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Giuseppe Mazzini
La questione italiana e i repubblicani
Seconda Edizione
MILANO
TIPOGRAFIA DI ANGELO CIMINAGO
1861
Parte dello scritto che segue apparve, sul finire del 1859, nella
nostra pubblicazione Pensiero ed Azione. Ma quella pubblicazione,
fatta all'estero e avversata dagli uomini allora al governo delle
cose, ebbe pochi lettori in Italia. E sul Mezzogiorno e su parte del
Centro pesava ancora la tirannide del Borbone e del papa.
Quelle pagine ricordano la parte sostenuta dai repubblicani nel
primo stadio del nostro moto. E parmi miglior partito ripubblicarle,
che non riscrivere in altri termini le stesse cose. Gli uomini di
buona fede potranno desumerne, non foss'altro, che non corriamo —
noi soli forse in Italia — pericolo di rivelare contradizioni tra i
nostri atti e gli scritti, a qualunque tempo appartengano.
Londra 1 marzo.
I.
La questione italiana fu falsata in Italia e fuori da quando il
conte Cavour la ridusse, davanti ai rappresentanti i governi
stranieri, nei termini: O riforma o rivoluzione. Quanto d'allora in
poi s'attraversò al libero, logico, razionale sviluppo del nostro
moto, scese dalla formola malaugurata: quel tanto che sulla
direzione dell'intento s'è conquistato, è dovuto ai buoni istinti
del nostro popolo.
L'Italia non s'agita da mezzo secolo per ottenere riforme. Se una
certa somma di miglioramenti amministrativi, giudiziari, civili,
potesse acquetarlo, essa l'avrebbe già conquistata. L'Italia vuol
essere. Essa tende a costituirsi in Nazione, Una e libera da ogni
tirannide straniera o domestica, religiosa o politica. Riformerà poi
sè stessa da sè, interrogando la propria tradizione, i propri
bisogni, le proprie tendenze. La questione italiana è, prima d'ogni
altra cosa, questione di Nazionalità. Ora la questione di
Nazionalità non può sciogliersi se non rovesciando, da un lato, il
papa e i re che la smembrano, lacerando, dall'altro, i trattati del
1815, disfacendo l'impero d'Austria e rimutando la Carta d'Europa.
La questione Italiana è dunque questione di Rivoluzione. E bisogna
trattarla siccome tale.
Se la politica del conte Cavour fosse stata, non politica sarda, ma
— comunque monarchica — veramente Italiana, egli avrebbe detto ai
diplomatici stranieri: «Signori, non v'illudete; la rivoluzione
Italiana è un fatto oggimai inevitabile. Sta in voi far sì ch'essa
prorompa più o meno violenta, più o meno funesta a tutti i governi
d'Europa. Ostinandovi a perpetuare per l'Italia un sistema del quale
non è esempio in Europa — abbandonandola alla tirannide
dell'intervento straniero — contendendole ogni espressione di vita
propria. — voi la costringete ad allearsi con quanti malcontenti ha
l'Europa, a cercare nel sommovimento universale una più spedita
probabilità di salute. Noi, uomini d'ordine e di monarchia, non
provocheremo la rivoluzione che antivediamo; ma siamo noi pure
Italiani, e per l'amore che portiamo alla Patria, comune come per la
necessità di salvare la monarchia, noi dovremo, quando s'inizii,
secondarla e tentar di dirigerla. Voi potete tentar d'isolarla. Il
filo elettrico che la lega all'Europa è l'intervento. Sopprimetelo.
Fate che s'adempiano le solenni promesse di dieci anni addietro e
cessi l'occupazione francese in Roma. Imponete all'Austria di non
oltrepassare, checchè avvenga, nel rimanente d'Italia, i confini
lombardo-veneti. Restituite l'Italia al Diritto delle Nazioni:
lasciatela a fronte non d'una Europa collegata a' suoi danni, ma
soltanto de' suoi padroni. E dove no, pesino su voi le conseguenze
dell'antica ingiustizia. Non avrete pace mai dall'Italia. Avrete in
essa un incitamento perenne all'insurrezione d'Europa e un perenne
pretesto ai disegni ambiziosi di chi promettendole aiuto, vorrà
farne campo di guerra ad una o ad altra potenza.»
Linguaggio siffatto avrebbe provveduto all'onore e alla salute
d'Italia e ad un tempo agli interessi della monarchia piemontese. La
monarchia avrebbe raccolto intorno a sè i voti e le speranze, non
della poco energica turba dei creduli e della turba dannosa dei
faccendieri, ma del popolo vero, volente, onnipotente, d'Italia. Gli
uomini di pressochè tutti i partiti d'Europa avrebbero senz'altro
appoggiato una dottrina di non-intervento che ha il doppio merito
agli occhi loro di congiungere giustizia e poca probabilità di
contese armate. I sospetti covati dai governi d'Inghilterra, di
Prussia e Germania contro l'influenza usurpatrice di Luigi
Napoleone, avrebbero accolto quel linguaggio e promosso una politica
deliberatamente avversa ad ogni ingerenza bonapartista nelle cose
nostre. Il piccolo Piemonte avrebbe potuto esser l'anima d'una
coalizione più o meno caldamente sostenitrice del grido che già
dirigeva le agitazioni popolari: l'Italia per gl'Italiani.
E allora, bastava al Piemonte, lasciato con una Italia fremente a
fronte dell'Austria, far correre una voce alle popolazioni vogliose:
aiutatevi, v'aiuterò: gli bastava ordinarsi quietamente, senza
inutili minaccie, alla riscossa: e intanto, affratellandosi
segretamente cogli uomini della Rivoluzione e riconcedendo alle più
che modeste esigenze degli uomini liberi il programma, accettato,
poi tradito con sua e nostra rovina da Carlo Alberto nel 1848, della
Sovranità del paese, confondere in uno tutte le frazioni del Partito
Nazionale, creare la fiducia, confortar gli animi al fare. Il paese
avrebbe fatto. Il paese avrebbe colto alla sprovveduta e sperperato
coll'insurrezione il nemico. Rifatto il 1848, non rimaneva al
Piemonte che sottentrare, con migliori uomini e migliori disegni di
guerra, all'iniziativa popolare e compirne i trionfi. L'Austria non
era, prima delle minacce mosse da Parigi e Torino, più forte in
Italia, che non fosse undici anni addietro, quando l'insurrezione
distrusse in cinque giorni la potenza austriaca da Milano a Venezia.
E non vive un sol uomo di guerra tra noi, il quale non abbia scritto
o detto che la vittoria fu nel 1848 un mero problema di Direzione.
L'ultima vittoria, in ogni guerra di Nazione, spetta all'elemento
regolarmente ordinato; ma la prima — ed è quella che racchiude in
germe tutte le vittorie future — spetta all'insurrezione,
all'iniziativa del popolo. L'insurrezione assale il nemico non
preparato, con modi e su punti non preveduti: ne smembra le forze e
le separa dalla loro base d'operazione: infonde in essa quel terrore
d'altrui e quello sconforto di sè che sono in ogni guerra, i più
potenti ausiliari contro un esercito; e fa d'un paese intero riserva
inesauribile alle forze ordinate.
Il conte Cavour sapea quanto noi queste cose; ma egli abborriva la
rivoluzione; abborriva l'idea d'una iniziativa di popolo e la
coscienza di forza che ne deriva; abborriva ogni concessione, anche
menoma, a chi non si dichiarasse anzi tratto fautore cieco della
monarchia piemontese. Uomo d'arti tattiche e non di principii, e
capace di giovare ai propri disegni ingannando, ei non credeva
nell'altrui lealtà. D'indole ambiziosa e dispotica, ei non potea
tollerare ch'altri entrasse con animo libero a parte de' suoi
disegni. Pertinace più che ardito, incapace, per mancanza d'alto
core, d'alta mente e di fede, di salire a vasti concetti, s'era
aggiogato a un interesse, l'interesse dinastico di Casa Savoia.
Spodestare il Papa, tentare Unità di Nazione, non entrava nella sua
mente, parlarne a chi gli s'aggirava(1) intorno gli pareva artificio
buono a conquistare l'altrui servile credulità, e ne usava. Ma il
suo vero disegno non oltrepassò mai i termini del programma fallito
nel 1848, il Regno del Nord. L'Italia era per lui mezzo non fine:
l'agitazione di tutto quanto il paese, un'arme buona a dargli
potenza per raggiungere quel misero intento, da spezzarsi poiché lo
avesse raggiunto.
Con questi propositi era immorale, ma logica la via ch'ei tenne. Il
Piemonte non poteva allora nè potrà mai da per sè conquistare intero
il Lombardo-Veneto. Bisognava dunque cercare un alleato. Fermo in
non volere l'alleanza del popolo, ei dovea cercarlo dove fossero
interessi tali da rendere l'alleanza possibile e dove l'alleanza
ottenuta una volta, fosse arme potente ad un tempo contro l'Austria
e contro la Rivoluzione. Quindi l'alleanza col Bonaparte: alleanza
che ha costato già vergogna e delusione e costerà nuovo sangue
all'Italia. Intanto, e quando quell'alleanza fatale non era ancora
fatto compito, ma solamente pericolo da scongiurarsi per ogni via,
l'attitudine della monarchia piemontese e il linguaggio tenuto da
Cavour nelle Conferenze facevano tumultuar di speranze la povera
Italia, malata di dolori insopportabili, d'ignoranza forzata, di
materialismo tradizionale e d'ire impotenti, perchè non santificate
da fede nella propria missione e nelle proprie forze. Gl'Italiani
non s'avvedevano che la formola o riforme, o rivoluzione rivelava un
antagonismo radicale fra le intenzioni governative e il sommo
intento del moto, e poneva la rivoluzione come segno non di
speranza, ma di terrore: non s'avvedevano che la parola riforme
accennava fin d'allora alla federazione dei principi e rinnegava
l'Unità popolare: non s'avvedevano che quella formola parlava ai
governi d'Europa quali essi fossero, sagrificava il Diritto Italiano
e la nostra spontaneità, e cacciava l'Italia in sembianza di mendica
ad aspettare i suoi fati dal beneplacito dello straniero.
Travedevano nell'insidioso dilemma una disfida ai padroni d'Italia e
ingigantivano, travolti dal desiderio, quelle parole sino alle
dimensioni d'una promessa. Sentivano le riforme impossibili e ne
deducevano che il Piemonte regio, dichiarando inevitabile senza
quelle la rivoluzione, intendeva assumersi di capitanarla. Nè forse
avrebbero così deliberatamente dimenticato la storia antica e
recente dei governi monarchici; ma tra il governo sardo e sè stessi
vedevano una moltitudine d'uomini, taluni venerandi davvero per un
passato di sagrifici e d'opere generose, tutti ardenti vociferatori
di patria, che stava mallevadrice per le intenzioni del governo
emancipatore. Era sorta, traendo gli auspicii da alcune parole di un
esule meritamente caro all'Italia, Daniele Manin, una Società che
assumeva il titolo di Nazionale, composta in parte, come tutte le
Società che si formano su terre oppresse, d'uomini buoni, ma fatta
dai capi stromento della propaganda più funesta e immorale che mai
si fosse. Aiutata moralmente dal prestigio della sede in Torino,
aiutata più praticamente nella trasmissione delle sue stampe dalle
agenzie politiche e consolari del Piemonte, abusò a illudere, ad
affascinare le menti, della parola segreta e pubblica, come mal può
idearsi. I suoi faccendieri promettevano su tutti i punti d'Italia,
unità di patria, indipendenza da tutti stranieri, libertà:
affermavano tali essere le intenzioni di Cavour e quelle del re: si
rivelerebbero a tempo. A chi chiedeva qual fosse l'opinione dei
vecchi amici d'Italia, di noi, rispondevano esser noi perfettamente
intesi e concordi con essi: il dì dopo, ci calunniavano nei loro
gazzettini, e il dì dopo sussurravano ai poveri illusi, nelle città
venete segnatamente, che l'oltraggio era artificio, richiesto dai
sospetti dei governi stranieri a mascherare l'accordo. A chi temeva
non bastassero le forze all'impresa dicevano: abbiamo la Francia con
noi; a chi si mostrava diffidente degli aiuti d'un despota dicevano;
siate forti; concentratevi tutti intorno al trono del re galantuomo
e potremo probabilmente fare da noi. E magnificavano al solito
depositi d'armi che non esistevano, somme da versarsi nel sud, aiuti
presti per le non bramate insurrezioni del Centro; tutto, purchè il
Partito, allontanandosi da ogni altra direzione, facesse sommissione
universale, assoluta alla monarchia di Piemonte. E dai più, fu
fatta. Lo spettro del 1848 si dileguava davanti al fascino d'una
lotta imminente.
Intanto, i nostri fati si maturavano in Parigi e Plombières, tra
Luigi Napoleone e Cavour.
Luigi Napoleone ha fisso in mente l'impianto del sistema
bonapartista sul continente d'Europa, siccome fine, la guerra
coll'Inghilterra come necessità del disegno, una nuova Santa
Alleanza tra l'impero, la Russia e l'Austria, siccome mezzo. Col
terrore dell'alleanza inglese, colla guerra di Crimea e colla subita
pace, egli aveva o credeva avere conquistato la Russia: con simili
modi egli architettava di conquistare l'alleanza dell'Austria.
D'altra parte, il prestigio esercitato dalla ferocia scemava
rapidamente: i ripetuti attentati degli Italiani gli minacciavano la
vita e minavano ad ogni modo nelle moltitudini l'idea della
stabilità dell'Impero: l'agitazione perenne in Italia gli facea
presentire inevitabile una insurrezione, che fatta in nome del
popolo e della libertà, avrebbe potuto diventare Europea. E
l'esercito, sola forza che gli avanzava, cominciava a lagnarsi di
speranze deluse, di promesse inadempite, e ad aprir le file alle
inspirazioni orleaniste e repubblicane. A tenersi vincolato
l'esercito, a sviare le menti francesi da pensieri di libertà, a far
rinascere il prestigio caduto, a costringere a patti l'Austria
ritrosa, unica via era una guerra. E una guerra sulle nostre terre
era guerra che accarezzava coi ricordi delle guerre passate la
fantasia del soldato, preveniva e spegneva — ei lo credeva almeno —
l'agitazione rivoluzionaria italiana, poneva fine ai pericoli
individuali che lo tenevano irrequieto, impiantava per mezzo della
monarchia di Piemonte il predominio francese sull'Italia e sul
Mediterraneo, e schiudeva, nel mezzogiorno e nel centro della
Penisola, un campo alla probabilità d'un impianto dinastico. La
guerra fu statuita.
Ma le condizioni furono, quali furono, sono e sempre saranno — e gli
allievi bastardi di Machiavelli dovrebbero ricordare le linee, che
paiono scritte per questi giorni, del Principe — ogniqualvolta un
piccolo Stato mendica l'alleanza d'uno stato potente: esigenze da un
lato, concessioni dall'altro. Fu statuito che la guerra sarebbe
condotta in modo da combattere l'Austria e la Rivoluzione ad un
tempo: statuito che la Lombardia, conquistata al Piemonte, sarebbe
dalla monarchia pagata colla cessione della Savoia e Nizza; statuito
il matrimonio della figlia del re col principe Napoleone Bonaparte e
che s'aiuterebbe l'impianto d'un regno toscano a pro di
quest'ultimo: statuito che non si promoverebbero moti nel regno, se
Murat non v'avesse probabilità di riescita: statuito che, se dopo la
prima vittoria degli alleati, l'Austria riproponesse i patti che
l'Hümmellauer affacciava nel 1848, verrebbero accettati e il Veneto
s'abbandonerebbe a' suoi fati.
Parecchi di quei patti furono annullati dall'attitudine delle
popolazioni italiane e da quella che assunsero parecchi fra i
governi Europei; ma tutti furono allora accettati, non so se con
animo di mantenerli, dal Ministro Cavour. Tendo a credere ch'egli
accettasse, ingannando e fidando nell'avvenire, per le occasioni di
romperli. Ma l'inganno, ridotto maestramente a sistema, è scienza di
Stato in Luigi Napoleone, e presumere d'ingannare l'ingannatore
potente era tanto stolto, quanto immorale concetto, e preparava
inevitabilmente rovina.
Intanto — e pel caso in cui l'Austria si ostinasse di linea in linea
nella contesa, e la Germania comunque non provocata, dacchè s'era
stipulato che non si farebbero operazioni in Tirolo, nè sui punti
protetti dai così detti diritti germanici, scendesse a parteciparvi
— altri accordi si maneggiavano da Luigi Napoleone. Tentate
inutilmente l'Inghilterra e la Prussia, tutta l'attività de' suoi
raggiri s'era rivolta allo Tsar: principale agente fra gli altri il
La Roncière. E fu, con maggiore avvedutezza da parte dello Tsar, il
quale non si vincolò mai così formalmente, da non potere, pel menomo
incidente, retrocedere, statuito: che in caso di guerra ostinata e
aiutata dalla Germania, la contesa allargandosi di necessità ad
altri popoli, susciterebbero all'Austria nemici interni;
s'utilizzerebbe il nome potente di Kossuth, si promoverebbe
l'insurrezione Ungherese, e un esercito russo assalirebbe Germania
ed Austria. Lo Tsar aveva stipulato per sè: che qualunque estensione
prendesse la guerra, non si direbbe, nè si farebbe mai cosa alcuna
che potesse risuscitar la Polonia; e la richiesta era stata, mentre
appunto il principe Napoleone Bonaparte cospirava, promettendo
libertà, coi principali tra gli esuli polacchi a Parigi, accettata
senz'ombra di discussione: — che i patti introdotti nella pace di
Crimea, a limitare la potenza russa nel mar Nero, sarebbero
rescissi; e s'era, dopo discussione, accettato: — finalmente che
l'Ungheria avrebbe scelto a re moderatore della sua indipendenza, il
principe Costantino; e l'esosa condizione fu accettata, non
solamente da Luigi Napoleone, ma — mi duole il dirlo — da parecchi
fra gli agitatori ungaresi, forse con reticenze mentali pari a
quelle del conte Cavour ed egualmente funeste.
E un terzo caso s'era preveduto da Luigi Napoleone: il caso in cui
l'Inghilterra congiungesse le sue forze a quelle della Germania. A
quel guanto di guerra dovea rispondere la conflagrazione e lo
smembramento dell'impero d'Oriente. Quindi i preparativi d'un moto
in Serbia, in Bosnia, nel Montenegro, maneggiati da emissari
attivissimi russo-bonapartisti, facili a scernersi, anche da chi
meno informato di noi abbia osservato attento l'insolito
affaccendarsi, verso quel tempo, in viaggi da Parigi a Belgrado e
Costantinopoli d'esuli e non esuli che apparvero poi pubblicamente
frammisti alle crisi della collisione.
Sotto auspicii siffatti s'aprì la guerra.
Noi per vie, ch'or non possiamo svelare, ma che non lasciavano campo
a dubbiezze, avevamo comunicazione minuta, avverata poi, d'ogni
cosa.
Fra questi pericoli, fra i disegni russo-bonapartisti tendenti a
imperializzare — era una delle voci che suonavano sacramentali in
Parigi — l'Europa e il disviarsi dei più influenti fra gli uomini
del Partito dietro all'ingannevole forma, che insegnava doversi
sostituire la questione di territorio a quella di libertà; fra
l'imminenza d'eventi maturati da imperatori e re, che nessuno poteva
impedire, e la quasi universale inesplicabile credulità che
s'ostinava a travedere negli imperatori e nei re i candidi, subiti
verificatori del concetto delle aspirazioni dei popoli; quale doveva
essere la parte degli uomini di fede repubblicana?
Taluni fra i nostri, forse più severi adoratori dell'ideale, ma di
certo meno caldi di amore pel paese, anche traviato, che noi non
siamo, avrebbero voluto che serbandoci puri d'ogni concessione
all'errore e gittato anatema a ogni cosa che non fosse repubblica,
ci fossimo ritratti, ravvolti nel manto della nostra fede, come
Trasea Peto escì dal Senato, dall'arena dei fatti, isolandoci e
aspettando giustizia dal tardo avvenire.
Era partito onesto ed anche generoso, ma per uomini contemplatori o
disperati d'ogni salute possibile per la patria e stretti da una
ineluttabile necessità a incarnarla incontaminata nel proprio
individuo — e Trasea Peto era fra questi ultimi. Noi non eravamo
contemplatori e paghi a vivere, piccola chiesa proscritta, segregati
dal culto dell'avvenire o del sacro pensiero: c'intitolavamo uomini
del Partito d'Azione, frammisti per tendenza suprema dell'animo e
per istituto giurato alle congiure, alle lotte, alle sante
ribellioni del nostro paese, rivolti d'antico a modificare il
presente, più assai curanti del menomo palpito della nostra terra,
che non di ciò che il presente o l'avvenire diranno di noi. E noi,
comunque profondamente dolenti e attoniti del vedere rifarsi da capo
una illusione che tutti avevano dichiarata spenta per sempre, e
vergognosi del prostituirsi dell'Italia all'alleanza col Male, non
disperavamo; né oggi pur disperiamo. Vive nei popoli, e segnatamente
nel nostro popolo, una potenza vitale fatta per risuscitare le cose
morte, che un menomo fatto, un detto generoso, una subita
ispirazione scoccata, come corrente elettrica da contatto di nubi,
dall'attrito degli eventi, possono richiamare in azione. E chi può
aver davanti la madre agonizzante e disperare di richiamarne la sana
vita e ritrarsi dicendo: è finita, scagli la pietra su noi. A noi
non era possibile abbandonar la speranza, né quindi l'azione. Or,
volendo frammetterci all'azione, ci bisognava subirne, rassegnati,
le necessità, le condizioni indipendeti da noi.
Il paese era affascinato, travolto. I migliori nostri disertavano le
file per cacciarsi là dove appariva imminenza d'opere. Insistere
irremovibili sul nostro simbolo, frammettere in pochi alle grida
riecheggiate dal 1848 il grido repubblicano, era un'indebolire la
parte altrui, senza far forte la nostra, era un farci suscitatori di
risse civili, tristi sempre, pessime quando s'iniziano senza
speranza di procacciar trionfo a un grande principio. E d'altra
parte, fra quel viluppo d'errori, d'illusioni, di deviazioni più o
meno colpevoli, splendeva pur sempre, una norma che i repubblicani
non possono, senza privar la loro fede di base, porre in obblio,
l'idea della Sovranità Nazionale, da mutarsi coll'opera lenta e
pacifica dell'apostolato, ma da non contradirsi violentemente con
fatti; l'immensa maggioranza della nazione si mostrava
innegabilmente disposta a concentrarsi intorno alla bandiera della
monarchia di Savoia, a unificarsi sotto la formola regia. Non era
fede; non era affetto; non era convinzione di mente: era speranza,
adorazione d'un fantasma di Forza: lo sapevamo. Pur la tendenza era
tale; e quando una tendenza è fatta universale nel popolo, i
repubblicani possono intravvedere la delusione che ne uscirà, e
devono, colla teorica, tranquilla predicazione cercare dì
modificarla; ma intanto corre obbligo più ad essi che ad altri
d'insegnare il rispetto al dogma della sovranità popolare e di
sottomettervisi. Principii e necessità di fatto ci segnavano dunque
ad un tempo la via da seguirsi; ed era: protestare continuamente
prima contro il disegno, poi contro il fatto dell'alleanza col
dispotismo, come contro quella che violava la moralità del paese e
contradiceva inevitabilmente al fine da raggiungersi nell'impresa: —
sagrificare a tempo, non la fede, ma la predicazione della fede
repubblicana e seguire sull'arena il paese anche guidato da bandiera
regia, purché non fosse imposta dalla forza e procedesse sorretta da
mani italiane e conducesse lealmente, direttamente all'Unità
Nazionale, senza la quale non può esistere Italia: — offrire a base
comune d'accordo la Sovranità del Paese: — acquistare così diritto
di proporre i modi più idonei per farci Nazione di liberi: — dire
sempre al popolo, quand'anche fraintesi, i patti che potevano
serbargli aperto l'adito al meglio nell'avvenire: — dire alla
monarchia, quand'anche convinti che non vorrebbe e non potrebbe
darci ascolto, i modi coi quali bisognava farsi unificatrice: —
lottare insieme ai nostri fratelli per la libertà e per l'unità del
paese e serbarci capaci, senza violazione di promesse, di lottare
per altro, quando la delusione antiveduta da noi, compirebbe l'opera
che a noi, nel generale turbamento degli animi, non era dato
compire.
Via siffatta scegliemmo e la calcammo, al solito, leali, pazienti e
senza lasciarci sviare da biasimo, tristi sospetti o persecuzioni.
Se tutti l'avessero calcata con noi, l'Italia non sarebbe ora
ridotta ad aspettare servilmente tremante(2) da una congrega di
potenti stranieri, avversi i più, la decisione dei propri fati.
Lasciando da banda ogni questione di repubblica e monarchia, parte
della Società, così detta Nazionale, e di quanti pur credendo il re
necessario all'Italia amassero nondimeno l'Italia sovra ogni altra
cosa e volessero assicurarne i fati e tutelarne la dignità e
assicurare ad un tempo vittoria e indipendenza dall'alleato al re,
era quella di far sì che il popolo iniziasse la lotta, quando la
guerra era inevitabile, e re e imperatore erano presti a scender sul
campo e vincolati a farlo e nella impossibilità di retrocedere.
L'iniziativa popolare promossa da essi e aiutata immediatamente
dalle forze regolari non minacciava in alcun modo il loro concetto
monarchico, ma tutelava l'onore e la libertà del paese, disfaceva
probabilmente le forze e senz'altro i calcoli militari dell'Austria,
impediva prestandogli una potenza incalcolabile, che il re
comparisse davanti al più forte alleato in sembianza di vassallo,
rendeva impossibile la pace di Villafranca, italianizzava col
fermento universalmente diffuso il moto, e dava quasi di certo base
o riserva, a seconda dei casi, alla guerra nel Sud.
Fin dal 1856, quando il fervore dell'agitazione monarchica era già
potentemente diffuso e vaticinava inevitabile la lotta, noi
smettendo ogni propaganda repubblicana, ci collocammo su quel
terreno. Proponemmo un accordo comune intorno alla Bandiera
Nazionale: proponemmo che tutti, repubblicani e monarchici,
s'adoprassero, senza intolleranza, senza esclusivismo di parte, ad
agevolare, a promuovere l'insurrezione del paese: proponemmo che
monarca e popolo congiungessero fraternamente pel bene d'Italia le
forze loro; che il re consentisse a non imporsi come padrone su
schiavi, ma facesse il debito suo e fidasse nella riconoscenza del
popolo; che il popolo libero d'acclamare chi gli piacesse, cercasse
intanto nelle proprie forze salute e non la facesse dipendere da un
individuo. E mentre quelle proposte escivano pubbliche sull'Italia e
Popolo in Genova e altrove, le facevamo privatamente ai capi di
parte monarchica. “Vi manca l'opportunità? sussurate ai vostri che
non ci attraversino le vie; e la creeremo per voi, pel vostro
esercito, dove vorrete: temete la nostra bandiera? noi non leveremo
se non una bandiera nazionale, e, sebbene traditi una volta da voi,
torneremo ad aspettare riverenti che le volontà della Nazione si
manifestino”(3).
Queste cose dicevamo, sperando che l'iniziativa popolare,
sviluppando forze tali da bastare per l'impresa al Piemonte, ci
avrebbe almeno salvati dal disonore e dal pericolo, grave oltre ogni
altro, della lega col Bonaparte.
Ma invano. Da taluno fra gli uomini che allora reggevano ebbimo
incerte, mal definite speranze d'accordo, che non miravano ad altro
se non a renderci inerti e sfumarono quando da noi si scese sul
terreno pratico. Dai capi agitatori ci venne recisamente risposto:
noi respingiamo la bandiera neutra, giudicando la conciliazione
impossibile. (Dichiarazione di Giorgio Pallavicino, 15 ott. 1856). I
primi avevano già pattuito col despota; i secondi erano inebbriati
dal tristo prestigio che le loro promesse cominciavano a esercitar
sull'Italia. Volevano allettare, ed all'uopo, dicevano, anche
sforzare il monarca; (Dich. cit.) e non intendevano che una
insurrezione di popolo allettava e sforzava ad un tempo, ma
vincolando a non arrestarsi a mezzo la via.
E allora cominciava per noi la parte tristissima di Cassandra;
quella serie di rivelazioni e d'ammonimenti dati, per la seconda
volta, agli illusi, e che dovevano più dopo verificarsi appuntino.
Noi dicevamo agli agitatori — e non increscano a chi legge le
citazioni: a noi importa registrare previsioni che provano la logica
del partito, e documentano la tradizione della sua condotta —:
“Da un re sforzato voi avreste, presto o tardi, il 15 maggio. Da un
a re alleato avrete promesse splendide in sulle prime; poi, per
forza di cose, titubanza come di chi procede, non per impulso
proprio, ma per altrui — scelta di capi avversi o ineguali
all'impresa — limitazione dei disegni di guerra fin dove
imporrebbero le monarchie sperate amiche o non nemiche — sospetto
d'ogni elemento non interamente dipendente dall'ispirazione
monarchica — rifiuto di tutti gli aiuti che tendono a dar
coll'azione coscienza al popolo della propria forza e dei proprii
diritti — prostrazione d'ogni entusiasmo nelle moltitudini che sole
assicurano vittoria ad ogni guerra nazionale — isolamento
dell'elemento regolare — indietreggiamento e tendenza ad accogliere
patti disonorevoli e contrarii al primo programma — malcontento del
popolo rieccitato — inganni a sopirlo ……
“La parola Unità è bandita, nei conciliaboli governativi, come
sovvertitrice dell'ordine europeo, derisa come utopia d'uomini
insani e pericolosi. Avversarla, è patto giurato di gabinetto, a
prezzo d'una promessa di protezione straniera ……
“Però, i vostri che non osano, né sanno, né possono combattere senza
quell'aiuto, rifiutano …… l'una Italia.... Essi, da alcuni individui
in fuori, parlano d'Alta Italia, non d'altro. E quel regno sognato
non abbraccia neppure tutto il Lombardo-Veneto....(4).”
Ma il linguaggio del vero tornava increscioso ai maneggiatori:
com'essi si davano ciecamente, servilmente, a Cavour, al re, alla
lega col Bonaparte, a ogni cosa che fosse regia o imperiale, avevano
bisogno ch'altri si desse ciecamente ad essi.
Bisognava loro silenzio d'ogni libera voce. Quindi l'idea della
dittatura e della sospensione d'ogni potere che rappresentasse
legalmente il paese: idea ridicola in sé dove ogni uomo plaudiva ai
disegni di guerra e inneggiava al re, ma prestabilita a Plombières e
architettata a toglierci ogni via d'aprir gli occhi al popolo degli
illusi. E quell'idea che si verificò nell'aprile 1859 era stata, fin
dal 15 dicembre 1858, annunziata da noi: “Non assemblea dunque, non
Circoli, non associazione né stampa, né alcuno di quelli eccitamenti
collettivi che illuminando, spronando, affratellando il popolo gli
danno coscienza di sé, della propria vita, della propria potenza,
dei proprii fati ….. Muto, fra un popolo muto, non invigilato, non
consigliato, padrone assoluto, co' suoi battaglioni disciplinati, il
dittatore moverà irresponsabile all'esecuzione di disegni celati,
per vie scelte esclusivamente da lui, con mezzi versati a' suoi
piedi dalla nazione, che consunti una volta, mal si rifanno. Se lo
Statuto e il Parlamento gli parranno frammettere inciampi o indugi
all'impresa, ei sciorrà il Parlamento e sospenderà l'azione dello
Statuto(5).”
E mentre s'architettavano modi perchè tutti forzatamente tacessero,
la chiamata ai volontari di tutte provincie d'Italia provvedeva a
impedire le insurrezioni, che avrebbero potuto dare iniziativa al
popolo e scompigliare i disegni dei liberatori. Quei giovani che,
con impeto da parte loro sublime, sfidarono ogni rischio per
rispondere alla chiamata, mal potevano, da poche migliaia infuori,
essere ordinati e ammaestrati militarmente in tempo sì breve da
poter riescire elemento importante nella guerra imminente; ma
sottraevano all'elemento popolare delle città i capi naturali
dell'insurrezione, e si toglievano alla sfera nella quale avrebbero
potuto, prendendo norma dai casi. operare liberamente per
accentrarsi in un sol punto e aggiogarsi sotto disciplina
dittatoriale. Notammo allora il pericolo. Ma la nostra stampa,
trattata dal governo sardo e dal francese peggio assai della stampa
austriaca e confiscata per ogni dove, non giungeva ai giovani.
Intanto anche ai più noti da parte nostra in Piemonte e nella
Liguria s'affacciavano, accompagnate da larghe promesse di guerra
Italiana, d'Indipendenza da tutti stranieri e d'Unità Nazionale,
proposte ch'essi, trascinati da una voce idoleggiata e dal desiderio
di fare, accettavano.
Ad essi, noi dicevamo, senza speranza e per debito di coscienza: “Le
proposte non hanno se non uno scopo: neutralizzare, rendere inerte
l'elemento rivoluzionario; sviarlo dal profittare, come dovrebbe,
dell'attuale fermento per impadronirsene:..., mettersi in grado di
poter dire al paese: vedete che anch'essi sono con noi: e
comprometterne la condotta futura: poi passare quelli elementi a
rassegna, agglomerarli, perchè non sostituiscano altrettanti nuclei
d'agitazione nazionale iniziata che sia la guerra, dirigerli,
tenerli sotto la mano.... Davvero gl'incauti che accettano corrivi
quelle proposte, mostrano d'amare, consapevoli o no, più che
l'Italia, la guerra.... Non ci daremo alla cieca, voi dite: io
v'affermo che vi darete alla cieca. Voi vi date ad una guerra nella
quale la monarchia piemontese è esecutrice; l'impero di Francia ha
l'ispirazione, il disegno. E vi date ad una guerra, che sarà
governata dispoticamente, senza intervento possibile d'opinione
vostra o del popolo. Non udite i profondi politici della guerra
Franco-Russo-Sarda annunziarvi che il primo passo da moversi verso
l'impresa è la dittatura? Non li udite, dimentichi che senza
l'indipendenza dell'anima ch'è la libertà, l'indipendenza della
nazione è un vuoto nome, a dichiararvi che, la sollevazione Italiana
non implicando alcuna questione di libertà..,.. Luigi Napoleone non
può impaurirsene? Voi non avrete stampa, né associazioni, né libertà
di parola pubblica, né voto: lo avete dato, vi diranno, sui muti
registri del 1848. Avrete capi devoti all'ispirazione
imperiale-monarchica per vegliarvi e ferrea disciplina per punirvi.
Sarete al campo in qualche angolo di Lombardia, probabilmente tra
francesi e sabaudi regii, quando la pace che tradirà Venezia sarà a
insaputa vostra segnata(6).
E parlando a tutti e sempre insistendo perchè non si stringesse la
fatale alleanza, o perchè almeno se ne scemassero coll'iniziativa
popolare i pericoli, noi rivelavamo, prima della guerra, ciò che
pochi mesi avverarono:
“Per l'Italia, una subita pace rovinosa, fatale agli insorti, a
mezzo la guerra, un Campoformio.... Non appena Luigi Napoleone avrà
conquistato l'intento,... accetterà la prima proposta
dell'Austria.... costringerà il monarca sardo a desistere,
concedendogli, una zona di territorio.... abbandonerà tradite le
provincie venete e parte delle lombarde.(7).”
“Una impresa ispirata, appoggiata da Luigi Napoleone non può avere
per mira un'Italia: non può estendersi al di là del rimaneggiamento
d'un rimpasto territoriale, non può prefiggersi a intento fuorché
l'emancipazione dall'Austria, per certi fini, d'una piccola zona di
territorio. Ed essi lo sanno. Perchè mentono? Perchè ciarlano
d'Italia alle popolazioni corrive a credere? Perchè sommovono colle
loro agitazioni la povera Venezia, già freddamente deliberatamente
abbandonata al nemico?(8).”
“La Monarchia sarda non s'accinge a combattere che per un limitato
ingrandimento territoriale. Il matrimonio della principessa Clotilde
e di Napoleone Bonaparte è il pegno dell'accettazione. Gli Austriaci
non ripasseranno le Alpi. Venezia è statuita fin d'ora pegno di pace
coll'Austria. L'Italia non è contemplata nella quistione(9).”
“Importa chiamar l'attenzione sui germi d'un dissidio preparato
probabilmente ad arte tra Francia e Piemonte, da un lato per poter
dire al paese insorto: non possiamo mantenere il nostro programma:
la Francia s'oppone; dall'altro per poter dire: io non intendeva
trascorrere fin dove la vostra ambizione vorrebbe sospingermi(10).“
Noi potremmo moltiplicare le citazioni; ma son queste, per gli
uomini spassionati, più che sufficienti a mostrare, da un lato,
quali fossero le cagioni del nostro dissenso; dall'altro, come
l'aver, soli, tra biasimo e credulità universali, antiveduti
esattamente i fatti che accaddero, provi l'infallibilità del
principio che rappresentiamo e ci dia diritto di trovar fede —
discussione severa almeno — nelle previsioni che potremmo esprimere
in avvenire.
L'alleanza francese intanto diventava fatto compiuto. Le parole
dall'Alpi all'Adriatico suonavano applaudite, credute sul labbro di
Napoleone. La guerra iniziata con ardito concetto, tradito
nell'esecuzione dall'Austria, si continuava, tra gl'inni ai
magnanimi liberatori dagli alleati.
Allora, noi protestammo. Gl'Italiani lessero la nostra protesta e
sanno, che fedeli al programma adottato, noi vi dichiarammo ad un
tempo che la coscienza e la conoscenza certa dell'intento prefisso
alla guerra ci vietavano di combattere sotto le bandiere
dell'oppressore di Roma e che saremmo presti sempre a farlo, anche
sotto la bandiera monarchica, ogniqualvolta quella bandiera,
sorretta da mani Italiane, accennasse apertamente all'Unità della
Patria. E tacemmo, spiando ansiosi il momento.
Quando, il 1 Luglio 1859, ricominciammo le nostre pubblicazioni,
parte delle nostre previsioni s'era avverata, il resto stava per
avverarsi. Il silenzio creato dalla Dittatura, l'emigrazione di
quanti giovani avrebbero potuto dar moto all'insurrezione popolare
delle città, la propaganda instancabile degli agitatori monarchici
che intimavano lasciate fare, le calunnie sparse ad arte contro i
pochi che dicevano fate, il rifiuto formale dato a Milano che
proponeva levarsi e documentato dal primo bando d'Emilio
Visconti-Venosta regio Commissario a Varese(11) e l'istinto che
cominciava, inconscio, a lasciar gli animi incerti sulle intenzioni,
avevano sopito il concitamento delle moltitudini. Non combattevano;
plaudivano alle vittorie dei combattenti. La guerra non era guerra
di nazione ridesta ma serie di fazioni d'eserciti regolari. Il re
era subalterno nel campo, i volontari erano intenti ad addestrarsi
nei depositi, o accampati intorno al vietato Tirolo. Luigi Napoleone
era arbitro onnipotente della guerra Italiana. Ei doveva
prevalersene e se ne prevalse. Nel Pensiero ed Azione del 10 Luglio
noi dicevamo che la pace al Mincio, alla quale l'armistizio allora
segnato accennava, conchiuderebbe subitamente la crisi. Il 20 Luglio
i nostri articoli commentavano la pace di Villafranca. Luigi
Napoleone aveva raggiunto l'intento. L'alleanza dell'Austria era
conquistata alla Francia Imperiale.
Sul campo della logica e delle previsioni, la vittoria era nostra:
nostra innegabilmente. E nondimeno come ne usammo? La nostra prima
parola fu una parola di conforto alle attonite moltitudini, una
parola di conciliazione agli illusi che ci avevano versato addosso
l'oltraggio. E ci si conceda un'ultima(12) citazione. Essa rivela
tutto l'animo nostro e segna agli Italiani la via d'un dovere
identico anch'oggi e che noi non potremmo predicare se non con
parole consimili:
“La condotta degli Italiani — noi dicemmo nel numero del 20 luglio —
deve mostrare in oggi all'Europa, se l'Italia ha coscienza di vita
propria o aspetta vita esclusivamente dallo straniero... Liberta' ed
Unita' Nazionale: questo grido prorompa unico da tutte le
manifestazioni, frema sulle labbra di quanti non accettano che
l'Italia sia schiava e disonorata: ricordi dai proclami, dalle
bandiere, dai muri alle milizie italiane, ai volontarii, agli uomini
— e sono i più — che s'illusero di buona fede, gli obblighi assunti,
lo scopo pel quale s'illusero. Che volevano essi quei che si
separarono da noi e opposero alla nostra logica il fascino
dell'opportunità, alla ventenne parola d'ordine del partito, la
parola di Cavour? Volevano, come noi, libera ed una l'Italia:
volevano la Nazione: volevano l'indipendenza da tutti stranieri.
Differivano sui mezzi: convinti che l'iniziativa della monarchia
avrebbe dato salute all'Italia, accettarono, molti fra loro
deplorando tacitamente, l'alleanza funesta alla quale la monarchia
s'aggiogava: convinti della necessità d'unire gli sforzi,
rimproveravano noi perchè ci tenevamo separati, come noi convinti
alla volta nostra che per quella via non poteva conquistarsi
l'intento, dovevamo a rischio di tutte accuse, salvare la bandiera
dell'avvenire. Oggi i casi additano a tutti noi lo stesso terreno:
oggi non sopravvive speranza fuorché nel popolo. Cessino le gare! in
nome dell'onore d'Italia, stringiamoci in uno. Sia maledetto fra noi
chi non cancella la memoria dei rimproveri, delle accuse reciproche,
nel grande principio che oggi, uniti dobbiamo e possiamo salvare il
paese.”
“Dovunque sono uomini che sentono l'importanza del momento, che
intendono come si decida in questi giorni della vita o della morte
d'un popolo per un quarto di secolo, sorga.... la chiamata alle
moltitudini perchè decretino d'infamia la pace, la vendita di
Villafranca.... Dovunque l'energia delle moltitudini accenna potenza
di fatti, si formoli in poche, brevi, uniformi parole il programma
della Nazione: vogliamo Unità, Libertà: guerra per ambe finche
guerra è possibile.... Dovunque sono, in Italia o in esilio, uomini
che si sanno influenti nelle terre ove nacquero, partano e cerchino
penetrarvi: ogni uomo s'affretti al suo posto. Dovunque sono
Italiani che possiedono al di là del necessario alla vita, dovunque
sono stranieri ai quali l'Italia è patria d'affetto, diano quel che
possono, quanto possono, ad aiutare la grande impresa Italiana.
Sottoscrissero per le famiglie dei contingenti: oggi la famiglia dei
contingenti è l'Italia....
Al centro, al centro, mirando al Sud!....”
Con queste tendenze, con questi propositi, pieno l'animo d'affetto e
di speranza, partimmo per l'Italia. Chi scrive era sui primi
dell'agosto in Firenze. E in Italia erano pochi dì prima o dopo,
Aurelio Saffi, Alberto Mario, Mattia Montecchi, De Boni, Quadrio,
altri molti di tutte provincie. L'alleato s'era ritratto dalla
guerra: gl'Italiani erano soli: era il momento per noi di sciogliere
la nostra promessa, e ci affrettammo. Ci affrettammo colle parole:
armi, guerra, unità nazionale, protesta Italiana, Venezia, Perugia
sul labbro senza pensare a chi guiderebbe, smessa ogni idea di
Partito, coll'unico desiderio che si salvasse, resistendo ai patti
nefandi, l'onore. Nessuno di noi fiatò di repubblica o di guerra al
re Vittorio Emanuele. Chi scrisse, anonimo, sulle gazzette di
perturbazioni, di disegni repubblicani, chi fece serpeggiar quei
sospetti nel popolo, mentiva impudentemente. E noi sfidiamo
altamente i tristi calunniatori a recare innanzi, tra le molte
lettere sequestrate a quel tempo — dacché il delitto visitato da
pena infamante nei codici, s'era fatto pratica dei governucci e
segnatamente in Toscana — una sola nostra linea che dia colore
all'accusa. Pur troppo, noi speravamo ancora che il re, ricordevole
delle promesse, della dignità, dell'onore e del sangue italiano che
gli scorre nelle vene, non accettasse l'insulto gittatogli in viso
dal Brenno straniero, non accettasse l'impronta di vassallaggio
stampatagli in fronte dal dono insolente della Lombardia e da una
dedizione di Venezia statuita senza neppur consultarlo. Alberto
Mario era, colla benemerita moglie, cacciato in carcere dal
Cipriani, poco dopo ch'egli aveva scritto sul nostro giornale un
articolo, nel quale, ispirandosi a quella illusione onorevole ei
conchiudeva: corriamo all'armi francamente e lealmente, duce
Vittorio Emanuele.
Trovammo, invece dell'accoglimento fraterno, al quale avevamo
diritto, birri, spie, imprigionamenti, perquisizioni, calunnie,
intimazioni di nuovo esilio: tutto un piccolo terrorismo di moderati
trepidi d'un biasimo di Pietri o d'un cipiglio del padrone. Né
reciterò qui quella tristissima pagina di storia contemporanea —
tristissima, dico, non per le persecuzioni in sé delle quali siamo
usi a sorridere, ma perchè scritta da mani italiane contro italiani
— che dura anch'oggi: stia sui persecutori la vergogna
dell'ingiustizia e della inefficacia. Ben dirò a complemento di
questo compendio del nostro passato, come tra quella tempesta
pigmea, noi rimanessimo fermi al programma e senza cedere all'ira e
persistendo nella nostra abnegazione, tentassimo coi governucci
l'unica via di salute che rimaneva — e rimane — alla povera Italia.
Al centro, al centro, mirando al sud! Era l'ultima linea che avevamo
scritta sulla terra d'esiglio; e fu il nostro grido, il nostro
Delenda(13) Carthago in patria.
Bisognava, per amor di tattica, come di principio, di fronte al
ritrarsi di Luigi Napoleone, affrettarsi a italianizzare il moto. Il
paese era fremente: il Piemonte incerto, il re oltraggiato e
scontento; i volontari ardenti, tumultuanti quasi per andar oltre:
l'Europa scossa da un profondo senso di biasimo pel subito mutamento
dell'imperatore: la Germania e la Prussia sull'armi: l'Inghilterra
apertamente avversa alla supremazia che la Francia s'arrogava sul
Continente: l'Austria affranta dalle disfatte. Essa non poteva
innoltrarsi nuovamente prima d'essersi rifatta nelle forze e negli
ordini: e Luigi Napoleone non poteva combattere le battaglie
dell'Austria contro l'alleato del giorno innanzi. Tra la Cattolica e
la frontiera Abruzzese, non erano allora altre forze che quella mano
di Svizzeri dalla quale s'erano insanguinate le vie di Perugia. Non
erano negli Abruzzi truppe raccolte; e il Regno era agitato, e la
Sicilia presta ad insorgere. Bisognava varcar rapidamente,
inaspettatamente il confine fittizio, riconquistare Perugia, e
attraverso la certa insurrezione dell'Umbria e delle Marche,
innoltrare a marce forzate sul Regno. Tra l'insurrezione delle
provincie e quella di Sicilia, il Regno dove, comunque scorati,
disordinati, sviati, gli elementi di mutamento abbondavano e il
malcontento era universale, era nostro. Col regno avevamo soldati,
vapori, materiali da guerra: eravamo potenza. Inoltre, l'energia
della mossa avrebbe rivelato tale una forza di volontà nella
rivoluzione incuorante i più tiepidi da convertire l'incerto
desiderio in furore.
Dieci mila uomini e Garibaldi bastavano a questo. Ma era necessario
operare senza chiedere assenso ad anima nata, senz'aspettare il
placet del re o degli agenti bonapartisti che siedevano — e taluni
siedono ancora — in Bologna. Gli agenti bonapartisti dovevano
naturalmente opporsi a tutto potere. Il re non era da tanto
d'ordinare la mossa; ma, se è vero ciò che i faccendieri ne dicono,
avrebbe trasalito di gioia in udirla e avrebbe seguito il paese:
egli e il suo esercito fronteggiavano e impedivano a ogni modo e per
necessità le forze dell'Austria.
Queste cose proponemmo, mentre i governucci ci dichiaravano
macchinatori di moti contro il magnanimo re, ai capi militari e ad
altri. Rosolino Pilo ed altri scontarono con mesi di prigionia il
delitto d'essere stati portatori, consapevoli o no, di proposte
siffatte e d'aver desiderato che, senza calcolo di bandiera, si
salvasse il paese. Noi, proponendo, offrivamo, a scemare i pericoli
dell'impresa e i terrori dell'estero, di rimanere in disparte, di
non mostrarci se non chiamati.
E il 22 agosto, da Firenze, chi scrive riproponeva il disegno ad
uomini di governo, e tra gli altri al Ricasoli. Cito quella lettera,
perchè fatta pubblica, non so per opera di chi, non ha molto, sui
giornali inglesi, senza data e travisata nella traduzione(14), fu
creduta da molti scritta recentemente da me, mentr'io di certo non
riproporrei ora arditi concetti nazionali al Ricasoli, ineguale
visibilmente alla sua missione e al forte linguaggio ch'ei talora si
compiacea d'adoprare.
Ma se la giustezza e l'opportunità della proposta balzavano agli
occhi e alla mente d'ognuno sicché tutti, amici o avversi,
teoricamente l'accolsero, nessuno ebbe genio d'insurrezione o
affetto non vincolato di patria, o ardire che intende il momento
tanto da farsi iniziatore dell'esecuzione. Gli uni opponevano la
disciplina, gli altri le Conferenze, altri volevano l'assenso del
re; il Governo Toscano, in una nota che mi fu trasmessa, opponeva
perfino, or ricordo, il malcontento probabile della Russia!
Cercammo, come Diogene colla lanterna, un uomo, e non lo trovammo.
L'unico, il quale avrebbe forse finito per intendere che sorgono
momenti supremi nei quali un core e un braccio potenti non hanno
consigli da chiedere fuorché a sé stessi, fu per arti subdole e
volpine allontanato dal campo d'azione.
E corse il tempo. E d'ambage, in ambage, di fiacchezza in
fiacchezza, di paura in paura, fu preferito lo svolgersi lento della
tristissima ignobil commedia inflitta per questi mesi al paese da'
suoi reggitori — la celebrazione solenne con illuminazioni e salve
d'artiglieria d'una annessione che non esisteva — la disquisizione
degna dei sofisti greci intorno all'accogliere e all'accettare — la
persistenza in un regime arbitrario e tirannico non giustificato più
da guerra, né da circostanze anormali — l'inganno sistematico al
popolo sulla realtà delle condizioni d'Italia mercè un monopolio
indecoroso di stampa — il versare danaro pubblico in monumenti agli
autori del tradimento di Villafranca e in edizioni di Machiavelli,
mentre si tratta d'esser liberi o servi — il disfare con apparato
d'assemblee e convegni governativi un'agenzia bonapartista in
Bologna per adottare il concetto bonapartista del centro
transappenino e cisappenino —il reggersi in nome d'un Governo che
ricusa o differisce indefinitamente e a beneplacito di stranieri il
dominio — il proclamar la reggenza, poi rinunziarvi perchè non
talenta a Luigi Napoleone — il ricevere — perchè non un re
travicello o, imitando Carlo XII, gli stivali del re? — invece del
re, invece del reggente pel re, un reggente pel reggente pel re,
Boncompagni! Ah, verrà giorno in cui gli Italiani rileggendo gli
indirizzi, i decreti, i memoriali fatti in nome d'un popolo per cui
s'agita una questione di vita o di morte, non sapranno se arrossire,
piangere o ridere di riso amaro.
E son questi gli elementi dell'oggi.
Abbiamo un popolo sviato ancora, ma buono, d'istinti forti e
generosi e che comincia a rinsavire e destarsi dal sonno in cui una
funesta propaganda lo travolgeva: Governi moderati, collettivamente
inetti e inferiori all'impresa: taluno fra gli uomini che li
compongono migliore degli altri, conscio del vero, ma titubante e
trattenuto sulla via dal terrore fatale d'una agitazione popolare
ch'è l'unica via di salute all'Italia: un nucleo d'esercito prode,
voglioso, capace d'ogni alta cosa, al Centro, con capi buoni e
devoti i più, ma mancanti di virtù iniziatrice: una monarchia
tentennante per istinto e per tradizione, aggiogata pur troppo per
timore non per amore, alla volontà dell'Impero, ma cupida di potenza
e d'ingrandimento e compromessa davanti alle popolazioni e costretta
a seguire il moto se altri lo spinga con vigore, o cadere: un
dispotismo al Sud minato da un malcontento universale, ma sorretto
dal terrore, da un sistema tremendo di spionaggio e di corruttela,
dalla poca fiducia che i buoni s'hanno nell'energia del rimanente
d'Italia e dall'inerzia codarda d'una setta di moderati guasta di
municipalismo, di servilità ai governi stranieri e d'aristocrazia
diffidente del popolo: l'Austria avversa e vogliosa di vendetta, ma
impotente ad ogni grande operazione offensiva e minacciata ogni
tratto da insurrezioni interne e fino nella sua capitale: Luigi
Napoleone avverso, ma vegliato e abborrito dall'Inghilterra, dalla
Prussia, dalla Germania, e nell'impossibilità d'operare contro il
Sud o di combattere contro l'Italia a fianco dell'Austria senza
soggiacere ai pericoli d'una guerra europea: l'Inghilterra propizia
alla nostra emancipazione e al nostro diritto, ma poco disposta ad
avventurarsi a gravi contese per chi non si mostri forte e
deliberato: pochi raggiratori bonapartisti, pochi fautori di
restaurazioni, non molti partigiani d'autonomie e circoscrizioni
locali, ma potenti dell'inerzia altrui e del silenzio imposto al
popolo, ch'è, nella vasta maggioranza, unitario: finalmente, un
Congresso imminente, avverso nella maggioranza dei suoi membri alla
nostra Unità Nazionale e alla nostra Indipendenza assoluta,
vincolato dalla natura d'ogni congresso a non decidere che su fatti
esistenti, chiamato quindi inevitabilmente a restringere i diritti
conquistati dalle provincie emancipate e a proclamare per l'altre lo
statu-quo.
In condizione siffatta di cose, non esiste per sottrarsi all'altrui
oppressione o alla lenta agonia di sconforto che genera l'egoismo e
la indifferenza, se non una via: è quella che da ormai otto mesi
andiamo predicando:
Bisogna italianizzare il moto: allargarne la base per crescergli
forza: cangiar la linea d'operazione: agir arditamente nel Centro
mirando al Sud.
Agire, osando, prima del finir del Congresso per costituire il fatto
Nazionale davanti ad esso ed evitare un accordo de' suoi membri,
inevitabile davanti all'inerzia comune: agire, se prima non è
possibile, immediatamente dopo; vincolarsi e prepararsi a resistere
alle sue decisioni avverse; protestare contr'esse coll'armi e
coll'insurrezione. Manca al nostro moto un'iniziativa; bisogna ad
ogni costo crearla. E quest'iniziativa dev'esser di libertà e
d'Unità Nazionale. I moderati che reggono, tendono a localizzare il
moto perchè, dicono, siamo deboli. Bisogna dunque estendere il moto
per essere forti.
Sopprimendo la libertà, i moderati che reggono, non tolgono una sola
arme al nemico; spengono nel silenzio e nell'isolamento l'entusiasmo
d'un popolo, che sente con noi e ch'è la sola, vera forza sulla
quale possiamo far calcolo. Bisogna rieccitare colla stampa e colle
associazioni quell'entusiasmo sopito, e far della libertà mezzo
all'indipendenza.
Bisogna, rinfervorando di virtù iniziatrice gli animi intormentiti e
il semi-spento moto d'Italia — affermando arditamente il Diritto
Italiano — dando con fatti all'Italia e all'Europa manifestazione di
ciò che vogliamo e prova che siam decisi a combattere sino agli
estremi per ottenerlo — dar core ai tiepidi, azione all'esercito,
nuovo impulso di speranze e di fede alla gioventù, appoggio
all'insurrezione delle terre romane, oggi serve, opportunità di
sorgere al Sud, motivo, necessità anzi, d'agir nuovamente al
Piemonte, certezza di forza in noi a quei tra Governi Europei che
diffidano di Luigi Napoleone e intendono afferrare ogni pretesto per
limitarne l'azione, animo ai popoli che fermentano sotto il giogo
dell'Austria.
Predicare, far prevalere queste norme è lo scopo che ci prefiggiamo.
Né più, nè meno.
Noi non veniamo ora a porre in campo questioni di forme governative,
di monarchia o di repubblica, d'antagonismo o di devozione a
Vittorio Emanuele. Franchi e leali, come sempre fummo, il giorno in
cui crederemo debito nostro di lavorare esclusivamente al trionfo
immediato dell'idea che addittammo, or sono quasi trent'anni, come
sola via di salute all'Italia, faremo come gli Italiani in Sicilia
nel 1848; lo dichiareremo anzi tratto. Fino a quel giorno, qualunque
parlerà, accennando a noi, di complotti, di disegni immediati,
d'emissari repubblicani, sarà, deliberatamente o no, mentitore.
Noi veniamo a dire all'Italia che il suo moto iniziato con un
concetto d'unità nazionale, more tradito, localizzato, dato, — con
intenzione o no poco monta — per sommissione abitualmente servile ai
raggiri, ai disegni ostili del dispotismo straniero. Veniamo a dirle
che i capi attuali del moto, mancano d'iniziativa, che bisogna o
trovar modo d'infonderla in essi con una imponente, universale
manifestazione nell'opinione popolare o mutarli; che si tratta di
salute e d'onore per la patria comune; che abbiamo noi tutti diritto
e debito d'occuparcene; e che bisogna unirci tutti in un lavoro
attivo e ordinato, perchè il moto torni rapidamente al primo
concetto — Italia, libertà, unità nazionale. Veniamo a dirle ch'essa
non deve riporre speranza alcuna nel futuro Congresso; che i fati
della Romagna e della Toscana sono già irrevocabilmente determinati
nella mente di Luigi Napoleone, in modo contrario ai desiderii delle
popolazioni; e che bisogna quindi prepararsi a resistere. Veniamo a
dirle che, anche serbata l'emancipazione d'alcune provincie è nulla
se non guida all'emancipazione di tutto quanto il paese; che
l'indipendenza è menzogna se non è da tutti stranieri; che la
libertà è suo diritto e che essa deve conquistarsela e tutelarla con
armi proprie. Veniamo a dire che parola d'ordine d'ogni italiano
deve essere in oggi, non Bologna, Firenze o Milano, ma Perugia,
Napoli, Palermo, Roma, Venezia.
Combatteremo senza tregua, rivelandone siccome traditori del paese i
fautori, ogni progetto d'impianto in Italia di principato straniero.
Combatteremo, come piaga mortale d'Italia, l'esistenza
dell'autocrazia papale.
Combatteremo ogni disegno di nuovi riparti, di nuovi smembramenti e
d'autonomie locali da qualunque parte traggano origine.
Promuoveremo, da qualunque parte muova, ogni virile proposta, ogni
concetto che guidi a unità, all'estensione, all'italianizzamento del
moto.
E quanto a Vittorio Emanuele, noi non gli siamo nemici, né servi.
L'immedesimare anzi tratto il suo nome coll'unità nazionale, è un
rinnegare la coscienza e la potenza della nazione; il rifiutarlo
anzi tratto, sarebbe ingiustizia e follia. Ogniqualvolta ei compia
il debito suo d'italiano, faremo con lui: cercheremo, s'ei lo
trascuri, far senza lui; e far contro lui s'egli mai lo tradisse
ponendosi apertamente ostile all'intento.
Verso lui, verso gli uomini che lo prefiggono a bandiera esclusiva
del moto, tentammo ogni via, ogni concessione possibile, perchè
dall'accordo escisse più secura e sollecita l'unità del paese. Oggi
liberi, indipendenti, sciolti da ogni obbligo morale, fuorché verso
il paese, trarremo, né sistematicamente ostili, né ciechi, le
ispirazioni della nostra condotta dalle circostanze e dalle
necessità della patria italiana vivente di vita propria e suprema su
tutti gli individui.
(Dal Pensiero e Azione, N. 24, 24 dicembre 1859).
II.
Queste cose scrivevamo sul finire del 1859. E chi può dire — e
recarne la menoma prova, — che tradimmo di un'ora sola, con un solo
atto, il nostro programma e le nostre promesse?
Se v'è, si levi e segni del suo nome l'accusa documentata.
Ma il calunniare sistematicamente e deliberatamente un Partito che
ha creato in Italia il culto dell'Unità, suscitato la simpatia
dell'Europa a pro del nostro risorgere e tinta del sangue de' suoi
martiri ogni zolla del nostro terreno — il dar lode nelle
conversazioni private alla nostra potenza di sagrificio e commettere
a un tempo ai poveri venduti anonimi della stampa governativa di
negarla e vilipenderci cospiratori a dispetto delle nostre
dichiarazioni firmate — il parlare a ogni tanto della necessità
suprema per noi di concordia e dar moto intanto alle arti le più
nefande per escludere i nostri dal campo, dagli uffici, dal
Parlamento — e l'additarci al paese dove crescemmo e all'Europa in
sembianza d'agitatori incorreggibili e pericolosi, di settari
intolleranti e ambiziosi, di demagoghi presti a sagrifìcare la
salute della Patria al fugace trionfo d'una idea preconcetta o d'una
abbietta vanità personale, quando appunto si compia per noi senza
posa il più alto possibile dei sagrifici — è infamia che disonora
l'Italia e dovrebbe bastare alla condanna degli uomini che non
s'arretrano davanti ad essa. E il credere cieco in accuse siffatte,
il ripeterle papagallescamente senza darsi briga d'appurarle e
rifiutare l'esame dei fatti e respingere, senza meditarli, i
consigli degli uomini che segnarono, primi, la via, è cosa indegna
d'uomini che intendono a farsi liberi; abitudine servile d'armento
che s'accalca dove guida, qual ch'ei siasi, il capo. Senza moralità
non si fonda nazione; e se avrete in ogni modo una patria, salvo a
farla grande, onorata e potente poi, voi dovrete, o Italiani,
ringraziare la Provvidenza i cui disegni vogliono che una Italia sia
e i fatti generosi dei forti che crebbero tra le nostre file e
l'abnegazione degli uomini che oggi voi abbeverate d'ingratitudine.
Luigi Napoleone avversava — i dispacci officiali fatti pubblici e le
di lui stesse dichiarazioni, ci sdebitano oggi d'ogni obbligo di
provarlo — l'annessione delle liberate provincie del Centro alla
monarchia Piemontese. Ei voleva l'Italia forte abbastanza per
potere, un dì o l'altro, dargli aiuto ai disegni da lui maturati di
supremazia sull'Europa, non tanto da potersi sottrarre alla sua
prepotente influenza. Quindi il sogno, rivelato pubblicamente e con
insistenza, d'una confederazione di Stati, preside il papa ch'oggi è
schiavo francese. E inoltre ei vagheggiava un trono nel Centro pel
cugino marito della figlia del re. Partecipe, lietamente o no poco
monta, di quei disegni era, da Plombières in poi, il conte Cavour;
quindi le titubanze indecorose e le misere distinzioni tra
l'accogliere e l'accettare e la brutta commedia dei reggenti di
reggenti, a dar, non fosse altro, tempo all'alleato di maneggiarsi e
corrompere. Non fu certamente per lui che non si avverò, come pur
troppo doveva avverarsi il secondo, quel primo turpe mercato. Ma né
egli, né l'alleato avevano, nei loro calcoli, fatto conto dei fati
Italiani preordinati da Tale ben altramente potente che non tutti i
cospiratori imperiali e regi, né degli istinti ridesti del nostro
popolo, né della nostra tenacissima volontà. Il popolo che s'era pur
troppo lasciato sedurre agli applausi e alle diffidenze servili,
quando gli fu sussurrato che mallevadrice perpetua d'indipendenza
dall'Austria e suoi duchi gli sarebbe la Francia, s'esso accettasse
un Bonaparte a suo capo, si ravvide e rispose ostinatamente Unità. E
gli uomini di parte nostra, per amore all'Unità, necessità di
chiudere la via all'usurpazione straniera e speranza che, forti una
volta, gli uomini della monarchia troverebbero in sé coraggio per
emanciparsi ed osare, si fecero promotori attivissimi
dell'annessione. Nostri furono gli uomini(15) che scrissero i
proclami ai popolani toscani e condussero in Firenze, in Prato ed
altrove le consorterie degli operai a votare: nostri i capi-popolo
che in Parma e in Bologna più s'agitarono a rendere universale,
prepotente la manifestazione. Era ormai impossibile ai governativi
non accettare, e accettarono. Il dì dopo ci calunniavano più che
mai.
E il dì dopo, comechè forte del consenso e dell'entusiasmo di dodici
milioni d'Italiani liberi, Cavour era più che mai servo
dell'alleato. E mentre noi insistevamo perchè s'emancipassero,
mirando a Napoli, l'Umbria e le Marche, ei pensava a tradire Nizza e
Savoia alla dittatura imperiale, per ottenere perdono d'avere
accettato il voto delle popolazioni del Centro. Nizza e Savoia erano
state promesse a patto della liberazione del Veneto, e il Veneto era
schiavo dell'Austria. Il Centro s'era emancipato senza l'aiuto d'un
solo soldato francese, e s'era dato spontaneo. L'Europa biasimava
altamente, minacciosamente il disegno. Napoleone non poteva
conquistare quel terreno per forza d'armi senza correre il rischio
d'una guerra Europea. Bastava una parola generosa di resistenza
gettata al Parlamento, sussurrata alle moltitudini; bastava un grido
di dolore del re chiesto d'alienare le sepolture de' suoi antenati,
perchè l'Europa frapponesse il suo veto. E nondimeno, il sacrifìcio
fu consumato. Il conte Cavour e i 229 satelliti di Cavour nella
Camera segnarono dei loro nomi lo smembramento. E l'Europa imparò
che l'Italia non osava liberare una zona del proprio terreno se non
a patto di sagrifìcare la libertà d'un'altra al dispotismo
straniero.
Moralmente, noi ci sentivamo da quel giorno sciolti d'ogni obbligo,
d'ogni riguardo verso uomini siffatti. Se non che non guardavamo ad
essi, ma solamente al paese. Il paese era guasto nell'intelletto da
una infermità che non poteva guarirsi in un giorno, e che scendeva
dal carattere dell'iniziativa. Al paese mancava la coscienza delle
proprie forze. Aveva vedute l'armi regolari imperiali e regie
vincere le battaglie lombarde: s'era emancipato spontaneo nel
Centro, ma senza lotta e davanti a un nemico che si ritraeva senza
aspettarla: non viveva ancora di vita propria, ma dell'altrui.
Bisognava trasportare in esso l'iniziativa del moto a italianizzarlo
e dargli coscienza di sè. Bisognava farlo combattere e vincere. E
durammo, addolorati, irritati, fedeli al programma.
Avevamo, da quando una minaccia di Luigi Napoleone al re e un
divieto del re a Garibaldi, impedivano ai nostri il passaggio,
preparato e consentito, della Cattolica, rivolto l'animo ad aprire
in Sicilia un campo agli uomini d'Azione e iniziarvi L'emancipazione
del Sud. Crispi, trattato poi ingratamente e calunniato senza pudore
dai cavouriani, aveva due volte, a rischio di vita, viaggiato
nell'isola, a suscitarvi gli spiriti e combattervi i separatisti. Da
Malta e da altri punti il nostro contatto correva coi migliori della
Sicilia frequente e riusciva efficace. Offrimmo armi, che in parte
andarono — e furono le sole — prima del moto, in parte dopo con
Nicola Fabrizi, uno fra i più costanti, devoti e virtuosi patrioti
che conti l'Italia. Facemmo insomma quanto era in noi. E intanto,
perchè nessuno potesse temere che l'indipendenza delle nostre mosse
covasse disegni ostili alla bandiera acclamata in Italia, io
insisteva cogli influenti della setta dominatrice, con chi allora
reggeva in Torino, e, come oggi ognuno sa, col re stesso, perchè
s'aiutassero i generosi che abbondavano, presti a ogni cosa,
nell'isola: indarno. Unico ostacolo al moto erano i messaggi e gli
uomini del faccendiere Lafarina, che ciarlava sempre, e con tutti,
d'azione e sempre la impediva, abbandonando di volta in volta agli
imprigionamenti e alle fughe i migliori: egli e il di lui padrone
aspettavano gli ordini di Parigi. Ispiratore precipuo di forti
propositi fu, in quella lotta colle promesse ingannevoli e coi
codardi indugi dell'aule municipali, fu l'amico mio Rosolino Pilo,
anima santa di giovinezza e di fede ammaestrata, non infiacchita,
dai dolori e dall'esperienza, e il cui sorriso d'infinita dolcezza
coi buoni a lui cari e d'indomito tranquillo coraggio di fronte ai
pericoli, non m'escirà mai, finch'io viva, dalla memoria: uomini
tali non s'incontrano che fra noi. E riuscimmo. Per la seconda
volta, la generosa isola si collocò iniziatrice del moto popolare in
Italia. E uomini di nostra fede furono quei che capitanarono il moto
e lo mantennero con costanza mirabile tanto da dar agio a Garibaldi
d'accorrere a convertirlo in vittoria.
Si levò nel moto di Sicilia, anteriormente all'arrivo di Garibaldi,
una sola voce che gridasse repubblica? E chi può dire, recandone
prova, che i repubblicani tradirono, per un'ora sola, con un sol
atto il programma accettato?
Non è mio intento di tessere qui la storia dei fatti mirabili
compiti da Garibaldi e da' suoi. La storia li trasmetterà ai
posteri, siccome corona di gloria che non morrà al nome del Capo, e
nuova testimonianza di ciò che possano gli uomini, quando combattono
con una fede di libertà e nazione nel core. Ma quale fu, davanti a
quei fatti, il contegno della setta cavouriana ed il nostro?
I governativi cominciarono dal biasimar Garibaldi e la folle
impresa: s'affrettarono a lavarsi come Pilato, coi governi
stranieri, d'ogni complicità nell'ardua mossa: agli Italiani
predicarono inerzia. Mutarono linguaggio, e ammirarono, senza
soccorrere, quando intesero di Calafatimi. Si diedero a studiare i
modi d'impossessarsi del moto, quando udirono di Palermo.
Io consiglio agli avversi di non tentare la confutazione di queste
mie linee. Ho un documento ufficiale tra i pubblicati in Inghilterra
ed altrove, a sostegno d'ogni mia affermazione. Spargano ingiurie,
com'è loro uso, ma non discutano.
Noi — e una volta per sempre questo noi, suona non me e gli amici
miei solamente, ma quanti credono che debba farsi l'Italia libera ed
Una con forze proprie, con battaglia di tutti a ottenere vittoria
per tutti — Noi ci diemmo, senza un momento d'indugio a operare, per
afforzare Garibaldi ed i nostri. Senza aiuto governativo,
indirizzandoci alla carità patria degli Italiani, uomini e donne, e
agli amici stranieri, raccogliemmo tanto, da mandare rapidamente
armi, vapori, oltre a ventimila volontari in Sicilia. I Comitati di
Provvedimento scrissero, dopo quella scritta da Garibaldi e da'
suoi, la più bella pagina della Storia Italiana di questi due ultimi
anni. E i più tra quei Comitati erano composti d'uomini di nostra
fede, ma riverenti anzi tutto all'unità nazionale, e accettanti
lealmente dalla maggioranza del paese, il programma monarchico. E
uomini di nostra fede, erano i più, tra i volontari che mossero
festanti a raggiungere il campo di Garibaldi. E uomo di fede nostra
— ei di certo non mi smentirà — è l'individuo che fu l'anima di quel
moto, che malfermo in salute, spiegò una attività erculea a pro
dell'impresa, e nuovo per vocazione diversa e abitudini alle facende
amministrative, trovò in sé, per miracolo d'amore al paese, facoltà
ch'io desidero invano ai nostri ministri di guerra e finanza. E fu,
ed è tuttavia turpemente calunniato, da chi più dovrebbe, e non
saprà mai imitarlo. Parlo di Agostino Bertani.
Così operammo. Se non che credenti, non nell'emancipazione della
Sicilia soltanto, ma dell'Italia tutta quant'è, non nel dover
sostare a ogni passo a beneplacito della diplomazia e dell'impero di
Francia, ma in quello di non arrestarci mai, finché non sia
raggiunto lo scopo, pensando a rafforzare Garibaldi nell'isola,
pensavamo con eguale affetto all'Umbria, alle Marche, a Venezia, a
Roma, ad ogni lembo di terra italiana. Sentivamo nell'anima sorto il
momento. L'iniziativa era trapassata dal campo imperiale-regio, al
campo del popolo, della nazione, e non poteva mantenervisi, se non
coll'azione continua. Il prestigio della vittoria, accarezzava la
bandiera di Garibaldi, e doveva esso pure coll'azione continua
ingigantirsi fino all'onnipotenza. L'Italia poteva fondarsi d'un
getto. Bisognava, mettere il Borbone fra due assalti, avviarci per
terra agli Abruzzi, mentre Garibaldi scenderebbe nelle Calabrie e
liberare passando, l'Umbria e le Marche: da quelle provincie,
popolarmente sommosse e dalla moltitudine dei volontarii, ai quali
le difficoltà del mare, degli accentramenti e dei trasporti,
contendevano il moversi, e che si sarebbero precipitati attraverso
il varco aperto per terra, trarre un altro piccolo esercito che si
sarebbe, nelle provincie napoletane, ingrossato: tentare di
tagliare, con rapide mosse, il ritiro nel covo di Gaeta ai
borbonici; e congiungendo a ogni modo le nuove forze con quelle di
Garibaldi, movere, compita appena l'emancipazione del sud, sia,
com'io pensava, a una doppia operazione sul Veneto, sia, come
Garibaldi volgeva in mente, su Roma, dove la fuga del papa,
conseguenza certa dell'accostarsi dei nostri, avrebbe tolto ogni
pretesto di lotta ai francesi, e dove la manifestazione del popolo
sarebbe stata così gigantesca ed unanime, da rendere impossibile
ogni battaglia. Queste idee erano quelle di Garibaldi, il quale,
partendo il 5 maggio per la Sicilia, avea detto in un proclama, che
le Marche, l'Umbria, la Sabina, Roma dovevano insorgere, per
dividere le forze nemiche; erano quelle di Bertani; erano quelle dei
Comitati di Provvedimento e di quanti in Italia volevano fare, non
aspettare pazientemente ch'altri facesse. Ci diemmo tutti al lavoro
e raccogliemmo speditamente dieci mila volontarii e materiali da
guerra e mezzi di trasporto per essi. Seimila uomini dovevano, come
tutti or sanno, scendere per mare, sulle terre pontifìcie, due mila
sorprendere, dalla Toscana, Perugia, due mila operare dalle Romagne
sul Montefeltrino.
I particolari di questa impresa, come s'era ideata e resa più che
possibile, sono da vedersi in un libro pubblicato di recente,
dall'amico mio colonnello Pianciani. E a me, in questo rapido cenno,
non tocca ripeterli. Basta al mio disegno ricordare la parte nostra
e quella che i governativi vi fecero.
I governativi possono oscurare per breve tempo la storia, non
possono cancellarla. E penso che ogni uomo di buona fede in Italia,
sia oggi convinto che da noi non s'intendeva rompere menomamente il
programma accettato. Le più solenni guarentigie furono date dai capi
civili e militari della spedizione ideata, non solamente agli
influenti di parte regia, che per amore di concordia, cercavamo
d'avere con noi, alla autorità di Genova e di Toscana, al ministro
dell'interno, agli aiutanti del re, ma al re stesso, col quale un
dei nostri capi militari, ebbe conversazione d'un'ora(16); e il re,
convinto, mandò, come al tempo del progettato passaggio della
Cattolica, permesso che si facesse, poi, come allora, e dopo un
intervallo di due ore, mandò lettera autografa, da mostrarsi, non da
lasciarsi, che ritrattava ogni cosa; trista sorte dei principi, co'
quali un cattivo ministro riesce sempre onnipotente a distruggere
ciò che l'onesto istinto lasciato alla propria spontaneità
suggerisce di bene. La spedizione fu, pel momento dell'eseguirsi,
sviata con artificii indegni d'un ministro, per opera di Farini, dal
primo scopo, e da Genova si ridusse in Sardegna, poi in Sicilia: in
Toscana l'amico mio Nicotera, capo dei 2000 di Castel-Pucci, uomo in
cui l'onesta virtù, è pari alla singolare fortezza dell'animo, fu da
Bettino Ricasoli, cospiratore sin allora con noi, costretto egli
pure con modi che non si concedono, non dirò al governatore, ma al
gentiluomo, a condurre i volontarii, che dovevano vendicare Perugia,
in Sicilia. In verità, è duro il dovere, per amore al paese,
mantenere come facemmo e facciamo l'accordo con un programma
rappresentato da gente siffatta.
E in verità l'acciecamento della monarchia in Italia è, parmi, uno
fra i più singolari segni dei tempi. Da un lato, tutto un popolo
infanatichito d'essa, come di vincolo d'unità; dall'altro, un uomo
onnipotente di meritato prestigio, repubblicano di fede, ritenuto
per indubitatamente onesto e leale, inteso a conquistare palmo a
palmo l'Italia al re e trascinandosi dietro, sotto la bandiera
regia, il fiore dei giovani repubblicani a combattere, morire o
vincere — e noi tutti, pronti al sagrificio d'ogni più cara speranza
e accettanti ogni patto, purché ci si conceda di far l'unità. Non
credo che la storia offrisse mai momento egualmente favorevole alla
monarchia, e facilità eguale d'impiantarsi a capo d'una grande
nazione, senza fatica e senza pericoli. Lasciar fare e raccogliere i
frutti dell'imprese altrui; a questo si riduceva e tuttavia si
riduce — dacché manca ad esso la virtù dell'iniziativa — il compito
del governo regio. Ma non sapere o non osare d'agire per sé, e non
volere ch'altri faccia, e sostare tremante più di prima ad ogni
conquista, e diffidare d'un popolo, la cui prima libera voce è un
omaggio, e ostinarsi a mendicare salute al dispotismo straniero, con
ventidue milioni d'uomini intorno, e capi come Garibaldi, e vittorie
di volontarii, come quelle di Palermo e del Volturno, è spettacolo
miserando davvero. E se possa giovare, spento una volta il breve
entusiasmo, alle sorti della monarchia, lo dirà l'avvenire.
Intanto, emancipata la Sicilia, e senza badare alla preghiera,
strappata al re da Cavour, di non scendere sulle terre napoletane,
Garibaldi giungeva in Palermo.
In Napoli esisteva, più per trattenere il moto, che per suscitarlo,
un Comitato Cavouriano dell'ordine; e diffondeva, al solito,
promesse gigantesche di danaro e d'armi pel momento opportuno, e che
non si videro mai: le sole poche armi che andassero nel regno,
furono nostre; raccolte dai Comitati di Provvedimento e spedite da
Bertani. Se non che, convinto che gli elementi per fare, abbondavano
e non avevano bisogno se non d'una direzione, io avea proposto a
Giuseppe Libertini, amicissimo, di fede nostra e di pronti arditi
disegni, di recarsi in Napoli e impiantarvi, affratellandosi coi
migliori delle Provincie, un Comitato d'Azione: missione ch'egli,
con pochissimi mezzi e in brevi giorni, compiva. Le provincie
s'affratellavano nel proposito d'iniziare il moto anche prima dello
scendere di Garibaldi. Il tempo solo, vinto da Garibaldi, mancò:
sola la provincia del Principato Citeriore potè insorgere, e vi
condusse il moto Giovanni Mattina, repubblicano chiaro per prove
d'audacia virile e per patimenti durati con dignità. Ma il fermento
dell'altre e l'immensa manifestazione di Napoli diedero campo a
Garibaldi di giungere e vincere un governo potente di terrore il dì
prima, colla sola presenza.
Quando udirono Garibaldi in Calabria, gli ispiratori di Torino che
avevano fino a quel giorno mandato consigli d'indugi illimitati e
prudenza, mandarono a un tratto consiglio di fare, di fare
immediatamente, prima dell'arrivo di Garibaldi, tanto che il merito
della vittoria non si concentrasse su lui, e un governo provvisorio
d'uomini devoti a Cavour rendesse inutile la di lui dittatura.
S'indirizzavano al Comitato dell'Ordine, e non potevano quindi
riuscir nell'intento. La dittatura di Garibaldi fu proclamata. Il
Sud, da Capua, Gaeta e Messina in fuori, era libero. Uomini nostri,
di provata energia, posti dal Dittatore a capi delle provincie,
spaventavano i miseri avanzi d'una reazione che non s'attentò di
mostrarsi, se non quando l'elemento cavouriano, prevalendo pur
troppo nel ministero, li allontanò.
Anche una volta io domando: in Napoli, nell'insurrezione di
provincie capitanate dai nostri, sorse un solo grido, un solo
suggerimento repubblicano? Provocò la nostra condotta un solo
fondato sospetto di secondi fini, d'ostilità al governo del re?
E nondimeno, a noi, ai nostri amici, agli amici di Garibaldi, a
Garibaldi stesso fu mossa dagli uomini di Cavour tale una guerra da
far parere la conquista di dieci milioni d'uomini alla libertà un
fatto di sciagura e terrore: guerra d'insidie e calunnie, di
minaccie e di bassi raggiri, che i cittadini di Napoli, ai quali era
di giorno in giorno, d'ora in ora, visibile, attesterebbero tutti, e
che i lontani non potevano, non che intendere, sospettare. A udire i
governativi, la dittatura emancipatrice era la rovina d'Italia. E a
conchiuderla, a torre di mano il potere di continuar l'impresa
all'uomo che solo aveva potere di compierla e che s'accingeva a
compirla per essi, si diedero a predicare furenti, essi che non
avevano accettato l'annessione delle provincie centrali se non
forzati, l'annessione immediata. E a persuadere le povere aggirate
popolazioni che senza quella erano perdute, il sistema adottato fu
questo: creare l'anarchia per attribuirla alla Dittatura. Prima, gli
uomini del ministero Conforti, dai quali Garibaldi, incredulo per
generosità d'animo ad arti siffatte, e sdegnoso di piccole guerre,
non seppe emanciparsi; poi il Pallavicini, più aggirato, credo, e
povero d'intelletto che aggiratore, s'adoprarono, senza un pensiero
ai gravi mali che potevano seguirne, intorno al triste programma. Né
io tesserò quella misera, vergognosissima storia degli uomini
fiacchi ed inetti sostituiti ai scelti da Garibaldi nelle provincie
— dell'indifferenza deliberatamente adottata verso i primi indizi di
riazione — della bassa guerra mossa a Bertani, a Crispi, alla
Segreteria, a quanti uomini indipendenti afforzavano la Dittatura —
della sistematica inesecuzione d'ogni ordine di Garibaldi — del
nessuno aiuto prestato ai volontari che stavano sotto Capua e
peggio, dei materiali da guerra, e munizioni, e viveri lasciati
mancare per disegno ai nostri, tanto che il popolo imparasse a
credere impossibile a Garibaldi la presa di Capua — delle ridicole
sommosse pagate a tentare d'impaurirci e allontanarci da Napoli —
delle opposizioni continue mosse ad arte al soldato dittatore per
mettergli noia, stanchezza e sconforto nell'anima. La dimentichino
gl'Italiani fino all'emancipazione di Venezia e Roma; poi, quando
dovranno svolgere il problema della libertà, la ricordino per
impararvi ad essere meno creduli e a meglio conoscere gli uomini che
cercheranno allora travolgerli come li travolsero in quel periodo.
Quell'armi non erano da noi e non le raccogliemmo dal fango.
Tacemmo, sprezzammo; non pensando che a una sola cosa, andar oltre.
E vi costringemmo il governo. È fatto reso ormai innegabile dai
documenti officiali pubblicati recentemente in Inghilterra ed in
Francia.
Il tentativo, fatto da noi e impedito dal governo, d'invadere
l'Umbria e le Marche, appoggiato come s'era sull'interna
organizzazione di quelle provincie, avea lasciato, nel fermento e
nell'aspettanza degli animi, un addentellato a moti futuri e
prossimi. S'era detto a quei poveri tormentati: verremo; ed essi
aspettavano di giorno in giorno gli aiuti promessi, e presti a
prorompere. A un tratto, Garibaldi annunziò ad amici e nemici, a
diplomatici e non diplomatici, ch'ei, lasciandosi dietro Gaeta,
marcerebbe, dopo brevi giorni, difilato su Roma. Ed era non
solamente opera santa e debito degli Italiani armati, ma ottima
operazione militare, dacché troncava le comunicazioni di Gaeta colla
sua base d'operazione ch'era, come lo fu per mesi, d'ogni tentativo
o raggiro di riazione, Roma.
L'annuncio — e non altro — determinò il governo all'invasione, che
gli valse fama d'ardito. Non fu che il coraggio della paura. Poco
importa se gli Umbri e i Marchigiani scelgano oggi d'essere ingrati;
essi devono a noi la loro liberazione. Senza Garibaldi, e i suoi
volontari, essi sarebbero tuttavia schiavi di Lamoricière e del
papa.
Se noi — diceva il conte Cavour, dopo aver preso gli ordini del re,
al barone di Talleyrand — non siamo alla Cattolica prima di
Garibaldi, noi siamo perduti: la rivoluzione invade l'Italia
Centrale. Noi siamo costretti ad agire. Disp. del 10 settembre 1860.
Collezione officiale parigina.
Il sig. Farini ... ha esposto all'imperatore, (in Chambéry).... la
posizione molto imbarazzante e pericolosa, in cui il trionfo della
rivoluzione, personificata in certo modo da Garibaldi, minacciava di
porre il governo di S. M. Sarda.... Garibaldi stava per proseguire
liberamente il suo cammino attraverso gli Stati Romani, sollevando
le popolazioni, e, varcato questo confine, diventava affatto
impossibile l'impedire un attacco contro Venezia. Al gabinetto di
Torino non rimaneva più che un mezzo, col quale volere scongiurare
tale eventualità: ed era d'entrare nelle Marche e nell'Umbria,
appena l'arrivo di Garibaldi v'avesse suscitato dei torbidi, e di
ristabilirvi l'ordine, senza toccare l'autorità del papa, di dare,
se bisognava, una battaglia alla rivoluzione sul territorio
napolitano, e di chiedere immediatamente ad un Congresso la cura di
stabilire le sorti d'Italia. Circol. Thouvenel, 18 ottobre 1860.
Collezione idem.
La bella impresa, che dava dieci milioni d'Italiani liberi al re,
chiamata con terrore Rivoluzione, l'identificazione di Garibaldi con
essa, la determinazione di dargli battaglia s'ei persistesse, la
condanna di Venezia, la servile dichiarazione che un congresso di re
stranieri statuirebbe intorno alle sorti d'Italia; ipocrisia,
abbiezione, aristocrazia di settari spinti dalla mala fortuna
d'Italia al potere, e negazione del diritto italiano, e
ingratitudine nera verso l'uomo, al quale la monarchia va debitrice
de' suoi trionfi, tutto quanto può idearsi d'ostile alla libertà e
alla nazione, è condensato in questi dispacci che sarebbero, se nei
chiamati a rappresentare il paese vivesse coscienza di dovere e di
popolo, base più che sufficiente a un atto d'accusa. E rimangano,
perchè i posteri arrossiscano della nostra pazienza, e cancellino la
macchia colla dignità degli atti e colla santità della fede.
Io sapeva queste cose; e ricordo d'aver scritto in quei giorni a
Garibaldi, ch'era in Caserta, da Napoli: se tra una settimana voi
non siete in piena mossa su Venezia e su Roma, fra, venti giorni la
vostra iniziativa è perduta..
E lo fu. Contro tutta la turba dei raggiratori governativi,
Garibaldi avrebbe saputo resistere: cesse all'insistenza del re. A
me il sagrificio generoso parrebbe inconsciamente colpevole verso la
patria, se non credessi il romito di Caprera tal uomo da ridestarsi
come leone dopo il riposo e compire la propria interrotta missione.
III(17)
Da questo rapido sommario dei fatti passati, sommario che i
governativi potranno assalire d'ingiurie, non confutare, gli
Italiani d'onesta fede e di non corrotto intelletto dedurranno:
Che mancano ai reggitori officiali del moto nazionale italiano
virtù, potenza, intenzione d'iniziativa:
Che l'annessione delle provincie centrali, l'emancipazione della
Sicilia e quella delle terre napolitane, furono fatti compiti dai
buoni istinti del paese, dall'azione degli uomini sciolti da ogni
vincolo governativo, da Garibaldi che diede ad essi unità di moto,
coscienza di sé, direzione, entusiasmo; e che l'invasione
emancipatrice dell'Umbria e delle Marche fa comandata al governo
dall'opere nostre e dalla minaccia di Garibaldi:
Che in tutte quelle conquiste, gli uomini di fede repubblicana o
educati alle virtù patrie nelle nostre file, furono parte principale
dell'azione e della vittoria:
Che i repubblicani mantennero intatta, attraverso calunnie,
delusioni ed ingratitudini, la data promessa di servire lealmente al
voto della maggioranza della nazione e per l'unità della patria,
purché la monarchia non ne diserti la sacra bandiera:
Che il sagrificio delle individualità alla concordia, parola
menzognera negli avversi, fu ed è tuttavia realtà di fatto per essi:
Che tattica perenne del governo fu di sostare a ogni passo,
d'inceppare ogni passo ulteriore, poi di giovarsene quand'altri, suo
malgrado, lo compia:
Che oltre all'altre ragioni — diffidenza innata del popolo:
aborrimento dall'armi non regolari, gelosia meschina di qualunque
non soggiaccia ciecamente devoto alla loro consorteria, inferiorità
intellettuale all'impresa e ispirazione più dinastica che nazionale
— causa precipua di quella tattica e piaga perenne d'Italia, finché
quelli uomini durino, è il loro servile ossequio alla volontà
dell'antico alleato convertito in padrone. Che Roma e Venezia non
saranno emancipate e la grande opera dell'unità nazionale non sarà
compita, se non per iniziativa di popolo che trascini, voglia o non
voglia, sulla via dell'azione il governo.
Il governo, dicono, pensa a Venezia: lasciatelo fare. Il governo
conquisterà il Quadrilatero dall'Ungheria. E sognano di gigantesche
cospirazioni slavo-magiare capitanate da Cavour, di spedizioni
consentite dal governo sulle spiaggie illiriche, di Garibaldi
mandato a sollevare le popolazioni slave del sud, a dirigere
l'insurrezione ungarese e, dissolvendo l'impero, troncare fuori
d'Italia il nodo della Venezia.
Cavour, non v'ha dubbio, s'ei sapesse che Garibaldi e i suoi sono
alla vigilia d'operare in Italia e non avesse altro modo per
impedirli, suggerirebbe l'impresa ungarese. Garibaldi e i migliori
tra gli ufficiali dei volontari fuori d'Italia, lascerebbero il
paese sospeso, immoto, ad aspettare norma e salute dai bollettini
della Transilvania. La loro vittoria darebbe il Veneto, senza
pericoli e sagrifìcii, alla monarchia; e la loro disfatta sarebbe la
disfatta della rivoluzione personificata in certo modo in Garibaldi
e alla quale i governativi si preparavano, nel settembre ultimo, a
dar battaglia.
Ma le piaggie orientali dell'Adriatico sono popolate d'elementi in
parte naturalmente indifferenti e che rimarrebbero inerti, in parte
favorevoli al moto, ma diffusi a piccoli nuclei su lunga e ristretta
zona e incapaci di prestare aiuto efficace a chi deve rapidamente
varcarla e andar oltre. E per sollevare popolazioni più importanti è
mestieri trapassar la Croazia. E le vie ferrate concentrerebbero in
Agram copia di forze imperiali, prima che i nostri potessero
giungervi. Una spedizione debole, come quella di Marsala, sarebbe
quindi follia; una spedizione imponente non potrebbe aver luogo,
senza dar agio visibile al governo per impedirla — e sarebbe
impedita. La tolleranza del fatto sarebbe una dichiarazione di
guerra all'Austria, che il governo non può fare senza assalire di
fronte.
Poi, l'insurrezione ungarese e i nostri si troverebbero
probabilmente schiacciati — se il moto veneto non sorgesse
simultaneo a smembrare le forze nemiche — tra il grosso
dell'esercito austriaco e un esercito russo. E lontano Garibaldi,
lontani i più arditi e i più noti fra i capi dei volontarii, la
tendenza naturale a interpretare la lontananza come cenno di non
agire, persuaderebbe facilmente i Veneti a star fermi e attender gli
eventi.
Intanto l'Italia — e segnatamente l'Italia Meridionale — rimarrebbe
campo schiuso alle meditate usurpazioni bonapartiste. E l'intervento
diretto degli Italiani al di là delle loro frontiere porgerebbe il
pretesto.
Voi avete oggi, o Italiani, una potente base d'operazione. È
l'Italia. Non vi smarrite in cerca d'un'altra. Le insurrezioni che
bramate, sorgeranno al primo vostro assalto sul Veneto. L'Ungheria
seguirà il vostro moto, e avrete l'Austriaco smembrato fra due
nemici. L'impresa attraverso l'Adriatico poteva compirsi, quando
Garibaldi era padrone del Sud e il suo esercito non era disciolto:
oggi, essa non può essere che operazione secondaria. Mirate a
Venezia. Là stanno i fati delle popolazioni aggiogate sotto l'impero
e di quelle che s'agitano sotto il Turco.
Il governo, ripetono gli uomini che tendono ad illudervi e ad
esimersi dall'azione, tratta per Roma: l'avremo a patti.
Forse; ma sapete a quali?
Io lo dirò, come vi dissi, non creduto, i patti, verificati poi, di
Plombières.
Colla cessione, negata al solito da Cavour e nondimeno già stipulata
della Sardegna e coll'obbligo di cooperare attivamente ai disegni
dell'imperatore francese sul Reno e al buon esito della sua politica
nell'Oriente.
Son queste le basi sulle quali stanno trattando Luigi Napoleone e
Cavour.
Se mai poteste accettarle, o Italiani — se appena sòrti a vita di
popolo indipendente poteste far della patria vostra sgabello alle
conquiste del dispotismo — se poteste contaminare il sacro nome di
Roma e la bandiera della nazione, cacciando i vostri militi a
combattere, come satelliti d'un padrone straniero, i compatrioti di
Vincke o a spegnere a benefizio d'un Tsarismo Franco-Russo-Europeo i
germi di vita spontanea, che stanno crescendo tra le popolazioni
Slave, Rumane, Elleniche della Turchia — io v'augurerei di rimaner
quali siete. Meglio non aver libertà, che averla e disonorarla(18).
No; Roma e Venezia non vi saranno date, per modo che voi possiate
accettarle senza scadere, né da Luigi Napoleone, né dal vostro
governo, né da congressi europei. Voi non le avrete, se non
volendole e meritandole.
Italiani, voi siete ora un popolo di ventidue milioni. Voi siete
liberi e forti. I vostri giovani hanno dimostrato d'essere prodi. Il
vostro esercito ha combattuto e vinte battaglie d'indipendenza.
Avete mezzi di difesa e d'offesa tra l'alpi e il mare, quanti
bastano a fare rispettata la volontà vostra, purché voi cominciate
dal rispettare voi stessi. I popoli d'Europa salutano in voi
l'iniziativa ch'altri, per propria colpa, ha perduta e guardano con
favore e speranza a ogni vostro passo, indipendente da chi è
meritamente sospetto a tutti, sulla via del futuro. Non v'è più
concesso dimostrarvi codardi. Non potete disonorare colle fiacchezze
del servo, la terra ove Garibaldi nacque e avrà sepoltura.
In nome di Roma, e pensando ai miracoli di coraggio e di sagrificio
che santificarono dodici anni addietro Venezia, siate uomini: escite
d'infanzia.
E infanzia è aspettare servilmente la decisione dei vostri fati
dall'alto, da un re, da un ministro, da un individuo qual ch'ei si
sia, come se ventidue milioni d'uomini non fossero padroni di sé
stessi e non potessero trascinarsi dietro re, ministri e individui,
di qualunque nome si chiamino: infanzia l'affacendarsi dietro alle
parole d'ogni ambasciatore o uomo di Stato straniero, come se i
fatti non vi mostrassero aperto che voi siete già a quest'ora
padroni di volgere la diplomazia sulla via del giusto, come più
v'aggrada: infanzia il non intendere che a far sì, che il diritto
nostro sia riconosciuto, importa ne riveliate coscienza
coll'associarvi, coll'esprimere ciò che volete, coll'opporvi
virilmente a qualunque violazione della vostra libertà,
coll'eleggere a vostri rappresentanti, non gli uomini che il governo
v'addita, ma quei che la mente e il core v'additano e che sono più
indipendenti da esso: infanzia lo spendere l'obolo vostro in
medaglie, spade d'onore e testimonianze a chi cerca ben altro da voi
e non consacrarlo unicamente alla Cassa Emancipatrice di Roma e
Venezia: infanzia il non intendere che voi non potete aver Roma, se
non per forza d'armi o d'opinione universalmente manifestata, e
quindi il non firmare a migliaia, a centinaia di migliaia gli
indirizzi al parlamento vostro e all'Europa, per l'allontanamento
delle truppe francesi: infanzia, o miei fratelli di fede,
l'accettare dalla volontà popolare un programma e, invece
d'esaurirlo rassegnatamente e logicamente, dolervene a ogni tanto e
adirarvene, e irritare per nulla gli avversi: infanzia, o moderati,
il sapere che noi abbiamo potenza non foss'altro di costringervi a
movere innanzi e non farlo spontaneamente e resistere: infanzia e
peggio, o Italiani quanti siete, il sapere che Napoleone è avverso
alla nostra unità, e per non so quale macchiavellismo adulatore
tacerlo; il sapere che Cavour gli è servo, e non dirlo; il sapere
che sta in vostra mano assicurarvi contro il primo e costringere il
secondo a mutare o ritrarsi, e non farlo.
A voi gli adulatori per fini proprii non mancano. Io non ho che un
fine: l'Italia una, libera, grande. Canuto e stanco, perduti per la
morte del corpo o per la morte dell'anima tutti i miei antichi
amici, e sicuro dei pochi nuovi, io non temo né spero da cosa
alcuna, da persona alcuna, nel mondo. Lasciate ch'io vi dica la
verità.
Voi siete oggi da meno dei vostri padri: da meno dei vostri fati: da
meno di quel che sarebbe ogni altro popolo, nelle circostanze
vostre, colla vostra potenza.
Voi non rivelate ancora coscienza d'uomini liberi e d'Italiani. La
vostra emancipazione si compie per forza di fati e per iniziativa di
pochi fra voi, non per opera unanime, collettiva, per sagrifìcio di
tutti, per quel moto spontaneo, irresistibile d'entusiasmo popolare,
che consacra irrevocabili le conquiste rapidamente compite. Non vive
finora in voi l'unità del pensiero e dell'azione.
Voi avete lasciato compire senza protesta l'ignobile transazione di
Villafranca, quando l'alleato straniero ebbe, in premio della pace
subitamente concessa, la Lombardia dal padrone straniero e la
trasmise con piglio feudale al re che acclamate. E uditene le
conseguenze possibili nel linguaggio insolentemente minaccioso del
ministro straniero, consegnato in un dispaccio non avvertito, a
quanto io mi so, dalla nostra stampa e grave di sinistre intenzioni:
La Francia — rispondeva Thouvenel a chi gli notava, in nome
dell'Inghilterra, l'imperatore avere assunto obbligo solenne di
mantenere il Piemonte in possesso della Lombardia — la Francia non
ha obblighi verso l'Italia se non quelli che scendono dal trattato
di Zurigo. Con quel trattato l'Austria ha ceduto la Lombardia alla
Francia, e la Francia la diede al re sardo. Ma l'Austria, avendo
ceduto per trattato la Lombardia alla Francia, la mala condotta del
Piemonte non può invalidare gli obblighi dell'Austria verso la
Francia. Se quindi le sorti della guerra ricollocassero la Lombardia
in possesso temporario dell'Austria, quest'ultima dovrebbe darne
conto alla Francia e lo farebbe di certo con lealtà. La Francia e
l'Austria considererebbero allora il da farsi della Lombardia, e non
posso dire qual decisione verrebbe presa. Disp. Cowley a lord J.
Russell. Sett-12-1860. Collezione-officiale inglese.
Voi avete lasciato compire senza protesta il turpe mercato di Nizza
e Savoia, lo smembramento della vostra terra. Però, siete minacciati
di perdere quandoché sia la Sardegna: e si vendevano, dì sono, fatto
moralmente gravissimo, per quattro milioni di franchi, parecchie
migliaia d'Italiani in Mentone e Roccabruna.
Voi avete, per dodici anni, lasciato prolungarsi senza protesta il
soggiorno dei soldati stranieri in Roma. Però, i senatori
dell'impero parlano oggi della vostra Metropoli, come di terra o di
merce francese.
Quanto si compie nella patria vostra è anch'oggi questione di fatto
che altri fatti possono mutare domani. Voi non avete ancora
potentemente, universalmente affermato il Diritto Italiano.
A questa affermazione, per quanto avete di più caro e sacro, o
Italiani, io vi chiamo. I trenta, i cinquanta mila volontari non
potevano che darne il programma. A voi tutti, milioni d'uomini
liberi, spetta farlo vostro e suggellarlo inviolabile, irrevocabile.
L'Europa non aspetta che la vostra manifestazione per accettarlo.
E questa manifestazione dev'essere triplice: Voi dovete:
Protestare ora unanimi da un capo all'altro d'Italia contro
l'occupazione di Roma e chiederne il termine:
Armarvi:
Assalire l'Austria nel Veneto.
Voi aspettate Garibaldi. Ma non vi disse Garibaldi ch'egli aspettava
da voi 500,000 uomini in armi nella primavera? Son essi pronti?
V'adoprate a raccoglierli? Io vedo l'opera dei Comitati di
Provvedimento procedere languida e meno efficace d'assai e più
incerta, che non nell'anno passato. Roma e Venezia son dunque nomi
meno sacri di Palermo e Napoli? Non deve accrescersi la vostra vita
della vita di dieci milioni d'uomini che vi sono oggi fratelli?
Mancano i mezzi, voi dite: i mezzi a ventidue milioni d'uomini? No;
manca il fermo volere; manca la coscienza del supremo dovere che
v'incombe compire e che dovrebbe assorbire in sé per un anno ogni
altro vostro pensiero; manca — e non ne intendo sulla nostra terra
il perchè — quel senso pratico che nulla dimentica, che nulla
trascura, che si giova d'ogni opportunità, che ordina e concentra
tutte le forze, che divide il lavoro fra gli uomini che le
rappresentano, che non concede a una idea generosa di sperdersi e
svaporare in parole inutili, ma la traduce silenziosamente in
azione. I mezzi? Chi tra voi, o Italiani, non vuole Venezia e Roma?
Date ciascuno la meschina somma d'un franco, e avrete la Cassa
Emancipatrice. Date ciascuno il nome a un indirizzo per
l'allontanamento delle truppe straniere da Roma e solleverete
l'opinione di tutta Europa a pro vostro. Appoggiate con una
gigantesca manifestazione quei tra i vostri rappresentanti, i quali
chiederanno al Governo l'armamento della nazione, secondo le norme
svizzere, e l'otterrete. E intanto, armatevi, addestratevi da per
voi. Chi vi vieta di raccogliere tanto danaro che basti per un
locale, e due o tre carabine, e istituire un tiro in ogni città, in
ogni grossa borgata? Chi vi vieta, o giovani, d'organizzarvi
militarmente fra voi, tanto da poter dire a Garibaldi: voi avete qui
cinquanta, cento, duecento uomini pronti a seguirvi? Tre commissioni
speciali, una per raccogliere firme agli indirizzi del popolo,
un'altra per raccogliere il denaro d'Italia, la terza per
l'ordinamento militare e l'impianto dei tiri, istituite in ciascuna
città importante e che consecrassero, colla carta della provincia
sott'occhio, tutta la possibile attività esclusivamente all'intento
prestabilito; e pochi viaggiatori di località in località,
basterebbero all'uopo. Oggi, v'è confusione di lavoro. I comitati
s'assumono troppo e troppo diverse faccende. Gli elementi delle
associazioni sono affastellati. Il riparto del lavoro è negletto, e
una vasta somma di forze è, per questo difetto, sprecata.
Io scrivo da una terra, dove la lentezza nel decidersi a fare, è
abitudine e vizio dell'intelletto, ma dove quelle norme pratiche
sono viscerate in ogni uomo e la coscienza che le cose del paese
possono e devono spesso maneggiarsi dal paese stesso, predonima la
mente dei cittadini. E lasciate ch'io ne raccolga un esempio per
voi.
Io non citerò ciò che l'Inghilterra, l'Inghilterra-popolo, non
governo, fece nel 1803, quando il primo Bonaparte le intimò guerra.
Non dirò i 335,000 volontarii che accorsero a offrirsi, i capi dei
Comuni scesi in piazza essi medesimi col tamburo a raccoglierli, le
chiese, i teatri convertiti in caserme, i vecchi diventati costabili
o ufficiali di polizia, per mantenere l'ordine nelle città, e dar
campo ai giovani di movere ad affrontare il nemico, i 40,000
volontari dati dalla sola città di Londra, popolata allora d'un
milione soltanto. E nondimeno, la dichiarazione di guerra è per noi
oggi perenne dallo straniero: Roma e Venezia stanno nelle sue mani.
Ma darò ad esempio l'ordinamento spontaneo dei volontarii nel 1859.
Il solo timore che l'imperatore francese meditasse una guerra da
iniziarsi a tempo incerto a danno dell'Inghilterra, lo suscitò. Il
governo — non temendo, perchè arrendevole ai desideri del popolo,
cosa alcuna dall'armarsi del paese — dichiarò solamente essere
diritto d'ogni cittadino prepararsi a respingere una invasione. Il
moto escì dal paese. Riunioni pubbliche ebbero luogo su molti punti:
e vi fu decretato l'armarsi. Aperta l'iscrizione pei volontarii,
quei che avevano mezzi si presentarono coll'armi e l'uniforme; i
privi di mezzi, ma volonterosi, diedero il nome all'ordinamento,
come pronti a combattere appena le associazioni o il governo
darebbero l'armi; gli altri si affaccendarono a raccogliere
sottoscrizioni. Le compagnie si formarono, ed elessero generalmente
i loro ufficiali. Gli istruttori s'offrirono gratuiti o furono
retribuiti dalle casse comuni. Gli operai entrarono a parte del
moto, non chiedendo se non di ricevere armi e uniforme da pagarsi
con una serie di versamenti settimanali. Cento cinquanta mila
volontarii sono oggi ordinati ed armati; e quel numero va crescendo
ogni giorno.
Ordinatevi e armatevi, o Italiani; il governo, quand'esso non miri a
tradirvi e non lo riveli, non può ricusarvi assenso e favore,
E armati, assalite l'Austriaco sul Veneto. Potete voi ideare una
guerra liberatrice, iniziata sul Veneto e capitanata da Garibaldi,
senza che il governo e l'esercito regolare siano costretti a
seguirne l'impulso?
Son questi i consigli che danno ai loro fratelli di patria i
repubblicani. Io ho ricordato la parte ch'essi ebbero, nel primo e
nel secondo periodo del moto, quasi pegno di quello ch'essi faranno
nel terzo.
Come sul cominciamento del moto, essi accettano dalla maggioranza
del popolo la formola: Italia e Vittorio Emanuele; purché l'Italia
sia una, e Vittorio Emanuele non si separi dalla nazione. Roma e
Venezia sono oggi il se no, no della loro adesione: Roma e Venezia,
non a patti immorali e disonorevoli, ma in nome e in virtù del
Diritto Italiano. La cessione d'un palmo di terra italiana, il
tentativo di secondare guerre usurpatrici del despotismo sul Reno o
altrove, l'opposizione aperta — e diciamo generosamente aperta,
perchè l'opposizione celata, esiste pur troppo fin d'ora, ma
superabile dagli Italiani — agli istinti e alle necessità che
chiamano gli Italiani a Venezia e a Roma, romperebbero ogni
alleanza, e ci richiamerebbero alla prima nostra bandiera.
Londra, 1 marzo 1861