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Gramsci e Bordiga alle origini del comunismo italiano
PRIMA PARTE
aprile 2000, a cura di Giorgio Amico
Che la guerra portasse in se i germi della rivoluzione era pacifico
per il movimento operaio di inizio secolo. La stessa esperienza
eroica della Comune di Parigi stava a testimoniarlo. Quello che il
marxismo economicistico della Seconda Internazionale non poteva
prevedere era che la "vecchia talpa" scegliesse per riapparire un
paese arretrato come la Russia, da sempre considerato il più
munito bastione dell'assolutismo. Naturale, dunque, lo sconcerto dei
riformisti che, Kautsky in testa, tentano di ridurre la portata
degli avvenimenti allo specifico russo, negandone la
traducibilità in Occidente. Altrettanto naturale l'entusiasmo
con cui in tutta Europa una generazione di giovani, formatasi
nell'esperienza sanguinosa della guerra, saluta nell'Ottobre
l'annunciarsi di una nuova epoca che risponde con la chiarezza
suggestiva dei fatti concreti ad una serie di interrogativi e di
problemi che sul campo teorico parevano insolubili e che ora la
critica delle armi scioglie vittoriosamente(1). E' la Russia
arretrata a porre all'Occidente avanzato il problema della
rivoluzione nei termini storicamente concreti del bolscevismo. "La
visione della rivoluzione russa e il clima del dopoguerra italiano -
scrive uno dei protagonisti di quegli anni - ci parevano annunziare
una rivoluzione prossima anche in Italia, che bisognava preparare e
far trionfare (...) E i dissensi che si manifestarono poi (...)
furono dissensi sul modo e sulle istituzioni che potevano
assicurarci la vittoria."(2)
In un partito tradizionalmente zeppo di "professori" e di
intellettuali autorevoli come il PSI, sono due giovani, il
ventiseienne Antonio Gramsci e il ventottenne Amadeo Bordiga, a
tentare una interpretazione complessiva dei fatti russi che possa
fungere da guida per una rivoluzione considerata imminente. I due
vengono da esperienze diverse e hanno storie diverse alle spalle.
Bordiga è già dalla fine del primo decennio del 1900
un leader affermato dei giovani socialisti, capace nel 1914 di
contrapporsi da pari a pari a un Mussolini avviato sulla via del
tradimento. Gramsci è un intellettuale dalla vastissima
cultura, ma dalla scarsa esperienza politica, quasi sconosciuto al
di fuori di Torino. Anche l'approccio al marxismo dei due è
diverso: fortemente intellettuale quello di Gramsci filtrato
attraverso Bergson, Sorel, Croce; deterministico, con forti venature
positivistiche, quello di Bordiga.
Coerentemente con la sua formazione Gramsci vede nell'operato di
Lenin e dei bolscevichi una forzatura volontaristica del
determinismo economico marxiano e lo saluta come una positiva
rottura delle "incrostazioni positivistiche e naturalistiche" della
vulgata marxista. E' una interpretazione ancora fortemente intrisa
di idealismo che riecheggia la polemica antideterministica del
Mussolini socialista rivoluzionario e che evidenzia non solo un
entusiastico consenso, ma anche la volontà di interpretare la
esperienza russa in un modo più prossimo alla propria
esperienza che allo svolgimento obiettivo dei fatti.(3)
Completamente diverso l'approccio di Bordiga, interessato più
di ogni altra cosa a dimostrare come il bolscevismo rappresenti una
conferma piena del marxismo. Per Bordiga in Russia si è
celebrato il trionfo definitivo del Manifesto del partito comunista e in generale
della strategia marxiana del 1848, incentrata sul dialettico
intrecciarsi di istanze democratico-borghesi e aspirazioni
proletarie: "La chiave della situazione russa - egli scrive - sta
nel gioco di queste due grandi correnti suddivise in molte
sfumature, che, alleate di fatto finché il comune nemico era
in piedi, si rivelano all'indomani del trionfo sul vecchio regime
opposte ed antitetiche, storicamente inconciliabili (...) Si
comprende che i socialisti lavorano all'attuazione di un programma
dalle linee semplici e grandiose, - quello stesso del Manifesto dei comunisti -
cioè la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di
produzione, mentre procedono logicamente e conseguentemente a
liquidare la guerra".(4)
Mentre il pensiero di Bordiga può dirsi già definito
nelle sue strutture portanti, il marxismo di Gramsci risente ancora
fortemente di quell'attivismo che nell'ottobre 1914 lo aveva
collocato a fianco di Mussolini a sostenere la teoria della
"neutralità attiva e operante". Se allora i rivoluzionari
erano definiti come coloro che "concepiscono la storia come
creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di
strappi operati sulle altre forze attive e passive della
società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per
lo strappo definitivo (la rivoluzione)",(5) ora i bolscevichi
diventano coloro che "rinnegano Carlo Marx, affermano con la
testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che
i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come
si poteva pensare e si è pensato". Coloro che "vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la
continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in
Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e
naturalistiche". Per cui "massimo fattore di storia" non sono "i
fatti economici, bruti", ma è la volontà degli uomini
"motrice dell'economia, plasmatrice della realtà oggettiva,
che vive e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in
ebullizione, che può essere incanalata dove alla
volontà piace, come alla volontà piace".(6)
Un Gramsci, dunque, socialista rivoluzionario, ma non ancora
compiutamente marxista, fortemente influenzato da tendenze
bergsoniane, idealistiche, salveminiane e anche mussoliniane(7) che
confluiscono in uno storicismo attivistico destinato a durare a
lungo nonostante la pur positiva evoluzione successiva e a
condizionare negativamente il suo concreto agire politico. Un
elemento da non sottovalutare, se si vuole meglio comprendere il
ruolo tutto sommato secondario che egli gioca nella preparazione di
Livorno. "Quella sua, - nota Giuseppe Berti - sia pur passeggera,
crisi 'interventista', quindi, non fu una bazzeccola perchè
gli impedì di ritrovare il leninismo già in Zimmerwald
e Kienthal. In questo egli ritardò non soltanto nei confronti
dei bolscevichi, ma nei confronti degli stessi socialisti
internazionalisti italiani, di Serrati, di Bordiga, di Terracini, di
Tasca e delle migliaia di modesti militanti socialisti che prima in
una posizione neutralistica, e poi in una posizione di lotta
più esplicita e chiara, sin dal 1914-15 presero posizione
contro la guerra".(8)
Gramsci e Bordiga nel biennio
rosso: tattica astensionista e consigli operai
L'eco della rivoluzione russa unita alla disfatta di Caporetto mette
a nudo l'ipocrisia del "né aderire, né sabotare". In
una riunione della sinistra rivoluzionaria (Firenze, 18 novembre
1917) Bordiga è l'unico ad avanzare apertamente l'ipotesi di
una decisa azione rivoluzionaria.(9) Gramsci tace e Serrati ha buon
gioco a mantenere la sinistra del partito al'interno del
tradizionale gioco delle correnti che da sempre connota il
socialismo italiano. Bordiga, che pure non ha più illusioni
sulla recuperabilità a fini rivoluzionari del PSI,(10) nei
fatti agevola questo tentativo. Infatti, l'intransigenza con cui
egli pone la pregiudiziale astensionista rappresenta un serio
ostacolo alla formazione immediata di una unica frazione comunista.
"Era certezza in Bordiga - scrive il "milanese" Fortichiari - di
poter uscire dal ristretto e deformante ambito del Sud per estendere
ai principali centri di Italia la corrente che egli animava. Questo
calcolo gli fece minimizzare il peso dei gruppi della sinistra
socialista sfavorevoli alla sua pregiudiziale; egli propendeva, in
fondo, ad una selezione intransigente senza tener conto dell'urgenza
degli avvenimenti"(11). E' un'osservazione corretta, Bordiga mostra
di non dare soverchia importanza alla questione dei tempi e di non
comprendere come in quella fase il problema dell'astensionismo
rappresentasse un elemento di fatto secondario in una corretta
strategia rivoluzionaria.(12) Almeno fino a tutto il 1920
resterà così irrisolto il nodo vero, rappresentato dal
centrismo di Serrati a cui l'intransigenza di Bordiga va in
definitiva ad offrire un comodo alibi.(13)
Oltre alla Russia anche la forte ascesa delle lotte operaie
costringe i rivoluzionari del PSI ad andare oltre il vuoto
rivoluzionarismo verbale del partito. L'ondata operaia che tocca il
suo culmine nell'aprile del 1920 con lo "sciopero delle lancette",
non va solo diretta politicamente, ma anche compresa teoricamente,
pena il riflusso e l'avanzata della reazione. E' una lotta contro il
tempo che i rivoluzionari perderanno, tanto che l'occupazione delle
fabbriche si svolge già interamente nel segno del riflusso.
Se nella sinistra rivoluzionaria tutti sostengono la
necessità della generalizzazione delle lotte, ci si divide su
chi debba assicurare la guida degli scioperi. A Torino il gruppo de
l'Ordine Nuovo punta tutto sul ruolo dirigente dei consigli operai
assimilati ai soviet russi. Gramsci intende fare del soviettismo la
base per il rinnovamento rivoluzionario del PSI e della CGL e il
motore stesso della rivoluzione proletaria in Italia e ciò a
partire dalla trasformazione delle commissioni interne, concepite
come "embrione di soviet", in consigli di fabbrica. Il tutto con una
oggettiva sottovalutazione non solo del ruolo del partito ridotto a
mero coordinatore di un movimento dei consigli destinato a
svilupparsi con dinamiche proprie, ma anche della tradizionale
funzione di coordinamento territoriale delle istanze di fabbrica
svolto dalle Camere del Lavoro.(14)
Su queste posizioni Gramsci è isolato, tanto da essere messo
in minoranza all'interno dello stesso gruppo dell'Ordine nuovo. Dal
canto suo, Bordiga gli rimprovera di credere "che il proletariato
possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre
ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico" e
di contrapporre un organo che non può che essere di natura
parziale all'unico possibile strumento generale di liberazione del
proletariato, il partito di classe. Per il rivoluzionario
napoletano, ancorarsi allo schema dei consigli significa
preoccuparsi della creazione degli istituti del potere socialista
più che della conquista del potere. E' sbagliato, ammonisce
dalle pagine de "Il Soviet", "fare la questione del potere nella
fabbrica anzichè la questione del potere politico
centrale"(15)
La battaglia per il partito
A differenza di Gramsci, Bordiga non crede nel carattere di per se
rivoluzionario dei consigli. Determinante è per lui anche in
questo il ruolo di direzione del partito alla cui costruzione
occorre subordinare qualunque altra preoccupazione. Per questo nel
1920 egli abbandona il tema delle lotte operaie, a cui pure aveva
dedicato grande attenzione nel 1918-1919,(16) per impegnarsi a fondo
nella costruzione nazionale della sua frazione. Elemento del tutto
trascurato da Gramsci che crede nella possibilità di una
spontanea rifondazione in senso classista del PSI proprio a partire
dalle lotte di fabbrica. Ad aprile nel pieno dello "sciopero delle
lancette" redige le sue tesi "Per
un rinnovamento del Partito Socialista". L'esito è
negativo. Le tesi vengono di fatto ignorate dal partito, che anzi
contribuisce fortemente al soffocamento della vertenza.(17) Lo
stesso Serrati, su cui egli ripone non poche speranze, si rivela
sostanzialmente subalterno al gruppo dirigente riformista del PSI e
della CGL che arretra davanti alla richiesta di trasformare gli
scioperi in lotta aperta per il potere.
E' questa sconfitta a spingere Gramsci verso un Bordiga che non
smette di proclamare la necessità di un nuovo partito. del
tutto diverso da quello fondato a Genova nel 1892. Nuovi compiti
attendono il proletariato, occorre un nuovo tipo di militante
comunista, il partito va ricostruito a partire dall'esperienza viva
dell'illegalismo bolscevico: "Noi - denuncia Bordiga - siamo vissuti
nella democrazia borghese: non abbiamo una stanza per nascondere un
compagno, non abbiamo un timbro per falsificare i passaporti, non
abbiamo cose che servano a questo lavoro rivoluzionario. Noi
consideriamo ancora il problema secondo la vecchia mentalità:
le armi il proletariato potrà trovarle, ma il partito manca
di mezzi tattici per l'azione che si chiama illegale; ne manca
completamente perchè si lascia attrarre dalle insidie della
democrazia borghese, che lo sovraccarica di compiti minimi e riesce
così a spezzare la sua azione".(18)
Nonostante le profonde divergenze, i gruppi del 'Soviet' e de 'L'
Ordine nuovo', convergono ormai apertamente contro tutte quelle
forze, massimalisti in primo luogo, che si ostinano a non voler
rompere con una tradizione socialista ormai esausta. Agli inizi del
maggio 1920 Gramsci è a Firenze come osservatore alla
conferenza nazionale della Frazione comunista astensionista.
Nonostante sia colpito dalle dimensioni consistenti raggiunte dalla
Frazione, egli non nasconde le sue perplessità rispetto al
mantenimento della pregiudiziale astensionista, base troppo
"ristretta" per permettere la nascita del partito comunista.(19)
L'occupazione delle fabbriche, con l'aperto rifiuto della direzione
riformista del PSI e della CGL di assumere la direzione della lotta,
è la definitiva conferma di quanto da sempre Bordiga va
enunciando. Senza un forte e compatto partito rivoluzionario non
esiste sbocco possibile ad una situazione che pure è
rivoluzionaria. La lotta per il potere non si esaurisce nella
fabbrica, ma deve investire direttamente lo Stato borghese.
Nell' ottobre 1920, a poche settimane dalla chiusura del Secondo
Congresso dell'Internazionale comunista, si riuniscono a Milano le
componenti della sinistra socialista favorevoli all'espulsione dei
riformisti e alla trasformazione del PSI in un autentico partito
comunista. Bordiga, che a Mosca ha avuto sulla questione del
parlamentarismo un duro scontro con Lenin, rinuncia ufficialmente
alla pregiudiziale astensionista e si dichiara pronto ad accettare
la partecipazione del partito alle ormai prossime elezioni
amministrative. La svolta di Bordiga rimuove i residui ostacoli
sulla via dell'unificazione dei gruppi comunisti. Bordiga, Repossi,
Fortichiari, Gramsci, Terracini, Bombacci e Misiano vengono chiamati
a far parte di un "Comitato provvisorio della frazione comunista del
Partito Socialista" che subito nomina un esecutivo centrale formato
da due astensionisti (Bordiga e Fortichiari) e da un massimalista di
sinistra (Bombacci). L'esito della riunione chiarisce che solo i
bordighiani possiedono un peso tale da supportare nazionalmente
l'azione scissionistica.
Gramsci rientra a Torino pienamente conquistato
all'inevitabilità della rottura, fermamente convinto che se
si intende realmente sbloccare in senso rivoluzionario la
situazione, occorre affidarsi a Bordiga la cui frazione ha ormai
solide ramificazioni un pò in tutta Italia. Ma troppo
è il tempo perso. L'unificazione avviene con il movimento
proletario costretto a difendersi dagli attacchi sempre più
violenti della reazione."Nella fase culmine del dopoguerra - scrive
uno dei protagonisti di quella stagione - la rivoluzione proletaria
non aveva avuto il suo partito e da questi una organizzazione e una
direzione adeguate a tale prospettiva, nè l'opposizione, del
resto assai viva nel PSI, era in grado di sostituirlo in questo
compito dato che i gruppi che facevano capo al Soviet di Napoli
avevano esaurito la loro capacità d'iniziativa in un'azione
infeconda basata sull'astensionismo politicamente troppo
unilaterale, angusto e scarsamente sentito dalle masse, e i gruppi
torinesi degli ordinovisti, chiusi nella città della grande
industria, erano caduti in una fase di scetticismo; falliti i
consigli nella grande prova come organi autosufficienti del
proletariato,erano stati abituati a credere ancora, nonostante
tutto, nel partito socialista e non nella necessità storica
della formazione del partito rivoluzionario"(20).
Si tratta di considerazioni largamente condivisibili.(21) Chi,
appoggiandosi sulla riflessione critica che Gramsci fa nel '24
dell'intera esperienza di Livorno, rimprovera a Bordiga di aver
voluto una scissione minoritaria, mostra di non cogliere la
complessità della fase e la brusca accelerazione dei tempi
dello scontro di classe rispetto ai tempi più lunghi della
politica.(22) Se un appunto va fatto a Bordiga è semmai di
non avere tento conto a sufficienza del fattore tempo. Se un limite
c'è nel partito di Livorno, questo consiste non nella sua
troppo ristretta base di partenza, ma nell'essere nato in ritardo
rispetto ai tempi della rivoluzione, quando il proletariato è
già in piena ritirata sotto i colpi della reazione fascista.
Lenin stesso pare pensarlo, almeno a partire dall'autunno 1920,
quando ricorda ai compagni italiani che il pericolo non consiste,
come pare credere Serrati, nell' indebolimento del PSI a causa
dell'uscita dei comunisti, ma nel sabotaggio della rivoluzione da
parte dei massimalisti prigionieri dei loro scrupoli unitari.(23)
NOTE
(1) "I diversi aspetti ed i successivi episodi di questa rivoluzione
-scrive Bordiga- rispondono con chiarezza suggestiva ad una serie di
punti interrogativi, di problemi che nel campo teorico potevano
seguitare ad essere indefinitamente discussi, ma che la
realtà di oggi e di domani va sistemando e chiudendo per
sempre...". (A. Bordiga, Gli insegnamenti della nuova storia,
Avanti!, 16 febbraio 1918, ora in Storia della sinistra comunista,
vol. 1 bis, Milano 1966).
(2) A. Tasca, I primi dieci anni del PCI, Bari 1971, p. 98.
(3) A. Caracciolo, A proposito di Gramsci, la Russia e il movimento
bolscevico; in AA.VV., Studi gramsciani, Roma 1973, p. 78.
(4) A. Bordiga, La rivoluzione russa, L'Avanguardia, 11 novembre
1917; ora in Storia della sinistra comunista, vol. I, Milano 1964,
pp. 330-331
(5) A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, Il Grido del
Popolo, 31 ottobre 1914; ora in Scritti giovanili 1914-1918, torino
1958, pp. 3-7.
(6) A. Gramsci, La rivoluzione contro il "Capitale", Avanti!, 24
novembre 1917; ora in Scritti giovanili, cit., pp. 149-153
(7) "L'azione -scrive quasi nello stesso periodo Mussolini - ha
ragione degli schemi consegnati nei libri. L'azione forza i cancelli
sui quali sta scritto "vietato". I pusillanimi si fermano, gli
audaci attaccano e rovesciano l'ostacolo". (B. Mussolini, Osare!, Il
Popolo d'Italia, 13 giugno 1918; ora in E. Santarelli (a cura di),
Scritti politici di Benito Mussolini, Milano 1979, p. 178).
(8) G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, Milano 1967, pp.
19-20.
(9) "Bordiga analizzò la situazione in Italia.
Constatò la disfatta sul fronte, la disorganizzazione dello
Stato italiano e terminò con queste parole: 'Bisogna agire.
Il proletariato delle fabbriche è stanco. Ma è armato.
Noi dobbiamo agire'. Gramsci era dello stesso parere. Serrati,
Lazzari e la maggioranza dei presenti si pronunciarono per il
mantenimento della vecchia tattica: non aderire, né sabotare
la guerra". (G. Germanetto, Souvenirs d'un perruquier, Paris 1931,
p. 113. Nelle successive edizioni italiane, in ossequio alle
direttive togliattiane, il passo sparisce.
(10) Non concordiamo con la tesi di Franco De Felice secondo cui
Bordiga resta per tutto un periodo convinto della possibilità
di un recupero di gran parte dell'area massimalista. (De Felice,
Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia
1919-1920, pp.129-130.
(11) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, Torino
1978, p. 38.
(12) E' quanto sostiene O. Damen, figura storica del "bordighismo"
italiano (Gramsci tra marxismo e idealismo, Milano 1988, p. 80).
(13) L'atteggiamento di Bordiga si spiega in parte con la
frammentaria conoscenza delle reali posizioni dei russi. Solo nel
dicembre 1919, quando giunse in Italia e fu pubblicato sull'Avanti,
il testo dei due messaggi nei quali Lenin esortava i comunisti
dell'Europa occidentale a partecipare alle elezioni politiche,
risultò manifestamente chiaro che l'astensionismo di
principio era estraneo all'autentica esperienza bolscevica.
Nonostante ciò, la Frazione non aggiorna le proprie
posizioni. L'11 gennaio 1920 Bordiga manda una lunga lettera a Mosca
allegando i documenti della sua frazione. Il contrasto sulla tattica
si sposta dal PSI all'Internazionale comunista. Lenin, che deve
già fronteggiare l'operaismo esasperato della sinistra
tedesca, risponderà con l'opuscolo sull'estremismo. La
lettera di Bordiga è riprodotta in Storia della sinistra
comunista 1919-1920, Milano 1972, pp. 113-115.
(14) Cfr. a questo proposito gli scritti raccolti in A. Gramsci,
L'Ordine Nuovo, Torino 1975. Proprio su questa diversa valutazione
del ruolo delle CdL si compirà la rottura con Tasca e la
maggioranza del gruppo ordinovista. Cfr. per un'approfondita
ricostruzione del contrasto nel gruppo torinese lo studio di
Francesco Trocchi (Angelo Tasca e l' Ordine Nuovo, Milano 1973).
(15) A. Bordiga, Per la costituzione dei consigli operai in Italia,
Il Soviet 4 e 11 gennaio - 1, 8 e 22 febbraio 1920; ora in Storia
della sinistra comunista 1919-1920, cit., pp. 278-293.
(16) Sul ruolo dirigente svolto da Bordiga nelle lotte operaie fra
il 1918 e il 1919 si sofferma in particolare la De Clementi. (Amadeo
Bordiga, Torino 1971, pp. 59-75).
(17) A. Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista,
L'Ordine Nuovo 8 maggio 1920; ora in L'Ordine Nuovo, cit., pp.
116-123. Le Tesi avranno più successo a Mosca nel corso del
Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista. (Cfr. Lenin, Sul
movimento operaio italiano, Roma 1970, p. 194).
(18) Storia della sinistra comunista 1919-1920, cit., p. 353.
(19) Sui rapporti tra Bordiga e Gramsci nel 1920 si sofferma
Giuseppe Fiori che, però, a nostro parere tende a dare un
quadro troppo esasperato della situazione. Cfr. G. Fiori, Vita di
Antonio Gramsci, Bari 1973, p. 152 e sgg.
(20) O. Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo, cit., p. 83.
(21) Ritardi ed esitazioni, quelle de 'L'Ordine Nuovo', di cui si
trova conferma nelle memorie di Umberto Terracini che testimonia
come Gramsci si ostinasse a lungo a ritenere "possibile imprimere un
indirizzo nuovo al PSI" (U. Terracini, Quando diventammo comunisti,
Milano 1981, p. 40).
(22) "Fummo sconfitti - scrive Gramsci nel 1924 - perchè la
maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede
torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte
l'autorità e il prestigio dell'Internazionale, che erano
grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo
condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di
raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli
elementi costitutivi del partito socialista, non avevamo saputo
tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino
italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli
anni 1919-20 (...) Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli
avvenimenti". (Contro il pessimismo, L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924;
ora in La costruzione del Partito Comunista, Torino 1971, pp.
16-20).
(23) "Serrati - scrive Lenin - teme che la scissione indebolisca il
partito, in particolar modo i sindacati, le cooperative ed i comuni.
I comunisti invece temono il sabotaggio della rivoluzione da parte
dei riformisti. Avendo nelle proprie file dei riformisti, non si
può vincere nella rivoluzione proletaria, non si può
difenderla. Quindi Serrati mette a repentaglio le sorti della
rivoluzione per non danneggiare l'amministrazione comunale di
Milano. Oggi in Italia si avvicinano battaglie decisive del
proletariato contro la borghesia per la conquista del potere
statale. In un momento simile non solo è assolutamente
indispensabile allontanare dal partito i riformisti, i turatiani, ma
può esser utile persino allontanara da tutti i posti di
responsabilità anche degli eccellenti comunisti che sono
suscettibili di tentennare e manifestano delle esitazioni nel senso
della "unità" con i riformisti (...) il partito non si
indebolirà, ma si rafforzerà cento volte di più
se i riformisti si allontaneranno completamente dalle sue file e se
dalla sua direzione si allontaneranno anche eccellenti comunisti,
come sono probabilmente i membri dell'attuale direzione del partito,
Baratono, Zannerini, Bacci, Giacomini, Serrati". (Lenin, Sul
movimento operaio italiano, cit., pp. 202-218)
SECONDA PARTE
aprile 2000, a cura di Giorgio Amico
La costruzione del Partito
comunista
Il Partito comunista nasce, dunque, nel segno di Bordiga in un
congresso che è poco più di una orgogliosa
proclamazione di indipendenza dal vecchio partito da parte dei
rivoluzionari.(1) Gramsci vi gioca un ruolo subalterno e tale
comportamento non fu in seguito esente da critiche anche dure, ma
era possibile, e soprattutto auspicabile, in quel momento e in
quelle condizioni, premere per una più netta chiarificazione?
Lo stesso Togliatti risponde di no. "Se un dibattito sulla funzione
e sui compiti immediati del partito comunista in Italia - egli
scrive - si fosse aperto e si fosse approfondito, sarebbero
certamente venute alla luce divergenze di fondo su problemi di
importanza decisiva. Ma questo dibattito, nel momento in cui venne
immediatamente preparata la creazione del partito e subito dopo di
esso, non poteva accendersi. Il fuoco era stato concentrato contro
la destra riformista e contro il gruppo di centro che non voleva
isolarla ed espellerla dal partito, e in questa impostazione tutti
erano concordi"(2).
Ma a Livorno accade qualcosa che va al di là della scelta
politicamente giusta di non aprire un dibattito dalle conseguenze
imprevedibili. Gramsci tace soprattutto perchè schiacciato
dalla forte ostilità di parte dei delegati che gli
rinfacciano le esitazioni del 1914. Bruno Fortichiari ci ha lasciato
la vivissima descrizione di un uomo angosciato e solitario: "Era
presente, era con il direttivo della Frazione, ma continuava a
camminare; lo vedo ancora, dietro di noi sul palcoscenico, tutto
concentrato in sé, isolato, senza parlare con nessuno"(3).
Sarà il "settario" Bordiga a prenderne le difese senza
esitazioni o calcoli prudenziali con un discorso "notevole, per
l'efficacia anche oratoria" con cui si rivendica la diversità
del nuovo partito rispetto anche alla parte più nobile della
tradizione socialista (4). Difendendo Gramsci, Bordiga chiarisce che
nel nuovo partito non ci sono più nè astensionisti,
nè ordinovisti, ma solo militanti comunisti uniti nella
comune fede nella rivoluzione e nella dittatura del proletariato.
"Mentre io rivendico - afferma - ciò che ci allaccia al
passato di questo partito ed anche a quelli che a noi hanno appreso,
uomini che oggi sono nell'altra sponda, mentre io rivendico questo,
voglio anche dire che questo fenomeno, che deve essere considerato
obiettivamente, del socialista di guerra, a me piace raffrontarlo
con quello del socialista della parentesi di guerra, del socialista
che non ha bestemmiato perchè ha taciuto, del socialista che
quando invece di essere duecentocinquantamila eravamo nelle tessere
ventimila e nella pratica poche centinaia, non ha detto nulla, ma
che, poi, passata la bufera, è venuto a dire: "Siamo stati
contro la guerra", ed è andato nei comizi elettorali a
valersi di questo (...), e dico che io, che socialista di guerra non
sono stato mai, preferisco quei giovani che, attraverso l'esperienza
tratta dall'infamia capitalistica e dall'essere stati inviati al
fratricidio sui fronti della battaglia borghese, sono tornati con la
nuova fede della guerra per la rivoluzione"(5).
Si è parlato per il periodo 1921-1923 di partito
"bordighiano", quasi per contrapporlo in negativo ad un ipotetico
"partito di Lione" finalmente recuperato ad una corretta strategia
leninista(6). Certo, il PCd'I fu in quel periodo un partito
modellato sulla "personalità vigorosa" del suo fondatore, ma
senza forzature o esasperazioni leaderistiche. Le testimonianze a
favore si sprecano, anche da parte di chi "bordighista" non è
mai stato. Scrive ad esempio una storica di matrice "picista": "Nel
partito comunista bordighiano poterono trovare posto, per fare un
esempio, Tasca e Terracini, Leonetti e Togliatti, Gramsci e Misiano,
per dire d'uomini forniti ciascuno di una concezione dell'azione
politica che in avvenire si rivelerà non sempre coincidente e
talora anche opposta. Era lo stile di lavoro di un partito
leninista? Sarebbe troppo semplice rispondere solo con
un'affermazione. Certo era questo un aspetto leninista del primo
comunismo italiano, ma ciò che qui preme sottolineare
è che questo stile di vita e di lavoro si rivelò nella
pratica più forte della concezione assolutista che del
partito aveva Bordiga. Se pure egli concepiva il partito come un
esercito, il fatto è che la sua percezione dell'autentico gli
impedì sempre di circondarsi di caporali..."(7).
Il fatto è che, come ricorda Camilla Ravera, "c'era bisogno
di una forza rigorosamente unita e disciplinata; e anche la
concezione rigida di Bordiga diventava una forza; oltre che una
necessità"(8). Quello che nasce a Livorno è un partito
compatto, pienamente convinto della necessità di dover andare
oltre "alla confusione e al marasma che era stati dominanti nel
partito socialista e da cui ci si voleva liberare una volta per
sempre"(9). Anche Gramsci condivide questo spirito. Dal 1921 al 1923
appare in linea con Bordiga se non a livello di analisi, almeno sul
piano delle conclusioni politiche. Così al momento delle
elezioni politiche della primavera del '21, a cui il Partito
partecipa soltanto per disciplina nei confronti delle decisioni del
Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, anche Gramsci
sostiene a fondo su L'Ordine Nuovo le tesi del partito, anzi
sarà proprio lui a usare i toni più duri nei confronti
del parlamentarismo(10).
C'è chi ha voluto vedere in questo atteggiamento disciplinato
nient'altro che la scelta di attendere tempi migliori da parte di un
Gramsci che, ancora sotto gli effetti della contestazione subita a
Livorno, tuttavia in privato non risparmia dure critiche alla
direzione di Bordiga(11). E' una tesi che getta un'ombra di
doppiezza su una personalità limpida come sempre fu, anche
per ammissione dei suoi avversari, quella di Antonio Gramsci e che
non trova riscontri, se non in una frase di Togliatti del febbraio
1924 (12). In realtà, come testimonia Umberto Terracini,
"L'Ordine Nuovo per circa un anno tacque sul proprio programma, e fu
fedele esecutore dell'impegno di sostenere il Partito comunista
senza accentuare le posizioni del gruppo. Ciò
incominciò ad avvenire soltanto dal '22 in poi. Vi furono
insufficienze, mancanze, errori nostri, che pesarono sui primi passi
del nuovo partito. D'altra parte l'esigenza fondamentale del momento
era la nascita del vero partito di classe. E poi, anche i rapporti
personali e fraterni che esistevano fra Bordiga e noi ebbero un peso
nello stemperare i contrasti. Soltanto più tardi, quando si
cominciarono ad avvertire i frutti amari della linea politica di
Bordiga prendemmo le distanze da lui e ne combattemmo le
impostazioni. Ma i rapporti affettuosi e fraterni che avevamo
stabilito non si dissolsero mai del tutto"(13).
Il pieno dispiegarsi della controrivoluzione fascista non modifica
nella sostanza questa situazione. Bordiga e Gramsci vedono nel
fascismo la risposta unitaria della borghesia italiana all'assalto
rivoluzionario della classe operaia. In quest'ottica Mussolini non
rappresenta una rottura irreversibile degli assetti costituzionali
nè tantomeno della tradizione politica liberale. E' sul piano
della prospettiva politica e della tattica del partito che le
differenze sono profonde. Per Bordiga, ossessionato dal timore di
possibili inquinamenti "democraticistici" della purezza
programmatica del partito, non esistono soluzioni intermedie e
l'unico obbiettivo da propagandare resta la dittatura proletaria. Di
conseguenza, va accuratamente evitata ogni possibile confusione sul
piano dell'azione con tutte quelle forze che , pur collocandosi sul
terreno di un antifascismo militante, vedi ad esempio gli Arditi del
Popolo, restano tuttavia ideologicamente spurie e di conseguenza non
sicure.
Diversa la posizione di Gramsci, più attento alle
contraddizioni all'interno dello schieramento borghese e dello
stesso fascismo che gli appare incapace di mantenere l'egemonia
sugli strati intermedi e piccolo borghesi soprattutto a livello
rurale. Di qui l'attenzione al mondo cattolico e ad una parte
dell'intellettualità di cui Gobetti appare il più
degno rappresentante, ma soprattutto l'ipotesi che sia possibile una
lotta antifascista per obiettivi democratici e non direttamente
comunisti, rivolta soprattutto alla conquista delle masse contadine
del Meridione. Temi che si intrecciano al dibattito in corso nel
partito sulla tattica del fronte unico e che per Gramsci ne
rappresentano la logica estensione.
Va chiarito, tuttavia, che, almeno per il rivoluzionario sardo si
tratta di convincimenti che matureranno col tempo e che assumeranno
piena rilevanza soprattutto dopo l'assassinio Matteotti, di fronte
al fatto nuovo rappresentato dalla tattica aventiniana
dell'antifascismo democratico-borghese. Nell'ottobre 1922, infatti,
sia Gramsci che Bordiga paiono non credere nell'effettiva
possibilità di una stabile e duratura presa del potere da
parte dei fascisti(14).
Bordiga, Gramsci, l'Internazionale
e la "questione italiana"
Le vicende del Partito comunista italiano e del suo gruppo dirigente
non possono essere analizzate in modo avulso dal contesto
internazionale. Il PCd'I nasce a Livorno come sezione italiana
dell'Internazionale Comunista, vero e proprio partito mondiale della
rivoluzione, ragion per cui è solo nel quadro dell'evoluzione
del Comintern e della sua sezione guida, il Partito comunista russo,
che si possono comprendere le convulsioni che scuotono il partito
italiano e che porteranno nel giro di pochi anni al tramonto della
leadership bordighiana e alla formazione di un nuovo gruppo
dirigente attorno alla figura di Gramsci.
E' un percorso quello dei rapporti fra il PCd'I e l'Internazionale
assolutamente non lineare, segnato fin dalle origini da
incomprensioni e sospetti derivanti dalla vecchia polemica
sull'astensionismo tra Bordiga e Lenin, aggravati dalla scarsa
manovrabilità del gruppo dirigente italiano che pure non
perde occasione per dichiararsi interprete fedele del
bolscevismo(15).
Nell'estate del 1921, a pochi mesi dalla scissione di Livorno,
l'Internazionale Comunista tiene il suo Terzo Congresso in cui di
fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria si inizia a
riconsiderare la questione dei tempi della rivoluzione in Occidente.
La risposta verrà trovata nella tattica del fronte unito,
vigorosamente caldeggiata da Trotsky(16). Lo sconcerto è
enorme. Terracini ricorda come i delegati italiani fossero colti di
sorpresa dalla relazione introduttiva di Radek. "Ci sembrò
una richiesta assurda, stupefacente. Riunii la delegazione, che
presiedevo come membro dell'Esecutivo del Partito, e fummo tutti
d'accordo nell'opporre il nostro rifiuto"(17). Il fatto è che
la svolta è vissuta come una sconfessione implicita della
scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento che pare
giovare solo ai serratiani o a chi, come Tasca, dentro al partito
non ha mai accettato la scissione come un fatto definitivo. La
risposta di Bordiga e, bisogna dirlo, di larghissima parte del
nucleo dirigente italiano, consisterà nelle Tesi di Roma,
documento base del Secondo Congresso del PCd'I (Roma marzo 1922).
E' la nascita di una "questione italiana" che si protrarrà
per l'intero arco degli anni '20 per chiudersi solo nel 1930 con
l'espulsione dei "Tre" e la definitiva stalinizzazione del
partito(18). Alla redazione delle Tesi di Roma partecipa, nonostante
l'affiorare di qualche dissenso, l'intero gruppo dirigente. E'
Gramsci a darci il quadro chiaro della situazione: "A Roma abbiamo
accettato le tesi di Amadeo perchè esse erano presentate come
un'opinione per il Quarto Congresso e non come un indirizzo
d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito
attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad
Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che egli aveva
avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di
ciò, politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il
partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e
del suo gruppo. (...) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo
che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove
minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere
mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava
di per sè nel movimento rivoluzionario"(19).
Il contrasto degli "italiani" con il Comintern esplode nel novembre
1922 in occasione del Quarto Congresso, quando nell'ambito della
politica di fronte unito accettata per disciplina da Bordiga ma mai
messa in pratica, Mosca impone al PC l'apertura di una trattativa
con Serrati in vista di una rapida fusione dei due partiti. Con
l'eccezione di Tasca, il partito è ancora una volta
compattamente schierato con il suo capo. "L'opposizione di Bordiga
alla politica dell'Internazionale - ricorda Terracini - era
sostenuta dalla convinzione, pressochè unanime nel nostro
partito, che da Mosca si analizzassero le cose in modo distorto. In
sintesi, anche noi di 'Ordine nuovo' stentavamo a credere che fosse
possibile ricomporre l'unità della sinistra italiana con
un'operazione di vertice, trascurando le differenze profonde, non
solo tattiche, ma anche strategiche, che c'erano tra noi e i
socialisti"(20).
A fatica, dopo estenuanti contatti individuali, Lenin e Trotsky
riescono a strappare l'assenso dei delegati italiani. Bordiga, per
la prima volta messo in minoranza, minaccia le dimissioni e chiede
un congresso straordinario del partito con un linguaggio pesante ai
limiti del ricatto che allarma i russi ormai convinti della
necessità di un cambiamento nella direzione del PCd'I.
Durante le sedute del Congresso Gramsci viene avvicinato da Rakosi
che gli propone "di diventare il capo del partito eliminando Amadeo,
che sarebbe stato addirittura escluso dal Comintern se continuava
nella sua linea". Anche in questa occasione Gramsci rifiuta, ma
questa volta più per la paura di non essere all'altezza che
per fedeltà a Bordiga.
Il fatto è che l'atteggiamento tenuto da Bordiga a Mosca ha
rinfocolato le perplessità che Gramsci già nutriva ai
tempi del Congresso di Roma sull'efficacia politica
dell'intransigenza bordighiana. In particolare lo turba l'idea di
una possibile scontro frontale con il Comintern, così come lo
allarma il tentativo della destra e di Tasca in particolare di
accreditarsi agli occhi dei russi come possibile carta di ricambio
da utilizzarsi in caso di rottura definitiva con Bordiga."Io dissi -
afferma Gramsci - che avrei fatto il possibile per aiutare
l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione italiana,
ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia
persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di
orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione
italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento
perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale
di lavoro, vale almeno tre"(21).
L'occasione per mettere in pratica il cambiamento auspicato la
fornisce la polizia fascista che arresta Bordiga al suo rientro in
Italia. Questa volta Gramsci non può più
"anguilleggiare" ed è costretto a prendere una posizione
chiara in un momento che vede il partito in grave difficoltà.
"Essendo stato arrestato l'esecutivo nelle persone di Amadeo e di
Ruggero - scrive Gramsci - si attese invano per circa un mese e
mezzo di avere delle informazioni che stabilissero con esattezza
come i fatti si erano svolti (...) Invece dopo una prima lettera
scritta immediatamente dopo gli arresti e nella quale si diceva che
tutto era stato distrutto e che la centrale del partito doveva
essere ricostruita ab imis, non si ricevette più nessuna
informazione concreta, ma solo delle lettere polemiche sulla
questione della fusione (...)
La questione fu posta brutalmente di ciò che valesse il
centro del partito italiano. Le lettere ricevute furono criticate
aspramente e si domandò a me che cosa intendessi
suggerire....Anch'io ero rimasto sotto l'impressione disastrosa
delle lettere... E perciò arrivai fino a dire che se si
riteneva che veramente la situazione fosse tale come obbiettivamente
appariva dal materiale a disposizione, sarebbe stato meglio farla
finita una buona volta e riorganizzare il partito dall'estero con
elementi nuovi scelti d'autorità dall'Internazionale"(22).
Bordiga, in carcere, viene escluso dal nuovo Esecutivo, ma questo
atto d'imperio non è sufficiente a mutare la linea del PCd'I
che almeno per tutto il 1923 resta sostanzialmente bordighiano,
anche per le esitazioni di Gramsci ancora fiducioso nella
possibilità di recuperare Bordiga alla politica
dell'Internazionale. Pesa, inoltre, il timore che una aperta rottura
del gruppo dirigente uscito dal Congresso di Livorno non possa che
agevolare il tentativo della destra di Tasca di candidarsi alla
direzione del partito. E' una situazione di stallo che inizia a
chiarirsi alla fine del 1923, quando Bordiga fa uscire dal carcere
un manifesto in cui senza mezze parole afferma che la crisi di
direzione del partito non ha origine da dissensi interni, ma dalle
divergenze tra il partito italiano e l'Internazionale Comunista.
Divergenze causate dall'abbandono non solo delle linee tattiche, ma
anche del programma e delle norme organizzative su cui
l'Internazionale era nata. Le conclusioni di Bordiga sono drastiche,
in piena coerenza con le caratteristiche del personaggio: la
sinistra italiana non può gestire una politica che non solo
non condivide, ma che considera potenzialmente pericolosa.
Disciplinatamente si accettano le decisioni di Mosca, ma si declina
ogni responsabilità diretta nella guida del partito(23).
Incalzato da Bordiga, il partito sbanda. Terracini, Scoccimarro e lo
stesso Togliatti paiono, pur con mille esitazioni, disposti a
firmare il manifesto. Solo Gramsci si dichiara nettamente contrario
all'iniziativa, ben sapendo per i colloqui avuti durante il
soggiorno a Mosca che questa strada non può che portare fuori
dall'Internazionale. Un'ipotesi che lo spaventa e lo spinge
decisamente dalla parte dei russi. "In verità - scrive a
Scoccimarro - dopo la pubblicazione del manifesto la maggioranza
potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal
Comintern. Se la situazione politica dell'Italia non si opponesse a
ciò io ritengo che l'esclusione avverrebbe. Alla stregua
della concezione di partito che deriva dal manifesto l'esclusione
dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la
metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare
verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. non
voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio (...)
Non si può assolutamente fare dei compromessi con Amadeo.
Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una
così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di
irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli
continuerà a lottare e ad ogni occasione presenterà
sempre intatte le sue tesi"(24).
Sono concetti che ritornano spesso nella corrispondenza che Gramsci
ha in questo periodo con i compagni del vecchio gruppo dell'Ordine
Nuovo, quasi che egli debba convincere prima di tutto se stesso
della necessità di rompere definitivamente quel sodalizio
forse più umano che politico stretto nell'ormai lontano 1920
con Bordiga. "Anch'io penso che il partito non possa fare a meno
della sua collaborazione ma che fare ? - ribadisce a marzo - Il suo
stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga
invece proprio a prospettarci il problema di costruire il partito e
il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che
sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare
compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale,
fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza.
Naturalmente la quistione non è chiusa: questo è il
mio avviso, per ora"(25).
La necessità di rompere in maniera netta con Bordiga
costringe Gramsci a operare un ripensamento complessivo della
politica fino a quel momento seguita dal partito e porsi il problema
della formazione di un nuovo gruppo dirigente. All'inizio del '24
Gramsci ritiene ormai disgregato il vecchio gruppo dell'Ordine nuovo
e improponibile una semplice riedizione del suo programma. Questi
concetti sono affermati con grande chiarezza in una lettera a
Francesco Leonetti, l'unico schieratosi fin dall'inizio decisamente
al suo fianco. Scrive Gramsci: "Non condivido il tuo punto di vista
che si debba rivalorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi
intorno all' 'Ordine nuovo' (...) D'altronde esiste ancora il nostro
gruppo ? (...) Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino
alle estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e
culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non sa decidersi
com'era un pò sempre nelle sue abitudini; la
personalità 'vigorosa' di Amadeo lo ha fortemente colpito e
lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca
giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto credo sia
fondamentalmente anche più estremista di Amadeo,
perché ne ha assorbito la concezione, ma non ne possiede la
forza intellettuale, il senso pratico e la capacità
organizzativa. In che dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo?
Sembrerebbe nient'altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia
persona per ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che
hanno caratterizzato l'attività dell'"Ordine nuovo" sono oggi
o sarebbero anacronistiche (...) Oggi le prospettive sono diverse e
bisogna accuratamente evitare di insistere troppo sul fatto della
tradizione torinese e del gruppo torinese. Si finirebbe in polemiche
di carattere personalistico per contendersi il maggiorasco di
un'eredità di ricordi e di parole"(26). Il Partito deve
trovare le sue ragioni d'essere non nel passato per quanto glorioso
questo sia stato, ma nell'applicazione senza riserve della linea
politica dell'Internazionale.
Un Gramsci, dunque, convinto stalinista, come scrive Ragionieri, per
il quale la politica del socialismo in un paese solo era perfetta
per una fase appunto di 'guerra di posizione'? Oppure, come
sostenuto dai tardi epigoni del bordighismo, un Gramsci opportunista
che salta sul carro dei vincitori e si fa carico senza soverchi
scrupoli della stalinizzazione del PC? (27) La realtà
è ben diversa.
Educato proprio da Bordiga a fare della disciplina e della
fedeltà al Comintern il cardine della propria azione
politica, diventato alla scuola di Livorno un vero bolscevico,
Gramsci non se la sente ora di rimettere tutto in gioco per porsi
dal punto di vista di una "minoranza internazionale" dalle
prospettive incerte. Bordiga, granitico nelle sue certezze,
può anche correre il rischio di restare solo, convinto
com'è che sul lungo periodo i fatti non potranno che dargli
ragione. Gramsci, che considera il concreto agire politico (la
prassi) come inveramento del marxismo, non può accettare di
autoescludersi dall'azione politica, di restare tagliato fuori
dall'avanguardia di classe, dalla classe operaia nel suo vivere e
agire quotidiano. E' una decisione lacerante che Gramsci
vivrà imponendosi, lui apparentemente sempre così
fragile e indeciso, una linea di condotta ispirata al più
rigido senso del partito e della necessità storica (28).
NOTE
(1) Ci pare, tuttavia, assai riduttiva la tesi di Cortesi, secondo
cui quella di Livorno è "una tardiva coalizione di gruppi
improvvisamente affrettata dopo il Secondo congresso
dell'Internazionale Comunista e la irresponsabile condotta del PSI
di fronte all'occupazione delle fabbriche, ma sostenuta da una
elaborazione politica e da un confronto interno insufficienti".
(Introduzione a B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia,
cit., p. 17)
(2) P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito
comunista italiano nel 1923-1924, Roma 1984, p. 16. Quanto alle
critiche a Gramsci si veda in particolare la lettera di Mario
Montagnana riportata dallo Spriano (Storia del Partito comunista
italiano, vol. I, Torino 1976, p. 118).
(3) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p.
135.
(4) Il giudizio è di Franco Livorsi (Amadeo Bordiga, Roma
1976, p. 167).
(5) Il discorso di Bordiga a Livorno è riprodotto in La
Sinistra comunista nel cammino della rivoluzione, Roma 1976, pp.
67-100.
(6) E'' questo, per intenderci, il taglio dell'intera storiografia
di ispirazione togliattiana almeno fino agli anni Settanta e di cui
si avvertono ancora tracce anche nell'opera, di ben altro spessore,
dello Spriano.
(7) F. Pieroni Bortolotti, Francesco Misiano. Vita di un
internazionalista, Roma 1972, pp.100-101.
(8) C. Ravera, testimonianza in La Frazione comunista al Convegno di
Imola, Roma 1971, p. 32.
(9) P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito
comunista italiano nel 1923-1924, cit., pp.19-20.
(10) A. Gramsci Il parlamento italiano, L'Ordine Nuovo 24 marzo
1921. Ora in Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino
1974, pp. 115-117.
(11) "Non ti nascondo la mia opinione che tu, molte delle cose che
dici ora, avresti dovuto dirle, e non in conversazioni private e di
cui si aveva sentore indiretto, ma davanti al partito, molto tempo
prima. Nella Centrale costituita a Livorno tu rappresentavi il
gruppo che seguiva una concezione diversa da quella di Bordiga".
Cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., p.
213.
(12) Cfr. a questo proposito G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci,
cit., pp.173-178. Tra le numerose attestazioni di stima nei
confronti di Gramsci ricordiamo soprattutto quelle di Bordiga che
ancora nel 1954 definiva Gramsci il "rappresentante più
rispettabile e non solo perchè morto in tempo" di un'intero
filone del socialismo italiano (Cfr. A. Bordiga, Meridionalismo e
moralismo, Il programma comunista, 29 ottobre-12 novembre 1954; ora
in A. Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, Genova 1993,
p.96) e di Fortichiari per il quale Gramsci, al di là di ogni
valutazione politica, "personalmente era un galantuomo" (Cfr. B.
Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p. 142).
(13) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 44.
(14) "La cosa che impressiona - scrive Onorato Damen - è la
estrema leggerezza e la ostentata noncuranza del fenomeno presente
nei maggiori esponenti del partito: Bordiga, ad esempio, riteneva,
mentre era a Mosca per l' "Allargato", impossibile un tentativo di
marcia su Roma delle camicie nere e proprio nel momento che tale
marcia era in pieno svolgimento, Gramsci se l'è cavata ora
con la dichiarazione di 'folklore episodico e paesano', ora
affrontando il problema del 'cesarismo nella storia' (Damen, Gramsci
tra marxismo e idealismo, cit., p.107). Per una più precisa
conoscenza delle posizioni di Bordiga sul fascismo è
utilissima la raccolta di testi curata all'inizio degli anni
Settanta dai francesi di "Programme communiste" (Communisme et
fascisme, Marseille 1970), mentre gli scritti di Gramsci sono
raccolti in Socialismo e fascismo, cit. e in La costruzione del
Partito comunista, Torino 1971.
(15) Nel 1924 Gramsci rivela che già nei primi mesi del 1921
uno dei rappresentanti del Comintern presso il partito italiano
aveva fatto pressioni su di lui perchè prendesse il posto di
Bordiga in quanto "la tendenza di Amadeo aveva preso il sopravvento,
ciò che era contro lo spirito delle decisioni del Comintern
che voleva dare al gruppo di Torino la prevalenza nel PCI". (Cfr. P.
Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., p. 228).
Quanto a Bordiga, egli rivendicherà sempre il merito alla
sinistra italiana di essere stata, anche contro lo stesso Lenin, la
più coerente interprete del leninismo (Cfr. a questo
proposito i due scritti del 1924 e del 1960 raccolti in La sinistra
comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin, Milano 1964).
(16) I principali interventi di Trotsky al Terzo Congresso
dell'Internazionale Comunista sono disponibili in italiano in L.
Trotsky, Problemi della rivoluzione in Europa, a cura di L. Maitan,
Milano 1979, pp.122- 219.
(17) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 55.
(18) Cfr. per una sintetica ricostruzione dell'intero percorso G. De
Regis, La "svolta" del Comintern e il comunismo italiano, Roma 1978
(19) Cfr. la Lettera di Gramsci a Togliatti, Scoccimarro e altri del
5 aprile 1924; ora in Togliatti, La formazione del gruppo
dirigente..., cit., pp. 272-273.
(20) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 71.
(21) Cfr. le lettere di Gramsci a Scoccimarro e Togliatti del 1
marzo 1924 e a Togliatti del 27 marzo 1924, ora in Togliatti, La
formazione del gruppo dirigente..., cit., rispettivamente pp 218-230
e 252-258. Gramsci motiva la sua scelta di prendere tempo
soprattutto per la "preoccupazione di ciò che avrebbe fatto
Amadeo se io fossi diventato oppositore: egli si sarebbe ritirato,
avrebbe determinato una crisi, egli non si sarebbe mai adattato a
venire a un compromesso....Se io avessi fatto l'opposizione
l'Internazionale mi avrebbe appoggiato, ma con quali risultati,
allora, quando il partito si organizzava a stento, nella guerra
civile" (Ibidem, pp. 254-255).
(22) Cfr. la lettera di Gramsci a Togliatti del 27 gennaio 1924, ora
in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp
174-175.
(23) Il "Manifesto" di Bordiga, pubblicato per la prima volta da
Stefano Merli nel 1964 sulla Rivista storica del socialismo,
è oggi riprodotto integralmente in Il partito decapitato,
Milano 1988, pp. 54- 60.
(24) Cfr. la lettera a Scoccimarro del 5 gennaio 1924, ora in
Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 148-154.
(25) Cfr. la lettera a Togliatti del 27 marzo 1924, ivi, p. 255.
Togliatti, con il suo inconfondibile stile gesuitico,
commenterà che in quella situazione occorreva "liberare i
compagni italiani da un prestigio di cui era (...) necessario che si
liberassero" (ivi, p. 337). La via della distruzione sistematica del
mito di Bordiga, fondatore e capo del Partito di Livorno, era
ì tracciata e il PCI la percorrerà interamente, anche
se va detto che Gramsci non accettò mai, neppure nei momenti
in cui la polemica si fece più intensa, di scendere ai
livelli di abiezione raggiunti da Togliatti e da altri
ex-bordighiani nella polemica con la minoranza di sinistra.
(26) Cfr. la lettera a Leonetti del 28 gennaio 1924, ora in
Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 182-184.
(27) E.Ragionieri, Gramsci e il dibattito teorico nel movimento
operaio internazionale, in AA.VV., Gramsci e la cultura
contemporanea, vol. I, Roma 1969, p. 133. Per gli attacchi di parte
bordighista a Gramsci cfr. La liquidazione della sinistra del
PCd'It. (1925), Milano 1991, pp. 33-34.
(28) Fortichiari, che lo incontra a Vienna nella primavera del 1924,
nota sorpreso questa evoluzione: "Malgrado le sue particolari vedute
personali Gramsci diede sempre più importanza al partito;
alla possibilità che il partito svolgesse un certo lavoro,
alla necessità che il partito fosse forte (...) Gramsci si
dedica talmente a questa funzione nel partito che in fondo rinnega
se stesso, perchè non è più l'uomo che vuole i
consigli di fabbrica come soviet, ora lui vuole un partito capace di
imporsi, forte, monolitico; tutto il resto è secondario"
(Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit. p. 162).
TERZA PARTE
maggio 2000, a cura di Giorgio Amico
La questione Trotsky nel partito e
nell'Internazionale
L'esplodere alla luce del sole della lotta di frazione nel partito
russo segna un salto di qualità nella crisi di direzione del
partito italiano. Il problema rappresentato da un Bordiga
volontariamente ai margini ma con ancora un largo seguito si va
inevitabilmente ad intrecciare con quella che ormai apertamente
viene definita la "questione Trotsky". Superato un iniziale momento
di sconcerto, Gramsci andrà via via allineandosi con il
gruppo dirigente del Partito russo e dell'Internazionale, dove le
sue simpatie vanno spostandosi sempre più da Zinov'ev a
Bucharin.(1) E' un Gramsci che non riesce a cogliere la portata
storica della battaglia ingaggiata da Trotsky. Pur parlandone con
rispetto, Trotsky ai suoi occhi resta l'avversario della politica di
apertura ai contadini, l'uomo della guerra di movimento, il
potenziale affossatore di quella NEP che gli appare sempre
più come l'unica via praticabile per il consolidamento del
potere sovietico.
Questa incomprensione segna l'intero atteggiamento di Gramsci e
spiega sia l'assimilazione forzata che egli compie di Bordiga a
Trotsky sia i metodi amministrativi con cui, come vedremo,
verrà liquidato il dissenso interno. Egli è realmente
convinto che le critiche di Trotsky rappresentino una minaccia per
la stabilità del potere sovietico, di conseguenza anche il
dissenso bordighiano non può più essere tollerato. Nel
suo intervento alla conferenza di Como(2) Gramsci per la prima volta
accomuna apertamente Bordiga a Trotsky: "Quanto è accaduto
recentemente in seno al PC russo - dichiara - deve avere per noi
valore di esperienza. L'atteggiamento di Trotsky in un primo periodo
può essere paragonato a quello attuale del compagno Bordiga.
Trotsky, pur partecipando "disciplinatamente" ai lavori del Partito,
aveva col suo atteggiamento di opposizione passiva - simile a quello
di Bordiga - creato un senso di malessere in tutto il partito il
quale non poteva non avere sentore di questa situazione. Ne è
risultata una crisi che è durata parecchi mesi e che oggi
soltanto può dirsi superata. Ciò dimostra che una
opposizione - anche se mantenuta nei limiti di una disciplina
formale - da parte di spiccate personalità del movimento
operaio, può non solo impedire lo sviluppo della situazione
rivoluzionaria ma può mettere in pericolo le stesse conquiste
della Rivoluzione".(3)
Posto in questi termini il confronto non può non assumere via
via toni sempre più duri. Il 6 febbraio 1925 il C.C. approva,
nonostante forti resistenze da parte dei rappresentanti della
federazione giovanile, una mozione di condanna che nel colpire
Trotsky mira in realtà ad assestare un duro colpo alla
sinistra. "E' evidente - si afferma nella mozione con trasparente
riferimento a Bordiga - che deve essere considerato come
controrivoluzionario ogni atteggiamento che tenda a diffondere nel
Partito una generica sfiducia negli organismi dirigenti della
Internazionale e del Partito russo, sia travisando a questo scopo la
questione Trotzky, sia ritornando sopra questioni definite dal V
Congresso".(4)
Alla durissima presa di posizione del CC segue il 18 febbraio un
rapporto di Togliatti con il quale si informa la Segreteria del
Comintern che all'interno del PC permane una forte corrente
filo-trotskista animata dai bordighisti. Al rapporto Togliatti
allega un articolo dello stesso Bordiga su "La questione Trotsky", in cui Bordiga difende
vigorosamente il capo dell'Armata Rossa, denunciando gli argomenti e
i metodi denigratori usati dalla maggioranza del partito russo.(5)
E' da Mosca che arriva agli italiani l'ordine di mettere da parte
ogni riguardo nei confronti dell'opposizione di sinistra. Nel corso
della Quinta sessione dell'Esecutivo allargato dell'IC Stalin in
persona chiede al delegato italiano Scoccimarro di rompere gli
indugi e di unirsi apertamente al linciaggio di Trotsky.
Mentre Gramsci significativamente tace, il 3 aprile Scoccimarro
prende la parola per denunciare la "deviazione" trotskista divenuta
sintesi di "tutte le deviazioni antibolsceviche". La lotta nel PCd'I
contro Bordiga e la sinistra è ormai inseparabile dalla
più generale campagna nel partito russo e nel Comintern per
la liquidazione definitiva di Trotsky e della sinistra
internazionale. E', infatti, impossibile spiegare il durissimo
contrasto che nel '25-'26 lacera il partito esclusivamente in base
alle divergenze fra Bordiga e Gramsci sulla organizzazione comunista
(sezioni territoriali o cellule), sulla politica sindacale (comitati
operai invece che ricostruzione dei sindacati) o sulla tattica
aventiniana. Ma non è solo Stalin a pensare che la questione
italiana sia solo uno dei terreni della più generale
battaglia per il pieno controllo del Comintern. Anche per Bordiga il
contrasto è di fondo e parte da una profonda sfiducia nella
direzione del Comintern, per cui in mancanza di una vera svolta
nella dirigenza o nella linea del partito mondiale, il PCd'I
semplice sezione nazionale, non potrà fare che una politica
oscillante e perdente. Su queste basi, nel contesto di
un'Internazionale ridotta sempre più a mera appendice dello
Stato russo, quella di Bordiga è una sconfitta annunciata.
Resta ancora oggi poco chiaro quale conoscenza Bordiga avesse della
battaglia in corso nel partito russo e nel Comintern e quanto
ciò contribuisse a determinare un atteggiamento "aventiniano"
che gli aliena molte simpatie e offre argomenti preziosi ai suoi
denigratori. Di sicuro Bordiga nutre la ferma convinzione che a
Mosca la partita non sia chiusa e che la situazione dei rapporti di
classe a livello mondiale possa ancora evolversi positivamente fino
a determinare un radicale cambiamento di prospettiva per
l'Internazionale. Ragion per cui ai rivoluzionari basta porsi in
posizione d'attesa, mantenendo nel contempo le mani libere nei
confronti di una politica destinata a sicura sconfitta.
Uno dei principali esponenti della sinistra, Bruno Fortichiari, ha
accennato a contatti con esponenti dell'Internazionale che Bordiga
avrebbe avuto immediatamente prima di Lione. "Forse - scrive
Fortichiari - egli da Mosca ha riportato questa convinzione, che ci
fossero delle possibilità di azione, se non immediate almeno
col tempo. Ha avuto questa convinzione che contrastava con la nostra
convinzione, mia, di Damen e di Repossi, che non abbiamo mai avuto
questa speranza. Per noi la rottura c'era e c'era poco da fare, e
interessava secondo noi affermare pubblicamente la rottura
cioè quasi sfidare la direzione minoritaria del partito ad un
provvedimento".(6)
Al di là delle possibili interpretazioni, resta il fatto che
la sinistra e in particolare un Bordiga prigioniero di una visione
astrattamente oggettivistica dell'azione politica, giocano male le
carte ancora rilevanti di cui dispongono,(7) il tutto aggravato dal
mutamento in atto nel partito che non è più per
composizione lo stesso di Livorno e del 1921-1923. Un partito
passato dopo gli sbandamenti dovuti alla vittoria della
controrivoluzione fascista, da 9 a 30 mila iscritti, in gran parte
giovani proletari senza "memoria politica" e quindi privi di timori
reverenziali nei confronti del "padre fondatore". Giovani, affamati
d'azione, speranzosi in una possibile rivincita, a cui l'attendismo
meccanicistico di Bordiga non può che risultare
incomprensibile. Una leva di militanti conquistati al Partito
dall'attivismo gramsciano, dalla sua visione, in questo
compiutamente leninista, della centralità della politica come
continuo sforzo di definizione di obiettivi transitori praticabili a
livello delle più larghe masse.
Quanto ai quadri dirigenti, nazionali e locali, del partito risulta
determinante nello spiegare il quasi generale abbandono delle
suggestioni bordighiane lo sconcerto prima, l'aperta irritazione poi
nei confronti di un atteggiamento considerato quasi una diserzione
dalle responsabilità proprie di un dirigente rivoluzionario.
Non va, tuttavia, sottaciuto che la sconfitta di Bordiga è
anche il frutto dell''uso sistematico nel dibattito interno al
partito di metodi amministrativi e intimidatori nei confronti della
minoranza a partire almeno dalla campagna contro il cosiddetto
"Comitato d'Intesa".(8) E' questa una pagina oscura nella storia
politica di Antonio Gramsci che nella lotta contro la sinistra
tollera l'uso di "toni da caccia alle streghe contro il
'frazionismo', una interpretazione poliziesca delle differenziazioni
politiche, una predisposizione ad accettare espulsioni con eccessiva
disinvoltura, un giudizio favorevole sui voti unanimi alla direzione
dell'Internazionale".(9)
Il Congresso di Lione e la lettera
di Gramsci al Partito russo
Che in realtà, contrariamente a quanto pare pensare Bordiga,
a Mosca i giochi siano fatti viene a confermarlo il Quinto Esecutivo
allargato dell'Internazionale Comunista (marzo-aprile 1925) che
afferma senza esitazioni la piena identità tra bordighismo e
trotskismo. Il linguaggio ormai è quello dell'invettiva, i
dissidenti sono definiti piccolo borghesi, opportunisti, destri
mascherati. Agli italiani viene richiesto esplicitamente di
scegliere "tra il leninismo e la tattica di Bordiga".(10) Nel
Comintern non c'è più spazio per posizioni in qualche
modo vicine alla opposizione trotskista, Stalin intende chiudere
definitivamente la partita con la minoranza.
Date queste premesse, non stupisce l'annotazione di Giuseppe Berti
per cui "obiettivamente (...) bisogna dire che se la Conferenza di
Como fu preparata troppo poco, anzi per nulla, e diede, quindi, i
risultati ben noti, il congresso di Lione (...) fu, forse, preparato
un pò troppo nel senso che preliminarmente la Conferenza di
dicembre separò il grano dal loglio e fece in modo che a
Lione l'estrema sinistra bordighiana venisse rappresentata in
maniera non adeguata alle forze che ancora essa contava nel
Partito".(11)
Sarebbe, tuttavia, un errore considerare il Congresso di Lione come
un'operazione esclusivamente burocratica volta a sanzionare con il
voto della base la liquidazione politica di un Bordiga
irrecuperabile alla politica del Comintern. Certo, Gramsci sostiene
con forza le posizioni della maggioranza dell'Internazionale, ma non
si prefigge la sistematica distruzione di ogni dialettica interna al
partito;(12) così come totalmente irriducibili allo
stalinismo sono le tesi di Lione, forse il documento maggiormente
rappresentativo di un Gramsci compiutamente approdato ad una visione
matura e leninista dell'azione rivoluzionaria. Da qui l'estrema
attenzione posta dalle tesi all'analisi della fase e
all'individuazione delle forze motrici della rivoluzione italiana,
non in astratto secondo schemi meramente ideologici, ma nel concreto
del quotidiano confronto di classe. Ne deriva, elemento del tutto
nuovo per il partito italiano, la centralità degli obiettivi
intermedi e transitori e l'adozione di uno stile di azione politica
che permetta all'avanguardia rivoluzionaria di dialettizzarsi con
gli strati profondi della classe.
Temi che riprendono suggestioni antiche già presenti
nell'esperienza ordinovista, ma ora definitivamente depurate, anche
grazie al profondo sodalizio con Bordiga del 1921-1923, da ogni
influenza spuria di origine bergsoniana o soreliana.(13) Nonostante
i metodi usati a Lione non si può, dunque, parlare di
stalinizzazione del partito, almeno per il breve periodo della
direzione Gramsci. Per affermarsi definitivamente nel PCI lo
stalinismo dovrà passare attraverso la spaccatura del gruppo
dirigente gramsciano, l'espulsione di Tresso e Leonetti e
l'abbandono definitivo del progetto politico definito dalle Tesi di
Lione in favore di una supina acquiescenza alle svolte della
politica estera sovietica.(14) Non è un caso che la "svolta"
avvenga nel 1930 che è anche l'anno della definitiva
espulsione di Bordiga e in cui diventa avvertibile l'isolamento di
Gramsci rispetto al partito.
L'ulteriore precipitare della situazione nel partito russo con il
passaggio di Zinov'ev e Kamenev all'opposizione insieme a Trotsky e
i metodi sempre più violenti con cui Stalin porta avanti la
sua battaglia determina un profondo ripensamento all'interno del
PCI. Nell'autunno del 1926 Gramsci invia a nome dell'Ufficio
Politico del partito italiano una lettera alla dirigenza sovietica
in cui si chiede di "evitare le misure eccessive" contro
l'opposizione e di considerare come in un partito comunista
"l'unità e la disciplina... non possono essere meccaniche e
coatte". Pur schierandosi a fianco della maggioranza, anche se con
evidenti esitazioni, Gramsci da voce alle preoccupazioni dei
comunisti italiani per "l'acutezza della crisi... e le minacce di
scissione aperta o latente che essa contiene".(15)
La lettera evidenzia una concezione dei rapporti tra i partiti
comunisti dell'internazionale e i dirigenti russi che non ha nulla
in comune con quanto si attendono i dirigenti russi dai partiti
"fratelli". Per Gramsci sono gli interessi del proletariato
internazionale che devono determinare la politica russa la quale va
subordinata a quegli interessi. Pur esprimendosi, anche se
cautamente e con riserve, a favore della linea Stalin-Bucharin,
nella lettera si denuncia con coraggio come la politica
intransigente della maggioranza verso l'opposizione di sinistra
comporti il rischio di una possibile degenerazione. "Voi oggi state
distruggendo l'opera vostra, voi degradate (...) la funzione
dirigente che il Partito comunista dell'URSS aveva conquistato per
l'impulso di Lenin", giunge a scrivere Gramsci che auspica una
ricomposizione unitaria del partito nella più autentica
tradizione bolscevica.
La lettera suscita una profonda irritazione in Stalin e il timore
che il PCI passi all'opposizione trotskista.(16) Con una lettera dai
toni sprezzanti Togliatti intima a Gramsci di "tenere i nervi a
posto" e di non intromettersi nei fatti dei russi. "Vi è
senza dubbio - scrive - un rigore nella vita interna del PC
dell'Unione. Ma vi deve essere. se i partiti occidentali volessero
intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo
rigore, essi commetterebbero un errore assai grave. Realmente in
questo caso potrebbe essere compromessa la dittatura del
proletariato". Esprimere dubbi o perplessità riguardo agli
atteggiamenti della maggioranza vuol dire porsi dalla parte
dell'opposizione. La politica di Stalin va appoggiata in blocco
senza sottilizzare troppo sui metodi usati per imporla: "Quando si
è d'accordo con la linea del CC, il miglior modo di
contribuire a superare la crisi è di esprimere la propria
adesione a questa linea senza porre nessuna limitazione"(17).
E' la rottura definitiva, politica e personale, fra i due che non si
scriveranno più, mentre nei confronti di Bordiga, nonostante
la durezza della battaglia del 1925-1926, Gramsci manterrà,
ricambiato, fino alla fine della sua vita sentimenti fraterni e di
grande rispetto politico.(18)
NOTE
(1) In una lettera alla moglie da Vienna Gramsci ammette di non
conoscere "ancora i termini esatti della discussione che si è
svolta nel partito" russo. Si dichiara però sconcertato
dell'attacco di Stalin a Trotsky che considera "assai irresponsabile
e pericoloso" (Cfr. A. Gramsci, Vita attraverso le lettere, cit., p.
51). Quanto alla sua progressiva evoluzione filo-buchariniana utili
indicazioni si ritrovano in L. Paggi, Le strategie del potere in
Gramsci, Roma 1984.
(2) La Conferenza clandestina di Como si svolge nella primavera del
'24. Gramsci, appena tornato in Italia grazie all'acquisita
immunità parlamentare scopre di essere in maggioranza nel
Comitato Centrale ma in minoranza nel partito.
(3) Cfr. il resoconto dell'intervento di Gramsci apparso su Lo Stato
operaio del 29 maggio 1924, ora in A. Gramsci, La costruzione del
Partito comunista, cit., pp. 459-462.
(4) Mozione del CC sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti,
pubblicata su Lo Stato Operaio del 19 febbraio 1925, ora in La
liquidazione della sinistra del PCd'It. (1925), cit., p. 49.
(5) A. Bordiga, La questione Trotzky, L'Unità del 4 luglio
1925, ora in La liquidazione..., cit., pp. 50-58.
(6) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p 154.
(7) Non si lascia - commenta Damen - una base organizzativa come
quella della sinistra e soprattutto quadri saldamente formati in
balia degli eventi senza una direzione, senza una
responsabilità organizzativa. Il compagno Bordiga,
defenestrato d'autorità dal centro del partito, si era
praticamente autodefenestrato dalla vita politica attiva e non
assumeva nessuna responsabilità ufficiale, neppure
nell'ambito della sua stessa corrente". ( O. Damen, Gramsci tra
marxismo e idealismo, cit., p. 103)
(8) Una efficace ricostruzione dell'esperienza del Comitato d'Intesa
e dei metodi utilizzati contro di esso dal gruppo dirigente
gramsciano si può trovare in La sinistra comunista e il
Comitato d'Intesa, Quaderni Internazionalisti, Torino 1996.
(9) L. Maitan, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Milano
1987, p. 20.
(10) P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 1,
cit., pp. 444-447.
(11) G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, cit., p. 188.
(12) A Lione la sinistra ottiene il 9.2 dei voti, contro il 90.8
della centrale, ciononostante Gramsci insistette perché la
sinistra fosse rappresentata nel CC con due rappresentanti,
così come si adopererà perché Bordiga possa
partecipare in rappresentanza della minoranza al Sesto Plenum
dell'Internazionale. Sul Sesto Plenum e sul violento scontro tra
Bordiga e Stalin che vi si svolge cfr. P. Spriano, Storia del
Partito comunista italiano, vol. II, Torino 1976, pp. 3-17.
(13) Sul Congresso di Lione esiste una vasta letteratura.
Particolarmente interessanti gli atti del seminario svoltosi a
Cortona nel novembre 1987, ora raccolti in AA.VV., Le Tesi di Lione.
Riflessioni su Gramsci e la storia d'Italia, Milano 1990. Per quanto
riguarda Bordiga Cfr. Progetto di tesi per il III Congresso del
partito comunista presentato dalla sinistra, ora in In difesa della
continuità del programma comunista, Milano 1970, pp. 91-123.
(14) Definitive ci paiono a questo proposito le conclusioni a cui
perviene Ferdinando Ormea in Le origini dello stalinismo nel PCI,
Milano 1978. Cfr. anche gli scritti di Leonetti, Tresso e Ravazzoli
raccolti in Crisi economica e stalinismo in Occidente, a cura di F.
Ormea, Roma 1976.
(15) A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, cit., pp.
124-131
(16) Cfr. la lettera di Jules Humbert-Droz a Giuseppe Berti in data
6 maggio 1964, pubblicata in
Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, cit., p. 259 n.
(17) Cfr. la lettera di Togliatti a Gramsci del 18 ottobre 1926,
ibidem, p. 133.
(18) Cfr. le lettere ai familiari da Ustica in cui Gramsci
testimonia della grande amicizia che lo lega a Bordiga che
nell'isola lo ha iniziato ai segreti della cucina e dello scopone
scientifico (A. Gramsci, Vita attraverso le lettere, cit., p. 153).
Altrettanto significative sono le molte lettere di Bordiga a Gramsci
nel 1927, così come il tentativo di farlo fuggire da Ustica
(Cfr. C. Ravera, Diario di trent'anni 1913-1943, Roma 1973, p. 283)
o i contatti intercorsi tra i due fra il 1934 e il 1935 a Formia,
proprio poco prima che Gramsci morisse. (Cfr. la testimonianza di
Leonetti in Peregalli-Saggioro, Amadeo Bordiga. Gli anni oscuri
(1926-1945), Firenze 1997, pp. 34-35. Ancora nel 1970, a pochi mesi
dalla morte, Bordiga dichiara a Giuseppe Fiori: "Ci stimavamo
vicendevolmente. La diversità di formazione culturale, le
contese ideologiche, non ebbero mai la conseguenza d'incrinare i
nostri buoni rapporti". (Fiori, Bordiga, un combattente coraggioso e
dogmatico, in Stampa Sera, 27 luglio 1970, citata in Livorsi, Amadeo
Bordiga, cit., p. 301).
QUARTA PARTE
maggio 2000, a cura di Giorgio Amico
Appendice: Gramsci e lo stalinismo
Ancora nel 1958, due anni dopo il XX Congresso, Togliatti non aveva
esitazioni a presentare l'immagine di un Gramsci in carcere convinto
stalinista; in realtà sono numerose le fonti che testimoniano
prima di un radicale dissenso di Gramsci rispetto alla politica
della "svolta" con argomentazioni sostanzialmente simili alle tesi
della NOI e poi di una totale ripulsa dello stalinismo come sistema
di governo.
Scrive Ercole Piacentini, operaio meccanico, compagno di Gramsci a
Turi: "Gramsci batteva particolarmente sul fatto che nel partito non
si doveva guardare all'uomo ma alle direttive del CC. Parlava di
Stalin come di un despota e diceva di conoscere il testamento di
Lenin, dove si sosteneva che Stalin era inadatto a diventare il
segretario del partito bolscevico. Ci parlava di Rykov, di Kamenev,
di Radek e soprattutto di Bucharin, per il quale aveva
un'ammirazione particolare. Una volta ci parlò della
Rivoluzione francese (...) E a proposito di ciò,
accennò anche a un 'termidoro' sovietico".
Ricorda Bruno Tosin, stalinista convinto, dal dicembre 1930 a Turi
che Gramsci "si dimostrava molto impensierito per la ripercussione
che la lotta all'interno del partito bolscevico aveva avuto
nell'Internazionale, la cui opera di direzione collegiale, secondo
il suo parere, era paralizzata o indebolita in conseguenza di tali
lotte. In questa occasione deplorò anche il fatto che Stalin
nel passato non avesse mai avuto occasioni di svolgere una certa
vita internazionale, a differenza di altri capi bolscevichi, e
ciò restringeva la sua visione del processo generale del
movimento mondiale"
Tesi ribadita all'ex deputato comunista Ezio Riboldi nella primavera
del 1931, una volta appresi con irritazione gli esiti del IV
Congresso del PCd'I a Colonia: "Bisogna tener presente che l'
habitus mentale di Stalin è ben diverso da quello di Lenin
(...) Stalin è rimasto sempre in Russia, conservando la
mentalità nazionalista che si esprime nel culto dei Grandi
Russi. Anche nell'Internazionale, Stalin è prima russo e poi
comunista: bisogna stare attenti". (72)
Ma la testimonianza principale è dello stesso Gramsci: il 13
luglio 1931 questi scrive a Tatiana: "Mi pare che ogni giorno si
spezzi un nuovo filo dei miei legami col mondo del passato e che sia
sempre più difficile riannodare tanti fili strappati". (73)
La lettera non verrà pubblicata nell'edizione
Platone-Togliatti del 1947 delle Lettere dal carcere, così
come verrà censurata un'analoga considerazione presente nella
lettera a Tatiana del 3 agosto dello stesso anno: "Non essendoci da
parte mia mutamento di terreno culturale, si tratta di sentirsi
isolato nello stesso terreno che di per sé dovrebbe suscitare
legami affettivi". (74) Il messaggio è trasparente: Gramsci
si considera ancora un comunista, ma non si identifica più
nel movimento comunista, così come si è andato via via
definendo a seguito dell'affermarsi dello stalinismo. (75)
Ma cosa Gramsci, seppellito da anni in un carcere fascista, è
in grado di conoscere di quanto accade fuori, che ragionevole
fondamento hanno i suoi giudizi che, come si è visto, sono
netti ? A questo proposito illuminante è il seguente passo di
una lettera a Tania del 1933: "Sebbene viva in carcere, isolato da
ogni fonte di comunicazione, diretta e indiretta, non devi pensare
che non mi arrivino ugualmente elementi di giudizio e di
riflessione. Arrivano disorganicamente, saltuariamente, a lunghi
intervalli, come non può non accadere, dai discorsi ingenui
di quelli che sento parlare o faccio parlare e che di tanto in tanto
portano l'eco di altri ambienti, di altre voci, di altri giudizi
ecc. Non ho ancora perdute tutte le qualità di critica
'filologica': so sceverare, distinguere, smorzare le esagerazioni
volute, integrare ecc. Qualche errore nel complesso ci deve essere,
sono pronto ad ammetterlo, ma non decisivo, non tale da dare una
diversa direzione al corso dei pensieri". (76)
Gramsci, dunque, non solo conosce a grandi linee gli avvenimenti
sovietici, ma ci tiene a farlo sapere, quasi fosse preoccupato di
controbattere eventuali obiezioni fondate sul suo status di
prigioniero. Ad una lettura attenta anche i Quaderni, nella più
recente edizione critica, riservano più di una sorpresa
rispetto alla tradizionale versione di un Gramsci convinto
stalinista che non perderebbe occasione per stigmatizzare dal
carcere le colpe di un Trotsky divenuto "puttana del fascismo". (77)
"Sta di fatto - scrive Vacca - che, al di là della polemica
con Trotsky del 1924-1926, che è il solo tema per cui Stalin
viene nominato, di lui nei Quaderni
Gramsci non parla se non indirettamente accennando all'URSS in modi
critici. Né si può sottovalutare il fatto che tutte le
critiche di Gramsci all'URSS staliniana convergano nel sottolineare
le conseguenze politiche e statali della rottura dell'alleanza fra
operai e contadini". (78) D'altronde, se Gramsci pare mantenere un
costante atteggiamento critico verso le posizioni di Trotsky, come
non pensare che nel pieno della politica di industrializzazione
forzata e dopo la "svolta" avventurista del '29, questo non cambi di
segno e non vada a colpire direttamente quello stesso Stalin che per
Gramsci subordina, lo abbiamo appena visto, la rivoluzione mondiale
agli interessi nazionali russi. (79)
Netta è nei Quaderni,
anche se espressa con le cautele dovuta alla particolare situazione
della prigione, la messa in guardia nei confronti di una possibile
involuzione bonapartista dell'URSS a causa di un'industrializzazione
fondata sulla mera coercizione invece che sul consenso. Scrive
Gramsci nel Quaderno 22 proprio
in riferimento ai pericoli di un industrialismo fine a se stesso:
"Il suo contenuto essenziale (...) consisteva nella 'troppo risoluta
(quindi non razionalizzata) volontà di dare la supremazia,
nella vita nazionale, all'industria e ai metodi industriali, di
accelerare, con metodi coercitivi esteriori, la disciplina e
l'ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle
necessità del lavoro. Data l'impostazione generale di tutti i
problemi connessi alla tendenza, questa doveva sboccare
necessariamente in una forma di bonapartismo..." . (80)
Come già al tempo dela polemica antibordighiana del 1924-1926
sono gli interessi del movimento proletario internazionale a fungere
da criterio di giudizio. L'abbandono di Stalin della politica
leninista di alleanza degli operai e contadini quale base del potere
proletario agevola la rivoluzione mondiale? E l'uso generalizzato di
metodi polizieschi dentro e fuori il partito come deve essere
valutato dai marxisti senza cadere in un democraticismo fine a se
stesso? L' uso della violenza da parte di un partito politico, anche
espressione "di gruppi subalterni", cioè detto in chiaro di
un partito comunista al potere, ha carattere comunque reazionario o
può avere valenza positiva?
La risposta di Gramsci è netta e coerentemente marxista: "La
funzione di polizia di un partito può dunque essere
progressiva o regressiva: è progressiva quando essa tende a
tenere nell'orbita della legalità le forze reazionarie
spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le
masse arretrate. E' regressiva quando tende a comprimere le forze
vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata,
antistorica, divenuta estrinseca. Del resto, il funzionamento del
partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito
è progressivo esso funziona 'democraticamente' (nel senso di
uncentralismo democratico), quando il partito è regressivo
esso funziona 'burocraticamente' (nel senso di un centralismo
burocratico). Il partito in questo secondo caso è puro
esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un
organo di polizia e il suo nome di 'partito politico' è una
pura metafora di carattere mitologico". (81)
Concetto ripreso, a sostanziare ulteriormente la sua analisi della
degenerazione burocratica e autoritaria del modello sovietico, nel Quaderno 15: "Dato che anche
nello stesso gruppo esiste la divisione fra governanti e governati,
occorre fissare alcuni principi inderogabili, ed è anzi su
questo terreno che avvengono gli 'errori' più gravi, che
cioè si manifestano le incapacità più
criminali, ma più difficili a raddirizzare. Se crede che
essendo posto il principio dello stesso gruppo, l'obbedienza debba
essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione
di 'necessità' e razionalità non solo, ma sia
indiscutibile (qualcuno pensa, e ciò che è peggio,
opera secondo questo pensiero, che l'obbedienza 'verrà' senza
essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata).
Così è difficile estirpare dai dirigenti il
'cadornismo', cioè la persuasione che una cosa sarà
fatta perchè il dirigente ritiene giusto e razionale che sia
fatta: se non viene fatta, 'la colpa' viene riversata su chi
'avrebbe dovuto', ecc. Così è difficile estirpare
l'abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili.
Eppure, il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri
collettivi (politici) avvengono perchè non si è
cercato di evitare il sacrificio inutile, o si è mostrato di
non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la
pelle altrui". (82)
E' una condanna senza attenuanti di un modello di sviluppo,
industrialistico e statalista, fondato sul più assoluto
disprezzo dei costi umani e della volontà delle masse,
sull'obbedienza automatica, sul culto del capo ("cadornismo") che
non solo ha da tempo perso ogni residua connotazione progressiva, ma
che rappresenta il principale ostacolo sulla via della ripresa
rivoluzionaria.
Posto di fronte alla necessità di "apprendere troppe e troppo
tremende cose" (83), messo al bando dal partito, dal profondo del
carcere Antonio Gramsci non cessa di combattere con le uniche armi a
sua disposizione, la sua mente e la sua penna, contro la
controrivoluzione, fiducioso come tutti i grandi rivoluzionari, in
un "futuro limpido e luminoso dell'umanità". (84)
NOTE
(72) Ibidem, p. 48.
(73) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 1°, Roma 1988, p.
299.
(74) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, Roma 1988, p. 18.
(75) Sull'isolamento di Gramsci in carcere cfr. le ricerche di
Spriano (Gramsci in carcere e il partito, Roma 1977) e di Fiori (
Gramsci Togliatti Stalin, cit.). E' opportuno comunque ricordare la
testimonianza terribile di Terracini relativa alla morte di Gramsci.
"Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al
partito. Perciò la notizia della sua morte passò come
tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni"
(Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 115).
(76) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, cit., p. 191.
(77) La citazione, falsa, è dovuta alla penna di uno fra i
più raffinati esponenti di quell'area di intellettuali
passati tranquillamente dal fascismo al "partito nuovo" di Togliatti
(L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo, Torino 1947, p. 56).
Nel volume vengono a piene mani diffuse calunnie su Bordiga e "la
provocazione di tipo trotzkista al soldo dell'Ovra". (ibidem, p.
57).
(78) G. Vacca, L'URSS staliniana nell'analisi dei Quaderni dal
carcere, in Gorbacev e la sinistra europea, Roma 1989, p. 75.
(79) Tesi peraltro già avanzata sul finire degli anni
Sessanta da Silverio Corvisieri (Trotskij e il comunismo italiano,
cit., pp. 95-96).
(80) A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino 1975, p. 2164.
(81) Ibidem, p. 1691.
(82) Ibidem, p. 1752.
(83) La frase, rivolta al giovane Gramsci, è di Bordiga. (A.
Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, cit., p. 97).
(84) E' un passo della deposizione di Trotsky davanti alla
Commissione Dewey nell'aprile 1937 che rappresenta il suo testamento
politico e ben si addice a un marxista indomabile e generoso come fu
Antonio Gramsci. "L'esperienza della mia vita - scrive Trotsky - in
cui non sono mancati successi e fallimenti, non soltanto non ha
distrutto la mia fede in un futuro limpido e luminoso
dell'umanità, ma anzi l'ha temprata e resa incrollabile.
Questa fede nella ragione, nella verità, nella
solidarietà umana, che a diciotto anni portai con me nei
quartieri operai (...), l'ho conservata piena e intatta. E'
diventata più matura, ma non meno ardente...". (Cfr. I.
Deutscher, Il profeta esiliato,
Milano 1965, p. 483).