disordine che fa le moltitudini impazienti e turbolente, come
quelle in cui il furore dei desideri non è temperato dalla
coscienza sicura delle proprie forze e del proprio avvenire,
nè dalla soddisfazione che hanno i ceti operai d'altri
paesi di sentire la saldezza del proprio organesimo e di numerare
giorno per giorno i loro progressi e le loro vittorie, donde
ricavan la virtù di aspettare con pacatezza e di
apparecchiarsi con raccoglimento. È perchè là
son colti e ordinati che studiano e discutono; è
perchè studiano e discutono che vedono tutte le
difficoltà del problema sociale e non credono che si possa
risolvere d'un colpo. Ed è perchè le classi
superiori non oppongon loro, come tra noi, o un'indifferenza o una
negazione assoluta, l'una e l'altra insensata, ed entrambi
irritanti, che non trascorrono e neppure minaccian di trascorrere
alla violenza.
In verità, se anche fossi
nei panni del più egoista e del più pauroso dei
conservatori, io desidererei che le nostre classi proletarie,
percorrendo il cammino di trent'anni in un solo, arrivassero d'un
tratto al grado di maturità civile che hanno raggiunto
nella Germania e nel Belgio; lo desidererei per esser ben certo
che questo spostamento, che è col tempo inevitabile, del
centro di gravità del sistema sociale dalle classi medie
alle inferiori, si compisse senza scosse funeste. Io vorrei esser
persuaso d'ogni più sacra verità come sono di
questa: che compie un'opera santa e benefica per tutti ogni colto
giovine italiano, il quale, qualunque sia il suo giudizio intorno
all'essenza e all'avvenire del socialismo, ne studia con amore le
cause, le dottrine e le vicende per poterle esporre con
schiettezza al popolo e fargliele comprendere e discuterle con lui
e sfrondargli le illusioni pericolose ed eccitarlo, aiutarlo a
istruirsi, a ordinarsi, a mettersi in grado di attuare
sensatamente, quando il giorno verrà, la maggior parte
possibile delle sue aspirazioni. Per questo, invece di dirvi: -
Lasciate stare la quistione sociale perchè siete italiani,
- vi dico: - Occupatevene tanto più perchè siete
italiani - fate quanto è in voi perchè il vostro
popolo non rimanga troppo addietro degli altri su questa via, se
volete che, quando vegga gli altri vicini alla meta, non sia
tentato di raggiungerli con uno sbalzo che lo potrebbe travolgere
in un precipizio, nel quale sareste travolti voi pure. Mettetevi
alla sua testa e ai suoi fianchi invece di sbarrargli la strada o
di lasciarlo andar solo, come l'istinto e il caso lo movono. Tempo
verrà in cui sarete ringraziati e benedetti da coloro
stessi che ora vi supplicano o vi minacciano perchè vi
tiriate in disparte. Son tutti concordi nell'eccitarvi ad amare e
a servir la patria. Ebbene, l'amerete e la servirete sapientemente
in tal modo. Perchè la patria non è soltanto la
terra, la storia e la bandiera: la patria è viscere e
sangue umano, e la felicità del popolo sta sopra alla
potenza dello Stato, e la giustizia è più grande
della gloria.
V'è poi il coro dei mille, i
quali vi gridano: - Passate oltre: la guarigione delle
infermità sociali è un'utopia. - Ma non l'ha dunque
ancora sfatato la storia del mondo questo grido malauguroso, tante
volte sbugiardato quante son le pietre miliari del cammino della
civiltà, questa vuota parola così comoda alla
infingardaggine intellettuale, così utile agli interessi
minacciati, così abusata da tutte le ignoranze e da tutte
le paure, con la quale si sono vilipese, beffate, respinte tutte
le conquiste più gloriose della mente umana?
Voi tutti vi ricordate la notte
tempestosa dell'"Innominato", quando sul punto di bruciarsi le
cervella con un colpo di pistola per liberarsi dai rimorsi che lo
dilaniano, egli domanda a sè stesso: - E se quest'altra
vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano
sempre come se fosse cosa sicura, se quest'altra vita, non
c'è, se è un'invenzione dei preti; che fo io?
perchè morire? che cos'importa quello che ho fatto?...
È una pazzia la mia! - Ma allora gli balena un pensiero
tremendo: - E se c'è quest'altra vita! - Voi rammentate
pure che cosa avviene a quel dubbio nell'anima sua. - Ebbene, un
che di simile segue nell'anima di chi è agitato dalla nuova
idea. Egli si domanda: - E se questa possibilità, che tanti
affermano come sicura, di scemare i dolori del mondo, di far
trionfare tra gli uomini la fraternità e la giustizia, se
questa idea è un'utopia, un sogno di filantropi allucinati,
se avesse ragione quel famoso parroco inglese che fissò il
destino dell'umanità tra due formole matematiche, che cosa
importa allora quello ch'io faccia? Perchè ho da combattere
i privilegi di cui godo, da rendermi inviso alla classe in cui son
nato, da torturarmi il cuore e il cervello per mali che non hanno
rimedio, invece di badare ai miei interessi e di viver beato?...
È una pazzia la mia! - Ma a questo punto balena anche a lui
un altro pensiero. - E se non fosse un'utopia? - ed egli pure, a
questo pensiero, è stretto da un senso di sgomento.
Sì, e se non fosse un'utopia? - Utopia si può
giudicare ogni idea che non abbia ancor avuto la prova
dell'attuazione, e quale grande idea sociale fu mai provata prima
che accettata? E la concordia di molti nel crederla attuabile non
è una delle prime condizioni dell'attuabilità d'ogni
idea? Sì, e se a questo organamento sociale che spreme la
ricchezza per uno dalle vene e dalle ossa di mille, che condanna
milioni d'uomini a un lavoro da bruti, non confortato da alcuna
dolcezza di vita, da alcun godimento intellettuale, da alcuna
speranza di sorte migliore, che smembra milioni di famiglie, che
fa di milioni di case un inferno, che sfrutta ed opprime la donna,
e decima, corrompe e deforma l'infanzia; se a questo stato di cose
che, assoggettando una parte dei lavoratori a una fatica inumana,
ne ricaccia nell'ozio forzato e nella fame l'altra parte,
metà della quale, dopo aver lottato invano per risalire,
cade nella mendicità, nella prostituzione e nel delitto; se
a questa sciagurata divisione del mondo che, provocando di sotto
l'odio e di sopra il terrore, fa somigliare la società
civile a un triste castello dell'età media, dove la
famiglia dei signori, seduta a banchetto, rabbrividisce al suono
dei singhiozzi e delle imprecazioni dei prigionieri sepolti sotto
i suoi piedi; se a questo mucchio d'orrori ci fosse davvero un
rimedio, che uomo sarei io che non me ne curo, che non cerco di
giovare quanto posso a scemarlo, che anzi concorro, pur non
volendo, ad accrescerlo, e voglio fabbricarvi su la mia fortuna?
Con che fronte posso io parlare di progresso, di civiltà,
di fratellanza, di patria? E quand'anche fosse un'utopia il
rinnovamento della società che ci propongono, quando non ci
fosse che una minima parte di idee sane e di speranze fondate, non
dovrei dedicare ogni mia forza a far sì che almeno quella
minima parte s'attuasse? Utopia! S'è spenta pochi giorni
sono quella menta vasta e limpida d'economista, che, or fa
trent'anni, metteva il mondo a rumore con quella sua sentenza: -
Il diritto di proprietà si modificherà nel senso
sociale, o si sfascierà il consorzio civile. - È
stato sepolto ieri quel generoso cardinale Manning che disse non
potersi andare innanzi sulla via della vendita abusiva della forza
e dell'attività umana, sulla via che dei fanciulli e delle
madri fa delle macchine viventi, e delle spose e dei padri delle
bestie da soma. - Riposa poco lontano di qui il grande statista
italiano che ci profetò la guerra civile se non si
migliorassero le sorti delle classi inferiori; onde è
credibile che ei non stimasse quell'intento una follia. E vivo
ancora e soggiorna fra noi quel venerando ministro d'Inghilterra
che disse ai lavoratori: - Voi sarete presto i padroni del mondo.
- E son menti elette e potenti d'ogni razza che studiano i mali e
i rimedi, che affrontano da tutti i lati il problema, e cercano ad
uno ad uno gli organi vitali della società nuova, con una
costanza maravigliosa e una fede invitta. Oh vediamo un poco se
l'ordinamento della società, che s'è andato mutando
così profondamente a traverso ai secoli, abbia raggiunto
davvero una tal perfezione, che debba dare un fermo alla storia,
che non si possa più correggere o mutare in alcuna sua
parte essenziale, senza fare il peggio anche del maggior numero, a
cui riesce intollerabile ancora. L'affermazione, se non alttro,
è ardita. Vediamo un po' col giudizio nostro se quello che
ci propongono è veramente un'utopia!
Per questo io vi ripeto,
concludendo: - Occupatevi voi pure, quanto i vostri studi ve lo
consentono, della quistione sociale.
A quelli di voi che non si sono
ancora affacciati alla nuova letteratura (già ricchissima e
svariatissima) o per mitezza d'animo che rifugge dai cimenti della
coscienza, o per il falso concetto, diffuso da quelli a cui giova,
che le idee socialistiche sian proprie per essenza loro delle
nature acri e violente o di gente invelenita dalla mala fortuna,
io dico: - Entratevi anche per poco, non v'arrestate davanti alla
sua parte arida o volgare, irta di cifre o gonfia di rettorica,
procedete oltre le sue lacune nebbiose, e vedrete quante anime
nobili e belle vi si son consacrate; quanti fortunati del mondo ne
sono i più ardenti cavalieri; quante pagine forti e
splendide di pensiero, quante altre riboccanti di pietà e
di amore e di tutti gli affetti più delicati e più
santi essa conta già fra le sue; e vi troverete pure delle
rivelazioni di miserie che ignoravate e che vinceranno ogni vostra
idea, ed esempi di virtù e d'eroismo che vi strapperanno un
grido d'ammirazione, e raggi sublimi di speranza, e sogni
fors'anche, ma così vasti e luminosi che tutta l'anima
vostra ne uscirà abbagliata e commossa come da una visione
dell'umanità ideale di Cristo.
Dico a quelli di voi che, essendosi
già affacciati a questi studi, ne hanno respinto alla prima
le conclusioni: - Diffidate di voi stessi, fate ancora uno sforzo
per proseguire, per sciogliervi dai pregiudizi fra cui voi ed io
siamo nati, dalle idee che ci furono inculcate con l'educazione, e
dalla suggestione delle consuetudini della vita che sono
più forti delle idee; fate ancora uno sforzo per
correggervi di quel nostro difetto congenito all'organo visivo
dell'intelligenza, il quale ci fa apparire il mondo di scorcio,
atteggiato in modo che gli interessi intellettuali e materiali
della nostra classe ci si presentano come gli interessi della
società tutta quanta; fate ancora per poco questo sforzo,
che è di tutti il più difficile, poichè si
tratta d'uscir da noi stessi, e di tutti il più fecondo,
poichè, a chi lo compie, si mostra ogni cosa sotto un
aspetto nuovissimo, e gli par di ricominciare la vita dello
spirito e di avanzarsi in un mondo ignorato. E se, fatto
quest'ultimo sforzo, rimanete fermi nelle prime idee, palesatele e
lottate per esse a viso aperto, perchè nella grande
battaglia sarete più rispettati e più utili come
nemici appassionati che come scettici spettatori; e non scendete
mai nello sciame innumerevole dei farisei, che strisciano chi
è in alto per ambizione e adulano chi è in basso per
paura, che commiserando con finto affetto la plebe che
disprezzano, con una mano si picchiano il petto e con l'altra
nascondon la borsa, per chiederle poi dei voti con tutte e due.
A quelli di voi, finalmente, il cui
cuore è già vinto e batte col mio, io mando il
saluto del compagno e il bacio del fratello, e dico: -
Perseverate, o prediletti, anche nel campo più faticoso,
nella parte rigidamente economica di questi studi, perchè
il periodo idillico del socialismo è chiuso da un pezzo,
perchè esso è giunto a tal grado di maturità,
che non basta più il portargli il semplice contributo della
passione: dovere di tutti ora è di tradurre i sentimenti in
idee, di rispondere ad ogni lamento del popolo con una ricerca
alacre e paziente dell'intelletto. E andate innanzi senza alcun
fine, senza attender nè sperar alcuna gratitudine, non
cercando il premio che nella soddisfazione altissima di operare
secondo coscienza, di non aver più bisogno di mentire,
nè di soffocar la voce dell'anima, nè di mascherar
l'egoismo; il che vi riuscirà assai più facile che
non pensiate, perchè la grande quistione sociale, la quale
tocca tutte le scienze come l'oceano bacia tutte le terre, ha pure
questo di benefico, che schiaccia col peso della sua grandezza,
che offusca con la forza del suo splendore ogni meschina
vanità, ogni basso interesse di colui che le si consacra.
Comprendendola degnamente, voi abbraccerete nel vostro affetto
fiammeggiante non soltanto le classi sociali che più lo
meritano e più n'han bisogno, ma pure la vostra, per la
quale v'entrerà nel cuore una sollecitudine nuova e
profonda; sentirete sorgere in voi attitudini e forze sconosciute;
sentirete nel vostro ingegno e nel vostro petto dilatati fremere
il soffio dell'umanità, come il palpito d'una seconda
giovinezza, più poderosa e più dolce di quella che
già vi ferve nel sangue e vi splende sul viso.
Voi conoscete l'immaginazione
terribile del Carlyle, che raffigura il mondo presente in una
landa selvaggia e caotica, coperta di nebbie pestilenti, gravata
d'un'atmosfera di piombo, nella quale scrosciano diluvi e guizzano
lampi di rivoluzione, e per le vaste tenebre non luccicano che le
fosforescenze della filantropia, e non v'è più
stelle nel cielo. Ebbene, manca un'immagine al quadro: una
moltitudine che empie tutto l'orizzonte, estenuata e lacera,
rivolta tutta verso un punto dove biancheggia il cielo, con le
braccia stese a invocare il nuovo sole, il sole che le asciughi le
lagrime, che le riscaldi le membra, che le abbellisca la terra,
che le faccia amare la vita. Oh, questo sole splenderà,
abbiamone fede! Possiate voi, che siete giovani, vederlo sorgere,
e felici quelli che, salutando il suo primo raggio, potranno dire
nella propria coscienza: - Io l'ho desiderato ed atteso!
Torino 1892.
IV.
Per il 1.º Maggio.
AGLI OPERAI.
Ringrazio l'Associazione generale
dell'invito onorevole che m'ha rivolto, e mi affretto a dire che,
accettandolo, ho compreso l'intento a cui era ispirato e il dovere
che quell'invito m'imponeva. Ho compreso che questa grande
Associazione, la quale non ha carattere politico, ed è
composta di operai d'opinioni e di tendenze diverse, intendeva di
esprimere il suo consenso, in questo giorno, a quel che v'è
di comune nelle aspirazioni di tutti i lavoratori, a qualunque
partito appartengano; e che perciò, nel commemorare qui il
1.º Maggio, - pure dichiarando e spiegando la mia ferma fede
socialista, condizione sottintesa della mia accettazione, - avrei
dovuto, non solo non offendere in alcun modo gli uditori
d'opinione contraria, ma mantener l'animo a un'altezza,
così serena, esporre il mio pensiero con parola così
cauta e pacata, da render accetto il mio modesto discorso anche a
coloro che avessero giudicato inopportuno l'invito di cui ero
onorato.
Parlare serenamente! Non mi
costerà alcuno sforzo, lo potete credere. Come si
può aver l'animo inclinato alla violenza e al rancore in un
giorno di festa? Tale, infatti, è oramai il 1.º
Maggio. Festa singolare, non di meno, che desta tanti pensieri,
tanti sentimenti diversi ed opposti! Pochi anni sono, prima che il
Congresso internazionale dei lavoratori, tenutosi a Parigi
nell'89, accettando la deliberazione già presa dalla
"Federazione americana del lavoro" nel Congresso di San Luigi,
fissasse alla data del 1.º Maggio la grande manifestazione
per la giornata d'otto ore, ognuno, svegliandosi in questo giorno,
rivolgeva la mente, come sempre, ai propri affari quotidiani: era
questo un giorno come gli altri per tutti. Ora, non v'è
più cittadino di paese civile, a qualunque classe o
condizione sociale appartenga, il quale, aprendo gli occhi la
mattina del 1.º Maggio, non volga i suoi pensieri sul nuovo
significato che questa data ha assunto nel mondo.
Sono, in milioni d'uomini, pensieri
d'allegrezza e di speranza; sono, in altri milioni, pensieri
inquieti e tristi; è, in molti ancora, un sentimento
irragionevole di terrore; è, anche negli spiriti più
leggieri e più scettici, questo pensiero: che v'ha in tutti
i paesi una quistione, più importante d'ogni avvenimento
politico, la quale abbraccia tutti gli interessi dello Stato e
degli individui, e che può a quando a quando e per varie
cause esser dimenticata, mascherata, sopita; ma che
incessantemente, fatalmente, anno per anno, giorno per giorno, si
dilata, s'inalza, soverchia ogni altra quistione, attira a
sè tutti gli sguardi e tutte le menti come un grande
fenomeno della natura. Ed è già questo un effetto
benefico, che nessun lavoratore può disconoscere, della
festa del 1.° Maggio. E noi più che gli altri siamo
indotti a meditare, noi che abbiamo una visione più larga e
più netta di quello che accade in questo giorno sulla
faccia della terra. Noi pensiamo che in quest'ora stessa, in
centinaia di città, in villaggi innumerevoli, altre
migliaia d'oratori stanno dicendo, in dieci lingue diverse, ad
altre migliaia d'adunanze come questa, le stesse cose ch'io sto
per dire a voi; noi vediamo nei grandi sobborghi di Berlino, di
Parigi e di Bruxelles, nell'Hyde-Park a Londra, nel Prater a
Vienna, nel Buen Retiro a Madrid, nel parco Cismigiu a Bucarest,
nello square dell'Unione a Nuova York, nelle vaste piazze delle
nuove città dell'Australia, dove il 1.° Maggio è
già una festa ufficiale in più Stati, vediamo per
tutto legioni di lavoratori, che in forma d'assemblee, di
processioni, di cortei simbolici, di feste campestri e di canti
solenni esprimono tutti una sola idea e una sola speranza; e a
questa visione ci si commove l'anima come davanti a uno degli
spettacoli più maravigliosi di cui ci dia esempio la
storia.
E quale anima potrebbe rimaner
chiusa e fredda all'udir le parole che s'alzano da quei milioni di
cuori? - Sia affrancato e onorato il lavoro e diventi una legge
per tutti - Siano confederati gli uomini nella lotta contro la
natura e abbia tregua la lotta feroce per l'esistenza fra uomo e
uomo - Cadano le barriere che dividono ogni nazione in due popoli,
e si diffondano egualmente nelle moltitudini, come la luce
nell'aria, i benefizi della civiltà, che sono frutto
dell'opera comune - Cessi lo spargimento del sangue, cessino gli
odi fra le nazioni, perchè l'ultima meta di tutte è
una sola, e occorrono a raggiungerla gli sforzi concordi della
razza umana. - Belle e sante utopie! - ci rispondono, - e la prova
che sono utopie è che sono antiche quanto la vita sociale e
non sono ancora diventate realtà. - Ah! v'ingannate. Erano
aspirazioni solitarie degli umili, erano aspirazioni sparse e
divise, che assumevano nelle menti incolte forme indeterminate o
mostruose, e prendevano forza in una gente quando cadevano
oppresse in un'altra; ma ora sono il proposito fermo di
moltitudini d'ogni paese, ordinate e alleate, che operano
concordemente e ad un tempo: la scienza le formola e le sostiene,
le forze che le comprimevano si sfasciano, la coscienza universale
le accetta; erano chiarori di lampo che solcavano la notte, e ora
sono l'alba che rischiara l'orizzonte; erano soffi di vita che
scotevano a quando a quando un'atmosfera morta e ora sono la
primavera che risveglia il mondo.
A queste aspirazioni consente, in
fondo, chiunque abbia senso d'umanità e di giustizia. Nasce
il dissenso quando s'entra a discuterle fino a che punto e in qual
forma esse possano tradursi in realtà. Studiando i fenomeni
sociali e economici, noi osserviamo l'accentrarsi progressivo
delle industrie e delle ricchezze, e il conseguente estendersi del
proletariato, il trasformarsi continuo dei mezzi privati di lavoro
in mezzi che non possono più essere impiegati che
socialmente, l'incremento del principio di cooperazione e dello
spirito di solidarietà e d'eguaglianza, e da questi e da
altri cento fatti che a questi si collegano deduciamo certe leggi,
per forza delle quali crediamo che si verrà necessariamente
ad un ordinamento nuovo, in cui, diventati proprietà
collettiva della nazione tutti i grandi mezzi di produzione, i
membri tutti della società produrranno direttamente per la
società medesima; la quale, accentrando i prodotti, li
ripartirà equamente fra i lavoratori, in ragione della
qualità e della quantità del loro lavoro. I
dissenzienti ci dicono di no, affermano che un tale ordinamento
non s'attuerà mai, che è impossibile ad attuarsi
perchè vi si oppongono altre leggi, che essi ritengono,
sopra tutte le trasformazioni sociali, immutabili. Ebbene, noi non
stimiamo questa una ragiona sufficiente perchè debba
avversare il grande moto della nostra idea chi concorda con noi
nella critica della società presente e nel sentimento della
necessità d'una riforma fondamentale. Ci pare un errore il
combattere il socialismo nel suo disegno compiuto di ricostruzione
sociale, invece di considerarlo - come riconosce che si dovrebbe
anche un nostro illustre avversario - "nella sua intima
ispirazione e nell'obbiettivo generale a cui tende, nel che esso
risponde innegabilmente all'evoluzione umana"; nel che,
aggiungiamo noi, è riposta la sua vera forza. Noi,
sull'ordinamento della società futura, potremmo
ragionevolmente rifiutare ogni discussione. E anche in questo ci
danno ragione molti dei nostri più autorevoli avversari.
Potremmo rispondere con le parole loro che: "intorno ai fenomeni
sociali non sono possibili se non previsioni e predizioni
generali: riguardanti cioè l'avviamento e l'andamento
generale dei fenomeni stessi, non speciali, particolari,
individue". Potremmo domandare, come domandò il Bebel al
Reichstag, se, nel dar la mossa alla grande rivoluzione, la
borghesia francese poteva prevedere quale sarebbe stata in tutti i
particolari la struttura intima della società che ne doveva
sorgere. Potremmo dire che il pretender questo da noi è
pretender cosa superiore alla potenza della mente umana. - E
nondimeno - ci si può rispondere - voi mostrate al mondo,
come una bandiera, un programma di ricostruzione sociale compiuta.
- Ma questo è logico. Noi abbiamo scritto sulla nostra
bandiera un ideale, perchè nessun grande moto sociale
è possibile intorno a un programma di riforme circoscritte
e parziali; perchè è istinto dell'anima umana, in
ogni sua più nobile aspirazione, il mirar più alto e
più lontano della possibilità immediata di
conseguire il suo fine; perchè soltanto una grande riforma,
che oltre ad includere un riordinamento del lavoro e della
proprietà, porta con sè un profondo rinnovamento
morale, sociale e politico, e abbraccia tutte le quistioni che
agitano l'umanità, soltanto l'idea d'una riforma simile
può raccogliere intorno a sè le moltitudini e
suscitar gli entusiasmi e le forze per combattere la lotta enorme
a cui siamo chiamati. Domandiamo dunque ai nostri avversari
benevoli: - Perchè non venite con noi, voi che pure volete
grandi miglioramenti, poichè la nostra bandiera è la
sola intorno a cui si possa raccogliere l'esercito per combattere
anche le battaglie minori, per compiere anche le conquiste
parziali, da noi volute? Una sola cosa può trattenervi, ed
è il timore che la tentata attuazione d'un'idea da voi
giudicata inattuabile produca nella società uno
sconvolgimento funesto. Ma è un timore infondato. I fatti
economici e sociali, che, a nostro giudizio, debbono condurre la
società all'ordinamento da noi presagito, noi possiamo
assecondarli, ma non farli nascere. Se le leggi che deduciamo da
quei fatti sono erronee, il nostro ideale non s'attuerà.
Se, giunto il proletariato socialista al potere, non fosse ancora
pronta nei suoi elementi la organizzazione nuova che deve
sostituirsi all'antica, esso si troverebbe impotente non diciamo a
compiere, ma nemmeno a tentare una sostituzione precipitata, e
dovrebbe restringersi a una serie di riforme preparatorie e
graduali. Noi primi siamo persuasi che una trasformazione
economica così profonda non si potrà mai attuare
prematuramente e con la violenza. È una verità
riconosciuta anche dai nostri più fieri oppositori che
"parallelo al presente movimento sociale corre un movimento
scientifico e razionale che lo trattiene nella giusta misura e
impedisce alla società moderna di precipitare nelle
catastrofi che hanno ucciso la civiltà antica".
Vedete dunque - ripetiamo ai nostri
avversari trattabili - che quel timore non dovrebbe trattenervi
dal venire a noi. Avversando il nostro moto, invece, non per altro
che perchè non consentite nel nostro programma ideale, voi
ritardate anche il conseguimento delle riforme vostre; voi
v'opponete anche alla vittoria di quel nostro programma minimo,
che in gran parte approvate, e di cui molte idee - di quelle, in
specie, che si riferiscono alla politica sociale dei comuni - sono
già attuate o in via d'attuarsi in molte grandi
città d'Europa e d'America; voi ingrossate il numero di
coloro che respingono, come nel parlamento francese, le più
eque, le più logiche imposte, come quella progressiva sul
reddito, per la sola ragione che il socialismo le propugna, e che
condannano a morte qualunque più benefica riforma dicendo
che v'è in essa "un germe di socialismo"; voi, finalmente,
perchè credete che non si possa giungere fin dove noi
vogliamo andare, voi, che pur volete procedere, v'arrestate
all'imboccatura della strada e crescete forza alla schiera di
quegli "immobili" che voi stessi condannate; i quali, alla loro
volta, proteggono e incoraggiano, pur non volendolo, tutti quegli
altri che voltano le spalle all'avvenire e tentano di risuscitare
il passato. Dice il senatore Pasquale Villari che non ci saranno
più tra poco in Italia che tre partiti: i socialisti, i
loro avversari intransigenti, e gli iniziatori audaci di riforme
pratiche a vantaggio dei lavoratori. Ma egli mostra di dubitare
che questi iniziatori sorgano in tempo. Ebbene, se non sorgeranno,
sarà quanto abbiam detto finora ampiamente giustificato e
provato, e se sorgeranno, sarà un negare la luce del sole
il negare che sia un terror salutare del socialismo, e non altro,
che li ha fatti sorgere. Ma sarebbe troppo tardi, temiamo. Per
ciò, se anche la nostra ragione ripudiasse la dottrina
socialista, noi, con piena e ferma coscienza d'operare il bene, ci
raccoglieremo egualmente sotto la nuova bandiera; lo faremmo non
foss'altro che per ottenere il primo e necessario risultato della
prevalenza delle classi lavoratrici nella rappresentanza legale
della nazione. E questo è un punto su cui tutti quei nostri
avversari, che desiderano sinceramente un salutare rinnovamento
sociale, non possono dissentire da noi, perchè non possono
non esser persuasi che fin che gli interessi della classe
proletaria non saranno direttamente rappresentati da cittadini
appartenenti o legati al proletariato, questi interessi non
avranno mai una rappresentanza sincera e feconda; perchè
è illogico il pretendere o sperare che una maggioranza di
rappresentanti della classe superiore possa consentire a riforme
gravemente lesive degli interessi della sua classe; perchè
nessuna classe sociale votò mai volontariamente, per puro
spirito d'altruismo, la propria decadenza; perchè ogni
vantaggio, ogni conquista importante nel campo economico non
potrà mai essere che l'opera della classe che n'ha bisogno
e che v'ha diritto; perchè siamo in un momento della
civiltà umana - ed è un dotto statista conservatore
che lo disse, - in cui nessuna classe è difesa dall'altra e
bisogna che ciascuna si difenda da sè. - Ora noi vediamo
che il socialismo soltanto - lo vediamo in Francia, in Germania e
nel Belgio, - è riuscito, dopo tanti anni di regime
rappresentativo, a mandare nei Parlamenti una schiera di
rappresentanti diretti del proletariato, sufficiente per numero e
per unità d'intenti a far sentire l'azione propria
sull'andamento della cosa pubblica. Supponete pur dunque che il
programma socialista non si possa attuare mai, - ripetiamo ai
nostri avversari ragionevoli, - ma il moto socialista
produrrà pur sempre l'effetto desiderato di togliere il
monopolio del potere alla minoranza, - ostacolo precipuo ad ogni
grande progresso sociale - o, se non altro, di mettere in faccia
al potere un sindacato potente, che ne moralizzi la funzione, ne
stimoli le energie e ne allarghi gli orizzonti. Non fosse che per
ottenere questo fine, ripetiamo, se anche noi credessimo un'utopia
l'ideale socialista, noi diremmo a chi l'annunzia: - Siamo con
voi. In presenza dei fatti, quello che v'è d'utopistico nel
vostro programma, cadrà. Ma resterà questo grande
fatto compiuto, necessario e benefico: lo spostamento dell'asse
sociale da una piccola classe, serrata nel cerchio dei propri
interessi, a quella grande maggioranza, i cui interessi si
confondono con quelli della nazione.
Ho detto: se anche noi credessimo
un'utopia l'ideale socialista.... Non debbono dar luogo a dubbi
queste parole. Certo, la persuasione non può essere nella
più parte di noi così scientificamente fondata come
è in quei molti dei nostri compagni di fede, dotti cultori
delle scienze economiche, i quali, profondamente compresi della
dottrina marxista, ne hanno dedotto con lunghi studi tutte le
conseguenze teoriche e pratiche, trovando a tutte le obiezioni una
risposta difficile a confutarsi. Si fonda principalmente la nostra
persuasione su questo: che i vizi organici più gravi
attribuiti all'ordinamento da noi voluto ci appaiono meno gravi di
quelli inerenti all'ordinamento attuale; i quali sono gravi tanto
da renderne impossibile, anche a giudizio dei suoi difensori, una
lunga durata, senza profonde modificazioni; modificazioni che noi
giudichiamo insufficienti a salvarlo. E ci fondiamo anche
più saldamente sulla ragione vittoriosa che crediamo di
poter opporre a quella che è l'obiezione capitale messaci
innanzi da tutti i nostri avversari: l'insufficienza, cioè,
del sentimento dell'interesse pubblico a sostituire come stimolo
al lavoro il sentimento dell'interesse privato, in quel tanto che
questo secondo interesse verrebbe ad essere, in una società
collettivista, diminuito. E questa ragione vittoriosa è una
verità ammessa in parte dagli avversari medesimi: che in
una società in cui tutti fossero obbligati al lavoro, e il
lavoratore fosse direttamente interessato alla distribuzione della
ricchezza, la repugnanza istintiva al lavoro stesso sarebbe
grandemente scemata; e che questa repugnanza scemerebbe ancora (e
noi crediamo che si muterebbe in propensione) quando per effetto
della cooperazione di tutti, della cessata concorrenza, del
riscatto della macchina dalla speculazione privata, fosse ancora
del lavoro quotidiano abbreviata la durata e alleggerita la
fatica. Ci rispondono che noi esageriamo con l'immaginazione la
grandezza di questi effetti. Ma questa è una quistione di
fede, sulla quale non giova discutere; di quella fede nella natura
umana, senza la quale non si sarebbe mai fatto nè tentato
nulla d'ardito e di grande nel mondo, e che basta per sè
sola a render possibili molti di quei fatti che sono considerati
come sue proprie illusioni. Una prevalenza relativa del sentimento
collettivo sull'individuale (della quale, in occasioni
straordinarie, si vedono pur tanti esempi anche nella
società nostra) noi non dubitiamo che avverrebbe in un
ordinamento sociale in cui la sua necessità apparisse
evidentissima, come è ora in una piccola associazione, e in
cui gli animi non fossero più offesi e scoraggiati dallo
spettacolo dell'agiatezza oziosa, delle smisurate disuguaglianze
economiche e delle mille ingiustizie e degli infiniti privilegi
presenti. Noi attendiamo da un mutamento così grande di
cose un mutamento psichico meraviglioso. Ecco il punto da cui
nessun ragionamento avversario ci può smovere, il
fondamento su cui posiamo il nostro edifizio. Per quali vie, poi,
e a traverso a quali vicende si perverrà alla meta che ci
par sicura; se il socialismo, continuando a estendersi nel mondo
civile, serberà un tipo unico o s'informerà allo
spirito e ai bisogni particolari di ciascun popolo; se
s'attuerà "mediante una produzione collettiva nazionale,
parziale o regionale" diventando il comune trasformato, per
esempio, un nuovo e potente organismo economico; o se pure la
società, prima di giungere all'ordinamento socialista,
passerà per uno stadio cooperativo di grandi associazioni,
che andranno scemando di numero, fino a ridursi ad una sola, la
quale fonderà insieme i vari sistemi di collettivismo; ed
anche "qual criterio misuratore del valore finirà con
trovar l'esperienza aiutata dalla scienza, se la durata media del
lavoro richiesto o il medio consumo delle forze che esso esige" o
altri concetti che non può afferrar per ora la nostra
mente, perchè preoccupata e quasi compressa dai fatti
presenti; questo noi non possiamo dire, nè altri ci deve
chiedere. Quello che è evidente alla nostra ragione, certo
nella nostra coscienza è che in fondo a tutte le vie
convergenti del progresso economico e del progresso civile sta,
inevitabile, l'organismo sociale che è nei nostri voti,
ossia: la nazione costituita in una cooperativa gigantesca di
produzione, di provvisione e di assistenza.
Questa fede si ravviva in noi in
questo giorno, nel quale sogliamo riandar col pensiero l'opera
della nostra già vasta famiglia, e rallegrarcene fra di
noi, fraternamente. Ciò che ci rallegra non è tanto
il duplicato numero dei nostri rappresentanti entrati da due anni
nel Parlamento e il numero notevolissimo di quelli che entrarono
nelle Amministrazioni comunali, quanto la prova d'altera fermezza
data dal nostro partito in un periodo di persecuzione implacabile;
durante il quale, su migliaia di nostri compagni tratti in
giudizio, non furono che rarissime eccezioni quelli di cui non
abbiano attestato la specchiata onoratezza cittadini d'ogni classe
sociale e d'ogni parte politica. Quello che ci conforta non
è tanto la valorosa costanza con cui il partito tenne viva
per tre anni l'agitazione pubblica in favore di una amnistia che
era nel desiderio di tutti gli animi onesti, quanto l'esempio di
dignità civile dato nelle dimostrazioni di gioia e di
affetto ai liberati, non turbate neppur da un principio di quei
disordini, il cui timore era servito di pretesto a ritardare un
atto di giustizia solenne. E ci compiacciamo non meno che sia
venuto dal partito nostro il primo e più forte impulso a
una grande manifestazione pubblica contro una politica coloniale
forsennata e nefasta, alla quale egli solo - il partito socialista
- antiveggente pur troppo, - fu sempre fieramente, implacabilmente
nemico. Ma anche più di questo ci è grato
l'osservare come le nostre idee, per effetto d'una propaganda
razionale, si vadano sempre più chiarendo e ordinando anche
nella mente dei meno colti lavoratori intorno al concetto
fondamentale della conquista graduale e legale dei poteri
pubblici. Ci è anche più grato il riconoscere come
l'idea socialista diventi in molti di essi il principio impulsivo
d'un'auto educazione intellettuale, che li mette in grado in breve
tempo d'intervenire a discutere d'interessi cittadini anche in
riunioni d'altri partiti, dove si comincia ad ascoltare e a
rispettare la loro parola. Ci è un'alta soddisfazione,
finalmente, il veder costituirsi da ogni parte, sotto la nuova
bandiera, nuovi corpi elettorali concordi e disciplinati che
spiegano nella lotta un'operosità così appassionata
e sagace ad un tempo, da destar l'ammirazione anche dei più
inconciliabili avversari, e che mettono in evidenza, non solo
nelle occasioni straordinarie, ma nel lavoro, nell'organizzazione,
nella vita socialista d'ogni giorno, tanti caratteri virili, tante
fibre infaticabili, tanta gioventù coraggiosa e generosa,
ardente d'entusiasmo e di fede.
Davanti a questi fatti, molti
pregiudizi sono caduti, molte calunnie non hanno più eco.
Non son più che i ciechi di mente e i malvagi d'animo
quelli che ardiscono ancora di far risalire al partito socialista
la colpa di delitti individuali, atroci per sè e insensati
per il fine a cui mirano, funesti a noi, più che agli altri
per le reazioni liberticide che provocano, commessi in nome d'un
ideale che non è il nostro, e che noi combattiamo senza
tregua, e a cui strappiamo proseliti ogni giorno. Ma quanti altri
pregiudizi persistono, propagati dall'interesse, mantenuti
dall'astuzia, accolti facilmente dall'ignoranza e dalla paura! Voi
sapete quali siano, ed io non esco dall'argomento confutandoli,
poichè è naturale che a noi prema di dimostrare a
quanti, pur non accettando la nostra dottrina, festeggiano il
1° Maggio, che il concetto di questa festa, cara anche a loro,
non è nato in mezzo a sentimenti e a propositi che possano
gettare un'ombra sulla sua ideale bellezza.
Nemici della civiltà!
Così fummo chiamati, anche ufficialmente, perchè il
progresso della civiltà - a quanto si afferma - sarebbe
dall'ordinamento socialista ritardato o impedito. Ma vediamo.
Doppio è il movimento della civiltà: l'uno è
d'avanzamento, l'altro è di diffusione, e nello stato
attuale delle cose il secondo è così incerto e tardo
da render vano in gran parte anche il primo. Idee, cognizioni, agi
della vita, varietà e raffinatezza di godimenti sensuali e
intellettuali, tutto procede; ma rimanendo circoscritto in un
così piccolo numero d'uomini! La società è
come un esercito disordinato, mal nutrito, gravato di pesi enormi,
al quale va dinanzi, precedendolo di una distanza smisurata,
un'avanguardia di cavalieri brillanti e armati di tutto punto, che
vincono delle battaglie, a cui il grosso dell'esercito non
partecipa, e di cui non raccoglie quasi alcun frutto. Lo disse
anche in Francia, ora è poco, uno dei più eloquenti
interpreti del nostro pensiero. "L'umanità fu finora
obbligata a riservare alla minoranza la cura di condurre a suo
vantaggio la civiltà e di creare delle forme nuove
d'esistenza a cui la moltitudine non poteva arrivare che
più tardi". Ebbene, sarà impedire il cammino della
civiltà il volere che, per mezzo d'un impiego più
razionale degli sforzi umani, ora antagonisti, la società
tutta insieme compia il suo progresso in pro della società
tutta intera? O come mai? Sarà nemico della civiltà
chi, alleggerendo il peso opprimente del lavoro meccanico, vuol
sollevare le moltitudini a una vita più spirituale, che
è quanto dire più umana; chi, attenuando la lotta
per la vita con l'organizzazione del lavoro e una miglior
distribuzione dei beni, vuol che sian volte al progresso vero le
infinite forze che si sperperano ora per la conservazione
dell'esistenza e in conflitti infecondi; chi a una civiltà
disprezzata e odiata dai più come un privilegio dei meno
vuol sostituita una civiltà amata da tutti come un bene e
una gloria comune? Sarà nemico della civiltà chi
vuole che cessi finalmente questa miseranda finzione di dir con
orgoglio: - Noi, nazione civile.... - mentre nella nazione a cui
s'accenna, in mezzo alle glorie della scienza e agli splendori del
lusso e delle arti, perdurano in milioni d'uomini superstizioni di
medio evo, ignoranze di selvaggi, miserie di paria, condizioni e
forme di vita che ci fanno rivivere davanti agli occhi la prima
età della pietra? Sarà nemico della civiltà
chi vuole che questo cessi e amico della civiltà chi
consente che questo duri?
Negatori della patria! Ecco
un'altra accusa, contro la quale ogni fibra del nostro cuore si
rivolta. Se il concetto della patria s'identifica col concetto
della sua unità e della sua indipendenza, con qual
coscienza si possono chiamar "negatori della patria" i socialisti,
per i quali è un assioma storico la sentenza dell'Engels,
uno dei loro grandi maestri: che senza la autonomia e
l'unità restituite a ciascuna nazione, nè l'unione
internazionale del proletariato, nè la tranquilla e
intelligente cooperazione delle nazioni a un fine comune si
potrebbero compiere? Avversari del concetto di patria non siamo;
ma di coloro che le patrie mirano a dividere per giovarsi della
loro divisione, primo impedimento necessario alla vittoria di
quell'ideale comune a tutte le moltitudini proletarie, che non
può essere l'ideale loro. Essi fanno una cosa sola
dell'amor di patria e dell'orgoglio nazionale. E anche noi abbiamo
il nostro orgoglio nazionale. Ma il nostro è di natura
diversa: è un orgoglio nazionale che vorrebbe che dalla
nazione non fossero costretti a esulare ogni anno, per cercare un
pane straniero, duecento mila dei suoi lavoratori, mentre nella
terra che essi abbandonano, capace di tutti i prodotti di tutte le
terre più fertili, rimangano ancora, o per incuria dei
proprietari o per mancanza d'opere di bonificamento, quasi cinque
milioni di ettari di suolo incolto, e altri dodici milioni che
potrebbero fruttare il doppio di quanto fruttano. È un
orgoglio nazionale il nostro, il quale vorrebbe che fossero
purgate della malaria la metà almeno delle nostre
provincie, che fosse tolta alla patria la vergogna lacrimevole dei
suoi centomila pellagrosi, che il nostro paese non fosse fra gli
ultimi d'Europa sulla via della legislazione sociale, che vi
fossero sacri e inviolabili i diritti politici conquistati coi
sacrifizi e col sangue di tutti, che per vane ambizioni di
grandezza, calpestando i principii in nome dei quali siamo
risorti, non si sperperassero a migliaia di miglia dai suoi
confini le carni e le ossa dei suoi figliuoli. Coloro che,
sentendo nel più profondo dell'anima la pietà di
queste miserie e lo sdegno di queste vergogne, combattono con
tutte le loro forze perchè le une e le altre abbiano fine,
e credono che dinanzi all'orgoglio patriottico debba andare la
carità fraterna, no, costoro non rinnegano la patria,
costoro sono i soli che l'amino e la servano sapientemente.
L'immagine della patria, per essi, è una madre amorosa,
equanime con tutti i suoi figli, non ambiziosa che della loro
prosperità e del loro affetto, e della fama di onesta, di
civile e di benefica; non un'amazzone gonfia di boria, stoltamente
fastosa in pubblico e crudelmente pitocca in casa, che si benda
gli occhi con la bandiera e cerca la gloria nel sangue.
Un'altra accusa è di
eccitare all'odio una classe sociale contro l'altra. Ebbene, no,
non lo credete, non è vero. Certo, in ogni grande famiglia
di propagatori d'un'idea, anche delle più sante idee, vi
sono i violenti di natura, a cui nessuna considerazione del comune
interesse, nessun consiglio dei compagni di fede può
moderar la parola. Vi sono gl'immoderati anche nel partito
moderato, vi sono i provocatori anche fra i predicatori del
Vangelo, vi furono i violenti anche fra i Santi. E noi non
neghiamo, d'altra parte, che dinanzi a certi abusi mostruosi del
potere e della fede pubblica, e quando vediamo all'oppressione dei
deboli aggiungersi l'inganno e la derisione, ci prorompono
dall'animo parole amare e iraconde. Nè di questo noi ci
scusiamo. Ma accusarci d'istigare all'odio, solitamente e per
proposito, una classe contro l'altra, è un assurdo,
è accusarci d'operare coscientemente contro gl'interessi
della nostra causa. Il detto che "la miseria nasce non dalla
malvagità dei capitalisti, ma dal vizioso ordinamento della
società" sta scritto in fronte, come una parola d'ordine,
al più antico e più popolare dei giornali socialisti
d'Italia. - "Se voi foste al posto dei vostri padroni, fareste
com'essi fanno, perchè non potreste fare in altro modo"
è la frase più sovente ripetuta da chi fa propaganda
della nostra idea, appunto per persuadere i lavoratori che il
rimedio ai mali non è da attendersi dagli individui,
perchè questi non vi potrebbero porre rimedio neanche se
avessero tutti le intenzioni più generose. E come sarebbe
altrimenti? Noi miriamo a conquistar la coscienza e la
volontà del gran numero per via della persuasione, e a
render atti gli uni a persuader gli altri. È dunque nostro
interesse di spegnere, non di attizzare gli odî sociali;
perchè se in cuore all'uomo incolto noi suscitiamo l'odio,
gli oscuriamo l'intelligenza, ossia lo distogliamo dalla
riflessione, e ritardiamo il progresso del suo pensiero, senza del
quale è vano lo sperare di farne un proselito utile e
sicuro; e perchè la passione si spegne con la stessa
facilità con cui s'accende, o consumando sè stessa o
estinguendosi per effetto d'un conseguito miglioramento delle
condizioni individuali; e perchè essa è un costante
pericolo per tutti, spingendo l'individuo ad avventatezze, di cui
su tutti ricade la colpa. No, noi non vogliamo far dei violenti:
questi sono la nostra debolezza, non la nostra forza; noi vogliamo
far dei convinti, dei risoluti, dei tenaci. No, noi non siamo
seminatori d'odio, noi che portiamo fra gli uomini la parola della
fratellanza e della pace. La nostra forza non è l'odio
nè l'ira; la nostra forza è la ragione, la
volontà, la fede, l'entusiasmo, l'amore.
- Nemici della proprietà -
siamo anche chiamati, e questa definizione, così nuda e
assoluta, è piena d'astuzia, perchè include, senza
esprimerla, una vaga accusa di meditato latrocinio universale. Ma
esprime falsamente il nostro concetto perchè sostituisce
l'idea di "soppressione" a quella di "trasformazione" d'un
istituto che si modificò variamente nel corso dei tempi, e
che è per natura sua soggetto a trasformarsi secondo le
condizioni e i bisogni della società che l'ha fondato.
È una definizione falsa perchè nega tacitamente il
carattere di proprietà alla forma collettiva, che fu la
prima forma di proprietà del consorzio sociale, e di cui
sussistono e si riproducono mille esempi parziali anche nei tempi
presenti. È una definizione falsa perchè estende il
nostro concetto della proprietà collettiva dai grandi mezzi
di produzione a tutti gli altri oggetti di proprietà, che
sono naturalmente esclusi dal collettivismo; il quale non
impedisce nè il risparmio, nè l'accumulamento,
nè la trasmissione del risparmio, nè il possesso,
nè la trasmissione di tutto quanto non serva a produrre
ricchezza. È ancora una definizione ingiusta perchè
esclude l'idea della presa di possesso mediante un equo
risarcimento; ammesso il quale, essa non riesce una violenza
più che tale non sia l'attuale espropriazione legale per
fini d'utilità pubblica; e perchè tace che
l'appropriazione collettiva, come nel campo della proprietà
industriale, per esempio, così in altri campi, non si
opererebbe che in quei rami di produzione in cui la concentrazione
dei capitali ha già distrutto la piccola proprietà
fondata sul lavoro; e anche perchè è in
contraddizione formale con la ragione prima del collettivismo,
fondato appunto sul concetto "conservatore" che la
proprietà è indispensabile al pieno e compiuto
svolgimento della personalità umana; svolgimento che
è possibile soltanto in una società in cui
posseggano tutti una parte del bene comune, e che non è
possibile se non a pochissimi nella società attuale, dove
nove decimi della popolazione nulla possiedono, nè sperano,
nè quasi possono sperare di mai possedere. È una
definizione insidiosa, infine, e un'accusa che ci offende
perchè tende a convertire nell'animo di chi possiede l'idea
d'una lontana, legale e necessaria trasformazione della
proprietà in quella d'un imminente pericolo di spogliazione
tumultuaria. E ripetiamo che è una definizione astuta
perchè con questo terrore d'una grande ladreria collettiva,
che si potrebbe commetter domani, storna l'attenzione pubblica
dalle grandi ladrerie individuali, che si commettono oggi.
Anche "nemici della famiglia" sono
chiamati i socialisti. E in questo, come in altri argomenti, si
vuol considerare come articolo del nostro programma un'idea di
pochi o di molti, contro la quale ogni socialista, che non
l'accetti, si può ribellare con ogni sua forza senza cessar
perciò d'esser socialista; un'idea che non è propria
del socialismo, poichè, per non citare che un solo esempio,
è il nostro avversario più formidabile quell'Erberto
Spencer, il quale dice che verrà tempo che l'unione per
l'affetto sarà considerata come più importante di
quella per la legge, e saran fatte segno alla riprovazione
pubblica quelle unioni coniugali in cui il legame dell'affetto
sarà spezzato. Con questa espressione corrente: vogliono
abolir la famiglia, l'idea socialista è snaturata e
capovolta. No, non è voler "abolire la famiglia" il
vituperare il matrimonio mercantile per cui s'avviliscono le anime
e degenera la razza; il voler il matrimonio "fondato sulla
spontanea scelta affettiva e sopra una libertà limitata dal
dovere morale rispetto al coniuge e dal dovere positivo rispetto
ai figliuoli"; il voler fatta alla donna nella famiglia una
più equa condizione legale; il volere un più
efficace intervento sociale nella famiglia stessa per assicurare
lo svolgimento integrale e l'educazione del fanciullo; lo sperare,
infine, che venga un tempo in cui il sentimento della
dignità propria, il rispetto della dignità altrui e
un'alta coscienza del dovere possano costituire nei matrimoni e
nella famiglia vincoli e garanzie anche più forti di quelle
che esige e assicura la società presente. O come saranno
nemici della famiglia quelli che più strenuamente
combattono lo sfruttamento industriale della donna, appunto
perchè alla famiglia è funesto? quelli che
più ardentemente propugnano la redenzione del fanciullo dal
lavoro precoce, appunto perchè alla famiglia non sia
strappato e nella promiscuità con gli adulti corrotto?
quelli che più altamente invocano sollievi e rimedi alla
grande piaga della miseria, appunto perchè la miseria
corrode gli affetti domestici, avvelena l'infanzia, dissolve la
famiglia? Domandate se vogliono abolir la famiglia a quei buoni
lavoratori che per soccorrer la moglie e i bambini del compagno
cacciato in carcere per reato di pensiero smungono senza rammarico
la loro povera borsa; domandate se vuole abolir la famiglia a
quell'onesto operaio che affronta lietamente pericoli e sacrifici
per la nostra Idea, non con la fede di migliorare la propria
sorte, ma con la sola vaga speranza di preparare al suo sangue un
avvenire migliore! Andate a domandare a quella povera madre
rediviva, che soffocò contro il suo seno il grido di gioia
e d'amore di Garibaldi Bosco liberato, andatele a domandare se il
suo figliuolo adorato vuole "abolir la famiglia!"
Vogliono distruggere la religione,
- dicono ancora. E in qual programma del partito socialista di
qualsiasi paese s'è mai trovato iscritto questo proposito?
O meglio: in qual programma socialista non è detto
esplicitamente che per il socialismo la religione è "un
affar privato" ossia un affar di coscienza, in cui la
comunità non ha diritto d'intervenire? E sarà il
partito, che vuole una libertà assoluta di pensiero, quello
che vorrà sopprimere la libertà della fede?
Sarà il partito che dice a tutti gli infelici: - Sperate! -
quello che vorrà segnare un confine alla speranza umana?
No, in questo, come in altri argomenti, si scambiano opinioni
individuali con un articolo di dottrina. A me, come ad ogni altro
socialista fermamente credente nella dottrina economica e politica
del socialismo, tutti i socialisti della terra raccolti insieme
non potranno mai far dire che non credo in Dio, se ci credo,
nè impedire di far propaganda, in mezzo a loro stessi,
della mia fede. No, le ragioni del dubbio e le ispirazioni della
fede stanno al di fuori d'ogni sistema di idee politiche e
sociali; la speranza in una vita immortale sta al di sopra d'ogni
concetto che si possa avere dei destini terreni
dell'umanità, come il mistero della creazione sta al di
sopra della scienza; e n'è una prova che in tutti i partiti
politici, in tutti gli ordini della scienza, in tutti i cerchi
della società si trovano credenti ed increduli. No, buone
madri, non siamo noi che vorremo mai soffocare nel cuor vostro
quella fede in cui noi stessi siamo nati e cresciuti. Noi diciamo
invece a ciascuna di voi: - Educa alla tua fede il tuo fanciullo,
infondigli nel cuore la tua santa speranza, fagli giunger le mani
davanti all'immagine di colui che è morto per l'ideale
della giustizia, della pace e dell'uguaglianza fra gli uomini. Ma
insegnagli pure - soggiungiamo subito - che è falsa
religione quella che non è accompagnata da una operosa
pietà della miseria e da un amore intrepido della
giustizia, e che se nello spirito del credente entra la
persuasione che un nuovo ordinamento sociale possa prevenir la
povertà, attenuare i dolori, scemare gli odî, le
violenze e i delitti, che funestano e disonorano l'ordinamento
presente, è empio, è assurdo il credere che Iddio
gli vieti di prepararlo e di affrettarlo con la parola e con
l'opera, e possa dirgli un giorno: - Tu fosti buono, pietoso e
generoso; ma fosti socialista, e io ti danno. - E ditegli ancora
che il buon Dio non può amare il credente che, in mezzo a
tanti bisogni e conflitti umani, incrocia le mani oziose, fissando
gli occhi nel cielo per non vedere la terra; ditegli ch'Egli dice
a costui: Disgiungi quelle mani inerti: stendine una a soccorrere
gli oppressi ed arma l'altra per combattere chi opprime; il grido
di giubilo dei consolati e dei redenti è la miglior
preghiera che possa far salire a me l'anima tua.
Ci si può dire: - Codesta
è la vostra difesa, e noi sospettiamo che sia piena di
concessioni e di cautele. Ciò che vorremmo conoscere
è quello che voi dite nella vostra propaganda individuale,
e che forse non ripetete a noi, in un giorno come questo. -
Ebbene, e noi vi chiamiamo ad analizzare il sottile veleno che
distilliamo nella propaganda d'ogni giorno, e non quello soltanto
che riserbiamo al lavoratore, ma anche quello che tentiamo di
versare nell'animo di gente d'ogni classe, d'ogni età e
d'ogni stato sociale; poichè non ci rivolgiamo soltanto ai
più facili a conquistarsi per insufficienza di cultura o
per predisposizioni di interessi individuali; ma anche a quelli
che son più difficili e per ragioni di cultura e per
ragioni d'interesse.
Noi diciamo al lavoratore: - Bada:
a questo grande movimento sociale che si svolge in tuo favore non
basta che tu assista con animo favorevole; tu lo devi aiutare. Il
primo impulso alla redenzione del lavoro deve venire da te. Se
vuoi che il mondo ti saluti devi portar alta la fronte; ma per
portar alta la fronte bisogna levar l'animo in alto. Se vuoi
entrar nell'esercito della nuova Idea, devi sacrificare a questa
una parte del tuo riposo e della tua pace; devi compiere con
più caldo zelo i tuoi doveri di operaio, ma resistere a chi
vuol soggiogare la tua coscienza di cittadino; devi soffocare
sotto la disciplina del partito rancori e gelosie; fare uno sforzo
intellettuale faticoso per appropriarti gli argomenti ed acquistar
la parola con cui si giustificano e si dimostrano appagabili le
tue aspirazioni; devi imparare, migliorarti, dare esempio di
dignità di vita, di equità, di bontà d'animo,
non soltanto in cospetto alle classi superiori, ma fra i tuoi
compagni e nella tua famiglia; devi fare quanto è in poter
tuo per far rispettare ed amare in te la santa bandiera a cui
consacri il cuore e affidi il tuo diritto e la tua speranza.
Diciamo alla moglie del lavoratore:
- Non trattenere tuo marito, per vane paure, dal venire con noi,
se la coscienza lo muove. Raccomandagli la prudenza, ma non gli
consigliare la viltà. Sono innumerevoli donne paurose come
te che in tutti i tempi ritardarono il cammino delle idee
più grandi e benefiche. Non temere; non in mezzo a noi egli
troverà gli amici scioperati che lo possono traviare: non
siamo noi, povera donna, che vorremmo strapparlo al tuo cuore.
Rinunzia a qualche ora della sua compagnia e lascia ch'ei venga;
egli tornerà a te più contento per la coscienza d'un
dovere compiuto, e con la mente rischiarata di nuove idee, e anche
col cuore meglio disposto all'affetto, perchè nella
compagnia che tu temi gli si apre lo spirito alla vita del
pensiero, gli s'insegna il rispetto della donna, gli s'inspira
l'amore pei deboli e la pietà per tutti i dolori umani. Non
contrastarlo, perchè gli turberesti l'animo senza farlo
più tuo; fa ch'egli si confidi con te, accogli le sue
speranze, sostieni la sua fede, e una nuova forza stringerà
insieme le anime vostre, e tu sarai una seconda volta sua sposa.
Diciamo alla madre del giovane
studente: - Perchè t'affanni per il tuo figliuolo, come se
la via per cui s'è messo con noi fosse la via della
perdizione? Se tu gli leggessi dentro all'animo, saresti lieta e
altera del tesoro ch'egli vi chiude. Il sentimento che lo muove
è quello stesso che spinge te a metter l'obolo della
carità nella mano del vecchio e del fanciullo abbandonato:
è lo stesso sentimento ingrandito, esteso a milioni di
creature umane, illuminato dalla speranza di bandire dalla
società tutte quelle miserie e quei mali da cui sei
commossa tu pure: ma soltanto quando li vedi personificati in un
infelice che mendica. Vedi: il suo ingegno e i suoi studi, prima
che utili a lui, sono già utili agli altri. Nella lotta che
combatte con noi egli matura precocemente il suo senno, innalza il
suo carattere, fortifica le sue facoltà. Lascia che vada
fra i lavoratori, dove acquista un concetto austero della vita, e
si spoglia del suo egoismo di classe, e impara il rispetto della
povertà e del lavoro. Lascia che mescoli il suo soprabito
signorile con quelle rozze giacchette, sotto a cui battono dei
cuori che lo amano. Non gli contrastare il passo quando va a
cercarle; bacialo in fronte e digli: - Va. - È la voce del
tuo buon Dio che lo chiama.
Diciamo al modesto borghese, sia
egli un piccolo proprietario di terre, oppresse dall'imposta e
destinate a ingrandire prima o poi il latifondo, o un piccolo
industriale, ogni giorno più impotente a sostener la
concorrenza della grande industria, o un piccolo commerciante,
condannato a cader vittima presto o tardi dell'accentramento dei
commerci, diciamo a ciascuno di costoro che, per un'ambizione
scusabile nella società presente, avviano con grandi
sacrifici i loro figliuoli alle professioni liberali: - O tu, che
ti dichiari nostro nemico, considera un lato solo della grande
quistione: vedi se, perdurando questo furore d'innalzarsi nella
gerarchla sociale, - effetto delle troppo dure condizioni
materiali e morali della vita del lavoratore, - vedi se i figli
dei tuoi figli non si troveranno ridotti a lottare con una
concorrenza così formidabile, da render la lotta disperata.
Vedi se per prevenire questo danno ci sia altro modo che quello di
stabilire l'equilibrio fra i due fattori, intellettuale e
meccanico, della produzione sociale, mettendo il lavoro
propriamente detto in tali condizioni da non esser più
sfuggito da quanti possono come un castigo di Dio; ciò che
è il primo intento del socialismo. Vedi se, non giungendo a
questo, la società non sia condannata a morire d'una
pletora di laureati famelici e di spostati rabbiosi. Fa tacere per
poco la tua ambizione, fissa lo sguardo nell'avvenire e ti
persuaderai che, pure avendo l'aspetto di tuoi nemici, siamo veri
amici dei tuoi figli e dei figli loro.
Diciamo allo scienziato e
all'artista: - Come puoi tu, uomo di scienza, sospettar nemica tua
una dottrina che sopra una fede illimitata nel progresso della
scienza in larga parte si fonda, che dal perfezionamento della
macchina, dalla prevalenza dell'agricoltura razionale, dallo
sfruttamento scientifico di tutte le forze della natura attende ad
un tempo e una diminuzione dello sforzo umano e una raddoppiata
produzione? Come puoi tu, scrittore e artista, temere il trionfo
d'una dottrina che vuole estendere a tutti, nella maggior misura
possibile, i godimenti dello spirito, e centuplicare con questo il
numero degli uomini atti a comprendere l'opera tua? E se la
società futura chiedesse a te, scienziato, il sacrifizio di
volgere la tua scienza a fini più direttamente umani, e a
te, artista, quello di scendere più spesso dall'altezza del
tuo lavoro libero all'ufficio di educatore delle moltitudini, come
non vi parrebbe dolce un tal sacrifizio, ricompensato da una tanto
più diffusa ammirazione e più vasta gratitudine? E
come non sentite che un più alto dovere di
generosità e di sacrifizio è imposto ai privilegiati
dell'intelletto, a coloro che portano sulla fronte dalla nascita
questo segno luminoso della predilezione del destino?
Diciamo all'umanitario, al
filantropo: - O tu che combatti l'opera nostra, perchè
credi la carità sufficiente a risolver la gran quistione
che affanna il mondo, disingannati in faccia all'evidenza dei
fatti, e vieni con noi. No, non si scioglie la quistione con la
beneficenza. Non si feconda una vasta terra portandovi l'acqua ad
orciòli; ma spandendovi per una rete di larghi canali
l'onda inesauribile della montagna. La tua carità non
può nulla per i milioni d'uomini a cui è
intercettata legalmente, per forza delle cose, una troppo gran
parte dei frutti del loro lavoro; è impotente davanti al
grande fatto della disoccupazione, prodotto dalle crisi
disastrose, che derivano dall'anarchia della produzione; e
può far meno ancora per quella grande moltitudine
lavoratrice, alla quale il pane non manca, ma che domanda una
diminuzione di fatica, un'educazione civile, un posto più
onorato nel mondo, a cui non ha meno diritto che al pane. No, i
rimedi che ti consiglia il cuore non bastano; occorre che tu dia
l'opera della tua ragione. Vieni con noi, poichè il tuo
cuore è buono; e senza lasciare l'opera della
carità, domanda con noi la giustizia; solleva i miseri, ma
lavora tu pure a sradicar la miseria; conforta i vinti, ma aiutaci
a preparare una società, in cui, per quanto lo concedono la
natura e la fortuna, non ci siano più nè vinti
nè vincitori.
Diciamo al ricco: - Se ti dice la
ragione che è giusta la nostra causa, e ti trattiene
dall'abbracciarla il timore di affrettare per te e pei tuoi figli
la perdita della ricchezza, tu vivi in un inganno. Proseguendo
così le cose, non sarà il socialismo che ti
toglierà il tuo bene; saranno le catastrofi politiche e
finanziarie a cui conducono inevitabilmente il militarismo, la
guerra, il debito, il disordine, inseparabili dall'ordinamento
sociale che difendi. La caduta lontana della tua fortuna non
sarà effetto della dottrina socialista; ma delle grandi
necessità sociali e economiche da cui la dottrina è
nata, e per cui si diffonde. Tu temi rivoluzioni, sconvolgimenti,
rapine! Ma se è tutto questo appunto che il socialismo mira
a impedire, contenendo le passioni violente che soffocano il
germoglio delle idee feconde, prevenendo le rivoluzioni col
sollecitar l'evoluzione, scomponendo e rifacendo l'edificio a mano
a mano, perchè la società non abbia a rimanere mai
sconvolta e atterrita in mezzo a un campo di macerie. Come non
comprendi che questo movimento immenso tende al bene di tutti?
Abbraccia la nostra causa, e combattendo per essa, tu che hai la
ricchezza, darai un esempio, tu che hai l'indipendenza, sarai una
forza, e ti sentirai libero dai due peggiori tormenti della tua
vita, che sono la smania d'acquistare e il terrore di perdere,
perchè la coscienza d'esser giusto e magnanimo varrà
per te il più prezioso dei tesori, sarà la sola,
vera felicità che nessun evento, nessuna forza potrà
strappar dal tuo cuore.
E al fanciullo del ricco,
finalmente, noi rivolgiamo questo discorso: - Tu sei nato
nell'agiatezza. Se vorrai conquistarti un posto onorato nel mondo,
ti costerà assai men fatica che agli altri, perchè
sarai come un uomo armato in una lotta in cui quasi tutti gli
altri sono inermi. Sei sicuro fin d'ora che non avrai mai da patir
privazioni, mai da umiliarti per non perdere il pane, che potrai
essere facilmente buono, onesto, rispettato, contento. Ora, vedi
quanta miseria v'è intorno a te, quante dure fatiche che
danno appena da vivere, quanti milioni di fanciulli lasciati
nell'ignoranza e nell'abbandono, quante famiglie ridotte
all'indigenza senza colpa, quante disuguaglianze ingiuste, quanti
dolori senza speranza, e quante ire e quanti odî. Ebbene, se
ti dicessero che v'è modo di far sì che tutte queste
miserie siano scemate, che il lavoro non manchi a nessuno e sia
reso men duro a tutti, che tutti i fanciulli possano istruirsi e
educarsi, che le disugaglianze ingiuste scompaiano, che gli
odî di classe si spengano, che la società diventi
come una grande famiglia, in cui, se non la felicità regni
almeno la pace; ma che per ottener tutto questo bisogna che tutti
i ragazzi come te rinunzino alla loro sorte privilegiata,
rientrino nelle condizioni comuni, e si rassegnino a lavorare e a
lottare per vivere modestamente come tutti gli altri,
consentiresti tu al sacrifizio? E il fanciullo ci risponde
immediatamente, irresistibilmente: - Oh, sì, vi
consentirei! E come si potrebbe non consentirvi? - E noi non gli
diciamo più altro: gli abbiamo messo il buon germe nel
cuore.
Questi sono i nostri pensieri e i
nostri sentimenti. Se non sono ogni giorno dell'anno così
benevoli, nè espressi sempre con parole così miti,
non è perchè tacciano nel nostro cuore: è
perchè siamo uomini, ossia per natura deboli, soggetti
all'orgoglio, facili a irritarci della calunnia, e anche
perchè è troppo sovente offesa in noi quella
libertà di pensiero e di parola, che è una sacra
eredità lasciataci dai nostri padri e dovrebbe essere una
condizione inviolabile del nostro patto nazionale. Ma ogni anno,
in questo giorno, noi rinnoviamo sinceramente il proposito di
mantener sempre l'animo e la parola alti come la nostra Idea. Non
è questo l'ultimo degli effetti benefici della festa del
1° Maggio. E noi confidiamo che questa festa sarà
celebrata ogni anno con più serena dignità. Oh
certo, essa sarà ben più splendida e più
solenne nell'avvenire! E non sarà celebrata soltanto nelle
strade e nelle assemblee; ma anche nelle famiglie, nelle quali
tutte l'idea socialista finirà con lo stringere quei
vincoli, che ora in molte rallenta, e spezza in alcune.
Sarà il giorno in cui le coscienze e i cuori restii, vinti
da lento lavoro della ragione e dalla forza degli avvenimenti,
faranno atto di dedizione e di riconciliazione con le persone
amate; il giorno in cui il padre dirà al figliuolo: -
Sì, figliuol mio, sei tu che hai ragione, sei più
buono e più giusto di me, non son più soltanto tuo
padre, sono un tuo compagno; - il giorno in cui la moglie
dirà al marito: - T'ho contrariato, perdonami; non ti
comprendevo, ora ti comprendo; e tutta l'anima mia è con te
e per la tua causa; - il giorno in cui la madre dirà a suo
figlio: - Mi arrendo; vedo ora dov'è la verità e la
giustizia; la tua festa del 1° Maggio sarà d'ora
innanzi anche la festa di tua madre. - Sì, sarà
forse lontano, ma questo giorno verrà. Noi lo crediamo come
crediamo che la terra germina sotto il raggio del sole. Crediamo
che il 1° Maggio resterà e ingrandirà negli anni
e nei popoli, e che dopo aver redento il lavoro ucciderà la
guerra, e che dopo aver confuso le classi affratellerà le
nazioni, e che sarà benedetto dalle generazioni venture
come una delle date più fauste e più gloriose della
storia del mondo.
Torino, 1896.
V.
Per Giuseppe Garibaldi
(Commemorazione popolare).
Invitato a commemorare Giuseppe
Garibaldi in questo giorno nel quale ogni cuore italiano risente
più viva la tristezza d'averlo perduto, non terrò un
discorso ampio e ordinato dell'opera e della funzione storica
compiuta da lui, poichè nulla o poco oramai ne rimane a
dire che non torni superfluo a un uditorio di italiani colti.
Parlerò il linguaggio facile e caldo del patriotta, che,
invece di dissertare sul passato, lo risuscita, lo rivive e lascia
andar tutta l'anima all'onda degli affetti e delle memorie. Spero,
così parlando, di consentire alla disposizione d'animo dei
miei uditori, ai quali non parrà forse occasione opportuna
d'un ragionamento pacato il primo anniversario di una morte
compianta. In ogni modo io chiedo perdono a voi del mio ardimento,
come già l'ho chiesto, dentro al cuore, alla memoria
augusta e amata, a cui consacro le mie parole.
La miglior prova della grandezza
di Garibaldi è questa: che nessuna narrazione, per quanto
diffusa e eloquente delle sue avventure e delle sue gesta,
potrebbe aver mai la efficacia che ha la esposizione brevissima e
nuda dei sommi capi della sua storia.
Concedetemi di farne qui
l'esperienza, a modo d'esordio, con quella semplicità che
è una forma di rispetto per l'altezza dell'argomento e con
quella rapidità precipitosa che il cammino lunghissimo
impone.
Nasce a Nizza, nel 1807, figliuolo
di un modesto capitano di mare, e comincia la vita, si può
dire, con due atti eroici: a otto anni, salvando da una gora una
donna che annega; a tredici, salvando una barca di compagni dal
naufragio. Adora il mare, s'imbarca mozzo in un brigantino,
viaggia in oriente. A diciassett'anni va sulla tartana del padre a
Fiumicino, e visita la prima volta Roma, dove, tra l'entusiasmo
patriottico per le grandi memorie, gli balena la prima idea
dell'incanalamento del Tevere, che propugnerà cinquant'anni
dopo, con ardore ancor giovanile, nella Capitale d'Italia.
Continua i viaggi, è più volte assalito e depredato
dai pirati, si riduce povero a Costantinopoli, dove s'ammala, e fa
il precettore di ragazzi per vivere. Poi, ritornato a Nizza,
divenuto capitano di bastimento, riprende le navigazioni ardite e
avventurose, con le quali principia ad acquistar fama e simpatia;
tanto che ad ogni suo ritorno gli corre incontro sul molo una
folla di popolo, a festeggiarlo, a rallegrarsi con lui, che onora
sui mari e fa onorar nei porti d'Italia e di Francia il nome della
sua città nativa. Tale è l'alba della sua gloria.
In uno dei suoi viaggi in levante
ode parlar per la prima volta della "Giovine Italia", e, tocco
dalla fiamma che lo arderà fino alla morte, tornato appena
in Europa, si presenta in Marsiglia a Giuseppe Mazzini, si ascrive
all'associazione, si vota per sempre alla patria. Recatosi in
Liguria, si mette all'opera, stringe relazione coi più
arditi patriotti, si arrola semplice marinaio nella flotta regia
per far propaganda fra gli equipaggi e cooperare con essi al moto
imminente di Genova. Falliti questo e il moto di Piemonte e la
spedizione di Savoia, ripara in Francia, è arrestato,
riesce a fuggire, è condannato a morte, prende altro nome,
s'imbarca secondo in un brigantino, e dopo aver salvato dalle
acque un giovinetto nel porto di Marsiglia, salpa per l'oriente.
Ma, tediato della vita mercantile, s'assolda nella flottiglia del
Bey di Tunisi, e scontento anche del nuovo stato, butta via la
divisa, ritorna a Marsiglia desolata dal colèra, si fa
infermiere negli ospedali, compie l'opera pietosa fin che dura la
morìa, e non vedendo luce d'aurora in Italia, s'imbarca
sopra un bastimento di commercio e parte per l'America.
E qui incomincia il suo periodo
eroico. Arrivato al Brasile, per campare, si dà al
commercio di cabotaggio; poi, con una barca e sedici uomini, move
guerra di corsaro contro l'impero, per la provincia di Rio Grande
ribelle. Conquistata una goletta, è assalito sul Plata da
due lancioni dell'Uruguay, mandati a arrestarlo; li respinge
restando gravemente ferito; è raccolto quasi morente da una
nave brasiliana e portato prigioniero a Gualeguay; guarisce,
fugge, è inseguito, ripreso, frustato, torturato; ma riesce
a tornare a Rio Grande, dove gli è dato il comando d'una
flottiglia. Combatte, vince, naufraga, riprende il mare e la
lotta; ricaccia il nemico dal porto d'Imbituba, protegge la
ritirata dei Riograndesi, resistendo con tre navi a venticinque,
poi con settanta uomini a cinquecento; si batte a Santa Vittoria,
si batte alla stazione di Taquary, si batte all'assedio di San
Josè, e smarriti e ritrovati la sposa Annita e Menotti
bambino, già pianti perduti, a traverso a foreste
sterminate, sotto pioggie dirotte, soffrendo il freddo e la fame,
cacciando al laccio e domando puledri, spingendo davanti a
sè un armento di buoi, che gli muoion per via, riesce
finalmente a Montevideo, dove, per guadagnarsi il pane, si mette a
insegnar matematiche.
Non è che una breve tregua.
L'Uruguay è in guerra col Rosas, dittatore dell'Argentina.
Stretta dal pericolo, la repubblica ricorre a lui, già
famoso, che accetta il comando d'una flottiglia e s'accinge a
un'impresa disperata. Salpa da Montevideo, sfugge alle batterie di
Martin Garcia, sguiscia fra le navi fulminanti della squadra
argentina, passa sotto una tempesta di fuoco a la Boyada, a las
Concas, a Cerrito, e proseguendo per Corrientes, assalito da forze
superiori a Nueva Cava, dopo una resistenza eroica di tre giorni e
tre notti, si salva coi suoi, incendiando le navi. Incalzato dalle
truppe del Rosas, a cui scampa combattendo, ritorna a Montevideo
assediata, sostiene la difesa guidando a sortite temerarie la
legione italiana, salva l'esercito difensore da una ritirata
disastrosa, e assunto il comando d'una nuova flottiglia e risalito
con questa e con parte della legione l'Uruguay, batte il general
Lavalleja all'Eridero, s'avanza sul fiume fino a Salto, e si
spinge per terra fino a Tapevi, dove vince la terribile battaglia
di Sant'Antonio, per cui è proclamato benemerito della
repubblica. E prosegue la lotta intorno a Salto, per terra e per
acqua, finchè, richiamato dal Governo che gli affida nuove
navi e nuove truppe, risale da capo il fiume fino a las Vacas,
vince ancora una volta le schiere riunite dei luogotenenti del
Gomez, e ritorna finalmente nella capitale della repubblica, dove
la sua splendida campagna americana, di cui ogni vittoria ha fatto
palpitare l'Italia, si chiude dopo dieci anni al giungere delle
prime notizie dei moti del quarantotto, che lo richiamano alla
patria.
Fa vela per l'Europa con un
drappello dei suoi legionari e, salvato il naviglio da un incendio
in alto mare, arriva a Nizza, abbraccia la sua vecchia madre e va
a offrir la sua spada a Carlo Alberto. Non accettata l'offerta,
corre a Milano, dove il governo provvisorio gli conferisce il
comando di cinquemila volontari: troppo tardi. Ma risoluto a
combattere a ogni costo, anche caduta Milano, respinto l'ordine
del duca di Genova di scioglier le bande, richiama il paese alle
armi, arringa le popolazioni, tragitta il Ticino, occupa Arona,
risale il lago Maggiore, sbaraglia una colonna austriaca a Luino,
s'impadronisce di Varese e, stretto infine da tre corpi nemici,
s'apre la via con la baionetta a traverso alle truppe del general
d'Aspre, a Morazzone; donde, travestito da contadino, andando
giorno e notte per rupi e per macchie come una fiera inseguita,
ripara in Svizzera ad aspettare gli eventi.
Ma non li aspetta, li provoca; e va
dalla Svizzera a Nizza, e da Nizza, fra gli applausi di tutta la
riviera d'occidente, a Genova, di dove salpa con cinquecento
volontari per portar aiuto alla Sicilia insorta. Trattenuto dal
popolo a Livorno e indotto a prendere il comando dell'esercito
toscano, si conduce a Firenze, donde, mutata idea, parte con la
sua colonna per recar soccorso a Venezia. Fermato dal generale
Zucchi alle Filigare, retrocede e accorre a Roma, e dopo aver
combattuto il brigantaggio e compressa la reazione in quel di
Rieti, nominato generale romano, vince i francesi a Villa Panfili,
va incontro ai Borbonici, li respinge da Palestrina, li batte a
Velletri, s'impadronisce di Rocca d'Arce, ritorna alla
città assediata, dirige con folgorante valore la difesa, e
scampata la vita quasi per prodigio nel combattimento disperato di
Villa Spada, esce dalle mura, quando tutto è perduto, con
la sua legione, per risollevare l'Umbria e le Marche, e sfugge con
una marcia maravigliosa d'accorgimenti, di fatiche e d'audacie a
quattro eserciti, il francese, l'austriaco, il borbonico, lo
spagnuolo, che gli dànno la caccia invano per venti giorni
da Monte Rotondo a San Marino, dove, sotto la protezione della
repubblica, depone le armi.
Ma non rinunzia a combattere.
Ribelle all'arciduca Ernesto che gl'impone il ritorno in America,
scompare di notte, con duecento fidi, da San Marino, guizza fra le
sentinelle nemiche, perviene alla riva dell'Adriatico, e tenta,
con una squadra di barche a vela, di raggiunger Venezia. È
assalito dagli incrociatori austriaci, si getta sulla costa di
Magnavacca, e fugge tra boscaglie e canneti, braccato da gendarmi
e da croati; e gli muor tra le braccia la moglie, a cui non
può dar sepoltura, e riprende la corsa per le paludi di
Ravenna, e, varcato il confine toscano, riesce a rifugiarsi a
Chiavari, dove l'autorità piemontese l'arresta. Costretto a
lasciare il Piemonte, cerca asilo a Tunisi, ma il Bey gli rifiuta
l'asilo; ripara alla Maddalena, dove salva dal naufragio un
canotto sardo, ma il Governo sardo lo sfratta anche dall'isola e
lo manda a Gibilterra; respinto anche da Gibilterra, si rivolge
alla Spagna: lo respinge anche la Spagna; e allora si raccoglie a
Tangeri, dove imprende a scrivere le sue memorie. Ma tutt'a un
tratto getta la penna, e va da Tangeri a Liverpool, e da Liverpool
a Nuova York, dove si mette a fabbricar candele, e di là,
comandante d'un legno mercantile, dopo esser stato in fin di vita
a Panama, al Perù, e dal Perù alla China, e di qui a
Nuova York un'altra volta, e da Nuova York in Europa, dove si da
al cabotaggio da capo, e pianta la tenda nell'isola di Caprera,
donde lo chiama Vittorio Emanuele nel cinquantanove a capitanare i
cacciatori delle Alpi.
Scoppiata la guerra, con una
brigata di tremila e cinquecento cacciatori, senza un solo pezzo
d'artiglieria, ributta gli austriaci a Ponte di Casale, entra in
Lombardia, batte il nemico a Varese, lo batte a San Salvatore, lo
batte a San Fermo, entra vittorioso a Como, a Bergamo, a Brescia,
donde la sua presenza sola allontana il nemico; passa sotto gli
ordini del re, e si batte ancora una volta prodemente, a Rezzato.
E appena conchiusa la pace, si rimette all'opera. Chiamato dal
Ricasoli, riordina e rianima l'esercito toscano; eletto secondo
comandante dell'esercito dell'Italia centrale, va con due
divisioni, per provocare l'insurrezione nelle Marche, sui confini
pontifici, donde Vittorio Emanuele lo richiama; e a Genova promove
la sottoscrizione per un milione di fucili, e a Torino fonda
l'"Associazione della nazione armata", e, deputato di Nizza, va a
combattere in Parlamento la cessione della sua città natale
alla Francia. Ma dalla riva del Po lo porta un'ispirazione divina
alla riva del mare. Salpa coi mille da Quarto, sfugge agli
incrociatori borbonici, sbarca a Marsala, vince a Calatafimi,
vince a Palermo, vince a Milazzo, passa lo stretto, s'impadronisce
di Reggio, trasvola come un fulmine, spazzando dinanzi a sè
ogni resistenza, da Reggio a Salerno, entra trionfante in Napoli
sotto la minaccia dei forti non espugnati, sconfigge l'esercito di
Francesco II al Volturno, respinge una sortita da Capua, proclama
l'annessione delle due Sicilie, depone la dittatura, rifiuta ogni
ricompensa, e dispare.
Da Caprera, visitata da ammiratori
d'ogni popolo, va, deputato di Napoli, a Torino, a perorar la
causa dei suoi volontari alla Camera, dove solleva una tempesta;
ma si riconcilia col Cavour tre dì dopo, e scampato a un
tentativo d'assassinio nella sua isola, rifiutato il comando
dell'esercito offertogli dagli Stati Uniti, composti
nell'assemblea di Genova i dissidi del partito rivoluzionario,
compie un viaggio trionfale nella Lombardia, preparando in segreto
un colpo di mano contro l'Austria. Fallito questo, corre a Palermo
a lanciare il grido: "Roma o morte", attraversa la Sicilia, salpa
da Catania, sbarca con tremila volontari in Calabria. A Aspromonte
è arrestato dall'esercito regio, ferito, imprigionato,
prosciolto, ricondotto al suo scoglio; dove, estrattagli la palla
dal piede, ma ridotto sulle grucce, dolente ancora, promove una
spedizione per la Polonia insorta; dopo di che, invitato, si reca
in Inghilterra ed entra in Londra fra l'entusiasmo frenetico d'un
milione di creature umane, che lo salutano come un dio. Tornato in
Italia, va a predisporre all'isola d'Ischia, sotto gli auspici del
re, una spedizione in oriente, per suscitare un moto contro
l'Austria nella Galizia e nell'Ungheria; e il disegno va a monte;
ma un altro campo di guerra lo chiama; e alla testa di trentamila
volontari irrompe nel Trentino, si batte contro gli austriaci a
Monte Suello, dov'è ferito di palla a una gamba, si batte a
Vezza, si batte a Condino, espugna il forte d'Ampola,
s'impadronisce di Monte Notta, conquista Monte Giovo, vince a
Bezzecca, e non depone le armi che alle porte di Trento, dove
l'armistizio lo arresta.
Tornato alla sua isola, ne riparte
per fare un viaggio nel Veneto e nella Toscana, predicando una
spedizione su Roma; e migliaia di volontari si movono; ma quando
egli sta per varcare i confini, è arrestato, è
tradotto prigioniero in Alessandria, ricondotto a Caprera, posto
sotto la guardia di nove legni da guerra. Ma invano. Sfugge solo
di notte, in una chiatta, alla vigilanza della squadra, raggiunge
la Maddalena, approda in una barca di pescatori in Sardegna,
arriva ignorato a Livorno e a Firenze, vola nello Stato romano,
vince i pontifici a Monterotondo, s'impadronisce di Viterbo, di
Frosinone, di Velletri, e marcia su Roma. Soverchiato a Mentana,
in una battaglia accanita in cui cerca invano la morte, da
pontifici e francesi riuniti, e ripassato il confine, è
arrestato alla stazione di Filigne, messo di forza in un treno,
portato prigioniero al Varignano, e ricondotto un'altra volta a
Caprera; di dove un'altra volta fa vela per accorrere in aiuto
alla Francia repubblicana, invasa dai tedeschi. E batte i tedeschi
a Chatillon-sur-Seine, vince a Prenois, vince nelle fazioni di
Saint-Martin e di Saint-Symphorien, difende per tre giorni
Digione, strappa una bandiera al nemico a Pouilly, e glorioso di
venti combattimenti, in cui non toccò una sconfitta, eletto
deputato d'Algeri, pagato d'ingratitudine all'assemblea di
Bordeaux, rinuncia alla deputazione e ritorna, addolorato, ma
senza rancori, al suo scoglio.
Ed ora non combatterà
più: la sua grande epopea di capitano è finita. Ma
non quella di tribuno della patria e di apostolo universale di
giustizia e di pace. Parla una parola alta e serena nella
quistione formidabile che sorge con l'"Internazionale", va a Roma
a caldeggiare la sua antica idea dell'incanalamento del Tevere, si
pone a capo della "Lega della democrazia", va ancora una volta a
Milano per la commemorazione solenne di Mentana, tuona di sdegno
generoso contro l'invasione francese di Tunisi, torna per l'ultima
volta nella sua amata Palermo per il festeggiamento dei Vespri, si
vale ancora negli ultimi giorni di ogni ora di respiro che gli
dà la malattia di cui morrà per far sentire la sua
voce in pro degli oppressi d'ogni paese e predicar la speranza
d'un miglior avvenire per la sua Italia e pel mondo; e finalmente,
un mese prima di compiere il settantacinquesimo anno, la sera del
due di giugno del 1882, rende l'anima grande all'infinito. Quanti
secoli trascorreranno prima che si chiuda in un'altra vita umana
una così maravigliosa istoria di lotte, d'affanni,
d'ardimenti, di miracoli di prodezza, di genio e di forza, rivolti
tutti a un così santo fine e coronati da una così
luminosa fortuna? Oh, glorifichiamolo pure. Nessuna lode è
soverchia sulla sua tomba. Dante gli avrebbe dedicato un canto,
Michelangelo una statua, Galileo una stella.
E ora che altro si può dire,
se non quello che tutti sanno: che il merito supremo di Garibaldi
fu di aver reso popolare il movimento italiano? E diciamolo pure,
poichè è una di quelle verità che il consenso
comune appunto rende sempre grato il ripetere. Togliamo col
pensiero Garibaldi dalla storia della nostra rivoluzione. Non si
può giudicare storicamente impossibile che la liberazione e
l'unificazione d'Italia si compissero senza il concorso dell'opera
sua. Noi possiamo supporre l'esercito dei Borboni vinto e disperso
in tre grandi battaglie successive dall'esercito di Vittorio
Emanuele, sceso dalle Marche, o l'insurrezione di Sicilia
vincitrice, qualche anno più tardi, con l'aiuto di quella
stessa brigata Reggio che Garibaldi aveva chiesto al re, comandata
da un generale dell'esercito, e sbarcata a Marsala dalla regia
flotta. Ma che immenso vuoto non ci ritroveremmo dinanzi! Possiamo
raffigurarci Napoli senza il Vesuvio e Venezia senza San Marco? Il
popolo italiano sarebbe ugualmente redento e uno; ma quasi ci pare
che sarebbe un altro popolo; poichè nè Vittorio
Emanuele, nè il Cavour, nè il Mazzini avrebbero
potuto destargli nell'animo la fiamma per cui la nostra
rivoluzione divampò davanti al mondo come un incendio. E in
fatti: il Mazzini era un apostolo, non potente che per la forza
della parola, la quale nè a tutti giunge, nè da
tutti è intesa, ed ha effetti sparsi e lenti;
oltrechè al Mazzini mancò la virtù
abbagliante della fortuna. Il Cavour era un grande uomo di Stato;
ma solitario e quasi invisibile al popolo nella sua altezza,;
nè la natura del suo genio nè quella della sua opera
eran tali da essere pienamente comprese e da poter suscitare
l'entusiasmo delle moltitudini lontane dal campo in cui egli
operava. Vittorio Emanuele era un re popolare e guerriero; ma non
era figlio del popolo; e la sua forza, la sua azione era
così complessa e commista con quella del suo governo,
informata d'elementi così diversi, palesi ed occulti,
facili e non facili a comprendersi e a valutarsi, che non potevano
le plebi, in specie quelle del mezzogiorno, vedere come incarnata
in lui la rivoluzione d'Italia e quasi inviscerarsi la sua gloria
e sentire nel proprio sangue il suo sangue. Ora Garibaldi raccolse
in sè tutto quello che a quei tre italiani insigni
mancò. Ebbe la fortuna che fallì al Mazzini,
l'aureola maravigliosa che non ebbe il Cavour, e quel fascino di
guerriero combattente per impulso e vincente per genio e per
valore proprio che non poteva avere Vittorio Emanuele; e aggiunse
a tutto ciò una potenza infinita di farsi amare. Questo era
necessario all'Italia. Dieci milioni d'italiani, sciogliendosi
dall'odio mortale che li aveva scatenati contro la tirannia
borbonica, si ritrovarono con l'immenso amore di Garibaldi nel
cuore. Egli non fu soltanto una grande forza: fu
l'originalità, la bellezza, la poesia della rivoluzione
italiana. Egli ebbe questo grande merito in faccia alla storia,
come disse in Germania un illustre apologista del conte Cavour:
quello d'insegnare ai suoi contemporanei e alle future generazioni
la consolante verità: "che anche in tempi grandemente
civili la santa energia d'una passione primitiva è una
potenza fra gli uomini".
E quale potenza! Essa fu tale che
l'averne veduto i segni incantevoli è per gli italiani
della generazione che tramonta uno dei più grandi conforti
della vita. E giova notare prima d'ogni cosa che Garibaldi
rinfiammò all'improvviso l'entusiasmo delle moltitudini in
un momento in cui ve n'era bisogno supremo. La pace di
Villafranca, troncando all'improvviso sul Mincio la guerra che
doveva "liberar l'Italia fino all'Adriatico" ci aveva posti in
condizioni difficili e tristi. Minacciati dall'Austria, con la
quale, anche più forte sul Mincio che sul Ticino, non
potevamo misurarci da noi soli; diffidenti della Francia, che si
temeva non paga della Savoja e di Nizza, ma intesa a chiedere
nuove terre in compenso della sua protezione necessaria; irritati
contro il governo di Torino che pareva peritoso, quasi
restìo, per ragioni non da tutti comprese, all'annessione
delle provincie centrali; ci trovavamo in uno stato tanto
più intollerabile in quanto, pure avendo coscienza che non
potesse durare, non vedevamo per qual via si potesse uscirne.
Giorno per giorno sbollivano gli entusiasmi, crescevano i sospetti
e s'inasprivano le passioni partigiane, aggravando le
difficoltà che già da ogni parte premevano l'opera
amministrativa del nuovo Stato, sospinto avanti e rattenuto a un
punto da forze opposte. A noi che non misuriamo il tempo con la
impazienza ardente che agitava gli animi allora pare un assai
breve tratto quello che trascorse dal luglio del '59 all'aprile
del '60; ma allora i mesi contavano per anni. Parevan già
tanto lontane, dopo men d'un anno, le belle vittorie di Palestro e
di San Martino, dopo le quali nessun fatto era più seguito
che facesse rialzar la fronte agli italiani, e riaccendesse la
loro fede nel proprio ideale e nella propria forza! Che erano i
moti per cui s'eran liberate le provincie centrali? Avvenimenti
fausti e onorevoli; ma non glorie guerriere. Dopo quella grande
ebbrezza dei trionfi sul campo riusciva meschina e quasi vile
l'azione diplomatica lenta, circospetta, coperta, che dava
alimento ai più strani timori e offriva bersaglio alle
più nere accuse. Occorreva qualche grande cosa. Il popolo,
la gioventù sentiva questo bisogno, e fremeva, e si volgeva
intorno, rodendo il freno, aspettando che da qualche parte
s'alzasse una bandiera e suonasse uno squillo di tromba. Era un
ribollimento di desideri, d'ire, di rammarichi, di discordie, che,
se tra poco non si fosse aperto loro una via di fuga, sarebbero
forse scoppiati in guerra civile.
E allora comparve Garibaldi.
Diciamo: comparve allora, perchè la sua vera e grande
popolarità non cominciò per tre quarti d'Italia che
nel 1860. Allora si sentì quella sua voce magica che a
traverso al mar Tirreno chiamava la gioventù italiana alla
santa crociata di Sicilia, e c'era giunta appena la notizia del
suo ardimento, che due vittorie inaspettate, l'una sull'altra,
come due colpi di fulmine, facevano un'eco immensa al suo grido.
Chi era questo Garibaldi? Molti, nel popolo, non lo sapevano
ancora che vagamente. Un nizzardo, un soldato, che aveva
combattuto in America e a Roma, quello che aveva condotto gli
emigrati lombardi nel '59, un uomo biondo, vestito di rosso,
buono, intrepido, povero, con una voce e uno sguardo che
affascinavano, un paladino di tutti gli angariati, un vendicatore
di tutte le ingiustizie, che con una mano gittava davanti a
sè delle folgori e con l'altra accarezzava la fronte ai
feriti e spandeva consolazioni e speranze. E allora si videro
prodigi. Il suo nome passava come un soffio di fuoco sul paese, e
per lui gli operai lasciavano le officine, gli studenti
disertavano le scuole, i signori abbandonavano i palazzi e le
ville, e le spose dicevano: - Va! - le madri non osavano di
piangere, le fidanzate baciavano la sua immagine, i vecchi
benedicevano, i fanciulli fremevano. Partire, raggiungerlo,
attirare un suo sguardo combattendo, una sua parola cadendo,
morire vedendolo passar vittorioso da lontano, era il sogno di
tutti i giovani d'Italia. L'entusiasmo per lui spegneva in ogni
parte passioni ignobili e bassi pensieri, rialzava cuori di
scettici e anime di disperati, suscitava come nembi di scintille
propositi di sacrificio e virili ambizioni in tutti gli strati del
mondo sociale. Ed anche fuori della società. E si videro in
conventi solitari monaci rozzi e inerti, che non avevano mai amato
nè compreso la patria, comprenderla ed amarla per la prima
volta nel suo nome, e compiere o meditare il proponimento d'andar
a combattere al suo fianco. E perfino nelle carceri e nelle
galere, dove freme l'omicida non pentito, meditando nuovi delitti,
si vide qualche volta anche in quel fango umano, tocco dal caldo
raggio della sua gloria, sbocciare il fiore d'un entusiasmo
generoso, si sentì anche dalle bocche più nefande
pronunciare il suo nome come una parola di redenzione e d'amore.
Se altro egli non avesse fatto sulla terra, avrebbe diritto per
questo solo alla benedizione della patria e alla gratitudine del
mondo.
E tutto questo, che par leggenda,
è storia, o meglio: è l'una e l'altra cosa ad un
tempo, poichè di leggenda la vita di Garibaldi presenta
già la vaga e grandiosa bellezza, nè ha più
bisogno, come quella d'altri uomini somiglianti, d'acquistar nulla
col tempo dall'immaginazione umana. Che cosa le potrebbe
aggiungere, in fatti, la fantasia popolare se già ora la
mente del popolo stenta a crederla e ad abbracciarla intera nella
sua realtà quasi ancora parlante e visibile? E la maggior
prova di questa apparenza di prodigio storico che ebbe Garibaldi
nel tempo nostro è la difficoltà quasi insuperabile
che trovarono molti contemporanei della classe colta, anche
d'intelligenza non volgare, ma chiusa in uno stretto cerchio di
idee, e d'animo non ignobile, ma freddo, a comprenderlo e ad
ammirarlo. Non iscoprivano la ragion vera della sua enorme
potenza, che attribuivano a una quasi miracolosa cospirazione di
fortune propizie, in cui non avesse parte alcuna, o poco
più che nulla, la virtù sua; scambiavano i suoi
eroici errori di fanciullo sublime con aberrazioni vanitose d'un
cervello angusto; giudicavano mostruosità quello che in lui
era grandezza, e su questa pedanteggiavano, giungendo fino a
riprovare come sconveniente e risibile la sua foggia singolare di
vestire, divenuta ora gloriosa e incancellabile dalla mente delle
generazioni come la divisa del Buonaparte, poichè non
comprendevano da che varie e intime ragioni di sentimento poetico
della vita, di amabile giovinezza d'animo, di sprezzo istintivo
d'ogni servitù e d'intuito dell'istinto artistico del
nostro popolo anche quella sua originalità derivasse.
Facevano rispetto a lui come gli accademici arcigni che appuntano
trionfando le offese alla geografia nell'Ariosto e gli errori di
gusto nello Shakespeare. Guardandolo con occhio falso vedevano un
Garibaldi falso, un grand'uomo sbagliato, portato sugli altari
dalla passione di parte degli astuti e dall'idolatria cieca
degl'ingenui. E di costoro non è tutta spenta la razza. Ma
furono o saranno severamente puniti dal loro medesimo errore:
morirono, moriranno senz'aver amato Garibaldi.
Tutti costoro, e anche molti di
quelli che nel campo politico opposto l'ammirarono, avrebbero
voluto un Garibaldi prudente e docile, una specie di "generale a
disposizione del ministero" che non movesse passo se non per
ordine e parlasse il linguaggio ponderato d'un diplomatico; che
non fosse altro, insomma, che una bella insegna di rivoluzione, la
quale il Governo potesse sventolare a tempo opportuno e ripiegare
quando gli paresse. Ma il Garibaldi potato e castigato che essi
sognavano era un Garibaldi impossibile. Egli non poteva essere se
non quello che fu. Alle sue biasimate ribellioni egli fu mosso da
quella stessa virtù che lo spinse a tutti quegli altri atti
audaci, fortunati e lodati, coi quali rese i più grandi
servigi al proprio e ad altri paesi; e quella virtù era una
fede assoluta nella forza d'entusiasmo e di sacrificio del suo
popolo, nella invincibilità della causa della giustizia e
nel favore della fortuna che fin dalla prima giovinezza gli aveva
"porto la chioma". Egli credeva fermamente che allo scoppiar di
una guerra contro l'Austria, contro la Francia, anche contro
l'Europa intera confederata a comprimere il nostro diritto,
sarebbero sorti dalla terra italiana milioni di uomini prodi come
lui, risoluti a una resistenza disperata, lieti come lui di dar la
vita alla patria. Capace egli di far miracoli, credeva nei
miracoli della sua nazione. Come pretendere che un tal uomo avesse
dell'opportunità politica, dell'importanza dei trattati,
della necessità delle alleanze, delle tradizioni, della
legalità, delle convenienze diplomatiche lo stesso concetto
che n'avevano i ministri della monarchia? E anche nelle due
imprese temerarie che gli fallirono, e per cui fu tre volte
prigioniero, per quanta parte non fu indotto a lanciarsi avanti e
a persistere dall'incertezza ambigua del governo, che non s'oppose
ai principii, e gli gridò: - Indietro! - troppo tardi,
lasciando credere fino all'ultimo a milioni d'italiani che sotto
al divieto palese ci fosse un consenso occulto, conforme alla
doppia politica ch'egli aveva seguìto anche riguardo
all'impresa di lui più fortunata? Fu chiamato Garibaldi
fulmine di guerra, e ai suoi scoppi improvvisi e agli incendi che
suscitò e alle distruzioni che fece l'Italia deve in parte
la propria redenzione; ma il fulmine nè si guida nè
si corregge; non si doma che disperdendone la forza nella terra.
In verità, noi crediamo che, considerando l'indole e le
virtù senza le quali Garibaldi non sarebbe stato chi fu, e
i procedimenti dei governi ai quali egli servì e
disobbedì a volta a volta, e la forza immensa ch'ebbe nel
pugno, le generazioni venture si maraviglieranno che ei non abbia
fatto della legge un assai maggior strazio di quello che fece.
Ma non è che le sue
intemperanze e le sue temerità, perchè furon cagioni
di turbamenti e di pericoli, non abbiano recato al paese altro che
danno. Chi non comprende ora quanto abbia giovato ad affrettare il
compimento della liberazione della patria quella voce che gridava
infaticabilmente: - Armiamoci, scotiamoci, operiamo, - che
manteneva in continuo fermento la gioventù come il tonare
non interrotto d'un cannone, che, predicando senza posa la fede e
l'audacia, faceva l'effetto come d'uno sprone infocato,
perpetuamente confitto nel fianco della nazione? Chi può
negare che abbian concorso a persuadere il mondo che Roma era
necessaria all'Italia anche quelle due disperate imprese del
sessantadue e del sessantasette con le quali egli provò che
l'Italia non avrebbe avuto mai pace senza la sua capitale storica,
che l'incendio cento volte soffocato si sarebbe cento volte
riacceso, che Roma non italiana sarebbe stata un'eterna minaccia
di guerra all'Europa? Chi può affermare che l'esercito
sparso degl'impazienti e degli audaci non sarebbe stato causa di
ben più gravi turbamenti interni se non l'avesse contenuto
la speranza, anzi la certezza che nessuna occasione d'operare,
anche arrischiatissima, egli avrebbe lasciato sfuggire, che, lui
vivente, una politica indietreggiante non sarebbe stata possibile
mai, e una politica immobile non avrebbe mai potuto durare, se
anche fossero saliti al potere dei nemici mascherati della
rivoluzione? Ogni volta che il paese, irritato degl'indugi e della
pazienza dei governanti, incominciava ad agitarsi, egli si gittava
innanzi a capo basso, urtava contro un muro di bronzo, e cadeva:
era per molti un delitto, per tutti un dolore; ma era uno sfogo,
una protesta, una sfida, un grido che non moriva senz'eco nel
mondo. Caduto il ribelle, riusciva a tutti più evidente e
imperiosa la necessità di raggiunger lo scopo comune, una
scintilla della fiamma soffocata penetrava anche nell'animo dei
più freddi, la diplomazia si riscoteva come per una
sferzata, sulle traccie dell'audacia fallita faceva un passo
innanzi perfin la prudenza, e la paura si vergognava. Egli viveva
ancora, che già ci appariva sotto un tutt'altro aspetto
anche quello che fu giudicato il suo più grande errore. Nel
1870, su tutte le vie per cui l'esercito italiano moveva a Roma,
precedeva le colonne, avanguardia ideale, Garibaldi, e segnavano
loro il cammino le gocce di sangue stillanti otto anni innanzi
dalle sue carni.
Ma anche quelli che giudicano
più severamente le sue temerità e le sue ribellioni
sono forzati a riconoscere l'alta chiaroveggenza politica di cui
egli diè prova, il sapiente impero che seppe esercitare
sulle proprie passioni nei momenti supremi. È questo uno
dei caratteri singolari della sua grandezza: di essere ammirabile
per le virtù opposte. Quando è necessaria l'unione
di tutte le forze della patria contro lo straniero, egli, nemico
della causa dei re, offre il suo braccio e quello dei suoi soldati
d'America a un re, che "s'è fatto il rigeneratore della
penisola" e per quel re "è pronto a versare tutto il suo
sangue". Dieci anni dopo, per la stessa necessità della
patria, è tra i primi a fondare quel nuovo "partito
nazionale" che stringe intorno alla monarchia i più alti
ingegni e le spade più prodi, devote fino a quel giorno
all'idea repubblicana. Con la bandiera di Vittorio Emanuele parte
per la grande impresa, nel 1860, e, non accecato, ma illuminato
dalla fortuna, opera per modo in Sicilia che basta per due mesi la
sua autorità a tenervi luogo di governo e di leggi; onde il
conte di Cavour, che da prima temeva, finisce con scrivere al
Persano: - Se Garibaldi non vuole l'annessione immediata, sia
lasciato libero di fare a suo talento. - Nell'ottobre dell'anno
stesso, a Napoli, in quel momento terribile, in cui, disputandosi
l'animo suo i fautori del plebiscito immediato e quelli
dell'elezione di un'assemblea, corse pericolo l'unità
nazionale, fu la sua improvvisa ispirazione: - "non voglio
assemblea, si faccia l'Italia" - fa questo grido suo che
salvò l'Italia. Fu nel 1861 l'inaspettata, saggia,
nobilissima temperanza con la quale egli rispose a una lettera
dura e provocante del più popolare generale dell'esercito,
quella che troncò sull'atto un conflitto che poteva esser
principio d'un periodo funesto di discordie e di guai. Nel 1862,
dopo il fatto di Sarnico, spontaneamente egli si ricrede intorno
all'opportunità d'una spedizione contro l'Austria, desiste
dal proposito, sconsiglia gli arrolamenti, e con saggie parole
dissipa dall'orizzonte ogni nube. Quattro anni dopo, quando riceve
l'ordine di ritirarsi dalla frontiera del Tirolo, nel punto che
gli si apre dinanzi, dopo tanti stenti e sacrifici sanguinosi, il
periodo più facile e splendido della guerra, con infinito
rammarico, ma senza un momento d'esitazione, senza una parola di
lagnanza, obbedisce. E durante il suo viaggio trionfale in
Inghilterra, benchè porti in cuore un alto proposito,
benchè patriotti ardenti d'ogni paese lo stringano e mille
occasioni lo tentino, non profferisce una sola parola che possa
provocare contro lo Stato che l'ospita la più lieve
lagnanza dei governi contro i quali è solito scatenare i
suoi sdegni. E anche nell'ultimo anno della sua vita, quando
ancora bollente d'ira per l'offesa subita dall'Italia a Tunisi,
giunge a Palermo per la commemorazione dei Vespri, quando si teme
da tutti gli amanti della pace ch'egli prorompa contro la Francia
in parole terribili, per cui si risollevino le passioni che
già s'eran quietate, egli, con sovrana saggezza, rivolge al
popolo palermitano un discorso, nel quale della Francia non
pronuncia il nome e della quistione di Tunisi tace. Bene dice il
più appassionato dei suoi apologisti che egli "poteva
inveire, minacciare, gittare in mezzo alla nazione parole tremende
ch'eran pericolosi tizzoni d'incendio, ma che quando li vedeva
divampare in fiamme minacciose al sacro edificio della patria,
accorreva per il primo a soffocarli col piede" e vero è
ciò che quegli soggiunge che "anche i suoi più
esaltati e temerari seguaci non avrebbero osato mai di lanciare il
grido ultimo della discordia, di dare il segnale irrevocabile
della guerra civile, mai, fin ch'egli viveva". Sangue di guerra
civile corse una volta sola sotto i suoi occhi, a Aspromonte. Ma
egli ordinò di cessare il fuoco ai primi colpi, e con che
nobili parole, pure giustificandosi in parte, confessò il
suo errore nelle sue memorie. - "Io dovevo andarmene prima
dell'arrivo della truppa, e non lo feci. - Avrei dovuto anche
frazionare di più la gente - e non lo feci. - Tutte le
misure che potevano allontanare la catastrofe io avevo in mente di
eseguire, ma ciò doveva essere eseguito con la
celerità che mi aveva servito in altre occasioni.... e non
lo feci". - Quanta tristezza, che sincero e profondo rammarico
nella ripetizione di quelle tre semplici parole! Rammarico tanto
più generoso in quanto egli avrebbe invece potuto dire: -
Se m'avessero intimato la resa prima d'assalire, io mi sarei
arreso, avanti che partisse un colpo di fucile. - Se non ci
fossero corsi addosso appena ci videro, non si sarebbe sparso
sangue. - A farci deporre le armi bastava che ci lasciassero il
tempo di riaverci dalla sorpresa.... e non lo fecero.
L'impero ch'egli esercitò
sulle proprie passioni nei momenti supremi - si disse. Ma noi
crediamo che questa espressione non dica il vero. A ciascuno di
quegli atti che furon detti di ribelle e pericolosi alla patria
egli fu mosso dalla profonda coscienza di far cosa utile alla
patria, che è quanto dire, di compiere un dovere che a lui
solo era imposto; e non desistette, non si ritrasse mai se non
quando fu persuaso d'essere in errore. Quando la somma idea del
vero, del giusto, dell'utile gli balenava, cessava in lui ogni
conflitto della volontà con la passione, poichè una
passione che la sua coscienza giudicasse contraria all'interesse
della patria nell'anima sua non capiva. Non domò sè
stesso in quei momenti supremi; ma comprese, si ravvide e cedette
senza sforzo agl'impulsi mutati e concordi della sua ragione e del
suo cuore. Ricordiamo quello che fu uno dei giorni più
gloriosi della sua vita e dei più fortunati della nostra
storia, quello splendido 26 ottobre del 1860, quando nel piccolo
villaggio di Cajanello le avanguardie delle sue legioni
vittoriose, venendo da Capua, e i primi battaglioni dell'esercito
regio, calando da Venafro, s'incontrarono. Mai non
rischiarò il sole d'Italia un così bello e fausto
incontro di vincitori. Smontato di sella, in mezzo ai suoi
ufficiali immobili, Garibaldi aspettava. L'alba imbiancava
l'Appennino e il vecchio castello di Teano e tutto quel bel paese
austero della Campania, su cui da pochi giorni, dopo molti secoli,
spirava l'aria della libertà. Qua e là per la
campagna, tra i vapori del mattino, fiammeggiavano da una parte le
divise dei volontari, sventolavano dall'altra i pennacchi dei
bersaglieri. Era da un lato la rivoluzione, dall'altro la
monarchia, tutt'e due coronate dalla vittoria, piene di forza e di
alterezza, memori entrambe di gelosie e di contrasti recenti, non
riconciliate in fondo al cuore, presaghe di discordie e di
conflitti futuri. Nell'uno e nell'altro esercito regnava il
silenzio di un'aspettazione solenne. E Garibaldi, chiuso nei suoi
pensieri, aspettava e taceva. A un tratto echeggiarono le fanfare
reali e corse un fremito per i due campi. Che sarà passato
per il cuore di Garibaldi, sia pure per la durata d'un lampo, al
suono di quelle trombe? A quell'annuncio che segnava la fine del
suo comando supremo, che suonava come un superbo alto là
opposto al suo corso di trionfatore e gli metteva di fronte
un'altra gloria a cui era necessità di vita l'offuscare la
sua, forse a quell'annunzio egli si sentì rialzare
nell'anima tutto il suo passato, e il rancore per la sua Nizza
perduta, e l'ira per la via di Roma preclusa, e la coscienza
d'aver ancora nel pugno mezza Italia, tutto questo forse, confuso
in un impeto di ambizione e d'orgoglio, gli sollevò il
sangue e gli velò la ragione.... Certo, ciò
supponendo, può parer più ammirabile lo slancio con
cui, cacciato avanti il cavallo, egli tese la mano e gridò:
- Salute al re d'Italia! - e si comprende come s'induca più
d'un oratore a trarre da una tal supposizione un forte effetto
drammatico in onore di lui. Ma noi crediamo che non uno di quei
pensieri, non un'ombra di quei sentimenti sia passata nel suo
cuore in quel punto. La sua volontà era già ferma,
il suo animo era già quieto fin da quando un'illuminazione
improvvisa della mente gli aveva fatto dire a Napoli: - "Non
voglio assemblea, si faccia l'Italia". - No, il suono di quelle
trombe non turbò neppure un istante la serenità
dell'anima sua, lo spettro della guerra civile non
s'affacciò neppure alla sua mente; non ebbe bisogno di
riflettere, non gli occorse di vincer sè stesso; egli fu
grande senza lotta. Un solo pensiero egli ebbe in quel momento, e
lo espresse: il desiderio d'affratellare sui campi di battaglia i
volontari e i soldati, di proseguir la guerra alla testa dei
liberatori di Napoli, al fianco dei liberatori delle Marche,
avanguardia di Vittorio Emanuele, antesignano degli eserciti
uniti. Presentendo imminente una battaglia al Garignano, chiese al
re l'onore del primo scontro. Non l'ebbe. "Egli si batteva da
troppo lungo tempo, le sue truppe erano stanche, si doveva mettere
alla riserva". Questo solo gli turbò la serenità
dell'anima. Ma fu grande anche allora. Più grande d'ogni
più sdegnoso sfogo di dolore fu la tristezza rassegnata di
quelle semplici parole: - "Ci hanno messi alla coda" - con le
quali egli annunciò la sera ai suoi fidi il suo splendido
sogno svanito.
Singolarissima natura, semplice
nell'apparenza, ma nel fondo così complessa, dotata di
virtù e capace di passioni così rare a trovarsi
congiunte in un uomo, che, vivo ancora, egli può esser
giudicato a volta a volta dagli stessi giudici in cento modi
dissimili, apparire ai lontani, sotto certi aspetti, infinitamente
diverso da quello che è, rivelare anche a chi gli vive
accanto da anni, con parole inaspettate e atti imprevedibili, lati
nuovi e mirabili di sè stesso, essere nel suo paese
medesimo adorato, odiato, benedetto, vilipeso, levato al cielo
come il più alto benefattore del suo popolo e segretamente
desiderato morto come un flagello vivente, come una
calamità incarnata della sua patria. Lo credono i
più d'animo incerto, pieghevole a tutte le pressioni di chi
lo circonda, operante quasi sempre più per impulso altrui
che di moto proprio; ed è invece così tenace nelle
sue idee e forte nelle sue volontà, e sta così
fieramente in difesa dell'indipendenza loro, che il discutere con
lui - come dice uno dei suoi biografi - anche per chi egli
più stima ed ascolta, è la più ardua, la
più erculea delle imprese. - E così forte di
volontà nelle cose grandi, è nelle piccole il
più arrendevole uomo che sia stato mai, incapace di
rifiutare un favore, che anche gli costi un sacrificio, a chiunque
lo chiegga con dolcezza, facile come un fanciullo a lasciarsi
ingannare da ogni più lieve apparenza di generosità
e di rettitudine. Ha trascorso quasi tutta la sua vita fra le
lotte e il sangue, in faccia alla morte, esperimentando tutte le
forme dell'iniquità e dell'efferatezza umana; e ha serbato
una così dolce mitezza d'animo che si leva una notte
d'inverno per andar a cercare un'agnella smarrita, di cui ha udito
il belato fra le rocce della sua isola, e ama gli alberi e i fiori
come creature vive, e si arresta commosso davanti alla bellezza
d'un'aurora o al canto d'un usignuolo, ed espande in versi i suoi
affetti come un innamorato di venti anni. Il fulminatore del
Papato, che vuol fondare la religione del Vero, il flagellatore
furibondo d'ogni superstizione, che è per milioni di
credenti il più sacrilego propagatore di miscredenza
demagogica, crede fermamente in Dio, crede nell'efficacia delle
preghiere di sua madre morta, che gli appare davanti di pieno
giorno, crede trasmigrate in due uccelli che si posano ogni giorno
sul suo balcone le anime delle sue bambine perdute. L'uomo che par
fatto dalla natura alle battaglie e alle tempeste, che fa sua la
sentenza del capitano spagnuolo: - "la guerra è il vero
stato dell'uomo", - e al quale si direbbe che l'alito immenso
delle moltitudini debba essere un elemento necessario dell'aria
che respira, ama invece di così profondo amore il
raccoglimento e la solitudine, che, ogni volta ch'ei possa,
frappone il mare fra sè e il mondo, e vive per mesi e per
anni nel silenzio d'un'isola deserta come chi a una tal vita, e
non ad altra, sia nato, e da quella non uscito mai che per forza
degli eventi, a malgrado proprio, e facendo violenza alla sua
natura. E quest'uomo stesso, che ha un così grande bisogno
di pace e di riposo del corpo e dello spirito, nè l'uno
nè l'altro riposa neppur nella solitudine della sua isola,
dove lavora infaticabilmente del braccio e del pensiero: studia
agricoltura, dissoda la terra, alleva animali, scrive romanzi e
memorie, risponde a epistole infinite, volge in mente mille
disegni, tenta tutti i problemi, incita all'opera quanti conosce.
E questo, finalmente, è anche più mirabile. Salito
da natali oscuri a un'altezza che nessuno raggiunse
nell'età sua, vissuto tanto da veder avverato, e in gran
parte per sua virtù, quello che alla sua giovinezza era
parso un sogno, la redenzione d'Italia, divenuto oggetto
d'ammirazione e d'amore a tutti i popoli, egli che potrebbe godere
serenamente la sua gloria, considerando la propria missione
compiuta e confidando che quanto rimane a fare altri faranno, egli
no, egli, più grande dell'opera propria, dello stato
presente non s'appaga; e non solo dello stato del suo paese, che
non vede potente e felice come aveva sognato, ma dell'andamento
delle cose nel mondo intero; e d'ogni grande quistione che resti a
risolvere in Italia o altrove si affanna, e ad ogni grido di
sventurati e d'offesi che da qualunque parte gli giunga
s'impietosisce e si accora, e impreca ai violenti, tuona contro i
ricchi, saetta gl'ignavi, lancia anatemi, invoca riforme; e
dimentico della sua gloria, parendogli di non aver fatto nulla
perchè non ha fatto tutto, si tormenta, si rattrista,
s'inasprisce il sangue, è infelice. Maravigliosa l'anima
sua come la sua vita. Marinaio, negoziante, maestro di scuola,
lavoratore della terra, cospiratore e generale, corsaro e
dittatore, liberator di popoli e scrittore di romanzi,
seguìto come un nume e arrestato come un bandito, potente
come un re e povero come Giobbe, chiamato il leone, il
filibustiere, "Santo Garibaldi", eroe, fanciullo, mago, matto,
anticristo, mandato da Dio. Avranno ragione i posteri che diranno:
- è un mistero.
E qui ci arrestiamo perchè a
spingerci più oltre nello studio dell'anima di Garibaldi ci
manca l'ardimento e l'ingegno. Per compiere questo studio
degnamente, per illuminare tutta quanta agli occhi nostri la
grande figura di lui, dovremmo, prima di tutto, andar a cercare
l'origine della maggior parte delle sue idee politiche, sociali,
morali, e anche di molte consuetudini della sua vita privata, in
quella specie di evo medio del nuovo mondo, in quel caos ardente
di popoli giovani, selvaggiamente indomiti, spensierati ed eroici,
agitantisi nella ricerca tumultuosa d'una forma civile di
società e di governo e lottanti a un tempo contro la
natura, la barbarie, l'anarchia e la tirannide; in mezzo ai quali
egli temprò l'animo e la spada e si vestì
d'un'armatura di gloria per le future guerre d'Italia. Dovremmo
spiegare come nei grandi viaggi oceanici, nei lunghi silenzi
pensieroi di marinaio innamorato del mare e del cielo, e uso a
contemplare la società di lontano, a traverso al desiderio
e alle immagini dolci e care dei ritorni, sia potuto sorgere in
lui e farsi così saldo, da resistere all'urto d'ogni
più dura esperienza delle cose e degli uomini, quel suo
ideale d'un'umanità semplice e buona, d'una società
rinnovata dalle fondamenta, retta dall'amore più che dalle
leggi, e quasi vivente nell'innocenza dell'età primitiva;
al quale accennava di continuo in forma vagamente profetica, quasi
che temesse, determinando i propri pensieri, di distruggere in
sè l'illusione amata. E ancora, in questo suo ideale
splendido e fermo dovremmo dimostrare la ragione prima di quello
sdegno amaro e generoso che lo dominò nell'ultimo periodo
della vita, quando, dopo aver tanto operato per la patria, egli
vide il moto maraviglioso della rivoluzione nazionale arrestarsi
all'unità e alla libertà politica, lasciando
qual'era la miseria delle plebi, permanenti l'ignoranza e la
superstizione, intatti istituti decrepiti e privilegi odiosi e
mille avanzi enormi e sinistri del passato, ch'egli credeva
possibile spazzare a colpi di decreti e di leggi; e che questo non
si facesse, gli pareva delitto di principi, tradimento di
ministri, perfidia di parlamenti, stoltezza e ignavia codarda di
popoli. E in fine, in quella sua cultura varia e strana, piena di
oscurità e di lacune, nella quale s'univano la poesia,
l'agronomia e la matematica, cinque lingue viventi, molte e lucide
cognizioni di scienza militare e di storia antica, e canti interi
di Dante e del Tasso, e con la predilezione del Foscolo, dell'Hugo
e del Guerrazzi l'ammirazione gentile che lo condusse ad
abbracciare Alessandro Manzoni, in quella cultura multiforme e
incompiuta, che gli consentiva le simpatie intellettuali
più disparate e i tentativi letterari più arditi e
diversi, dovremmo rintracciar le sorgenti della sua eloquenza
singolarissima di parlatore e di scrittore, di quel suo stile
ingenuo insieme ed enfatico, rotto e tormentato, splendente non di
rado di selvatica bellezza, e qualche volta terribile, del quale
egli diede saggi indimenticabili in pagine che corruscano e
scrosciano come cateratte di lava, e, supremo saggio, la
sfolgorante allocuzione guerriera ai suoi legionari romani del
'49. E quando il patriotta, l'idealista, l'apostolo, l'oratore, lo
scrittore fossero sviscerati, rimarrebbe pur sempre, oggetto
ammirando di studio, il capitano. E non già per risolver la
quistione, tante volte posta innanzi durante la sua vita da
ammiratori e avversari, se d'un grande capitano egli avrebbe
spiegato le vaste facoltà quando avesse condotto un grande
esercito: quistione accademica e vana. Ma per dimostrare come
dagli stratagemmi fortunati che gli soccorrevano nei combattimenti
d'un pugno d'uomini sulle rive dei fiumi e nelle foreste
dell'America, risalendo a mano a mano alla condotta meravigliosa
della ritirata da Roma, alla mossa stupenda sopra Palermo, alla
battaglia ammirabile del Volturno e alle sapienti campagne del
Tirolo e di Francia, le sue facoltà potenti di capitano si
andassero allargando con l'allargarsi dei campi d'azione, e
sorgessero nuove facoltà sulle antiche con l'ingrandir
delle imprese.
Ma dopo tutto ciò, una cosa
ancora rimarrebbe a spiegarsi, la quale sarà oggetto di
curiosità grande ai nostri nipoti: da che nascesse
veramente la virtù fascinatrice della sua persona prima
ch'egli possedesse quella che gli venne dalla fortuna e dalla
gloria delle sue gesta maggiori. E anche questa spiegazione, come
quella di molte qualità singolari della sua indole,
dovremmo andarla a cercare di là dall'Oceano. Poichè
là la cercai e la trovai in parte, concedetemi qui di
evocare un ricordo personale. Un giorno, in una delle più
grandi e belle città del Rio della Plata, fui condotto,
senza preannunzio, alla sede d'un'associazione popolare; dove, in
due piccole sale bianche s'accalcavano molti uomini silenziosi.
V'era a una parete un ritratto di Garibaldi, e alcune sue parole
di saluto, inquadrate; sulla parete opposta una vecchia bandiera
nera spiegata, con l'effigie del Vesuvio fiammeggiante.
Quell'adunanza era tutta composta di vecchi, i più tra i
sessantacinque e i settant'anni, parecchi ottuagenari; erano
antichi coloni, operai, artefici, commercianti; pochi mulatti e
creoli; tutti gli altri italiani; liguri e piemontesi la
più parte: facce brune, solcate di rughe profonde, grandi
barbe canute, rozze mani e rozzi panni, fronti severe, corpi
ancora gagliardi. L'aspetto di tutti quei vecchi immobili, anche
prima di saper chi fossero, mi destò un vivo sentimento di
simpatia e di reverenza. Immaginate quale fa l'animo mio quando mi
si disse: - Questi sono gli avanzi dell'antica legione di
Montevideo e questa è la loro bandiera: sono i superstiti
di quella memorabile battaglia di Sant'Antonio, di cui fu salutato
l'annunzio in Italia con un grido d'entusiasmo, come quello d'una
prima vittoria della nostra causa: sono quei legionari garibaldini
che, moribondi di fame e di sete, circondati d'agonizzanti e di
morti, trincerati dietro a mucchi di cavalli uccisi, combatterono
da mezzogiorno a mezzanotte contro un nemico quattro volte
più forte e uscirono vittoriosi da una delle più
disperate strette che la storia delle guerre ricordi. La mia
commozione di quel momento ve la potrei esprimere; ma ciò
che in alcun modo non saprei rendere è l'alterezza,
l'ardore, l'irruente eloquenza con cui tutti quegli uomini carichi
d'anni, provati da mille vicende, occupati alcuni di gravi cure, e
parecchi poveri e costretti a un duro lavoro per vivere, si
misero, quasi improvvisamente ringiovaniti, a parlare del loro
antico capitano, prima l'un dopo l'altro, poi dieci insieme, poi
tutti in coro, raccontando, descrivendo, imitando. - Tale era il
suo viso, in questo modo egli camminava e gestiva, così
portava il mantello di "gaucho", così si gettava a nuoto,
così mulinava la carabina. - Io son quello che gli resse la
staffa quando saltò a cavallo per slanciarsi a Las Cruces a
salvare il colonnello Nera, ferito a morte. - Io ero presente
quando prese prigioniero quel carnefice del Millan che lo aveva
messo alla tortura, e disse: - non voglio vederlo: liberatelo! -
Io gli stavo accanto a Sant'Antonio quando quel cavaliere
indemoniato del Gomez si slanciò solo sopra di noi per dare
il fuoco alle nostre tettoie, e Garibaldi ci gridò: -
Risparmiate la vita a quel bravo! - E si vedeva che quei ricordi
erano il loro orgoglio e la loro gioia, che non li avrebbero dati,
come diceva Garibaldi, "per un globo d'oro", che se ne pascevano
da quarant'anni come d'una passione che raddoppiasse loro la vita.
E io li guardavo, li ascoltavo, maravigliato, e mi veniva alla
mente il proverbio turco: - chi ha bevuto una volta alla fontana
di Tofanè è innamorato della regina del Bosforo per
tutta la vita. - Così quegli uomini, che avevano bevuto da
giovani l'incanto di Garibaldi, dopo quasi mezzo secolo lo
sentivano ancora. Egli aveva segnato a fuoco sulle loro fronti il
suo nome, per la vita intera. E via via che s'infervoravano nel
risuscitare memorie, nelle loro parole, nei loro occhi, nei loro
gesti l'immagine del Garibaldi antico mi appariva e con essa la
ragione intima e prima della sua potenza. Sì, era quella
faccia leonina, che accoppiava alla forza d'una testa romana la
bellezza d'un profilo greco, eran quegli occhi azzurri che
mandavano baleni di spada e raggi d'amore, era quella bocca
fremente da cui uscivano squilli di tromba e accenti di
bontà infantile, quell'entusiasmo che non contava i nemici,
quella fortezza che sorrideva fra gli spasimi, quella gaiezza che
cantava in faccia alla morte; e sopra tutto questo, come disse
Giorgio Sand, qualche cosa d'arcano, per cui non gli somigliava
nessuno, e che faceva pensare: la irradiazione dei grandi
predestinati, il riflesso della visione interna d'un mondo.
Sì, era tutto questo. E dissi a quei vecchi: - Continuate:
voi siete le prove palpitanti della sua grandezza; egli è
più vivo nelle vostre parole che in mille pagine di storia;
parlatene ancora; io porterò l'eco della vostra voce nella
nostra patria lontana. - E oggi per la prima volta adempio la mia
promessa. Mandiamo un saluto insieme a quei prodi veterani, di cui
la maggior parte vive ancora: fra venticinque giorni essi
l'avranno, e sarà come un bacio della patria sulla loro
fronte gloriosa.
Ma, come suole accadere delle
persone amate e perdute, che noi rivediamo sempre col pensiero nel
loro ultimo aspetto, più spesso che l'immagine del
Garibaldi fiorente e potente di America, di Roma, di Palermo, ci
si riaffaccia alla mente quella del Garibaldi degli ultimi anni:
quanto mutato! Durante i suoi anni migliori, noi avevamo sognato
per lui una vecchiezza vegeta e lieta, che fosse come uno sfiorire
lento e quasi insensibile della sua maturità poderosa, una
discesa trionfale e serena come d'un astro che tramonta. E la sua
vecchiezza fu invece travagliata e dolorosa. Noi dovemmo vedere
l'infermità che lo torturava alterare a poco a poco,
violare i lineamenti, diventati sacri per noi, del suo viso, e
stender quasi sulla sua fronte il velo della morte prima che ne
fuggisse il lume della vita. Tutti i milanesi e migliaia d'altri
cittadini ricordano, come una delle commozioni più
profondamente pietose della loro vita, lo spettacolo dell'ultima
entrata ch'egli fece nella capitale lombarda per la commemorazione
dell'ultima sua battaglia italiana. Il popolo, che da anni non
l'aveva più veduto, credeva di rivedere, se non il
Garibaldi antico, un'immagine ancora risplendente di lui. Lo vide
invece avanzarsi, portato lentamente da una grande carrozza,
disteso sopra un letto come un ferito a morte, col viso consunto e
cereo, con le mani rattratte e fasciate, col corpo immobile, che a
stento girava ancora il capo bianco e lo sguardo svanito. -
Pareva, - disse uno degli spettatori, - la salma d'un santo
portato a processione da un popolo di devoti, più che il
corpo vivo d'un uomo. - Non era più Garibaldi. La folla
immensa, ch'era preparata a festeggiarlo con la sua gran voce di
mare in tempesta, taceva, costernata, e lo guardava con un senso
di stupore e di sgomento. No, nessuno poteva rassegnarsi a credere
che Garibaldi non si sarebbe più levato da quel simulacro
di feretro su cui si mostrava. Che la legge della vita colpisse
inesorabilmente tutti gli altri, che la vecchiaia, che le
infermità atterrassero col tempo ogni pianta umana
più salda e più superba, si capiva; ma che avessero
incatenato anche quel braccio, spento anche quello sguardo,
prostrato anche quella forza, pareva quasi un errore, una violenza
crudele della natura. Pareva di vedere la gioventù stessa
d'Italia e tutti i nostri passati entusiasmi distesi là
moribondi sotto quella specie di mantello funebre che avvolgeva il
corpo dell'eroe. Le fronti si scoprivano, le mani si tendevano
verso di lui, gli occhi lo accompagnavano, umidi di pianto; ma le
bocche rimanevan mute. Solo un mormorio diffuso e dolcissimo, come
una preghiera sommessa della moltitudine, lo precedeva e lo
seguiva. Eran le voci dei giovani della nuova generazione, che
mormoravano: - Noi che non abbiamo combattuto, non combatteremo
più oramai al suo fianco. - Eran le voci delle donne del
popolo che dicevano ai ragazzi: - Guardatelo bene perchè
presto morirà. - Erano i suoi vecchi compagni d'armi che
sospiravano: - Non lo rivedremo mai più! - Era la
città delle cinque giornate che dava al capitano delle
trenta vittorie l'addio supremo!
E dopo d'allora noi numerammo
trepidando i suoi giorni; ripigliando speranza, non di meno, e
rallegrandoci ogni volta che la gagliarda vitalità del suo
spirito usciva ancora in qualche manifestazione improvvisa; come
avvenne per l'oltraggio fatto a noi dalla Francia col trattato del
Bardo, quando dal suo orgoglio lacerato d'italiano proruppero
quelle parole terribili che scossero per un momento l'Italia, come
un fulmine scoppiato fuor da una tomba. Ma l'opera della natura
proseguiva, senza tregua, spietata e rapida: dopo ognuno di
quegl'impeti, egli ripiegava il suo bel capo stanco sopra il
guanciale come il pensiero nel passato. Perchè
accompagnarlo con la parola fino all'ultimo istante? Quella camera
nuda dove pende a una parete il ritratto di sua madre, quella
finestra per cui appare il cielo sereno e la marina immobile, le
due capinere che, come sempre, si vengono a posare sul davanzale,
e che egli, con voce spenta, raccomanda ai suoi, perchè
continuino a nutrirle quando sarà morto, l'ultimo sforzo
del capo con cui si volta a domandare del suo piccolo Manlio
lontano, l'ultimo atto convulso col quale si asciuga la fronte,
l'ultimo sguardo lento e sorridente che volge ai suoi figli e al
suo mare.... questo quadro è vivo nella memoria del mondo.
Anche nella sua morte, come dice il Thiers della morte di
Napoleone a Sant'Elena, "tutto fu grande, solenne e semplice".
Ed ora quale ultimo omaggio
più degno possiamo rendere alla sua memoria che di
rappresentarci al pensiero quella che dev'essere la prediletta
delle sue visioni nel mondo sovrumano dov'egli sperava di rivedere
sua madre? Rappresentiamoci questa visione, che è della
nostra storia di ieri, e par già d'uomini e di gesta di
secoli remoti; passino a lui dinanzi, ed a noi, i suoi dieci
eserciti, le sue bandiere lacere, i suoi eroi, i suoi fratelli, i
suoi figli, e dai loro cuori valorosi, commossi dal ricordo delle
battaglie sacre, non dalle nostre povere labbra, erompa l'inno
della gratitudine e della gloria.
Ritto, immobile sopra una roccia,
che sovrasta al flutto delle generazioni, bello, biondo, superbo
come negli anni più fiorenti della sua giovinezza, alzando
il viso splendido e dolce di redentore, sorridendo dai fieri e
profondi occhi celesti, con le braccia erculee incrociate sul
petto vermiglio e i capelli d'oro e il mantello grigio dati al
vento, egli li vede trascorrere ai suoi piedi, e rivive con tutta
l'anima nel passato.
Qual capitano al mondo assistette
mai a una sfilata più maravigliosa di armati e di memorie?
Al primo manipolo di combattenti
ch'egli trasse con sè sulla piccola flottiglia della
repubblica di Rio Grande contro i trenta navigli della squadra
imperiale brasiliana, a quello scarso drappello temerario,
così stranamente svariato di riograndesi, d'italiani, di
spagnuoli, di mulatti, di negri, infiammati dal suo primo grido di
guerra per la libertà, fra i quali brilla il viso ardito e
onesto del Carniglia, il gigante genovese, fedele a lui fino alla
morte, - tien dietro impetuosamente, cantando l'inno nazionale del
Figuerroa, sventolando lo stendardo nero in cui fiammeggia il
Vesuvio, la bella legione di Montevideo, dalle assise verdi,
bianche e purpuree, che va a combattere in difesa della sua
"patria d'esiglio"; - italiani d'ogni provincia, ricchi e poveri,
commercianti e avventurieri, antichi sergenti dell'esercito sardo,
futuri generali dell'esercito italiano: il giovane Medici, che
porterà trent'anni dopo alla tomba del Pantheon la spada
del primo re d'Italia, Francesco Anzani, suo fratello d'anima, un
secondo Garibaldi, cui non mancò che la fortuna, Gaetano
Sacchi, il suo primo alfiere, i primi compagni, i primi spettatori
della sua aurora gloriosa, quelli ch'ei ricorderà per tutta
la vita con la più dolce predilezione del suo cuore d'eroe.
Passa la legione di Montevideo, e
un altro esercito viene innanzi, più tumultuoso, più
ardente, più italiano, che agita in alto la bandiera di
Giuseppe Mazzini: la legione dei Vicentini, il battaglione dei
Pavesi, le reliquie dei suoi commilitoni d'America, il fiore dei
prodi delle Cinque giornate, uno stuolo di signori lombardi, uno
sciame di nizzardi e di liguri, un'accolta di combattenti di tutti
i Corpi franchi dell'alta Italia, in divisa di soldati e in panni
di cittadini, chiusi in casacche strappate ai Croati, vestiti del
costume italico con la giacca di velluto e il cappello piumato,
armati di fucili e di sciabole d'ogni forma e di spiedi e di
bastoni e di scuri: l'esercito dei volontari del '48 che passa e
lo saluta d'un evviva frenetico, rammentandogli il primo sangue
italiano sparso su terra italiana sotto le ali vittoriose del nome
suo....
Ed ecco un altro esercito
più bello, più potente, più glorioso:
l'esercito di Roma: i suoi valorosi di Villa Panfili e di Villa
Spada, il battaglione dei Reduci, i quattrocento universitari, i
trecento doganieri, i trecento emigrati, la sua brava legione del
quarantanove; e primi tra i primi l'eroico Luciano Manara, stretto
al fianco d'Emilio Dandolo sanguinante, nelle cui braccia rese
l'anima; Goffredo Mameli, bello come un dio risorto; Emilio
Morosini, l'eroe di diciott'anni, grondante sangue da tre ferite;
il prode Dalla Longa, morto salvando il cadavere d'un fratello; e
in mezzo alle schiere, piantala in groppa a un puledro, la sua
Annita intrepida e amata che frustò i codardi sulla via
d'Orvieto, e il suo fido Ugo Bassi, coronato a Bologna dalla morte
che ambiva, e il gentile Luigi Montaldi, il gemello del Mameli,
crivellato dalle baionette dei vinti del 30 aprile, e il
Montanari, e l'Isnardi e il Marocchetti, che accettarono il suo
fiero invito sulla piazza del Vaticano, e gli furono compagni in
tutte le vicende dell'epica ritirata. E: - Gloria a te, - gli
gridano - o grande rivendicatore di Roma! - e l'inno immortale del
biondo fratello caduto ascende dall'anima loro al suo cuore.
Le note dei "fratelli d'Italia" si
perdon nell'aria, e un altro esercito s'inoltra, d'aspetto diverso
e nuovo, ordinato e disciplinato come un vecchio esercito, una
fiumana di cappotti grigi e di berretti turchini, segnati dalla
croce di Savoia, battaglioni serrati e rapidi di studenti,
d'artisti, di dottori, di patrizi, d'operai, di poeti, comandati
da antichi ufficiali di Venezia, di Roma e del Tirolo, l'esercito
del '59, i valorosi Cacciatori delle Alpi; e tra le prime file il
tenente Pedotti con una palla nel cuore, e il Guerzoni con la
spalla infranta, e il De Cristoforis col ventre lacerato, e
Narciso Bronzetti, superbo di tre ferite mortali, sorridono al
loro generale adorato, e agitando le carabine e le spade
vittoriose gli gridano i nomi delle loro tre battaglie, e al suono
dei tre nomi benedetti balena la fronte augusta tre volte....
Ed ora: tre volte gloria! Ecco
l'esercito leggendario, i trentamila vincitori del '60, un
torrente color di fuoco, i "mille" immortali, soldati di tutti i
popoli, centinaia di giovinetti e d'uomini canuti, stormi di
calabresi e di "picciotti", una pleiade di generali registrati
dalla storia, il Sirtori, il Cosenz, il Turr, il Lamasa, l'antico
campione del Vascello; e in capo alle file dei più bravi, i
morti venerabili e i feriti memorandi: il Tukery, fulminato
all'assalto di Palermo, Benedetto Cairoli che gitta sangue dalla
fronte, Nino Bixio che si strappa dal petto con le proprie mani la
palla borbonica, Deodato Schiaffino, bello come una figura del Da
Vinci, caduto sotto un'intera scarica di plotone a Calatafimi,
Achille Majocchi che agita tra il fumo il braccio troncato, l'Elia
che ricevette nella bocca il piombo diretto al cuore di Garibaldi,
e Filippo Migliavacca, l'eroe di Varese, morto come un romano
antico a Milazzo, e Pilade Bronzetti, il cui sacrificio sublime al
Volturno salvò l'esercito da un colpo mortale. E tutti
passano lanciando le note trionfali dell'inno del Mercantini
all'immagine luminosa del loro dio.
E un altro esercito si avanza,
quanto diverso da quello che s'allontana! ma pure bello e solenne
nella sua austera tristezza: due legioni di soldati agguerriti
d'ogni terra d'Italia, il battaglione eletto dei Palermitani, una
moltitudine d'inermi, stuoli di ragazzi scalzi, di veterani coi
capelli grigi e il petto scintillante di medaglie, laceri,
infraciditi dalle lunghe pioggie, stremati dalle marce forzate e
dalla fame, pensierosi tutti e taciturni come chi porta nell'anima
una santa speranza uccisa; ma alla vista del grande caduto
d'Aspromonte rialzan tutti insieme la testa e gli gettano l'antico
motto: "Roma o morte!" con l'alterezza e con l'entusiasmo antico,
e gli gridano: - Benedetta la tua ferita, o nostro capitano e
nostro padre, poichè fu il piombo fraterno a cui t'offristi
quello che ruppe, in un colle tue carni, la prima pietra delle
mura di Roma! - Ed egli risponde loro dolcemente: - Benedetta la
mia ferita!
E altri tre eserciti s'avanzan di
corsa, empiendo il cielo del loro grido. Passano i venti
reggimenti rossi del '66, fiancheggiati dalle artiglierie
dell'esercito regio, portando in trionfo l'intrepido Lombardi,
grondante d'acqua del Chiese, tinta del sangue della sua fronte
spaccata, e il fortissimo Chiassi ferito nel cuore, e il temerario
Castellina, crivellato di palle a Vezza, e le sue guide e i suoi
aiutanti che fecero una barriera di petti fra lui e la morte sulla
via di Tiarno, e lo stuolo eroico ch'egli spinse all'ultimo
assalto di Bezzecca. E poi un'altra grande ondata di divise
purpuree, biancheggianti di polvere, i bersaglieri del Burlando e
dello Stallo, i carabinieri genovesi del Mayer, ultimi a lasciare
il campo fatale, i lombardi e i romagnoli del Missori, e
sovrastanti a tutti, soffocati dalla rabbia e dal dolore, risoluti
a morire, il vecchio Fabrizi, Alberto Mario, il Friggeri, il
Pezzi, il Cantoni morto, il conte Bolis morto, il Giovagnoli
morto; tutto l'esercito di Monterotondo e di Mentana, illuminato
da un raggio d'oro della gloria di Roma. E finalmente l'esercito
internazionale dei Vosgi, vestito di mille fogge e armato d'ogni
forma d'arme, una folla tempestosa d'italiani, di francesi, di
spagnuoli, di greci, di polacchi, d'algerini, di soldati stanziali
e di volontari e di franchi tiratori e di guardie mobili, che
sollevano in alto anch'essi i loro morti gloriosi e le loro
bandiere insanguinate, e confondono la loro voce con le voci
lontane di quelli che passarono, gridando: - Gloria a te, che ci
guidasti per tante vie e su tante terre a combattere, sempre per
una causa grande come l'anima tua. Gloria a te, sempre il primo ad
assalire, sempre l'ultimo a cedere, sempre il più forte
nella sventura, sempre il più mite nella vittoria, sempre
grande egualmente nell'ira e nell'amore, nella oscurità e
nella potenza, nel trionfo e nella morte! Gloria a te, tribuno
infaticato di tutti i popoli, cavaliere generoso di tutte le
patrie, amore e vanto del sangue tuo e della razza umana!
E quando le ultime grida
dell'ultimo esercito muoion nello spazio, un'altra folla s'avanza
ancora col dolce mormorio d'un fiume tranquillo, e son le creature
sconosciute a cui egli salvò la vita, i nemici a cui fu
benigno, gli offensori a cui perdonò, e i feriti che
rialzò da terra sul campo, e i moribondi a cui resse il
capo negli ospedali, e le madri orbate a cui terse le lacrime e
fece risollevare la fronte, e le fidanzate a cui tolse un
fanciullo e restituì un eroe, e gli umili e gl'infelici
d'ogni terra ch'egli soccorse e carezzò e benedisse; e -
Gloria a te - gli gridano anch'essi, levando il volto e le mani -
e sia benedetta la gloria tua!
Rimani dunque eternamente, sulla
tua roccia solitaria, bello, biondo, superbo come negli anni
fiorenti della tua giovinezza, col tuo viso splendido e dolce di
redentore, sorridente dai profondi occhi celesti, con le braccia
erculee incrociate sul petto vermiglio e i capelli d'oro e il
mantello grigio dati al vento, e passi reverente ai tuoi piedi,
rispecchiando la tua grande immagine, l'onda infinita della
posterità.
VI.
Per Gustavo Modena.
(Inaugurandosi un suo busto in Torino.)
Ecco quale fu, nella
maturità degli anni e del genio, effigiato mirabilmente,
l'artista grande, il cittadino fortissimo. Per tutt'e due questa
è un'ora di gloria. Come l'attore vedeva nel suo uditorio
un popolo e di là dal teatro l'Italia, noi vediamo nel suo
simulacro l'apostolo e il soldato della libertà, e sopra la
corona dell'artista, l'aureola del patriotta.
L'Italia e l'arte furono i suoi
affetti supremi, alla redenzione d'entrambe consacrò ogni
sua forza; ma non di pari affetto le amò: risolutamente, in
ogni evento, antepose la Madre alla Dea.
Simbolo della doppia opera sua fu
egli stesso quando in Roma assediata, confidente del Mazzini
triumviro, recitò a beneficio dei feriti, mentre tuonava il
cannone alle mura e nelle vie dintorno squillavano le trombe. Fra
le ansie e i cimenti della guerra compiva un atto benefico, in pro
della patria, col mezzo dell'arte: tale fu la sua vita. E
così strettamente si congiunsero in lui l'ideale
dell'artista e l'intento del cittadino, la potenza del genio e la
fortezza dell'animo, che non può nessuno, senza offender la
ragione e la giustizia, scindere virtù da virtù
nell'ammirazione che gli tributa.
Nel Davide ventenne che esordisce
superbamente a Venezia due anni dopo che è nata Adelaide
Ristori, quattro anni prima che nasca Tommaso Salvini, palpita
ancora l'intrepido studente di Padova che una santa indignazione
avventa, inerme, contro le baionette tedesche da cui ha le carni
lacerate. Nel Cittadino di Gand, spregiatore della morte, freme il
patriotta del 1831 che vuol morire sotto le rovine d'Ancona e che
nella difesa sanguinosa di Cesena arrischia fra i più
temerari la vita. Vestito del lucco fiorentino, quando primo fra
gli stranieri dà volto e voce alle ire magnanime di
Sordello e Farinata, egli è l'esule doloroso che Dante
perscruta "scendendo in sè stesso" e nelle calamità
dell'Italia dei suoi giorni comprende lo spirito del poema sacro.
Ed è ancora il difensore valoroso di Treviso e di Palmanova
che ci appare sotto l'assisa del sergente Guglielmo; è il
potente oratore dell'assemblea costituente toscana, propugnante
l'unione immediata a Roma, che tuona nell'eloquenza infiammata di
Caio Gracco; e nel diacono di Ravenna, che narra a re Carlo il
passaggio ardimentoso delle Alpi, mentre l'autor dell'"Adelchi"
ascolta ed ammira, parla il fuoruscito senz'asilo, che valica a
piedi le montagne del Giura, lacero e digiuno, ma non prostrato
dell'animo, divorato dalla febbre, ma sorridente d'amore alla
sposa eroica e dolce che lo accompagna.
Dubbio è veramente sotto
quale aspetto gli si debba oggi onoranza maggiore. Nobile,
ammirabile è l'artista sommo che, offertagli la direzione
della regia Compagnia sarda, ricusa per coscienza repubblicana il
lucro e l'onore, e va di città in città, di
villaggio in villaggio, principe ramingo e solitario dell'arte,
non chiedendo all'arte che la vita, e trascinando la sua gloria
come una croce. Ma ammirabile non men dell'artista è il
ribelle che, minacciato dal capestro austriaco e dalla mannaia
romana, tradotto in catene a Messina, scampato per miracolo in
Francia, ritorna a sfidare il carnefice nella Romagna insorta,
donde non porta in salvo la testa che per avventurarla un'altra
volta tra i primi nell'insurrezione di Savoia. Ma ammirabile non
men del ribelle è il cooperatore proscritto della "Giovine
Italia" che, scacciato da Marsiglia a Berna, da Berna a Bruxelles,
da Bruxelles a Londra, esercitando i commerci più umili,
rifiutando i sussidi, stentando il pane, porta alta fra ogni gente
la dignità della sua bandiera e della sua sventura. E
più grande dell'attore trionfante, nel pieno splendore
della sua fama, fra gli applausi frenetici di Milano redenta,
è l'attore del 1848, al quale i primi annunzi del
ridestarsi d'Italia confondono il cuore e troncano la parola alla
ribalta; è il direttore di Compagnia che scrive al compagno
d'arte e d'affari: - "Guerra e rivoluzione sciolgono ogni
contratto" - e calpestando danaro e corone accorre per la quarta
volta, soldato della patria, dove fuma la polvere e il sangue.
Cittadino e artista, ebbe due
grandi intenti: innalzar l'arte ad apostolato di risorgimento
nazionale, facendo del palco tribuna all'amor patrio, altare
all'eroismo, gogna alla tirannide, e rigenerar l'arte stessa
riconducendola al vero, senza deviarla da quell'ideale del bello e
del grande, che fu il sole dell'anima sua.
Ma convien ricordare quali fossero
l'arte e il teatro quando, reduce dall'esilio, egli s'accinse
all'opera, per comprendere qual cumulo di difficoltà
gl'ingombrasse la via, quanto vigor di coraggio e di costanza gli
occorresse a superarle, e come fosse da tanto egli solo che,
già chiaro per ardimenti, dolori e invitta fede italiana,
raccoglieva in sè il rispetto e la simpatia delle varie
classi cittadine, nel sentimento della patria concordi, nel
sentimento dell'arte divise.
Cadente il regno della tragedia
classica e della commedia goldoniana e non ancor pregiate che
dalla schiera colta le opere italiane dei nuovi ingegni e le poche
buone che venivan d'oltralpe; appassionata la moltitudine per un
bastardo romanticismo drammatico, nel quale ai pochi attori eletti
che, pur piegando al falso, intendevano al vero, prevaleva un
branco d'istrioni manierati e gonfi come il linguaggio dei loro
eroi; miserrimo non per tanto lo stato della più parte
delle compagnie comiche, preferendo l'aristocrazia il teatro
francese e la borghesia la musica, a cui il teatro di prosa era
anche peggio d'ora immolato; disparatissimi infine, senza
confronto più che al presente, per essere smembrata
l'Italia, i gusti delle varie cittadinanze, che dalla scena
distraeva il presentimento, la preparazione, l'incalzarsi dei
grandi avvenimenti politici: tali erano il teatro, l'arte, il
pubblico quando Gustavo Modena sorse.
In così aspro campo, in
contro a tante forze ebbe a combattere, e combattè tutta la
vita. - Memorando ardimento! - come disse dell'Alfieri il
Leopardi. Gli è strappato il frutto di otto anni di fatiche
dalla confisca austriaca del suo podere di Treviso; da una
città all'altra d'Italia è costretto a viaggiare con
le cautele d'un fuggiasco per evitar gli Stati donde è
bandito; è relegato da ultimo dentro ai confini del
Piemonte e della Liguria dove gli è forza di scendere fino
ai teatri più miseri, e dalla salute mal ferma è
ricondotto ogni inverno al suo romitorio di Torre Pellice, donde
lo ricaccia alla scena, e dalla scena al commercio, il bisogno; ma
non si perde d'animo mai. Altero e indomabile, egli lotta con le
censure dispotiche, coi municipii gretti, con gli appaltatori
ingordi, con le compagnie privilegiate, con cittadinanze
indifferenti o, per ragion di parte, malevole, che gli avvelenano
la gioia dei trionfi, e, pure lottando e peregrinando senza
tregua, lavora e crea senza posa. Crea personaggi, educa alunni,
divina ingegni, incoraggia autori, propone e discute soggetti di
dramma, ricorre tutte le letterature drammatiche, commenta e
traduce, scrive di politica e d'arte, vagheggia fino agli ultimi
giorni, per il risorgimento del teatro, il suo sogno d'una
Compagnia libera, e soltanto sul letto di morte, e dopo aver
provveduto alla sorte della moglie adorata che gli singhiozza sul
cuore, trova finalmente riposo. Quanto fu tempestosa la sua vita,
tanto la sua morte è serena; affranto da tante fatiche,
egli s'addormenta senz'affanno, e sul suo viso tragico, ultimo
riflesso della coscienza intemerata, resta un sorriso.
Quale fu l'arte sua? Audacia
sarebbe il tentar di descriverla con ricordi vaghi
dell'adolescenza. Ma chi lo potrebbe far degnamente?
Dicendo, come altri disse, che
classico e realista ad un tempo, e novatore senza infrangere ogni
tradizione della scuola antica, studiava i grandi personaggi nella
storia, nella letteratura, nell'anima propria, e li coloriva
giovandosi con sagacia acutissima della sua varia e profonda
esperienza della vita, e dava loro con efficacia insuperabile il
grido delle sue gagliarde passioni, si dice l'armonia e la
profondità delle sue facoltà artistiche, non
l'originalità stupenda della sua recitazione.
Dicendo che, maestro impareggiabile
nell'arte di modulare il verso e il periodo e di dare allo studio
faticoso l'apparenza dell'ispirazione spontanea, egli
accoppiò a una mobilità maravigliosa del volto una
voce a cui erano concessi i passaggi più ardui e le note
più alte e terribili che possano erompere dal petto umano,
che la sua persona poderosa si ergeva come la forma ideale della
maestà e della forza e si piegava e immeschiniva fino
all'aspetto più compassionevole dell'infermità e
della miseria, e che il suo passo parlava e il suo gesto scolpiva
e i suoi occhi fulminavano, si dice quello che d'altri grandi
attori fu detto.
E chi anche lo descrivesse nella
rappresentazione intera d'un personaggio, rammentando, come altri
fece, le voci, i gesti, i passi, ogni idea sua propria, renderebbe
pur sempre una sola delle cento facce del suo genio; il quale da
Lindoro a Saul, da Luigi undecimo a Edipo, ascese tutta quanta, la
scala smisurata del dramma, come nella dizione magistrale della
"Divina Commedia" risalì da Vanni Fucci a San Pietro.
Potremmo accumulare immagini sopra
immagini, e faremmo per chi non l'intese opera vana, come il
definir con parole a chi non lo vide ciò che distingue
dagli altri mille il viso d'un uomo. Non v'è giudizio di
posteri per l'arte che rifà più vivamente la vita.
Grida di dolore e di sdegno a cui sobbalzava la folla come alla
voce stessa della patria e in cui pareva espandersi l'odio
d'un'intera generazione contro la tirannide, scoppi di pianto
disperato onde mille visi impallidivano, lampi della parola che
illuminavano recessi ignorati dell'anima e altezze non prima
vedute del pensiero ond'egli era interprete, e atteggiamenti
nobili e superbi come forme statuarie di Michelangelo, voi non
siete più che nella mente d'alcuni, nati nella prima
metà del secolo, e sarete fra pochi anni scomparsi affatto
anche dalla memoria degli uomini.
Scomparsi, ma non perduti.
Come non si perde l'acqua
fecondatrice che la terra beve e rispande in umor vitale su per le
fibre dell'erbe e degli alberi, tale è di tutto ciò,
che fu la grande arte sua: gli accenti, gli atti, gli sguardi,
tramutati in forza di passione e di idee nella generazione che li
vide e li udì, operano ancora, eredità ignorata,
nella generazione presente, e in mille echi e riverberi vivono
tuttavia nell'arte d'oggi, e nell'arte avvenire perdureranno.
L'arte si trasforma e procede, ma Gustavo Modena non muore. Sulla
fronte dei novatori più arditi brilla ancora un raggio del
suo spirito, e fin che nel teatro italiano avranno culto la
verità e la grandezza, ad ogni rappresentazione dei
capolavori ch'egli segnò del suggello del suo genio, si
vedrà passare in fondo alla scena l'ombra enorme del suo
capo.
Ma non nell'arte soltanto e nel
nostro spirito: rimane gran parte dell'anima sua in
quell'epistolario incomparabile, nel quale, più che
l'arguzia inesausta e la cultura varia e l'agile vigore d'uno
stile esuberante di vita, anche i suoi più fieri avversari
politici son forzati ad ammirare la sincerità profonda e la
saldezza incrollabile della sua fede.
Repubblicano fu, nel fondo
dell'anima, dalla prima giovinezza alla morte, e propugnatore
d'una politica audacemente rivoluzionaria, aborrente da ogni aiuto
straniero, che non procedesse anch'esso da rivoluzione, intendendo
a una confederazione europea di repubbliche. E certo è che
quanto ei voleva sarebbe stato saggio e attuabile se tutti gli
italiani avessero avuto mente e fibra pari alla sua. Questo
appunto egli credè fermamente, come lo credè il suo
maestro; onde gli parve verità afferrabile quell'ideale
che, giusta la sentenza d'un grande, è la verità
veduta di lontano; e lontana facevano allora la verità
dalla sua fede le moltitudini immature a quella forma di
reggimento liberissimo e impotenti a quell'azione indipendente,
unanime, eroica, fuor della quale egli non vedeva salute. Il
disinganno lo trafisse; ma da quello ch'ei stimò errore e
sventura del suo popolo, non da misere ambizioni deluse, non da
angusto risentimento d'orgoglio offeso, derivò l'amarezza
iraconda che lo fece così fieramente severo coi suoi
contemporanei e con l'opera loro. E però il suo dolore
è nobile, l'ira generosa, e il grido che s'alza dalla sua
coscienza spartana contro la servilità e la corruzione che
dànno di sè i primi segni, è grido di
profeta. E fa professione di scettico invano: egli infuria e
impreca perchè soffre, e soffre perchè ama ancora; e
nel suo riso di disprezzo trema un ruggito e il sarcasmo atroce
che gli scatta dalle labbra stilla sangue del suo cuore.
Ah, quanto è diversa l'opera
dell'uomo dalla parola della sua collera! Dice: - Disprezzo il mio
prossimo, sono nauseato di tutti e d'ogni cosa; - ma, stanco e
infermo, e bastante appena a provvedere a sè stesso, recita
a beneficio di compagni d'arte e di Società operaie,
soccorre emigrati e proscritti, e fino a pochi giorni prima di
morire porge la sua povera borsa a quanti naufraghi del teatro gli
tendon la mano. Scrive: - L'Italia è morta; stoltezza
è sacrificare i moltissimi buoni alla rigenerazione dei
molti vilissimi; - ma sottoscrive a prestiti per la causa
italiana, sussidia giornali, fonda tiri a segno, dà il suo
obolo e il suo consiglio per affrettare ogni moto in cui appaia un
barlume di speranza, e la notizia dei supplizi di Mantova gli
strappa dall'anima dilaniata lacrime di sangue. Afferma - che il
nome della sua patria gli s'è fatto odioso e che vuol
rifugiarsi e farsi seppellire in un angolo della Svizzera dove non
ne giunga più il suono; - ma, invitato a recarsi in
America, dove potrebbe assicurar l'agiatezza della sua vecchiaia,
dalla patria non ha il coraggio di staccarsi e, indispettito
contro sè medesimo, rifiuta, e resta nel suo eremo, dove si
leva innanzi giorno per attinger l'acqua e accendere il fuoco.
Grida in un impeto di rabbia: - Meglio la casa d'Absburgo che ci
trattava a ragione come negri; - ma quando in nome dell'arciduca
Massimiliano gli sono offerti salvacondotto, onori e guadagni
perchè vada a recitare in Milano austriaca - No - risponde
- piuttosto la fame.
Tale era in fondo questo povero
grande cuore ferito che, a parole, malediceva la patria e
rinnegava l'umanità; tale era quest'anima in stato di
procella perpetua, quest'artista glorioso e sdegnoso che, se il
teatro gli fosse stato precluso, sarebbe riuscito uno scrittore
illustre, che, se a più alte prove lo avessero posto gli
eventi, sarebbe stato un eroe, che se avesse sortito la ricchezza
l'avrebbe usata come quei benefattori insigni che la storia
ricorda e il popolo benedice.
Bello è che sorga un
monumento in suo onore nella Capitale del Piemonte, che fu ultimo
rifugio alla sua vita errante e campo dei suoi ultimi trionfi. Non
meno di quello che sorgerà nella sua Venezia nativa
sarà rispettato e amato questo dal popolo, che per
trent'anni lo attese. E la gioventù verrà con
reverenza a contemplare questa fronte che non piegò mai,
questi occhi in cui rifulse il genio, questa bocca che non
macchiò nè adulazione nè menzogna, questo
petto nel quale fremettero tutti i dolori e tutte le ire della
patria oppressa, e che con pari coraggio sfidò la tirannia,
sopportò la povertà, lottò per l'ideale e
affrontò la morte....
Resti qui dunque perpetuamente, o
Maestro venerato, la tua immagine, fidata alla guardia amorosa di
questa Torino che raccolse il tuo ultimo sospiro e custodisce le
tue ossa; resti invulnerata dai secoli al bacio del sole e della
gloria, e dalla bocca di pietra spiri ancora alle generazioni
venture il soffio della libera e grande anima tua.
VII.
Per Felice Cavallotti.
Sono trascorsi sette giorni; alla
prima oppressione dello sgomento e del dolore, che ci oscurarono
lo spirito e ci strapparono il pianto dal cuore, è
succeduta la tristezza profonda e lucida, che ricorda, medita e
lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare senza un fremito
d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una ripugnanza del
cuore incredulo e delle labbra tremanti - come se fossero
un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole: - Felice
Cavallotti non è più! - Noi non possiamo rassegnarci
a pensare: - Altre ingiustizie pubbliche, altre violazioni della
libertà, altri conati della reazione si succederanno, - ed
egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori,
correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne
- e le sue labbra taceranno; altri frodatori del comune avere,
altri corruttori delle istituzioni patrie e profanatori del santo
nome d'Italia compiranno le loro imprese, e la sua mano vindice -
smascheratrice implacabile di tutti i mercanti del patriottismo -
rimarrà inerte; supremi interessi nazionali si
discuteranno, si combatteranno grandi battaglie politiche, care
feste della patria, anniversari di giornate gloriose, conquiste e
trionfi della libertà e del diritto si celebreranno in
adunanze fraterne e solenni, - ed egli non v'assisterà.
Felice Cavallotti che voleva dir forza, moto, azione, speranza
inestinguibile, giovinezza perpetua - Felice Cavallotti che per
noi teneva luogo d'una legione, del quale sentivamo anche da
lontano l'alito possente e la voce che echeggiava sul paese come
uno squillo di tromba - Felice Cavallotti che la nostra
immaginazione, precorrendo il tempo, godeva a rappresentarsi
ancora operoso e combattente nell più tarda vecchiaia,
circondato dalla reveranza e dalla gratitudine pubblica....
bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a ripetere, a
configgerci nel cervello e nel cuore queste tre terribili e quasi
incredibili parole: - Felice Cavallotti e morto!
Commemorarlo? A che pro, se da
tanti giorni non si parla che di lui? se la sua vita intera
è presente al pensiero di tutti? E com'è possibile,
mentre dura intenso ancora il dolore, aver libera la
facoltà che ordina i fatti, collega i particolari,
chiarisce e giudica i moventi e gl'intenti delle passioni e degli
atti? Altri farà questo un giorno, forse molti lo faranno,
e faranno opera utile e bella. Lo prenderanno fanciullo, crescente
nel seno d'una famiglia amorosa, ma più vicina alla
povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi anni a
sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi severi
dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori;
spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri
cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso,
avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua
vita; lo seguiranno a passo a passo, da quando, poco più
che fanciullo, si mette a capo d'una dimostrazione patriottica e
vaticina in un opuscolo l'unificazione della Germania, via via,
per le varie tappe, soldato dì Garibaldi a Milazzo e al
Volturno, collaboratore dell'"Indipendente" del Dumas a Napoli,
poi a Milano, studente di legge, poeta e giornalista ad un tempo,
faticante per guadagnarsi il pane; poi soldato un'altra volta nel
'66, combattente a Vezza, in Val Camonica; poi da capo
giornalista, nella capitale lombarda, polemista baldanzoso e
indomabile, che smette a ogni tratto la penna per impugnare la
sciabola; tradotto di processo in processo, fuggiasco all'estero,
nascosto in Milano, poetante nella prigionia, e dopo ogni processo
e ogni prigionia più infiammato e più audace di
prima.
E pervenuto a questo punto il
biografo non sarà ancora che al principio. Egli
dovrà accompagnarlo nella sua vita parlamentare per un
quarto di secolo, deputato di Corteolona, di Pavia, di Milano, di
Piacenza; saldo sempre nella sua fede repubblicana, ma, com'egli
disse - "italiano prima, repubblicano poi"; - lottante, salvo rare
e brevi tregue, contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia
irredenta, nemico dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli
armamenti rovinosi, avversario della politica affricana,
denunciatore di tutte le violazioni della legge, di tutti gli
abusi del potere, di tutti gli sperperi dell'amministrazione;
fiero, infaticabile rivendicatore della moralità pubblica,
fu istigatore di tutti i prevaricatori e corrotti e complici loro,
potenti ed oscuri, nel parlamento, nella stampa, nei tribunali,
nei comizi, in tutte le regioni e da tutte le tribune d'Italia. Ma
dovrà aggiungere il biografo come a questa lunga e
guerresca vita parlamentare, segnata di discorsi e di tempeste
memorabili, egli intrecciasse ancora, quasi senza interruzione per
molti anni, l'opera poetica e drammatica, alternata di dure lotte
e di vittorie sudate, e come all'opera della creazione artistica
accompagnasse l'opera erudita, critica e polemica, condotta con
lunghi e pazienti studi, nel campo del teatro, della storia, della
nuova poesia: opera interrotta alla sua volta da nuovi processi,
da nuovi duelli, da nuove tempeste, da commemorazioni ispirate e
memorande di grandi fatti e di grandi morti, e da faticose e
ardimentose campagne elettorali; e come infine in mezzo alle
lotte, alle cadute e ai trionfi, inteso sempre e soprattutto alla
grande voce del paese, egli abbandonasse ogni cosa sua quando
suonava il grido d'una sventura pubblica, e accorresse a Napoli e
a Palermo a soccorrere e a confortar le vittime dell'epidemia col
coraggio d'un eroe e con l'amor d'un fratello. Sì,
ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo i principii
politici e l'indole loro, potranno trovare errori, violenze,
temerità, disarmonie; ma non disconoscere una grande forza
diretta da una coscienza onesta, da un profondo amore della
patria, da un'ardente passione per la verità, per la
giustizia, per il bene; - ma non rifiutarsi ad ammirare una
maravigliosa cospirazione di virtù della mente e
dell'animo, rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto
dell'entusiasmo e la tenacia ferrea della volontà, la
vigoria infaticabile del pensiero e dell'azione, e con una nobile
ambizione di gloria, col sentimento e il culto della bellezza, con
la vivacità degli affetti, con tutto quello che fa bella e
cara la vita, la forza d'un cuore sempre pronto ad affrontar le
persecuzioni, gli odii, il dolore, la povertà, a rinunziare
senza titubanza e senza rammarico a ogni bene della vita e alla
vita stessa, come se per lui la pace, gli affetti, la gloria,
l'esistenza non avessero valore alcuno se accettate a prezzo di
una transazione con la propria coscienza a d'una violenza fatta
alla propria ragione. Sì, ammirabile vita, che si
può simboleggiare in questa bella figura: un soldato con la
camicia rossa, con una corona di poeta sulla fronte, ritto sopra
una tribuna; il quale mostra le mani alla patria per cui ha
combattuto per quarant'anni con la spada, con la penna e con la
parola, e le dice: - Guardate, sono pure! Non le ho macchiate mai
che del mio sangue.
Vediamo ora, rapidamente, il poeta
lirico, il drammatico, l'oratore, il polemista, il cittadino,
l'uomo.
Poeta fu, nel più profondo
dell'anima. Di poeta ebbe - per usar le parole d'un suo illustre
avversario - il soffio, l'essenza alata, l'anima lirica. Non
cercò nuove forme: fece sue quelle della poesia patriottica
che palpitava in tutti i cuori quand'egli s'affacciò alia
vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del Manzoni. Dice egli
stesso all'autore della "battaglia di Maclodio": - "quest'umile
cetra apprese le forme da te, e il mio canto modula alla tua
scuola gli accenti d'una speranza che non è più la
tua". - L'impeto della passione soverchiante non gli poteva
consentire le sottili e pazienti industrie di stile e d'armonia,
che più tardi vennero in onore. La sua poesia fu
propriamente un canto sgorgante dall'anima, poesia di battaglia,
piena dì strepito d'armi, di schianti di fulmine, di
fremiti di popolo, di grida d'ira e di dolore. La successione
delle sue strofe di decasillabi somiglia all'incalzarsi di
manipoli di combattenti che corrono all'assalto; nelle quali le
rime sono punte di spada e i tronchi finali urrà di
vittoria. Ma nell'uniformità dei metri facili e sonori,
quanta varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla
romanza, all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta
sincerità e freschezza giovanile di passione! L'anima
affaticata dagli urti e dalle procelle, ferita qualche volta dal
taglio del sarcasmo di qui si fa arma, si rifugia in sè
stessa, cerca conforto negli affetti gentili e pace in fantasie e
sogni di solitudine e di oblìo, e allora un nuovo poeta vi
appare, d'una dolcezza e d'una delicatezza squisita, che vi tocca
le più intime fibre del cuore. Ma già questo poeta
voi lo indovinate anche nelle poesie di battaglia, dove a ogni
tratto spunta un fiore, brilla una goccia di pianto, suona una
nota di mestizia soavissima. Vi ricordate quando dice al Manzoni
morto: - "dormi, o vecchio, e sopra la tua zolla ti conforti i
placidi sonni la rosa che ti donò Garibaldi"? - e quando
dice a Adelaide Cairoli, rammentandole il giorno che pregava alla
tomba del suo primo figliuolo caduto: - "Ma allora, dopo la
preghiera, ti rialzavi più forte, perchè ti
rimanevano, ti baciavano ancora in viso quattro figli; e t'era
così dolce il cercare su quei quattro volti il sorriso del
tuo morto!" - E quando al poeta che impreca, infuriando, al
cadavere della donna amata che lo fece soffrire, dice quella dolce
e sapiente parola: - "Ah no, non insultarla! Ah non nelle
maledizioni e nello scherno troverai il refrigerio che vai
cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se non il giorno che
perdonerai!"
E vorrei proseguire: vorrei imitar
l'esempio di Emilio Augier, che all'Accademia francese, dovendo
tesser l'elogio d'un poeta illustre, disse: - Quale omaggio
migliore gli si può rendere che quello di recitare i suoi
versi? e conchiuse: - Non aggiungiamo nulla: portiamo con noi
intera la nostra commozione, e che il poeta tramonti nella sua
gloria. - Ma recitar quei versi che furono la più schietta
e calda espressione dell'anima sua, e darmi così
l'illusione di riudir quella voce che non udrò mai
più, non potrei: la commozione me li soffocherebbe nel
cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle sue
creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano
l'altezza del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento
grave e solenne del ritmo che par che segni il passo di Leonida
armato nel silenzio della notte. Alla mente di tutti, senza
dubbio, è presente la figura augusta dell'eroe che, al
raggio delle stelle, risorto dalla tomba d'Antelo, con la grande
asta nel pugno, discende, circonvolato dall'aquile, per andar a
cercare se sia sorta nel mondo una nuova gloria pari a quella
delle Termopili, e riposar là, in mezzo ai fratelli degni,
dei suoi trecento. Si sofferma, ma non si arresta a Clierniea. No,
- dice ai Tebani morti che lo chiamano:
No, no, dormite in pace! Vano fu il
sangue, eroi!
Periste e non salvaste l'ellenia
libertà!
Giunge a Maratona; ma non
s'arresta. - No, - grida ai caduti che lo invocano - qui non
rimango. -
Tutto, voi, tutto aveste! la gloria
e la vittoria
Pei lari! È troppo dolce,
morti, dormir così!
Giunge alle isole Arginuse, sulle
onde sparse di triremi infrante e di salme insanguinate; ma non
cede all'invito di Callicràtida: "No" - dice - "foste
prodi, cinque contro venti; ma foste Elleni contro Elleni - e fu
una squallida lotta".
Giunge al campo di battaglia
d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati di Alessandro, vincitori
dei Persiani:
... Salvete, o morti! Leonida non dorme
Dove a un tiranno i lauri il greco
acciar donò.
E non s'arresta a Gerusalemme dove
l'invocano i crociati spenti, perchè, dice, "io non pugnai
per espiar peccati nè mossi in cerca d'avventure e di
ricchezza". E non s'arresta alle Piramidi, alla voce dei soldati
di Buonaparte, perchè, grida:
Io non guidai sul colle i miei
Trecento a Dite,
La libertà sul labbro e la
conquista in cor!
E non s'arresta a Zama, dove
gridano il suo nome i soldati di Scipione, sgominatore d'Annibale:
E voi giacete! Io passo! Troppi
eravate in campo!
E i numidi elefanti v'apersero il
sentier.
E trascorre oltre il campo di
Munda, sordo alle voci dei legionari di Cesare, ai quali rinfaccia
il motto del capitano:
Sul colle io per la patria pugnai,
non per la vita:
Vincitori di Munda, lasciatemi
passar!
E attraversa fiumi e monti, passa
il Pirene, giunge in Provenza, si sofferma sul Rodano dove Mario
distrasse i Teutoni; ma non s'arresta alla voce dei soldati di
Mario, perchè sul sacro colle egli non attese, scrutando le
stelle, l'ora in cui potesse combattere con la certezza della
vittoria.
E varca le Alpi e scende in
Lombardia; ma, sospinto dal ricordo della pace di Costanza,
neppure a Legnano si arresta, perché
Se non dà frutti il sangue
che val gloria d'allori?
Se libertà non germina, che
val d'armi virtù?
Morti feconde io cerco, non vinti o
vincitori;
Morti feconde e libere, tra quei
che non son più.
E giunge finalmente sulla riva del
Tevere, in vista di San Pietro, davanti a un'ara modesta, donde
cento voci fioche lo salutano:
Noi pur, noi pur pugnammo in cinque
contro venti,
E non fu indarno, o patria,
nè il sangue, nè il morir!
A noi non la vittoria, ma dei
fiacchi lo scherno:
Non i felici oròscopi, ma il
pallido dover:
Non fratricidi allori, ma
l'abbandon fraterno:
Non di tiranni il soldo, ma il
raggio d'un pensier.
L'alme donammo al fato, non
bugiarde parole,
Dall'ombra degli avelli guardando
all'avvenir!... -
L'Ombra, inchinando l'asta, grida:
- Stanotte vuole
Coi morti di Mentana Leonida
dormir!
E così ora "tramonti il
poeta nella sua gloria" accanto al suo Leonida, egli che alle
Termopili sarebbe morto tra i primi, e che in difesa della
libertà e della giustizia combattè per trecento.
L'autor drammatico. Nessuno, certo,
attende qui un'analisi ragionata di quell'opera complessa e varia,
coronata di successi clamorosi, provocatrice di aspre battaglie,
feconda di tante vive discussioni storiche e artistiche, nella
quale dal dramma storico in versi, i "Pezzenti", il "Guido",
l'"Agnese", - dove la poesia e la fantasia predominavano e la
storia non era che fondamento e facciata, - Felice Cavallotti
passò al grande dramma storico in prosa - l'"Alcibiade" e i
"Messenj" - poggiato sopra una più minuta indagine del
tempo e sopra un più profondo studio del vero, per
trascorrere poi, con la "Sposa di Menecle", alla commedia intima
di soggetto antico, e infine al moderno dramma psicologico,
spingendosi fino all'idillio e al proverbio. Il cuore e la ragione
insieme si ribellano oggi anche a una critica riverente. A noi
basta rammentare che se neppur nel teatro non cercò nuove
forme, attenendosi, come voleva la natura del suo ingegno, alla
tradizione romantica, sulle traccie di Victor Hugo e dello
Schiller, anche nel teatro portò il soffio della sua anima
lirica, che tutto riscalda e vivifica, la santa fiamma dell'amor
di patria e di libertà, una forza grande di
sincerità giovanile e di virile coscienza, un continuo,
amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza, che ci
leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non arriva
dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare, discutere,
mentre le creature della sua mente ci si affollano intorno velate
di nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo dolente e
glorioso, come figli intorno al simulacro funerario del padre?
Altro non possiamo fare che rammentarle e salutarle. E sfolgorante
Raul che, levando la spada in cospetto al cadavere di Maria, grida
al duca d'Alba: "Troppo tardi. Oggi saremo in molti ai funerali. A
me, pezzenti!" - È tragico il vecchio padre traditore del
suo sangue che svela al figliuolo adorato la propria infamia,
mentre suonano i rintocchi della campana che lo chiamano a
combattere, con quelle semplici e terribili parole: - "Ferma! Io
son Guido!" - È bello e generoso il giovine Scandiano che
al duca di Mantova, ebbro di piacere e d'orgoglio, narra tra gli
splendori della festa la fame e la disperazione del popolo di
Mantova. È splendido il vecchio re di Messenia che, ritto
sulle rupi, strappa la bandiera tirannica di Sparta e chiama alla
rivolta il suo popolo col superbo grido: - "dove passa Aristomene,
Sparta non ha bandiera!" - E pietoso e venerando è il
vecchio Menecle che riprende dalle pareti lo scudo e la spada
antica per chiedere alla morte per la patria l'oblio della dolce
illusione perduta. E più alto di tatti, come una statua
d'oro e di bronzo, segnata di mille colpì, ma salda e
trionfante ancora sul suo piedistallo di marmo pario, ci sorge
davanti il greco gigantesco e multiforme, che riunì in
sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed Antonio, - "tutte le
faccie del polièdro umano" - e mentre passano dietro di
lui, come visioni, i giardini e le piazze, le sale d'Atene, la
spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta, le acque dell'Ellesponto,
le montagne di Frigia, e quella fuga maravigliosa d'assemblee, di
eserciti, di campi di battaglia, di feste trionfali e di
solitudini, che pare il giro di un mondo intorno ad un uomo, - noi
non salutiamo in lui l'Alcibiade antico, vincitor di Bisanzio e di
Calcedonia, ma la creazione più grande, più
fortunata, più cara del poeta perduto; la salutiamo con la
certezza che, quando pure dovessero le altre andar travolte dal
tempo, quella resterà, splendida e palpitante di vita
immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione non
risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere
drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per
il tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse
intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per
le ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci
conforti che recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose
fatiche di soldato della libertà e di tribuno della patria.
Eppure la più alta e potente
manifestazione del suo ingegno e dell'animo suo egli la diede, a
nostro credere, nell'oratoria. Oratore grande, insuperabile forse,
se la natura non gli avesse negato qualcuna di quelle piccole doti
sussidiarie, puramente fisiche, onde il grande oratore s'integra.
Due oratori erano in lui, potenti del pari. L'oratore popolare e
improvviso, che stentatamente incominciava, che vi faceva
assistere al lavorìo, alla lotta laboriosa e violenta del
sentimento e del pensiero con la parola, e che poi, infervorato
dal suo sforzo medesimo, trascinato dalla passione, sprigionava un
torrente di idee e d'immagini, dalle onde irruenti e sonore, e
travolgeva ogni forza restìa dell'uditorio; - e l'oratore
parlamentare delle grandi occasioni, che del discorso ordiva
avanti la trama, nel quale le idee si svolgevano ordinate e
concatenate, col corso largo e pieno d'un grande fiume, e logica,
sentimento, precisione quasi scientifica di forma, tutti gli
accorgimenti più fini dell'arte s'univano con l'ardore
d'un'alta ispirazione, che tutto levava in alto. L'oratore nato,
sussidiato dall'artista letterario, si rivelava nell'architettura
ardita e grandiosa del periodo, sorreggente una grande
quantità di idee accessorie, aggruppate armonicamente
intorno all'idea principale, intarsiato di parentesi e d'incisi
che, senza fare ingombro, illuminavano il concetto come di tanti
raggi successivi, e condotto vittoriosamente, fra ogni sorta di
pericoli, ad una frase geniale che superava tutte le altre in
efficacia, e che nello stesso tempo giungeva inaspettata e pareva
necessaria.
Maraviglioso era veramente come un
uomo di natura così impetuosa sapesse, quando occorreva,
trovar le parole gravi, misurate, guardinghe che facevan passare
senza contrasti le idee più audaci, quasi rispettate per la
dignità dell'abito; come qualche volta, nell'infuriare
d'una tempesta, quasi per effetto d'una illuminazione improvvisa
dell'intelletto e dell'animo, egli lanciasse, in luogo delle
parole eccessive che tutti aspettavano, una così sincera e
nobile invocazione alla concordia per l'interesse supremo della
patria, che n'eran tutti gli animi disarmati e placati; come da
quella bocca, donde erompevano tanti tuoni e tante fiamme, potesse
sgorgare, al bisogno, un rivo d'eloquenza così mite e
così serena. Vi ricordate di quel mirabile parallelo tra il
generale della Lunigiana e il generale di Sicilia, che, fatto da
tutt'altri, avrebbe scatenato un uragano? Vi ricordate della
difesa ch'egli fece del "fiore baciato dalla sventura", quando dal
banco dei ministri era lanciato un oltraggio a una giovinetta,
mentre sul capo di suo padre, accusato politico, pendeva una
condanna tremenda? Vi ricordate con che dignità di
sentimento e di parola egli diceva nel Parlamento l'elogio d'un
avversario morto, e riconosceva d'un avversario vivo la
bontà e la rettitudine, e come qualche volta, sfuggitagli
una frase offensiva, la temperasse come voleva la giustizia, in
modo che non era la sua una ritrattazione del pensiero, ma del
sentimento, non un atto di semplice convenienza, una gentilezza
sentita e squisita di cavaliere e di galantuomo? Vi ricordate
l'orazione in onore di Garibaldi morto, pronunciata il 3 giugno
dell'83, al "Castelli" di Milano, la quale strappò il
pianto da tremila cuori, e la grande commemorazione epica dei
caduti a Domokos, e le belle, austere, fraterne parole ch'egli
disse nella prima riunione dei partiti estremi, discordi fino a
quel giorno, per la fondazione della Lega della libertà? -
Era l'eloquenza d'un poeta e d'un, sapiente - era una così
alta e commovente ispirazione che quasi riusciva dolce agli altri
oratori di non poterla raggiungere - erano la ragione,
l'entusiasmo e la fede parlanti il più eletto linguaggio
che possa uscire dall'animo d'un cittadino. Quante volte Vittorio
Alfieri gli avrebbe posto la mano sul capo, ripetendogli i versi
di Eschilo a Timoleone:
Ah! no, più caldi mai,
nè mai più veri
Forti divini detti in cor mortale
Mai non spirò di libertade
il nume!
E non di meno, non si potrebbe
affermare con certezza che fosse l'oratoria, non invece la
facoltà puramente ragionatrice, non la forza analitica e
polemica la sua virtù intellettuale preminente. Di lui si
può dire quello che dell'autore dell'"Emilio" disse Enrico
Taine. Non c'è loico più serrato. La sua
dimostrazione s'annoda in fili d'acciaio, maglia a maglia, per
lunghe pagine, come una enorme rete senza uscita, in cui, volenti
o no, si rimane avvinti. Non un filo gli sfugge o gli si rompe, ed
egli ha costantemente sotto gli occhi e dentro la mano la rete
intera. Dagl'infiniti e bene ordinati compartimenti della sua
salda memoria escono prontamente, a un richiamo, nomi, date,
parole, fatti, circostanze di fatti, che a vicenda si rischiarano
e si rincalzano, disponendosi e collegandosi logicamente come le
formule successive d'un'operazione matematica, che non possa esser
condotta in altra forma nè riuscire ad altro risultato da
quello a cui egli tende. La punta della sua idea v'è
già penetrata nella mente, credete che non vi si possa
addentrare di più, ed egli ve la configge ancora più
addentro con un martellamento fitto e preciso, che vince anche le
ultime resistenze inconscie dell'animo vostro. Nessuna maraviglia
che chi possedeva una così potente arte dialettica
l'adoperasse anche quando ad altri poteva parere superflua, o
inopportuna, o senza speranza di effetto utile. Ma maraviglioso
è che egli vi ricorresse e l'esercitasse magistralmente
anche nei momenti di maggior concitazione dell'animo, che egli
ragionasse in quel modo con la penna alla mano un'ora prima
d'andare a rischiar la vita con l'arma nel pugno, che neanche il
presentimento della morte, che qualche volta lo assalì in
quei momenti, potesse turbare in lui quella facoltà
delicatissima a cui pare indispensabile la quiete serena
dell'animo e la libertà assoluta della mente. E questo
prova quanta sincerità, quanta pensata fermezza ci fosse
anche nelle sue determinazioni che potevano parer più
violente, come la sua passione fosse mossa sempre da una idea e
sorretta e vigilata, dalla coscienza, come fosse in lui
convinzione vigorosa e tenace ciò che non era creduto da
molti che ira, odio, sete di rappresaglia e di vendetta, come la
sua spada, anche nelle quistioni che parevan più
strettamente personali, fosse quasi sempre la spada d'un'idea.
No, non si battè per impeto
d'ira o per febbre di vanità chi, venti volte, prima di
venire alla prova, scrisse di proprio pugno la sua difesa e il suo
testamento, con l'espressione precisa delle sue ultime
volontà, con la previdenza chiara e minuta di tutte le
conseguenze possibili della sua morte. Certo, spuntava un sorriso
sulle labbra a chi gli udiva dire: - Io sono un uomo pacifico....
furono le circostanze che mi forzarono.... E la natura delle
questioni in cui mi trovai impegnato.... - Eppure, nella sua
coscienza, questo era vero. Ma ci perdoni la cara memoria se noi
lamentiamo il concetto da cui la sua ragione partiva, e se
esprimiamo la speranza che la sua fine lacrimata e funesta serva
almeno di ammonimento alla generazione che sorge. Ma come! Un
passato di trent'anni di fecondo lavoro intellettuale, di nobili
lotte, di servizi resi alla patria, un avvenire di forse altri
trent'anni di vita egualmente benefica, un tesoro inestimabile di
entusiasmo, d'eloquenza e di forza, una mente privilegiata, da cui
mille quistioni altissime d'interesse pubblico attendono luce ed
impulso, in cui milioni d'uomini fondano speranze di protezione e
d'aiuto, - tutto questo, per una parola, deve esser messo a un
cimento, nel quale un passo falso, il tradimento d'un muscolo, la
svista d'un istante possono distrugger tutto in un nulla? Ah!
è una follìa, un errore, una vergogna! Ed è
appunto questo pensiero che oggi ci aggiunge angoscia ad angoscia:
è il dover riconoscere che ci troviamo ancora a questo
segno di barbarie, è il dover confessare che, pure
riconoscendo l'assurdità di quest'idea dell'onore che, in
un tempo di vantata eguaglianza, si circoscrive in una sola classe
sociale, non s'abbia ancora il coraggio civile di uscirne, e che
la società culta, che pure la condanna nella sua coscienza,
tolleri, incoraggi, accarezzi, con la cospirazione d'una legge
ipocrita, il pregiudizio stolto, la tradizione dell'usanza stupida
e feroce che la insanguina e la disonora.
Era fors'anche suo pensiero che
nelle lotte politiche avesse il duello questa giustificazione: che
molte volte esso racqueta e riconcilia due avversari che si
stimano; fra i quali, altrimenti, sarebbe impossibile o più
difficile assai la riconciliazione. Questa e ogni altra ragione
possiamo ammettere, per ispiegarci la sua condotta, fuorchè
la mancanza di bontà d'animo, di cui dai nemici fu
accusato. Ah! dell'accusa sorride - sorride amaramente chi
sentì il suo abbraccio fraterno dopo una lunga separazione,
e sa quante calde e devote amicizie egli ebbe anche fra i suoi
più appassionati avversari, - chi si ricorda quanto fosse
buono e amabile il sorriso su quel volto coperto di cicatrici,
quand'egli espandeva l'animo con gli amici intimi, sorridenti alla
volta loro di tante ingenuità giovanili del suo cuore e
della sua parola, - chi si rammenta con quanta gentilezza, nelle
famiglie che l'ospitavano, la sua mano gagliarda si posasse sul
capo dei bambini e la sua bocca usata a soffiar la tempesta
esortasse i giovinetti allo studio, all'amor del bene, al culto
della verità e dell'ideale. - Gli mancava la bontà
dell'animo. - A Felice Cavallotti! Ah non lo pensa chi ha visto la
sua fronte superba chinata al capezzale degli infermi, chi ha
sentito i suoi singhiozzi disperati accanto al cadavere della sua
figliuola, chi ha assistito una volta sola all'espansione della
sua gioia e della sua tenerezza di fanciullo fra le braccia della
vecchia madre adorata, che gli ripeteva con tanta dolcezza: -
Felice, Felice mio, sii più prudente.... - come se
presentisse il destino. Buono era, e n'è una grande prova
il fatto che molte volte, candidamente, egli si rimproverasse, si
dolesse di non potere esser più buono di quello che era.
Povero Cavallotti! Non è molto tempo che, rispondendo ai
consigli d'un amico, egli diceva a questo con un sorriso ingenuo:
- Già, tu sei più buono di me. - Ma il giudizio fu
coscienziosamente respinto. - No, Cavallotti - gli fu risposto. -
Io non son più buono di te; non lo sono quanto te. Facile
è la bontà a chi, lontano dalla lotta, non s'espone
all'offesa che lacera e avvelena l'anima e non sente in faccia
l'alito violento dei nemici che, non dandoti tregua alla guerra e
negandoti ogni virtù gentile, ti scoraggiano dalla
gentilezza e dal perdono. Ah no! Io so ben discernere quello che
è in te violenza necessaria e durezza acquisita di
lottatore da quello che è prima e schietta natura. Di
questa, che è tutta d'oro, tu hai salvato fra le battaglie
quanto era umanamente possibile, e quello che ti resta è
ancora un tesoro che t'invidio. - Ah, gli mancava la bontà
dell'animo! - A Felice Cavallotti! Ma se contro a mille prove
dell'asserto, non possibile che a chi non lo conobbe, stesse
quella sola indimenticabile poesia, quello straziante e divino
grido d'amore e d'angoscia che dal treno di Gallarate egli lancia
all'angolo del cimitero dove dorme la sua figliuola, se egli non
avesse pronunciato in tutta la sua vita altre dolci parole che
quelle con cui s'illude che la sua creatura senta passare il suo
dolore e possa rispondere alla disperata invocazione del suo cuore
trafitto, se in cinquantacinque anni non gli fosse scoppiato
dall'animo che quell'unico grido, basterebbe quello per farci
credere, affermare, giurare che egli fu buono.
L'accusa, di mancanza di
bontà e di gentilezza gli fu più spesso ripetuta
nell'ultimo periodo della sua vita. E qui m'occorre di fare una
dichiarazione. Io mi son proposto, com'era mio stretto dovere, di
commemorare il compianto cittadino al di fuori d'ogni idea e
d'ogni sentimento di parte politica; ma a rischio d'esser accusato
d'infrangere il proposito debbo accennare all'ultima grande lotta
ch'egli combattè in nome della giustizia e della
moralità pubblica, poichè il rifiutare, per non dar
ombra ai vivi, un onore dovuto a un morto, non mi parrebbe
generosità, ma codardia. Dal più profondo della mia
coscienza, non velata in questo momento da ombra d'odio e di
rancore, esce la voce che m'impone un tributo d'ammirazione e di
plauso al lottatore dell'ultima ora. Giorno verrà, senza
dubbio, in cui si riconoscerà universalmente che sarebbe
stata una vergogna incancellabile per il nostro paese se almeno
una voce d'accusa e di sdegno non si fosse levata, e che se quella
voce non fosse rimasta senz'eco, che se la giustizia ch'ella
chiedeva avesse avuto corso e compimento, non sarebbe forse stata
spinta fino agli estremi la forsennata impresa dell'Africa,
sarebbe forse almeno stato evitato il macello miserando che la
chiuse. "Opera negativa" fu detta la sua con la stessa logica con
cui si direbbe negativa l'opera del magistrato che, accusando e
condannando, toglie e non dà dei cittadini al paese, o
l'opera del soldato che, difendendo la patria sul campo, uccide e
non crea. - Ha varcato il segno - da altri si disse - non doveva
ostinarsi e incrudelire; si deve rispetto anche ai caduti per
propria colpa. - E, certo, la parola è generosa, è
l'espressione d'un sacro dovere di tutti verso i caduti che si
pentono e si confessano, o cedon l'armi e rimangon muti. Ma quando
i caduti rialzan la fronte minacciando, si ribellano alla
giustizia e alla sorte, provocano la coscienza pubblica e tentano
d'ingannare o d'imbavagliare la storia, l'ostinarsi nella lotta
è dover di coscienza e necessità di vita. E
poichè tanti sacerdoti della stampa che mentre egli
combatteva solo quell'aspra battaglia, bersagliato di mille colpi
e coperto di mille vituperi, l'applaudivano nella loro coscienza e
copertamente l'incoraggiavano e gli desideravano la vittoria,
pensando forse in cuor proprio che se avessero avuto la sua
indipendenza, il suo ingegno e il suo coraggio, non per amor della
giustizia, ma per sgombrar la via ad altre ambizioni, avrebbero
condotta la stessa lotta con pertinacia anche più
implacabile, poichè si videro tanti di costoro lamentare la
sua morte e inneggiare alla sua vita senza arrischiar neppure una
timida lode a quell'ultima opera sua, compiamo noi più
risolutamente il debito nostro, affermando a voce alta, e con
tutta la forza del nostro cuore, che quella fu la più
forte, la più onorata, la più ammirabile pagina
della sua vita.
E se anche qualche volta, se anche
molte volte, nel flagellare i trafficatori della propria coscienza
e i depredatori del danaro pubblico, egli fosse trasceso -
supposto che in questo si possa trascendere - molto, tutto si
dovrebbe condonare a chi per questo riguardo era uno dei pochi
invulnerabili e puri, e dei pochissimi in cui la purità fu
merito vero. In tutta la sua vita non v'è traccia nè
indizio d'un atto compiuto per iscopo d'interesse materiale. Alla
patria diede tutto e non chiese nulla. Dandosi alla politica,
sposò la povertà. E non si diede alla politica, come
altri, per esser fallito all'arte e alle lettere; le si diede nel
colmo dei suoi trionfi d'artista. Ebbe offerte di cattedre e le
rifiutò; avrebbe potuto trarre guadagni dalla sua penna
feconda di pubblicista, e se ne astenne per dignità di
tribuno; avrebbe potuto trarne dal teatro, solo che avesse
rallentato alquanto la sua opera politica, e non lo fece per
sentimento altissimo del suo dovere di cittadino. Quelle
prolungate polemiche, che si dicevan mosse da spirito di ambizione
e d'orgoglio, non erano soltanto per lui uno sforzo doloroso
dell'animo, ma un dispendio enorme di tempo e di lavoro, ch'egli
scontava poi in privazioni d'agiatezza, di libri, di svaghi
desiderati. La sua spesa quotidiana era quella d'uno degli
impiegati più modesti, la sua abitazione a Roma una camera
di studente, la sua villa di Dagnente una povera bicocca; e al
vestire non si sarebbe distinto quasi mai da un operaio di buon
salario. Eppure mai, mai non si sentì dalla sua bocca una
parola di rammarico, mai nemmeno un'espressione vaga di
aspirazione a una vita più agiata e più signorile.
Una cosa sola rimpiangeva di quando in quando: l'arte da cui s'era
dovuto separare. Ma per quanto dicesse, fra le due dive nemiche,
l'arte e la politica - l'una bella, splendida, sorridente, che lo
chiamava - l'altra austera, dura, gelosa, che lo teneva - era
questa quella ch'egli amava di più ardente amore - era la
tiranna ingrata e spietata, che lo torturò e che l'uccise.
Quale esistenza! Ricorriamola
ancora con uno sguardo. Quale miracolo continuo di moto; di
passione, di lavoro! V'è una frase d'una sua lettera che
definisce la sua vita. - Son qui - scrive a un amico - in mezzo a
una tempesta di cose, che mi porta via la testa. - E questa
tempesta durò quanto egli visse; nè può
immaginare quanto turbinosa ella fosse chi non gli stette per
qualche tempo vicino. Non conoscono i più che la sua
assiduità operosa al Parlamento, la sua attività
insuperabile nei periodi di lotta elettorale, i suoi viaggi
faticosi in provincie lontane a scopo di propaganda e d'inchiesta,
e la sua produzione straordinaria di pubblicista. Ma di pari passo
con l'opera pubblica egli ne mandava un'altra che pochi soltanto
conoscevano, ed era il patrocinio generoso di cause oscure e di
oppressi sconosciuti, era una corrispondenza cortese e pronta con
innumerevoli amici, sollecitatori e postulanti ignoti, d'ogni
classe e d'ogni natura, erano visite e corse da per tutto ov'egli
fosse richiesto per consolare un dolore, per comporre un dissidio,
per profferire una parola utile. E tra l'una e l'altra di queste
infinite cure pubbliche e private egli trovava il tempo di nutrir
di nuovi studi lo spirito, di raccoglier documenti intorno alle
quistioni del giorno, di gittare nella forma poetica le sue gioie,
le sue tristezze, i suoi sogni. Bene qualche volta si rifugiava
nel suo romitorio di Dagnente per prender respiro; ma lo
raggiungevano là pure, da ogni parte, i telegrammi, le
lettere, le sollecitazioni d'ogni forma, e vi facevano in pochi
giorni una piena che lo travolgeva e lo risospingeva al lavoro.
Una voce inesorabile, appena egli chiudesse gli occhi, gli
gridava: - Dèstati, scrivi, parla, combatti, va! - Ma io
sono stanco - rispondeva. - Fa uno sforzo. - Ma io son malato. -
Non importa. - Ma io m'accorcio la vita. - È il tuo
destino. - Ed egli si destava, scriveva, parlava, combatteva. -
Diceva ultimamente, a Torino, passandosi una mano sulla fronte con
un suo gesto abituale: - Ah! se potessi riposare per un anno....
per qualche mese.... Ma non posso. - E pareva rassegnato. Un solo
pensiero lo turbava: il pensiero di una vecchiezza inferma, in cui
non avrebbe più potuto lavorare nè combattere, e
sarebbe rimasto in un canto, inutile come una spada arrugginita. E
soggiungeva: - Vorrei morir prima! - Fu pago il suo desiderio,
sventuratamente. La nobile spada non s'arrugginì -
s'infranse - e passerà lungo tempo, pur troppo, prima che
sul campo di battaglia dove egli cadde ne baleni un'altra
così prode, così tersa, così gloriosa.
Ma egli fu ben altro, e ben di
più che la spada d'un partito. Più alto fu il suo
destino, più alto l'ufficio ch'egli compì. A dritto
fu chiamato il continuatore del pensiero di Garibaldi, non
circoscritto in una formola precisa, ma vasto tanto da comprendere
tutte le aspirazioni dei tempi nuovi. Sopravvisse e parlò
in lui la giovinezza ardente della rivoluzione italiana, con tutti
i suoi più santi entusiasmi, con tutte le sue più
luminose speranze. In ogni manifestazione del suo pensiero e del
suo cuore è un accenno vago, ma caldo a qualche cosa di
più grande che non sia il concetto astratto della
libertà o una data forma di governo. Si sciolgono a ogni
tratto il suo spirito e la sua parola dai vincoli angusti del
programma politico del presente, e si slanciano verso l'avvenire.
Disse egli un giorno: - Non sento il bisogno di cambiar l'ideale -
e spiegò tutto sè stesso in quelle parole. Il suo
ideale abbracciava vagamente tutti i bisogni e tutte le
rivendicazioni popolari dell'età nostra. S'egli non
combattè che per la libertà e per la giustizia
è perchè comprendeva che eran queste le prime
battaglie da vincere, e reputava saggezza il non disperdere in un
più largo campo le sue forze, che gli occorrevan tutte a
tener alta la sua bandiera. Ma nell'anima sua si raccoglievano e
fiammeggiavano in una sola, invitta passione lo sdegno di tutte le
miserie, il sentimento di tutti i diritti, l'amore di tutti i
popoli. Comprese, sentì, previde più che non disse;
ma ciò che non disse fu compreso. E però la sua
voce, benchè non pronunciasse il nuovo verbo delle
moltitudini, suonò nel loro cuore come la voce d'un
fratello, e la sua morte fu lutto e pianto del popolo, e si
posò sul suo feretro, con gli omaggi dei parlamenti e coi
fiori della gioventù studiosa, con le corone dell'Italia
irredenta e con la palma del martirio di Cuba, il saluto amoroso e
triste di tutti i lavoratori del mondo.
Sì, convien risalire fino ai
grandi fattori dell'unità della patria per ritrovare una
morte così universalmente, così sinceramente
compianta, e che abbia lasciato fra noi il sentimento d'un vuoto
così vasto e così doloroso. E nessuno certo se ne
allieta, neanche fra i suoi più acerbi nemici, nessuno che
abbia senso di gentilezza e di carità di patria,
perchè sentono tutti che è caduta una forza, che
s'è spento un raggio, che è sparito un vanto vivente
della patria. E questo solo ci conforta; che ciò ch'egli ci
lasciò - l'esempio - nè tempo nè fortuna ci
possono togliere. Esso sarà raccolto e sarà fecondo.
La gioventù d'ogni parte e d'ogni fede ha qualche cosa da
imparare e da imitare da lui. Egli fu soldato, tribuno, poeta,
maestro; disprezzò la ricchezza, non ambì il potere,
non adulò la fortuna, non s'infinse, non vendette, non
mercanteggiò la sua forza, - fu buono, aperto e intrepido -
fortissimo fu contro ogni forma di dolore e di pericolo, e fu
potente e povero, illustre e incorrotto. Sì, tale egli fu,
e le generazioni venture lo sapranno; tale tu fosti, o Felice
Cavallotti, e te lo ridirà ogni anno, il giorno della tua
morte, la tua patria, come te lo gridò nel primo schianto
del dolore, mandando un bacio di madre alla tua bella fronte
inanimata. E così sia seguito il tuo esempio come
sarà venerata la tua tomba e glorificato il tuo nome. Nel
nome di quanti ti amarono e ti piangono, Felice Cavallotti, sia
benedetta la tua memoria!
Le tre Capitali.
NOTA A QUESTA NUOVA EDIZIONE
(1.a edizione Treves - 1911).
Il De Amicis intitolò Le tre
capitali, raccogliendoli tardi, questi suoi tre scritti giovanili,
due dei quali, con titolo un po' diverso, appartenevano già
ai Ricordi del 1870-71 (Firenze, Barbèra, 1872); più
importante di tutti il terzo, che ha valore di documento
letterario e storico insieme. L'autore, sottotenente nel 3.°
Reggimento fanteria, brigata Piemonte, dopo la campagna del 1866
era stato comandato presso il Ministero della Guerra a Firenze e
incaricato di dirigere l'Italia militare. Accompagnò, come
corrispondente di quel giornale, l'esercito italiano alla presa di
Roma, e scrisse immediatamente le sue impressioni del 20 settembre
1870 e delle giornate seguenti.
Molti anni dopo, nel 1898, quando
l'editore Niccolò Giannotta di Catania gli propose di
iniziare con questi tre scritti riuniti in un volumetto la sua
piccola Biblioteca popolare contemporanea, il De Amicis avvertiva:
"Rilessi, prima d'acconsentire, gli
scritti, che avevo in parte dimenticati, e, rileggendoli, mi venne
spesso sulle labbra un sorriso, che non era certo di compiacenza
letteraria, e mi prese più volte un senso di tristezza,
come accade sempre a chi si richiama alla memoria speranze alle
quali non corrispose la vita ed entusiasmi su cui passò
un'onda di nuovi affetti e di nuove idee. Acconsentii nondimeno
alla pubblicazione di queste pagine perchè penso che la
descrizione degli effetti intimi ed immediati prodotti da certi
avvenimenti storici nell'animo d'un testimonio oculare non debba
riuscire indifferente nè inutile ai giovani della
generazione che quegli avvenimenti non vide; perchè
l'affetto e la reverenza che sono espressi in questi scritti per
le tre grandi città in cui palpitò e palpita il
cuore d'Italia mi paiono sentimenti di cui non sia superfluo
ripetere l'espressione anche dopo unificata la patria; e
perchè in fine, in mezzo ai troppi difetti v'è se
non altro in queste povere prose il pregio della sincerità
giovanile, che, disponendo il lettore alla benevolenza, suol
giovare indirettamente all'effetto cercato, ma non conseguito
dall'autore per mancanza d'arte."
D. M.
TORINO.
Un Torinese che volesse far da
guida ad un Italiano d'un'altra provincia venuto qui per la prima
volta, per metterlo in una disposizione d'animo favorevole alla
città sconosciuta dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in
Torino, condurlo diritto a Superga. V'hanno spettacoli che sono
per la vista degli occhi ciò che sono per la vista della
mente quelle grandi intuizioni istantanee del genio, che
abbracciano secoli di storia e regioni d'idee. Lo spettacolo che
si gode da Superga è un di questi, ed è anche
più grande e più bello della sua fama. Dalla
sommità della cupola, con un solo giro degli occhi, in tre
secondi, s'abbraccia tutto l'immenso cerchio dell'Appennino
genovese e delle Alpi, dai gioghi di Diego e di Millesimo alla
piramide superba del Monviso, dal Monviso alle porte della val di
Susa, al Gran San Bernardo, al Sempione, al Monrosa, alle ultime
montagne che fuggono verso levante di là del Lago Maggiore;
sotto, tutti i colli di Torino, popolati di ville e di giardini;
più in là i bei poggi del Monferrato, vestiti di
vigneti e coronati di castella, e le colline ubertose della
sinistra del Tanaro; e oltre a queste una successione di tappeti
verdi sterminati, una campagna senza fine, che si perde nelle
pianure vaporose della Lombardia, argentata dalle mille curve del
Po, seminata di centinaia di villaggi, rigata di strade
innumerevoli, coperta d'una vegetazione lussureggiante di boschi,
di verzieri e di messi, nettamente visibile in tutti i suoi
rilievi infiniti fino alle più grandi distanze, come se
ogni sua parte ci s'avvicinasse al fissarvi sopra lo sguardo. Ed
è una natura così fresca e così italiana di
forme e di colori, così maestosamente serena nella
immensità dei suoi orizzonti azzurrini, e così
grande e terribile d'antiche e di nuove memorie, che dopo averla
percorsa intera, quando si volgon gli occhi giù sulla
città tutta piana e rosseggiante lungo le rive del Po e
della Dora, chiusa in un vasto cerchio di verzura cupa, dominato
dal bel monte conico dei Cappuccini, somigliante a uno smeraldo
enorme, viene spontaneo sulle labbra il "Te beata" che
gridò a Firenze Ugo Foscolo, e si resta maravigliati che
tutta quella bellezza non abbia ancora avuto anch'essa da qualche
grande poeta il tributo d'una lode immortale.
Ho cercato molte volte,
curiosamente, con uno sforzo dell'immaginazione, di rendermi conto
dell'effetto che può produrre la città di Torino in
un Italiano che la veda per la prima volta....
Certo, un Italiano che arrivi qui
coll'idea di trovare una città uggiosa, e un po' triste,
come certi stranieri la definiscono - un villaggio ingrandito - un
mucchio di conventi e di caserme - deve provare un disinganno
piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella
mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo
quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a
destra dalla collina, davanti a quell'infilata di piazze, a quelle
fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità
allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare: - È
bello - o tirare almeno uno di quei larghi respiri, che
equivalgono ad una parola d'ammirazione. E andando su verso piazza
Castello.... Ma un Italiano che venga a Torino per la prima volta,
se appena ha una scintilla d'amor di patria nel sangue, è
impossibile che, addentrandosi nel cuore della città, serbi
tanta freddezza d'animo da non giudicarla che con l'occhio
dell'artista. Egli deve sentirsi sollevato, travolto da un
torrente di ricordi, sfolgorato da una miriade d'immagini care e
gloriose, che trasfigurino la città ai suoi occhi e gli
facciano parer bella ogni cosa. Deve veder Carlo Alberto,
affacciato alla loggia del palazzo reale, in atto di bandire la
guerra dell'indipendenza; incontrar sotto i portici il conte
Cavour, che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di mani;
vedere i Commissari austriaci del 59 che portano l'"ultimatum" al
Presidente del Consiglio; i corrieri che divorano la via Nuova
recando le notizie delle battaglie di Goito, di Pastrengo e di
Palestro; le deputazioni dell'Italia centrale che vanno a
presentare i voti dei plebisciti; una legione di vecchi generali
predestinati a morire sui campi di battaglia; a una cantonata
Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo, qui il
Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti; visi
tristi e gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel dell'Uovo;
giovani a cui brilla sulla fronte, come un raggio, il
presentimento dell'epopea dei Mille; battaglioni abbronzati di
bersaglieri della Crimea che passano di corsa e stormi di giovani
emigrati che sbarrano la strada, agitando i cappelli, alla
carrozza di Vittorio Emanuele; in ogni parte cento immagini di
quella vita ardente e tumultuosa, piena di speranze e d'audacie,
di grida di dolore, di canti di guerra e di fanfare trionfali, che
s'agitò per quindici anni fra queste mura.
Il centro di Torino ha una bellezza
sua propria, invisibile allo straniero indifferente, ma che deve
affascinare l'Italiano nuovo arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua
casa parla, racconta, accenna, grida; ogni arco de' suoi portici
è stato l'arco di trionfo d'un'idea vittoriosa; sopra ogni
pietra del suo lastrico si sono incontrati e stretti la mano per
la prima volta due italiani di provincie diverse, due esuli, due
soldati della grande causa comune; tutto v'è ancora caldo
del soffio immenso di amor di patria che vi passò,
infiammando e travolgendo ogni cosa, come un uragano di fuoco.
Quale Italiano può arrivar là senza sentirsi
commosso? In poche città i luoghi e i monumenti più
memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt'insieme lo
sguardo e la mente: in un giro di pochi passi, intorno al Palazzo
Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è anche bella per
l'artista e per il poeta quella piazza vastissima, che arieggia il
cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa e nuda,
dietro a cui s'innalza la cupola grigia della vecchia cattedrale,
il Palazzo Madama, grave come una fortezza, sorvolato da nuvoli di
colombi, il tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora Grossa,
la cortina verde delle colline che chiude via di Po, quel
contrasto di baracconi da fiera e di palazzi austeri, di folla e
di strepito da un lato e di solitudine tranquilla dall'altro,
danno a quella parte di Torino un aspetto misto così
stranamente di città nuova e di città vecchia, di
gaiezza meridionale e di gravità nordica, di maestà
di metropoli e di semplicità provinciale, da far pensare a
due città lontane che un prodigio abbia ravvicinate e
congiunte.
Ma qui non può farsi un'idea
di Torino il forestiero. Quietato il tumulto dei ricordi, bisogna
ch'egli s'inoltri in quella parte della città che è
compresa fra via di Po, via Roma, il Corso del Re e il fiume.
S'egli non è mai uscito d'Italia, ne avrà senza
dubbio un'impressione nuova. La città par fabbricata sopra
un immenso scacchiere. Per quanto si giri, non si riesce che a
descrivere una greca continua. Tutte le strade, a primo aspetto,
si rassomigliano: tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di
cielo con due file di case di color uniforme, su cui lo sguardo
scivola dal cornicione al marciapiede senza che nulla l'arresti,
allineate a corda com'erano i vecchi reggimenti piemontesi, coi
guidoni e le guide sulla linea, dopo un'ora di lavoro. Si va
avanti, e par sempre di passare e di ripassare nei medesimi
luoghi. Si può camminare a occhi chiusi: non c'è da
sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due
interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l'una chiusa
dalle Alpi, l'altra chiusa dalle colline. Qualche somiglianza con
altre città ci si trova: si ricorda via Toledo di Palermo,
Livorno, certi quartieri di Marsiglia e di Barcellona. Ma qui
c'è qualche cosa di particolare, difficile a definirsi: non
so che di più rigido e di più corretto. Non son le
case francesi, gabbioni con faccia di palazzi, parate di
decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file di
"umiliate", schiere d'alunne di collegio-convitto, grosse massaie
benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si danno
francamente per quello che sono, e spirano un'aria di bontà
contegnosa, l'amor della vita regolare, l'abitudine delle passioni
contenute. Il color giallo impera, con tutte le sue sfumature, dal
calcare cupo all'oro pallido, misto d'innumerevoli tinte
verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta
generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla
città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua
e là spicca la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche
punto scoppia il grido acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di
scandalo in quel silenzio di colori modesti; ma subito dopo si
ristabilisce la disciplina in due lunghe file di case della solita
tinta, un po' imbroncite, che han l'aria di disapprovare quelle
pazzie. Percorse le prime strade, si comincia a notare qualche
corrispondenza tra la forma della città e il carattere
della popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in
quella uniformità, c'è un'idea di schiettezza in
quello sdegno d'ogni ostentazione, un certo indizio di procedere
aperto in quell'ampiezza di spazi, un'immagine di forza in quella
tarchiatura di edifizi, una perseveranza che va dritta allo scopo
in quella rettitudine di linee. Passando per quelle vie si ricorda
involontariamente la disciplina dell'antico esercito sardo, le
antiche abitudini militari della cittadinanza, la rigidezza della
burocrazia, l'onnipotenza dei regolamenti, lo stile duro
dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio Pellico, la
correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento
cadenzato e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo
Brofferio, e la chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti,
di Giacomo Dina e del dottore Bottero. S'indovina la vita della
città a primo aspetto. Non c'è, come a Firenze, il
piccolo crocicchio, l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare
a casa sua, dove è possibile il dialogo tra la strada e la
finestra e la fermata d'un'ora con le spalle alla cantonata. Qui
c'è per tutto la città aperta, larga, pubblica, che
vede tutto, che non si presta al crocchio, che interrompe le
conversazioni intime, che dice continuamente, come il poliziotto
inglese: - Circolate, lasciate passare, andate pei vostri affari.
- Si può essere usciti col miglior proposito di andare a
zonzo: si finisce sempre con fissarsi una meta. A un certo punto
si sente un po' di sazietà; l'artista si rivolta contro
quella regolarità compassata. S'ha la testa così
piena di angoli retti, di parallelismi, di simmetrie, di omologie,
che, per dispetto, si vorrebbe poter scompigliare tutta quella
geometria con un colpo di bacchetta fatata, che mettesse Torino
sottosopra. Ma a poco a poco, come certi motivi monotoni, che, a
furia di sentirli ripetere, ci si fissano nel capo
irresistibilmente, così quella regolarità, a grado a
grado, fa forza al gusto e soggioga la fantasia. Si prende amore a
quell'uniformità che lascia la mente libera, a quella
specie di dignità edilizia, non ancora offesa
dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale, a
quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di
vederli, come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza
rigorosa, a quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si
stendono sul capo, e a quelle vie lunghissime in cui
insensibilmente il passo s'affretta, lo sguardo s'acumina, il
petto si dilata, la mente si rischiara, e a quelle grandi piazze e
a quei grandi giardini che fanno qua e là un largo squarcio
improvviso, pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa delle
strade gemelle. La città sonnecchia un poco tra via di Po e
via San Lazzaro, dove grandi isolati di color cupo gettano come
un'ombra di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali
non si sente strepito di lavoro, e la pedata di chi passa risuona
sotto le vôlte dei portoni muti e nei cortili erbosi; ma si
ravviva sui confini di Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e
chiare, piene di popolo minuto, si vede il verde fitto del Corso
del Re, e ringiovanisce all'estremità di tutte le strade
che van da ponente a levante dove le colline del Po mettono un
riflesso di serenità e di grazia campestre. E quanto
più si va lontano dal centro, tanto più la
città si fa varia e amena. Si trovano degli angoli ariosi,
tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla vita raccolta d'un
buon capo-sezione giubilato, che vada ogni giorno a quell'ora a
leggere il giornale al caffè vicino e a far la passeggiata
igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa per la
visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli
crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case
poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par
di vedere le camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma
di buona razza piemontese, che martellino ostinatamente sui libri,
menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato
e lucroso; grandi case aperte ad angolo verso la strada con cinque
ordini di terrazzini, che mostrano mille piccoli particolari
intimi della vita torinese, dal servitore che innaffia i fiori
della contessa al primo piano, su su, scendendo per la scala
sociale via via che si sale per la scala della casa, fino
all'impiegatuccio tirato che legge il giornale sotto i tetti e
alla moglie dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della
soffitta. Le strade essendo lunghissime, presentano
successivamente aspetti diversi: andando avanti diritto per una
strada sola, si attraversa una piccola parte di Torino
commerciale, una parte di Torino elegante, un quartiere povero, un
quartiere affollato, un quartiere deserto; si vede la città
in tutti i suoi aspetti, senza svoltare una volta sola. E non si
trovan grandi contrasti. I palazzi schierati alla pari con le
grandi case borghesi, alcuni anche dissimulati da una facciata
comune, come il Palazzo dell'Università e il Palazzo
dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere alle
strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che
schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una
vita splendida e superba. L'architettura è democratica ed
eguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro: - Cittadina - e
darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati
sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città
quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che
accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle
grandi ricchezze. Girando per Torino, si prova piuttosto un
desiderio di vita agiata senza sfarzo, d'eleganza discreta, di
piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da
un'operosità regolare, confortata da un capitale modesto,
ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza
dell'avvenire.
Questo carattere apparente di
Torino muta tutt'a un tratto all'entrare in quella parte della
città che si stende fra via Santa Teresa e piazza Emanuele
Filiberto. Qui la città invecchia all'improvviso di
parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e
malinconica. Il forestiero che vi capita per la prima volta ne
rimane stupito, come dalla trasformazione istantanea d'una scena
teatrale. Appena v'è entrato, la città gli si chiude
intorno, intercettandogli la vista da tutte le parti, ed egli vi
resta preso come in un agguato. Le vie serpeggiano e si spezzano
bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una
striscia sottile di cielo, nelle quali non s'aprono che portoni
bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili neri, scalette cupe,
anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro
e di prigione. Par di essere discesi in una Torino sotterranea,
dove non scenda che una luce riflessa. E andando avanti verso il
Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto, più
nero e più vecchio. Si riesce in crocicchi angusti che
ricordano le scene del Goldoni, dove si spettegola tra la strada e
le finestre, in angoli di viuzze raccolte e sinistre, in cui pare
che tutte le famiglie che v'abitano debbano far vita comune, come
una tribù di gitani: si vedono dei chiassuoli misteriosi,
chiusi fra alti muri senza finestre, d'un grigio sudicio, coperti
di grandi macchie diaboliche; e là immagini di madonne agli
spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso di
mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine,
albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti
coperti di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di
campagna, e caffè sepolcrali, che quattro avventori
riempiscono. E si gira in mezzo a file di bottegucce che han tutto
fuor dell'uscio fra odori di formaggi, di scarpe, d'olio,
d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di rinserrato, in una
mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto di gente
affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e
carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella
gente certe figure che non si ritrovano che là: beghinette
incartocciate a cui si domanderebbero i connotati di Carlo
Emanuele III, droghieri vecchi come le strade, che han l'aria di
aver militato contro la Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui
vien voglia di dare, passando, la notizia fresca dell'unificazione
d'Italia. C'è in tutta quella parte di Torino un malumore
d'antica cittaduzza fortificata, una tristezza di museo
archeologico, un tal vecchiume di muri, di merci, di facce,
d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi intorno
coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al
braccio o di tender l'orecchio per sentir se la campana
dell'antica torre di Dora Grossa annunziasse per caso
un'esecuzione capitale o la raccolta del Consiglio decurionale
della città. E quest'illusione si fa più viva
arrivando sulla piazza del Municipio. Davanti a quel palazzo
giovine di due secoli, ma d'aspetto già antico, in quella
piazzetta ombrosa affollata di gente della campagna, circondata di
portici ingombri di banchi di merciaie, attraversata dalla folla
che va al mercato di Porta Palazzo, in mezzo alle statue colossali
di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che
brandisce la spada e la figura atletica del Conte Verde che
atterra i Saraceni, di fronte alla via stretta e austera per cui
lo sguardo va diritto al palazzo silenzioso delle antiche
Segreterie, si rimane presi così strettamente dalle memorie
e dalle immagini d'un altro tempo che par di riviverci e di vedere
e di capire fin nelle sue più intime cose l'antica capitale
del Piemonte, quella piccola città rude, severa,
soldatesca, cocciuta, che preparò ostinatamente, in
silenzio, la grande lotta, e si cacciò per la prima, a capo
basso, contro il colosso nemico, coll'impeto del toro da cui ha
tolto lo stemma. E si scorda quasi, stando in quel punto, la bella
Torino vasta, gaia, crescente, che le si allarga intorno da ogni
parte, e par di fare un salto miracoloso, al rientrare
improvvisamente in via Dora Grossa, che spande un torrente d'aria
e di vita nuova a traverso a quel mondo invecchiato.
Come canzoni monotone e tristi che
finiscano in una risata argentina, tutte quelle vecchie strade che
corrono da levante a ponente, vanno a riuscire in istrade spaziose
e chiare, sboccano in piazze e in giardini, conducono ad una nuova
Torino giovanile, attraversata da larghi viali, piena di verde,
ribelle all'antica disciplina architettonica, dove al grande
isolato succede la casa geniale, al grosso pilastro la colonna
snella, al terrazzino a ringhiera il terrazzo a balaustri, al
giallo tedioso mille colori ridenti e leggieri, a una Torino
simmetrica sempre, ma senza monotonia, che spalanca verso le Alpi
la gran bocca di piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi
ondate l'aria sana e vivificante della montagna. Tutta questa
parte di Torino riceve un riflesso particolare di bellezza dalla
grande catena alpina che corona l'orizzonte delle sue smisurate
piramidi bianche. Pare che le Alpi mettano nelle sue piazze e
nelle sue strade tranquille il sentimento del silenzio immenso
delle loro solitudini. Da ogni parte spuntano le loro cime; tutto
si disegna sulla loro bianchezza; le ultime case della
città sembrano fabbricate alle loro falde; in meno d'un'ora
pare che si debba arrivare ai piedi delle prime montagne. Al levar
del sole tutta la grande catena si tinge d'un colore di rosa
leggerissimo, d'una grazia infinita, che impone quasi il silenzio
all'ammirazione, come se la parola dovesse rompere l'incanto, e
far svanire la visione. E durante il giorno lo spettacolo cangia
ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a un velo di
nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi delle cime
che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la catena
immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e
più pompose dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita
senz'ombre, che le dà l'apparenza d'una prodigiosa muraglia
verticale e merlata che separi due mondi. Ora le montagne
appariscono vicinissime, a traverso all'aria limpida, variate
d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per cui si discernono
nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le gole, tutti
gli scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più
leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si
vedrebbero col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore
bianco del mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta
vaporosa che si confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le
cerca con profili fantastici d'altezza soprannaturale, che si
dileguano quando si crede d'averli afferrati. Alle volte si
mostrano qua e là a larghi tratti, come inquadrate negli
squarci delle nuvole dopo un rovescio d'acqua, nette e fresche sul
cielo terso e profondo; altre volte cinte di immensi viali
bianchi, coronate d'aureole candide, impennacchiate di nuvolette
luminose, che danno un aspetto più solenne, con quel
sorriso di grazia passeggiera, alla maestà impassibile
della loro grandezza.
Ma lo spettacolo, sempre
bellissimo, è maraviglioso verso sera, quando la luce calda
del tramonto retrocede di altura in altura, e tutte quelle vette
superbe si disegnano a contorni bruni sul cielo purpureo, come le
guglie d'una città favolosa sullo splendore d'un incendio,
e quando tutto il grande cerchio delle montagne essendo già
immerso nell'ombra, il monte Rosa solitario brilla ancora della
sua bella luce rosata, come se vi battesse il raggio d'un altro
sole, e le sue cime gloriose fossero privilegiate d'un'aurora
eterna.
Il forestiero deve cogliere quel
momento, quando è tutto compreso della bellezza formidabile
delle Alpi, e di quel sentimento affettuoso e triste che si prova
alla vista dei confini della patria, per andare a cercare il
più piacevole degli effetti di contrasto di cui si possa
godere a Torino. Deve salire in una carrozza, e farsi condurre
rapidamente, per la via più dritta, sulla riva sinistra del
Po. Là era il poema, qui è l'idillio, davanti al
quale il pensiero, che già vagava di là delle Alpi,
ritorna tutto in Italia. È un paesaggio tutto verde, pieno
di grazia, e un po' teatrale, tanto ogni sua parte è in
vista, si mostra, si porge quasi allo sguardo, e par che tradisca
l'intenzione d'un artista, più che l'opera della natura. Le
colline schierate sulla sponda opposta s'avanzano sul fiume, si
ritraggono, si dispongono ad anfiteatro, si risospingono innanzi,
s'innalzano le une sulle altre a curve leggiere e gentili, che si
fanno accompagnare con uno sguardo carezzevole e con un atto di
consenso del capo; e sono coperte di vigneti, ombreggiate di
boschetti di pini, sparse di case e di ville, non tante fitte da
toglier loro la grazia della solitudine campestre, simili qua e
là nella vegetazione e nelle forme a certi tratti delle
colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di case da villaggio
si stende lungo la riva; da una parte il Castello rosso del
Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi tetti
acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si curvano
in mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla parte
opposta il paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza in
disparte, a grandi curve riposate e superbe, la collina di
Superga, coronata della sua Basilica solitaria, accesa dal sole.
Lo strepito d'un mulino, il mormorio di una cascatella del fiume e
le voci delle lavandaie inginocchiate lungo le sponde, sono i soli
rumori che turbino il silenzio di quel vasto giardino pieno di
gentilezza e di pace, dinanzi al quale il più prosaico
Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E il vecchio Po, largo e
lento, spande in mezzo a quella gentilezza la poesia guerriera dei
suoi ricordi e delle sue glorie.
*
Ma non ha visto Torino chi non ha
visto i suoi sobborghi, ciascuno dei quali ha un carattere suo
proprio, non abbastanza osservato, forse, neppure dagli stessi
Torinesi. C'è da fare un giro curiosissimo, partendo da San
Salvario, e andando su per l'antica piazza d'Armi e per il Borgo
San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo San Salvario è una
specie di piccola "city" di Torino, dalle grandi case annerite,
velato dai nuvoli di fumo della grande stazione della strada
ferrata, che lo riempie tutto del suo respiro affannoso, del
frastuono metallico della sua vita rude, affrettata e senza
riposo; una piccola città a parte, giovane di trent'anni,
operosa, formicolante di operai lordi di polvere di carbone e di
impiegati accigliati, che attraversano le strade a passi
frettolosi, fra lo scalpitìo dei cavalli colossali e lo
strepito dei carri carichi di merci che fan tintinnare i vetri,
barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le carrette, sul
ciottolato sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora
torinese, ma arieggia la "barriera" di Parigi. I portici sono
affollati di gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le
scale delle case risuonano di passi precipitosi; nei caffè
si parla d'affari; tutto dà l'indizio di una vita
più concitata che nelle altre parti di Torino. È una
piccola Torino in "blouse", che si leva di buon'ora, e lavora
coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che frequenta il
teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere la tazza
al Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica,
un po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e
affaticata, ma che par contenta di sè, in mezzo alla
verzura e ai larghi viali che le fanno corona, davanti alla
stazione che l'assorda coi suoi fragori e i suoi sbuffi di
gigantesca officina.
*
Di là andando su per il
Corso Vittorio Emanuele, si arriva alla vecchia piazza d'Armi, in
mezzo a una cittadina nata ieri, a una specie di giardino
architettonico, pittorescamente disordinato, dove ogni settimana
sboccia una casa; dove si ritrova l'"hôtel" dei Campi Elisi,
la palazzina del Viale dei Colli, la villetta genovese, il casino
svizzero, un vero visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei
quali par la protesta d'una bella signora contro l'antica tirannia
dell'architettura regolamentare. Le strade strette e discrete,
dove il silenzio non è interrotto che raramente dal rumore
di qualche carrozza privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri
variopinti e le cancellate eleganti dei giardini, girando intorno
alle case mute in curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi
simpatici, da cui si vedono qua e là spicchi obliqui di
villette lontane, terrazze a balaustri, piccoli portici,
giardinetti d'inverno coperti di vetrate, padiglioncini e
chioschetti coloriti; dietro ai quali appaiono e dispaiono livree
di cocchieri e cuffiette bianche di governanti. Si dimenticherebbe
di essere a Torino, se tutti quei tetti acuti, quei cornicioni
frangiati, quei camini di forme graziose e bizzarre, non si
disegnassero sulla bianchezza delle Alpi. È un quartiere
ridente, misto di città e di campagna, pieno di fragranze
d'erbe e di fiori, con un leggero color di mistero, un po'
femmineo, che fa venir sulle labbra dei versi di Alfredo De
Musset, e sveglia mille fantasie voluttuose di amori
aristocratici, di scalette di seta e di duelli all'ultimo sangue
nel silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore della luna. I
giovani romanzieri di Torino si serviranno largamente, senza
dubbio, nei loro romanzi avvenire, di questa piccola città
pomposa e gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si
popola da ogni parte, aspettando il Re gigantesco destinato a
torreggiare sulle sue case.
*
Poco lontano di là, girando
a destra, tutto cambia: s'entra in una città militare.
L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria, il Laboratorio pirotecnico,
l'Opificio militare meccanico, la Cittadella, la grande Caserma
della Cernaia, si stendono in lunga catena da piazza Solferino a
piazza San Martino, e danno a quella parte della città un
aspetto tutto soldatesco, compiuto dai tre monumenti guerreschi
del Duca di Genova, d'Alessandro Lamarmora e di Pietro Micca, che
brandiscono le spade e la miccia. Qui a certe ore del giorno par
d'essere in una città forte, in tempo di guerra. I
coscritti fanno l'esercizio sui viali e sulla piazza Venezia, per
le strade passano i picchetti di guardia, i carri di viveri e le
vetture d'ambulanza, passano ordinanze del treno a cavallo e
ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali per mano, escono
frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi d'ufficiali dalla
Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici militari; e
qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le strade
vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico si
sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di
canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano
suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le
strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi
ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani,
e le lunghe processioni di "figlie di militari", vestite di nero e
d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per ordine di
statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore
dall'esercito. Sotto i portici ci son le piccole trattorie che
tengon pensione, affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere
mobiliate e libere ai mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni
di militari puliti e lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli
banchi di merciaiuoli, dove il soldato va a comprare lo
specchietto, la pipa, il foglio di carta da lettera e la matassina
di filo, e pilastri tappezzati di giornali popolari illustrati,
per chi vuole ingannare il tempo nel corpo di guardia e nella
stanza di picchetto. La popolazione ha pure il suo carattere
speciale. La gente di bottega conosce i segnali delle trombe e gli
orari, le erbivendole parlano di "traslocazioni di corpi" e di
"campi d'istruzione", e i monelli fischiano le arie della
ritirata. È una piccola Torino in armi, balda e allegra,
nella quale s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina,
la notte, sotto la perpetua minaccia del "chi va là"; bella
e pittoresca sopra tutto di notte; coi suoi lunghi muri
silenziosi, coi suoi vasti cortili nascosti, quando la luna batte
sui merli della grande caserma di Alfonso Lamarmora, e pende
Comme un point sur un i
sul carabiniere solitario, ritto
davanti al suo casotto, sopra gli spalti deserti della Cittadella
addormentata.
*
Andando innanzi verso ponente,
oltrepassato il Borgo di San Donato, che s'allunga sopra una
strada sola, pigliando gradatamente l'aspetto di un villaggio
grazioso, s'entra, per il Corso Principe Eugenio, in una parte di
Torino stranissima, poco nota, nella quale la città si
perde nella campagna, e dove son raccolti i principali istituti di
beneficenza, fra cui il Ritiro del buon Pastore, l'Ospedale di San
Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di don Bosco, l'Ospedale di
Cottolengo; edifizi chiusi e muti, dall'aspetto di conventi e di
carceri, colle persiane rovesciate, coi finestrini ingraticolati,
con porte e porticine sbarrate, che danno al luogo l'aspetto
misterioso d'un quartiere di città orientale. Qui vive un
mondo invisibile d'infermi, di vecchi, di traviate, di
"preservande", di ragazze abbandonate, di bimbi senza parenti, di
giovinetti poveri, di maestre e di suore che pregano, soffrono,
studiano, lavorano, si preparano alla vita e alla morte, separati
dal mondo, nel raccoglimento severo della loro piccola
città solitaria. Le strade sono quasi deserte. Passano
carrozze colle tendine calate, s'incontran preti, qualche monaca,
poveri, si sentono canti di bambini, echi lontani di litanie,
rumori di porte interne aperte e chiuse cautamente, e tintinnii di
campanelli di parlatorii, a cui succedono silenzi profondi. Tutto
spira pace, rassegnazione e penitenza. Chi passa di là
abbassa la voce senz'avvedersene; scorda la Torino rumorosa del
lavoro e dei piaceri, e s'abbandona, rallentando il passo, alla
meditazione dei dolori e delle miserie umane, punto da una
curiosità triste di penetrare in quei recinti severi,
d'interrogare quelle sventure, di scrutare quel mondo sconosciuto
e nascosto, a cui tanta gente pietosa consacrò la vita e la
fortuna. E alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde
la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente
d'inverno, all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e
dei campi coperti di neve, già immersi nell'ombra azzurrina
della sera, scintilla ancora sotto l'ultimo raggio del sole l'alta
statua dorata di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua
chiesa solitaria, colle braccia tese verso le Alpi.
*
Proseguendo di là per il
Corso San Massimo s'arriva alla grande piazza ottagonale di
Emanuele Filiberto. Ma per vederla in tutta la sua bellezza
bisogna capitarvi una mattina di sabato, d'inverno, in pieno
mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di
un romanzo intitolato "Il ventre di Torino". Sotto le vaste
tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di
botteghini di chincaglierie e d'esposizioni di terraglia all'aria
aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e di pollame, a
mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che
portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle
pere cotte, gira e s'agita confusamente una folla fitta di
contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli
scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio,
di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti,
che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è
un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di
discussioni a frasi secche e tronche, di voci di maraviglia e di
sdegno, d'apostrofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme
in un mormorìo sordo e diffuso, come d'una moltitudine
malcontenta. Là bisogna andare per vedere le erbivendole
famose, formidabili di tarchiatura, di pugni e di lingua, e per
studiare la potenza insolente del vernacolo, la ferocia spietata
dell'ingiuria plebea, il lazzo che schiaffeggia, il sarcasmo che
leva la pelle, strazia la carne e incide le ossa. Da una parte
c'è il mercato delle contadine, venute da tutte le parti
del circondario, partite a mezzanotte dai loro villaggi per
arrivare in tempo a pigliare un buon posto a destra e a sinistra
d'un viale fiancheggiato di platani; e son là schierate,
ritte o sedute, colle loro derrate esposte su mucchi di neve
sudicia, strette le une alle altre come per tenersi calde,
inzoccolate, imbottite, infagottate, fasciate di pezzuole e di
scialli, con guanti di cenci e con fazzoletti attorcigliati
intorno alla fronte, con cappelli da uomini sul capo, con vecchi
mantelli da carrettiere sulle spalle, e lo scaldino fra le mani,
coi nasi e i menti pavonazzi; e in mezzo a loro passa la
processione accalcata e lenta dei compratori. Qui un pretucolo
soffia tra le penne d'un pollo per scoprire le polpe, là
una vecchia signora cogli occhiali spera le uova ad una ad una di
contro alla luce, più in là un vecchio celibe,
accompagnato dalla cuoca con la sporta, scruta un formaggio con la
lente; da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si
disputa, in un tuono di lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli
in mano, brandendo i cardi, scotendo le galline, gettando nelle
orecchie di chi passa frammenti di dialoghi monosillabici, che
fanno indovinare dei tira tira d'un'ora per un centesimo, delle
economie disperate, delle avarizie rabbiose, delle pazienze da
santi, delle miserie segrete di famiglie decorose, tutte le
durezze e le angosce della gran lotta per la vita. Passano
signorine eleganti, grossi borghesi buongustai, cuochi grassi e
tronfi, cameriere padrone, curiosi allegri, una folla
continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di
rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostriciattoli
col botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due
limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un
vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del
venditore della "Cronaca dei Tribunali" e dalla cantilena funebre
del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le
anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un
affaccendamento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un
disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a
venditori di specifici, a strimpellatori di violini, a banditori
d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di
delitti davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini
da burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di
paglia, accese dai fruttaiuoli infreddoliti per sgranchirsi le
membra. E non si può dire quant'è pittoresca e
bizzarra quella confusione di gente e di cose, di lavoro e di
festa, di città e di campagna, vista a traverso la nebbia
della mattina, che lotta ancora col sole, in mezzo a quei grandi
alberi sfrondati, imperlati di brina.
*
D'in fondo alla piazza, scendendo
per una gradinata, si riesce in una larga strada ricurva, che va
verso la Dora, davanti a un altro spettacolo curiosissimo. La
strada è tutta da un capo all'altro una sola enorme bottega
di rigattiere all'aria libera, un'esposizione grandiosa e
compassionevole di miserie, di cui non è possibile farsi
un'immagine fuorchè supponendo che un intero quartiere di
Torino, invaso da un furore di distruzione, abbia rovesciato
giù dalle finestre tutte le masserizie delle sue case, dai
solai alle cantine, fino all'ultima carabattola dell'ultimo
armadio. E tutto è ordinato, pulito, messo in vista, con
una cura scrupolosa, come la merce più rara, e accanto a
ciascuna delle cento rigatterie, che formano quell'interminabile
bazar di cenci e di tritumi, siede il venditore meditabondo,
appoggiato alla sua carretta, in atteggiamento filosofico, cogli
occhi fissi sulle rovine da cui ricava la vita. La varietà
e la stranezza degli oggetti è maravigliosa. È una
confusione di cose e d'avanzi di cose da far impazzire il
disgraziato che ne dovesse far l'inventario. La pianeta del prete,
il cappello sfondato del bersagliere, la marionetta rotta del
teatrino di San Martiniano, il vestito di seta lacerato al
veglione del teatro Scribe, la serratura del cinquecento, il
romanzo incompiuto di Eugenio Sue, il chiodo rotto, il basto
dell'asino, il quadro a olio, il berretto piumato del tenore,
denti finti, spille scapocchiate, padelle senza manico, elmi,
mappamondi, gambe di tavola, spogli d'alcove, di salotti, di studi
d'avvocato, di soffitte, d'officine, di taverne, muffiti,
sbrindellati, rosicchiati dai topi, bucati dalle tignole, marciti
dalla pioggia, smangiati dal fango, consunti dalla ruggine, senza
colore, senza forma, senza nome, senza prezzo: c'è tutto
quello che il mare agitato della vita umana rigetta da sè,
tutto quello che la mente può immaginare di più
miserabile, di più inutile, di più spregevole, di
più rifinito e di più snaturato dal tempo, dall'uso
e dalla violenza. In quello strano mercato comincia il lavoro nel
cuor della notte, al lume delle lanterne, e il formicolìo
della folla allo spuntare dell'alba. Là va la sartina,
furtivamente, a cercare lo scialle smesso; ci va il padre di
famiglia, corto a quattrini, a comprare il lume a petrolio; ci va
l'artista a scovar l'abito per il modello; ci va l'antiquario, il
bibliomane, l'attore spiantato, l'ebreo rigattiere, una
processione di collettori di bagattelle e di curiosi d'ogni
specie, impazienti tutti d'arrivare i primi a pescare in quel mare
magno in cui si nascondono qualche volta tesori sconosciuti e
piccole fortune insperate; e tutti girano e cercano avidamente
fino a giorno alto, in mezzo a un via vai di contadini e di
contadine che contrattano panni logori, di cenciaiuoli girovaghi,
carichi di stivali sdrusciti e di pentole fesse, di facchini, di
raccoglitori di cicche e di carte, di guardie municipali, di donne
di servizio, di bottegai, di sensali, che fluttuano in due opposte
correnti fra il mercato dell'erbe e il gran pandemonio della
piazza vicina.
*
Chi ha fatto questo giro, e
s'è ancora spinto poi, per il corso San Maurizio, fino in
faccia al Borgo Po, che chiude come uno scenario graziosissimo il
grande palcoscenico della piazza Vittorio Emanuele, ha visto la
città di Torino. Ma gli resta da studiare il movimento e
l'aspetto della popolazione, che è pure curioso. Il
più grosso torrente della vita scorre dalla stazione di
Porta Nuova fino a Piazza Castello, dove arriva gonfiato
dall'affluente di via Santa Teresa; e là si rispande per
via di Po e per via Dora Grossa, e serpeggia in mille rigagnoli
per le vie strette della vecchia Torino, fino al gran lago
ondeggiante della piazza Emanuele Filiberto. La gente si perde
nella vastità delle piazze, dove non si vedono che "rari
nantes"; presenta un aspetto generale d'eleganza nell'ultimo
tratto di via Roma e sotto i portici, e piglia gradatamente un
colore modesto e popolano, via via che scende verso il fiume o
risale verso i quartieri di settentrione e di ponente. L'ordine
è nella folla come nell'architettura: passa una processione
a destra e una processione a sinistra d'ogni strada, l'una opposta
all'altra: da una parte non si vedono che nuche, dall'altra non si
vedono che visi. Certi personaggi si succedono con una frequenza
che si nota subito: il vecchio giubilato, sbarbato e pulito, che
va rasente il muro; il giovane ufficiale d'artiglieria della
Scuola d'applicazione; lo studente vestito con una certa
sprezzatura d'artista; la sartina dal corpicino snello e asciutto,
con quattro cenci addosso, messi con garbo signorile e aggraziati
da un'andatura capricciosa insieme e composta; l'operaio di
statura media, d'aspetto rude, di membra solide, di movimenti da
soldato; l'uomo nuovo, l'industriale, il commerciante, l'agente
d'affari, fra i trenta e i quarant'anni, trascurato nel vestire,
di viso serio, grigio innanzi tempo, leggermente invermigliato dal
Barolo vecchio, col sigaro di Cavour spento fra le dita della mano
inquieta, e un pensiero fisso sulla fronte; il grosso padre di
famiglia, borghese benestante, con un viso benevolo, che manifesta
poche idee, ma quelle poche nette e salde, e inchiodate
profondamente nel cervello, nella coscienza e nel cuore, e tratto
tratto qualche signora alta, sottile e bianca, coll'occhio azzurro
e il piede patrizio, che fa col suo mantello di velluto nero una
macchietta vigorosa e pomposa nel grigio volgare della folla.
Tutti camminano guardando diritto davanti a sè; si discorre
senza rallentare il passo; poche conversazioni ad alta voce;
nessuna apostrofe da un lato all'altro della strada; si parla a
mezza voce, a frasi spedite, gesticolando in uno spazio circolare
di non più di due palmi di raggio, e risalendo prontamente
sul marciapiede, per forza d'abitudine, ogni volta che s'è
stati costretti a discendere. E già, nelle strade
frequentate, si vede, come nelle grandi città del nord, una
gara ad arrivare i primi, a lasciarsi indietro chi ci cammina
accanto, come se ogni vicino fosse un concorrente in affari. Tutte
le scorciatoie sono utilizzate, si svolta rasente i muri,
s'attraversa la strada di corsa, s'inseguono i tranvai, si fa
folla agli incrociamenti delle carrozze e dei carri, e
s'apostrofano carrettieri e cocchieri con voci e gesti impazienti
di gente che ha i minuti contati. Ma una certa apparenza di
gentilezza corregge il carattere un po' aspro di questa vita
frettolosa di città industriale. I saluti sono premurosi, i
cappelli s'abbassano profondamente, la gente si scansa con giri
svelti e larghi, i bottegai riaccompagnano i compratori alla porta
in atto cerimonioso, il cameriere si inchina all'avventore sulla
soglia della trattoria, il fiaccheraio riverisce la "pratica", il
venditore di giornali ringrazia del soldo con un buon augurio, le
erbivendole si chiamano "madama", le due frasi spicciole del
galateo torinese "ca fassa grassia" e "ca scusa" si sentono da
ogni parte e ad ogni proposito come il "pardon" e il "s'il vous
plait" a Parigi; la città fa i suoi affari alla lesta, ma
con dignità, da signora educata, non da rozza merciaia. E
come Parigi ha l'"ora dell'assenzio", Torino ha l'ora del vermut,
l'ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola
più rapido e più caldo. Allora le scuole riversano
per le strade nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di
operai, i tranvai passano stipati di gente, gli equipaggi
s'inseguono, le botteghe dei liquoristi s'affollano, un esercito
d'ufficiali e di soldati d'ogni arma si spande in ogni parte e
mette un soffio di gioventù per le vie, e nella mezza
oscurità della sera par di vedere Torino come
all'immaginazione piace di raffigurarsela in un avvenire lontano:
una Torino di cinquecentomila abitanti, che riempia la sua cinta
daziaria, con un nuovo centro e nuovi sobborghi, tutta sonante di
lavoro e rigurgitante di vita.
Ma il più bello spettacolo
vivo, e nello stesso tempo il più originale, che offra
Torino, è la passeggiata sotto i portici di Po, le sere
d'inverno. I portici sono i "boulevards" di Torino. L'albergo
d'Europa può rappresentare il "Grand Hôtel"; la
chiesa dell'Annunziata, la "Madeleine"; il caffè Fiorio,
"Tortoni"; il Teatro Regio, il "Grand Opéra". Anche qui la
folla maggiore, e il fiore dell'eleganza e del lusso passano a
destra. La prima cosa che dà agli occhi è il
contrasto della bottega splendida col baraccone da villaggio che
le sorge in faccia, nello stesso tempo officina e negozio; il
banco della fruttaiola di fronte alla trattoria aristocratica; il
rivenditore d'almanacchi e di libri usati in faccia al grande
libraio signorile. La contessa vestita in gala passa accanto ai
banchi di legumi e di caci, la conversazione leccata dei dandy
è interrotta dall'urlìo plebeo dei cavamacchie e dei
venditori di fotografie; tutto il mondo elegante sfila in mezzo a
quella lotta muta e continua del grande e del piccolo commercio,
schierati l'uno di fronte all'altro, in atteggiamento ostile, come
due catene di sentinelle avanzate dei due grossi eserciti nemici
della borghesia e della plebe. Qui la folla è fitta e nera,
divisa in due correnti, che si toccano, e spesso si confondono, e
straripano fuori dei portici. In alcuni punti è un vero
serra serra, come all'uscita da un teatro, tanto che nello spazio
di tre braccia quadrate si ritrovano spesso un capitano
d'artiglieria, una coppia matrimoniale, un prete, un accademista,
una crestaia, un operaio, stretti in un mazzo, che paiono una
famiglia sola. Qualche volta per pigliar spazio la folla è
costretta a fermarsi, e tutti "segnano il passo" come una colonna
di soldati. L'aspetto e il contegno generale è grave, come
l'andatura, e come disse un professore arguto, sembra che tutti
"meditino un regolamento". La gente gira tutt'intorno alla
Galleria Subalpina, a passi lenti, processionalmente, come nella
sala d'un museo, non facendo che un leggiero bisbiglio, che lascia
sentire distintamente le note acute dei cantanti nella sala
sotterranea del Caffè Romano. Sotto i portici non si sente
che un mormorìo sordo ed eguale, fra cui risuonano forte,
qua e là, le sciabole degli ufficiali e le risa argentine
delle fioraie e delle sartine, che fanno una scappata a traverso
al bel mondo, coll'involtino in mano, prima di tornare a casa, e i
colpi secchi delle porte dei caffè aperte e richiuse
bruscamente per timore del freddo. Par di essere in una galleria
d'un palazzo grandissimo, dove i convitati sfilino rispettosamente
al cospetto d'un principe. E siccome gl'incontri sono
frequentissimi e si ripetono, così è un salutarsi
continuo di militari, un continuo scappellarsi d'amici e di
conoscenti, di studenti e di professori, di grossi e di piccoli
impiegati, che si voltano obliquamente, passandosi accanto, per
non urtarsi nel petto. Della gente non si vede che il viso e i
fiati fumano. Ma i baracconi riparano dal freddo. Si sta bene in
quella calca, così stretti, l'uno addosso all'altro, e pare
che tutti provino piacere a pigiarsi, a sentirsi davanti, dietro e
dai lati dei pesanti pastrani, dei grandi mantelli d'ufficiali,
dei grossi borghesi ben pasciuti e caldi, usciti allora da una
sala da desinare. Da tutte le strade laterali arriva gente,
chiudendo l'ombrello, pestando i piedi, scuotendo i panni bianchi
di neve, e tutti si ficcano in quella folla, con gusto, tirando un
respiro, come se entrassero in casa. E la folla essendo
così pigiata, si colgono a volo da tutte le parti,
passando, brani di dialoghi sommessi, frammenti di discussioni
scientifiche, giudizi letterari di studenti, notizie sullo stato
dei fondi pubblici, qualche volta frasi staccate di confidenze di
signorine, che un'ondata di gente ha separate dai parenti che
vengon dietro, conversazioni francesi e tedesche, parole dolci
vibrate a bruciapelo nei momenti di maggior confusione:
specialmente allo svolto dei portici in faccia alla Galleria, dove
accade spesso d'incontrarsi faccia a faccia con marito e moglie, e
sentirsi ad un punto il fumo del sigaro del marito negli occhi, il
manicotto della signora contro le mani e la testa del bimbo in un
fianco. Chi non c'è abituato, può seccarsi sulle
prime, e impazientarsi di quello strano modo di passeggiare; ma
tutti, prima o poi, ci pigliano piacere. C'è non so che
idea di intimità domestica in quel lento va e vieni di
gente affollata sotto quegli archi, dinanzi a quelle vetrine
splendide, che finiscono con lo stamparsi nella memoria, ad una ad
una, come i mobili della casa propria; c'è un'apparenza
come di affratellamento e di buon accordo universale, un'immagine
viva di quell'unanimità di sentimenti e di propositi che
fece forte e ammirato il popolo piemontese, qualche cosa di
geniale e di benevolo, che non si sa ben dire, ma che mette un
calor salutare nel petto, dalla parte sinistra.
Torino, però, si presenta in
molti aspetti molto diversi, che un forestiero non può
osservare in pochi giorni. Ci son poche città che cambino
viso così stranamente col cambiare della stagione e del
tempo. Ha una bellezza sua propria quando è coperta di
neve, quando le Alpi son tutte bianche, le colline bianche, i
giardini, gli alberi dei viali lunghissimi, i larghi corsi, le
grandi piazze, tutto bianco; specialmente di notte, quando a
traverso la neve fitta, che vela la luce delle file interminabili
dei lampioni, non si riconoscono più le vie, si confondono
i crocicchi, la città sembra immensa, e nei vasti spazi
deserti regna un silenzio cupo di città disabitata, in cui
fuggono e spariscono come ombre impaurite le carrozze e la gente,
e vi par spenta la vita per sempre. È bella anche nelle
mattinate d'inverno grigie e rigide, quando il cielo coperto
piglia successivamente mille colori strani di viola, d'oro e di
porpora, che paiono riflessi di grandi incendi lontani, e ogni
strada è chiusa da una cortina di nebbia, come dal fumo del
fuoco di fila d'una barricata, nel quale i monumenti si drizzano
come larve, e le persone appariscono all'improvviso, come se
sbucassero di terra, e tutta la popolazione affaccendata della
mattina, morsa dal freddo, precipita il passo, batte i piedi,
stropiccia le mani, soffia sulle dita, saltella e scantona ad un
angolo retto, con le spalle ingobbite e il gomito al muro, come se
fosse inseguita e sferzata da una legione d'aguzzini invisibili, e
par che i raggi del sole s'arrestino intimiditi sui cornicioni
delle case, e che la città sia condannata al gelo e alla
mezza luce d'un'alba perpetua. Ma è bella sopra tutto di
primavera, in quei giorni che da un inverno lungo e uggioso si
salta improvvisamente nella bella stagione, e si sente la
verità di quello che disse George Sand: la primavera
dell'Italia settentrionale è la più bella del mondo.
Allora Torino si riscuote tutta, e par che ringiovanisca in poche
ore; la popolazione si spande per i giardini e per i viali, come a
una festa; per le grandi strade passano torrenti di luce e d'aria;
a ogni cantonata par che soffi una brezza nuova; si sentono ondate
d'odor di campagna e di fragranze alpine, che dànno una
scossa al sangue; il cielo, le montagne, le colline, gli sfondi
lontani delle vie, tutto è terso, netto, fresco, allegro;
Torino ha l'aria d'una città americana, venuta su da pochi
anni, nel primo sboccio della sua verde adolescenza; ma dorata da
un raggio di bellezza italiana.
Ma per veder Torino nel suo
più bell'aspetto, bisogna vederla nell'occasione d'una di
quelle grandi feste nazionali, in cui accorrono qui Italiani
d'ogni provincia, vecchi ministri che vi passarono i più
belli anni della loro età matura, deputati maturi che vi
passarono gli anni più belli della gioventù,
giornalisti che vi fecero le prime armi, ricchi che ci vissero
nella strettezza, antichi emigrati, senatori, generali, tutti i
superstiti di quella grande legione di uomini di Stato, di
scrittori, di lottatori, di soldati, di tribuni, che
preparò e iniziò qui la rivoluzione italiana, e se
n'andò con la capitale. È bello e commovente quel
ritorno. Tutti hanno qui mille memorie; sparpagliandosi per la
città, ne ritrovano una ad ogni passo; riconoscono luoghi e
persone, rivedono col pensiero gli amici e i compagni perduti,
ricordano alla svolta d'ogni via, si può dire, un
avvenimento e una commozione. Il popolo torinese è tutto in
giro, e in quei giorni rivive anch'esso in quel bel tempo, che par
già tanto lontano, in quei begli anni di speranze e
d'entusiasmi; anch'esso riconosce a ogni passo un ospite antico,
deputati incanutiti, generali incurvati, gravi pubblicisti di cui
ha letto le prime appendici letterarie, ministri che vivevano in
una cameretta al quarto piano in via Dora Grossa, visi, voci,
gesti che ravvivano tutti i suoi più cari ricordi e gli
fanno battere il cuore. Allora certi luoghi della città,
certi angoli storici ripigliano per qualche ora l'aspetto antico;
si rivedono nei vecchi caffè i personaggi e i crocchi d'una
volta; da ogni parte si stringono mani d'amici, si alternano
esclamazioni di stupore e di piacere, e conversazioni concitate,
piene di domande, di date, di nomi, di parole tristi e affettuose,
e di echi sonori delle antiche passioni giovanili; e piazza
Castello si rianima, e sotto i portici ripassa un soffio del
cinquantanove, e tutta la città si sente rifluire al cuore
il suo vecchio sangue di guerriera e di regina, e apparisce
più bella e più altiera in mezzo alla vasta cintura
verde dei suoi platani e al grande anfiteatro azzurro delle sue
Alpi.
FIRENZE
(Giugno, 1871).
Un Piemontese, che deve andare a
Roma tra poco, sentì il bisogno, qualche giorno fa, di
mandar un saluto alla città di Firenze, e pensò di
mandarglielo dalla cima della collina di Fiesole.
Una di queste sere, poco prima del
tramonto, prese la via di porta a Pinti, solo soletto, come un
pellegrino, e tirò innanzi a capo basso, almanaccando. La
strada era deserta. Egli, che vi era passato molte volte nei
giorni di festa, quando vanno e vengono tante famigliuole di
operai e brigatelle di giovani e coppie d'innamorati e
villeggianti e carrozze, quella sera, non vedendo anima viva, si
sentiva prender dalla malinconia. Andava su a passo lento, si
fermava dinanzi ai cancelli chiusi delle ville, dinanzi alle
chiesuole, ai tabernacoli, ai muri scarabocchiati col carbone;
girava tratto tratto, dai punti più alti, uno sguardo sulla
campagna: per tutto era quiete e silenzio. Incontrò qualche
povero, inciampò in una vecchia addormentata sullo scalino
di una porta, arrivò a San Domenico, e su, per la strada
più corta.
Per tutta la salita non si
voltò mai a guardar la città. Non voleva sciuparsi
l'effetto del colpo d'occhio più bello da godersi
lassù, dinanzi al convento. - Poichè è
l'ultima volta che la vedo, - pensava, - la voglio veder bene,
tutt'a un tratto, come al cader di un velo. - E faceva tra
sè quei ragionamenti fanciulleschi che si fanno in tali
occasioni, quasi per darsi un'illusione di sorpresa: - Che cosa si
vede lassù? Che città c'è nel piano? Dove
sono? Dove vado?
Arrivato in cima, accanto al
muricciuolo, prese fiato, e poi si voltò tutto a un tratto
verso Firenze.
Lo spettacolo, quel giorno, era
più stupendo che mai. Il cielo lucido e quieto di una pace
allegra; una striscia di nuvole aranciate all'orizzonte; il resto
puro: le cime delle colline lontane pareva che fendessero
l'azzurro; una freschezza primaverile spirava nell'aria. Sotto,
tutto quel saliscendi di poggi e di vallette, simile a un solo
immenso prato depresso qua e là, lievemente, come dal
premere d'una mano carezzevole, mossa da una fantasia capricciosa;
tutto un verde leggiero, variato sui punti eminenti del verde cupo
dei cipressi, disposti a file e a corone; interrotto da prati
fioriti; listato di strade, di viali, di sentieri bianchi, che
s'incrociano, s'inerpicano sulle cime, precipitano dal lato
opposto, e spariscono e riappariscono in distanza; casette, gruppi
di case, ville su tutti i rialti, nette, spiccate, che par che i
colli le buttino innanzi come per porgerle; oltre la città
un piano vastissimo, coperto d'una nebbia leggiera, a traverso
alla quale biancheggiano le case lontane, come vele sul mare; e su
tutta questa sterminata corona di colli, di villaggi, di ville, di
giardini, ogni cosa che par che guardi a Firenze, e voglia
scendere e precipitarle nel seno: l'ossatura d'una città
immensa che non si può immaginar compiuta senza un senso di
sgomento; uno spettacolo pieno di bellezza che fa pensare, e di
maestà che sorride.
- Mah! - esclamò il giovane
con un sospiro, sedendosi sul muricciuolo, con le spalle volte a
Firenze, per raccoglier meglio i suoi pensieri. - È pure
una dura legge che, quando s'abbandona una città, oltre al
rammarico di separarsi dagli amici e di rompere molte abitudini
che erano diventate care, uno si debba accorgere che vi sono
ancora da sciogliere altri legami: legami che lo tengono attaccato
ai muri delle case, ai piedistalli delle statue e agli alberi dei
viali..... Cinque anni! Mi par d'essere arrivato a Firenze ieri.
Era una brutta giornata, nevicava, non c'era anima nata per le
strade. Mi parve una città malinconica. Uscito appena dalla
stazione, infilai via Panzani; diedi un'occhiata, passando, a via
Tornabuoni: con quelle case di colore scuro, mi fece l'effetto
d'una strada tetra; andai oltre, vidi il Duomo, m'affacciai a via
dei Servi: mi parve un corridoio di convento; tirai innanzi fino a
via San Sebastiano: fu peggio. Mi sentivo soffocare in quelle
stradette, mi pareva che vi mancasse l'aria e la luce; m'uggivano
tutte quelle casucce, addossate le une all'altre, strette come
persone che si pigino, con quelle porticine che paion buche; una
casa alta come una torre, una bassa come una capanna, una grossa,
una mingherlina, una avanti, una indietro, tutte di sghimbescio,
come buttate là a caso.... Piovve per molti giorni. Io
stavo in via Pietra Piana, verso la Porta, e passavo dell'ore alla
finestra, guardando nella strada, solo e pensieroso. Ad ogni
sbatter d'uscio, la casa tremava tutta come se volesse cadere. -
Ci restassi sotto! - dicevo - tanto ho da crepare di
malinconia....
Poi venne il bel tempo, e col bel
tempo l'umore allegro.
Passarono tre o quattro mesi.
Un bel giorno osservai che per
andare da casa all'ufficio ero passato ogni mattina per la stessa
via; mi maravigliai di non aver mai pensato a prenderne un'altra,
e me ne domandai la ragione. - Forse, dissi tra me, è
l'effetto di quella tal casa che vedo di scorcio sulla cantonata,
appena son fuori della porta. Sarà fors'anco la chiesa che
c'è di rìmpetto. O son le finestre del palazzo
accanto a casa mia, che guardo sempre. O i bassorilievi del
palazzo più piccolo ch'è vicino alla chiesa. O sono
tutte queste cose insieme. - Poi, fermandomi in mezzo a una
piazza, mi venne fatto di domandarmi che cosa fosse che mi
tratteneva, in quel certo punto e in quel certo modo, con l'aria e
col sentimento di chi sta in casa sua; perchè mi pigliasse
la voglia di appoggiare le spalle al muro e di finire il mio
sigaro in pace; come non mi potessi trattenere dal chiamar gli
amici che passavano, e attaccar discorso, e far crocchio, e
sciupare in chiacchiere una mezz'ora. Cercai di spiegare a me
stesso il perchè avessi contratto l'abitudine di rallentare
il passo a quella tal svoltata, di guardare intorno su quel tal
crocicchio, di andar oltre col viso in aria....
Una mattina m'accorsi con stupore
di avere nel capo, distinte ad una ad una, le immagini d'una
cinquantina di case di strade diverse, delle quali avrei saputo
dire, senza rischio di sbagliare, il colore della facciata, la
forma delle finestre, il disegno degli ornati. Guardai meglio
quelle case, ripassandoci davanti; e quanto più le
guardavo, tanto più mi pareva che avessero tutte un'aria
propria, che so io? un significato, qualche cosa che mi faceva
pensare. L'una sentivo che l'avrei scelta di preferenza per
invitarvi degli amici a cena, e menarvi una vita allegra: mi
pareva che sorridesse. In un'altra ci sarei stato più
volentieri a studiare, solo, raccolto, con una gran biblioteca:
aveva un aspetto grave insieme e sereno. In una terza pensavo che
non ci si potesse vivere che facendo all'amore, tanto aveva le
forme snelle e la tinta gentile. Gli architetti di quelle case
bisognava che fossero giovani simpatici; dovevano aver voluto dir
tutti alcun che con quei disegni, e s'erano fatti tutti capire.
Man mano che passavo per quelle vie, mi s'affollavano alla memoria
versi, scene di romanzo, episodi storici, ariette d'opera. E
alzando gli occhi ai palazzi, alle torri, ai campanili, agli archi
grandiosi, mi cominciava a parere strano che, in luogo d'ispirare
quell'ammirazione subitanea e profonda, mista quasi ad un senso di
terrore, che sogliono ispirare i monumenti giganteschi,
costringessero invece, quando si voleva esprimere con parole
l'effetto delle loro bellezze, a servirsi degli aggettivi stessi
che s'usano per designare un bel fanciullo, un bel fiore, un bel
ninnolo, come: - Gentile, amabile, caro.... Guardando quelle
torri, quei palazzi, sorprendevo spesso in me medesimo un
desiderio bizzarro, come di fare scorrere la mano su quei
contorni, di palpare quei rilievi; e con questo desiderio, una
specie di sollecitudine gelosa per quelle moli enormi di pietra,
come se temessi che la menoma forza le potesse offendere e
sciupare; e con questa sollecitudine, un bisogno vivo e continuo
di correrle e di ricorrerle con quello sguardo d'amante che
avvolge, e striscia, e lambe, e si stanca sulle forme amate.
- Ma queste linee si muovono, -
esclamavo tra, me - v'è qualche cosa che si stacca e va su;
c'è senso e vita in quelle forme: - Cominciai a capire
certi amori ardenti per le glorie artistiche del proprio paese, e
mi compiacqui nel cogliere sul viso degli stranieri, che si
fermavano sulla piazza, la prima espressione della maraviglia e
del diletto. Presi l'uso di passare e di fermarmi tutti i giorni,
a quell'ora, in quei luoghi. M'accorsi che ogni giorno quella
contemplazione di pochi istanti mi metteva in un corso d'idee alte
e belle; sentii poi che la facoltà di quella maniera di
diletto si rafforzava e s'estendeva ad altre forme dell'arte; che
quel gusto del semplice e del grande s'insinuava anche un po' nel
sentimento e nel giudizio mio riguardo a cose che con l'arte non
avevan che vedere, a fatti, a persone, a costumi; mi parve
d'essere riuscito, per effetto di quel culto gentile, a domare
certi moti impetuosi e quasi selvaggi dell'animo mio, a dare alla
mia indole un che di più liscio e di più morbido, a
migliorarmi in qualche cosa. Per questo presi ad amare quelle
linee, quelle forme, quei colori; e non mi pareva più pazzo
il "Pieruccio" dell'"Assedio di Firenze", che, povero e
abbandonato, sente ancora un palpito di gioia segreta, sollevando
gli occhi pieni di lacrime ai monumenti della sua cara
città natale....
Questo seguì a me ed a
molti. Ma per chi sia venuto qui nel fiore della giovinezza, con
quell'irresistibile bisogno di aprire il proprio cuore e di
gridare: - Guardate! - che ci assale appunto negli anni in cui si
comincia a esser uomini e s'è tuttavia un po' fanciulli; -
per chi sia venuto qui coll'intima coscienza di esser atto a fare
qualcosa, senza saper che, nè come, nè quando; con
un presentimento confuso, con un desiderio inquieto, con quella
forza dentro che s'agita, e tenta e non rinviene l'uscita; per
chi, essendo venuto qui in quello stato, abbia sentito, al lume di
questo cielo e all'ombra di questi monumenti, squarciarsi come un
velo che gli avvolgeva l'ingegno, tutte le facoltà
ravvivarsi con impeto e ordinarsi con armonia, e dal tumulto,
prima infecondo, della mente e del cuore prorompere per la prima
volta, rozzi, ma ardenti e liberi, gli affetti, i pensieri, le
immagini; - per chi sopra tutto abbia raccolto qui, con lungo
amore, le forme e le parole da poter significare ed espandere
l'animo suo, affratellandosi col popolo per sorprendergliele sulle
labbra, ricominciando qui, per così dire, un'altra
infanzia, rinnovando quasi la sua natura, aspirando continuamente
e avidamente quest'aura vergine della vita italiana, per farsene
sangue, e informarsene il cuore e il cervello, superbo oggi
d'esservi riuscito, disperato domani di non riuscirvi, ma sempre
risoluto, ostinato e appassionato; per costui non ci sarà
nè parola nè omaggio che basti a significare
l'affetto e la gratitudine che deve sentire per Firenze, sua
ispiratrice e maestra.
Quando, a tarda notte, nel silenzio
della sua cameretta, dopo un lungo lavoro condotto con furia
febbrile egli sentiva bisogno di smorzare il fuoco che gli ardeva
le fibre, Firenze gli diceva: - Vieni! - e gli offriva la
splendida pace delle sue notti serene, l'Arno colorato di fuoco e
il bel colle di San Miniato illuminato dalla luna; e in quello
spettacolo gentile e solenne l'anima sua si quetava. E quando,
dopo aver lungamente faticato e sudato invano per dar forma e vita
a un concetto riposto o a un'immagine bella che gli appariva, in
barlume alla mente, egli buttava la penna sconfortato e si
slanciava fuori di casa, Firenze, offrendogli allo sguardo i
miracoli dell'arte affollati nella sua piazza famosa, gli diceva:
- Ecco la bellezza! - ed egli in quella bellezza confortava e
appagava l'animo, pensando ch'ella era italiana, e il suo orgoglio
umiliato d'artista moriva senza dolore nell'alterezza legittima e
santa di cittadino. E quando in certi momenti di sfiducia desolata
e di abbattimento mortale egli piangeva la sua provata impotenza e
le sue speranze deluse, Firenze gli diceva: - Migliaia di giovani,
e quanto migliori di te! io vidi, fra le mie mura, lasciar cadere
la mano disperata sopra un foglio bagnato di lagrime o sopra un
marmo spezzato; dolori che straziano il cuore, e gettano anzi
tempo nella tomba, io conobbi e nascosi; ed erano anime grandi. E
tu, miserabile, che pretendi, e chi accusi? - E allora egli si
ravvedeva e taceva, e da quella confusione salutare traeva nuova
forza e nuovo coraggio per combattere, perseverare e soffrire.
A questo punto, preso da
un'ispirazione diversa, il nostro amico si voltò
improvvisamente alla campagna ed esclamò in atto
drammatico, non senza un leggiero accento di tristezza: - Addio,
dunque, bel colle di Settignano! addio Patrolino! addio Sesto!
addio vallette verdi, chiesuole solitarie e casucce quete, che ci
avete fatto dire tante volte: - Beata la pace! - Stanchi d'una
baldoria carnovalesca, annoiati degli altri e di noi, tristi,
umiliati, noi ci siamo levati molte volte innanzi l'alba e
slanciati con desiderio smanioso alla campagna, come l'assetato
alla fonte; e correndo di colle in colle, di valle in valle, e
bevendo a lunghi sorsi deliziosi l'aura pregna di vita, abbiamo
sentito sparire tristezze e rimorsi, rinascere, con l'appetito
vigoroso e la gaiezza campagnola, la forza e l'ardor del lavoro!
Addio contadini cortesi, vecchierelle allegre e ragazzotte col
"damo" negli occhi, che sedeste tante volte a tavola con noi, come
vecchi amici; buona gente cordiale, che spalancavate gli occhi
maravigliati, vedendoci cavar di tasca il portafoglio per notare
le ingenue grazie del vostro celeste linguaggio; e addio voi pure,
bambinelli scalzi, di cui ci chinavamo a raccogliere le parole
come le note d'un canto sommesso; addio a tutti! Nessuno di noi vi
ricorderà senza rimpiangervi! Dalle sponde del Tevere,
rivolando col pensiero alle sponde del Po, ci soffermeremo sempre
in riva all'Arno, per mandarvi un saluto, sempre!...
Qui l'amico si fermò, si
turbò, e stette qualche minuto immobile, col capo basso,
occupato da un pensiero triste. Poi alzò la fronte
corrugando le ciglia, coll'aspetto di chi afferra il filo di una
reminiscenza lontana, e riprese a bassa voce:
-....Piazza Castello pareva un mare
di teste; c'era mezzo il popolo di Torino. Migliaia di voci
cantavano l'inno di Goffredo Mameli. L'entusiasmo toccava il
furore. Centomila visi erano rivolti alle finestre dove stavano i
deputati della Toscana. La gente gridava loro cose, là
sotto, che facevano venir freddo; tendeva le braccia come se essi
avessero a gettarsi giù, e li volesse prendere. Si voleva
vederli, e vederli ancora, e poi tornare a vederli. - Fuori! - si
gridava con accento di preghiera; - vada qualcuno a pregare che si
mostrino ancora una volta! Pregateli che ci parlino! Li vogliamo
sentire ancora! - I loro nomi correvano di bocca in bocca; alcuni
erano di famiglie antiche ed illustri, imparati già nelle
storie, o intesi nelle scuole, nomi solenni, che si pronunziavano
con riverenza; altri non saputi mai, ma pur cari per quel suono,
per quell'impronta paesana che li faceva riconoscere alla prima.
Si cercavano nella folla i pochi Toscani ch'eran venuti coi
deputati, si correva intorno a loro con una curiosità
infantile, si voleva sentire il loro accento decantato, si
ripetevano le loro parole, si scambiavano i "lei" e i "chiel" con
una dimestichezza che pareva antica.
Il nome di "Fiorenssa", come si
diceva, questo nome al quale il popolo, benchè l'avesse
sì poco familiare, era pure sempre usato ad unire
l'immagine di qualcosa di gentile e di augusto, si ripeteva allora
con amore; Firenze, già creduta tanto lontana, pareva che
si fosse avvicinata ad un tratto, che fosse lì
all'orizzonte, colle sue belle cupole e le sue belle torri; Dante!
Michelangelo! Machiavelli! e gli altri grandi nomi rivenivano alla
mente e sulle labbra, anche dei popolani, con un senso nuovo,
quasi come nomi di gente viva, di cui que' deputati ci avessero
portato un saluto o un ricordo. Firenze! Si vedevano con la mente,
a questo nome, delle legioni di scultori, di pittori e
d'architetti, che ci gridavano: - Viva! - da lontano, agitando
scalpelli, tavolozze e corone. Oh come si conoscevano tutti
senz'averli mai veduti! E come si sentiva la solennità di
quell'istante, la fusione di quei due popoli e di quelle due
storie! Era il Piemonte, il vecchio soldato, abbronzato dal sole e
coperto di cicatrici, che deponeva un bacio sulla fronte bianca e
splendida della madre delle arti; della quale dieci anni prima, a
Curtatone, aveva potuto stringere appena, e di sfuggita, la mano
insanguinata. Erano due grida sublimi, uno partito da Santa Croce
e l'altro da Superga, che si mescevano in un solo: - Ecco il
giorno! - Oh non c'erano freddezze allora! Non c'erano rancori!
- Freddezze? - riprese di lì
a poco, quasi maravigliato d'essersi lasciato sfuggire quella
parola; - rancori? Ma che! - continuò scrollando il capo e
sorridendo, - ma chi lo crede? chi ne parla più? chi se ne
ricorda ancora? Le famiglie piemontesi, forse, che si vedono, per
le case e per le vie, mostrarsi l'una all'altra i loro bimbi di
cinque anni, che parlano il più puro e argentino toscano
che si sia inteso mai, ridendone come d'una cara sorpresa e
parlandone con una compiacenza non scevra d'alterezza? O le loro
donne di servizio, venute dalle falde delle Alpi, che quando
c'è confusione in mercato dicono che "non ci si
raccapezzano?" O i rivenditori di giornali, nati sulle rive del
Po, che rifanno il verso ai nuovi venuti, perchè non
gridano ancora coll'accento paesano? Sogni! Interrogateli -
"Signore! - vi risponderanno: - ella ritorna molto addietro; qui
son nati i nostri figliuoli e i nostri fratelli più
piccoli; in questa lingua e in questo accento ci chiamarono la
prima volta e ci dissero le prime parole; qui ci abbiamo amici,
fidanzati, parenti; in Santa Croce c'è il nostro Alfieri;
che domande la ci fa? Questa è Italia, signore! La
città dove siam nati ci è sacra; ma anche Firenze ci
è cara, e l'amiamo".
Questo diranno; e vi soggiungeranno
anco molti che non partono col cuore lieto, che prevedono dei
giorni e delle ore in cui si ricorderanno di Firenze con una
tenerezza piena di malinconia e di desiderio, perchè qui si
son stretti dei cuori, molti, e con nodi tenaci, come segue
sovente fra chi s'è tenuto il broncio un bel pezzo.
Rancori? Non è vero, è una calunnia per tutti: per
chi parte e per chi resta; lo so di certo, io, lo vedo ogni
giorno, lo sento ogni momento.
Come? Chi è che brontola
laggiù? Chi è che alza le spalle? Avanti, se
c'è ancora qualcuno da questa parte o dall'altra;
spingiamoli in mezzo, a vedere se osano dirselo in viso; e che le
donne e i ragazzi, che amano, perdonano e dimenticano, li
costringano a levar le mani di tasca, e a tenderle di qua e di
là, e gridino: - Stringete! - Animo, giù il
cappello, ancora una volta, davanti a Santa Croce; un ultimo
sguardo alla cupola, e un saluto intorno alle colline, e addio, e
via, col cuore riconoscente e sereno. Per Dio! Chi ha ancora un
po' d'amaro nell'anima non è un galantuomo....
Ed ora dò il mio ultimo
saluto a Firenze anch'io.
Così dicendo, s'alzò,
si voltò verso la città, e mise una voce di
ammirazione. S'era fatto buio senza ch'egli se ne accorgesse, e
tutta la valle era popolata di lumi. Provò
quell'impressione stessa che si prova talvolta, girando per la
campagna di notte, quando si guarda giù, senza pensarci,
dall'orlo d'un'altura, e si vede la china, di cima in fondo,
sorvolata da una moltitudine immensa di lucciole, che la fan
parere tutta accesa. Così tutti quei lumi, a socchiudere
appena gli occhi, si confondevano in un solo strato luminoso, che
rendeva l'immagine d'un gran lago di fuoco. Dalle lunghissime file
dei fanali della cinta, simili a ghirlande tese intorno alla
città, altre file di lumi si stendevano dentro e fuori,
diritte, curve, incrociate; altre interrotte qua e là,
altre continue come un raggio di luce, altre nascoste quasi
affatto dagli alberi, dietro a cui si vedeva uno splendore
diffuso, come d'incendio; altre vicine, che parevano a pochi
passi; altre lontane, visibili appena, or sì or no; e nel
piano e sui colli, per tutto fiammelle, e gruppi di punti
luminosi, e tremoli bagliori; un bellissimo cielo stellato,
pareva, riflesso da una vasta acqua cheta.
- Ah! - esclamò il nostro
amico dopo qualche istante di muta contemplazione agitando una
mano verso Firenze; -....seduttrice!
Poi mise un sospiro e
mormorò:
- Addio, Firenze!
E scese ch'era buio fitto.
ROMA.
L'ENTRATA DELL'ESERCITO ITALIANO IN ROMA.
Roma, 21 settembre 1870.
Le cose che ho da dire sono tante e
tali che mi sarà impossibile di scriverle con ordine e
chiaramente. È già gran cosa aver la voglia di
scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del
primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto
ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della
commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di
aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.
Vi dirò subito che
l'accoglienza fatta da Roma all'esercito italiano è stata
degna di Roma, degna della capitale d'Italia, degna d'una grande
città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo
l'aspettazione, ma la immaginazione. Bisogna aver veduto per
credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; ma non
voglio spender parole per prevenirvi, perché capisco che
non posso aspirare ad esser creduto. Eppure sento che non vi
darò che una pallida immagine della realtà! Son cose
che non si possono ridire.
Ieri mattina alle quattro fummo
svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano
rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della
città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del
fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti.
Così era infatti. Il 4.° corpo d'esercito operava
contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta
Salara, la divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la
divisione Bixio contro porta, San Pancrazio. Il generale
Mazè de la Roche, con la 12.a divisione del 4.° corpo,
doveva impadronirsi di Porta Pia.
Via via che ci avviciniamo (a piedi
s'intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di
gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini
incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno
aspettando l'ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di
fanteria aveva ancora assalito. L'artiglieria stava ancora
bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo
bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia
era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici
appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno
dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che
tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici
davano saggio d'una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi
già erano aperti, che l'assalto della fanteria era
imminente. Salimmo sulla terrazza d'una villa e vedemmo
distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti
i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in
mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano
fucili tra 'l verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra
dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di
carriera in tutte le direzioni.
È impossibile ch'io vi dia
notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi
dirò della divisione Mazè de la Roche, che è
quella ch'io seguii.
La strada che conduce a Porta Pia
è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi.
Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta
si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le
materasse legate al muro dai pontifici, e già per
metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della
porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata
costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei
cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i
soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia
di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria
traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli
artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che
tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così
breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il
generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due
cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta
staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un'altra
porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli
zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno
dei nostri reggimenti ne pativa molto danno.
Quando la Porta Pia fu affatto
libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di
fanteria furono lanciate all'assalto. Non vi posso dar
particolari. Vidi passare il 40.° a passo di carica; vidi
tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio,
per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di moschetteria
assai vivo; poi un lungo grido "Savoia!" poi uno strepito confuso;
poi una voce lontana che gridò: - Sono entrati! -
Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei
bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di
artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in
mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri
verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla
barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a
mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i
primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali,
seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli
altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto
valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari,
comandante del 35.°. Vedemmo parecchi ufficiali dei
bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino
s'era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come
un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti
si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e
là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa.
La Porta Pia era tutta sfracellata;
la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era
rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano
più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra,
di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d'armi, di travi, di
sassi.
Per la breccia vicina entravano
rapidamente i nostri reggimenti.
In quel momento uscì da
Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse
verso il quartier generale.
Entrammo in città. Le prime
strade erano già piene di soldati. È impossibile
esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo
tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la
mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo
alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro.
Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il
popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che
procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi
di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza
di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che
aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del
Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri,
la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta
fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini
con le armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontifici. I
sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla
folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso
piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano
fazzoletti bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo
accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini
s'affacciano famiglie intere che batton le mani. S'arriva a piazza
di Trevi. I soldati prorompono in esclamazioni di maraviglia alla
vista della grande roccia coronata di statue, donde precipita un
fiume; gli ufficiali debbono sospingerli innanzi.
S'entra in piazza Colonna: un altro
grido di maraviglia s'alza dalle file. La moltitudine si versa
nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano,
l'entusiasmo divampa: non v'è parola umana che valga ad
esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo
altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della
folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti
hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando: - I nostri
soldati! - I nostri fratelli!
È commovente; è
l'affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto
ora; è il grido della libertà di Roma che si
sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d'una nuova
vita; è sublime.
E altre grida da lontano: - I
nostri fratelli!
*
Il Campidoglio è ancora
occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.
Una folla di popolo accorsa per
invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti
furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che
marciò quindici giorni coi soldati. Il popolo è
furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni
arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo
vederli, cessano di tirare; ma restano in atto di resistere. Una
specie di barricata di materasse è stata costrutta in alto.
L'assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime;
s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che hanno paura
dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio
sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta
inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che attendono sulla
piazza son portati in gran copia vini, liquori, sigari, biscotti.
La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito. Qualcuno, forse
un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi
ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande
ansietà. Ad un tratto cadono le materasse della barricata e
appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la sciabola
e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è libero. -
La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande
impeto su per la vasta scala, passa fra le due enormi statue di
Castore e Polluce, circonda il cavallo di Marc'Aurelio, invade i
corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto
quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il
Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell'imperatore
romano è carico di popolani; l'imperatore tiene fra le mani
una bandiera italiana. Un reggimento di fanteria occupa la piazza.
È accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia
reale, migliaia di voci l'accompagnano. All'improvviso tutte le
faccie si alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno
sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il
parapetto. Un pompiere sale per mezzo d'una scala sulle spalle
della statua e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso
e lunghissime grida risuonano nella piazza. La grande campana del
Campidoglio fa sentire i suoi rintocchi solenni. Da tutte le parti
di Roma accorre il popolo a ondate. Gli ufficiali che si trovano
sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile
affetto. Si grida: - Viva Roma libera! - Viva i nostri soldati! -
Le donne si mettono le coccarde tricolori sul petto. Da tutte le
finestre dei palazzi vicini si agitano le mani e si sventolano i
fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è
vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande
campana.
I conventi vicini, dove si crede
che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono
circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.
*
Si ritorna in fretta verso il
Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo che
agitano armi e bandiere. I soldati pontifici che s'avventurano
imprudentemente a passare per la città a due, a tre, o
soli, sono circondati, disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza
Colonna. In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi
disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi.
Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il
colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla
loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza.
Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini,
tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai
soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano.
Nel Corso non possono più
passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna sono tutti
stipati di gente; ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e
bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via
gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono
lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo
alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a
braccetto e lo conduce con sè. Molti si lamentano che non
ce n'è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li
disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di
preghiere e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini
vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le
penne.
Numerosissime frotte di cittadini
continuano a passare l'una dopo l'altra pel Corso con grandi
bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune
bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono
portate da due o tre persone. Tutta questa gente trae con
sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari
dei nostri reggimenti sono già diventate comuni: tutti
cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto
il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le
braccia si tendono dall'una parte e dall'altra, e le mani si
stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera
nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a
gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano
i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell'intendenza.
Passano i generali e tutte le teste si scoprono. - Viva gli
ufficiali italiani!-è il grido che risuona da un capo
all'altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei
carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è
ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande
stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente
affluisce popolo. Non v'è gruppo di cittadini che non abbia
con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo
a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani
sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi
cogli occhi scintillanti di gioia. - Viva i nostri liberatori! -
si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti
gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono
di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo
stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li
soffocano a furia di baci. - Viva il nostro esercito nazionale! -
gridano cento e cento voci insieme. - Viva i soldati italiani! -
Viva la libertà! - E i soldati rispondono: - Viva Roma! -
Viva la capitale d'Italia! - In molti, specialmente nei giovani,
l'entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per
gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e
fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa
sul cuore.
Non vidi mai, ve lo giuro, uno
spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di
più solenne e di più maraviglioso. Queste grandi
piazze, queste fontane enormi, questi monumenti augusti, queste
rovine, queste memorie, questa terra, questo nome di Roma, i
bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le
grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova
gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di
casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto questo insieme
è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo
alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe
che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi;
è una felicità che soverchia le forze del cuore. -
Roma! - si esclama. - Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come?
Che è accaduto? - Il ricordo di quello che è
accaduto è già confuso come se fosse d'un tempo
remoto. È una commozione che opprime. Ad ogni strada, ad
ogni piazza in cui s'entri, l'occhio gira intorno maravigliato, e
il sangue dà un tuffo. Avanti, di maraviglia in maraviglia,
di palpito in palpito, via via che si procede, la fronte si
solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la
vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all'obelisco, ci si
volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si
vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la
cima del Campidoglio, tutto intorno prodigiose bellezze di natura
e d'arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la
mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna
sedersi ai piedi dell'obelisco, pigliarsi la testa, fra le mani e
aspettare che la lena ritorni.
Intanto imbrunisce. Il Corso
s'è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha
veramente un aspetto fantastico. Candellieri, doppieri, lumi
d'ogni forma e d'ogni grandezza risplendono sulle ringhiere dei
terrazzini e sui davanzali delle finestre. A percorrere la strada
in carrozza non si vede più terra, è tutto un fiume,
a cui la strada non basta, e che straripa nei caffè, nelle
piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli. Questa immensa
folla è rischiarata da migliaia di fiaccole. Drappelli di
signore a due a due passano tenendo in mano dei cerini accesi, che
rischiarano il loro petto coperto di coccarde, di sciarpe, di
nastri tricolori. Sopra questo fiume di gente nuotano, sbattuti di
qua e di là, cappelli di bersaglieri, cheppì,
berretti, canne di fucile a centinaia. Le signore gettano
giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi dei soldati
che tendono le mani. Da un capo all'altro della lunghissima
strada, a ogni passo, si sentono dieci voci che cantano insieme. I
soldati non sono più condotti, sono travolti. I cittadini,
non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendo
loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio
di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui marciapiedi
arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i bambini. Il
gridìo nel Corso è oramai giunto a segno che chi
è stanco dalle fatiche della mattina non ci può
più reggere.
Salgo in una carrozza, e mi lascio
condurre al Colosseo. Attraverso la stupenda piazza della Colonna
Traiana, piena di gente anch'essa e illuminata; passo per
parecchie piccole strade; dappertutto lumi. Guardo nei
caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e popolani
insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito,
dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere. Eccoci nel
Campo Vaccino. È notte fitta, e il classico lume di luna
sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo è
stellato, e vedrò del momento sublime almeno i contorni. Da
tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a precipizio.
Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non
un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il
cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, veggo un'immensa macchia
nera sul cielo, e tanto è l'impeto e la dolcezza con cui i
ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti
in un punto, che non s'arresta il mio sguardo sui meravigliosi
contorni, nè vi si può arrestare il pensiero.
Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo
del cuore, col più ardente palpito che possa destare in un
cuore umano la gratitudine, saluto e ringrazio i padri e i
fratelli che non son più, quelli che languirono negli
esigli e nelle carceri, e quelli che spirarono sui patiboli e sui
campi di battaglia per darci questa grande patria, la quale, dopo
cinquant'anni di dolore e di sangue, oggi s'integra e s'incorona
al cospetto del mondo. O benedetti morti che ci avete preparato
questo santo giorno! O poveri morti che non l'avete potuto vedere
con noi! Siate amati, onorati, benedetti in eterno!
LA CUPOLA DI SAN PIETRO.
Per quanto si sia parlato, e
scritto della basilica di San Pietro, qualcosa da dire resta
sempre; e poi, questa volta, sotto la cupola di San Pietro
c'è una grande novità: i bersaglieri, dei quali non
è fatto cenno, credo, nè dalle guide, nè dai
libri archeologici, nè dalle opere artistiche; e spero che
la mia penna d'oca, con l'aiuto delle loro penne di cappone,
riuscirà se non altro a rallegrarvi.
Andai là con un mio amico
ch'era già stato a Roma. Passando sul ponte Sant'Angelo,
incontrammo un ufficiale che ci consigliò di tornar
indietro.
- Adesso ci troverete una
processione di soldati, - disse; - ne sono piene tutte le scale,
pare una caserma, bisogna tornarci più tardi.
Più tardi? Con questa po' di
febbre che ho addosso? Dopo aver veduto quella benedetta cupola
per cinque giorni a otto miglia di lontananza, grande, netta e
spiccata, che mi pareva a due passi, e mi faceva soffrire le pene
di Tantalo? È impossibile; fin che non ci sono sopra, mi
par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere questa maraviglia. A
San Pietro!
La carrozza era già di
là dal ponte Sant'Angelo, quando il mio compagno mi
consigliò di chiuder gli occhi e di non aprirli prima che
me lo dicesse: li chiusi.
A un tratto la carrozza si
fermò e l'amico disse: - Guarda.
Guardo: siamo in mezzo alla piazza.
Ecco le colonne, le fontane, la gradinata, la cupola, ogni cosa
come si vede nei quadri: nulla di nuovo, nessuna maraviglia.
- Dunque? - domanda l'amico, - non
ti scuoti? che impressione ti fa? non ti par bello, grande,
sublime?
Io son mortificato, non trovo
parola. Questa è la famosa basilica? Questa la cupola che
si vede di lontano quaranta miglia? Questo il gran colosso di San
Pietro?
- Dunque?
- Dunque.... senti, amico, vuoi
ch'io ti dica la verità?
- Quale?
- Mi par piccolo.
- Che cosa?
- Tutto: la piazza, la chiesa, la
facciata, la cupola, tutto quello che vedo.
L'amico diede in uno scroscio di
risa.
- Sarà ridicolo; ma è
vero. Mi par piccolo, mi par piccolo, mi par piccolo. Son
disilluso.
- Guarda quell'uomo.
- Quale?
- Quello seduto ai piedi d'una
delle colonne di mezzo della facciata.
Guardo l'uomo, misuro con l'occhio
tutta l'altezza della colonna, misuro la larghezza, poi l'uomo di
nuovo, confronto, riguardo ed esclamo:
- È immenso!
- Ah! qui ti volevo! Bisogna
confrontare, caro mio. Come ti puoi accorgere che qualcosa
è gigantesco dove tutto è gigantesco? A prima
giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono come te. Scendiamo.
Si scende di carrozza, si sale la
gradinata: non finisce mai. Si guardano le colonne della facciata:
ingigantiscono a ogni passo. V'arriviamo davanti: sono larghe come
case. Guardiamo in su: sono alte come campanili. Ci voltiamo
indietro: quanta strada s'è fatta! Le fontane, pur ora
così grandi, son diventate piccine che non paiono
più quelle. Un soldato vicino a noi esprime benissimo
questo stesso effetto; guarda la facciata e dice: - "Gonfia".
Entriamo. Guardo.... - Amico,
questa volta te lo dico sul serio: sono deluso.
- Aspetta. Vedi quella colomba in
bassorilievo, di marmo bianco, qui nell'angolo?
- Vedo.
- A che altezza ti par che giunga
della tua persona?
- Al collo.
- Vediamo.
Si va innanzi.... Diavolo, non ci
siamo ancora? Pareva a due passi. Eccoci. Oh questa è
curiosa! Stendo il braccio in alto, mi alzo sulle punte dei piedi,
e non ci arrivo.
- Guarda le lettere di
quell'iscrizione lassù; quanto ti paiono alte?
- Quattro palmi.
- Sono più alte di te.
Guarda quelle finte colonne; come ti paiono larghe?
- Un braccio.
- Tre metri.
Comincio a capire. In mezzo alla
chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa che sembra
una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! i
ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e grossi come Ciclopi;
la cosa è la statua di San Pietro; i soldati le baciano il
piede; un pretino poco distante guarda e sorride con un'aria di
stupore e di compiacenza; pare che dica: - Son cristiane queste
bestie feroci! Meno male!
C'è una lunga fila di
soldati in ginocchio intorno all'altar maggiore. Altri, negli
angoli lontani, stanno ammirando le statue, e per persuadersi che
sono di marmo metton loro le mani sulle spalle, sulle braccia,
sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di
bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra
di loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di essi, che
mi ha l'aria di un monferrino: "A j'è nen a dije; a
l'è un bel travaj" (non c'è che dire; è un
bel lavoro).
Siamo sotto la cupola. Su la testa.
Ah! qui l'effetto è veramente prodigioso! È bello il
vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in
su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi,
come se avessero intraveduto l'abisso. In altri il viso e l'occhio
s'illuminano come a una visione di cielo. È una maraviglia
che ha dell'estasi. È il solo punto della chiesa in cui
collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti
è enormità che stupisce e splendore che abbaglia,
non grandezza che ispira; ci si sente il teatro; si pensa
più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che
all'Idea cui furono consacrati; più ai pittori e agli
scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima è così
tenacemente legata alla terra dalle maraviglie dell'arte, che a
sprigionarla e a levarla in alto occorre assai maggior forza e
più difficile lotta che non a farla uscir vittoriosa dalle
tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe
servir di rifugio.
Si va innanzi, indietro, a destra,
a sinistra, e man mano che si procede la testa si fa pesante e la
vista s'intorbida. A ogni passo cento nuove cose, l'una più
straordinaria e mirabile dell'altra, s'affacciano confusamente
allo sguardo, vicine, fitte, ammontate. L'attenzione non basta a
tutte insieme, sopra una sola non può fissarsi, che le
altre la tirano, e così tremola e si stanca senza nulla
abbracciare. Colonne enormi, statue colossali, bassorilievi,
dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze d'ogni forma e d'ogni
natura: vi si passa accanto senza neanco guardare; si vedono e si
dimenticano le une nelle altre.
Si vede in fondo alla chiesa
qualcosa di nero che brulica intorno alla porta: è una
compagnia di soldati che entra. Quei colossi di angeli che reggono
la pila dell'acqua benedetta sembrano due giocattoli da ragazzi.
In vari punti ci sono dei soldati che si chinano a guardare sul
pavimento: guardano le indicazioni della lunghezza delle
più grandi basiliche del mondo. Quale arriva a metà,
quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole. "Mamma mia!"
esclamano i soldati napolitani. Quante moltiplicazioni dovranno
fare, tornati ai loro villaggi, per dare un'idea di San Pietro col
confronto della chiesa parrocchiale! Alcuni notano sul taccuino le
dimensioni. Altri fanno il conto di quanti soldati ci starebbero.
- Ci stanno tutti i soldati del 4.° corpo d'esercito? -
Sì.... e forse anche tutte le maledizioni che mandarono al
servizio delle sussistenze.
Ecco la porta per salire alla
cupola. Coraggio e su, chè sarà una sudata
memorabile. Si sale per una scala a chiocciola; gli scalini sono
larghissimi e appena rilevati; si va su a grandi giri,
agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro è coperto di
lastre di marmo dove son segnati i nomi di tutti i principi del
mondo che salirono alla cupola. C'è l'iscrizione di
Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro, ci stanno otto
daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo, cappelli coi
pennacchi, cheppì, sciabole di cavalleria, cinturini,
giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da stordire.
Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono,
s'incontrano, si salutano, si esprimono l'un l'altro lo stupore e
l'allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni,
poichè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di
sè. Sotto quella del Borbone che dice: "Re del regno delle
due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella
palla", si legge: "Tale dei tali, allora caporale del genio, ha
avuto l'onore di salutarlo a Gaeta".
Oh, ecco una finestra, guardiamo
giù. E non si canzona! Siamo già oltre il tetto dei
più alti palazzi. Si ripiglia la salita, si cammina altri
dieci minuti, ecco una porta: si esce al cielo aperto. Eccoci sul
tetto della chiesa: è una piazza d'armi. Si vede da una
parte un edifizio rotondo, alto quanto una chiesa ordinaria: non
è altro che una delle cupolette minori che fanno da stato
maggiore alla principale. È grande e stupenda, ma nessuno
la guarda; non s'ha tempo per guardare tutte le minuzie. Si corre
al parapetto, si guarda nella piazza: è un formicaio. Si
guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della facciata:
che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove scrivete; pieghe
dei panni in cui si può nascondere un uomo; dita che paiono
clave. V'è una chiave di San Pietro che a prima giunta si
piglia per un'ancora di bastimento. I soldati scorrazzano da tutte
le parti, chiamandosi e salutandosi dalla piazza al tetto, dal
tetto alla cupola, ed esprimendosi la maraviglia con quel ridere
allegro e quelle esclamazioni scherzose: - Che bagattella! - E chi
vuol andare di qua, chi di là; si tirano, si spingono, si
aggruppano, si sparpagliano, correndo, ridendo e chiacchierando,
come i ragazzi nel cortile di un collegio. - Bisogna farsi
coraggio, - dice uno, - e salire, perchè se non si va in
paradiso questa volta, non ci si va più. - Ma questa cupola
par piccola, - ripeto al mio amico. E lui: - guarda in cima. -
L'ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di soldati; o
come mai si vedono così piccoli se son così vicini?
Su, alla cupola. Sali e gira e
rigira, ecco un uscio che dà sur una galleria; la galleria
dà nell'interno della chiesa; mi affaccio; ma mi tiro
subito indietro, preso dalla vertigine. - Guarda la sala del
Concilio, laggiù in quella nave della chiesa, - mi dice il
compagno. Guardo. - Ma come! là dentro stavano tutti quei
vescovi? Ma se è grande come una scatola da tabacco! - Che
cosa paiono gli uomini laggiù? Mi ricordo il detto del
Guerrazzi: "quello che sono, insetti". Intorno a quell'altarino di
mezzo ce n'è uno sciame: sembrano una macchia nera che si
muova. Guardo dietro di me, nel muro, e m'accorgo che quelle
testine d'angiolo a mosaico, ch'io vedeva di giù,
starebbero bene sopra un paio di spalle di titano.
Si risale. Scale lunghe e diritte
di cui si vede appena la sommità, scale a chiocciola dove
per salire bisogna afferrarsi a una fune, scale di legno a zig
zag, scale comprese fra due pareti curve dove bisogna camminare
rotolandosi sulla parete più bassa; e da capo scale dritte,
e da capo scale a chiocciola, e avanti, sudando, ansando e
soffiando: ecco finalmente un raggio di luce, una porta, eccoci
sulla sommità, ecco tutta Roma: oh che aria viva e
leggiera!
La prima esclamazione che mi
colpisce, arrivato là, è d'un artigliere lombardo. -
"Madona!" - esclama giungendo le mani - "alter ch'el domm de
Milan!"
Si guarda giù, sul tetto
della chiesa, dove si era poc'anzi: si vede una processione di
formiche. La gente che passeggia per la piazza si discerne appena;
le due grandi fontane sembrano due pennacchietti bianchi agitati;
le cupole minori della basilica, campanelle di quelle piccine, che
si mettono sulle statuette dei santi. Tutta la città si
abbraccia con uno sguardo. Subito danno nell'occhio le mura del
Colosseo e delle Terme, nere e gigantesche. Le statue in cima alle
colonne, le punte degli obelischi, le sponde curve del Tevere, il
Pincio, la villa Borghese, il Quirinale, San Giovanni Laterano, il
Gianicolo, che sembra una collinetta di giardino, tutto si vede
distintamente. Il giardino del Vaticano pare un'aiuola; il
Vaticano, un edifizio comune, coi cortiletti: è tutto
chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco laggiù la campagna
romana, nuda e sinistra; di qui debbono aver veduto il passaggio
delle divisioni del Cadorna, compagnia per compagnia, cannone per
cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati, Albano, e più
a destra, lontano, quella sottile striscia luminosa, il mare.
Roma! Roma! Benedetto nome che non s'è mai stanchi di
dirlo; c'è qualche segreto in questo suono: Roma! Pare che
sempre ce lo ripeta l'eco nell'orecchio: Roma! Eccola qui
tutta....
Un soldato accanto a me guarda
anch'egli Roma con aria pensierosa; pare che voglia dire qualche
cosa, sorride, alza una mano, la batte sul parapetto: -
"Finalment"....
Sentiamo quel che vien dopo.
- "Ghe semm!"
Senti come l'ha detto con gusto! E
tutti gli altri soldati, sul punto di scendere, agitando una mano:
- "Addio, addio Roma!"
E giù per le lunghe scale
tortuose echeggia il suono dei passi precipitosi e delle voci
allegre.
PRETI E FRATI.
Nelle caserme pontificie si
trovarono molte copie d'un inno di guerra, dettato in francese,
che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha
molti punti di somiglianza colla "Marsigliese". Ha un ritornello
che comincia: "Catholiques, debout!" Ha una strofa che arieggia
quella dell'inno francese: "Entendez-vous dans ces campagnes", con
la differenza che ai "féroces soldats" sono sostituiti "les
barbares". Ha un verso che dice: "Viendront-ils nous prendre (ci
dev'essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos
églises, nos prêtres?" E il verso dopo: "Non, non, on
n'y touchera pas". E altre amenità poetiche su
quest'andare.
Ma dal verso in cui è detto
che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui
preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si
servirono principalmente i fautori del governo papale per
suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per destar nel
popolo l'avversione al governo italiano, e per alimentare la
diffidenza di quei molti che, pure essendo cattolici in buona
fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti italiani.
Questo fatto spiegherebbe pure
l'astensione d'una parte del popolo dalle dimostrazioni
entusiastiche così nella città di Roma come nei
villaggi della provincia.
A Monterotondo, discorrendo con un
cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli
domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:
- Per me sono contentissimo; -
rispose, e lo diceva sinceramente: - tutto va bene, non si
potrebbe desiderare di meglio. - E poi a bassa voce: - Hanno
rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri,
funzioni, ogni cosa come prima.
- Oh curiosa! Ma credeva che si
venisse qui per far man bassa su tutto questo, lei?
- Io?... nemmen per sogno.
Certo che lo credeva, e con lui chi
sa quanti, che all'entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in
casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e
rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente italiani
degli altri.
Non ricordo in che villaggio, una
donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli
disse con voce affannosa e supplichevole: - È una buona
persona il nostro curato, glie l'assicuro; è un galantuomo;
non gli dispiace mica che vengano i soldati italiani; non gli
facciano nessun male, lo raccomandi lei ai soldati, ci faccia
questa carità....
Quella donna credeva fermamente che
il "mandato" dell'esercito italiano fosse di far la festa ai
preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare,
ch'essa non abbia messo fuori dalla finestra la bandiera
tricolore.
Passava un drappello di
seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v'erano passati i
soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco: -
Ora.... quelli là.... è finita.... - E mi guardava.
- Perchè finita? - gli
domandai.
- A questi lumi di luna....
- Ma che lumi di luna! I seminari e
i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce
li avremo sempre.
Fece un atto di stupore, e poi
domandò: - In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?
- Anche noi in Italia.
- E passeggiano per le strade?
- Passeggiano per le strade.
- E nessuno gli dice nulla?
- E che volete che gli dicano?
C'era da perdere la pazienza; mi
ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.
In una via remota di Roma, poco
dopo l'entrata dell'esercito, si vide un vecchietto che, all'aria,
doveva aver avuto un tale spago delle cannonate da perdere il lume
della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata
la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e
sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire,
credette di dover far l'italiano per non essere accoppato.
Cominciò con sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto
il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo: -
Accidenti ai preti!
Le bricconate fatte per
viltà sono più rivoltanti di quelle fatte per
nequizia. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio
e gli disse con piglio severo: - Per essere Italiano non
c'è mica bisogno di mandare accidenti ai preti, sapete!
Il vecchio rimase attonito.
- Non ce n'è proprio
bisogno, - soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a
guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì
più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il
"viendront-ils" degli zuavi.
Un oste, all'apparir dei soldati,
s'affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era
scritto: "W. Pio IX". Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:
- Lasciate quella roba dove si
trova.
- Ma io....
- Lasciatela.
- Ma io non son mica per il papa;
io son per lor signori.
- Ma per essere per noi, non
c'è mica bisogno che rinneghiate il papa.
- Ma questa roba....
- Ma questa roba vi potrà
ancora servire, e tira poco, speriamo, perchè le cose
s'aggiusteranno.
- Lei dice bene.
- E voi facevate male.
Del resto, i preti mostrarono di
non aver le paure che s'adoperavano a metter negli altri. Mentre
nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita,
essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei
reggimenti, e molti non abborrivano dall'onorare d'un cortese
saluto gli ufficiali a cavallo.
Un solo frate mostrò d'aver
paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un
somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante,
e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse
le mani in atto di chieder grazia. - "Fa nen 'l farçeur" -
gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo
Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva
matto dalla contentezza.
E non mancarono i preti che
accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete ed un frate
stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla
porta del convento, sereni e ridenti ch'era un piacere a vederli.
Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all'uno o
all'altro.
- Si va a Roma, reverendo.
- Dio v'accompagni!
- Senti! È dei nostri!
Il prete si mise una mano sul
cuore.
- Viva! viva! - si gridò
dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.
Non intesi mai, nè altri
può affermare d'aver mai inteso un soldato dire una parola
sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e
condonabili sempre alla gaiezza soldatesca, Se l'"Unità
Cattolica" osservasse che è inurbanità il dirigere
la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che
nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi
sull'uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano.
Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano. Non so se ci
sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.
Nei primi due giorni non si videro
in Roma nè preti nè frati, o soltanto pochissimi. Ma
non si può dire che stessero nascosti per timore: qual
ragione avrebbero avuto di temere i nostri soldati a Roma
più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non
aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni
del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo
giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida,
sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno
guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che
scrisse don Margotti, eran piene di "facinorosi", di "tigri
assetate di sangue" e di "donne di mala vita", tutta gente, come
diceva l'oste milanese della "Luna piena", latina di bocca e
latina di mano.
La mattina dopo il 20, venendo dal
Campo Vaccino al Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a
una delle grandi scale che dànno sulla piazza, è un
gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono
fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due
o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di
sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione;
altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati
appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici
vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: - Che cosa dicono
i frati? - "So' chiù etaliani de noautri", - mi rispose
ridendo.
La sera, per le strade, se ne
videro molti. Ce n'era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi,
cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e
rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che
pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse
la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme
sempre. Discorrevano di politica.
Passando in certe strade appartate,
i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e
chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di
reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il
tempo, e, sentito grida o musiche lontane, richiudevano le
imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano
a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via
rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte
pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli
anditi delle chiese e delle sagrestie.
Qualche prete, attraversando in
fretta via del Corso e vedendo di sfuggita qualche nuova uniforme,
si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia
fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in
tenuta di parata. Li guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi
alla testa, e poi si consultarono l'un l'altro tacitamente,
stringendo le labbra coll'aria di dire: - Che roba è?
Curiosità n'avevano, certo;
ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati,
lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra
della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita
intorno al collo come per allargarsi il collare, tanto per aver
agio di voltare la faccia senza parer di guardare.
Lasciamo gli scherzi; debbono aver
detto in cuor loro: - Qual differenza dai nostri zuavi!
Chi avesse visto in viso quei due
cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza
dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant'Angelo, poco dopo
ch'era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai
principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando
si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che
girarono sui soldati, e l'atto di ringraziamento con cui
accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con
cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li avesse visti avrebbe
giurato che un sorriso, uno sguardo, un atto così quei due
cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.
E cardinali, e preti, e frati se
v'era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e
di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le
chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e
irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani
erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un
reverendo; ch'erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle
chiese a baciare i piedi dei santi; ch'erano vandali, e li hanno
visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai
frati; ch'erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai
popolani: - Che rarità di soldati son questi che non dicon
nulla alle donne! - Volere, o non volere, un grande edifizio di
menzogne è caduto e, per Iddio, si potrà
raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.
Quante conversioni politiche
debbono aver fatto i nostri soldati!
Quanto poi ai preti e ai frati, io
avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se
è vero che la maravigliosa dimostrazione di Roma, tanto
superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più
che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i
più fieri e ostinati nemici d'Italia, che non avrà
potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era
fiacca e la nimicizia determinata solamente dall'interesse? Quelle
poche fibre italiane, che il conte di Cavour non voleva credere
morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro
cuore la sera di quel giorno. Le grida e i canti del popolo
debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come
un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti
debbono aver invidiato dal più profondo dell'anima quella
gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da
non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l'orecchio alle
musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza
mesta ed amara, debbono essersi ricordati di aver una patria,
debbono aver sentito che l'amavano, debbono aver profferito in
segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver
domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del
pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di
benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata
che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla
solitudine e all'abbandono come rinnegati o stranieri.
LE TERME DI CARACALLA.
- Andiamo alle terme di Caracalla.
- Andiamo; si può passare
vicino al Circo Massimo.
- E attraversare il Campo
Scellerato.
- E veder l'arco di Giano.
- E la Cloaca Massima.
Niente di meno! Ponete d'essere due
amici a far questo dialogo, e ditemi se non c'è da sentirsi
gonfiare, e mettersi a parlar latino, anche a rischio di far
fremere di sdegno grammaticale il sacro suolo e le venerande
rovine.
Per andare alle terme di Caracalla
si passò accanto a tutti quei monumenti; ma in fretta, e
senza molto badarvi, che tanto c'era stato detto e ridetto delle
terme, da toglierci pel momento ogni altra curiosità e ogni
altro pensiero.
- Vi faranno più impressione
del Colosseo, - ci avevano detto molti; ma noi non lo credevamo
possibile, e perchè il Colosseo ce n'aveva fatto una
grande, e perchè l'idea, prosaica che in fin dei conti le
terme erano uno "stabilimento di bagni", come si diceva
scherzando, ci teneva in freno l'immaginazione.
Per istrada, si celiava
confrontando la prima austerità dei costumi romani,
quand'era proibito al genero di fare il bagno in presenza del
suocero, con la licenza degli ultimi tempi, allorchè si
vedevano sorgere dall'acqua alla rinfusa teste di patrizi e di
matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e l'imperatore tuffarsi
nella "natatoria" in mezzo ai popolani, e le schiave aspettar le
padrone nelle celle per ricomporre sui capi stillanti i "crines
suppositi", e ungere le membra d'unguento.
- Le terme, signori, - dice a un
tratto il cocchiere.
Una gran muraglia nera e una gran
porta son tutto quello che mi ricordo della parte esterna. Il
primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa, di
straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria. La
porta s'apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una
voce che dice: - Qui v'erano le celle pei signori romani che non
volevano bagnarsi in pubblico. - Non si guarda, si va innanzi
altri pochi passi: ci siamo.
Guardiamo un pezzo in silenzio.
Siamo in mezzo a un campo cinto da
quattro muri altissimi. Nel muro dirimpetto a noi v'è una
gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una
seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro
campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra
chiudere l'edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime,
e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e
silenzioso come una città abbandonata.. Guardiamo in terra:
v'è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico
uguale e intatto come fatto ieri. In alcuni punti il terreno
s'alza, in altri s'abbassa. Vicino al muro v'è un tronco di
statua; accanto alla porta alcune nicchie vuote.
- Qui c'era un grandioso porticato,
- dice uno. Non ve n'è più traccia, andiamo innanzi.
È una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo
recinto. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto,
e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell'edifizio. Di qui si capisce
qualcosa. Vediamo.
Guardo intorno: che triste e grande
spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano
dalla sommità al suolo, lasciando in qualche punto veder la
campagna. Vôlte alte e leggiere, somiglianti a cupole di
chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in
punte, in lingue, in tronchi d'arco prolungati e sottili, che
minacciano rovina. Qua e là enormi pilastri monchi,
spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti
in grossezza dal basso all'alto, fino a disegnarsi nel cielo
smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate,
squarciate agli spigoli come dall'uscita forzata di un corpo
più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche
di mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille
modi scemati e guasti, come dall'opera di mille mani rabbiose. E
via pei muri fori d'ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui
non si scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei
piani, e tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di
vasche. E in terra, in mezzo a queste rovine gigantesche, larghi
pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali,
coperti ancora dall'antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami
di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue,
ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa,
sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e
rudero, le erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima
trionfatrice, apertosi il varco a traverso i pavimenti marmorei,
risaluta, dopo un giro di secoli, il sole.
Si guarda e si pensa. È
triste, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella
mente nostra l'intero edifizio. Quegli avanzi non bastano: sono
troppo rotti e sformati. Si segue coll'occhio la curva d'un arco,
e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella
direzione d'un andito, e il profilo d'un pilastro ci sfugge; ci
sfuggono, via via che si disegnano, le linee, e con le linee le
proporzioni, e con le proporzioni l'effetto, che sarebbe immenso,
del tutto. Quegli avanzi son come le note interrotte d'una musica
lontana, di cui s'indovina, più che non si sente, la
melodia. - Se ci fosse qualcosa di più, - si pensa; - se
per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo
vuoto, se là rimanesse ancora quell'atrio, quante cose se
ne potrebbe argomentare e capire! Che peccato! - E più e
più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa
ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi
gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande
curiosità, si guarda: che stizza! La scala è
troncata a metà. Si vede l'imboccatura d'un andito: o dove
riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si
stanca l'occhio sulle vôlte e sulle pareti che dovevano
essere dipinte, caso mai ci restasse un po' di colore, qualche
linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie
dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che
cingevano l'edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che
sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco
che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale del
centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che
si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano
essere le biblioteche, di qui doveva scendere l'acqua. Si seguono
attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l'occhio fisso
nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra
nelle celle dove l'immaginazione è più raccolta, e
si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? Nulla; ma si
guarda, nè ci si può allontanare prima d'aver molto
guardato.
E il pensiero s'immerge nel
passato.
Animo, rifacciamo queste mura e su
di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila
sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello
antico, l'Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e
lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e
lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e
laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento
zampilli. E duemila Romani in preda all'ebbrezza dei piaceri.
L'aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole
delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei
e le treccie brillanti di perle. Dall'acque, infuse di balsami,
emergono i volti accesi di voluttà. Sull'orlo delle vasche
si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli
unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i
canti dei cenacoli, le grida del popolo plaudente ai giuocatori
risonano dalle gallerie, e s'odon le voci dei poeti che declaman i
versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi
dell'edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli
candidi, e passano, salgono, scendono, s'incontrano senatori
canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si
confondono in un vocìo continuo tutte le lingue ed in uno
splender diffuso tutte le ricchezze del mondo.
Ed ora muri diroccati, mucchi di
sassi, un po' d'erba selvatica, e silenzio.
Oh! poter rivivere un minuto quella
vita, o vederla vivere un istante, con uno sguardo solo, come si
vede una cosa fuggente!
Ora tutto è mutato. Invece
delle vaste sale cinte di colonne, quei gabbiotti soffocanti degli
stabilimenti di bagni, coll'avviso: - È proibito di fumare.
- In luogo delle grandi piscine, la tinozza dove si sta
rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e in cambio delle
musiche dei cenacoli, il campanello per la biancheria!
Eravamo nell'ultima sala, o campo
(chè non v'è più tetto), quando il silenzio
profondo che regnava intorno fu rotto improvvisamente da una voce:
- "Veni cà".
Guardammo in su: era un soldato di
fanteria che dal sommo d'un muro altissimo chiamava i suoi
compagni rimasti giù, e accennava alla bella veduta che gli
si offriva dintorno.
Alcuni soldati vicino a noi
raccoglievano le pietruzze dei mosaici. Altri esperimentavano
l'eco gridando dei comandi militari. Più in là v'era
una signora con un ufficiale.
Salimmo anche noi dov'era il
soldato. La scala è aperta, se ben mi ricordo, in un
pilastro. È una scala larga e comoda; ma interminabile.
Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l'ultimo;
ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a
mezz'altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che
pareva s'inalzassero man mano che salivamo. Guardammo giù,
e ci meravigliammo d'esser tanto saliti. Da quel punto,
abbracciando con lo sguardo una gran parte dell'edifizio, potevamo
formarci un concetto più adeguato della sua grandezza. Ci
trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva
stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure
girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci
avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che la vôlta
mancava, si dovette tornare addietro. Si vedeva di là il
monte Testaccio, i deserti "prati del popolo romano", la basilica
di San Giovanni Lateranense, e la fuga sterminata degli archi d'un
acquedotto a traverso la campagna romana, nuda, triste, infinita
come un oceano immobile e morto....
Si scende, si torna verso l'uscita,
di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche
e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte
lontane. A un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande
portico oscuro, e uno spazio di terreno senz'erba, sparso di
marmi. Ci avviciniamo: son pezzi di statue. Ci son teste enormi
con la fronte e con gli occhi levati in alto, che dovevano
sorreggere degli architravi; torsi di guerrieri atletici senza
capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati,
d'imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso
chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono
abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d'ornato staccati dai
capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati
così in terra, e disposti in un cert'ordine, dànno a
quel luogo qualcosa dello aspetto d'un camposanto; quelle teste
paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se
guardassero. V'è, fra le altre cose, una manina di donna
colle dita tronche e un po' di braccio piccino e gentile,
abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri
rottami, che desta un senso di pietà, come se fosse di
carne....
Uscimmo senza parlare. Tale
è l'effetto che fanno le terme: la gente entra, guarda,
gira, e nessuno parla; si passano accanto e non si badano: tutti
pensano; si entra allegri, si esce tristi. Ritornando in
città ci parve d'entrare in un mondo nuovo. Pensavo alla
strana impressione che m'aveva fatto fra quelle mura il suono di
certe parole piemontesi e come a Giacomo Leopardi sull'"ermo
colle" sovveniva a me pure
l'eterno
e le morte stagioni e la presente
e viva e il suon di lei...;
la quale un giorno sarebbe parsa ad
altri altrettanto remota quanto pareva a me quella dello splendore
delle Terme.
Ahimè! Che poca cosa ci
paiono anche i nostri trionfi e le nostre gioie nazionali davanti
a questi cimiteri di secoli!
UN'ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.
Erano le tre dopo mezzogiorno. Il
popolo romano si recava al Campidoglio per eleggere la Giunta
provvisoria. Tutte le strade che conducono al Campo Vaccino erano
percorse da folti drappelli di cittadini con bande musicali e
bandiere. Arrivati al Campo, i drappelli si confusero in tre o
quattro lunghissime colonne, e mossero insieme verso il Colosseo.
Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come
soldati, levando tratto tratto altissime grida e lunghi applausi.
Le gallerie del Colosseo erano
già affollate. Centinaia di fazzoletti e di bandiere
sventolavano fra gli archi altissimi, e dentro suonava un
gridìo continuo e diffuso come il muggito del mare in
tempesta. Si vedeva una colonna dopo l'altra versarsi nel vasto
recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse per
incanto una gran parte. Turbe di popolo, che tenevan tutta la
strada, si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli
drappelli, in un cantuccio dell'arena. Continuamente affluiva
popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della
prima galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana,
benchè solo, a mezz'altezza del muro, da non riconoscerne i
visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i
gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialti del terreno v'era
popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa,
con nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell'arena s'alzava
un palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere
tenute in pugno da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di
pompieri. Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui
macigni della gradinata, una fitta di gente che presentava allo
sguardo una vasta e continua distesa di visi e di "sì"
attaccati ai cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla.
Da ogni parte braccia alzate di gente che si accennavano gli uni
agli altri il cerchio maestoso dell'anfiteatro; sulle più
alte punte dei muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida
andavano al cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di
sole faceano la festa più bella e più solenne.
Ecco Mattia Montecchi.
Un fragoroso applauso prorompe
dalla folla e un lungo e altissimo evviva.
Il vecchio patriotta romano,
accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere,
sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia
con voce commossa:
- Popolo romano, rivendicato alla
libertà e restituito per sempre alla comune patria....
S'interrompe un istante, e poi con
irresistibile slancio.
-....Io ti saluto!
L'ultima sua parola muore in un
singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla
seggiola.
La folla manda un grido
d'entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.
- Silenzio! Silenzio!
Il Montecchi ricomincia a parlare,
a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla, ondeggiando
e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole
dell'oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per
intendere qualcosa.
-....Il potere temporale del Papa,
- egli esclama, - è caduto!
Un tuono d'applausi.
- È caduto nella polvere! -
grida una voce tra la folla, e un braccio convulso si solleva, e
si agita, al disopra delle teste.
- È caduto per sempre! -
ripete il Montecchi.
- Nella polvere! - ripete con
accento imperioso la voce di prima.
- Silenzio! Silenzio!
- La caduta del potere temporale
dei papi, - prosegue il Montecchi, - è uno dei più
grandi fatti registrati dalla storia!
Un giovane accanto a me alza una
mano e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: - Dalla storia
della civiltà!
Il Montecchi si volta e guarda come
per chiedere che cosa fu detto, e soggiunge: - Uno dei più
grandi fatti registrati dalla storia.
- Della civiltà! - ripete il
giovane.
- Della civiltà, - aggiunge
il Montecchi in atto di condiscendenza. - Ora tocca a noi di
mostrarci degni della nostra fortuna. Roma non può restare,
nemmeno per pochi giorni, senza governo....
- Viva l'Italia!
-....I nostri nemici potrebbero
trarne argomento a dire che il popolo romano non è ancora
maturo alla libertà....
- Viva la libertà! Abbasso i
nemici di Roma! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
- Viva! Ma prego.... lasciatemi
continuare.
- Viva Montecchi!
- Vi ringrazio.... fate un po' di
silenzio.... Bisognava eleggere una Giunta.... Noi avremmo voluto
che il popolo facesse l'elezione in modo regolare, per mezzo delle
schede, coi voti.... Ma non c'era più tempo.... Abbiamo
dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano....
- Bravo! Viva!
-....Al popolo romano, e di
facilitargli l'opera preparando un elenco di cittadini
appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i
partiti politici....
- Benissimo! - Viva Montecchi! -
Viva Roma! - Viva....
- Un momento.... Ora, vedete anche
voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno
dei nomi, che sono quarantaquattro, Bisognerà dunque
ristringersi ad approvare o disapprovare l'elenco nel suo
complesso. Ci sarà qualche nome che ad alcuni non
piacerà; ma capirete che non è possibile fare un
elenco di quaranta persone che riescano a tutti ugualmente
accette. Ad ogni modo qualche nome si potrà cambiare.
Terminata la lettura, io darò la parola a uno di voi, il
quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che può aver
da dire, in generale, contro le proposte della Commissione che
raccolse i nomi. Dopo che quest'uno avrà parlato, state
bene attenti....
- Viva Vittorio Emanue.... - grida
all'improvviso una voce acuta.
- Silenzio! Smetti! Non è il
momento! - si mormora da ogni parte.
- Guardalo lì quello che non
vuole che si dica Viva il Re! - grida l'interruttore importuno ad
uno dei suoi censori.
- Ma chi ti dice ch'io non voglio
che si grida viva il Re? Dico che non è il momento.
- Già, non è il
momento adesso che ci ha liberati!
- Ma senti che bestia!
- Ma guarda....
- Silenzio, - grida il Montecchi; -
accordatemi ancora qualche minuto di attenzione. Sentite. Dopo che
uno di voi avrà parlato, io metterò a' voti
l'elenco, nella sua totalità, s'intende; e allora,
ricordatevene bene, chi intenderà di approvarlo
leverà in alto il cappello....
Tre o quattrocento persone si
scoprono il capo.
- No! non ancora! - grida il
Montecchi; - ve lo leverete poi; come volete approvare l'elenco se
non v'ho ancora letto i nomi?
Risa generali; caldi diverbi fra
coloro che si tolsero il cappello e coloro che risero; bisbiglio
prolungato.
Il Montecchi: - Vi prego.... un po'
di silenzio.... pochi momenti ancora.... Chi intenderà di
approvare l'elenco alzerà il cappello, chi non vorrà
approvarlo terrà il cappello in capo. Se ci sarà
qualche nome da cambiare, quello di voi che verrà qui a
parlare lo dirà, e i nomi saranno cambiati. Ma mi
raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di seguito senza
interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l'unica maniera di
far presto e bene. Se, per leggieri dissensi su questo o su quel
nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza governo,
forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il popolo di
Roma.
Vivi applausi. - Viva la Giunta!
Viva Montecchi! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
- Viva!... Ora vi prego per
l'ultima volta.... un po' di silenzio.
Uno di quei che sono intorno al
pulpito alza tanto la bandiera che quasi la dà negli occhi
al Montecchi.
- Tien giù quella bandiera!
- gli grida il vicino.
- Ma è la bandiera
nazionale, sai! - risponde l'altro sdegnato.
- Vedo; ma perchè è
la bandiera nazionale devi cavar gli occhi alla gente?
- Guarda il prete!
- A me prete?
- Silenzio, - si grida all'intorno.
- Leggerò i nomi, - ripiglia
il Montecchi; - state attenti; ma ve ne riprego, non
m'interrompete, se no si va troppo per le lunghe; abbiate un po'
di pazienza....
- Legga! Legga pure!
Si fa in tutta la folla un silenzio
profondo.
Il Montecchi legge: - Tale dei
tali.
Passa senza contrasto; un
momentaneo bisbiglio e silenzio.
- Tale dei tali.
Vivi applausi; il popolo è
ben disposto, l'affare va bene.
- Tale dei tali.
Uno scoppio d'urli e di fischi, un
agitar di mani, un pestar di piedi, un rimescolamento, un fracasso
d'inferno si leva e si prolunga per cinque minuti da ogni parte
dell'affollato uditorio. Il Montecchi incrocia le braccia sul
petto e sta aspettando in atto rassegnato e dimesso che la
tempesta si queti.
Finalmente alza una mano.
- Silenzio! Silenzio! - si grida
dalla folla.
- Signori!... - comincia il
Montecchi con un filo di voce; - vi prego; le cose sono andate
così bene finora, continuiamo come abbiamo cominciato, non
discutiamo i nomi, non perdiamo tempo, parlerà uno per
tutti, tutti insieme non si conclude nulla, lasciatemi leggere
tutto l'elenco, abbiate un po' di pazienza ancora....
- Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si
discute! Silenzio! Legga! Lasciatelo leggere!
Il Montecchi legge: - Tale dei
tali.
Un altro e più violento
scoppio di grida e fischi e pestar di piedi e agitare di mani. E
di nuovo il Montecchi incrocia le braccia in atto di
rassegnazione.
- Abbasso! Abbasso! - grida la
folla.
- No, viva! viva! - alcuni
rispondono.
- Chi viva? Abbasso! Chi sono quei
paolotti laggiù? Fuori! È passato il tempo! Abbasso!
Abbasso!
Il Montecchi: - Prego....
- Abbasso i mercanti di campagna!
Il Montecchi, con voce semispenta:
- Prego, non discutano i nomi....
- Non si discute! Non si discute!
"Se dice per di' che so' mercanti de campagna!"
Scoppio d'applausi.
- Non discutano, prego....
- "Hanno fatto massacrare il popolo
romano!"
Applausi fragorosi.
-....Ma prego....
- "Nun li volemo!"
-....Un po' di silenzio....
- "Nun li volemo!"
Cento voci assieme: - Parliamo uno
alla volta, perdio!
Il fracasso è assordante, la
folla agitatissima; alcuni apostrofano con calde parole il
Montecchi, altri apostrofano la folla dalle gallerie, si
sventolano le bandiere, si formano dei capannelli, si batton le
mani, si strepita, è un casa del diavolo infinito.
A poco a poco ritorna la quiete. Il
Montecchi continua a leggere. Il primo nome passa. Il terzo
è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci altri non
incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po' di mormorio....
Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!
Si applaude.
Il Montecchi ricade sulla sua
seggiola e si asciuga la fronte.
Allo strepito succede nella folla
un vivissimo bisbiglio.
- Ora chi parla? - Chi vuol
parlare? - Parla tu. - Il tale ha detto che parlerà. - No,
parla quell'altro. - Parliamo noi. - Parlino loro. - Zitti!
Parlano.
A piedi del pulpito, poco al
disopra della folla, si alza una testa e si stende una mano.
- Silenzio! Silenzio!
Si fa un grande silenzio e si ode
una voce incerta e sottile:
- Io piglio la parola in un momento
solenne....
Un rumore improvviso da una parte
dell'anfiteatro copre la voce dell'oratore.
-....Io piglio la parola in un
momento solenne....
Un tale accanto al pulpito lo
interrompe; l'oratore si volta bruscamente: - In nome di chi parla
lei? In nome del deputato Checchetelli?
Segue un diverbio, il Montecchi si
intromette, l'oratore ricomincia a parlare.
- Forte! Forte! - grida la folla.
- Salga su! - gridano i membri
della Commissione. - Venga qui sul pulpito! Si farà sentir
meglio!
E tutti insieme pigliano l'oratore
per le braccia e lo tirano su. Tutta la persona di lui sovrasta
alla folla. È un giovane sui venticinque anni, alto,
pallido. Ha il capo fasciato. È stato ferito dagli zuavi
salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.
- Silenzio!
Egli parla.
Sulle prime non si sente; ma la sua
voce man mano si innalza e si rafforza, e la parola esce vibrata e
distinta.
-....Ben fecero gli egregi uomini
della Commissione a radunarsi in questo antico ed angusto recinto.
Essi dimostrarono con ciò che d'ora innanzi gl'interessi
del popolo non saranno più abbandonati agl'intrighi delle
consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo
al popolo e col popolo!
Scoppio di battimani.
- Non si scherza, - bisbiglia il
popolo. - Le canta chiare. - Non ha paura di nessuno.
L'oratore prosegue: -....In questo
recinto che il tempo corrose, ma non distrusse; fra queste mura
annerite dai secoli....
Violente interruzioni: - Alla
questione!
L'oratore, levando al cielo lo
sguardo e la mano: - Io veggo gli archi del Colosseo popolarsi di
arcani fantasmi....
Nuovo e più violento scoppio
di disapprovazione e di protesta: - Alla questione! - "Non volemo"
prediche! - Le prediche "so'" finite! - Non abbiamo bisogno di
lezione!
L'oratore continua a parlare; ma la
sua voce è soffocata dallo strepito della moltitudine.
Una voce stentorea si alza al
disopra di tutte le voci e fa voltare tutte le facce:
- La cosa è chiara! L'elenco
"nun ce" piace! "Nun volemo" liberali del momento, "nun volemo"
liberali d'occasione....
Applausi tonanti.
- "Volemo" gente provata, patriotti
schietti, che "ce se veda chiaro" nella vita loro!
Un'esplosione d'applausi.
E la voce di prima, con nuovo e
formidabile sforzo: - "Nun volemo mercanti de campagna!"
Terza salva d'applausi.
- Va' a parlar tu! - Va' sul
pulpito! - Fa' valere le nostre ragioni! Va'! - Presto! - Su!
Il fortunato interruttore,
sollecitato e spinto da tutte le parti, chiamato dal Montecchi,
eccitato dalle grida della gente lontana, si apre un varco tra la
folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da un suo spintone
cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move
verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pesto, sudante
e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch'io vidi.
Stetti un momento là incerto
tra il tornar dentro e l'andarmene, e poi presi un partito fra i
due: salii sur un rialto del terreno accanto all'arco di
Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, "mi misi a
fare della poesia inutile", guardando il Colosseo. - Le solite
grida, - pensavo, - la solita confusione, la commedia solita delle
radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e
quello che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta
perchè, a sentirle di qui e a sentirle uscire dal Colosseo,
mi destino nell'anima una gioia nuova, ineffabile, superiore a
tutte le gioie che mi sian mai venute finora dall'amor di patria.
- Viva l'Italia - viva la libertà - viva Roma redenta
-....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!
E giravo l'occhio intorno come per
assicurarmi del luogo dov'ero.
-....Il Bonghi dice che qui ci
sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si sentirà chi si
vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a
misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a
meditare e ad ammirare. Il Colosseo! - ho inteso dire; - che vi
potrà dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei
gladiatori e i supplizi dei cristiani? Ed io vi rispondo: -
Sì....
In quel punto uscì
dall'anfiteatro un altissimo evviva e un allegro suono di banda.
- Sì.... ecco che cosa mi
dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini schiavi si
sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i cittadini a
salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice che dove perirono
sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della
libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini liberi
ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri,
coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par che si
possa dire che il Colosseo è muto?
Un altro scoppio di grida misto a
suono di trombe mi giunse all'orecchio.
E poi una voce distinta: - Viva la
libertà!
- Ah! - esclamai, rivolto al
Colosseo, come se mi potesse intendere; - consolati, vecchio
gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu non
fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi
degl'Imperatori!
UNA MATTINATA ALL'ALBERGO.
Non so se sia stato più vivo
il piacere che provai entrando in Roma il 20 settembre, o quello
che ebbi la mattina dopo, svegliandomi nella cameretta
dell'albergo, appena rinvenni dall'illusione solita di credermi
ancora dove avevo dormito la notte prima. Appena aperti gli occhi,
il mio primo pensiero fu quello che m'era venuto a Monterotondo la
mattina del 20: - Dunque quest'oggi "s'attacca!" - E stetti un
momento perplesso. A un tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio
una potentissima voce: - Roma! - e mi scossi da capo a piedi, e
balzai d'un salto alla finestra. Apersi le imposte, e visto appena
le bandiere e udito le grida del popolo, m'entrò nel cuore
tanta gioia che mi diedi a ridere come un pazzo. Poi chiamai il
cameriere, senza sapere perchè. Venne subito, allegro anche
lui ch'era un piacere.
- Che mi comanda?
- È un romano, - dissi tra
me, guardandolo; - un romano cameriere! Mi fa pena; avrà
forse un lontanissimo antenato console, senatore, pontefice
massimo....
- Come vi chiamate di nome di
battesimo?
- Caio.
-....Caio Flaminio, - pensai, -
Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio Curzio....
- Qual'è il vostro cognome?
- Tittoni
- Caio Tittonio, andatemi a
chiamare un barbiere.
- Vado subito.
- Un barbiere romano.
- Guardi che caso! Il barbiere
dell'albergo è lombardo. - Non lo voglio; andate a cercarmi
un barbiere "romano de Roma"; fate anche mezzo miglio, se occorre,
vi ricompenserò della corsa; ma portatemi un barbiere
romano.
- Sarà servito.
E se n'andò ridendo.
Non era senza perchè la mia
pretensione: volevo scrutare lo spirito politico delle classi
inferiori, e tutti sanno che quando s'è parlato con un
barbiere si può contare d'aver parlato con mezzo mondo.
Il barbiere venne. Era un barbiere
dello stampo dei nostri: un vecchietto azzimato, pulito, gaio, con
le mani fredde e i rasoi cattivi.
Mentre cominciava l'operazione, io
studiavo la maniera d'entrare in discorso.
Egli mi prevenne domandandomi con
molta gentilezza:
- Il signore è emigrato?
- No.
- Italiano?
- Sì.
- Giornalista?
Diedi un balzo sulla seggiola e mi
voltai a guardarlo negli occhi. Come mai poteva già sapere
che insieme con l'esercito s'erano rovesciate su Roma le
cavallette della stampa?
- Non sono giornalista.
- Dicevo, sa.... perchè ho
visto il tavolino coperto di giornali e di carte.... Che gliene
pare di Roma?
- È superba.
Fece un risolino modesto.
-....Noia, c'è male.... E
poi, ora, è tutt'altra vita che "ce se vive"!
- Siete contento del cambiamento?
- Se sono contento? "Me pare da
diventà matto, me pare". L'Italia una, per Dio.... Ora
speriamo che "ce" sarà fatta giustìzia.
- Di che?
- Eh signore, "ce so" molte cose da
mettere a posto a Roma.
- Me lo immagino....
-....Prima di tutto, sa che cosa
dovrebbe fare Sua Maestà il re Vittorio Emanuele Secondo,
appena entrato in Roma?
- Desidero di saperlo.
- Dovrebbe.... - e qui stese un
braccio e alzò la voce, - dovrebbe mettere a posto "li
macellari", dovrebbe; che "so na razza de cani", glielo dico io, e
fanno pagare tutto il doppio, e "so" screanzati che "nemmanco se
ponno guardare in der grugnaccio, se ponno", capisce?
- Oh cospetto! È proprio
questa la prima cosa che deve fare il re?
- Questa.... e un'altra. Fare una
legge con la quale dica che d'ora in avanti è fatta
facoltà "a li barbieri de" metter la bottega dove "je"
pare, senza quella "prepotenza" che c'è adesso che le
botteghe debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra.
Per cagion di questo, vede, a me m'è toccato di fare "er
giovanaccio de bottega" cinqu'anni di più, chè il
locale vicino ce l'avevo, e li baiocchi pure, ma la bottega non la
potevo mettere per via di quella legge "'nfame". Accidenti ai
governi dispotici e viva Vittorio Emanuele! Quant'ho benedetto sto
giorno io!... E poi un'altra cosa.
- Dite.
Qui abbassò la voce e mi
disse nell'orecchio:
- Dei barbieri che tengono dal
Papa, qui, in Roma, ce n'è la su' parte, glielo assicuro
io.
- Ebbene?
- Accopparli.
- Siete severo.
- Sì, accopparli, senza
misericordia "co' sta razza de cani"; se no "er" governo italiano
se ne accorgerà, stia pur sicuro.
- Speriamo che faranno la barba con
la dovuta prudenza.
- Non ci speri; bisogna far man
bassa.
- E altro?
- Altro.... ci son tante cose; ma
dica un po', "ce" porteranno delle buone leggi, "se" spera?
- Meglio di quelle che avevate, lo
crederei.
- Bene; e dica.... Sento che "ci"
hanno una grande severità pei ladri, è vero?
Accennai di sì, voltandomi a
guardarlo.
- È giusto.... Poi
c'è la leva militare.... Eh già.... quella alle
donne "sarà un po' difficile de fajela entra'".
- Lo penso anch'io.
- "Gran disciplina co' sti soldati
eh"?
- Quanta n'occorre, certamente.
Avrete però osservato che gli ufficiali hanno buone maniere
e che i soldati son buoni ragazzi.
- Già.... e scusi, sa, se
son curioso.... si parlava giusto ieri sera.... che cos'è
la "ricchezza mobile"?
- La ricchezza mobile?
- Già.
-....Provate l'altro rasoio, questo
mi fa male.
- Quest'altro "je" va?
- Questo mi va.... Avete visto la
luminaria di ieri sera?
- La luminaria, sì.... ma
che "ce" porteranno tutte "ste imposte che se dice"?
- Eh già, le imposte,
vedete.... in Italia.... relativamente a quello che potrebbero
essere, tenuto anche conto delle condizioni agricole e industriali
del paese, e considerata la proporzione delle forze produttive in
relazione con le esigenze, dirò così, che sono molte
e gravi, d'una grande amministrazione.... Capirete che la finanza
è finanza, i bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per
quanto si faccia e dica dai contribuenti, è pur sempre
certo che i carichi dei cittadini sono in certo qual modo, e fino
ad un certo punto, regolati sui principii d'un sistema economico
senza del quale s'è sempre visto che gli Stati non si
reggono e tutte le proprietà pubbliche e private ne vengono
a soffrire gravemente....
- È chiaro.
- Lo capite anche voi.
- Diavolo!
- Picchiano: fatemi il favore
d'aprire. Entrò il calzolaio: un gobbetto coi capelli grigi
e il naso a becco.
- Scusate, - dissi al barbiere, -
non posso rimandarlo indietro; bisogna ch'io mi misuri un paio di
stivaletti; mi spiccio in un momento.
- Faccia pure.
Gli stivaletti andavano.
- Quanto volete? - domandai.
- Diciotto lire.
-....Son carini.
- Non è vero? Paiono fatti
apposta per il suo piede.
- Eh no, voglio dire che sono un
po' salati. A Firenze li pago sedici.
-....A Firenze è un altro
par di maniche, caro signore; qui si paga tutto più caro.
Ma io non sto sul tirato. A lei ch'è italiano glieli do per
diciassette.
Il barbiere fu preso da un accesso
di tosse.
- Ohè, dico! - gridò
il calzolaio fissandolo fieramente; - che ci avete da fare delle
osservazioni voi?
- "Gnente, gnente"; dicevo che
l'Italia è un bel paese.
- E io vi dico che v'impicciate
negli affari vostri, che già.... noi altri....
"armanco".... agl'italiani la gola "nun je la tajamo".
- E "manco" noi "nun je stroppiamo
li piedi". - Potrest'essere più educato, "me pare".
- Più educato? -
(accendendosi).... Io già, se ve l'ho a dire chiara e
netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.
- E io neppure!
- Resta a sapersi!
- Come resta a sapersi?
- "Se conoscemo".
- Sicuro che "se conoscemo".
- "Er regno" dei preti è
finito.
- Me ne rallegro.
- Non "de" core.
- Più "de" voi.
- Ci ho i miei dubbi.
- Via, via, - dissi, mettendomi in
mezzo, - lasciamo queste quistioni; non son giorni questi da
bisticciarsi fra amici; bisogna andar tutti d'accordo, e gli uni
dimenticare i torti degli altri, se ce ne sono. Stringetevi la
mano subito, in presenza mia, o non do il becco d'un quattrino a
nessun dei due.
Si porsero la mano, ma senza
toccarsela.
- Animo, stringetevela, - dissi.
- Lui ha da dir prima viva
l'Italia! - disse il barbiere.
- E io "nu je vojo dà"
questa soddisfazione, - risponde l'altro.
- Animo, ditelo per far piacere a
me.
- Viva.... l'Italia.
Si strinsero la mano.
Ma il calzolaio subito con un
rincalzo di passione: - E io lo "so" stato sempre italiano,
capite!
- Sì, sì, lo credo, -
gli dissi, - vi si vede in viso, eccovi i denari, andatevene pure.
- E io non glie l'ho fatta mai la
corte agli zuavi, sapete, non glie l'ho fatta mai.
- Andate, andate.
- E non è questa la maniera
"de" screditar la gente....
- Via....
- E "se" rivedremo....
- Chetatevi, ve ne prego, vien
gente....
Entrò la stiratora, una
donnicciuola sui cinquant'anni, con un'aria di vittima, col
cappellino e lo scialle messi per traverso: il calzolaio si
fermò sull'uscio.
- È lei, signore, - mi
domandò la donna con voce tremante, - che mi ha da dar
della biancheria?
- Io; ma bisogna che me la
riportiate domani.
- Si farà.... quello....
che.... si.... potrà.
- Che cos'avete?
La stiratora scoppiò in
pianto.
- Che v'è accaduto? -
domandai, avvicinandomele.
- Ah! signore.... mio fratello e
mio cognato....
- Son morti?
- No.... sono impiegati alla
Revisione.
- Ebbene?
-....Li mandano via.
- Chi?
- Gl'Italiani.
- Ma, che! Rimarranno nel loro
impiego, statene sicura; il governo italiano non toglierà
il pane a nessuno; datevi pace, buona donna.
- Ah! no.... no.... è
inutile.... glielo hanno già detto....
E un altro scoppio di pianto.
- L'avranno voluto loro, - esce a
dire il calzolaio, - e se lo son meritati.
- Che cosa? - domanda sdegnosamente
la donna, sollevando il viso bagnato di lacrime.
- "Ah! credete che nun se sappia er
perchè? Ci avemo er nostro giuramento (giungendo le mani e
modulando la voce); no se pole, ci avemo er nostro giuramento de
mantenecce fedeli ar Papa"!
- Non è vero!
- Andiamo via, chè "so" i
soliti mezzi "de" cercar gl'impieghi....
- "Eh, stateve zitto", - gli
ribatte il barbiere, - "nun me" state a far tanto l'italiano "co'
sta" povera donna, che tanto ve se vede sotto la coda!
- A chi?
- A voi!
- Ve do questa scarpa sulla faccia!
- Finitela, via.
- E io "ve faccio attastà
sto" rasoio.
- Fuori di casa tutti quanti!
- Ma dica lei che è
emigrato....
- Non sono emigrato.
- Senta lei che è
giornalista....
- Non sono giornalista; lasciatemi
stare, uscite subito tutti di qui, sono stanco dei vostri piati,
andate a gridar in piazza e non mi seccate più in casa mia!
Ciò dicendo li spingo l'un
dopo l'altro verso l'uscio, ed escono vociando tutti insieme fin
giù per le scale.
- "Er regno de preti è
finito"! - Non è la maniera "de" metter la gente in mala
vista dei forestieri! - Non è vero.... il giuramento.... si
resta senza pane.... - È finito! - Ci rivedremo! -
Giù le code! - Non è vero!
- Andate! Andate, che il diavolo vi
porti!
E chiusa in furia la porta mi
gettai sul seggiolone esclamando: - Pace! Pace,
/# O esacerbati spiriti fraterni!
#/
Ah, buon Dio! Anche il 20
Settembre, visto dietro le quinte....
RICORDI DELLE CATACOMBE
(Venticinque anni dopo).
Ci andava innanzi lentamente,
portando un cerino acceso e strascicando i sandali, un piccolo
frate tarchiato, che in alcuni punti teneva quasi con le spalle
tutta la larghezza del corridoio, e ci copriva con la sua ombra.
È violenta e triste la prima
impressione che si risente discendendo dalla grande Roma piena di
luce e di vita in quel freddo cimitero sotterraneo, dove sulla
morte è anche ora passata la devastazione, e dove si vedon
congiunti tutti i più tetri aspetti d'una cava, d'una
grotta e d'una carcere. E si va innanzi a malincuore, nell'odore
umido della terra, diffidando del suolo ineguale, e pensando con
inquietudine che, se il frate sparisse, si perderebbe la lena alla
corsa, e forse il lume della ragione, prima di ritrovare l'uscita.
Ma, a poco a poco, quel labirinto di anditi angusti, quelle fughe
di buche sepolcrali nereggianti nelle pareti come grandi bocche
semiaperte, quei piccoli vani per gli uffizi del culto, dove i
fedeli stavan raggruppati e stretti, come quando aspettavan nei
circhi l'irruzione delle belve, attirano e soggiogano tutti i
vostri pensieri. Se vi resta ancora un pensiero profano, cede
anche questo alla vista della prima ampolla incastrata nel tufo,
nella quale siete spinti a cercare le tracce del sangue che vi fu
racchiuso, e quasi un ultimo fremito della vita che fuggì
con esso dalle vene del martire, o svanisce alla prima lettura di
una di quelle iscrizioni semplici e rozze: "Pax tecum", con
accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere, ma d'udir
profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato e
sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando
per rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è
scomparso ogni avanzo, o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi
nelle pietre, o una grata sottile, dietro la quale, fra poche ossa
biancheggianti, ci fissavano due occhiaie profonde, con quello
sguardo immobile da mille e ottocento anni, che par che aspetti
con fede invincibile l'adempimento d'una promessa. Ma più
che altro ci arrestavamo a quelle buche mortuarie dei bambini,
così strette, da parere che neanche un piccolo cadavere
potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo
ancora vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i
bambini quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli
cristiani messi a dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi
schiacciati, oppressi anche nella morte dalla terra, come eran
stati nella vita dal terrore, e così lontani dalla luce del
giorno e dal verde dei campi, rimpiattati, più che sepolti,
come carne maledetta. E col sorgere della pietà vi cade
ogni ribrezzo del luogo: una curiosità grave e reverente vi
spinge innanzi per quel labirinto tenebroso; voi cercate con gli
occhi gli epitaffi e i sepolcri come se non tutti vi dovessero
essere ignoti; sentite a poco a poco come una stretta del vincolo
che v'unisce ai morti che là riposarono, e il nome che essi
ebbero comune con voi vi risuona nell'animo con un novo suono,
dolce e solenne; vi guida sotto a quelle vôlte, infine,
quasi un ricordo lontano di ricordi lontani, soavi e misteriosi,
che vi passan per la mente affollati, senza forma di parola, come
una melodia appena intesa. Quanto vi par lontana la capitale
d'Italia! Ma più lontane di ogni cosa, quasi monumenti e
mostre d'un'altra religione, le superbe basiliche dorate e le
sfarzose carrozze pontificali, che avete visto poc'anzi,
lassù, in quel mondo dove splende il sole.
*
Si discese a un altro piano di
gallerie, e si riprese a andare, nell'ombra del frate. Il lumicino
rischiarava di sfuggita anditi laterali, dove entra a stento una
persona, e che svoltano nell'oscurità a pochi passi
dall'imboccatura, altri anditi riempiti da frane di sabbia, ed
altri incominciati a scavare, e lasciati lì; i quali
s'allacciano forse a una rete di sotterranei più vasta. Si
passa sotto a vôlte che vi fanno curvare la fronte; si
discende per brevi tratti, come verso l'orlo d'un precipizio; poi
si risale lentamente, si torna a discendere, si svolta e si
risvolta, e par di tornare sui proprii passi e di riconoscere
crocicchi, cubiculi, sfondi già visti; quando in
realtà si procede. A volte, il suono dei vostri passi
v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e dietro
di voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei corridoi
accanto, al piano di sopra, al piano di sotto, come di gente
sorpresa che si sparpagli da tutte le parti, in punta di piedi. In
altri momenti, quando il frate svolta un breve tratto prima di voi
e rimane per poco invisibile, il fruscìo della sua tonaca e
dei suoi sandali non vi par più il suo; suona come se
invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi balena alla fantasia
un incontro miracoloso, l'apparizione di uno spettro di quella
necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e muto, e vi
chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora
continuate a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti
nere, al chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e
austeri, capi curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di
speranza, che si fissano nei vostri con un'espressione di
bontà ineffabile, gruppi furtivi di gente povera e umile,
una confusione silenziosa di fanciulle, di vecchi, di servi, di
gladiatori, di coloni, di patrizi, che vanno a passo lento, con le
lampade d'argilla a la mano, e dileguano per gli ambulacri, come
ombre; e pei lunghi anditi vi giungono all'orecchio salmodie di
una dolcezza infinita, e dalle porte dei cubiculi singhiozzi di
madri che adagian nella fossa i corpicini, dicendo con accento di
sovrumana certezza: - Ti rivedrò! Aspettami in pace, figlio
mio! - e sentite alle spalle i passi gravi e gli aneliti dei
fedeli che portano i corpi lacerati dalle fiere, stillanti di
sangue. Come dovevano amarsi! E come dovevano amare il loro Dio
vilipeso, beffato, effigiato sui muri con un capo animalesco,
pendente da un patibolo infame, quelli che davan la carne al fuoco
e ai flagelli piuttosto di dire che non l'amavano! E intorno alle
immagini loro si dilata e si rischiara al vostro pensiero quel
labirinto funereo che vide tanti addii supremi, tanta
rassegnazione, tanto dolore, tanto coraggio; sentite nella stessa
riverenza amorosa, che la memoria di quei morti v'ispira, d'esser
loro eredi e loro figli; ma con un senso acuto di rammarico, - col
rammarico di non poter dare al servigio della vostra fede il santo
amore della povertà e l'eroico disprezzo della vita con cui
essi professarono la propria. L'immaginazione, frattanto, vi fa un
singolare inganno in quel pellegrinaggio: il vostro pensiero, di
là sotto, non risale già alla Roma attuale; quella
che sentite sul vostro capo è l'antica; sentite e pensate
come se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra gli
splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi
s'affaccia improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che
avete fissato di visitar tra un'ora coi vostri compagni di
viaggio, vi produce un senso così vivo di stupore, che del
vostro stupore medesimo rimanete maravigliati, come d'un caso non
mai provato di "doppia coscienza".
Si discende ancora a un altro
piano, e da questo a un altro, in un'aria che vi par sempre
più fredda, in un buio che vi par sempre più denso,
in un nuovo labirinto di gallerie strettissime, che discendono e
risalgono, e s'aprono in bivii e in crocicchi, e s'allargano in
ambulacri e in oratori, fiancheggiate di loculi, di bisomi, di
cripte, dove al raggio del lumicino vi appaiono altre ampolle di
sangue, altri nomi di morbi, altri ossami ammucchiati, e altri
occhi di teschi che vi fissano, con quello sguardo profondo che
domanda ed aspetta. In alcuni punti i corridoi si restringono, le
vôlte s'abbassano, tutti i vani s'impiccoliscono, e par che
la terra stia per chiudersi su di voi da ogni parte e seppellirvi
vivente; e allora vi prende un senso d'oppressione, e quasi un
brivido di sgomento al pensiero di tutta quella solitudine oscura,
di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un sull'altro al disopra
del vostro capo, di tutti quegli anditi intricati, di tutte quelle
fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre informi che avete visto
allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi misteriosi che
v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie vuote che
v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una fanciulla
sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e quella
semplice aggiunta: - Martire - scolpita a caratteri ineguali nel
sasso, a rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a
ridestarvi tutto quanto di più dolce e di più
luminoso avete sentito e sognato nei giorni più puri della
fanciullezza davanti alla immagine grande e candida di Cristo. La
vostra mente trascorre da quella in cui v'aggirate alle altre
necropoli, - alle altre quaranta già dissepolte, - a quelle
innumerevoli non ancora esplorate, - spazia per tutta la distesa e
a tutte le profondità della enorme città sotterranea
che ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di
Roma, e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là
sotto ha sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande
pensiero. - Sì, v'è ancora nel mondo un amore
immenso e una immensa speranza, nata da quella che raggiò
nelle catacombe; la forza maravigliosa che si sprigionò da
queste tenebre non è morta negli uomini: essa è
solamente sparsa, o inconscia di sè, o compressa; ma si
raccoglierà, e saprà, e si espanderà
vittoriosa un'altra volta sulla faccia della terra, e
rovescierà altri idoli bugiardi, e spezzerà altre
catene scellerate, e innalzerà essa pure dei monumenti che
sfideranno i secoli, e inneggierà ai suoi martiri nelle
lingue di tutti i popoli, e celebrerà le sue vittorie con
le feste più poetiche e più solenni che possa
concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia, e gli
anatemi ai nuovi credenti lo annunziano, perchè non son che
un'eco affievolita e paurosa degli oltraggi antichi. "Exitiabilis
superstitio rursus erumpit".
Questo pensavo, quando un soffio di
aria viva mi percosse in viso, il lumicino del frate si spense e
sfolgorò il sole....
FINE.
INDICE.
SPERANZE E GLORIE.
PREFAZIONE
Per una distribuzione di premi
Per l'inaugurazione di un circolo
universitario
Per la questione sociale
Per il 1.° Maggio
Per Giuseppe Garibaldi
Per Gustavo Modena
Per Felice Cavallotti
LE TRE CAPITALI.
AVVERTENZA
TORINO
FIRENZE
ROMA
L'entrata dell'Esercito italiano in Roma
La cupola di San Pietro
Preti e frati
Le terme di Caracalla
Un'adunanza popolare nel Colosseo
Una mattinata all'albergo
Ricordi delle Catacombe