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Giuseppe Mazzini

La questione italiana e i  repubblicani

Seconda Edizione
MILANO
TIPOGRAFIA DI ANGELO CIMINAGO
1861


Parte dello scritto che segue apparve, sul finire del 1859, nella nostra pubblicazione Pensiero ed Azione. Ma quella pubblicazione, fatta all'estero e avversata dagli uomini allora al governo delle cose, ebbe pochi lettori in Italia. E sul Mezzogiorno e su parte del Centro pesava ancora la tirannide del Borbone e del papa.
Quelle pagine ricordano la parte sostenuta dai repubblicani nel primo stadio del nostro moto. E parmi miglior partito ripubblicarle, che non riscrivere in altri termini le stesse cose. Gli uomini di buona fede potranno desumerne, non foss'altro, che non corriamo — noi soli forse in Italia — pericolo di rivelare contradizioni tra i nostri atti e gli scritti, a qualunque tempo appartengano.

Londra 1 marzo.
I.


La questione italiana fu falsata in Italia e fuori da quando il conte Cavour la ridusse, davanti ai rappresentanti i governi stranieri, nei termini: O riforma o rivoluzione. Quanto d'allora in poi s'attraversò al libero, logico, razionale sviluppo del nostro moto, scese dalla formola malaugurata: quel tanto che sulla direzione dell'intento s'è conquistato, è dovuto ai buoni istinti del nostro popolo.
L'Italia non s'agita da mezzo secolo per ottenere riforme. Se una certa somma di miglioramenti amministrativi, giudiziari, civili, po­tesse acquetarlo, essa l'avrebbe già conquistata. L'Italia vuol essere. Essa tende a costituirsi in Nazione, Una e libera da ogni tirannide straniera o domestica, religiosa o politica. Riformerà poi sè stessa da sè, interrogando la propria tradizione, i propri bisogni, le proprie tendenze. La questione italiana è, prima d'ogni altra cosa, questione di Nazionalità. Ora la questione di Nazionalità non può sciogliersi se non rovesciando, da un lato, il papa e i re che la smembrano, lacerando, dall'altro, i trattati del 1815, disfacendo l'impero d'Austria e rimutando la Carta d'Europa.
La questione Italiana è dunque questione di Rivoluzione. E bisogna trattarla siccome tale.
Se la politica del conte Cavour fosse stata, non politica sarda, ma — comunque monarchica — veramente Italiana, egli avrebbe detto ai diplomatici stranieri: «Signori, non v'illudete; la rivoluzione Italiana è un fatto oggimai inevitabile. Sta in voi far sì ch'essa prorompa più o meno violenta, più o meno funesta a tutti i governi d'Europa. Ostinandovi a perpetuare per l'Italia un sistema del quale non è esempio in Europa — abbandonandola alla tirannide dell'intervento straniero — contendendole ogni espressione di vita propria. — voi la costringete ad allearsi con quanti malcontenti ha l'Europa, a cercare nel sommovimento universale una più spedita probabilità di salute. Noi, uomini d'ordine e di monarchia, non provocheremo la rivoluzione che antivediamo; ma siamo noi pure Italiani, e per l'amore che portiamo alla Patria, comune come per la necessità di salvare la monarchia, noi dovremo, quando s'inizii, secondarla e tentar di dirigerla. Voi potete tentar d'isolarla. Il filo elettrico che la lega all'Europa è l'intervento. Sopprimetelo. Fate che s'adempiano le solenni promesse di dieci anni addietro e cessi l'occupazione francese in Roma. Imponete all'Austria di non oltrepassare, checchè avvenga, nel rimanente d'Italia, i confini lombardo-veneti. Restituite l'Italia al Diritto delle Nazioni: lasciatela a fronte non d'una Europa collegata a' suoi danni, ma soltanto de' suoi padroni. E dove no, pesino su voi le conseguenze dell'antica ingiustizia. Non avrete pace mai dall'Italia. Avrete in essa un incitamento perenne all'insurrezione d'Europa e un perenne pretesto ai disegni ambiziosi di chi promettendole aiuto, vorrà farne campo di guerra ad una o ad altra potenza.»
Linguaggio siffatto avrebbe provveduto all'onore e alla salute d'Italia e ad un tempo agli interessi della monarchia piemontese. La monarchia avrebbe raccolto intorno a sè i voti e le speranze, non della poco energica turba dei creduli e della turba dannosa dei faccendieri, ma del popolo vero, volente, onnipotente, d'Italia. Gli uomini di pressochè tutti i partiti d'Europa avrebbero senz'altro appoggiato una dottrina di non-intervento che ha il doppio merito agli occhi loro di congiungere giustizia e poca probabilità di contese armate. I sospetti covati dai governi d'Inghilterra, di Prussia e Germania contro l'influenza usurpatrice di Luigi Napoleone, avrebbero accolto quel linguaggio e promosso una politica deliberatamente avversa ad ogni ingerenza bonapartista nelle cose nostre. Il piccolo Piemonte avrebbe potuto esser l'anima d'una coalizione più o meno caldamente sostenitrice del grido che già dirigeva le agitazioni popolari: l'Italia per gl'Italiani.
E allora, bastava al Piemonte, lasciato con una Italia fremente a fronte dell'Austria, far correre una voce alle popolazioni vogliose: aiutatevi, v'aiuterò: gli bastava ordinarsi quietamente, senza inutili minaccie, alla riscossa: e intanto, affratellandosi segretamente cogli uomini della Rivoluzione e riconcedendo alle più che modeste esigenze degli uomini liberi il programma, accettato, poi tradito con sua e nostra rovina da Carlo Alberto nel 1848, della Sovranità del paese, confondere in uno tutte le frazioni del Partito Nazionale, creare la fiducia, confortar gli animi al fare. Il paese avrebbe fatto. Il paese avrebbe colto alla sprovveduta e sperperato coll'insurrezione il nemico. Rifatto il 1848, non rimaneva al Piemonte che sottentrare, con migliori uomini e migliori disegni di guerra, all'iniziativa popolare e compirne i trionfi. L'Austria non era, prima delle minacce mosse da Parigi e Torino, più forte in Italia, che non fosse undici anni addietro, quando l'insurrezione distrusse in cinque giorni la potenza austriaca da Milano a Venezia. E non vive un sol uomo di guerra tra noi, il quale non abbia scritto o detto che la vittoria fu nel 1848 un mero problema di Direzione. L'ultima vittoria, in ogni guerra di Nazione, spetta all'elemento regolarmente ordinato; ma la prima — ed è quella che racchiude in germe tutte le vittorie future — spetta all'insurrezione, all'iniziativa del popolo. L'insurrezione assale il nemico non preparato, con modi e su punti non preveduti: ne smembra le forze e le separa dalla loro base d'operazione: infonde in essa quel terrore d'altrui e quello sconforto di sè che sono in ogni guerra, i più potenti ausiliari contro un esercito; e fa d'un paese intero riserva inesauribile alle forze ordinate.
Il conte Cavour sapea quanto noi queste cose; ma egli abborriva la rivoluzione; abborriva l'idea d'una iniziativa di popolo e la coscienza di forza che ne deriva; abborriva ogni concessione, anche menoma, a chi non si dichiarasse anzi tratto fautore cieco della monarchia piemontese. Uomo d'arti tattiche e non di principii, e capace di giovare ai propri disegni ingannando, ei non credeva nell'altrui lealtà. D'indole ambiziosa e dispotica, ei non potea tollerare ch'altri entrasse con animo libero a parte de' suoi disegni. Pertinace più che ardito, incapace, per mancanza d'alto core, d'alta mente e di fede, di salire a vasti concetti, s'era aggiogato a un interesse, l'interesse dinastico di Casa Savoia. Spodestare il Papa, tentare Unità di Nazione, non entrava nella sua mente, parlarne a chi gli s'aggirava(1) intorno gli pareva artificio buono a conquistare l'altrui servile credulità, e ne usava. Ma il suo vero disegno non oltrepassò mai i termini del programma fallito nel 1848, il Regno del Nord. L'Italia era per lui mezzo non fine: l'agitazione di tutto quanto il paese, un'arme buona a dargli potenza per raggiungere quel misero intento, da spezzarsi poiché lo avesse raggiunto.
Con questi propositi era immorale, ma logica la via ch'ei tenne. Il Piemonte non poteva allora nè potrà mai da per sè conquistare intero il Lombardo-Veneto. Bisognava dunque cercare un alleato. Fermo in non volere l'alleanza del popolo, ei dovea cercarlo dove fossero interessi tali da rendere l'alleanza possibile e dove l'alleanza ottenuta una volta, fosse arme potente ad un tempo contro l'Austria e contro la Rivoluzione. Quindi l'alleanza col Bonaparte: alleanza che ha costato già vergogna e delusione e costerà nuovo sangue all'Italia. Intanto, e quando quell'alleanza fatale non era ancora fatto compito, ma solamente pericolo da scongiurarsi per ogni via, l'attitudine della monarchia piemontese e il linguaggio tenuto da Cavour nelle Conferenze facevano tumultuar di speranze la povera Italia, malata di dolori insopportabili, d'ignoranza forzata, di materialismo tradizionale e d'ire impotenti, perchè non santificate da fede nella propria missione e nelle proprie forze. Gl'Italiani non s'avvedevano che la formola o riforme, o rivoluzione rivelava un antagonismo radicale fra le intenzioni governative e il sommo intento del moto, e poneva la rivoluzione come segno non di speranza, ma di terrore: non s'avvedevano che la parola riforme accennava fin d'allora alla federazione dei principi e rinnegava l'Unità popolare: non s'avvedevano che quella formola parlava ai governi d'Europa quali essi fossero, sagrificava il Diritto Italiano e la nostra spontaneità, e cacciava l'Italia in sembianza di mendica ad aspettare i suoi fati dal beneplacito dello straniero. Travedevano nell'insidioso dilemma una disfida ai padroni d'Italia e ingigantivano, travolti dal desiderio, quelle parole sino alle dimensioni d'una promessa. Sentivano le riforme impossibili e ne de­ducevano che il Piemonte regio, dichiarando inevitabile senza quelle la rivoluzione, intendeva assumersi di capitanarla. Nè forse avrebbero così deliberatamente dimenticato la storia antica e recente dei governi monarchici; ma tra il governo sardo e sè stessi vedevano una moltitudine d'uomini, taluni venerandi davvero per un passato di sagrifici e d'opere generose, tutti ardenti vociferatori di patria, che stava mallevadrice per le intenzioni del governo emancipatore. Era sorta, traendo gli auspicii da alcune parole di un esule meritamente caro all'Italia, Daniele Manin, una Società che assumeva il titolo di Nazionale, composta in parte, come tutte le Società che si formano su terre oppresse, d'uomini buoni, ma fatta dai capi stromento della propaganda più funesta e immorale che mai si fosse. Aiutata moralmente dal prestigio della sede in Torino, aiutata più praticamente nella trasmissione delle sue stampe dalle agenzie politiche e consolari del Piemonte, abusò a illudere, ad affascinare le menti, della parola segreta e pubblica, come mal può idearsi. I suoi faccendieri promettevano su tutti i punti d'Italia, unità di patria, indipendenza da tutti stranieri, libertà: affermavano tali essere le intenzioni di Cavour e quelle del re: si rivelerebbero a tempo. A chi chiedeva qual fosse l'opinione dei vecchi amici d'Italia, di noi, rispondevano esser noi perfettamente intesi e concordi con essi: il dì dopo, ci calunniavano nei loro gazzettini, e il dì dopo sussurravano ai poveri illusi, nelle città venete segnatamente, che l'oltraggio era artificio, richiesto dai sospetti dei governi stranieri a mascherare l'accordo. A chi temeva non bastassero le forze all'impresa dicevano: abbiamo la Francia con noi; a chi si mostrava diffidente degli aiuti d'un despota dicevano; siate forti; concentratevi tutti intorno al trono del re galantuomo e potremo probabilmente fare da noi. E magnificavano al solito depositi d'armi che non esistevano, somme da versarsi nel sud, aiuti presti per le non bramate insurrezioni del Centro; tutto, purchè il Partito, allontanandosi da ogni altra direzione, facesse sommissione universale, assoluta alla monarchia di Piemonte. E dai più, fu fatta. Lo spettro del 1848 si dileguava davanti al fascino d'una lotta imminente.
Intanto, i nostri fati si maturavano in Parigi e Plombières, tra Luigi Napoleone e Cavour.
Luigi Napoleone ha fisso in mente l'impianto del sistema bonapartista sul continente d'Europa, siccome fine, la guerra coll'Inghilterra come necessità del disegno, una nuova Santa Alleanza tra l'impero, la Russia e l'Austria, siccome mezzo. Col terrore dell'alleanza inglese, colla guerra di Crimea e colla subita pace, egli aveva o credeva avere conquistato la Russia: con simili modi egli architettava di conquistare l'alleanza dell'Austria. D'altra parte, il prestigio esercitato dalla ferocia scemava rapidamente: i ripetuti attentati degli Italiani gli minacciavano la vita e minavano ad ogni modo nelle moltitudini l'idea della stabilità dell'Impero: l'agitazione perenne in Italia gli facea presentire inevitabile una insurrezione, che fatta in nome del popolo e della libertà, avrebbe potuto diventare Europea. E l'esercito, sola forza che gli avanzava, cominciava a lagnarsi di speranze deluse, di promesse inadempite, e ad aprir le file alle inspirazioni orleaniste e repubblicane. A tenersi vincolato l'esercito, a sviare le menti francesi da pensieri di libertà, a far rinascere il prestigio caduto, a costringere a patti l'Austria ritrosa, unica via era una guerra. E una guerra sulle nostre terre era guerra che accarezzava coi ricordi delle guerre passate la fantasia del soldato, preveniva e spegneva — ei lo credeva almeno — l'agitazione rivoluzionaria italiana, poneva fine ai pericoli individuali che lo tenevano irrequieto, impiantava per mezzo della monarchia di Piemonte il predominio francese sull'Italia e sul Mediterraneo, e schiudeva, nel mezzogiorno e nel centro della Penisola, un campo alla probabilità d'un impianto dinastico. La guerra fu statuita.
Ma le condizioni furono, quali furono, sono e sempre saranno — e gli allievi bastardi di Machiavelli dovrebbero ricordare le linee, che paiono scritte per questi giorni, del Principe — ogniqualvolta un piccolo Stato mendica l'alleanza d'uno stato potente: esigenze da un lato, concessioni dall'altro. Fu statuito che la guerra sarebbe condotta in modo da combattere l'Austria e la Rivoluzione ad un tempo: statuito che la Lombardia, conquistata al Piemonte, sarebbe dalla monarchia pagata colla cessione della Savoia e Nizza; statuito il matrimonio della figlia del re col principe Napoleone Bonaparte e che s'aiuterebbe l'impianto d'un regno toscano a pro di quest'ultimo: statuito che non si promoverebbero moti nel regno, se Murat non v'avesse probabilità di riescita: statuito che, se dopo la prima vittoria degli alleati, l'Austria riproponesse i patti che l'Hümmellauer affacciava nel 1848, verrebbero accettati e il Veneto s'abbandonerebbe a' suoi fati.
Parecchi di quei patti furono annullati dall'attitudine delle popo­lazioni italiane e da quella che assunsero parecchi fra i governi Europei; ma tutti furono allora accettati, non so se con animo di mantenerli, dal Ministro Cavour. Tendo a credere ch'egli accettasse, ingannando e fidando nell'avvenire, per le occasioni di romperli. Ma l'inganno, ridotto maestramente a sistema, è scienza di Stato in Luigi Napoleone, e presumere d'ingannare l'ingannatore potente era tanto stolto, quanto immorale concetto, e preparava inevitabilmente rovina.
Intanto — e pel caso in cui l'Austria si ostinasse di linea in linea nella contesa, e la Germania comunque non provocata, dacchè s'era stipulato che non si farebbero operazioni in Tirolo, nè sui punti protetti dai così detti diritti germanici, scendesse a parteciparvi — altri accordi si maneggiavano da Luigi Napoleone. Tentate inutilmente l'Inghilterra e la Prussia, tutta l'attività de' suoi raggiri s'era rivolta allo Tsar: principale agente fra gli altri il La Roncière. E fu, con maggiore avvedutezza da parte dello Tsar, il quale non si vincolò mai così formalmente, da non potere, pel menomo incidente, retro­cedere, statuito: che in caso di guerra ostinata e aiutata dalla Germania, la contesa allargandosi di necessità ad altri popoli, susciterebbero all'Austria nemici interni; s'utilizzerebbe il nome potente di Kossuth, si promoverebbe l'insurrezione Ungherese, e un esercito russo assalirebbe Germania ed Austria. Lo Tsar aveva stipulato per sè: che qualunque estensione prendesse la guerra, non si direbbe, nè si farebbe mai cosa alcuna che potesse risuscitar la Polonia; e la richiesta era stata, mentre appunto il principe Napoleone Bonaparte cospirava, promettendo libertà, coi principali tra gli esuli polacchi a Parigi, accettata senz'ombra di discussione: — che i patti introdotti nella pace di Crimea, a limitare la potenza russa nel mar Nero, sarebbero rescissi; e s'era, dopo discussione, accettato: — finalmente che l'Ungheria avrebbe scelto a re moderatore della sua indipendenza, il principe Costantino; e l'esosa condizione fu accettata, non solamente da Luigi Napoleone, ma — mi duole il dirlo — da parecchi fra gli agitatori ungaresi, forse con reticenze mentali pari a quelle del conte Cavour ed egualmente funeste.
E un terzo caso s'era preveduto da Luigi Napoleone: il caso in cui l'Inghilterra congiungesse le sue forze a quelle della Germania. A quel guanto di guerra dovea rispondere la conflagrazione e lo smembramento dell'impero d'Oriente. Quindi i preparativi d'un moto in Serbia, in Bosnia, nel Montenegro, maneggiati da emissari attivissimi russo-bonapartisti, facili a scernersi, anche da chi meno informato di noi abbia osservato attento l'insolito affaccendarsi, verso quel tempo, in viaggi da Parigi a Belgrado e Costantinopoli d'esuli e non esuli che apparvero poi pubblicamente frammisti alle crisi della collisione.
Sotto auspicii siffatti s'aprì la guerra.
Noi per vie, ch'or non possiamo svelare, ma che non lasciavano campo a dubbiezze, avevamo comunicazione minuta, avverata poi, d'ogni cosa.
Fra questi pericoli, fra i disegni russo-bonapartisti tendenti a imperializzare — era una delle voci che suonavano sacramentali in Parigi — l'Europa e il disviarsi dei più influenti fra gli uomini del Partito dietro all'ingannevole forma, che insegnava doversi sostituire la questione di territorio a quella di libertà; fra l'imminenza d'eventi maturati da imperatori e re, che nessuno poteva impedire, e la quasi universale inesplicabile credulità che s'ostinava a travedere negli imperatori e nei re i candidi, subiti verificatori del concetto delle aspirazioni dei popoli; quale doveva essere la parte degli uomini di fede repubblicana?
Taluni fra i nostri, forse più severi adoratori dell'ideale, ma di certo meno caldi di amore pel paese, anche traviato, che noi non siamo, avrebbero voluto che serbandoci puri d'ogni concessione all'errore e gittato anatema a ogni cosa che non fosse repubblica, ci fossimo ritratti, ravvolti nel manto della nostra fede, come Trasea Peto escì dal Senato, dall'arena dei fatti, isolandoci e aspettando giustizia dal tardo avvenire.
Era partito onesto ed anche generoso, ma per uomini contemplatori o disperati d'ogni salute possibile per la patria e stretti da una ineluttabile necessità a incarnarla incontaminata nel proprio individuo — e Trasea Peto era fra questi ultimi. Noi non eravamo contemplatori e paghi a vivere, piccola chiesa proscritta, segregati dal culto dell'avvenire o del sacro pensiero: c'intitolavamo uomini del Partito d'Azione, frammisti per tendenza suprema dell'animo e per istituto giurato alle congiure, alle lotte, alle sante ribellioni del nostro paese, rivolti d'antico a modificare il presente, più assai curanti del menomo palpito della nostra terra, che non di ciò che il presente o l'avvenire diranno di noi. E noi, comunque profondamente dolenti e attoniti del vedere rifarsi da capo una illusione che tutti avevano dichiarata spenta per sempre, e vergognosi del prostituirsi dell'Italia all'alleanza col Male, non disperavamo; né oggi pur disperiamo. Vive nei popoli, e segnatamente nel nostro popolo, una potenza vitale fatta per risuscitare le cose morte, che un menomo fatto, un detto generoso, una subita ispirazione scoccata, come corrente elettrica da contatto di nubi, dall'attrito degli eventi, possono richiamare in azione. E chi può aver davanti la madre agonizzante e disperare di richiamarne la sana vita e ritrarsi dicendo: è finita, scagli la pietra su noi. A noi non era possibile abbandonar la speranza, né quindi l'azione. Or, volendo frammetterci all'azione, ci bisognava subirne, rassegnati, le necessità, le condizioni indipendeti da noi.
Il paese era affascinato, travolto. I migliori nostri disertavano le file per cacciarsi là dove appariva imminenza d'opere. Insistere irremovibili sul nostro simbolo, frammettere in pochi alle grida riecheggiate dal 1848 il grido repubblicano, era un'indebolire la parte altrui, senza far forte la nostra, era un farci suscitatori di risse civili, tristi sempre, pessime quando s'iniziano senza speranza di procacciar trionfo a un grande principio. E d'altra parte, fra quel viluppo d'errori, d'illusioni, di deviazioni più o meno colpevoli, splendeva pur sempre, una norma che i repubblicani non possono, senza privar la loro fede di base, porre in obblio, l'idea della Sovranità Nazionale, da mutarsi coll'opera lenta e pacifica dell'apostolato, ma da non contradirsi violentemente con fatti; l'immensa maggioranza della nazione si mostrava innegabilmente disposta a concentrarsi intorno alla bandiera della monarchia di Savoia, a unificarsi sotto la formola regia. Non era fede; non era affetto; non era convinzione di mente: era speranza, adorazione d'un fantasma di Forza: lo sapevamo. Pur la tendenza era tale; e quando una tendenza è fatta universale nel popolo, i repubblicani possono intravvedere la delusione che ne uscirà, e devono, colla teorica, tranquilla predicazione cercare dì modificarla; ma intanto corre obbligo più ad essi che ad altri d'insegnare il rispetto al dogma della sovranità popolare e di sottomettervisi. Principii e necessità di fatto ci segnavano dunque ad un tempo la via da seguirsi; ed era: protestare continuamente prima contro il disegno, poi contro il fatto dell'alleanza col dispotismo, come contro quella che violava la moralità del paese e contradiceva inevitabilmente al fine da raggiungersi nell'impresa: — sagrificare a tempo, non la fede, ma la predicazione della fede repubblicana e seguire sull'arena il paese anche guidato da bandiera regia, purché non fosse imposta dalla forza e procedesse sorretta da mani italiane e conducesse lealmente, direttamente all'Unità Nazionale, senza la quale non può esistere Italia: — offrire a base comune d'accordo la Sovranità del Paese: — acquistare così diritto di proporre i modi più idonei per farci Nazione di liberi: — dire sempre al popolo, quand'anche fraintesi, i patti che potevano serbargli aperto l'adito al meglio nell'avvenire: — dire alla monarchia, quand'anche convinti che non vorrebbe e non potrebbe darci ascolto, i modi coi quali bisognava farsi unificatrice: — lottare insieme ai nostri fratelli per la libertà e per l'unità del paese e serbarci capaci, senza violazione di promesse, di lottare per altro, quando la delusione antiveduta da noi, compirebbe l'opera che a noi, nel generale turbamento degli animi, non era dato compire.
Via siffatta scegliemmo e la calcammo, al solito, leali, pazienti e senza lasciarci sviare da biasimo, tristi sospetti o persecuzioni. Se tutti l'avessero calcata con noi, l'Italia non sarebbe ora ridotta ad aspettare servilmente tremante(2) da una congrega di potenti stranieri, avversi i più, la decisione dei propri fati.
Lasciando da banda ogni questione di repubblica e monarchia, parte della Società, così detta Nazionale, e di quanti pur credendo il re necessario all'Italia amassero nondimeno l'Italia sovra ogni altra cosa e volessero assicurarne i fati e tutelarne la dignità e assicurare ad un tempo vittoria e indipendenza dall'alleato al re, era quella di far sì che il popolo iniziasse la lotta, quando la guerra era inevitabile, e re e imperatore erano presti a scender sul campo e vincolati a farlo e nella impossibilità di retrocedere. L'iniziativa popolare promossa da essi e aiutata immediatamente dalle forze regolari non minacciava in alcun modo il loro concetto monarchico, ma tutelava l'onore e la libertà del paese, disfaceva probabilmente le forze e senz'altro i calcoli militari dell'Austria, impediva prestandogli una potenza incalcolabile, che il re comparisse davanti al più forte alleato in sembianza di vassallo, rendeva impossibile la pace di Villafranca, italianizzava col fermento universalmente diffuso il moto, e dava quasi di certo base o riserva, a seconda dei casi, alla guerra nel Sud.
Fin dal 1856, quando il fervore dell'agitazione monarchica era già potentemente diffuso e vaticinava inevitabile la lotta, noi smettendo ogni propaganda repubblicana, ci collocammo su quel terreno. Proponemmo un accordo comune intorno alla Bandiera Nazionale: proponemmo che tutti, repubblicani e monarchici, s'adoprassero, senza intolleranza, senza esclusivismo di parte, ad agevolare, a promuovere l'insurrezione del paese: proponemmo che monarca e popolo congiungessero fraternamente pel bene d'Italia le forze loro; che il re consentisse a non imporsi come padrone su schiavi, ma facesse il debito suo e fidasse nella riconoscenza del popolo; che il popolo libero d'acclamare chi gli piacesse, cercasse intanto nelle proprie forze salute e non la facesse dipendere da un individuo. E mentre quelle proposte escivano pubbliche sull'Italia e Popolo in Genova e altrove, le facevamo privatamente ai capi di parte monarchica. “Vi manca l'opportunità? sussurate ai vostri che non ci attraversino le vie; e la creeremo per voi, pel vostro esercito, dove vorrete: temete la nostra bandiera? noi non leveremo se non una bandiera nazionale, e, sebbene traditi una volta da voi, torneremo ad aspettare riverenti che le volontà della Nazione si manifestino”(3).
Queste cose dicevamo, sperando che l'iniziativa popolare, sviluppando forze tali da bastare per l'impresa al Piemonte, ci avrebbe almeno salvati dal disonore e dal pericolo, grave oltre ogni altro, della lega col Bonaparte.
Ma invano. Da taluno fra gli uomini che allora reggevano ebbimo incerte, mal definite speranze d'accordo, che non miravano ad altro se non a renderci inerti e sfumarono quando da noi si scese sul terreno pratico. Dai capi agitatori ci venne recisamente risposto: noi respingiamo la bandiera neutra, giudicando la conciliazione impossibile. (Dichiarazione di Giorgio Pallavicino, 15 ott. 1856). I primi avevano già pattuito col despota; i secondi erano inebbriati dal tristo prestigio che le loro promesse cominciavano a esercitar sull'Italia. Volevano allettare, ed all'uopo, dicevano, anche sforzare il monarca; (Dich. cit.) e non intendevano che una insurrezione di popolo allettava e sforzava ad un tempo, ma vincolando a non arrestarsi a mezzo la via.
E allora cominciava per noi la parte tristissima di Cassandra; quella serie di rivelazioni e d'ammonimenti dati, per la seconda volta, agli illusi, e che dovevano più dopo verificarsi appuntino.
Noi dicevamo agli agitatori — e non increscano a chi legge le citazioni: a noi importa registrare previsioni che provano la logica del partito, e documentano la tradizione della sua condotta —:
“Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio. Da un a re alleato avrete promesse splendide in sulle prime; poi, per forza di cose, titubanza come di chi procede, non per impulso proprio, ma per altrui — scelta di capi avversi o ineguali all'impresa — limitazione dei disegni di guerra fin dove imporrebbero le monarchie sperate amiche o non nemiche — sospetto d'ogni elemento non interamente dipendente dall'ispirazione monarchica — rifiuto di tutti gli aiuti che tendono a dar coll'azione coscienza al popolo della propria forza e dei proprii diritti — prostrazione d'ogni entusiasmo nelle moltitudini che sole assicurano vittoria ad ogni guerra nazionale — isolamento dell'elemento regolare — indietreggiamento e tendenza ad accogliere patti disonorevoli e contrarii al primo programma — malcontento del popolo rieccitato — inganni a sopirlo ……
“La parola Unità è bandita, nei conciliaboli governativi, come sovvertitrice dell'ordine europeo, derisa come utopia d'uomini insani e pericolosi. Avversarla, è patto giurato di gabinetto, a prezzo d'una promessa di protezione straniera ……
“Però, i vostri che non osano, né sanno, né possono combattere senza quell'aiuto, rifiutano …… l'una Italia.... Essi, da alcuni individui in fuori, parlano d'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato non abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto....(4).”
Ma il linguaggio del vero tornava increscioso ai maneggiatori: com'essi si davano ciecamente, servilmente, a Cavour, al re, alla lega col Bonaparte, a ogni cosa che fosse regia o imperiale, avevano bisogno ch'altri si desse ciecamente ad essi.
Bisognava loro silenzio d'ogni libera voce. Quindi l'idea della dittatura e della sospensione d'ogni potere che rappresentasse legalmente il paese: idea ridicola in sé dove ogni uomo plaudiva ai disegni di guerra e inneggiava al re, ma prestabilita a Plombières e architettata a toglierci ogni via d'aprir gli occhi al popolo degli illusi. E quell'idea che si verificò nell'aprile 1859 era stata, fin dal 15 dicembre 1858, annunziata da noi: “Non assemblea dunque, non Circoli, non associazione né stampa, né alcuno di quelli eccitamenti collettivi che illuminando, spronando, affratellando il popolo gli danno coscienza di sé, della propria vita, della propria potenza, dei proprii fati ….. Muto, fra un popolo muto, non invigilato, non consigliato, padrone assoluto, co' suoi battaglioni disciplinati, il dittatore moverà irresponsabile all'esecuzione di disegni celati, per vie scelte esclusivamente da lui, con mezzi versati a' suoi piedi dalla nazione, che consunti una volta, mal si rifanno. Se lo Statuto e il Parlamento gli parranno frammettere inciampi o indugi all'impresa, ei sciorrà il Parlamento e sospenderà l'azione dello Statuto(5).”
E mentre s'architettavano modi perchè tutti forzatamente tacessero, la chiamata ai volontari di tutte provincie d'Italia provvedeva a impedire le insurrezioni, che avrebbero potuto dare iniziativa al popolo e scompigliare i disegni dei liberatori. Quei giovani che, con impeto da parte loro sublime, sfidarono ogni rischio per rispondere alla chiamata, mal potevano, da poche migliaia infuori, essere ordinati e ammaestrati militarmente in tempo sì breve da poter riescire elemento importante nella guerra imminente; ma sottraevano all'elemento popolare delle città i capi naturali dell'insurrezione, e si toglievano alla sfera nella quale avrebbero potuto, prendendo norma dai casi. operare liberamente per accentrarsi in un sol punto e aggiogarsi sotto disciplina dittatoriale. Notammo allora il pericolo. Ma la nostra stampa, trattata dal governo sardo e dal francese peggio assai della stampa austriaca e confiscata per ogni dove, non giungeva ai giovani. Intanto anche ai più noti da parte nostra in Piemonte e nella Liguria s'affacciavano, accompagnate da larghe promesse di guerra Italiana, d'Indipendenza da tutti stranieri e d'Unità Nazionale, proposte ch'essi, trascinati da una voce idoleggiata e dal desiderio di fare, accettavano.
Ad essi, noi dicevamo, senza speranza e per debito di coscienza: “Le proposte non hanno se non uno scopo: neutralizzare, rendere inerte l'elemento rivoluzionario; sviarlo dal profittare, come dovrebbe, dell'attuale fermento per impadronirsene:..., mettersi in grado di poter dire al paese: vedete che anch'essi sono con noi: e comprometterne la condotta futura: poi passare quelli elementi a rassegna, agglomerarli, perchè non sostituiscano altrettanti nuclei d'agitazione nazionale iniziata che sia la guerra, dirigerli, tenerli sotto la mano.... Davvero gl'incauti che accettano corrivi quelle proposte, mostrano d'amare, consapevoli o no, più che l'Italia, la guerra.... Non ci daremo alla cieca, voi dite: io v'affermo che vi darete alla cieca. Voi vi date ad una guerra nella quale la monarchia piemontese è esecutrice; l'impero di Francia ha l'ispirazione, il disegno. E vi date ad una guerra, che sarà governata dispoticamente, senza intervento possibile d'opinione vostra o del popolo. Non udite i profondi politici della guerra Franco-Russo-Sarda annunziarvi che il primo passo da moversi verso l'impresa è la dittatura? Non li udite, dimentichi che senza l'indipendenza dell'anima ch'è la libertà, l'indipendenza della nazione è un vuoto nome, a dichiararvi che, la sollevazione Italiana non implicando alcuna questione di libertà..,.. Luigi Napoleone non può impaurirsene? Voi non avrete stampa, né associazioni, né libertà di parola pubblica, né voto: lo avete dato, vi diranno, sui muti registri del 1848. Avrete capi devoti all'ispirazione imperiale-monarchica per vegliarvi e ferrea disciplina per punirvi. Sarete al campo in qualche angolo di Lombardia, probabilmente tra francesi e sabaudi regii, quando la pace che tradirà Venezia sarà a insaputa vostra segnata(6).
E parlando a tutti e sempre insistendo perchè non si stringesse la fatale alleanza, o perchè almeno se ne scemassero coll'iniziativa popolare i pericoli, noi rivelavamo, prima della guerra, ciò che pochi mesi avverarono:
“Per l'Italia, una subita pace rovinosa, fatale agli insorti, a mezzo la guerra, un Campoformio.... Non appena Luigi Napoleone avrà conquistato l'intento,... accetterà la prima proposta dell'Austria.... costringerà il monarca sardo a desistere, concedendogli, una zona di territorio.... abbandonerà tradite le provincie venete e parte delle lombarde.(7).”
“Una impresa ispirata, appoggiata da Luigi Napoleone non può avere per mira un'Italia: non può estendersi al di là del rimaneggiamento d'un rimpasto territoriale, non può prefiggersi a intento fuorché l'emancipazione dall'Austria, per certi fini, d'una piccola zona di territorio. Ed essi lo sanno. Perchè mentono? Perchè ciarlano d'Italia alle popolazioni corrive a credere? Perchè sommovono colle loro agitazioni la povera Venezia, già freddamente deliberatamente abbandonata al nemico?(8).”
“La Monarchia sarda non s'accinge a combattere che per un limitato ingrandimento territoriale. Il matrimonio della principessa Clotilde e di Napoleone Bonaparte è il pegno dell'accettazione. Gli Austriaci non ripasseranno le Alpi. Venezia è statuita fin d'ora pegno di pace coll'Austria. L'Italia non è contemplata nella quistione(9).”
“Importa chiamar l'attenzione sui germi d'un dissidio preparato probabilmente ad arte tra Francia e Piemonte, da un lato per poter dire al paese insorto: non possiamo mantenere il nostro programma: la Francia s'oppone; dall'altro per poter dire: io non intendeva trascorrere fin dove la vostra ambizione vorrebbe sospingermi(10).“
Noi potremmo moltiplicare le citazioni; ma son queste, per gli uomini spassionati, più che sufficienti a mostrare, da un lato, quali fossero le cagioni del nostro dissenso; dall'altro, come l'aver, soli, tra biasimo e credulità universali, antiveduti esattamente i fatti che accaddero, provi l'infallibilità del principio che rappresentiamo e ci dia diritto di trovar fede — discussione severa almeno — nelle previsioni che potremmo esprimere in avvenire.
L'alleanza francese intanto diventava fatto compiuto. Le parole dall'Alpi all'Adriatico suonavano applaudite, credute sul labbro di Napoleone. La guerra iniziata con ardito concetto, tradito nell'esecuzione dall'Austria, si continuava, tra gl'inni ai magnanimi liberatori dagli alleati.
Allora, noi protestammo. Gl'Italiani lessero la nostra protesta e sanno, che fedeli al programma adottato, noi vi dichiarammo ad un tempo che la coscienza e la conoscenza certa dell'intento prefisso alla guerra ci vietavano di combattere sotto le bandiere dell'oppressore di Roma e che saremmo presti sempre a farlo, anche sotto la bandiera monarchica, ogniqualvolta quella bandiera, sorretta da mani Italiane, accennasse apertamente all'Unità della Patria. E tacemmo, spiando ansiosi il momento.
Quando, il 1 Luglio 1859, ricominciammo le nostre pubblicazioni, parte delle nostre previsioni s'era avverata, il resto stava per avverarsi. Il silenzio creato dalla Dittatura, l'emigrazione di quanti giovani avrebbero potuto dar moto all'insurrezione popolare delle città, la propaganda instancabile degli agitatori monarchici che intimavano lasciate fare, le calunnie sparse ad arte contro i pochi che dicevano fate, il rifiuto formale dato a Milano che proponeva levarsi e documentato dal primo bando d'Emilio Visconti-Venosta regio Commissario a Varese(11) e l'istinto che cominciava, inconscio, a lasciar gli animi incerti sulle intenzioni, avevano sopito il concitamento delle moltitudini. Non combattevano; plaudivano alle vittorie dei combattenti. La guerra non era guerra di nazione ridesta ma serie di fazioni d'eserciti regolari. Il re era subalterno nel campo, i volontari erano intenti ad addestrarsi nei depositi, o accampati intorno al vietato Tirolo. Luigi Napoleone era arbitro onnipotente della guerra Italiana. Ei doveva prevalersene e se ne prevalse. Nel Pensiero ed Azione del 10 Luglio noi dicevamo che la pace al Mincio, alla quale l'armistizio allora segnato accennava, conchiuderebbe subitamente la crisi. Il 20 Luglio i nostri articoli commentavano la pace di Villafranca. Luigi Napoleone aveva raggiunto l'intento. L'alleanza dell'Austria era conquistata alla Francia Imperiale.
Sul campo della logica e delle previsioni, la vittoria era nostra: nostra innegabilmente. E nondimeno come ne usammo? La nostra prima parola fu una parola di conforto alle attonite moltitudini, una parola di conciliazione agli illusi che ci avevano versato addosso l'oltraggio. E ci si conceda un'ultima(12) citazione. Essa rivela tutto l'animo nostro e segna agli Italiani la via d'un dovere identico anch'oggi e che noi non potremmo predicare se non con parole consimili:
“La condotta degli Italiani — noi dicemmo nel numero del 20 luglio — deve mostrare in oggi all'Europa, se l'Italia ha coscienza di vita propria o aspetta vita esclusivamente dallo straniero... Liberta' ed Unita' Nazionale: questo grido prorompa unico da tutte le manifestazioni, frema sulle labbra di quanti non accettano che l'Italia sia schiava e disonorata: ricordi dai proclami, dalle bandiere, dai muri alle milizie italiane, ai volontarii, agli uomini — e sono i più — che s'illusero di buona fede, gli obblighi assunti, lo scopo pel quale s'illusero. Che volevano essi quei che si separarono da noi e opposero alla nostra logica il fascino dell'opportunità, alla ventenne parola d'ordine del partito, la parola di Cavour? Volevano, come noi, libera ed una l'Italia: volevano la Nazione: volevano l'indipendenza da tutti stranieri. Differivano sui mezzi: convinti che l'iniziativa della monarchia avrebbe dato salute all'Italia, accettarono, molti fra loro deplorando tacitamente, l'alleanza funesta alla quale la monarchia s'aggiogava: convinti della necessità d'unire gli sforzi, rimproveravano noi perchè ci tenevamo separati, come noi convinti alla volta nostra che per quella via non poteva conquistarsi l'intento, dovevamo a rischio di tutte accuse, salvare la bandiera dell'avvenire. Oggi i casi additano a tutti noi lo stesso terreno: oggi non sopravvive speranza fuorché nel popolo. Cessino le gare! in nome dell'onore d'Italia, stringiamoci in uno. Sia maledetto fra noi chi non cancella la memoria dei rimproveri, delle accuse reciproche, nel grande principio che oggi, uniti dobbiamo e possiamo salvare il paese.”
“Dovunque sono uomini che sentono l'importanza del momento, che intendono come si decida in questi giorni della vita o della morte d'un popolo per un quarto di secolo, sorga.... la chiamata alle moltitudini perchè decretino d'infamia la pace, la vendita di Villafranca.... Dovunque l'energia delle moltitudini accenna potenza di fatti, si formoli in poche, brevi, uniformi parole il programma della Nazione: vogliamo Unità, Libertà: guerra per ambe finche guerra è possibile.... Dovunque sono, in Italia o in esilio, uomini che si sanno influenti nelle terre ove nacquero, partano e cerchino penetrarvi: ogni uomo s'affretti al suo posto. Dovunque sono Italiani che possiedono al di là del necessario alla vita, dovunque sono stranieri ai quali l'Italia è patria d'affetto, diano quel che possono, quanto possono, ad aiutare la grande impresa Italiana. Sottoscrissero per le famiglie dei contingenti: oggi la famiglia dei contingenti è l'Italia....
Al centro, al centro, mirando al Sud!....”
Con queste tendenze, con questi propositi, pieno l'animo d'affetto e di speranza, partimmo per l'Italia. Chi scrive era sui primi dell'agosto in Firenze. E in Italia erano pochi dì prima o dopo, Aurelio Saffi, Alberto Mario, Mattia Montecchi, De Boni, Quadrio, altri molti di tutte provincie. L'alleato s'era ritratto dalla guerra: gl'Italiani erano soli: era il momento per noi di sciogliere la nostra promessa, e ci affrettammo. Ci affrettammo colle parole: armi, guerra, unità nazionale, protesta Italiana, Venezia, Perugia sul labbro senza pensare a chi guiderebbe, smessa ogni idea di Partito, coll'unico desiderio che si salvasse, resistendo ai patti nefandi, l'onore. Nessuno di noi fiatò di repubblica o di guerra al re Vittorio Emanuele. Chi scrisse, anonimo, sulle gazzette di perturbazioni, di disegni repubblicani, chi fece serpeggiar quei sospetti nel popolo, mentiva impudentemente. E noi sfidiamo altamente i tristi calunniatori a recare innanzi, tra le molte lettere sequestrate a quel tempo — dacché il delitto visitato da pena infamante nei codici, s'era fatto pratica dei governucci e segnatamente in Toscana — una sola nostra linea che dia colore all'accusa. Pur troppo, noi speravamo ancora che il re, ricordevole delle promesse, della dignità, dell'onore e del sangue italiano che gli scorre nelle vene, non accettasse l'insulto gittatogli in viso dal Brenno straniero, non accettasse l'impronta di vassallaggio stampatagli in fronte dal dono insolente della Lombardia e da una dedizione di Venezia statuita senza neppur consultarlo. Alberto Mario era, colla benemerita moglie, cacciato in carcere dal Cipriani, poco dopo ch'egli aveva scritto sul nostro giornale un articolo, nel quale, ispirandosi a quella illusione onorevole ei conchiudeva: corriamo all'armi francamente e lealmente, duce Vittorio Emanuele.
Trovammo, invece dell'accoglimento fraterno, al quale avevamo diritto, birri, spie, imprigionamenti, perquisizioni, calunnie, intimazioni di nuovo esilio: tutto un piccolo terrorismo di moderati trepidi d'un biasimo di Pietri o d'un cipiglio del padrone. Né reciterò qui quella tristissima pagina di storia contemporanea — tristissima, dico, non per le persecuzioni in sé delle quali siamo usi a sorridere, ma perchè scritta da mani italiane contro italiani — che dura anch'oggi: stia sui persecutori la vergogna dell'ingiustizia e della inefficacia. Ben dirò a complemento di questo compendio del nostro passato, come tra quella tempesta pigmea, noi rimanessimo fermi al programma e senza cedere all'ira e persistendo nella nostra abnegazione, tentassimo coi governucci l'unica via di salute che rimaneva — e rimane — alla povera Italia.
Al centro, al centro, mirando al sud! Era l'ultima linea che avevamo scritta sulla terra d'esiglio; e fu il nostro grido, il nostro Delenda(13) Carthago in patria.
Bisognava, per amor di tattica, come di principio, di fronte al ritrarsi di Luigi Napoleone, affrettarsi a italianizzare il moto. Il paese era fremente: il Piemonte incerto, il re oltraggiato e scontento; i volontari ardenti, tumultuanti quasi per andar oltre: l'Europa scossa da un profondo senso di biasimo pel subito mutamento dell'imperatore: la Germania e la Prussia sull'armi: l'Inghilterra apertamente avversa alla supremazia che la Francia s'arrogava sul Continente: l'Austria affranta dalle disfatte. Essa non poteva innoltrarsi nuovamente prima d'essersi rifatta nelle forze e negli ordini: e Luigi Napoleone non poteva combattere le battaglie dell'Austria contro l'alleato del giorno innanzi. Tra la Cattolica e la frontiera Abruzzese, non erano allora altre forze che quella mano di Svizzeri dalla quale s'erano insanguinate le vie di Perugia. Non erano negli Abruzzi truppe raccolte; e il Regno era agitato, e la Sicilia presta ad insorgere. Bisognava varcar rapidamente, inaspettatamente il confine fittizio, riconquistare Perugia, e attraverso la certa insurrezione dell'Umbria e delle Marche, innoltrare a marce forzate sul Regno. Tra l'insurrezione delle provincie e quella di Sicilia, il Regno dove, comunque scorati, disordinati, sviati, gli elementi di mutamento abbondavano e il malcontento era universale, era nostro. Col regno avevamo soldati, vapori, materiali da guerra: eravamo potenza. Inoltre, l'energia della mossa avrebbe rivelato tale una forza di volontà nella rivoluzione incuorante i più tiepidi da convertire l'incerto desiderio in furore.
Dieci mila uomini e Garibaldi bastavano a questo. Ma era necessario operare senza chiedere assenso ad anima nata, senz'aspettare il placet del re o degli agenti bonapartisti che siedevano — e taluni siedono ancora — in Bologna. Gli agenti bonapartisti dovevano naturalmente opporsi a tutto potere. Il re non era da tanto d'ordinare la mossa; ma, se è vero ciò che i faccendieri ne dicono, avrebbe trasalito di gioia in udirla e avrebbe seguito il paese: egli e il suo esercito fronteggiavano e impedivano a ogni modo e per necessità le forze dell'Austria.
Queste cose proponemmo, mentre i governucci ci dichiaravano macchinatori di moti contro il magnanimo re, ai capi militari e ad altri. Rosolino Pilo ed altri scontarono con mesi di prigionia il delitto d'essere stati portatori, consapevoli o no, di proposte siffatte e d'aver desiderato che, senza calcolo di bandiera, si salvasse il paese. Noi, proponendo, offrivamo, a scemare i pericoli dell'impresa e i terrori dell'estero, di rimanere in disparte, di non mostrarci se non chiamati.
E il 22 agosto, da Firenze, chi scrive riproponeva il disegno ad uomini di governo, e tra gli altri al Ricasoli. Cito quella lettera, perchè fatta pubblica, non so per opera di chi, non ha molto, sui giornali inglesi, senza data e travisata nella traduzione(14), fu creduta da molti scritta recentemente da me, mentr'io di certo non riproporrei ora arditi concetti nazionali al Ricasoli, ineguale visibilmente alla sua missione e al forte linguaggio ch'ei talora si compiacea d'adoprare.
Ma se la giustezza e l'opportunità della proposta balzavano agli occhi e alla mente d'ognuno sicché tutti, amici o avversi, teoricamente l'accolsero, nessuno ebbe genio d'insurrezione o affetto non vincolato di patria, o ardire che intende il momento tanto da farsi iniziatore dell'esecuzione. Gli uni opponevano la disciplina, gli altri le Conferenze, altri volevano l'assenso del re; il Governo Toscano, in una nota che mi fu trasmessa, opponeva perfino, or ricordo, il malcontento probabile della Russia! Cercammo, come Diogene colla lanterna, un uomo, e non lo trovammo. L'unico, il quale avrebbe forse finito per intendere che sorgono momenti supremi nei quali un core e un braccio potenti non hanno consigli da chiedere fuorché a sé stessi, fu per arti subdole e volpine allontanato dal campo d'azione.
E corse il tempo. E d'ambage, in ambage, di fiacchezza in fiacchezza, di paura in paura, fu preferito lo svolgersi lento della tristissima ignobil commedia inflitta per questi mesi al paese da' suoi reggitori — la celebrazione solenne con illuminazioni e salve d'artiglieria d'una annessione che non esisteva — la disquisizione degna dei sofisti greci intorno all'accogliere e all'accettare — la persistenza in un regime arbitrario e tirannico non giustificato più da guerra, né da circostanze anormali — l'inganno sistematico al popolo sulla realtà delle condizioni d'Italia mercè un monopolio indecoroso di stampa — il versare danaro pubblico in monumenti agli autori del tradimento di Villafranca e in edizioni di Machiavelli, mentre si tratta d'esser liberi o servi — il disfare con apparato d'assemblee e convegni governativi un'agenzia bonapartista in Bologna per adottare il concetto bonapartista del centro transappenino e cisappenino —il reggersi in nome d'un Governo che ricusa o differisce indefinitamente e a beneplacito di stranieri il dominio — il proclamar la reggenza, poi rinunziarvi perchè non talenta a Luigi Napoleone — il ricevere — perchè non un re travicello o, imitando Carlo XII, gli stivali del re? — invece del re, invece del reggente pel re, un reggente pel reggente pel re, Boncompagni! Ah, verrà giorno in cui gli Italiani rileggendo gli indirizzi, i decreti, i memoriali fatti in nome d'un popolo per cui s'agita una questione di vita o di morte, non sapranno se arrossire, piangere o ridere di riso amaro.
E son questi gli elementi dell'oggi.
Abbiamo un popolo sviato ancora, ma buono, d'istinti forti e generosi e che comincia a rinsavire e destarsi dal sonno in cui una funesta propaganda lo travolgeva: Governi moderati, collettivamente inetti e inferiori all'impresa: taluno fra gli uomini che li compongono migliore degli altri, conscio del vero, ma titubante e trattenuto sulla via dal terrore fatale d'una agitazione popolare ch'è l'unica via di salute all'Italia: un nucleo d'esercito prode, voglioso, capace d'ogni alta cosa, al Centro, con capi buoni e devoti i più, ma mancanti di virtù iniziatrice: una monarchia tentennante per istinto e per tradizione, aggiogata pur troppo per timore non per amore, alla volontà dell'Impero, ma cupida di potenza e d'ingrandimento e compromessa davanti alle popolazioni e costretta a seguire il moto se altri lo spinga con vigore, o cadere: un dispotismo al Sud minato da un malcontento universale, ma sorretto dal terrore, da un sistema tremendo di spionaggio e di corruttela, dalla poca fiducia che i buoni s'hanno nell'energia del rimanente d'Italia e dall'inerzia codarda d'una setta di moderati guasta di municipalismo, di servilità ai governi stranieri e d'aristocrazia diffidente del popolo: l'Austria avversa e vogliosa di vendetta, ma impotente ad ogni grande operazione offensiva e minacciata ogni tratto da insurrezioni interne e fino nella sua capitale: Luigi Napoleone avverso, ma vegliato e abborrito dall'Inghilterra, dalla Prussia, dalla Germania, e nell'impossibilità d'operare contro il Sud o di combattere contro l'Italia a fianco dell'Austria senza soggiacere ai pericoli d'una guerra europea: l'Inghilterra propizia alla nostra emancipazione e al nostro diritto, ma poco disposta ad avventurarsi a gravi contese per chi non si mostri forte e deliberato: pochi raggiratori bonapartisti, pochi fautori di restaurazioni, non molti partigiani d'autonomie e circoscrizioni locali, ma potenti dell'inerzia altrui e del silenzio imposto al popolo, ch'è, nella vasta maggioranza, unitario: finalmente, un Congresso imminente, avverso nella maggioranza dei suoi membri alla nostra Unità Nazionale e alla nostra Indipendenza assoluta, vincolato dalla natura d'ogni congresso a non decidere che su fatti esistenti, chiamato quindi inevitabilmente a restringere i diritti conquistati dalle provincie emancipate e a proclamare per l'altre lo statu-quo.
In condizione siffatta di cose, non esiste per sottrarsi all'altrui oppressione o alla lenta agonia di sconforto che genera l'egoismo e la indifferenza, se non una via: è quella che da ormai otto mesi andiamo predicando:
Bisogna italianizzare il moto: allargarne la base per crescergli forza: cangiar la linea d'operazione: agir arditamente nel Centro mirando al Sud.
Agire, osando, prima del finir del Congresso per costituire il fatto Nazionale davanti ad esso ed evitare un accordo de' suoi membri, inevitabile davanti all'inerzia comune: agire, se prima non è possibile, immediatamente dopo; vincolarsi e prepararsi a resistere alle sue decisioni avverse; protestare contr'esse coll'armi e coll'insurrezione. Manca al nostro moto un'iniziativa; bisogna ad ogni costo crearla. E quest'iniziativa dev'esser di libertà e d'Unità Nazionale. I moderati che reggono, tendono a localizzare il moto perchè, dicono, siamo deboli. Bisogna dunque estendere il moto per essere forti.
Sopprimendo la libertà, i moderati che reggono, non tolgono una sola arme al nemico; spengono nel silenzio e nell'isolamento l'entusiasmo d'un popolo, che sente con noi e ch'è la sola, vera forza sulla quale possiamo far calcolo. Bisogna rieccitare colla stampa e colle associazioni quell'entusiasmo sopito, e far della libertà mezzo all'indipendenza.
Bisogna, rinfervorando di virtù iniziatrice gli animi intormentiti e il semi-spento moto d'Italia — affermando arditamente il Diritto Italiano — dando con fatti all'Italia e all'Europa manifestazione di ciò che vogliamo e prova che siam decisi a combattere sino agli estremi per ottenerlo — dar core ai tiepidi, azione all'esercito, nuovo impulso di speranze e di fede alla gioventù, appoggio all'insurrezione delle terre romane, oggi serve, opportunità di sorgere al Sud, motivo, necessità anzi, d'agir nuovamente al Piemonte, certezza di forza in noi a quei tra Governi Europei che diffidano di Luigi Napoleone e intendono afferrare ogni pretesto per limitarne l'azione, animo ai popoli che fermentano sotto il giogo dell'Austria.
Predicare, far prevalere queste norme è lo scopo che ci prefiggiamo. Né più, nè meno.
Noi non veniamo ora a porre in campo questioni di forme governative, di monarchia o di repubblica, d'antagonismo o di devozione a Vittorio Emanuele. Franchi e leali, come sempre fummo, il giorno in cui crederemo debito nostro di lavorare esclusivamente al trionfo immediato dell'idea che addittammo, or sono quasi trent'anni, come sola via di salute all'Italia, faremo come gli Italiani in Sicilia nel 1848; lo dichiareremo anzi tratto. Fino a quel giorno, qualunque parlerà, accennando a noi, di complotti, di disegni immediati, d'emissari repubblicani, sarà, deliberatamente o no, mentitore.
Noi veniamo a dire all'Italia che il suo moto iniziato con un concetto d'unità nazionale, more tradito, localizzato, dato, — con intenzione o no poco monta — per sommissione abitualmente servile ai raggiri, ai disegni ostili del dispotismo straniero. Veniamo a dirle che i capi attuali del moto, mancano d'iniziativa, che bisogna o trovar modo d'infonderla in essi con una imponente, universale manifestazione nell'opinione popolare o mutarli; che si tratta di salute e d'onore per la patria comune; che abbiamo noi tutti diritto e debito d'occuparcene; e che bisogna unirci tutti in un lavoro attivo e ordinato, perchè il moto torni rapidamente al primo concetto — Italia, libertà, unità nazionale. Veniamo a dirle ch'essa non deve riporre speranza alcuna nel futuro Congresso; che i fati della Romagna e della Toscana sono già irrevocabilmente determinati nella mente di Luigi Napoleone, in modo contrario ai desiderii delle popolazioni; e che bisogna quindi prepararsi a resistere. Veniamo a dirle che, anche serbata l'emancipazione d'alcune provincie è nulla se non guida all'emancipazione di tutto quanto il paese; che l'indipendenza è menzogna se non è da tutti stranieri; che la libertà è suo diritto e che essa deve conquistarsela e tutelarla con armi proprie. Veniamo a dire che parola d'ordine d'ogni italiano deve essere in oggi, non Bologna, Firenze o Milano, ma Perugia, Napoli, Palermo, Roma, Venezia.
Combatteremo senza tregua, rivelandone siccome traditori del paese i fautori, ogni progetto d'impianto in Italia di principato straniero. Combatteremo, come piaga mortale d'Italia, l'esistenza dell'autocrazia papale.
Combatteremo ogni disegno di nuovi riparti, di nuovi smembramenti e d'autonomie locali da qualunque parte traggano origine. Promuoveremo, da qualunque parte muova, ogni virile proposta, ogni concetto che guidi a unità, all'estensione, all'italianizzamento del moto.
E quanto a Vittorio Emanuele, noi non gli siamo nemici, né servi. L'immedesimare anzi tratto il suo nome coll'unità nazionale, è un rinnegare la coscienza e la potenza della nazione; il rifiutarlo anzi tratto, sarebbe ingiustizia e follia. Ogniqualvolta ei compia il debito suo d'italiano, faremo con lui: cercheremo, s'ei lo trascuri, far senza lui; e far contro lui s'egli mai lo tradisse ponendosi apertamente ostile all'intento.
Verso lui, verso gli uomini che lo prefiggono a bandiera esclusiva del moto, tentammo ogni via, ogni concessione possibile, perchè dall'accordo escisse più secura e sollecita l'unità del paese. Oggi liberi, indipendenti, sciolti da ogni obbligo morale, fuorché verso il paese, trarremo, né sistematicamente ostili, né ciechi, le ispirazioni della nostra condotta dalle circostanze e dalle necessità della patria italiana vivente di vita propria e suprema su tutti gli individui.
(Dal Pensiero e Azione, N. 24, 24 dicembre 1859).


II.


Queste cose scrivevamo sul finire del 1859. E chi può dire — e recarne la menoma prova, — che tradimmo di un'ora sola, con un solo atto, il nostro programma e le nostre promesse?
Se v'è, si levi e segni del suo nome l'accusa documentata.
Ma il calunniare sistematicamente e deliberatamente un Partito che ha creato in Italia il culto dell'Unità, suscitato la simpatia dell'Europa a pro del nostro risorgere e tinta del sangue de' suoi martiri ogni zolla del nostro terreno — il dar lode nelle conversazioni private alla nostra potenza di sagrificio e commettere a un tempo ai poveri venduti anonimi della stampa governativa di negarla e vilipenderci cospiratori a dispetto delle nostre dichiarazioni firmate — il parlare a ogni tanto della necessità suprema per noi di concordia e dar moto intanto alle arti le più nefande per escludere i nostri dal campo, dagli uffici, dal Parlamento — e l'additarci al paese dove crescemmo e all'Europa in sembianza d'agitatori incorreggibili e pericolosi, di settari intolleranti e ambiziosi, di demagoghi presti a sagrifìcare la salute della Patria al fugace trionfo d'una idea preconcetta o d'una abbietta vanità personale, quando appunto si compia per noi senza posa il più alto possibile dei sagrifici — è infamia che disonora l'Italia e dovrebbe bastare alla condanna degli uomini che non s'arretrano davanti ad essa. E il credere cieco in accuse siffatte, il ripeterle papagallescamente senza darsi briga d'appurarle e rifiutare l'esame dei fatti e respingere, senza meditarli, i consigli degli uomini che segnarono, primi, la via, è cosa indegna d'uomini che intendono a farsi liberi; abitudine servile d'armento che s'accalca dove guida, qual ch'ei siasi, il capo. Senza moralità non si fonda nazione; e se avrete in ogni modo una patria, salvo a farla grande, onorata e potente poi, voi dovrete, o Italiani, ringraziare la Provvidenza i cui disegni vogliono che una Italia sia e i fatti generosi dei forti che crebbero tra le nostre file e l'abnegazione degli uomini che oggi voi abbeverate d'ingratitudine.

Luigi Napoleone avversava — i dispacci officiali fatti pubblici e le di lui stesse dichiarazioni, ci sdebitano oggi d'ogni obbligo di provarlo — l'annessione delle liberate provincie del Centro alla monarchia Piemontese. Ei voleva l'Italia forte abbastanza per potere, un dì o l'altro, dargli aiuto ai disegni da lui maturati di supremazia sull'Europa, non tanto da potersi sottrarre alla sua prepotente influenza. Quindi il sogno, rivelato pubblicamente e con insistenza, d'una confederazione di Stati, preside il papa ch'oggi è schiavo francese. E inoltre ei vagheggiava un trono nel Centro pel cugino marito della figlia del re. Partecipe, lietamente o no poco monta, di quei disegni era, da Plombières in poi, il conte Cavour; quindi le titubanze indecorose e le misere distinzioni tra l'accogliere e l'accettare e la brutta commedia dei reggenti di reggenti, a dar, non fosse altro, tempo all'alleato di maneggiarsi e corrompere. Non fu certamente per lui che non si avverò, come pur troppo doveva avverarsi il secondo, quel primo turpe mercato. Ma né egli, né l'alleato avevano, nei loro calcoli, fatto conto dei fati Italiani preordinati da Tale ben altramente potente che non tutti i cospiratori imperiali e regi, né degli istinti ridesti del nostro popolo, né della nostra tenacissima volontà. Il popolo che s'era pur troppo lasciato sedurre agli applausi e alle diffidenze servili, quando gli fu sussurrato che mallevadrice perpetua d'indipendenza dall'Austria e suoi duchi gli sarebbe la Francia, s'esso accettasse un Bonaparte a suo capo, si ravvide e rispose ostinatamente Unità. E gli uomini di parte nostra, per amore all'Unità, necessità di chiudere la via all'usurpazione straniera e speranza che, forti una volta, gli uomini della monarchia troverebbero in sé coraggio per emanciparsi ed osare, si fecero promotori attivissimi dell'annessione. Nostri furono gli uomini(15) che scrissero i proclami ai popolani toscani e condussero in Firenze, in Prato ed altrove le consorterie degli operai a votare: nostri i capi-popolo che in Parma e in Bologna più s'agitarono a rendere universale, prepotente la manifestazione. Era ormai impossibile ai governativi non accettare, e accettarono. Il dì dopo ci calunniavano più che mai.
E il dì dopo, comechè forte del consenso e dell'entusiasmo di dodici milioni d'Italiani liberi, Cavour era più che mai servo dell'alleato. E mentre noi insistevamo perchè s'emancipassero, mirando a Napoli, l'Umbria e le Marche, ei pensava a tradire Nizza e Savoia alla dittatura imperiale, per ottenere perdono d'avere accettato il voto delle popolazioni del Centro. Nizza e Savoia erano state promesse a patto della liberazione del Veneto, e il Veneto era schiavo dell'Austria. Il Centro s'era emancipato senza l'aiuto d'un solo soldato francese, e s'era dato spontaneo. L'Europa biasimava altamente, minacciosamente il disegno. Napoleone non poteva conquistare quel terreno per forza d'armi senza correre il rischio d'una guerra Europea. Bastava una parola generosa di resistenza gettata al Parlamento, sussurrata alle moltitudini; bastava un grido di dolore del re chiesto d'alienare le sepolture de' suoi antenati, perchè l'Europa frapponesse il suo veto. E nondimeno, il sacrifìcio fu consumato. Il conte Cavour e i 229 satelliti di Cavour nella Camera segnarono dei loro nomi lo smembramento. E l'Europa imparò che l'Italia non osava liberare una zona del proprio terreno se non a patto di sagrifìcare la libertà d'un'altra al dispotismo straniero.
Moralmente, noi ci sentivamo da quel giorno sciolti d'ogni obbligo, d'ogni riguardo verso uomini siffatti. Se non che non guardavamo ad essi, ma solamente al paese. Il paese era guasto nell'intelletto da una infermità che non poteva guarirsi in un giorno, e che scendeva dal carattere dell'iniziativa. Al paese mancava la coscienza delle proprie forze. Aveva vedute l'armi regolari imperiali e regie vincere le battaglie lombarde: s'era emancipato spontaneo nel Centro, ma senza lotta e davanti a un nemico che si ritraeva senza aspettarla: non viveva ancora di vita propria, ma dell'altrui. Bisognava trasportare in esso l'iniziativa del moto a italianizzarlo e dargli coscienza di sè. Bisognava farlo combattere e vincere. E durammo, addolorati, irritati, fedeli al programma.
Avevamo, da quando una minaccia di Luigi Napoleone al re e un divieto del re a Garibaldi, impedivano ai nostri il passaggio, preparato e consentito, della Cattolica, rivolto l'animo ad aprire in Sicilia un campo agli uomini d'Azione e iniziarvi L'emancipazione del Sud. Crispi, trattato poi ingratamente e calunniato senza pudore dai cavouriani, aveva due volte, a rischio di vita, viaggiato nell'isola, a suscitarvi gli spiriti e combattervi i separatisti. Da Malta e da altri punti il nostro contatto correva coi migliori della Sicilia frequente e riusciva efficace. Offrimmo armi, che in parte andarono — e furono le sole — prima del moto, in parte dopo con Nicola Fabrizi, uno fra i più costanti, devoti e virtuosi patrioti che conti l'Italia. Facemmo insomma quanto era in noi. E intanto, perchè nessuno potesse temere che l'indipendenza delle nostre mosse covasse disegni ostili alla bandiera acclamata in Italia, io insisteva cogli influenti della setta dominatrice, con chi allora reggeva in Torino, e, come oggi ognuno sa, col re stesso, perchè s'aiutassero i generosi che abbondavano, presti a ogni cosa, nell'isola: indarno. Unico ostacolo al moto erano i messaggi e gli uomini del faccendiere Lafarina, che ciarlava sempre, e con tutti, d'azione e sempre la impediva, abbandonando di volta in volta agli imprigionamenti e alle fughe i migliori: egli e il di lui padrone aspettavano gli ordini di Parigi. Ispiratore precipuo di forti propositi fu, in quella lotta colle promesse ingannevoli e coi codardi indugi dell'aule municipali, fu l'amico mio Rosolino Pilo, anima santa di giovinezza e di fede ammaestrata, non infiacchita, dai dolori e dall'esperienza, e il cui sorriso d'infinita dolcezza coi buoni a lui cari e d'indomito tranquillo coraggio di fronte ai pericoli, non m'escirà mai, finch'io viva, dalla memoria: uomini tali non s'incontrano che fra noi. E riuscimmo. Per la seconda volta, la generosa isola si collocò iniziatrice del moto popolare in Italia. E uomini di nostra fede furono quei che capitanarono il moto e lo mantennero con costanza mirabile tanto da dar agio a Garibaldi d'accorrere a convertirlo in vittoria.
Si levò nel moto di Sicilia, anteriormente all'arrivo di Garibaldi, una sola voce che gridasse repubblica? E chi può dire, recandone prova, che i repubblicani tradirono, per un'ora sola, con un sol atto il programma accettato?

Non è mio intento di tessere qui la storia dei fatti mirabili compiti da Garibaldi e da' suoi. La storia li trasmetterà ai posteri, siccome corona di gloria che non morrà al nome del Capo, e nuova testimonianza di ciò che possano gli uomini, quando combattono con una fede di libertà e nazione nel core. Ma quale fu, davanti a quei fatti, il contegno della setta cavouriana ed il nostro?
I governativi cominciarono dal biasimar Garibaldi e la folle impresa: s'affrettarono a lavarsi come Pilato, coi governi stranieri, d'ogni complicità nell'ardua mossa: agli Italiani predicarono inerzia. Mutarono linguaggio, e ammirarono, senza soccorrere, quando intesero di Calafatimi. Si diedero a studiare i modi d'impossessarsi del moto, quando udirono di Palermo.
Io consiglio agli avversi di non tentare la confutazione di queste mie linee. Ho un documento ufficiale tra i pubblicati in Inghilterra ed altrove, a sostegno d'ogni mia affermazione. Spargano ingiurie, com'è loro uso, ma non discutano.
Noi — e una volta per sempre questo noi, suona non me e gli amici miei solamente, ma quanti credono che debba farsi l'Italia libera ed Una con forze proprie, con battaglia di tutti a ottenere vittoria per tutti — Noi ci diemmo, senza un momento d'indugio a operare, per afforzare Garibaldi ed i nostri. Senza aiuto governativo, indirizzandoci alla carità patria degli Italiani, uomini e donne, e agli amici stranieri, raccogliemmo tanto, da mandare rapidamente armi, vapori, oltre a ventimila volontari in Sicilia. I Comitati di Provvedimento scrissero, dopo quella scritta da Garibaldi e da' suoi, la più bella pagina della Storia Italiana di questi due ultimi anni. E i più tra quei Comitati erano composti d'uomini di nostra fede, ma riverenti anzi tutto all'unità nazionale, e accettanti lealmente dalla maggioranza del paese, il programma monarchico. E uomini di nostra fede, erano i più, tra i volontari che mossero festanti a raggiungere il campo di Garibaldi. E uomo di fede nostra — ei di certo non mi smentirà — è l'individuo che fu l'anima di quel moto, che malfermo in salute, spiegò una attività erculea a pro dell'impresa, e nuovo per vocazione diversa e abitudini alle facende amministrative, trovò in sé, per miracolo d'amore al paese, facoltà ch'io desidero invano ai nostri ministri di guerra e finanza. E fu, ed è tuttavia turpemente calunniato, da chi più dovrebbe, e non saprà mai imitarlo. Parlo di Agostino Bertani.
Così operammo. Se non che credenti, non nell'emancipazione della Sicilia soltanto, ma dell'Italia tutta quant'è, non nel dover sostare a ogni passo a beneplacito della diplomazia e dell'impero di Francia, ma in quello di non arrestarci mai, finché non sia raggiunto lo scopo, pensando a rafforzare Garibaldi nell'isola, pensavamo con eguale affetto all'Umbria, alle Marche, a Venezia, a Roma, ad ogni lembo di terra italiana. Sentivamo nell'anima sorto il momento. L'iniziativa era trapassata dal campo imperiale-regio, al campo del popolo, della nazione, e non poteva mantenervisi, se non coll'azione continua. Il prestigio della vittoria, accarezzava la bandiera di Garibaldi, e doveva esso pure coll'azione continua ingigantirsi fino all'onnipotenza. L'Italia poteva fondarsi d'un getto. Bisognava, mettere il Borbone fra due assalti, avviarci per terra agli Abruzzi, mentre Garibaldi scenderebbe nelle Calabrie e liberare passando, l'Umbria e le Marche: da quelle provincie, popolarmente sommosse e dalla moltitudine dei volontarii, ai quali le difficoltà del mare, degli accentramenti e dei trasporti, contendevano il moversi, e che si sarebbero precipitati attraverso il varco aperto per terra, trarre un altro piccolo esercito che si sarebbe, nelle provincie napoletane, ingrossato: tentare di tagliare, con rapide mosse, il ritiro nel covo di Gaeta ai borbonici; e congiungendo a ogni modo le nuove forze con quelle di Garibaldi, movere, compita appena l'emancipazione del sud, sia, com'io pensava, a una doppia operazione sul Veneto, sia, come Garibaldi volgeva in mente, su Roma, dove la fuga del papa, conseguenza certa dell'accostarsi dei nostri, avrebbe tolto ogni pretesto di lotta ai francesi, e dove la manifestazione del popolo sarebbe stata così gigantesca ed unanime, da rendere impossibile ogni battaglia. Queste idee erano quelle di Garibaldi, il quale, partendo il 5 maggio per la Sicilia, avea detto in un proclama, che le Marche, l'Umbria, la Sabina, Roma dovevano insorgere, per dividere le forze nemiche; erano quelle di Bertani; erano quelle dei Comitati di Provvedimento e di quanti in Italia volevano fare, non aspettare pazientemente ch'altri facesse. Ci diemmo tutti al lavoro e raccogliemmo speditamente dieci mila volontarii e materiali da guerra e mezzi di trasporto per essi. Seimila uomini dovevano, come tutti or sanno, scendere per mare, sulle terre pontifìcie, due mila sorprendere, dalla Toscana, Perugia, due mila operare dalle Romagne sul Montefeltrino.
I particolari di questa impresa, come s'era ideata e resa più che possibile, sono da vedersi in un libro pubblicato di recente, dall'amico mio colonnello Pianciani. E a me, in questo rapido cenno, non tocca ripeterli. Basta al mio disegno ricordare la parte nostra e quella che i governativi vi fecero.
I governativi possono oscurare per breve tempo la storia, non possono cancellarla. E penso che ogni uomo di buona fede in Italia, sia oggi convinto che da noi non s'intendeva rompere menomamente il programma accettato. Le più solenni guarentigie furono date dai capi civili e militari della spedizione ideata, non solamente agli influenti di parte regia, che per amore di concordia, cercavamo d'avere con noi, alla autorità di Genova e di Toscana, al ministro dell'interno, agli aiutanti del re, ma al re stesso, col quale un dei nostri capi militari, ebbe conversazione d'un'ora(16); e il re, convinto, mandò, come al tempo del progettato passaggio della Cattolica, permesso che si facesse, poi, come allora, e dopo un intervallo di due ore, mandò lettera autografa, da mostrarsi, non da lasciarsi, che ritrattava ogni cosa; trista sorte dei principi, co' quali un cattivo ministro riesce sempre onnipotente a distruggere ciò che l'onesto istinto lasciato alla propria spontaneità suggerisce di bene. La spedizione fu, pel momento dell'eseguirsi, sviata con artificii indegni d'un ministro, per opera di Farini, dal primo scopo, e da Genova si ridusse in Sardegna, poi in Sicilia: in Toscana l'amico mio Nicotera, capo dei 2000 di Castel-Pucci, uomo in cui l'onesta virtù, è pari alla singolare fortezza dell'animo, fu da Bettino Ricasoli, cospiratore sin allora con noi, costretto egli pure con modi che non si concedono, non dirò al governatore, ma al gentiluomo, a condurre i volontarii, che dovevano vendicare Perugia, in Sicilia. In verità, è duro il dovere, per amore al paese, mantenere come facemmo e facciamo l'accordo con un programma rappresentato da gente siffatta.
E in verità l'acciecamento della monarchia in Italia è, parmi, uno fra i più singolari segni dei tempi. Da un lato, tutto un popolo infanatichito d'essa, come di vincolo d'unità; dall'altro, un uomo onnipotente di meritato prestigio, repubblicano di fede, ritenuto per indubitatamente onesto e leale, inteso a conquistare palmo a palmo l'Italia al re e trascinandosi dietro, sotto la bandiera regia, il fiore dei giovani repubblicani a combattere, morire o vincere — e noi tutti, pronti al sagrificio d'ogni più cara speranza e accettanti ogni patto, purché ci si conceda di far l'unità. Non credo che la storia offrisse mai momento egualmente favorevole alla monarchia, e facilità eguale d'impiantarsi a capo d'una grande nazione, senza fatica e senza pericoli. Lasciar fare e raccogliere i frutti dell'imprese altrui; a questo si riduceva e tuttavia si riduce — dacché manca ad esso la virtù dell'iniziativa — il compito del governo regio. Ma non sapere o non osare d'agire per sé, e non volere ch'altri faccia, e sostare tremante più di prima ad ogni conquista, e diffidare d'un popolo, la cui prima libera voce è un omaggio, e ostinarsi a mendicare salute al dispotismo straniero, con ventidue milioni d'uomini intorno, e capi come Garibaldi, e vittorie di volontarii, come quelle di Palermo e del Volturno, è spettacolo miserando davvero. E se possa giovare, spento una volta il breve entusiasmo, alle sorti della monarchia, lo dirà l'avvenire.
Intanto, emancipata la Sicilia, e senza badare alla preghiera, strappata al re da Cavour, di non scendere sulle terre napoletane, Garibaldi giungeva in Palermo.
In Napoli esisteva, più per trattenere il moto, che per suscitarlo, un Comitato Cavouriano dell'ordine; e diffondeva, al solito, promesse gigantesche di danaro e d'armi pel momento opportuno, e che non si videro mai: le sole poche armi che andassero nel regno, furono nostre; raccolte dai Comitati di Provvedimento e spedite da Bertani. Se non che, convinto che gli elementi per fare, abbondavano e non avevano bisogno se non d'una direzione, io avea proposto a Giuseppe Libertini, amicissimo, di fede nostra e di pronti arditi disegni, di recarsi in Napoli e impiantarvi, affratellandosi coi migliori delle Provincie, un Comitato d'Azione: missione ch'egli, con pochissimi mezzi e in brevi giorni, compiva. Le provincie s'affratellavano nel proposito d'iniziare il moto anche prima dello scendere di Garibaldi. Il tempo solo, vinto da Garibaldi, mancò: sola la provincia del Principato Citeriore potè insorgere, e vi condusse il moto Giovanni Mattina, repubblicano chiaro per prove d'audacia virile e per patimenti durati con dignità. Ma il fermento dell'altre e l'immensa manifestazione di Napoli diedero campo a Garibaldi di giungere e vincere un governo potente di terrore il dì prima, colla sola presenza.
Quando udirono Garibaldi in Calabria, gli ispiratori di Torino che avevano fino a quel giorno mandato consigli d'indugi illimitati e prudenza, mandarono a un tratto consiglio di fare, di fare immediatamente, prima dell'arrivo di Garibaldi, tanto che il merito della vittoria non si concentrasse su lui, e un governo provvisorio d'uomini devoti a Cavour rendesse inutile la di lui dittatura. S'indirizzavano al Comitato dell'Ordine, e non potevano quindi riuscir nell'intento. La dittatura di Garibaldi fu proclamata. Il Sud, da Capua, Gaeta e Messina in fuori, era libero. Uomini nostri, di provata energia, posti dal Dittatore a capi delle provincie, spaventavano i miseri avanzi d'una reazione che non s'attentò di mostrarsi, se non quando l'elemento cavouriano, prevalendo pur troppo nel ministero, li allontanò.
Anche una volta io domando: in Napoli, nell'insurrezione di provincie capitanate dai nostri, sorse un solo grido, un solo suggerimento repubblicano? Provocò la nostra condotta un solo fondato sospetto di secondi fini, d'ostilità al governo del re?
E nondimeno, a noi, ai nostri amici, agli amici di Garibaldi, a Garibaldi stesso fu mossa dagli uomini di Cavour tale una guerra da far parere la conquista di dieci milioni d'uomini alla libertà un fatto di sciagura e terrore: guerra d'insidie e calunnie, di minaccie e di bassi raggiri, che i cittadini di Napoli, ai quali era di giorno in giorno, d'ora in ora, visibile, attesterebbero tutti, e che i lontani non potevano, non che intendere, sospettare. A udire i governativi, la dittatura emancipatrice era la rovina d'Italia. E a conchiuderla, a torre di mano il potere di continuar l'impresa all'uomo che solo aveva potere di compierla e che s'accingeva a compirla per essi, si diedero a predicare furenti, essi che non avevano accettato l'annessione delle provincie centrali se non forzati, l'annessione immediata. E a persuadere le povere aggirate popolazioni che senza quella erano perdute, il sistema adottato fu questo: creare l'anarchia per attribuirla alla Dittatura. Prima, gli uomini del ministero Conforti, dai quali Garibaldi, incredulo per generosità d'animo ad arti siffatte, e sdegnoso di piccole guerre, non seppe emanciparsi; poi il Pallavicini, più aggirato, credo, e povero d'intelletto che aggiratore, s'adoprarono, senza un pensiero ai gravi mali che potevano seguirne, intorno al triste programma. Né io tesserò quella misera, vergognosissima storia degli uomini fiacchi ed inetti sostituiti ai scelti da Garibaldi nelle provincie — dell'indifferenza deliberatamente adottata verso i primi indizi di riazione — della bassa guerra mossa a Bertani, a Crispi, alla Segreteria, a quanti uomini indipendenti afforzavano la Dittatura — della sistematica inesecuzione d'ogni ordine di Garibaldi — del nessuno aiuto prestato ai volontari che stavano sotto Capua e peggio, dei materiali da guerra, e munizioni, e viveri lasciati mancare per disegno ai nostri, tanto che il popolo imparasse a credere impossibile a Garibaldi la presa di Capua — delle ridicole sommosse pagate a tentare d'impaurirci e allontanarci da Napoli — delle opposizioni continue mosse ad arte al soldato dittatore per mettergli noia, stanchezza e sconforto nell'anima. La dimentichino gl'Italiani fino all'emancipazione di Venezia e Roma; poi, quando dovranno svolgere il problema della libertà, la ricordino per impararvi ad essere meno creduli e a meglio conoscere gli uomini che cercheranno allora travolgerli come li travolsero in quel periodo.
Quell'armi non erano da noi e non le raccogliemmo dal fango. Tacemmo, sprezzammo; non pensando che a una sola cosa, andar oltre. E vi costringemmo il governo. È fatto reso ormai innegabile dai documenti officiali pubblicati recentemente in Inghilterra ed in Francia.
Il tentativo, fatto da noi e impedito dal governo, d'invadere l'Umbria e le Marche, appoggiato come s'era sull'interna organizzazione di quelle provincie, avea lasciato, nel fermento e nell'aspettanza degli animi, un addentellato a moti futuri e prossimi. S'era detto a quei poveri tormentati: verremo; ed essi aspettavano di giorno in giorno gli aiuti promessi, e presti a prorompere. A un tratto, Garibaldi annunziò ad amici e nemici, a diplomatici e non diplomatici, ch'ei, lasciandosi dietro Gaeta, marcerebbe, dopo brevi giorni, difilato su Roma. Ed era non solamente opera santa e debito degli Italiani armati, ma ottima operazione militare, dacché troncava le comunicazioni di Gaeta colla sua base d'operazione ch'era, come lo fu per mesi, d'ogni tentativo o raggiro di riazione, Roma.
L'annuncio — e non altro — determinò il governo all'invasione, che gli valse fama d'ardito. Non fu che il coraggio della paura. Poco importa se gli Umbri e i Marchigiani scelgano oggi d'essere ingrati; essi devono a noi la loro liberazione. Senza Garibaldi, e i suoi volontari, essi sarebbero tuttavia schiavi di Lamoricière e del papa.
Se noi — diceva il conte Cavour, dopo aver preso gli ordini del re, al barone di Talleyrand — non siamo alla Cattolica prima di Garibaldi, noi siamo perduti: la rivoluzione invade l'Italia Centrale. Noi siamo costretti ad agire. Disp. del 10 settembre 1860. Collezione officiale parigina.
Il sig. Farini ... ha esposto all'imperatore, (in Chambéry).... la posizione molto imbarazzante e pericolosa, in cui il trionfo della rivoluzione, personificata in certo modo da Garibaldi, minacciava di porre il governo di S. M. Sarda.... Garibaldi stava per proseguire liberamente il suo cammino attraverso gli Stati Romani, sollevando le popolazioni, e, varcato questo confine, diventava affatto impossibile l'impedire un attacco contro Venezia. Al gabinetto di Torino non rimaneva più che un mezzo, col quale volere scongiurare tale eventualità: ed era d'entrare nelle Marche e nell'Umbria, appena l'arrivo di Garibaldi v'avesse suscitato dei torbidi, e di ristabilirvi l'ordine, senza toccare l'autorità del papa, di dare, se bisognava, una battaglia alla rivoluzione sul territorio napolitano, e di chiedere immediatamente ad un Congresso la cura di stabilire le sorti d'Italia. Circol. Thouvenel, 18 ottobre 1860. Collezione idem.
La bella impresa, che dava dieci milioni d'Italiani liberi al re, chiamata con terrore Rivoluzione, l'identificazione di Garibaldi con essa, la determinazione di dargli battaglia s'ei persistesse, la condanna di Venezia, la servile dichiarazione che un congresso di re stranieri statuirebbe intorno alle sorti d'Italia; ipocrisia, abbiezione, aristocrazia di settari spinti dalla mala fortuna d'Italia al potere, e negazione del diritto italiano, e ingratitudine nera verso l'uomo, al quale la monarchia va debitrice de' suoi trionfi, tutto quanto può idearsi d'ostile alla libertà e alla nazione, è condensato in questi dispacci che sarebbero, se nei chiamati a rappresentare il paese vivesse coscienza di dovere e di popolo, base più che sufficiente a un atto d'accusa. E rimangano, perchè i posteri arrossiscano della nostra pazienza, e cancellino la macchia colla dignità degli atti e colla santità della fede.
Io sapeva queste cose; e ricordo d'aver scritto in quei giorni a Garibaldi, ch'era in Caserta, da Napoli: se tra una settimana voi non siete in piena mossa su Venezia e su Roma, fra, venti giorni la vostra iniziativa è perduta..
E lo fu. Contro tutta la turba dei raggiratori governativi, Garibaldi avrebbe saputo resistere: cesse all'insistenza del re. A me il sagrificio generoso parrebbe inconsciamente colpevole verso la patria, se non credessi il romito di Caprera tal uomo da ridestarsi come leone dopo il riposo e compire la propria interrotta missione.



III(17)


Da questo rapido sommario dei fatti passati, sommario che i governativi potranno assalire d'ingiurie, non confutare, gli Italiani d'onesta fede e di non corrotto intelletto dedurranno:
Che mancano ai reggitori officiali del moto nazionale italiano virtù, potenza, intenzione d'iniziativa:
Che l'annessione delle provincie centrali, l'emancipazione della Sicilia e quella delle terre napolitane, furono fatti compiti dai buoni istinti del paese, dall'azione degli uomini sciolti da ogni vincolo governativo, da Garibaldi che diede ad essi unità di moto, coscienza di sé, direzione, entusiasmo; e che l'invasione emancipatrice dell'Umbria e delle Marche fa comandata al governo dall'opere nostre e dalla minaccia di Garibaldi:
Che in tutte quelle conquiste, gli uomini di fede repubblicana o educati alle virtù patrie nelle nostre file, furono parte principale dell'azione e della vittoria:
Che i repubblicani mantennero intatta, attraverso calunnie, delusioni ed ingratitudini, la data promessa di servire lealmente al voto della maggioranza della nazione e per l'unità della patria, purché la monarchia non ne diserti la sacra bandiera:
Che il sagrificio delle individualità alla concordia, parola menzognera negli avversi, fu ed è tuttavia realtà di fatto per essi:
Che tattica perenne del governo fu di sostare a ogni passo, d'inceppare ogni passo ulteriore, poi di giovarsene quand'altri, suo malgrado, lo compia:
Che oltre all'altre ragioni — diffidenza innata del popolo: aborrimento dall'armi non regolari, gelosia meschina di qualunque non soggiaccia ciecamente devoto alla loro consorteria, inferiorità intellettuale all'impresa e ispirazione più dinastica che nazionale — causa precipua di quella tattica e piaga perenne d'Italia, finché quelli uomini durino, è il loro servile ossequio alla volontà dell'antico alleato convertito in padrone. Che Roma e Venezia non saranno emancipate e la grande opera dell'unità nazionale non sarà compita, se non per iniziativa di popolo che trascini, voglia o non voglia, sulla via dell'azione il governo.
Il governo, dicono, pensa a Venezia: lasciatelo fare. Il governo conquisterà il Quadrilatero dall'Ungheria. E sognano di gigantesche cospirazioni slavo-magiare capitanate da Cavour, di spedizioni consentite dal governo sulle spiaggie illiriche, di Garibaldi mandato a sollevare le popolazioni slave del sud, a dirigere l'insurrezione ungarese e, dissolvendo l'impero, troncare fuori d'Italia il nodo della Venezia.
Cavour, non v'ha dubbio, s'ei sapesse che Garibaldi e i suoi sono alla vigilia d'operare in Italia e non avesse altro modo per impedirli, suggerirebbe l'impresa ungarese. Garibaldi e i migliori tra gli ufficiali dei volontari fuori d'Italia, lascerebbero il paese sospeso, immoto, ad aspettare norma e salute dai bollettini della Transilvania. La loro vittoria darebbe il Veneto, senza pericoli e sagrifìcii, alla monarchia; e la loro disfatta sarebbe la disfatta della rivoluzione personificata in certo modo in Garibaldi e alla quale i governativi si preparavano, nel settembre ultimo, a dar battaglia.
Ma le piaggie orientali dell'Adriatico sono popolate d'elementi in parte naturalmente indifferenti e che rimarrebbero inerti, in parte favorevoli al moto, ma diffusi a piccoli nuclei su lunga e ristretta zona e incapaci di prestare aiuto efficace a chi deve rapidamente varcarla e andar oltre. E per sollevare popolazioni più importanti è mestieri trapassar la Croazia. E le vie ferrate concentrerebbero in Agram copia di forze imperiali, prima che i nostri potessero giungervi. Una spedizione debole, come quella di Marsala, sarebbe quindi follia; una spedizione imponente non potrebbe aver luogo, senza dar agio visibile al governo per impedirla — e sarebbe impedita. La tolleranza del fatto sarebbe una dichiarazione di guerra all'Austria, che il governo non può fare senza assalire di fronte.
Poi, l'insurrezione ungarese e i nostri si troverebbero probabilmente schiacciati — se il moto veneto non sorgesse simultaneo a smembrare le forze nemiche — tra il grosso dell'esercito austriaco e un esercito russo. E lontano Garibaldi, lontani i più arditi e i più noti fra i capi dei volontarii, la tendenza naturale a interpretare la lontananza come cenno di non agire, persuaderebbe facilmente i Veneti a star fermi e attender gli eventi.
Intanto l'Italia — e segnatamente l'Italia Meridionale — rimarrebbe campo schiuso alle meditate usurpazioni bonapartiste. E l'intervento diretto degli Italiani al di là delle loro frontiere porgerebbe il pretesto.
Voi avete oggi, o Italiani, una potente base d'operazione. È l'Italia. Non vi smarrite in cerca d'un'altra. Le insurrezioni che bramate, sorgeranno al primo vostro assalto sul Veneto. L'Ungheria seguirà il vostro moto, e avrete l'Austriaco smembrato fra due nemici. L'impresa attraverso l'Adriatico poteva compirsi, quando Garibaldi era padrone del Sud e il suo esercito non era disciolto: oggi, essa non può essere che operazione secondaria. Mirate a Venezia. Là stanno i fati delle popolazioni aggiogate sotto l'impero e di quelle che s'agitano sotto il Turco.
Il governo, ripetono gli uomini che tendono ad illudervi e ad esimersi dall'azione, tratta per Roma: l'avremo a patti.
Forse; ma sapete a quali?
Io lo dirò, come vi dissi, non creduto, i patti, verificati poi, di Plombières.
Colla cessione, negata al solito da Cavour e nondimeno già stipulata della Sardegna e coll'obbligo di cooperare attivamente ai disegni dell'imperatore francese sul Reno e al buon esito della sua politica nell'Oriente.
Son queste le basi sulle quali stanno trattando Luigi Napoleone e Cavour.
Se mai poteste accettarle, o Italiani — se appena sòrti a vita di popolo indipendente poteste far della patria vostra sgabello alle conquiste del dispotismo — se poteste contaminare il sacro nome di Roma e la bandiera della nazione, cacciando i vostri militi a combattere, come satelliti d'un padrone straniero, i compatrioti di Vincke o a spegnere a benefizio d'un Tsarismo Franco-Russo-Europeo i germi di vita spontanea, che stanno crescendo tra le popolazioni Slave, Rumane, Elleniche della Turchia — io v'augurerei di rimaner quali siete. Meglio non aver libertà, che averla e disonorarla(18).
No; Roma e Venezia non vi saranno date, per modo che voi possiate accettarle senza scadere, né da Luigi Napoleone, né dal vostro governo, né da congressi europei. Voi non le avrete, se non volendole e meritandole.
Italiani, voi siete ora un popolo di ventidue milioni. Voi siete liberi e forti. I vostri giovani hanno dimostrato d'essere prodi. Il vostro esercito ha combattuto e vinte battaglie d'indipendenza. Avete mezzi di difesa e d'offesa tra l'alpi e il mare, quanti bastano a fare rispettata la volontà vostra, purché voi cominciate dal rispettare voi stessi. I popoli d'Europa salutano in voi l'iniziativa ch'altri, per propria colpa, ha perduta e guardano con favore e speranza a ogni vostro passo, indipendente da chi è meritamente sospetto a tutti, sulla via del futuro. Non v'è più concesso dimostrarvi codardi. Non potete disonorare colle fiacchezze del servo, la terra ove Garibaldi nacque e avrà sepoltura.
In nome di Roma, e pensando ai miracoli di coraggio e di sagrificio che santificarono dodici anni addietro Venezia, siate uomini: escite d'infanzia.
E infanzia è aspettare servilmente la decisione dei vostri fati dall'alto, da un re, da un ministro, da un individuo qual ch'ei si sia, come se ventidue milioni d'uomini non fossero padroni di sé stessi e non potessero trascinarsi dietro re, ministri e individui, di qualunque nome si chiamino: infanzia l'affacendarsi dietro alle parole d'ogni ambasciatore o uomo di Stato straniero, come se i fatti non vi mostrassero aperto che voi siete già a quest'ora padroni di volgere la diplomazia sulla via del giusto, come più v'aggrada: infanzia il non intendere che a far sì, che il diritto nostro sia riconosciuto, importa ne riveliate coscienza coll'associarvi, coll'esprimere ciò che volete, coll'opporvi virilmente a qualunque violazione della vostra libertà, coll'eleggere a vostri rappresentanti, non gli uomini che il governo v'addita, ma quei che la mente e il core v'additano e che sono più indipendenti da esso: infanzia lo spendere l'obolo vostro in medaglie, spade d'onore e testimonianze a chi cerca ben altro da voi e non consacrarlo unicamente alla Cassa Emancipatrice di Roma e Venezia: infanzia il non intendere che voi non potete aver Roma, se non per forza d'armi o d'opinione universalmente manifestata, e quindi il non firmare a migliaia, a centinaia di migliaia gli indirizzi al parlamento vostro e all'Europa, per l'allontanamento delle truppe francesi: infanzia, o miei fratelli di fede, l'accettare dalla volontà popolare un programma e, invece d'esaurirlo rassegnatamente e logicamente, dolervene a ogni tanto e adirarvene, e irritare per nulla gli avversi: infanzia, o moderati, il sapere che noi abbiamo potenza non foss'altro di costringervi a movere innanzi e non farlo spontaneamente e resistere: infanzia e peggio, o Italiani quanti siete, il sapere che Napoleone è avverso alla nostra unità, e per non so quale macchiavellismo adulatore tacerlo; il sapere che Cavour gli è servo, e non dirlo; il sapere che sta in vostra mano assicurarvi contro il primo e costringere il secondo a mutare o ritrarsi, e non farlo.
A voi gli adulatori per fini proprii non mancano. Io non ho che un fine: l'Italia una, libera, grande. Canuto e stanco, perduti per la morte del corpo o per la morte dell'anima tutti i miei antichi amici, e sicuro dei pochi nuovi, io non temo né spero da cosa alcuna, da persona alcuna, nel mondo. Lasciate ch'io vi dica la verità.
Voi siete oggi da meno dei vostri padri: da meno dei vostri fati: da meno di quel che sarebbe ogni altro popolo, nelle circostanze vostre, colla vostra potenza.
Voi non rivelate ancora coscienza d'uomini liberi e d'Italiani. La vostra emancipazione si compie per forza di fati e per iniziativa di pochi fra voi, non per opera unanime, collettiva, per sagrifìcio di tutti, per quel moto spontaneo, irresistibile d'entusiasmo popolare, che consacra irrevocabili le conquiste rapidamente compite. Non vive finora in voi l'unità del pensiero e dell'azione.
Voi avete lasciato compire senza protesta l'ignobile transazione di Villafranca, quando l'alleato straniero ebbe, in premio della pace subitamente concessa, la Lombardia dal padrone straniero e la trasmise con piglio feudale al re che acclamate. E uditene le conseguenze possibili nel linguaggio insolentemente minaccioso del ministro straniero, consegnato in un dispaccio non avvertito, a quanto io mi so, dalla nostra stampa e grave di sinistre intenzioni: La Francia — rispondeva Thouvenel a chi gli notava, in nome dell'Inghilterra, l'imperatore avere assunto obbligo solenne di mantenere il Piemonte in possesso della Lombardia — la Francia non ha obblighi verso l'Italia se non quelli che scendono dal trattato di Zurigo. Con quel trattato l'Austria ha ceduto la Lombardia alla Francia, e la Francia la diede al re sardo. Ma l'Austria, avendo ceduto per trattato la Lombardia alla Francia, la mala condotta del Piemonte non può invalidare gli obblighi dell'Austria verso la Francia. Se quindi le sorti della guerra ricollocassero la Lombardia in possesso temporario dell'Austria, quest'ultima dovrebbe darne conto alla Francia e lo farebbe di certo con lealtà. La Francia e l'Austria considererebbero allora il da farsi della Lombardia, e non posso dire qual decisione verrebbe presa. Disp. Cowley a lord J. Russell. Sett-12-1860. Collezione-officiale inglese.
Voi avete lasciato compire senza protesta il turpe mercato di Nizza e Savoia, lo smembramento della vostra terra. Però, siete minacciati di perdere quandoché sia la Sardegna: e si vendevano, dì sono, fatto moralmente gravissimo, per quattro milioni di franchi, parecchie migliaia d'Italiani in Mentone e Roccabruna.
Voi avete, per dodici anni, lasciato prolungarsi senza protesta il soggiorno dei soldati stranieri in Roma. Però, i senatori dell'impero parlano oggi della vostra Metropoli, come di terra o di merce francese.
Quanto si compie nella patria vostra è anch'oggi questione di fatto che altri fatti possono mutare domani. Voi non avete ancora potentemente, universalmente affermato il Diritto Italiano.
A questa affermazione, per quanto avete di più caro e sacro, o Italiani, io vi chiamo. I trenta, i cinquanta mila volontari non potevano che darne il programma. A voi tutti, milioni d'uomini liberi, spetta farlo vostro e suggellarlo inviolabile, irrevocabile.
L'Europa non aspetta che la vostra manifestazione per accettarlo.
E questa manifestazione dev'essere triplice: Voi dovete:
Protestare ora unanimi da un capo all'altro d'Italia contro l'occupazione di Roma e chiederne il termine:
Armarvi:
Assalire l'Austria nel Veneto.
Voi aspettate Garibaldi. Ma non vi disse Garibaldi ch'egli aspettava da voi 500,000 uomini in armi nella primavera? Son essi pronti? V'adoprate a raccoglierli? Io vedo l'opera dei Comitati di Provvedimento procedere languida e meno efficace d'assai e più incerta, che non nell'anno passato. Roma e Venezia son dunque nomi meno sacri di Palermo e Napoli? Non deve accrescersi la vostra vita della vita di dieci milioni d'uomini che vi sono oggi fratelli? Mancano i mezzi, voi dite: i mezzi a ventidue milioni d'uomini? No; manca il fermo volere; manca la coscienza del supremo dovere che v'incombe compire e che dovrebbe assorbire in sé per un anno ogni altro vostro pensiero; manca — e non ne intendo sulla nostra terra il perchè — quel senso pratico che nulla dimentica, che nulla trascura, che si giova d'ogni opportunità, che ordina e concentra tutte le forze, che divide il lavoro fra gli uomini che le rappresentano, che non concede a una idea generosa di sperdersi e svaporare in parole inutili, ma la traduce silenziosamente in azione. I mezzi? Chi tra voi, o Italiani, non vuole Venezia e Roma? Date ciascuno la meschina somma d'un franco, e avrete la Cassa Emancipatrice. Date ciascuno il nome a un indirizzo per l'allontanamento delle truppe straniere da Roma e solleverete l'opinione di tutta Europa a pro vostro. Appoggiate con una gigantesca manifestazione quei tra i vostri rappresentanti, i quali chiederanno al Governo l'armamento della nazione, secondo le norme svizzere, e l'otterrete. E intanto, armatevi, addestratevi da per voi. Chi vi vieta di raccogliere tanto danaro che basti per un locale, e due o tre carabine, e istituire un tiro in ogni città, in ogni grossa borgata? Chi vi vieta, o giovani, d'organizzarvi militarmente fra voi, tanto da poter dire a Garibaldi: voi avete qui cinquanta, cento, duecento uomini pronti a seguirvi? Tre commissioni speciali, una per raccogliere firme agli indirizzi del popolo, un'altra per raccogliere il denaro d'Italia, la terza per l'ordinamento militare e l'impianto dei tiri, istituite in ciascuna città importante e che consecrassero, colla carta della provincia sott'occhio, tutta la possibile attività esclusivamente all'intento prestabilito; e pochi viaggiatori di località in località, basterebbero all'uopo. Oggi, v'è confusione di lavoro. I comitati s'assumono troppo e troppo diverse faccende. Gli elementi delle associazioni sono affastellati. Il riparto del lavoro è negletto, e una vasta somma di forze è, per questo difetto, sprecata.
Io scrivo da una terra, dove la lentezza nel decidersi a fare, è abitudine e vizio dell'intelletto, ma dove quelle norme pratiche sono viscerate in ogni uomo e la coscienza che le cose del paese possono e devono spesso maneggiarsi dal paese stesso, predonima la mente dei cittadini. E lasciate ch'io ne raccolga un esempio per voi.
Io non citerò ciò che l'Inghilterra, l'Inghilterra-popolo, non governo, fece nel 1803, quando il primo Bonaparte le intimò guerra. Non dirò i 335,000 volontarii che accorsero a offrirsi, i capi dei Comuni scesi in piazza essi medesimi col tamburo a raccoglierli, le chiese, i teatri convertiti in caserme, i vecchi diventati costabili o ufficiali di polizia, per mantenere l'ordine nelle città, e dar campo ai giovani di movere ad affrontare il nemico, i 40,000 volontari dati dalla sola città di Londra, popolata allora d'un milione soltanto. E nondimeno, la dichiarazione di guerra è per noi oggi perenne dallo straniero: Roma e Venezia stanno nelle sue mani. Ma darò ad esempio l'ordinamento spontaneo dei volontarii nel 1859. Il solo timore che l'imperatore francese meditasse una guerra da iniziarsi a tempo incerto a danno dell'Inghilterra, lo suscitò. Il governo — non temendo, perchè arrendevole ai desideri del popolo, cosa alcuna dall'armarsi del paese — dichiarò solamente essere diritto d'ogni cittadino prepararsi a respingere una invasione. Il moto escì dal paese. Riunioni pubbliche ebbero luogo su molti punti: e vi fu decretato l'armarsi. Aperta l'iscrizione pei volontarii, quei che avevano mezzi si presentarono coll'armi e l'uniforme; i privi di mezzi, ma volonterosi, diedero il nome all'ordinamento, come pronti a combattere appena le associazioni o il governo darebbero l'armi; gli altri si affaccendarono a raccogliere sottoscrizioni. Le compagnie si formarono, ed elessero generalmente i loro ufficiali. Gli istruttori s'offrirono gratuiti o furono retribuiti dalle casse comuni. Gli operai entrarono a parte del moto, non chiedendo se non di ricevere armi e uniforme da pagarsi con una serie di versamenti settimanali. Cento cinquanta mila volontarii sono oggi ordinati ed armati; e quel numero va crescendo ogni giorno.
Ordinatevi e armatevi, o Italiani; il governo, quand'esso non miri a tradirvi e non lo riveli, non può ricusarvi assenso e favore,
E armati, assalite l'Austriaco sul Veneto. Potete voi ideare una guerra liberatrice, iniziata sul Veneto e capitanata da Garibaldi, senza che il governo e l'esercito regolare siano costretti a seguirne l'impulso?
Son questi i consigli che danno ai loro fratelli di patria i repubblicani. Io ho ricordato la parte ch'essi ebbero, nel primo e nel secondo periodo del moto, quasi pegno di quello ch'essi faranno nel terzo.
Come sul cominciamento del moto, essi accettano dalla maggioranza del popolo la formola: Italia e Vittorio Emanuele; purché l'Italia sia una, e Vittorio Emanuele non si separi dalla nazione. Roma e Venezia sono oggi il se no, no della loro adesione: Roma e Venezia, non a patti immorali e disonorevoli, ma in nome e in virtù del Diritto Italiano. La cessione d'un palmo di terra italiana, il tentativo di secondare guerre usurpatrici del despotismo sul Reno o altrove, l'opposizione aperta — e diciamo generosamente aperta, perchè l'opposizione celata, esiste pur troppo fin d'ora, ma superabile dagli Italiani — agli istinti e alle necessità che chiamano gli Italiani a Venezia e a Roma, romperebbero ogni alleanza, e ci richiamerebbero alla prima nostra bandiera.

Londra, 1 marzo 1861