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Gramsci e Bordiga alle origini del comunismo italiano



PRIMA PARTE
aprile 2000, a cura di Giorgio Amico


Che la guerra portasse in se i germi della rivoluzione era pacifico per il movimento operaio di inizio secolo. La stessa esperienza eroica della Comune di Parigi stava a testimoniarlo. Quello che il marxismo economicistico della Seconda Internazionale non poteva prevedere era che la "vecchia talpa" scegliesse per riapparire un paese arretrato come la Russia, da sempre considerato il più munito bastione dell'assolutismo. Naturale, dunque, lo sconcerto dei riformisti che, Kautsky in testa, tentano di ridurre la portata degli avvenimenti allo specifico russo, negandone la traducibilità in Occidente. Altrettanto naturale l'entusiasmo con cui in tutta Europa una generazione di giovani, formatasi nell'esperienza sanguinosa della guerra, saluta nell'Ottobre l'annunciarsi di una nuova epoca che risponde con la chiarezza suggestiva dei fatti concreti ad una serie di interrogativi e di problemi che sul campo teorico parevano insolubili e che ora la critica delle armi scioglie vittoriosamente(1). E' la Russia arretrata a porre all'Occidente avanzato il problema della rivoluzione nei termini storicamente concreti del bolscevismo. "La visione della rivoluzione russa e il clima del dopoguerra italiano - scrive uno dei protagonisti di quegli anni - ci parevano annunziare una rivoluzione prossima anche in Italia, che bisognava preparare e far trionfare (...) E i dissensi che si manifestarono poi (...) furono dissensi sul modo e sulle istituzioni che potevano assicurarci la vittoria."(2)

In un partito tradizionalmente zeppo di "professori" e di intellettuali autorevoli come il PSI, sono due giovani, il ventiseienne Antonio Gramsci e il ventottenne Amadeo Bordiga, a tentare una interpretazione complessiva dei fatti russi che possa fungere da guida per una rivoluzione considerata imminente. I due vengono da esperienze diverse e hanno storie diverse alle spalle. Bordiga è già dalla fine del primo decennio del 1900 un leader affermato dei giovani socialisti, capace nel 1914 di contrapporsi da pari a pari a un Mussolini avviato sulla via del tradimento. Gramsci è un intellettuale dalla vastissima cultura, ma dalla scarsa esperienza politica, quasi sconosciuto al di fuori di Torino. Anche l'approccio al marxismo dei due è diverso: fortemente intellettuale quello di Gramsci filtrato attraverso Bergson, Sorel, Croce; deterministico, con forti venature positivistiche, quello di Bordiga.

Coerentemente con la sua formazione Gramsci vede nell'operato di Lenin e dei bolscevichi una forzatura volontaristica del determinismo economico marxiano e lo saluta come una positiva rottura delle "incrostazioni positivistiche e naturalistiche" della vulgata marxista. E' una interpretazione ancora fortemente intrisa di idealismo che riecheggia la polemica antideterministica del Mussolini socialista rivoluzionario e che evidenzia non solo un entusiastico consenso, ma anche la volontà di interpretare la esperienza russa in un modo più prossimo alla propria esperienza che allo svolgimento obiettivo dei fatti.(3)

Completamente diverso l'approccio di Bordiga, interessato più di ogni altra cosa a dimostrare come il bolscevismo rappresenti una conferma piena del marxismo. Per Bordiga in Russia si è celebrato il trionfo definitivo del Manifesto del partito comunista e in generale della strategia marxiana del 1848, incentrata sul dialettico intrecciarsi di istanze democratico-borghesi e aspirazioni proletarie: "La chiave della situazione russa - egli scrive - sta nel gioco di queste due grandi correnti suddivise in molte sfumature, che, alleate di fatto finché il comune nemico era in piedi, si rivelano all'indomani del trionfo sul vecchio regime opposte ed antitetiche, storicamente inconciliabili (...) Si comprende che i socialisti lavorano all'attuazione di un programma dalle linee semplici e grandiose, - quello stesso del Manifesto dei comunisti - cioè la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di produzione, mentre procedono logicamente e conseguentemente a liquidare la guerra".(4)

Mentre il pensiero di Bordiga può dirsi già definito nelle sue strutture portanti, il marxismo di Gramsci risente ancora fortemente di quell'attivismo che nell'ottobre 1914 lo aveva collocato a fianco di Mussolini a sostenere la teoria della "neutralità attiva e operante". Se allora i rivoluzionari erano definiti come coloro che "concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione)",(5) ora i bolscevichi diventano coloro che "rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si poteva pensare e si è pensato". Coloro che "vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche". Per cui "massimo fattore di storia" non sono "i fatti economici, bruti", ma è la volontà degli uomini "motrice dell'economia, plasmatrice della realtà oggettiva, che vive e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace".(6)

Un Gramsci, dunque, socialista rivoluzionario, ma non ancora compiutamente marxista, fortemente influenzato da tendenze bergsoniane, idealistiche, salveminiane e anche mussoliniane(7) che confluiscono in uno storicismo attivistico destinato a durare a lungo nonostante la pur positiva evoluzione successiva e a condizionare negativamente il suo concreto agire politico. Un elemento da non sottovalutare, se si vuole meglio comprendere il ruolo tutto sommato secondario che egli gioca nella preparazione di Livorno. "Quella sua, - nota Giuseppe Berti - sia pur passeggera, crisi 'interventista', quindi, non fu una bazzeccola perchè gli impedì di ritrovare il leninismo già in Zimmerwald e Kienthal. In questo egli ritardò non soltanto nei confronti dei bolscevichi, ma nei confronti degli stessi socialisti internazionalisti italiani, di Serrati, di Bordiga, di Terracini, di Tasca e delle migliaia di modesti militanti socialisti che prima in una posizione neutralistica, e poi in una posizione di lotta più esplicita e chiara, sin dal 1914-15 presero posizione contro la guerra".(8)

Gramsci e Bordiga nel biennio rosso: tattica astensionista e consigli operai

L'eco della rivoluzione russa unita alla disfatta di Caporetto mette a nudo l'ipocrisia del "né aderire, né sabotare". In una riunione della sinistra rivoluzionaria (Firenze, 18 novembre 1917) Bordiga è l'unico ad avanzare apertamente l'ipotesi di una decisa azione rivoluzionaria.(9) Gramsci tace e Serrati ha buon gioco a mantenere la sinistra del partito al'interno del tradizionale gioco delle correnti che da sempre connota il socialismo italiano. Bordiga, che pure non ha più illusioni sulla recuperabilità a fini rivoluzionari del PSI,(10) nei fatti agevola questo tentativo. Infatti, l'intransigenza con cui egli pone la pregiudiziale astensionista rappresenta un serio ostacolo alla formazione immediata di una unica frazione comunista. "Era certezza in Bordiga - scrive il "milanese" Fortichiari - di poter uscire dal ristretto e deformante ambito del Sud per estendere ai principali centri di Italia la corrente che egli animava. Questo calcolo gli fece minimizzare il peso dei gruppi della sinistra socialista sfavorevoli alla sua pregiudiziale; egli propendeva, in fondo, ad una selezione intransigente senza tener conto dell'urgenza degli avvenimenti"(11). E' un'osservazione corretta, Bordiga mostra di non dare soverchia importanza alla questione dei tempi e di non comprendere come in quella fase il problema dell'astensionismo rappresentasse un elemento di fatto secondario in una corretta strategia rivoluzionaria.(12) Almeno fino a tutto il 1920 resterà così irrisolto il nodo vero, rappresentato dal centrismo di Serrati a cui l'intransigenza di Bordiga va in definitiva ad offrire un comodo alibi.(13)

Oltre alla Russia anche la forte ascesa delle lotte operaie costringe i rivoluzionari del PSI ad andare oltre il vuoto rivoluzionarismo verbale del partito. L'ondata operaia che tocca il suo culmine nell'aprile del 1920 con lo "sciopero delle lancette", non va solo diretta politicamente, ma anche compresa teoricamente, pena il riflusso e l'avanzata della reazione. E' una lotta contro il tempo che i rivoluzionari perderanno, tanto che l'occupazione delle fabbriche si svolge già interamente nel segno del riflusso. Se nella sinistra rivoluzionaria tutti sostengono la necessità della generalizzazione delle lotte, ci si divide su chi debba assicurare la guida degli scioperi. A Torino il gruppo de l'Ordine Nuovo punta tutto sul ruolo dirigente dei consigli operai assimilati ai soviet russi. Gramsci intende fare del soviettismo la base per il rinnovamento rivoluzionario del PSI e della CGL e il motore stesso della rivoluzione proletaria in Italia e ciò a partire dalla trasformazione delle commissioni interne, concepite come "embrione di soviet", in consigli di fabbrica. Il tutto con una oggettiva sottovalutazione non solo del ruolo del partito ridotto a mero coordinatore di un movimento dei consigli destinato a svilupparsi con dinamiche proprie, ma anche della tradizionale funzione di coordinamento territoriale delle istanze di fabbrica svolto dalle Camere del Lavoro.(14)

Su queste posizioni Gramsci è isolato, tanto da essere messo in minoranza all'interno dello stesso gruppo dell'Ordine nuovo. Dal canto suo, Bordiga gli rimprovera di credere "che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico" e di contrapporre un organo che non può che essere di natura parziale all'unico possibile strumento generale di liberazione del proletariato, il partito di classe. Per il rivoluzionario napoletano, ancorarsi allo schema dei consigli significa preoccuparsi della creazione degli istituti del potere socialista più che della conquista del potere. E' sbagliato, ammonisce dalle pagine de "Il Soviet", "fare la questione del potere nella fabbrica anzichè la questione del potere politico centrale"(15)

La battaglia per il partito

A differenza di Gramsci, Bordiga non crede nel carattere di per se rivoluzionario dei consigli. Determinante è per lui anche in questo il ruolo di direzione del partito alla cui costruzione occorre subordinare qualunque altra preoccupazione. Per questo nel 1920 egli abbandona il tema delle lotte operaie, a cui pure aveva dedicato grande attenzione nel 1918-1919,(16) per impegnarsi a fondo nella costruzione nazionale della sua frazione. Elemento del tutto trascurato da Gramsci che crede nella possibilità di una spontanea rifondazione in senso classista del PSI proprio a partire dalle lotte di fabbrica. Ad aprile nel pieno dello "sciopero delle lancette" redige le sue tesi "Per un rinnovamento del Partito Socialista". L'esito è negativo. Le tesi vengono di fatto ignorate dal partito, che anzi contribuisce fortemente al soffocamento della vertenza.(17) Lo stesso Serrati, su cui egli ripone non poche speranze, si rivela sostanzialmente subalterno al gruppo dirigente riformista del PSI e della CGL che arretra davanti alla richiesta di trasformare gli scioperi in lotta aperta per il potere.

E' questa sconfitta a spingere Gramsci verso un Bordiga che non smette di proclamare la necessità di un nuovo partito. del tutto diverso da quello fondato a Genova nel 1892. Nuovi compiti attendono il proletariato, occorre un nuovo tipo di militante comunista, il partito va ricostruito a partire dall'esperienza viva dell'illegalismo bolscevico: "Noi - denuncia Bordiga - siamo vissuti nella democrazia borghese: non abbiamo una stanza per nascondere un compagno, non abbiamo un timbro per falsificare i passaporti, non abbiamo cose che servano a questo lavoro rivoluzionario. Noi consideriamo ancora il problema secondo la vecchia mentalità: le armi il proletariato potrà trovarle, ma il partito manca di mezzi tattici per l'azione che si chiama illegale; ne manca completamente perchè si lascia attrarre dalle insidie della democrazia borghese, che lo sovraccarica di compiti minimi e riesce così a spezzare la sua azione".(18)

Nonostante le profonde divergenze, i gruppi del 'Soviet' e de 'L' Ordine nuovo', convergono ormai apertamente contro tutte quelle forze, massimalisti in primo luogo, che si ostinano a non voler rompere con una tradizione socialista ormai esausta. Agli inizi del maggio 1920 Gramsci è a Firenze come osservatore alla conferenza nazionale della Frazione comunista astensionista. Nonostante sia colpito dalle dimensioni consistenti raggiunte dalla Frazione, egli non nasconde le sue perplessità rispetto al mantenimento della pregiudiziale astensionista, base troppo "ristretta" per permettere la nascita del partito comunista.(19) L'occupazione delle fabbriche, con l'aperto rifiuto della direzione riformista del PSI e della CGL di assumere la direzione della lotta, è la definitiva conferma di quanto da sempre Bordiga va enunciando. Senza un forte e compatto partito rivoluzionario non esiste sbocco possibile ad una situazione che pure è rivoluzionaria. La lotta per il potere non si esaurisce nella fabbrica, ma deve investire direttamente lo Stato borghese.

Nell' ottobre 1920, a poche settimane dalla chiusura del Secondo Congresso dell'Internazionale comunista, si riuniscono a Milano le componenti della sinistra socialista favorevoli all'espulsione dei riformisti e alla trasformazione del PSI in un autentico partito comunista. Bordiga, che a Mosca ha avuto sulla questione del parlamentarismo un duro scontro con Lenin, rinuncia ufficialmente alla pregiudiziale astensionista e si dichiara pronto ad accettare la partecipazione del partito alle ormai prossime elezioni amministrative. La svolta di Bordiga rimuove i residui ostacoli sulla via dell'unificazione dei gruppi comunisti. Bordiga, Repossi, Fortichiari, Gramsci, Terracini, Bombacci e Misiano vengono chiamati a far parte di un "Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista" che subito nomina un esecutivo centrale formato da due astensionisti (Bordiga e Fortichiari) e da un massimalista di sinistra (Bombacci). L'esito della riunione chiarisce che solo i bordighiani possiedono un peso tale da supportare nazionalmente l'azione scissionistica.

Gramsci rientra a Torino pienamente conquistato all'inevitabilità della rottura, fermamente convinto che se si intende realmente sbloccare in senso rivoluzionario la situazione, occorre affidarsi a Bordiga la cui frazione ha ormai solide ramificazioni un pò in tutta Italia. Ma troppo è il tempo perso. L'unificazione avviene con il movimento proletario costretto a difendersi dagli attacchi sempre più violenti della reazione."Nella fase culmine del dopoguerra - scrive uno dei protagonisti di quella stagione - la rivoluzione proletaria non aveva avuto il suo partito e da questi una organizzazione e una direzione adeguate a tale prospettiva, nè l'opposizione, del resto assai viva nel PSI, era in grado di sostituirlo in questo compito dato che i gruppi che facevano capo al Soviet di Napoli avevano esaurito la loro capacità d'iniziativa in un'azione infeconda basata sull'astensionismo politicamente troppo unilaterale, angusto e scarsamente sentito dalle masse, e i gruppi torinesi degli ordinovisti, chiusi nella città della grande industria, erano caduti in una fase di scetticismo; falliti i consigli nella grande prova come organi autosufficienti del proletariato,erano stati abituati a credere ancora, nonostante tutto, nel partito socialista e non nella necessità storica della formazione del partito rivoluzionario"(20).

Si tratta di considerazioni largamente condivisibili.(21) Chi, appoggiandosi sulla riflessione critica che Gramsci fa nel '24 dell'intera esperienza di Livorno, rimprovera a Bordiga di aver voluto una scissione minoritaria, mostra di non cogliere la complessità della fase e la brusca accelerazione dei tempi dello scontro di classe rispetto ai tempi più lunghi della politica.(22) Se un appunto va fatto a Bordiga è semmai di non avere tento conto a sufficienza del fattore tempo. Se un limite c'è nel partito di Livorno, questo consiste non nella sua troppo ristretta base di partenza, ma nell'essere nato in ritardo rispetto ai tempi della rivoluzione, quando il proletariato è già in piena ritirata sotto i colpi della reazione fascista. Lenin stesso pare pensarlo, almeno a partire dall'autunno 1920, quando ricorda ai compagni italiani che il pericolo non consiste, come pare credere Serrati, nell' indebolimento del PSI a causa dell'uscita dei comunisti, ma nel sabotaggio della rivoluzione da parte dei massimalisti prigionieri dei loro scrupoli unitari.(23)


NOTE

(1) "I diversi aspetti ed i successivi episodi di questa rivoluzione -scrive Bordiga- rispondono con chiarezza suggestiva ad una serie di punti interrogativi, di problemi che nel campo teorico potevano seguitare ad essere indefinitamente discussi, ma che la realtà di oggi e di domani va sistemando e chiudendo per sempre...". (A. Bordiga, Gli insegnamenti della nuova storia, Avanti!, 16 febbraio 1918, ora in Storia della sinistra comunista, vol. 1 bis, Milano 1966).
(2) A. Tasca, I primi dieci anni del PCI, Bari 1971, p. 98.
(3) A. Caracciolo, A proposito di Gramsci, la Russia e il movimento bolscevico; in AA.VV., Studi gramsciani, Roma 1973, p. 78.
(4) A. Bordiga, La rivoluzione russa, L'Avanguardia, 11 novembre 1917; ora in Storia della sinistra comunista, vol. I, Milano 1964, pp. 330-331
(5) A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, Il Grido del Popolo, 31 ottobre 1914; ora in Scritti giovanili 1914-1918, torino 1958, pp. 3-7.
(6) A. Gramsci, La rivoluzione contro il "Capitale", Avanti!, 24 novembre 1917; ora in Scritti giovanili, cit., pp. 149-153
(7) "L'azione -scrive quasi nello stesso periodo Mussolini - ha ragione degli schemi consegnati nei libri. L'azione forza i cancelli sui quali sta scritto "vietato". I pusillanimi si fermano, gli audaci attaccano e rovesciano l'ostacolo". (B. Mussolini, Osare!, Il Popolo d'Italia, 13 giugno 1918; ora in E. Santarelli (a cura di), Scritti politici di Benito Mussolini, Milano 1979, p. 178).
(8) G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, Milano 1967, pp. 19-20.
(9) "Bordiga analizzò la situazione in Italia. Constatò la disfatta sul fronte, la disorganizzazione dello Stato italiano e terminò con queste parole: 'Bisogna agire. Il proletariato delle fabbriche è stanco. Ma è armato. Noi dobbiamo agire'. Gramsci era dello stesso parere. Serrati, Lazzari e la maggioranza dei presenti si pronunciarono per il mantenimento della vecchia tattica: non aderire, né sabotare la guerra". (G. Germanetto, Souvenirs d'un perruquier, Paris 1931, p. 113. Nelle successive edizioni italiane, in ossequio alle direttive togliattiane, il passo sparisce.
(10) Non concordiamo con la tesi di Franco De Felice secondo cui Bordiga resta per tutto un periodo convinto della possibilità di un recupero di gran parte dell'area massimalista. (De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia 1919-1920, pp.129-130.
(11) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, Torino 1978, p. 38.
(12) E' quanto sostiene O. Damen, figura storica del "bordighismo" italiano (Gramsci tra marxismo e idealismo, Milano 1988, p. 80).
(13) L'atteggiamento di Bordiga si spiega in parte con la frammentaria conoscenza delle reali posizioni dei russi. Solo nel dicembre 1919, quando giunse in Italia e fu pubblicato sull'Avanti, il testo dei due messaggi nei quali Lenin esortava i comunisti dell'Europa occidentale a partecipare alle elezioni politiche, risultò manifestamente chiaro che l'astensionismo di principio era estraneo all'autentica esperienza bolscevica. Nonostante ciò, la Frazione non aggiorna le proprie posizioni. L'11 gennaio 1920 Bordiga manda una lunga lettera a Mosca allegando i documenti della sua frazione. Il contrasto sulla tattica si sposta dal PSI all'Internazionale comunista. Lenin, che deve già fronteggiare l'operaismo esasperato della sinistra tedesca, risponderà con l'opuscolo sull'estremismo. La lettera di Bordiga è riprodotta in Storia della sinistra comunista 1919-1920, Milano 1972, pp. 113-115.
(14) Cfr. a questo proposito gli scritti raccolti in A. Gramsci, L'Ordine Nuovo, Torino 1975. Proprio su questa diversa valutazione del ruolo delle CdL si compirà la rottura con Tasca e la maggioranza del gruppo ordinovista. Cfr. per un'approfondita ricostruzione del contrasto nel gruppo torinese lo studio di Francesco Trocchi (Angelo Tasca e l' Ordine Nuovo, Milano 1973).
(15) A. Bordiga, Per la costituzione dei consigli operai in Italia, Il Soviet 4 e 11 gennaio - 1, 8 e 22 febbraio 1920; ora in Storia della sinistra comunista 1919-1920, cit., pp. 278-293.
(16) Sul ruolo dirigente svolto da Bordiga nelle lotte operaie fra il 1918 e il 1919 si sofferma in particolare la De Clementi. (Amadeo Bordiga, Torino 1971, pp. 59-75).
(17) A. Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista, L'Ordine Nuovo 8 maggio 1920; ora in L'Ordine Nuovo, cit., pp. 116-123. Le Tesi avranno più successo a Mosca nel corso del Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista. (Cfr. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Roma 1970, p. 194).
(18) Storia della sinistra comunista 1919-1920, cit., p. 353.
(19) Sui rapporti tra Bordiga e Gramsci nel 1920 si sofferma Giuseppe Fiori che, però, a nostro parere tende a dare un quadro troppo esasperato della situazione. Cfr. G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Bari 1973, p. 152 e sgg.
(20) O. Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo, cit., p. 83.
(21) Ritardi ed esitazioni, quelle de 'L'Ordine Nuovo', di cui si trova conferma nelle memorie di Umberto Terracini che testimonia come Gramsci si ostinasse a lungo a ritenere "possibile imprimere un indirizzo nuovo al PSI" (U. Terracini, Quando diventammo comunisti, Milano 1981, p. 40).
(22) "Fummo sconfitti - scrive Gramsci nel 1924 - perchè la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi, quantunque avessimo dalla nostra parte l'autorità e il prestigio dell'Internazionale, che erano grandissimi e sui quali ci eravamo fidati. Non avevamo saputo condurre una campagna sistematica, tale da essere in grado di raggiungere e di costringere alla riflessione tutti i nuclei e gli elementi costitutivi del partito socialista, non avevamo saputo tradurre in linguaggio comprensibile a ogni operaio e contadino italiano il significato di ognuno degli avvenimenti italiani degli anni 1919-20 (...) Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti". (Contro il pessimismo, L'Ordine Nuovo, 15 marzo 1924; ora in La costruzione del Partito Comunista, Torino 1971, pp. 16-20).
(23) "Serrati - scrive Lenin - teme che la scissione indebolisca il partito, in particolar modo i sindacati, le cooperative ed i comuni. I comunisti invece temono il sabotaggio della rivoluzione da parte dei riformisti. Avendo nelle proprie file dei riformisti, non si può vincere nella rivoluzione proletaria, non si può difenderla. Quindi Serrati mette a repentaglio le sorti della rivoluzione per non danneggiare l'amministrazione comunale di Milano. Oggi in Italia si avvicinano battaglie decisive del proletariato contro la borghesia per la conquista del potere statale. In un momento simile non solo è assolutamente indispensabile allontanare dal partito i riformisti, i turatiani, ma può esser utile persino allontanara da tutti i posti di responsabilità anche degli eccellenti comunisti che sono suscettibili di tentennare e manifestano delle esitazioni nel senso della "unità" con i riformisti (...) il partito non si indebolirà, ma si rafforzerà cento volte di più se i riformisti si allontaneranno completamente dalle sue file e se dalla sua direzione si allontaneranno anche eccellenti comunisti, come sono probabilmente i membri dell'attuale direzione del partito, Baratono, Zannerini, Bacci, Giacomini, Serrati". (Lenin, Sul movimento operaio italiano, cit., pp. 202-218)


SECONDA PARTE

aprile 2000, a cura di Giorgio Amico

La costruzione del Partito comunista

Il Partito comunista nasce, dunque, nel segno di Bordiga in un congresso che è poco più di una orgogliosa proclamazione di indipendenza dal vecchio partito da parte dei rivoluzionari.(1) Gramsci vi gioca un ruolo subalterno e tale comportamento non fu in seguito esente da critiche anche dure, ma era possibile, e soprattutto auspicabile, in quel momento e in quelle condizioni, premere per una più netta chiarificazione? Lo stesso Togliatti risponde di no. "Se un dibattito sulla funzione e sui compiti immediati del partito comunista in Italia - egli scrive - si fosse aperto e si fosse approfondito, sarebbero certamente venute alla luce divergenze di fondo su problemi di importanza decisiva. Ma questo dibattito, nel momento in cui venne immediatamente preparata la creazione del partito e subito dopo di esso, non poteva accendersi. Il fuoco era stato concentrato contro la destra riformista e contro il gruppo di centro che non voleva isolarla ed espellerla dal partito, e in questa impostazione tutti erano concordi"(2).

Ma a Livorno accade qualcosa che va al di là della scelta politicamente giusta di non aprire un dibattito dalle conseguenze imprevedibili. Gramsci tace soprattutto perchè schiacciato dalla forte ostilità di parte dei delegati che gli rinfacciano le esitazioni del 1914. Bruno Fortichiari ci ha lasciato la vivissima descrizione di un uomo angosciato e solitario: "Era presente, era con il direttivo della Frazione, ma continuava a camminare; lo vedo ancora, dietro di noi sul palcoscenico, tutto concentrato in sé, isolato, senza parlare con nessuno"(3).

Sarà il "settario" Bordiga a prenderne le difese senza esitazioni o calcoli prudenziali con un discorso "notevole, per l'efficacia anche oratoria" con cui si rivendica la diversità del nuovo partito rispetto anche alla parte più nobile della tradizione socialista (4). Difendendo Gramsci, Bordiga chiarisce che nel nuovo partito non ci sono più nè astensionisti, nè ordinovisti, ma solo militanti comunisti uniti nella comune fede nella rivoluzione e nella dittatura del proletariato. "Mentre io rivendico - afferma - ciò che ci allaccia al passato di questo partito ed anche a quelli che a noi hanno appreso, uomini che oggi sono nell'altra sponda, mentre io rivendico questo, voglio anche dire che questo fenomeno, che deve essere considerato obiettivamente, del socialista di guerra, a me piace raffrontarlo con quello del socialista della parentesi di guerra, del socialista che non ha bestemmiato perchè ha taciuto, del socialista che quando invece di essere duecentocinquantamila eravamo nelle tessere ventimila e nella pratica poche centinaia, non ha detto nulla, ma che, poi, passata la bufera, è venuto a dire: "Siamo stati contro la guerra", ed è andato nei comizi elettorali a valersi di questo (...), e dico che io, che socialista di guerra non sono stato mai, preferisco quei giovani che, attraverso l'esperienza tratta dall'infamia capitalistica e dall'essere stati inviati al fratricidio sui fronti della battaglia borghese, sono tornati con la nuova fede della guerra per la rivoluzione"(5).

Si è parlato per il periodo 1921-1923 di partito "bordighiano", quasi per contrapporlo in negativo ad un ipotetico "partito di Lione" finalmente recuperato ad una corretta strategia leninista(6). Certo, il PCd'I fu in quel periodo un partito modellato sulla "personalità vigorosa" del suo fondatore, ma senza forzature o esasperazioni leaderistiche. Le testimonianze a favore si sprecano, anche da parte di chi "bordighista" non è mai stato. Scrive ad esempio una storica di matrice "picista": "Nel partito comunista bordighiano poterono trovare posto, per fare un esempio, Tasca e Terracini, Leonetti e Togliatti, Gramsci e Misiano, per dire d'uomini forniti ciascuno di una concezione dell'azione politica che in avvenire si rivelerà non sempre coincidente e talora anche opposta. Era lo stile di lavoro di un partito leninista? Sarebbe troppo semplice rispondere solo con un'affermazione. Certo era questo un aspetto leninista del primo comunismo italiano, ma ciò che qui preme sottolineare è che questo stile di vita e di lavoro si rivelò nella pratica più forte della concezione assolutista che del partito aveva Bordiga. Se pure egli concepiva il partito come un esercito, il fatto è che la sua percezione dell'autentico gli impedì sempre di circondarsi di caporali..."(7).

Il fatto è che, come ricorda Camilla Ravera, "c'era bisogno di una forza rigorosamente unita e disciplinata; e anche la concezione rigida di Bordiga diventava una forza; oltre che una necessità"(8). Quello che nasce a Livorno è un partito compatto, pienamente convinto della necessità di dover andare oltre "alla confusione e al marasma che era stati dominanti nel partito socialista e da cui ci si voleva liberare una volta per sempre"(9). Anche Gramsci condivide questo spirito. Dal 1921 al 1923 appare in linea con Bordiga se non a livello di analisi, almeno sul piano delle conclusioni politiche. Così al momento delle elezioni politiche della primavera del '21, a cui il Partito partecipa soltanto per disciplina nei confronti delle decisioni del Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, anche Gramsci sostiene a fondo su L'Ordine Nuovo le tesi del partito, anzi sarà proprio lui a usare i toni più duri nei confronti del parlamentarismo(10).

C'è chi ha voluto vedere in questo atteggiamento disciplinato nient'altro che la scelta di attendere tempi migliori da parte di un Gramsci che, ancora sotto gli effetti della contestazione subita a Livorno, tuttavia in privato non risparmia dure critiche alla direzione di Bordiga(11). E' una tesi che getta un'ombra di doppiezza su una personalità limpida come sempre fu, anche per ammissione dei suoi avversari, quella di Antonio Gramsci e che non trova riscontri, se non in una frase di Togliatti del febbraio 1924 (12). In realtà, come testimonia Umberto Terracini, "L'Ordine Nuovo per circa un anno tacque sul proprio programma, e fu fedele esecutore dell'impegno di sostenere il Partito comunista senza accentuare le posizioni del gruppo. Ciò incominciò ad avvenire soltanto dal '22 in poi. Vi furono insufficienze, mancanze, errori nostri, che pesarono sui primi passi del nuovo partito. D'altra parte l'esigenza fondamentale del momento era la nascita del vero partito di classe. E poi, anche i rapporti personali e fraterni che esistevano fra Bordiga e noi ebbero un peso nello stemperare i contrasti. Soltanto più tardi, quando si cominciarono ad avvertire i frutti amari della linea politica di Bordiga prendemmo le distanze da lui e ne combattemmo le impostazioni. Ma i rapporti affettuosi e fraterni che avevamo stabilito non si dissolsero mai del tutto"(13).

Il pieno dispiegarsi della controrivoluzione fascista non modifica nella sostanza questa situazione. Bordiga e Gramsci vedono nel fascismo la risposta unitaria della borghesia italiana all'assalto rivoluzionario della classe operaia. In quest'ottica Mussolini non rappresenta una rottura irreversibile degli assetti costituzionali nè tantomeno della tradizione politica liberale. E' sul piano della prospettiva politica e della tattica del partito che le differenze sono profonde. Per Bordiga, ossessionato dal timore di possibili inquinamenti "democraticistici" della purezza programmatica del partito, non esistono soluzioni intermedie e l'unico obbiettivo da propagandare resta la dittatura proletaria. Di conseguenza, va accuratamente evitata ogni possibile confusione sul piano dell'azione con tutte quelle forze che , pur collocandosi sul terreno di un antifascismo militante, vedi ad esempio gli Arditi del Popolo, restano tuttavia ideologicamente spurie e di conseguenza non sicure.

Diversa la posizione di Gramsci, più attento alle contraddizioni all'interno dello schieramento borghese e dello stesso fascismo che gli appare incapace di mantenere l'egemonia sugli strati intermedi e piccolo borghesi soprattutto a livello rurale. Di qui l'attenzione al mondo cattolico e ad una parte dell'intellettualità di cui Gobetti appare il più degno rappresentante, ma soprattutto l'ipotesi che sia possibile una lotta antifascista per obiettivi democratici e non direttamente comunisti, rivolta soprattutto alla conquista delle masse contadine del Meridione. Temi che si intrecciano al dibattito in corso nel partito sulla tattica del fronte unico e che per Gramsci ne rappresentano la logica estensione.

Va chiarito, tuttavia, che, almeno per il rivoluzionario sardo si tratta di convincimenti che matureranno col tempo e che assumeranno piena rilevanza soprattutto dopo l'assassinio Matteotti, di fronte al fatto nuovo rappresentato dalla tattica aventiniana dell'antifascismo democratico-borghese. Nell'ottobre 1922, infatti, sia Gramsci che Bordiga paiono non credere nell'effettiva possibilità di una stabile e duratura presa del potere da parte dei fascisti(14).

Bordiga, Gramsci, l'Internazionale e la "questione italiana"

Le vicende del Partito comunista italiano e del suo gruppo dirigente non possono essere analizzate in modo avulso dal contesto internazionale. Il PCd'I nasce a Livorno come sezione italiana dell'Internazionale Comunista, vero e proprio partito mondiale della rivoluzione, ragion per cui è solo nel quadro dell'evoluzione del Comintern e della sua sezione guida, il Partito comunista russo, che si possono comprendere le convulsioni che scuotono il partito italiano e che porteranno nel giro di pochi anni al tramonto della leadership bordighiana e alla formazione di un nuovo gruppo dirigente attorno alla figura di Gramsci.

E' un percorso quello dei rapporti fra il PCd'I e l'Internazionale assolutamente non lineare, segnato fin dalle origini da incomprensioni e sospetti derivanti dalla vecchia polemica sull'astensionismo tra Bordiga e Lenin, aggravati dalla scarsa manovrabilità del gruppo dirigente italiano che pure non perde occasione per dichiararsi interprete fedele del bolscevismo(15).

Nell'estate del 1921, a pochi mesi dalla scissione di Livorno, l'Internazionale Comunista tiene il suo Terzo Congresso in cui di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria si inizia a riconsiderare la questione dei tempi della rivoluzione in Occidente. La risposta verrà trovata nella tattica del fronte unito, vigorosamente caldeggiata da Trotsky(16). Lo sconcerto è enorme. Terracini ricorda come i delegati italiani fossero colti di sorpresa dalla relazione introduttiva di Radek. "Ci sembrò una richiesta assurda, stupefacente. Riunii la delegazione, che presiedevo come membro dell'Esecutivo del Partito, e fummo tutti d'accordo nell'opporre il nostro rifiuto"(17). Il fatto è che la svolta è vissuta come una sconfessione implicita della scissione di Livorno, come una manifestazione di pentimento che pare giovare solo ai serratiani o a chi, come Tasca, dentro al partito non ha mai accettato la scissione come un fatto definitivo. La risposta di Bordiga e, bisogna dirlo, di larghissima parte del nucleo dirigente italiano, consisterà nelle Tesi di Roma, documento base del Secondo Congresso del PCd'I (Roma marzo 1922).

E' la nascita di una "questione italiana" che si protrarrà per l'intero arco degli anni '20 per chiudersi solo nel 1930 con l'espulsione dei "Tre" e la definitiva stalinizzazione del partito(18). Alla redazione delle Tesi di Roma partecipa, nonostante l'affiorare di qualche dissenso, l'intero gruppo dirigente. E' Gramsci a darci il quadro chiaro della situazione: "A Roma abbiamo accettato le tesi di Amadeo perchè esse erano presentate come un'opinione per il Quarto Congresso e non come un indirizzo d'azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione, dato l'ufficio grandissimo che egli aveva avuto nell'organizzazione del partito: non ci pentiamo di ciò, politicamente sarebbe stato impossibile dirigere il partito senza l'attiva partecipazione al lavoro centrale di Amadeo e del suo gruppo. (...) Allora ci ritiravamo e si doveva fare in modo che la ritirata avvenisse ordinatamente, senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento, senza aggiungere mai nuovi fermenti disgregatori a quelli che la disfatta determinava di per sè nel movimento rivoluzionario"(19).

Il contrasto degli "italiani" con il Comintern esplode nel novembre 1922 in occasione del Quarto Congresso, quando nell'ambito della politica di fronte unito accettata per disciplina da Bordiga ma mai messa in pratica, Mosca impone al PC l'apertura di una trattativa con Serrati in vista di una rapida fusione dei due partiti. Con l'eccezione di Tasca, il partito è ancora una volta compattamente schierato con il suo capo. "L'opposizione di Bordiga alla politica dell'Internazionale - ricorda Terracini - era sostenuta dalla convinzione, pressochè unanime nel nostro partito, che da Mosca si analizzassero le cose in modo distorto. In sintesi, anche noi di 'Ordine nuovo' stentavamo a credere che fosse possibile ricomporre l'unità della sinistra italiana con un'operazione di vertice, trascurando le differenze profonde, non solo tattiche, ma anche strategiche, che c'erano tra noi e i socialisti"(20).

A fatica, dopo estenuanti contatti individuali, Lenin e Trotsky riescono a strappare l'assenso dei delegati italiani. Bordiga, per la prima volta messo in minoranza, minaccia le dimissioni e chiede un congresso straordinario del partito con un linguaggio pesante ai limiti del ricatto che allarma i russi ormai convinti della necessità di un cambiamento nella direzione del PCd'I. Durante le sedute del Congresso Gramsci viene avvicinato da Rakosi che gli propone "di diventare il capo del partito eliminando Amadeo, che sarebbe stato addirittura escluso dal Comintern se continuava nella sua linea". Anche in questa occasione Gramsci rifiuta, ma questa volta più per la paura di non essere all'altezza che per fedeltà a Bordiga.

Il fatto è che l'atteggiamento tenuto da Bordiga a Mosca ha rinfocolato le perplessità che Gramsci già nutriva ai tempi del Congresso di Roma sull'efficacia politica dell'intransigenza bordighiana. In particolare lo turba l'idea di una possibile scontro frontale con il Comintern, così come lo allarma il tentativo della destra e di Tasca in particolare di accreditarsi agli occhi dei russi come possibile carta di ricambio da utilizzarsi in caso di rottura definitiva con Bordiga."Io dissi - afferma Gramsci - che avrei fatto il possibile per aiutare l'Esecutivo dell'Internazionale a risolvere la questione italiana, ma non credevo che si potesse in nessun modo (tanto meno con la mia persona) sostituire Amadeo senza un preventivo lavoro di orientamento del Partito. Per sostituire Amadeo nella situazione italiana bisognava, inoltre, avere più di un elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di lavoro, vale almeno tre"(21).

L'occasione per mettere in pratica il cambiamento auspicato la fornisce la polizia fascista che arresta Bordiga al suo rientro in Italia. Questa volta Gramsci non può più "anguilleggiare" ed è costretto a prendere una posizione chiara in un momento che vede il partito in grave difficoltà. "Essendo stato arrestato l'esecutivo nelle persone di Amadeo e di Ruggero - scrive Gramsci - si attese invano per circa un mese e mezzo di avere delle informazioni che stabilissero con esattezza come i fatti si erano svolti (...) Invece dopo una prima lettera scritta immediatamente dopo gli arresti e nella quale si diceva che tutto era stato distrutto e che la centrale del partito doveva essere ricostruita ab imis, non si ricevette più nessuna informazione concreta, ma solo delle lettere polemiche sulla questione della fusione (...)
La questione fu posta brutalmente di ciò che valesse il centro del partito italiano. Le lettere ricevute furono criticate aspramente e si domandò a me che cosa intendessi suggerire....Anch'io ero rimasto sotto l'impressione disastrosa delle lettere... E perciò arrivai fino a dire che se si riteneva che veramente la situazione fosse tale come obbiettivamente appariva dal materiale a disposizione, sarebbe stato meglio farla finita una buona volta e riorganizzare il partito dall'estero con elementi nuovi scelti d'autorità dall'Internazionale"(22).

Bordiga, in carcere, viene escluso dal nuovo Esecutivo, ma questo atto d'imperio non è sufficiente a mutare la linea del PCd'I che almeno per tutto il 1923 resta sostanzialmente bordighiano, anche per le esitazioni di Gramsci ancora fiducioso nella possibilità di recuperare Bordiga alla politica dell'Internazionale. Pesa, inoltre, il timore che una aperta rottura del gruppo dirigente uscito dal Congresso di Livorno non possa che agevolare il tentativo della destra di Tasca di candidarsi alla direzione del partito. E' una situazione di stallo che inizia a chiarirsi alla fine del 1923, quando Bordiga fa uscire dal carcere un manifesto in cui senza mezze parole afferma che la crisi di direzione del partito non ha origine da dissensi interni, ma dalle divergenze tra il partito italiano e l'Internazionale Comunista. Divergenze causate dall'abbandono non solo delle linee tattiche, ma anche del programma e delle norme organizzative su cui l'Internazionale era nata. Le conclusioni di Bordiga sono drastiche, in piena coerenza con le caratteristiche del personaggio: la sinistra italiana non può gestire una politica che non solo non condivide, ma che considera potenzialmente pericolosa. Disciplinatamente si accettano le decisioni di Mosca, ma si declina ogni responsabilità diretta nella guida del partito(23).

Incalzato da Bordiga, il partito sbanda. Terracini, Scoccimarro e lo stesso Togliatti paiono, pur con mille esitazioni, disposti a firmare il manifesto. Solo Gramsci si dichiara nettamente contrario all'iniziativa, ben sapendo per i colloqui avuti durante il soggiorno a Mosca che questa strada non può che portare fuori dall'Internazionale. Un'ipotesi che lo spaventa e lo spinge decisamente dalla parte dei russi. "In verità - scrive a Scoccimarro - dopo la pubblicazione del manifesto la maggioranza potrebbe essere squalificata del tutto e anche esclusa dal Comintern. Se la situazione politica dell'Italia non si opponesse a ciò io ritengo che l'esclusione avverrebbe. Alla stregua della concezione di partito che deriva dal manifesto l'esclusione dovrebbe essere tassativa. Se una nostra federazione facesse solo la metà di ciò che la maggioranza del partito vuol fare verso il Comintern, il suo scioglimento sarebbe immediato. non voglio, firmando il manifesto, apparire un completo pagliaccio (...) Non si può assolutamente fare dei compromessi con Amadeo. Egli è una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo. Egli continuerà a lottare e ad ogni occasione presenterà sempre intatte le sue tesi"(24).

Sono concetti che ritornano spesso nella corrispondenza che Gramsci ha in questo periodo con i compagni del vecchio gruppo dell'Ordine Nuovo, quasi che egli debba convincere prima di tutto se stesso della necessità di rompere definitivamente quel sodalizio forse più umano che politico stretto nell'ormai lontano 1920 con Bordiga. "Anch'io penso che il partito non possa fare a meno della sua collaborazione ma che fare ? - ribadisce a marzo - Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga invece proprio a prospettarci il problema di costruire il partito e il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza. Naturalmente la quistione non è chiusa: questo è il mio avviso, per ora"(25).

La necessità di rompere in maniera netta con Bordiga costringe Gramsci a operare un ripensamento complessivo della politica fino a quel momento seguita dal partito e porsi il problema della formazione di un nuovo gruppo dirigente. All'inizio del '24 Gramsci ritiene ormai disgregato il vecchio gruppo dell'Ordine nuovo e improponibile una semplice riedizione del suo programma. Questi concetti sono affermati con grande chiarezza in una lettera a Francesco Leonetti, l'unico schieratosi fin dall'inizio decisamente al suo fianco. Scrive Gramsci: "Non condivido il tuo punto di vista che si debba rivalorizzare il nostro gruppo di Torino formatosi intorno all' 'Ordine nuovo' (...) D'altronde esiste ancora il nostro gruppo ? (...) Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino alle estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e culminata nella polemica fra me e lui. Togliatti non sa decidersi com'era un pò sempre nelle sue abitudini; la personalità 'vigorosa' di Amadeo lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perché ne ha assorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico e la capacità organizzativa. In che dunque potrebbe rivivere il nostro gruppo? Sembrerebbe nient'altro che una cricca raccoltasi intorno alla mia persona per ragioni burocratiche. Le stesse idee fondamentali che hanno caratterizzato l'attività dell'"Ordine nuovo" sono oggi o sarebbero anacronistiche (...) Oggi le prospettive sono diverse e bisogna accuratamente evitare di insistere troppo sul fatto della tradizione torinese e del gruppo torinese. Si finirebbe in polemiche di carattere personalistico per contendersi il maggiorasco di un'eredità di ricordi e di parole"(26). Il Partito deve trovare le sue ragioni d'essere non nel passato per quanto glorioso questo sia stato, ma nell'applicazione senza riserve della linea politica dell'Internazionale.

Un Gramsci, dunque, convinto stalinista, come scrive Ragionieri, per il quale la politica del socialismo in un paese solo era perfetta per una fase appunto di 'guerra di posizione'? Oppure, come sostenuto dai tardi epigoni del bordighismo, un Gramsci opportunista che salta sul carro dei vincitori e si fa carico senza soverchi scrupoli della stalinizzazione del PC? (27) La realtà è ben diversa.

Educato proprio da Bordiga a fare della disciplina e della fedeltà al Comintern il cardine della propria azione politica, diventato alla scuola di Livorno un vero bolscevico, Gramsci non se la sente ora di rimettere tutto in gioco per porsi dal punto di vista di una "minoranza internazionale" dalle prospettive incerte. Bordiga, granitico nelle sue certezze, può anche correre il rischio di restare solo, convinto com'è che sul lungo periodo i fatti non potranno che dargli ragione. Gramsci, che considera il concreto agire politico (la prassi) come inveramento del marxismo, non può accettare di autoescludersi dall'azione politica, di restare tagliato fuori dall'avanguardia di classe, dalla classe operaia nel suo vivere e agire quotidiano. E' una decisione lacerante che Gramsci vivrà imponendosi, lui apparentemente sempre così fragile e indeciso, una linea di condotta ispirata al più rigido senso del partito e della necessità storica (28).

NOTE

(1) Ci pare, tuttavia, assai riduttiva la tesi di Cortesi, secondo cui quella di Livorno è "una tardiva coalizione di gruppi improvvisamente affrettata dopo il Secondo congresso dell'Internazionale Comunista e la irresponsabile condotta del PSI di fronte all'occupazione delle fabbriche, ma sostenuta da una elaborazione politica e da un confronto interno insufficienti". (Introduzione a B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p. 17)
(2) P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Roma 1984, p. 16. Quanto alle critiche a Gramsci si veda in particolare la lettera di Mario Montagnana riportata dallo Spriano (Storia del Partito comunista italiano, vol. I, Torino 1976, p. 118).
(3) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p. 135.
(4) Il giudizio è di Franco Livorsi (Amadeo Bordiga, Roma 1976, p. 167).
(5) Il discorso di Bordiga a Livorno è riprodotto in La Sinistra comunista nel cammino della rivoluzione, Roma 1976, pp. 67-100.
(6) E'' questo, per intenderci, il taglio dell'intera storiografia di ispirazione togliattiana almeno fino agli anni Settanta e di cui si avvertono ancora tracce anche nell'opera, di ben altro spessore, dello Spriano.
(7) F. Pieroni Bortolotti, Francesco Misiano. Vita di un internazionalista, Roma 1972, pp.100-101.
(8) C. Ravera, testimonianza in La Frazione comunista al Convegno di Imola, Roma 1971, p. 32.
(9) P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, cit., pp.19-20.
(10) A. Gramsci Il parlamento italiano, L'Ordine Nuovo 24 marzo 1921. Ora in Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino 1974, pp. 115-117.
(11) "Non ti nascondo la mia opinione che tu, molte delle cose che dici ora, avresti dovuto dirle, e non in conversazioni private e di cui si aveva sentore indiretto, ma davanti al partito, molto tempo prima. Nella Centrale costituita a Livorno tu rappresentavi il gruppo che seguiva una concezione diversa da quella di Bordiga". Cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., p. 213.
(12) Cfr. a questo proposito G. Fiori, Vita di Antonio Gramsci, cit., pp.173-178. Tra le numerose attestazioni di stima nei confronti di Gramsci ricordiamo soprattutto quelle di Bordiga che ancora nel 1954 definiva Gramsci il "rappresentante più rispettabile e non solo perchè morto in tempo" di un'intero filone del socialismo italiano (Cfr. A. Bordiga, Meridionalismo e moralismo, Il programma comunista, 29 ottobre-12 novembre 1954; ora in A. Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, Genova 1993, p.96) e di Fortichiari per il quale Gramsci, al di là di ogni valutazione politica, "personalmente era un galantuomo" (Cfr. B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p. 142).
(13) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 44.
(14) "La cosa che impressiona - scrive Onorato Damen - è la estrema leggerezza e la ostentata noncuranza del fenomeno presente nei maggiori esponenti del partito: Bordiga, ad esempio, riteneva, mentre era a Mosca per l' "Allargato", impossibile un tentativo di marcia su Roma delle camicie nere e proprio nel momento che tale marcia era in pieno svolgimento, Gramsci se l'è cavata ora con la dichiarazione di 'folklore episodico e paesano', ora affrontando il problema del 'cesarismo nella storia' (Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo, cit., p.107). Per una più precisa conoscenza delle posizioni di Bordiga sul fascismo è utilissima la raccolta di testi curata all'inizio degli anni Settanta dai francesi di "Programme communiste" (Communisme et fascisme, Marseille 1970), mentre gli scritti di Gramsci sono raccolti in Socialismo e fascismo, cit. e in La costruzione del Partito comunista, Torino 1971.
(15) Nel 1924 Gramsci rivela che già nei primi mesi del 1921 uno dei rappresentanti del Comintern presso il partito italiano aveva fatto pressioni su di lui perchè prendesse il posto di Bordiga in quanto "la tendenza di Amadeo aveva preso il sopravvento, ciò che era contro lo spirito delle decisioni del Comintern che voleva dare al gruppo di Torino la prevalenza nel PCI". (Cfr. P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., p. 228). Quanto a Bordiga, egli rivendicherà sempre il merito alla sinistra italiana di essere stata, anche contro lo stesso Lenin, la più coerente interprete del leninismo (Cfr. a questo proposito i due scritti del 1924 e del 1960 raccolti in La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin, Milano 1964).
(16) I principali interventi di Trotsky al Terzo Congresso dell'Internazionale Comunista sono disponibili in italiano in L. Trotsky, Problemi della rivoluzione in Europa, a cura di L. Maitan, Milano 1979, pp.122- 219.
(17) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 55.
(18) Cfr. per una sintetica ricostruzione dell'intero percorso G. De Regis, La "svolta" del Comintern e il comunismo italiano, Roma 1978
(19) Cfr. la Lettera di Gramsci a Togliatti, Scoccimarro e altri del 5 aprile 1924; ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 272-273.
(20) U. Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 71.
(21) Cfr. le lettere di Gramsci a Scoccimarro e Togliatti del 1 marzo 1924 e a Togliatti del 27 marzo 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., rispettivamente pp 218-230 e 252-258. Gramsci motiva la sua scelta di prendere tempo soprattutto per la "preoccupazione di ciò che avrebbe fatto Amadeo se io fossi diventato oppositore: egli si sarebbe ritirato, avrebbe determinato una crisi, egli non si sarebbe mai adattato a venire a un compromesso....Se io avessi fatto l'opposizione l'Internazionale mi avrebbe appoggiato, ma con quali risultati, allora, quando il partito si organizzava a stento, nella guerra civile" (Ibidem, pp. 254-255).
(22) Cfr. la lettera di Gramsci a Togliatti del 27 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp 174-175.
(23) Il "Manifesto" di Bordiga, pubblicato per la prima volta da Stefano Merli nel 1964 sulla Rivista storica del socialismo, è oggi riprodotto integralmente in Il partito decapitato, Milano 1988, pp. 54- 60.
(24) Cfr. la lettera a Scoccimarro del 5 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 148-154.
(25) Cfr. la lettera a Togliatti del 27 marzo 1924, ivi, p. 255. Togliatti, con il suo inconfondibile stile gesuitico, commenterà che in quella situazione occorreva "liberare i compagni italiani da un prestigio di cui era (...) necessario che si liberassero" (ivi, p. 337). La via della distruzione sistematica del mito di Bordiga, fondatore e capo del Partito di Livorno, era ì tracciata e il PCI la percorrerà interamente, anche se va detto che Gramsci non accettò mai, neppure nei momenti in cui la polemica si fece più intensa, di scendere ai livelli di abiezione raggiunti da Togliatti e da altri ex-bordighiani nella polemica con la minoranza di sinistra.
(26) Cfr. la lettera a Leonetti del 28 gennaio 1924, ora in Togliatti, La formazione del gruppo dirigente..., cit., pp. 182-184.
(27) E.Ragionieri, Gramsci e il dibattito teorico nel movimento operaio internazionale, in AA.VV., Gramsci e la cultura contemporanea, vol. I, Roma 1969, p. 133. Per gli attacchi di parte bordighista a Gramsci cfr. La liquidazione della sinistra del PCd'It. (1925), Milano 1991, pp. 33-34.
(28) Fortichiari, che lo incontra a Vienna nella primavera del 1924, nota sorpreso questa evoluzione: "Malgrado le sue particolari vedute personali Gramsci diede sempre più importanza al partito; alla possibilità che il partito svolgesse un certo lavoro, alla necessità che il partito fosse forte (...) Gramsci si dedica talmente a questa funzione nel partito che in fondo rinnega se stesso, perchè non è più l'uomo che vuole i consigli di fabbrica come soviet, ora lui vuole un partito capace di imporsi, forte, monolitico; tutto il resto è secondario" (Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit. p. 162).

 
TERZA PARTE
maggio 2000, a cura di Giorgio Amico
 
La questione Trotsky nel partito e nell'Internazionale

L'esplodere alla luce del sole della lotta di frazione nel partito russo segna un salto di qualità nella crisi di direzione del partito italiano. Il problema rappresentato da un Bordiga volontariamente ai margini ma con ancora un largo seguito si va inevitabilmente ad intrecciare con quella che ormai apertamente viene definita la "questione Trotsky". Superato un iniziale momento di sconcerto, Gramsci andrà via via allineandosi con il gruppo dirigente del Partito russo e dell'Internazionale, dove le sue simpatie vanno spostandosi sempre più da Zinov'ev a Bucharin.(1) E' un Gramsci che non riesce a cogliere la portata storica della battaglia ingaggiata da Trotsky. Pur parlandone con rispetto, Trotsky ai suoi occhi resta l'avversario della politica di apertura ai contadini, l'uomo della guerra di movimento, il potenziale affossatore di quella NEP che gli appare sempre più come l'unica via praticabile per il consolidamento del potere sovietico.

Questa incomprensione segna l'intero atteggiamento di Gramsci e spiega sia l'assimilazione forzata che egli compie di Bordiga a Trotsky sia i metodi amministrativi con cui, come vedremo, verrà liquidato il dissenso interno. Egli è realmente convinto che le critiche di Trotsky rappresentino una minaccia per la stabilità del potere sovietico, di conseguenza anche il dissenso bordighiano non può più essere tollerato. Nel suo intervento alla conferenza di Como(2) Gramsci per la prima volta accomuna apertamente Bordiga a Trotsky: "Quanto è accaduto recentemente in seno al PC russo - dichiara - deve avere per noi valore di esperienza. L'atteggiamento di Trotsky in un primo periodo può essere paragonato a quello attuale del compagno Bordiga. Trotsky, pur partecipando "disciplinatamente" ai lavori del Partito, aveva col suo atteggiamento di opposizione passiva - simile a quello di Bordiga - creato un senso di malessere in tutto il partito il quale non poteva non avere sentore di questa situazione. Ne è risultata una crisi che è durata parecchi mesi e che oggi soltanto può dirsi superata. Ciò dimostra che una opposizione - anche se mantenuta nei limiti di una disciplina formale - da parte di spiccate personalità del movimento operaio, può non solo impedire lo sviluppo della situazione rivoluzionaria ma può mettere in pericolo le stesse conquiste della Rivoluzione".(3)

Posto in questi termini il confronto non può non assumere via via toni sempre più duri. Il 6 febbraio 1925 il C.C. approva, nonostante forti resistenze da parte dei rappresentanti della federazione giovanile, una mozione di condanna che nel colpire Trotsky mira in realtà ad assestare un duro colpo alla sinistra. "E' evidente - si afferma nella mozione con trasparente riferimento a Bordiga - che deve essere considerato come controrivoluzionario ogni atteggiamento che tenda a diffondere nel Partito una generica sfiducia negli organismi dirigenti della Internazionale e del Partito russo, sia travisando a questo scopo la questione Trotzky, sia ritornando sopra questioni definite dal V Congresso".(4)

Alla durissima presa di posizione del CC segue il 18 febbraio un rapporto di Togliatti con il quale si informa la Segreteria del Comintern che all'interno del PC permane una forte corrente filo-trotskista animata dai bordighisti. Al rapporto Togliatti allega un articolo dello stesso Bordiga su "La questione Trotsky", in cui Bordiga difende vigorosamente il capo dell'Armata Rossa, denunciando gli argomenti e i metodi denigratori usati dalla maggioranza del partito russo.(5) E' da Mosca che arriva agli italiani l'ordine di mettere da parte ogni riguardo nei confronti dell'opposizione di sinistra. Nel corso della Quinta sessione dell'Esecutivo allargato dell'IC Stalin in persona chiede al delegato italiano Scoccimarro di rompere gli indugi e di unirsi apertamente al linciaggio di Trotsky.

Mentre Gramsci significativamente tace, il 3 aprile Scoccimarro prende la parola per denunciare la "deviazione" trotskista divenuta sintesi di "tutte le deviazioni antibolsceviche". La lotta nel PCd'I contro Bordiga e la sinistra è ormai inseparabile dalla più generale campagna nel partito russo e nel Comintern per la liquidazione definitiva di Trotsky e della sinistra internazionale. E', infatti, impossibile spiegare il durissimo contrasto che nel '25-'26 lacera il partito esclusivamente in base alle divergenze fra Bordiga e Gramsci sulla organizzazione comunista (sezioni territoriali o cellule), sulla politica sindacale (comitati operai invece che ricostruzione dei sindacati) o sulla tattica aventiniana. Ma non è solo Stalin a pensare che la questione italiana sia solo uno dei terreni della più generale battaglia per il pieno controllo del Comintern. Anche per Bordiga il contrasto è di fondo e parte da una profonda sfiducia nella direzione del Comintern, per cui in mancanza di una vera svolta nella dirigenza o nella linea del partito mondiale, il PCd'I semplice sezione nazionale, non potrà fare che una politica oscillante e perdente. Su queste basi, nel contesto di un'Internazionale ridotta sempre più a mera appendice dello Stato russo, quella di Bordiga è una sconfitta annunciata.

Resta ancora oggi poco chiaro quale conoscenza Bordiga avesse della battaglia in corso nel partito russo e nel Comintern e quanto ciò contribuisse a determinare un atteggiamento "aventiniano" che gli aliena molte simpatie e offre argomenti preziosi ai suoi denigratori. Di sicuro Bordiga nutre la ferma convinzione che a Mosca la partita non sia chiusa e che la situazione dei rapporti di classe a livello mondiale possa ancora evolversi positivamente fino a determinare un radicale cambiamento di prospettiva per l'Internazionale. Ragion per cui ai rivoluzionari basta porsi in posizione d'attesa, mantenendo nel contempo le mani libere nei confronti di una politica destinata a sicura sconfitta.

Uno dei principali esponenti della sinistra, Bruno Fortichiari, ha accennato a contatti con esponenti dell'Internazionale che Bordiga avrebbe avuto immediatamente prima di Lione. "Forse - scrive Fortichiari - egli da Mosca ha riportato questa convinzione, che ci fossero delle possibilità di azione, se non immediate almeno col tempo. Ha avuto questa convinzione che contrastava con la nostra convinzione, mia, di Damen e di Repossi, che non abbiamo mai avuto questa speranza. Per noi la rottura c'era e c'era poco da fare, e interessava secondo noi affermare pubblicamente la rottura cioè quasi sfidare la direzione minoritaria del partito ad un provvedimento".(6)

Al di là delle possibili interpretazioni, resta il fatto che la sinistra e in particolare un Bordiga prigioniero di una visione astrattamente oggettivistica dell'azione politica, giocano male le carte ancora rilevanti di cui dispongono,(7) il tutto aggravato dal mutamento in atto nel partito che non è più per composizione lo stesso di Livorno e del 1921-1923. Un partito passato dopo gli sbandamenti dovuti alla vittoria della controrivoluzione fascista, da 9 a 30 mila iscritti, in gran parte giovani proletari senza "memoria politica" e quindi privi di timori reverenziali nei confronti del "padre fondatore". Giovani, affamati d'azione, speranzosi in una possibile rivincita, a cui l'attendismo meccanicistico di Bordiga non può che risultare incomprensibile. Una leva di militanti conquistati al Partito dall'attivismo gramsciano, dalla sua visione, in questo compiutamente leninista, della centralità della politica come continuo sforzo di definizione di obiettivi transitori praticabili a livello delle più larghe masse.

Quanto ai quadri dirigenti, nazionali e locali, del partito risulta determinante nello spiegare il quasi generale abbandono delle suggestioni bordighiane lo sconcerto prima, l'aperta irritazione poi nei confronti di un atteggiamento considerato quasi una diserzione dalle responsabilità proprie di un dirigente rivoluzionario. Non va, tuttavia, sottaciuto che la sconfitta di Bordiga è anche il frutto dell''uso sistematico nel dibattito interno al partito di metodi amministrativi e intimidatori nei confronti della minoranza a partire almeno dalla campagna contro il cosiddetto "Comitato d'Intesa".(8) E' questa una pagina oscura nella storia politica di Antonio Gramsci che nella lotta contro la sinistra tollera l'uso di "toni da caccia alle streghe contro il 'frazionismo', una interpretazione poliziesca delle differenziazioni politiche, una predisposizione ad accettare espulsioni con eccessiva disinvoltura, un giudizio favorevole sui voti unanimi alla direzione dell'Internazionale".(9)

Il Congresso di Lione e la lettera di Gramsci al Partito russo

Che in realtà, contrariamente a quanto pare pensare Bordiga, a Mosca i giochi siano fatti viene a confermarlo il Quinto Esecutivo allargato dell'Internazionale Comunista (marzo-aprile 1925) che afferma senza esitazioni la piena identità tra bordighismo e trotskismo. Il linguaggio ormai è quello dell'invettiva, i dissidenti sono definiti piccolo borghesi, opportunisti, destri mascherati. Agli italiani viene richiesto esplicitamente di scegliere "tra il leninismo e la tattica di Bordiga".(10) Nel Comintern non c'è più spazio per posizioni in qualche modo vicine alla opposizione trotskista, Stalin intende chiudere definitivamente la partita con la minoranza.

Date queste premesse, non stupisce l'annotazione di Giuseppe Berti per cui "obiettivamente (...) bisogna dire che se la Conferenza di Como fu preparata troppo poco, anzi per nulla, e diede, quindi, i risultati ben noti, il congresso di Lione (...) fu, forse, preparato un pò troppo nel senso che preliminarmente la Conferenza di dicembre separò il grano dal loglio e fece in modo che a Lione l'estrema sinistra bordighiana venisse rappresentata in maniera non adeguata alle forze che ancora essa contava nel Partito".(11)

Sarebbe, tuttavia, un errore considerare il Congresso di Lione come un'operazione esclusivamente burocratica volta a sanzionare con il voto della base la liquidazione politica di un Bordiga irrecuperabile alla politica del Comintern. Certo, Gramsci sostiene con forza le posizioni della maggioranza dell'Internazionale, ma non si prefigge la sistematica distruzione di ogni dialettica interna al partito;(12) così come totalmente irriducibili allo stalinismo sono le tesi di Lione, forse il documento maggiormente rappresentativo di un Gramsci compiutamente approdato ad una visione matura e leninista dell'azione rivoluzionaria. Da qui l'estrema attenzione posta dalle tesi all'analisi della fase e all'individuazione delle forze motrici della rivoluzione italiana, non in astratto secondo schemi meramente ideologici, ma nel concreto del quotidiano confronto di classe. Ne deriva, elemento del tutto nuovo per il partito italiano, la centralità degli obiettivi intermedi e transitori e l'adozione di uno stile di azione politica che permetta all'avanguardia rivoluzionaria di dialettizzarsi con gli strati profondi della classe.

Temi che riprendono suggestioni antiche già presenti nell'esperienza ordinovista, ma ora definitivamente depurate, anche grazie al profondo sodalizio con Bordiga del 1921-1923, da ogni influenza spuria di origine bergsoniana o soreliana.(13) Nonostante i metodi usati a Lione non si può, dunque, parlare di stalinizzazione del partito, almeno per il breve periodo della direzione Gramsci. Per affermarsi definitivamente nel PCI lo stalinismo dovrà passare attraverso la spaccatura del gruppo dirigente gramsciano, l'espulsione di Tresso e Leonetti e l'abbandono definitivo del progetto politico definito dalle Tesi di Lione in favore di una supina acquiescenza alle svolte della politica estera sovietica.(14) Non è un caso che la "svolta" avvenga nel 1930 che è anche l'anno della definitiva espulsione di Bordiga e in cui diventa avvertibile l'isolamento di Gramsci rispetto al partito.

L'ulteriore precipitare della situazione nel partito russo con il passaggio di Zinov'ev e Kamenev all'opposizione insieme a Trotsky e i metodi sempre più violenti con cui Stalin porta avanti la sua battaglia determina un profondo ripensamento all'interno del PCI. Nell'autunno del 1926 Gramsci invia a nome dell'Ufficio Politico del partito italiano una lettera alla dirigenza sovietica in cui si chiede di "evitare le misure eccessive" contro l'opposizione e di considerare come in un partito comunista "l'unità e la disciplina... non possono essere meccaniche e coatte". Pur schierandosi a fianco della maggioranza, anche se con evidenti esitazioni, Gramsci da voce alle preoccupazioni dei comunisti italiani per "l'acutezza della crisi... e le minacce di scissione aperta o latente che essa contiene".(15)

La lettera evidenzia una concezione dei rapporti tra i partiti comunisti dell'internazionale e i dirigenti russi che non ha nulla in comune con quanto si attendono i dirigenti russi dai partiti "fratelli". Per Gramsci sono gli interessi del proletariato internazionale che devono determinare la politica russa la quale va subordinata a quegli interessi. Pur esprimendosi, anche se cautamente e con riserve, a favore della linea Stalin-Bucharin, nella lettera si denuncia con coraggio come la politica intransigente della maggioranza verso l'opposizione di sinistra comporti il rischio di una possibile degenerazione. "Voi oggi state distruggendo l'opera vostra, voi degradate (...) la funzione dirigente che il Partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin", giunge a scrivere Gramsci che auspica una ricomposizione unitaria del partito nella più autentica tradizione bolscevica.

La lettera suscita una profonda irritazione in Stalin e il timore che il PCI passi all'opposizione trotskista.(16) Con una lettera dai toni sprezzanti Togliatti intima a Gramsci di "tenere i nervi a posto" e di non intromettersi nei fatti dei russi. "Vi è senza dubbio - scrive - un rigore nella vita interna del PC dell'Unione. Ma vi deve essere. se i partiti occidentali volessero intervenire presso il gruppo dirigente per far scomparire questo rigore, essi commetterebbero un errore assai grave. Realmente in questo caso potrebbe essere compromessa la dittatura del proletariato". Esprimere dubbi o perplessità riguardo agli atteggiamenti della maggioranza vuol dire porsi dalla parte dell'opposizione. La politica di Stalin va appoggiata in blocco senza sottilizzare troppo sui metodi usati per imporla: "Quando si è d'accordo con la linea del CC, il miglior modo di contribuire a superare la crisi è di esprimere la propria adesione a questa linea senza porre nessuna limitazione"(17).

E' la rottura definitiva, politica e personale, fra i due che non si scriveranno più, mentre nei confronti di Bordiga, nonostante la durezza della battaglia del 1925-1926, Gramsci manterrà, ricambiato, fino alla fine della sua vita sentimenti fraterni e di grande rispetto politico.(18)


NOTE

(1) In una lettera alla moglie da Vienna Gramsci ammette di non conoscere "ancora i termini esatti della discussione che si è svolta nel partito" russo. Si dichiara però sconcertato dell'attacco di Stalin a Trotsky che considera "assai irresponsabile e pericoloso" (Cfr. A. Gramsci, Vita attraverso le lettere, cit., p. 51). Quanto alla sua progressiva evoluzione filo-buchariniana utili indicazioni si ritrovano in L. Paggi, Le strategie del potere in Gramsci, Roma 1984.
(2) La Conferenza clandestina di Como si svolge nella primavera del '24. Gramsci, appena tornato in Italia grazie all'acquisita immunità parlamentare scopre di essere in maggioranza nel Comitato Centrale ma in minoranza nel partito.
(3) Cfr. il resoconto dell'intervento di Gramsci apparso su Lo Stato operaio del 29 maggio 1924, ora in A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, cit., pp. 459-462.
(4) Mozione del CC sulla bolscevizzazione dei partiti comunisti, pubblicata su Lo Stato Operaio del 19 febbraio 1925, ora in La liquidazione della sinistra del PCd'It. (1925), cit., p. 49.
(5) A. Bordiga, La questione Trotzky, L'Unità del 4 luglio 1925, ora in La liquidazione..., cit., pp. 50-58.
(6) B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia, cit., p 154.
(7) Non si lascia - commenta Damen - una base organizzativa come quella della sinistra e soprattutto quadri saldamente formati in balia degli eventi senza una direzione, senza una responsabilità organizzativa. Il compagno Bordiga, defenestrato d'autorità dal centro del partito, si era praticamente autodefenestrato dalla vita politica attiva e non assumeva nessuna responsabilità ufficiale, neppure nell'ambito della sua stessa corrente". ( O. Damen, Gramsci tra marxismo e idealismo, cit., p. 103)
(8) Una efficace ricostruzione dell'esperienza del Comitato d'Intesa e dei metodi utilizzati contro di esso dal gruppo dirigente gramsciano si può trovare in La sinistra comunista e il Comitato d'Intesa, Quaderni Internazionalisti, Torino 1996.
(9) L. Maitan, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Milano 1987, p. 20.
(10) P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. 1, cit., pp. 444-447.
(11) G. Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, cit., p. 188.
(12) A Lione la sinistra ottiene il 9.2 dei voti, contro il 90.8 della centrale, ciononostante Gramsci insistette perché la sinistra fosse rappresentata nel CC con due rappresentanti, così come si adopererà perché Bordiga possa partecipare in rappresentanza della minoranza al Sesto Plenum dell'Internazionale. Sul Sesto Plenum e sul violento scontro tra Bordiga e Stalin che vi si svolge cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. II, Torino 1976, pp. 3-17.
(13) Sul Congresso di Lione esiste una vasta letteratura. Particolarmente interessanti gli atti del seminario svoltosi a Cortona nel novembre 1987, ora raccolti in AA.VV., Le Tesi di Lione. Riflessioni su Gramsci e la storia d'Italia, Milano 1990. Per quanto riguarda Bordiga Cfr. Progetto di tesi per il III Congresso del partito comunista presentato dalla sinistra, ora in In difesa della continuità del programma comunista, Milano 1970, pp. 91-123.
(14) Definitive ci paiono a questo proposito le conclusioni a cui perviene Ferdinando Ormea in Le origini dello stalinismo nel PCI, Milano 1978. Cfr. anche gli scritti di Leonetti, Tresso e Ravazzoli raccolti in Crisi economica e stalinismo in Occidente, a cura di F. Ormea, Roma 1976.
(15) A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista, cit., pp. 124-131
(16) Cfr. la lettera di Jules Humbert-Droz a Giuseppe Berti in data 6 maggio 1964, pubblicata in
Berti, I primi dieci anni di vita del PCI, cit., p. 259 n.
(17) Cfr. la lettera di Togliatti a Gramsci del 18 ottobre 1926, ibidem, p. 133.
(18) Cfr. le lettere ai familiari da Ustica in cui Gramsci testimonia della grande amicizia che lo lega a Bordiga che nell'isola lo ha iniziato ai segreti della cucina e dello scopone scientifico (A. Gramsci, Vita attraverso le lettere, cit., p. 153). Altrettanto significative sono le molte lettere di Bordiga a Gramsci nel 1927, così come il tentativo di farlo fuggire da Ustica (Cfr. C. Ravera, Diario di trent'anni 1913-1943, Roma 1973, p. 283) o i contatti intercorsi tra i due fra il 1934 e il 1935 a Formia, proprio poco prima che Gramsci morisse. (Cfr. la testimonianza di Leonetti in Peregalli-Saggioro, Amadeo Bordiga. Gli anni oscuri (1926-1945), Firenze 1997, pp. 34-35. Ancora nel 1970, a pochi mesi dalla morte, Bordiga dichiara a Giuseppe Fiori: "Ci stimavamo vicendevolmente. La diversità di formazione culturale, le contese ideologiche, non ebbero mai la conseguenza d'incrinare i nostri buoni rapporti". (Fiori, Bordiga, un combattente coraggioso e dogmatico, in Stampa Sera, 27 luglio 1970, citata in Livorsi, Amadeo Bordiga, cit., p. 301).

QUARTA PARTE
maggio 2000, a cura di Giorgio Amico

Appendice: Gramsci e lo stalinismo

Ancora nel 1958, due anni dopo il XX Congresso, Togliatti non aveva esitazioni a presentare l'immagine di un Gramsci in carcere convinto stalinista; in realtà sono numerose le fonti che testimoniano prima di un radicale dissenso di Gramsci rispetto alla politica della "svolta" con argomentazioni sostanzialmente simili alle tesi della NOI e poi di una totale ripulsa dello stalinismo come sistema di governo.

Scrive Ercole Piacentini, operaio meccanico, compagno di Gramsci a Turi: "Gramsci batteva particolarmente sul fatto che nel partito non si doveva guardare all'uomo ma alle direttive del CC. Parlava di Stalin come di un despota e diceva di conoscere il testamento di Lenin, dove si sosteneva che Stalin era inadatto a diventare il segretario del partito bolscevico. Ci parlava di Rykov, di Kamenev, di Radek e soprattutto di Bucharin, per il quale aveva un'ammirazione particolare. Una volta ci parlò della Rivoluzione francese (...) E a proposito di ciò, accennò anche a un 'termidoro' sovietico".

Ricorda Bruno Tosin, stalinista convinto, dal dicembre 1930 a Turi che Gramsci "si dimostrava molto impensierito per la ripercussione che la lotta all'interno del partito bolscevico aveva avuto nell'Internazionale, la cui opera di direzione collegiale, secondo il suo parere, era paralizzata o indebolita in conseguenza di tali lotte. In questa occasione deplorò anche il fatto che Stalin nel passato non avesse mai avuto occasioni di svolgere una certa vita internazionale, a differenza di altri capi bolscevichi, e ciò restringeva la sua visione del processo generale del movimento mondiale"

Tesi ribadita all'ex deputato comunista Ezio Riboldi nella primavera del 1931, una volta appresi con irritazione gli esiti del IV Congresso del PCd'I a Colonia: "Bisogna tener presente che l' habitus mentale di Stalin è ben diverso da quello di Lenin (...) Stalin è rimasto sempre in Russia, conservando la mentalità nazionalista che si esprime nel culto dei Grandi Russi. Anche nell'Internazionale, Stalin è prima russo e poi comunista: bisogna stare attenti". (72)

Ma la testimonianza principale è dello stesso Gramsci: il 13 luglio 1931 questi scrive a Tatiana: "Mi pare che ogni giorno si spezzi un nuovo filo dei miei legami col mondo del passato e che sia sempre più difficile riannodare tanti fili strappati". (73) La lettera non verrà pubblicata nell'edizione Platone-Togliatti del 1947 delle Lettere dal carcere, così come verrà censurata un'analoga considerazione presente nella lettera a Tatiana del 3 agosto dello stesso anno: "Non essendoci da parte mia mutamento di terreno culturale, si tratta di sentirsi isolato nello stesso terreno che di per sé dovrebbe suscitare legami affettivi". (74) Il messaggio è trasparente: Gramsci si considera ancora un comunista, ma non si identifica più nel movimento comunista, così come si è andato via via definendo a seguito dell'affermarsi dello stalinismo. (75)

Ma cosa Gramsci, seppellito da anni in un carcere fascista, è in grado di conoscere di quanto accade fuori, che ragionevole fondamento hanno i suoi giudizi che, come si è visto, sono netti ? A questo proposito illuminante è il seguente passo di una lettera a Tania del 1933: "Sebbene viva in carcere, isolato da ogni fonte di comunicazione, diretta e indiretta, non devi pensare che non mi arrivino ugualmente elementi di giudizio e di riflessione. Arrivano disorganicamente, saltuariamente, a lunghi intervalli, come non può non accadere, dai discorsi ingenui di quelli che sento parlare o faccio parlare e che di tanto in tanto portano l'eco di altri ambienti, di altre voci, di altri giudizi ecc. Non ho ancora perdute tutte le qualità di critica 'filologica': so sceverare, distinguere, smorzare le esagerazioni volute, integrare ecc. Qualche errore nel complesso ci deve essere, sono pronto ad ammetterlo, ma non decisivo, non tale da dare una diversa direzione al corso dei pensieri". (76)

Gramsci, dunque, non solo conosce a grandi linee gli avvenimenti sovietici, ma ci tiene a farlo sapere, quasi fosse preoccupato di controbattere eventuali obiezioni fondate sul suo status di prigioniero. Ad una lettura attenta anche i Quaderni, nella più recente edizione critica, riservano più di una sorpresa rispetto alla tradizionale versione di un Gramsci convinto stalinista che non perderebbe occasione per stigmatizzare dal carcere le colpe di un Trotsky divenuto "puttana del fascismo". (77)

"Sta di fatto - scrive Vacca - che, al di là della polemica con Trotsky del 1924-1926, che è il solo tema per cui Stalin viene nominato, di lui nei Quaderni Gramsci non parla se non indirettamente accennando all'URSS in modi critici. Né si può sottovalutare il fatto che tutte le critiche di Gramsci all'URSS staliniana convergano nel sottolineare le conseguenze politiche e statali della rottura dell'alleanza fra operai e contadini". (78) D'altronde, se Gramsci pare mantenere un costante atteggiamento critico verso le posizioni di Trotsky, come non pensare che nel pieno della politica di industrializzazione forzata e dopo la "svolta" avventurista del '29, questo non cambi di segno e non vada a colpire direttamente quello stesso Stalin che per Gramsci subordina, lo abbiamo appena visto, la rivoluzione mondiale agli interessi nazionali russi. (79)

Netta è nei Quaderni, anche se espressa con le cautele dovuta alla particolare situazione della prigione, la messa in guardia nei confronti di una possibile involuzione bonapartista dell'URSS a causa di un'industrializzazione fondata sulla mera coercizione invece che sul consenso. Scrive Gramsci nel Quaderno 22 proprio in riferimento ai pericoli di un industrialismo fine a se stesso: "Il suo contenuto essenziale (...) consisteva nella 'troppo risoluta (quindi non razionalizzata) volontà di dare la supremazia, nella vita nazionale, all'industria e ai metodi industriali, di accelerare, con metodi coercitivi esteriori, la disciplina e l'ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Data l'impostazione generale di tutti i problemi connessi alla tendenza, questa doveva sboccare necessariamente in una forma di bonapartismo..." . (80)

Come già al tempo dela polemica antibordighiana del 1924-1926 sono gli interessi del movimento proletario internazionale a fungere da criterio di giudizio. L'abbandono di Stalin della politica leninista di alleanza degli operai e contadini quale base del potere proletario agevola la rivoluzione mondiale? E l'uso generalizzato di metodi polizieschi dentro e fuori il partito come deve essere valutato dai marxisti senza cadere in un democraticismo fine a se stesso? L' uso della violenza da parte di un partito politico, anche espressione "di gruppi subalterni", cioè detto in chiaro di un partito comunista al potere, ha carattere comunque reazionario o può avere valenza positiva?

La risposta di Gramsci è netta e coerentemente marxista: "La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva o regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell'orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. E' regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto, il funzionamento del partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona 'democraticamente' (nel senso di uncentralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona 'burocraticamente' (nel senso di un centralismo burocratico). Il partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di 'partito politico' è una pura metafora di carattere mitologico". (81)

Concetto ripreso, a sostanziare ulteriormente la sua analisi della degenerazione burocratica e autoritaria del modello sovietico, nel Quaderno 15: "Dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione fra governanti e governati, occorre fissare alcuni principi inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli 'errori' più gravi, che cioè si manifestano le incapacità più criminali, ma più difficili a raddirizzare. Se crede che essendo posto il principio dello stesso gruppo, l'obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di 'necessità' e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa, e ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l'obbedienza 'verrà' senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Così è difficile estirpare dai dirigenti il 'cadornismo', cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perchè il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, 'la colpa' viene riversata su chi 'avrebbe dovuto', ecc. Così è difficile estirpare l'abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure, il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perchè non si è cercato di evitare il sacrificio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui". (82)

E' una condanna senza attenuanti di un modello di sviluppo, industrialistico e statalista, fondato sul più assoluto disprezzo dei costi umani e della volontà delle masse, sull'obbedienza automatica, sul culto del capo ("cadornismo") che non solo ha da tempo perso ogni residua connotazione progressiva, ma che rappresenta il principale ostacolo sulla via della ripresa rivoluzionaria.

Posto di fronte alla necessità di "apprendere troppe e troppo tremende cose" (83), messo al bando dal partito, dal profondo del carcere Antonio Gramsci non cessa di combattere con le uniche armi a sua disposizione, la sua mente e la sua penna, contro la controrivoluzione, fiducioso come tutti i grandi rivoluzionari, in un "futuro limpido e luminoso dell'umanità". (84)


NOTE

(72) Ibidem, p. 48.
(73) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 1°, Roma 1988, p. 299.
(74) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, Roma 1988, p. 18.
(75) Sull'isolamento di Gramsci in carcere cfr. le ricerche di Spriano (Gramsci in carcere e il partito, Roma 1977) e di Fiori ( Gramsci Togliatti Stalin, cit.). E' opportuno comunque ricordare la testimonianza terribile di Terracini relativa alla morte di Gramsci. "Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al partito. Perciò la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni" (Terracini, Quando diventammo comunisti, cit., p. 115).
(76) A. Gramsci, Lettere dal carcere, vol. 2°, cit., p. 191.
(77) La citazione, falsa, è dovuta alla penna di uno fra i più raffinati esponenti di quell'area di intellettuali passati tranquillamente dal fascismo al "partito nuovo" di Togliatti (L. Lombardo Radice, Fascismo e anticomunismo, Torino 1947, p. 56). Nel volume vengono a piene mani diffuse calunnie su Bordiga e "la provocazione di tipo trotzkista al soldo dell'Ovra". (ibidem, p. 57).
(78) G. Vacca, L'URSS staliniana nell'analisi dei Quaderni dal carcere, in Gorbacev e la sinistra europea, Roma 1989, p. 75.
(79) Tesi peraltro già avanzata sul finire degli anni Sessanta da Silverio Corvisieri (Trotskij e il comunismo italiano, cit., pp. 95-96).
(80) A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Torino 1975, p. 2164.
(81) Ibidem, p. 1691.
(82) Ibidem, p. 1752.
(83) La frase, rivolta al giovane Gramsci, è di Bordiga. (A. Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, cit., p. 97).
(84) E' un passo della deposizione di Trotsky davanti alla Commissione Dewey nell'aprile 1937 che rappresenta il suo testamento politico e ben si addice a un marxista indomabile e generoso come fu Antonio Gramsci. "L'esperienza della mia vita - scrive Trotsky - in cui non sono mancati successi e fallimenti, non soltanto non ha distrutto la mia fede in un futuro limpido e luminoso dell'umanità, ma anzi l'ha temprata e resa incrollabile. Questa fede nella ragione, nella verità, nella solidarietà umana, che a diciotto anni portai con me nei quartieri operai (...), l'ho conservata piena e intatta. E' diventata più matura, ma non meno ardente...". (Cfr. I. Deutscher, Il profeta esiliato,
Milano 1965, p. 483).