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VI.
Americanismo e fordismo
Serie di problemi che devono essere esaminati sotto questa rubrica
generale e un po' convenzionale di «Americanismo e
Fordismo», dopo aver tenuto conto del fatto fondamentale che
le risoluzioni di essi sono necessariamente impostate e tentate
nelle condizioni contraddittorie della società moderna,
ciò che determina complicazioni, posizioni assurde, crisi
economiche e morali a tendenza spesso catastrofica, ecc. Si
può dire genericamente che l'americanismo e il fordismo
risultano dalla necessità immanente di giungere
all'organizzazione di un'economia programmatica e che i vari
problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che
segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico
all'economia programmatica: questi problemi nascono dalle varie
forme di resistenza che il processo di sviluppo trova al suo
svolgimento, resistenze che vengono dalle difficoltà insite
nella «societas rerum» e nella «societas
hominum». Che un tentativo progressivo sia iniziato da una o
altra forza sociale non è senza conseguenze fondamentali:
le forze subalterne, che dovrebbero essere
«manipolate» e razionalizzate secondo i nuovi fini,
resistono necessariamente. Ma resistono anche alcuni settori delle
forze dominanti, o almeno alleate delle forze dominanti. Il
proibizionismo, che negli Stati Uniti era una condizione
necessaria per sviluppare il nuovo tipo di lavoratore conforme a
un'industria fordizzata, è caduto per l'opposizione di
forze marginali, ancora arretrate, non certo per l'opposizione
degli industriali o degli operai. Ecc.
Registro di alcuni dei problemi piú importanti o
interessanti essenzialmente anche se a prima vista paiono non di
primo piano: 1) sostituzione all'attuale ceto plutocratico, di un
nuovo meccanismo di accumulazione e distribuzione del capitale
finanziario fondato immediatamente sulla produzione industriale;
2) quistione sessuale; 3) quistione se l'americanismo possa
costituire un'«epoca» storica, se cioè possa
determinare uno svolgimento graduale del tipo, altrove esaminato,
delle «rivoluzioni passive» proprie del secolo scorso
o se invece rappresenti solo l'accumularsi molecolare di elementi
destinati a produrre un'«esplosione», cioè un
rivolgimento di tipo francese; 4) quistione della
«razionalizzazione» della composizione demografica
europea; 5) quistione se lo svolgimento debba avere il punto di
partenza nell'intimo del mondo industriale e produttivo o possa
avvenire dall'esterno, per la costruzione cautelosa e massiccia di
una armatura giuridica formale che guidi dall'esterno gli
svolgimenti necessari dell'apparato produttivo; 6) quistione dei
cosí detti «alti salari» pagati dall'industria
fordizzata e razionalizzata; 7) il fordismo come punto estremo del
processo di tentativi successivi da parte dell'industria di
superare la legge tendenziale della caduta del saggio del
profitto; 8) la psicanalisi (sua enorme diffusione nel dopoguerra)
come espressione dell'aumentata coercizione morale esercitata
dall'apparato statale e sociale sui singoli individui e delle
crisi morbose che tale coercizione determina; 9) il Rotary Club e
la Massoneria; 10) [...].
Razionalizzazione della composizione demografica europea. In
Europa i diversi tentativi di introdurre alcuni aspetti
dell'americanismo e del fordismo sono dovuti al vecchio ceto
plutocratico, che vorrebbe conciliare ciò che, fino a prova
contraria, pare inconciliabile, la vecchia e anacronistica
struttura sociale-demografica europea con una forma modernissima
di produzione e di modo di lavorare quale è offerta dal
tipo americano piú perfezionato, l'industria di Enrico
Ford. Perciò l'introduzione del fordismo trova tante
resistenze «intellettuali» e «morali» e
avviene in forme particolarmente brutali e insidiose, attraverso
la coercizione piú estrema. Per dirla in parole povere,
l'Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti
i benefizi che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur
mantenendo il suo esercito di parassiti che divorando masse
ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il
potere di concorrenza sul mercato internazionale. La reazione
europea all'americanismo è pertanto da esaminare con
attenzione: dalla sua analisi risulterà piú di un
elemento necessario per comprendere l'attuale situazione di una
serie di Stati del vecchio continente e gli avvenimenti politici
del dopoguerra.
L'americanismo, nella sua forma piú compiuta, domanda una
condizione preliminare, di cui gli americani che hanno trattato
questi problemi non si sono occupati, perché essa in
America esiste «naturalmente»: questa condizione si
può chiamare «una composizione demografica
razionale» e consiste in ciò che non esistano classi
numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo,
cioè classi assolutamente parassitarie. La
«tradizione», la «civiltà» europea
è invece proprio caratterizzata dall'esistenza di classi
simili, create dalla «ricchezza» e
«complessità» della storia passata che ha
lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i
fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e
degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera,
del commercio di rapina e dell'esercito prima professionale poi di
leva, ma professionale per l'ufficialità. Si può
anzi dire che quanto piú vetusta è la storia di un
paese, e tanto piú numerose e gravose sono queste
sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del
«patrimonio» degli «avi», di questi
pensionati della storia economica. Una statistica di questi
elementi economicamente passivi (in senso sociale) è
difficilissima, perché è impossibile trovare la
«voce» che li possa definire ai fini di una ricerca
diretta; indicazioni illuminanti si possono ricavare
indirettamente, per esempio dall'esistenza di determinate forme di
vita nazionale.
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati
di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di
questi indizi e dei piú rilevanti.
Il cosí detto «mistero di Napoli». Sono da
ricordare le osservazioni fatte dal Goethe su Napoli e le
«consolanti» conclusioni «morali» che ne
ha tratto Giustino Fortunato (l'opuscolo del Fortunato su Goethe e
il suo giudizio sui Napoletani è stato ristampato dalla
Bibliotheca editrice di Rieti nella collana dei «Quaderni
critici» diretta da Domenico Petrini; sull'opuscolo del
Fortunato è da leggere la recensione di Luigi Einaudi nella
«Riforma Sociale» forse del 1912). Il Goethe aveva
ragione nel demolire la leggenda del «lazzaronismo»
organico dei napoletani e nel rilevare invece che essi sono molto
attivi e industriosi. Ma la quistione consiste nel vedere quale
sia il risultato effettivo di questa industriosità: essa
non è produttiva e non è rivolta a soddisfare i
bisogni e le esigenze di classi produttive. Napoli è la
città dove la maggior parte dei proprietari terrieri del
Mezzogiorno (nobili e no) spendono la rendita agraria. Intorno a
qualche decina di migliaia di queste famiglie di proprietari, di
maggiore o minore importanza economica, con le loro corti di servi
e di lacché immediati, si organizza la vita pratica di una
parte imponente della città, con le sue industrie
artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con lo sminuzzamento
inaudito dell'offerta immediata di merci e servizi agli
sfaccendati che circolano nelle strade. Un'altra parte importante
della città si organizza intorno al transito e al commercio
all'ingrosso. L'industria «produttiva» nel senso che
crea e accumula nuovi beni è relativamente piccola,
nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata
come la quarta città industriale dell'Italia, dopo Milano,
Torino e Genova.
Questa struttura economico-sociale di Napoli (e su di essa
è oggi possibile, attraverso le attività dei
Consigli provinciali dell'economia corporativa avere informazioni
sufficientemente esatte) spiega molta parte della storia di Napoli
città, cosí piena di apparenti contraddizioni e di
spinosi problemi politici.
Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per
tutta una serie numerosa (le famose «cento
città») di città non solo dell'Italia
meridionale e delle Isole, ma dell'Italia centrale e anche di
quella settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara
ecc.). Si può ripetere per molta popolazione di tal genere
di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca,
cento passeri fanno il loro desinare.
Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato
è questo: che la media e la piccola proprietà
terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a
borghesi della cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene
data a mezzadria primitiva (cioè in affitto con
corrisponsione in natura e servizi) o in enfiteusi; esiste
cosí un volume enorme (in rapporto al reddito lordo) di
piccola e media borghesia di «pensionati» e
«redditieri», che ha creato in certa letteratura
economica degna di Candide la figura mostruosa del cosí
detto «produttore di risparmio», cioè di uno
strato di popolazione passiva economicamente che dal lavoro
primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il
proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare: modo di
accumulazione di capitale dei piú mostruosi e malsani,
perché fondato sull'iniquo sfruttamento usurario dei
contadini tenuti al margine della denutrizione e perché
costa enormemente; poiché al poco capitale risparmiato
corrisponde una spesa inaudita quale è quella necessaria
per sostenere spesso un livello di vita elevato di tanta massa di
parassiti assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è
formato nella penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei
Comuni medioevali e la decadenza dello spirito d'iniziativa
capitalistica della borghesia urbana, una tale situazione
anormale, determinatrice di stagnazione storica, è chiamato
dallo storico Niccolò Rodolico «ritorno alla
terra» ed è stato assunto addirittura come indice di
benefico progresso nazionale, tanto le frasi fatte possono
ottundere il senso critico).
Un'altra sorgente di parassitismo assoluto è sempre stata
l'amministrazione dello Stato. Renato Spaventa ha calcolato che in
Italia un decimo della popolazione (4 milioni di abitanti) vive
sul bilancio statale. Avviene anche oggi che uomini relativamente
giovani (di poco piú che 40 anni), con buonissima salute,
nel pieno vigore delle forze fisiche e intellettuali, dopo 25 anni
di servizio statale, non si dedicano piú a nessuna
attività produttiva, ma vivacchiano con le pensioni
piú o meno grandi, mentre un operaio può godere una
assicurazione solo dopo i 65 anni e per il contadino non esiste
limite di età al lavoro (perciò un italiano medio si
maraviglia se sente dire che un americano multimilionario continua
ad essere attivo fino all'ultimo giorno della sua vita cosciente).
Se in una famiglia un prete diventa canonico, subito il
«lavoro manuale» diventa «una vergogna»
per l'intero parentado; ci si può dedicare al commercio,
tutt'al piú.
La composizione della popolazione italiana era già stata
resa «malsana» dall'emigrazione a lungo termine e
dalla scarsa occupazione delle donne nei lavori produttivi di
nuovi beni; il rapporto tra popolazione
«potenzialmente» attiva e quella passiva era uno dei
piú sfavorevoli dell'Europa (cfr. le ricerche in proposito
del prof. Mortara, per esempio nelle Prospettive economiche del
1922). Esso è ancora piú sfavorevole se si tiene
conto: 1) delle malattie endemiche (malaria ecc.) che diminuiscono
la media individuale del potenziale di forza di lavoro; 2) dello
stato cronico di denutrizione di molti strati inferiori
contadineschi (come risulta dalle ricerche del prof. Mario Camis
pubblicate nella «Riforma Sociale» del 1926, le cui
medie nazionali dovrebbero essere scomposte per medie di classe:
se la media nazionale raggiunge appena lo standard fissato dalla
scienza come indispensabile, è ovvio concludere alla
denutrizione cronica di uno strato non indifferente della
popolazione. Nella discussione al Senato del bilancio preventivo
per l'anno 1929-30, l'on. Mussolini affermò che in alcune
regioni, per intere stagioni, si vive di sole erbe: cfr. gli Atti
parlamentari della sessione, e il discorso del senatore Ugo
Ancona, le cui velleità reazionarie furono prontamente
rimbeccate dal Capo del Governo); 3) della disoccupazione endemica
esistente in alcune regioni agricole, e che non può
risultare dalle inchieste ufficiali; 4) della massa di popolazione
assolutamente parassitaria che è notevolissima e che per i
suoi servizi domanda il lavoro di altra ingente massa parassitaria
indirettamente, e di quella «semiparassitaria» che
è tale perché moltiplica in modo anormale e malsano
attività economiche subordinate come il commercio e
l'intermediariato in generale.
Questa situazione non esiste solo in Italia; in misura maggiore o
minore esiste in tutti i paesi della vecchia Europa e in forma
peggiore ancora esiste in India e in Cina, ciò che spiega
il ristagno della storia in questi paesi e la loro impotenza
politico-militare. (Nell'esame di questo problema non è in
quistione immediatamente la forma di organizzazione
economico-sociale, ma la razionalità delle proporzioni tra
i diversi settori della popolazione nel sistema sociale esistente:
ogni sistema ha una sua legge delle proporzioni definite nella
composizione demografica, un suo equilibrio «ottimo» e
squilibri che, non raddrizzati con opportuna legislazione, possono
essere di per sé catastrofici, perché essiccano le
sorgenti della vita economica nazionale, a parte ogni altro
elemento di dissoluzione).
L'America non ha grandi «tradizioni storiche e
culturali» ma non è neanche gravata da questa cappa
di piombo: è questa una delle principali ragioni –
piú importante certo della cosí detta ricchezza
naturale – della sua formidabile accumulazione di capitali,
nonostante il tenore di vita superiore, nelle classi popolari, a
quello europeo. La non esistenza di queste sedimentazioni
vischiosamente parassitarie lasciate dalle fasi storiche passate,
ha permesso una base sana all'industria e specialmente al
commercio e permette sempre piú la riduzione della funzione
economica rappresentata dai trasporti e dal commercio a una reale
attività subalterna della produzione, anzi il tentativo di
assorbire queste attività nell'attività produttiva
stessa (cfr. gli esperimenti fatti da Ford e i risparmi fatti
dalla sua azienda con la gestione diretta del trasporto e del
commercio della merce prodotta, risparmi che hanno influito sui
costi di produzione, cioè hanno permesso migliori salari e
minori prezzi di vendita). Poiché esistevano queste
condizioni preliminari, già razionalizzate dallo
svolgimento storico, è stato relativamente facile
razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando abilmente la
forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale)
con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi,
propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di
imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L'egemonia
nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una
quantità minima di intermediari professionali della
politica e dell'ideologia.
Il fenomeno delle «masse» che ha tanto colpito il
Romier non è che la forma di questo tipo di società
razionalizzata, in cui la «struttura» domina
piú immediatamente le soprastrutture e queste sono
«razionalizzate» (semplificate e diminuite di numero).
Rotary Club e Massoneria (il Rotary è una massoneria senza
i piccoli borghesi e senza la mentalità piccolo borghese).
L'America ha il Rotary e l'YMCA, l'Europa ha la Massoneria e i
Gesuiti. Tentativi di introdurre l'YMCA in Italia; aiuti dati
dall'industria italiana a questi tentativi (finanziamento di
Agnelli e reazione violenta dei cattolici). Tentativi di Agnelli
di assorbire il gruppo dell'«Ordine Nuovo» che
sosteneva una sua forma di «americanismo» accetta alle
masse operaie.
In America la razionalizzazione ha determinato la necessità
di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro
e di processo produttivo: questa elaborazione finora è solo
nella fase iniziale e perciò (apparentemente) idillica.
È ancora la fase dell'adattamento psico-fisico alla nuova
struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari; non
si è verificata ancora (prima della crisi del 1929), se non
sporadicamente, forse, alcuna fioritura
«superstrutturale», cioè non è ancora
stata posta la quistione fondamentale dell'egemonia. La lotta
avviene con armi prese dal vecchio arsenale europeo e ancora
imbastardite, quindi sono ancora «anacronistiche» in
confronto dello sviluppo delle «cose». La lotta che si
svolge in America (descritta dal Philip) è ancora per la
proprietà del mestiere, contro la «libertà
industriale», cioè simile a quella svoltasi in Europa
nel secolo XVIII, sebbene in altre condizioni: il sindacato
operaio americano è piú l'espressione corporativa
della proprietà dei mestieri qualificati che altro e
perciò lo stroncamento che ne domandano gli industriali ha
un aspetto «progressivo». L'assenza della fase storica
europea che anche nel campo economico è segnata dalla
Rivoluzione francese ha lasciato le masse popolari americane allo
stato grezzo: a ciò si aggiunga l'assenza di
omogeneità nazionale, il miscuglio delle culture-razze, la
quistione dei negri.
In Italia si è avuto un inizio di fanfara fordistica
(esaltazione della grande città, piani regolatori per la
grande Milano ecc., l'affermazione che il capitalismo è
ancora ai suoi inizi e che occorre preparargli dei quadri di
sviluppo grandiosi ecc.: su ciò è da vedere nella
«Riforma Sociale» qualche articolo di Schiavi), poi si
è avuta la conversione al ruralismo e all'illuministica
depressione della città, l'esaltazione dell'artigianato e
del patriarcalismo idillico, accenni alla «proprietà
del mestiere» e a una lotta contro la libertà
industriale. Tuttavia, anche se lo sviluppo è lento e pieno
di comprensibili cautele, non si può dire che la parte
conservatrice, la parte che rappresenta la vecchia cultura europea
con tutti i suoi strascichi parassitarii, sia senza antagonisti
(da questo punto di vista è interessante la tendenza
rappresentata dai «Nuovi Studi», dalla «Critica
Fascista» e dal centro intellettuale di studi corporativi
organizzato presso l'Università di Pisa).
Il libro del De Man è anch'esso, a suo modo, un'espressione
di questi problemi che sconvolgono la vecchia ossatura europea,
una espressione senza grandezza e senza adesione a nessuna delle
forze storiche maggiori che si contendono il mondo.
Alcune affermazioni sulla quistione di «Stracittà e
Strapaese». Brani riferiti dalla «Fiera
Letteraria» del 15 gennaio 1928. Di Giovanni Papini:
«La città non crea, ma consuma. Com'è
l'emporio dove affluiscono i beni strappati ai campi e alle
miniere, cosí vi accorrono le anime piú fresche
delle province e le idee dei grandi solitari. La città
è come un rogo che illumina perché brucia ciò
che fu creato lontano da lei e talvolta contro di lei. Tutte le
città sono sterili. Vi nascono in proporzione pochi
figlioli e quasi mai di genio. Nelle città si gode, ma non
si crea, si ama ma non si genera, si consuma ma non si
produce». (A parte le numerose sciocchezze
«assolute», è da rilevare come il Papini abbia
dinanzi il modello «relativo» della città non
città, della città Coblenza dei consumatori di
rendita agraria e casa di tolleranza).
Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» si legge
questo brano: «Il nostro arrosto strapaesano si presenta con
questi caratteri: avversione decisa a tutte quelle forme di
civiltà che non si confacciano alla nostra o che guastino,
non essendo digeribili, le doti classiche degli italiani; poi:
tutela del senso universale del paese, che è, per dirla
alla spiccia, il rapporto naturale e immanente fra l'individuo e
la sua terra; infine, esaltazione delle caratteristiche nostrane,
in ogni campo e attività della vita, e cioè:
fondamento cattolico, senso religioso del mondo, semplicità
e sobrietà fondamentali, aderenza alla realtà,
dominio della fantasia, equilibrio fra spirito e materia».
(Da notare: come sarebbe esistita l'Italia odierna, la nazione
italiana, senza il formarsi e lo svilupparsi delle città e
senza l'influsso cittadino unificatore?
«Strapaesanismo» nel passato avrebbe significato
municipalismo – come significò – disgregazione popolare e
dominio straniero. E il cattolicismo stesso si sarebbe sviluppato
se il Papa, invece di risiedere a Roma, avesse avuto la residenza
a Scaricalasino?)
E questo giudizio di Francesco Meriano (pubblicato
nell'«Assalto» di Bologna): «Nel campo
filosofico, io credo di trovare invece una vera e propria
antitesi: che è l'antitesi, vecchia di oltre cento anni e
sempre vestita di nuovi aspetti, tra il volontarismo il
pragmatismo l'attivismo identificabile nella stracittà e
l'illuminismo il razionalismo lo storicismo identificabile nello
strapaese». (Cioè gli immortali principii si
sarebbero rifugiati in strapaese). In ogni caso è da notare
come la polemica «letteraria» tra Strapaese e
Stracittà non sia stata altro che la spuma saponacea della
polemica tra conservatorismo parassitario e le tendenze
innovatrici della società italiana.
Nella «Stampa» del 4 maggio 1929 Mino Maccari scrive:
«Quando Strapaese si oppone alle importazioni modernistiche,
la sua opposizione vuol salvare il diritto di selezionarle al fine
di impedire che i contatti nocivi, confondendosi con quelli che
possono essere benefici, corrompano l'integrità della
natura e del carattere proprii alla civiltà italiana,
quintessenziata nei secoli, ed oggi anelante (!) a una sintesi
unificatrice». (Già «quintessenziata», ma
non «sintetizzata» e «unificata»!!)
Autarchia finanziaria dell'industria. Un articolo notevole di
Carlo Pagni A proposito di un tentativo di teoria pura del
corporativismo (nella «Riforma Sociale» del
settembre-ottobre 1929) esamina il volume di N. Massimo Fovel,
Economia e corporativismo (Ferrara, S.A.T.E., 1929) e accenna a un
altro scritto dello stesso Fovel, Rendita e salario nello Stato
Sindacale (Roma, 1928), ma non si accorge o non mette
espressamente in rilievo che il Fovel nei suoi scritti concepisce
il «corporativismo» come la premessa per
l'introduzione in Italia dei sistemi americani piú avanzati
nel modo di produrre e di lavorare.
Sarebbe interessante sapere se il Fovel scrive «estraendo
dal suo cervello» oppure se egli ha dietro di sé
(praticamente e non solo «in generale») determinate
forze economiche che lo sorreggono e lo spingono. Il Fovel non
è mai stato uno «scienziato» puro, che esprima
certe tendenze cosí come gli intellettuali, anche
«puri», esprimono sempre. Egli per molti aspetti,
rientra nella galleria del tipo Ciccotti, Naldi, Bazzi, Preziosi,
ecc. ma è piú complesso, per l'innegabile suo valore
intellettuale. Il Fovel ha sempre aspirato a diventare un grande
leader politico, e non è riuscito perché gli mancano
alcune doti fondamentali: la forza di volontà diretta a un
solo fine e la non volubilità intellettuale tipo Missiroli;
inoltre troppo spesso egli si è troppo chiaramente legato a
piccoli interessi loschi. Ha cominciato come «giovane
radicale», prima della guerra: avrebbe voluto ringiovanire,
dandogli un contenuto piú concreto e moderno, il movimento
democratico tradizionale, civettando un po' coi repubblicani,
specialmente federalisti e regionalisti («Critica
Politica» di Oliviero Zuccarini). Durante la guerra fu
neutralista giolittiano. Nel 1919 entra nel P.S. a Bologna, ma non
scrive mai nell'«Avanti!». Prima dell'armistizio fa
delle scappate a Torino. Gli industriali torinesi avevano
acquistato la vecchia e malfamata «Gazzetta di Torino»
per trasformarla e farne un loro organo diretto. Il Fovel aspirava
a diventare il direttore della nuova combinazione ed era
certamente in contatto con gli ambienti industriali. Invece fu
scelto come direttore Tomaso Borelli, «giovane
liberale» al quale successe ben presto Italo Minunni
dell'«Idea Nazionale» (ma la «Gazzetta di
Torino», anche sotto il nome di «Paese» e
nonostante le somme prodigate per svilupparla, non attecchí
e fu soppressa dai suoi sostenitori). Lettera
«curiosa» del Fovel nel 1919: egli scrive che
«sente il dovere» di collaborare all'«Ordine
Nuovo» settimanale; risposta in cui vengono fissati i limiti
di una sua possibile collaborazione, dopo cui la «voce del
dovere» si tace repentinamente. Il Fovel si aggregò
alla banda Passigli, Martelli, Gardenghi che aveva fatto del
«Lavoratore» di Trieste un centro d'affari assai
lucrosi e che doveva avere dei contatti con l'ambiente industriale
torinese: tentativo di Passigli di trasportare l'«Ordine
Nuovo» a Trieste con gestione «commercialmente»
redditizia (vedere per la data, la sottoscrizione di 100 lire
fatta dal Passigli che era venuto a Torino per parlare
direttamente); quistione se un «galantuomo» poteva
collaborare al «Lavoratore». Nel 1921 negli uffici del
«Lavoratore» furono trovate carte appartenenti al
Fovel e al Gardenghi, da cui risultava che i due compari giocavano
in borsa sui valori tessili durante lo sciopero guidato dai
sindacalisti di Nicola Vecchi e dirigevano il giornale secondo gli
interessi del loro gioco. Dopo Livorno, Fovel non fece parlare di
sé per qualche tempo. Ricomparve nel 1925, collaboratore
dell'«Avanti!» di Nenni e Gardenghi e impostò
una campagna favorevole all'infeudamento dell'industria italiana
alla finanza americana, campagna subito sfruttata (ma doveva
esserci già accordo preventivo) dalla «Gazzetta del
Popolo» legata all'ing. Ponti della S.I.P. Nel '25-26 il
Fovel collaborò spesso alla «Voce
Repubblicana». Oggi (1929) sostiene il corporativismo come
premessa a una forma italiana d'americanizzazione, collabora al
«Corriere Padano» di Ferrara, ai «Nuovi
Studi», ai «Nuovi Problemi», ai «Problemi
del Lavoro» e insegna (pare) all'Università di
Ferrara.
Ciò che nella tesi del Fovel, riassunta dal Pagni, pare
significativo, è la sua concezione della corporazione come
di un blocco industriale-produttivo autonomo, destinato a
risolvere in senso moderno e accentuatamente capitalistico il
problema di un ulteriore sviluppo dell'apparato economico
italiano, contro gli elementi semifeudali e parassitari della
società che prelevano una troppo grossa taglia sul
plusvalore, contro i cosí detti «produttori di
risparmio». La produzione del risparmio dovrebbe diventare
una funzione interna (a miglior mercato) dello stesso blocco
produttivo, attraverso uno sviluppo della produzione a costi
decrescenti che permetta, oltre a una maggior massa di plusvalore,
piú alti salari, con la conseguenza di un mercato interno
piú capace, di un certo risparmio operaio e di piú
alti profitti. Si dovrebbe avere cosí un ritmo piú
accelerato di accumulazione di capitali nel seno stesso
dell'azienda e non attraverso l'intermediario dei
«produttori di risparmio» che in realtà sono
divoratori di plusvalore. Nel blocco industriale-produttivo
l'elemento tecnico – direzione e operai – dovrebbe avere il
sopravvento sull'elemento «capitalistico» nel senso
piú «meschino» della parola, cioè
all'alleanza tra capitani d'industria e piccoli borghesi
risparmiatori dovrebbe sostituirsi un blocco di tutti gli elementi
direttamente efficienti nella produzione, che sono i soli capaci
di riunirsi in Sindacato e quindi di costituire la Corporazione
produttiva (donde la conseguenza estrema, tratta dallo Spirito,
della Corporazione proprietaria). Il Pagni obbietta al Fovel che
la sua trattazione non è una nuova economia politica, ma
solo una nuova politica economica, obbiezione formale, che
può avere un rilievo in certa sede, ma non tocca
l'argomento principale; le altre obbiezioni, concretamente, non
sono altro che la constatazione di alcuni aspetti arretrati
dell'ambiente italiano per rispetto a un simile rivolgimento
«organizzativo» dell'apparecchio economico. Le
deficienze maggiori del Fovel consistono nel trascurare la
funzione economica che lo Stato ha sempre avuto in Italia per la
diffidenza dei risparmiatori verso gli industriali, e nel
trascurare il fatto che l'indirizzo corporativo non ha avuto
origine dalle esigenze di un rivolgimento delle condizioni
tecniche dell'industria e neanche da quelle di una nuova politica
economica, ma piuttosto dalle esigenze di una polizia economica,
esigenze aggravate dalla crisi del 1929 e ancora in corso. In
realtà le maestranze italiane, né come individui
singoli né come sindacati, né attivamente né
passivamente, non si sono mai opposte alle innovazioni tendenti a
una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro,
all'introduzione di automatismi piú perfetti e di
piú perfette organizzazioni tecniche del complesso
aziendale. Tutt'altro. Ciò è avvenuto in America e
ha determinato la semiliquidazione dei sindacati liberi e la loro
sostituzione con un sistema di isolate (fra loro) organizzazioni
operaie di azienda. In Italia invece, ogni anche minimo e timido
tentativo di fare della fabbrica un centro di organizzazione
sindacale (ricordare la quistione dei fiduciari di azienda)
è stato combattuto aspramente e stroncato risolutamente.
Un'analisi accurata della storia italiana prima del '22 e anche
prima del '26, che non si lasci allucinare dal carnevale esterno,
ma sappia cogliere i motivi profondi del movimento operaio, deve
giungere alla conclusione obbiettiva che proprio gli operai sono
stati i portatori delle nuove e piú moderne esigenze
industriali e a modo loro le affermarono strenuamente; si
può dire anche che qualche industriale capí questo
movimento e cercò di accaparrarselo (cosí è
da spiegare il tentativo fatto da Agnelli di assorbire
l'«Ordine Nuovo» e la sua scuola nel complesso Fiat, e
di istituire cosí una scuola di operai e di tecnici
specializzati per un rivolgimento industriale e del lavoro con
sistemi «razionalizzati»: l'YMCA cercò di
aprire dei corsi di «americanismo» astratto, ma
nonostante le forti somme spese, i corsi fallirono).
A parte queste considerazioni, un'altra serie di quistioni si
presenta: il movimento corporativo esiste e per alcuni aspetti le
realizzazioni giuridiche già avvenute hanno creato le
condizioni formali in cui il rivolgimento tecnico-economico
può verificarsi su larga scala, perché gli operai
né possono opporsi ad esso né possono lottare per
diventarne essi stessi i portabandiera. L'organizzazione
corporativa può diventare la forma di tale rivolgimento, ma
si domanda: si vedrà una di quelle vichiane «astuzie
della provvidenza» per cui gli uomini senza proporselo e
senza volerlo ubbidiscano agli imperativi della storia? Per ora,
si è portati a dubitarne. L'elemento negativo della
«polizia economica» ha avuto finora il sopravvento
sull'elemento positivo dell'esigenza di una nuova politica
economica che rinnovi, ammodernandola, la struttura
economico-sociale della nazione pur nei quadri del vecchio
industrialismo. La forma giuridica possibile è una delle
condizioni, non la sola condizione e neanche la piú
importante: è solo la piú importante delle
condizioni immediate. L'americanizzazione richiede un ambiente
dato, una data struttura sociale (o la volontà decisa di
crearla) e un certo tipo di Stato. Lo Stato è lo Stato
liberale, non nel senso del liberismo doganale o della
libertà effettiva politica, ma nel senso piú
fondamentale della libera iniziativa e dell'individualismo
economico che giunge con mezzi propri, come «società
civile», per lo stesso sviluppo storico, al regime della
concentrazione industriale e del monopolio. La sparizione del tipo
semifeudale del redditiero è in Italia una delle condizioni
maggiori del rivolgimento industriale (è, in parte, il
rivolgimento stesso), non una conseguenza. La politica
economico-finanziaria dello Stato è lo strumento di tale
sparizione: ammortamento del debito pubblico, nominatività
dei titoli, maggior peso della tassazione diretta su quella
indiretta nella formazione delle entrate di bilancio. Non pare che
questo sia o sia per diventare l'indirizzo della politica
finanziaria. Anzi. Lo Stato crea nuovi redditieri, cioè
promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria del
risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In
realtà finora l'indirizzo corporativo ha funzionato per
sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare
queste e sta sempre piú diventando, per gli interessi
costituiti che sorgono sulla vecchia base, una macchina di
conservazione dell'esistente cosí come è e non una
molla di propulsione. Perché? Perché l'indirizzo
corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione:
difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera
la concorrenza, crollerebbe anch'esso, provocando gravi
rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo,
organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie.
Rimane sempre una via d'uscita: l'indirizzo corporativo, nato in
dipendenza di una situazione cosí delicata, di cui bisogna
mantenere l'equilibrio essenziale a tutti i costi, per evitare una
immane catastrofe, potrebbe procedere a tappe lentissime, quasi
insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse
repentine: anche il bambino meglio e piú solidamente
fasciato si sviluppa tuttavia e cresce. Ed ecco perché
sarebbe interessante sapere se il Fovel è la voce di se
stesso o è l'esponente di forze economiche che cercano, ad
ogni costo, la loro via. In ogni caso, il processo sarebbe
cosí lungo e troverebbe tante difficoltà, che nel
frattempo nuovi interessi possono costituirsi e fare nuova tenace
opposizione al suo sviluppo fino a stroncarlo.
Alcuni aspetti della quistione sessuale. Ossessione della
quistione sessuale e pericoli di una tale ossessione. Tutti i
«progettisti» pongono in prima linea la quistione
sessuale e la risolvono «candidamente». È da
rilevare come nelle «utopie» la quistione sessuale
abbia larghissima parte, spesso prevalente (l'osservazione del
Croce che le soluzioni del Campanella nella Città del Sole
non possono spiegarsi coi bisogni sessuali dei contadini calabresi
è inetta). Gli istinti sessuali sono quelli che hanno
subito la maggiore repressione da parte della società in
isviluppo; il loro «regolamento», per le
contraddizioni cui dà luogo e per le perversioni che gli si
attribuiscono, sembra il piú «innaturale»,
quindi piú frequenti in questo campo i richiami alla
«natura». Anche la letteratura
«psicanalitica» è un modo di criticare la
regolamentazione degli istinti sessuali in forma talvolta
«illuministica», con la creazione di un nuovo mito del
«selvaggio» sulla base sessuale (inclusi i rapporti
tra genitori e figli).
Distacco, in questo campo, tra città e campagna, ma non in
senso idillico per la campagna, dove avvengono i reati sessuali
piú mostruosi e numerosi, dove è molto diffuso il
bestialismo e la pederastia. Nell'inchiesta parlamentare sul
Mezzogiorno del 1911 si dice che in Abruzzo e Basilicata (dove
maggiore è il fanatismo religioso, il patriarcalismo e
minore l'influsso delle idee cittadine, tanto che negli anni
1919-20, secondo il Serpieri, non vi fu neppure un'agitazione di
contadini) si ha l'incesto nel 30% delle famiglie e non pare che
la situazione sia cambiata fino agli ultimi anni.
La sessualità come funzione riproduttiva e come
«sport»: l'ideale «estetico» della donna
oscilla tra la concezione di «fattrice» e di
«ninnolo». Ma non è solo in città che la
sessualità è diventata uno «sport»; i
proverbi popolari: «l'uomo è cacciatore, la donna
è tentatrice», «chi non ha di meglio, va a
letto con la moglie» ecc., mostrano la diffusione della
concezione sportiva anche in campagna e nei rapporti sessuali tra
elementi della stessa classe.
La funzione economica della riproduzione: essa non è solo
un fatto generale, che interessa tutta la società nel suo
complesso, per la quale è necessaria una certa proporzione
tra le diverse età ai fini della produzione e del
mantenimento della parte passiva della popolazione (passiva in via
normale, per l'età, per l'invalidità ecc.), ma
è anche un fatto «molecolare», interno ai
piú piccoli aggregati economici quale la famiglia.
L'espressione sul «bastone della vecchiaia» mostra la
coscienza istintiva del bisogno economico che ci sia un certo
rapporto tra giovani e vecchi in tutta l'area sociale. Lo
spettacolo del come sono bistrattati, nei villaggi, i vecchi e le
vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare la prole
(il proverbio che «una madre alleva cento figli e cento
figli non sostengono una madre» mostra un altro aspetto
della quistione): i vecchi senza figli, delle classi popolari,
sono trattati come i «bastardi».
I progressi dell'igiene, che hanno elevato le medie della vita
umana, pongono sempre piú la quistione sessuale come un
aspetto fondamentale e a sé stante della quistione
economica, aspetto tale da porre a sua volta problemi complessi
del tipo di «superstruttura». L'aumento della media
della vita in Francia, con la scarsa natalità e coi bisogni
di far funzionare un molto ricco e complesso apparato di
produzione, pone già oggi alcuni problemi coordinati al
problema nazionale: le generazioni vecchie vanno mettendosi in un
rapporto sempre piú anormale con le generazioni giovani
della stessa cultura nazionale, e le masse lavoratrici si
impinguano di elementi stranieri immigrati che modificano la base:
si verifica già, come in America, una certa divisione del
lavoro (mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni
di direzione e organizzazione; mestieri non qualificati per gli
immigrati).
Un rapporto simile, ma con conseguenze antieconomiche rilevanti,
si pone in tutta una serie di Stati tra le città
industriali a bassa natalità e la campagna prolifica: la
vita nell'industria domanda un tirocinio generale, un processo di
adattamento psico-fisico a determinate condizioni di lavoro, di
nutrizione, di abitazione, di costumi ecc. che non è
qualcosa di innato, di «naturale», ma domanda di
essere acquisito, mentre i caratteri urbani acquisiti si
tramandano per ereditarietà o vengono assorbiti nello
sviluppo dell'infanzia e dell'adolescenza. Cosí la bassa
natalità urbana domanda una continua e rilevante spesa per
il tirocinio dei continuamente nuovi inurbati e porta con
sé un continuo mutarsi della composizione sociale-politica
della città, ponendo continuamente su nuove basi il
problema dell'egemonia.
La quistione etico-civile piú importante legata alla
quistione sessuale è quella della formazione di una nuova
personalità femminile: finché la donna non
avrà raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte
all'uomo, ma anche un nuovo modo di concepire se stessa e la sua
parte nei rapporti sessuali, la quistione sessuale rimarrà
ricca di caratteri morbosi e occorrerà esser cauti in ogni
innovazione legislativa. Ogni crisi di coercizione unilaterale nel
campo sessuale porta con sé a uno sfrenamento
«romantico» che può essere aggravato
dall'abolizione della prostituzione legale e organizzata. Tutti
questi elementi complicano e rendono difficilissima ogni
regolamentazione del fatto sessuale e ogni tentativo di creare una
nuova etica sessuale che sia conforme ai nuovi metodi di
produzione e di lavoro. D'altronde è necessario procedere a
tale regolamentazione e alla creazione di una nuova etica.
È da rilevare come gli industriali (specialmente Ford) si
siano interessati dei rapporti sessuali dei loro dipendenti e in
generale della sistemazione generale delle loro famiglie; la
apparenza di «puritanesimo» che ha assunto questo
interesse (come nel caso del proibizionismo) non deve trarre in
errore; la verità è che non può svilupparsi
il nuovo tipo di uomo domandato dalla razionalizzazione della
produzione e del lavoro, finché l'istinto sessuale non sia
stato conformemente regolato, non sia stato anch'esso
razionalizzato.
[Femminismo e «maschilismo».] Dalla recensione che A.
De Pietri Tonelli ha pubblicato nella «Rivista di politica
economica» (febbraio 1930) del libro di Anthony M. Ludovici,
Woman. A vindication (2a ediz., 1929, Londra): «Quando le
cose vanno male nella struttura sociale di una nazione, a cagione
della decadenza nelle capacità fondamentali dei suoi uomini
– afferma il Ludovici – due distinte tendenze sembrano sempre
rendersi rilevabili: la prima è quella di interpretare
cambiamenti, che sono puramente e semplicemente segni della
decadenza e della rovina di vecchie e sane (!) istituzioni, come
sintomi di progresso; la seconda, dovuta alla giustificata perdita
di confidenza nella classe governante, è di dare a
ciascuno, abbia o no le qualità volute, la sicurezza di
essere indicato per fare uno sforzo al fine di aggiustare le
cose». (La traduzione è manifestamente incerta e
inesatta). L'autore fa del femminismo un'espressione di questa
seconda tendenza e domanda una rinascita del
«maschilismo».
A parte ogni altra considerazione di merito, difficile da fare
perché il testo dato del De Pietri Tonelli è
incerto, è da rilevare la tendenza antifemminista e
«maschilista». È da studiare l'origine della
legislazione anglosassone cosí favorevole alle donne in
tutta una serie di conflitti «sentimentali» o pseudo
sentimentali. Si tratta di un tentativo di regolare la quistione
sessuale, di farne una cosa seria, ma non pare abbia raggiunto il
suo scopo: ha dato luogo a deviazioni morbose,
«femministiche» in senso deteriore e ha creato alla
donna (delle classi alte) una posizione sociale paradossale.
«Animalità» e industrialismo. La storia
dell'industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in
una forma piú accentuata e rigorosa) una continua lotta
contro l'elemento «animalità» dell'uomo, un
processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di
soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e
primitivi) a sempre nuove, piú complesse e rigide norme e
abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano
possibili le forme sempre piú complesse di vita collettiva
che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo
dell'industrialismo. Questa lotta è imposta dall'esterno e
finora i risultati ottenuti, sebbene di grande valore pratico
immediato, sono puramente meccanici in gran parte, non sono
diventati una «seconda natura». Ma ogni nuovo modo di
vivere, nel periodo in cui si impone la lotta contro il vecchio,
non è sempre stato per un certo tempo il risultato di una
compressione meccanica? Anche gli istinti che oggi sono da
superare come ancora troppo «animaleschi» in
realtà sono stati un progresso notevole su quelli
anteriori, ancor piú primitivi: chi potrebbe descrivere il
«costo», in vite umane e in dolorosi soggiogamenti
degli istinti, del passaggio dal nomadismo alla vita stanziale e
agricola? Ci rientrano le prime forme di schiavitú della
gleba e del mestiere ecc. Finora tutti i mutamenti del modo di
essere e di vivere sono avvenuti per coercizione brutale,
cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le
forze produttive della società: la selezione o
«educazione» dell'uomo adatto ai nuovi tipi di
civiltà, cioè alle nuove forme di produzione e di
lavoro, è avvenuta con l'impiego di brutalità
inaudite, gettando nell'inferno delle sottoclassi i deboli e i
refrattari o eliminandoli del tutto. A ogni avvento di nuovi tipi
di civiltà, o nel corso del processo di sviluppo, ci sono
state delle crisi. Ma chi fu coinvolto in queste crisi? Non le
masse lavoratrici, ma le classi medie e una parte della stessa
classe dominante, che avevano sentito anche esse la pressione
coercitiva, che necessariamente era esercitata su tutta l'area
sociale. Le crisi di libertinismo sono state numerose: ogni epoca
storica ne ha avuta una. Quando la pressione coercitiva viene
esercitata su tutto il complesso sociale (e ciò avviene
specialmente dopo la caduta della schiavitú e l'avvento del
cristianesimo) si sviluppano ideologie puritane che danno la forma
esteriore della persuasione e del consenso all'intrinseco uso
della forza: ma una volta che il risultato è stato
raggiunto, almeno in una certa misura, la pressione si spezza
(storicamente questa frattura si verifica in modi diversissimi,
come è naturale, perché la pressione ha sempre
assunto forme originali, spesso personali; si è
identificata con un movimento religioso, ha creato un proprio
apparato che si è impersonato in determinati strati o
caste, ha preso il nome di Cromwell o di Luigi XV ecc.) e avviene
la crisi di libertinismo (la crisi francese dopo la morte di Luigi
XV, per esempio, non può essere paragonata con la crisi
americana dopo l'avvento di Roosevelt, né il proibizionismo
ha riscontro nelle epoche precedenti, col suo seguito di
banditismi ecc.) che però non tocca altro che
superficialmente le masse lavoratrici o le tocca indirettamente
perché deprava le loro donne: queste masse infatti o hanno
già acquisito le abitudini e i costumi necessari ai nuovi
sistemi di vita e di lavoro oppure continuano a sentire la
pressione coercitiva per le necessità elementari della loro
esistenza (anche l'antiproibizionismo non fu voluto dagli operai,
e la corruzione che il contrabbando e il banditismo portò
con sé era diffusa nelle classi superiori).
Nel dopoguerra si è verificata una crisi dei costumi di
estensione e profondità inaudite, ma si è verificata
contro una forma di coercizione che non era stata imposta per
creare le abitudini conformi a una nuova forma di lavoro, ma per
le necessità, già concepite come transitorie, della
vita di guerra e di trincea. Questa pressione ha represso
specialmente gli istinti sessuali, anche normali, in grandi masse
di giovani e la crisi che si è scatenata al momento del
ritorno della vita normale è stata resa ancor piú
violenta dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio
permanente nel rapporto numerico tra gli individui dei due sessi.
Le istituzioni legate alla vita sessuale hanno ricevuto una forte
scossa e nella quistione sessuale si sono sviluppate nuove forme
di utopia illuministica. La crisi è stata (ed è
ancora) resa piú violenta dal fatto che ha toccato tutti
gli strati della popolazione ed è entrata in conflitto con
le necessità dei nuovi metodi di lavoro che intanto si sono
venuti imponendo (taylorismo e razionalizzazione in generale).
Questi nuovi metodi domandano una rigida disciplina degli istinti
sessuali (del sistema nervoso), cioè un rafforzamento della
«famiglia» in senso largo (non di questa o quella
forma del sistema famigliare), della regolamentazione e
stabilità dei rapporti sessuali.
Occorre insistere sul fatto che nel campo sessuale il fattore
ideologico piú depravante e «regressivo»
è la concezione illuministica e libertaria propria delle
classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da
queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici. Questo
elemento diventa tanto piú grave se in uno Stato le masse
lavoratrici non subiscono piú la pressione coercitiva di
una classe superiore, se le nuove abitudini e attitudini
psicofisiche connesse ai nuovi metodi di produzione e di lavoro
devono essere acquistate per via di persuasione reciproca o di
convinzione individualmente proposta ed accettata. Può
venirsi creando una situazione a doppio fondo, un conflitto intimo
tra l'ideologia «verbale» che riconosce le nuove
necessità e la pratica reale «animalesca» che
impedisce ai corpi fisici l'effettiva acquisizione delle nuove
attitudini. Si forma in questo caso quella che si può
chiamare una situazione di ipocrisia sociale totalitaria.
Perché totalitaria? Nelle altre situazioni gli strati
popolari sono costretti a osservare la «virtú»;
chi la predica, non la osserva, pur rendendole omaggio verbale e
quindi l'ipocrisia è di strati, non totale; ciò non
può durare, certo, e porterà a una crisi di
libertinismo; ma quando già le masse avranno assimilato la
«virtú» in abitudini permanenti o quasi,
cioè con oscillazioni sempre minori. Nel caso invece in cui
non esiste pressione coercitiva di una classe superiore, la
«virtú» viene affermata genericamente, ma non
osservata né per convinzione né per coercizione e
pertanto non ci sarà l'acquisizione delle attitudini
psicofisiche necessarie per i nuovi metodi di lavoro. La crisi
può diventare «permanente», cioè a
prospettiva catastrofica, poiché solo la coercizione
potrà definirla, una coercizione di nuovo tipo, in quanto
esercitata dalla élite di una classe sulla propria classe,
non può essere che un'autocoercizione, cioè
un'autodisciplina. (Alfieri che si fa legare alla sedia). In ogni
caso, ciò che si può opporre a questa funzione delle
élites è la mentalità illuministica e
libertaria nella sfera dei rapporti sessuali; lottare contro
questa concezione significa poi appunto creare le élites
necessarie al compito storico, o almeno svilupparle perché
la loro funzione si estenda a tutte le sfere dell'attività
umana.
Razionalizzazione della produzione e del lavoro. La tendenza di
Leone Davidovi era strettamente connessa a questa serie di
problemi, ciò che non mi pare sia stato messo bene in luce.
Il suo contenuto essenziale, da questo punto di vista, consisteva
nella «troppo» risoluta (quindi non razionalizzata)
volontà di dare la supremazia, nella vita nazionale,
all'industria e ai metodi industriali, di accelerare, con mezzi
coercitivi esteriori, la disciplina e l'ordine nella produzione,
di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Data
l'impostazione generale di tutti i problemi connessi alla
tendenza, questa doveva sboccare necessariamente in una forma di
bonapartismo, quindi la necessità inesorabile di
stroncarla. Le sue preoccupazioni erano giuste, ma le soluzioni
pratiche erano profondamente errate: in questo squilibrio tra
teoria e pratica era insito il pericolo, che del resto si era
già manifestato precedentemente, nel 1921. Il principio
della coercizione, diretta e indiretta, nell'ordinamento della
produzione e del lavoro è giusto (cfr. il discorso
pronunziato contro Martov e riportato nel volume sul Terrorismo)
ma la forma che esso aveva assunto era errata: il modello militare
era diventato un pregiudizio funesto e gli eserciti del lavoro
fallirono. Interesse di Leone Davidovi per l'americanismo; suoi
articoli, sue inchieste sul «byt» e sulla letteratura,
queste attività erano meno sconnesse tra loro di quanto
poteva sembrare, poiché i nuovi metodi di lavoro sono
indissolubili da un determinato modo di vivere, di pensare e di
sentire la vita: non si possono ottenere successi in un campo
senza ottenere risultati tangibili nell'altro.
In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo
sono indubbiamente connessi: le inchieste degli industriali sulla
vita intima degli operai, i servizi di ispezione creati da alcune
aziende per controllare la «moralità» degli
operai sono necessità del nuovo metodo di lavoro. Chi
irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse
in esse solo una manifestazione ipocrita di
«puritanismo», si negherebbe ogni possibilità
di capire l'importanza, il significato e la portata obbiettiva del
fenomeno americano, che è anche il maggior sforzo
collettivo verificatosi finora per creare con rapidità
inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un
tipo nuovo di lavoratore e di uomo. La espressione
«coscienza del fine» può sembrare per lo meno
spiritosa a chi ricorda la frase del Taylor sul «gorilla
ammaestrato». Il Taylor infatti esprime con cinismo brutale
il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore
al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici,
spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale
qualificato che domandava una certa partecipazione attiva
dell'intelligenza, della fantasia, dell'iniziativa del lavoratore
e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico
macchinale. Ma in realtà non si tratta di novità
originali: si tratta solo della fase piú recente di un
lungo processo che si è iniziato col nascere dello stesso
industrialismo, fase che è solo piú intensa delle
precedenti e si manifesta in forme piú brutali, ma che essa
pure verrà superata con la creazione di un nuovo nesso
psico-fisico di un tipo differente da quelli precedenti e
indubbiamente di un tipo superiore. Avverrà
ineluttabilmente una selezione forzata, una parte della vecchia
classe lavoratrice verrà spietatamente eliminata dal mondo
del lavoro e forse dal mondo tout court.
Da questo punto di vista occorre studiare le iniziative
«puritane» degli industriali americani tipo Ford.
È certo che essi non si preoccupano
dell'«umanità», della
«spiritualità» del lavoratore che
immediatamente viene schiantata. Questa «umanità e
spiritualità» non può non realizzarsi che nel
mondo della produzione e del lavoro, nella «creazione»
produttiva; essa era massima nell'artigiano, nel
«demiurgo», quando la personalità del
lavoratore si rifletteva tutta nell'oggetto creato, quando era
ancora molto forte il legame tra arte e lavoro. Ma appunto contro
questo «umanesimo» lotta il nuovo industrialismo. Le
iniziative «puritane» hanno solo il fine di
conservare, fuori del lavoro, un certo equilibrio psico-fisico che
impedisca il collasso fisiologico del lavoratore, spremuto dal
nuovo metodo di produzione. Questo equilibrio non può
essere che puramente esteriore e meccanico, ma potrà
diventare interiore se esso sarà proposto dal lavoratore
stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di
società, con mezzi appropriati e originali. L'industriale
americano si preoccupa di mantenere la continuità
dell'efficienza fisica del lavoratore, della sua efficienza
muscolare-nervosa: è suo interesse avere una maestranza
stabile, un complesso affiatato permanentemente, perché
anche il complesso umano (il lavoratore collettivo) di un'azienda
è una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e
rinnovata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti. Il
cosí detto alto salario è un elemento dipendente da
questa necessità: esso è lo strumento per
selezionare una maestranza adatta al sistema di produzione e di
lavoro e per mantenerla stabilmente. Ma l'alto salario è a
due tagli: occorre che il lavoratore spenda
«razionalmente» i quattrini piú abbondanti, per
mantenere, rinnovare e possibilmente per accrescere la sua
efficienza muscolare-nervosa, non per distruggerla o intaccarla.
Ed ecco la lotta contro l'alcool, l'agente piú pericoloso
di distruzione delle forze di lavoro, che diventa funzione di
Stato. È possibile che anche altre lotte
«puritane» divengano funzione di Stato, se
l'iniziativa privata degli industriali si dimostra insufficiente o
si scatena una crisi di moralità troppo profonda ed estesa
nelle masse lavoratrici, ciò che potrebbe avvenire in
conseguenza di una crisi lunga ed estesa di disoccupazione.
Quistione legata a quella dell'alcool è l'altra sessuale:
l'abuso e l'irregolarità delle funzioni sessuali è,
dopo l'alcoolismo, il nemico piú pericoloso delle energie
nervose ed è osservazione comune che il lavoro
«ossessionante» provoca depravazione alcoolica e
sessuale. I tentativi fatti dal Ford di intervenire, con un corpo
di ispettori, nella vita privata dei suoi dipendenti e controllare
come spendevano il loro salario e come vivevano, è un
indizio di queste tendenze ancora «private» o latenti,
che possono diventare, a un certo punto, ideologia statale,
innestandosi nel puritanesimo tradizionale, presentandosi
cioè come un rinascimento della morale dei pionieri, del
«vero» americanismo, ecc. Il fatto piú notevole
del fenomeno americano in rapporto a queste manifestazioni
è il distacco che si è formato e si andrà
sempre piú accentuando, tra la moralità-costume dei
lavoratori e quella di altri strati della popolazione. Il
proibizionismo ha già dato un esempio di tale distacco. Chi
consumava l'alcool introdotto di contrabbando negli S.U.? L'alcool
era diventato una merce di gran lusso e neanche i piú alti
salari potevano permetterne il consumo ai larghi strati delle
masse lavoratrici: chi lavora a salario, con un orario fisso, non
ha tempo da dedicare alla ricerca dell'alcool, non ha tempo da
dedicare allo sport di eludere le leggi. La stessa osservazione si
può fare per la sessualità. La «caccia alla
donna» domanda troppi «loisirs»; nell'operaio di
tipo nuovo si ripeterà, in altra forma, ciò che
avviene nei villaggi contadini. La relativa fissità delle
unioni sessuali contadine è strettamente legata al sistema
di lavoro della campagna. Il contadino, che torna a casa la sera
dopo una lunga giornata di fatica, vuole la «Venerem facilem
parabilemque» di Orazio: egli non ha l'attitudine a fare le
fusa intorno a donne di fortuna; ama la sua donna, sicura,
immancabile, che non farà smancerie e non pretenderà
la commedia della seduzione e dello stupro per essere posseduta.
Pare che cosí la funzione sessuale sia meccanizzata, ma in
realtà si tratta del sorgere di una nuova forma di unione
sessuale, senza i colori «abbaglianti» dell'orpello
romantico proprio del piccolo borghese e del bohémien
sfaccendato. Appare chiaro che il nuovo industrialismo vuole la
monogamia, vuole che l'uomo-lavoratore non sperperi le sue energie
nervose nella ricerca disordinata ed eccitante del soddisfacimento
sessuale occasionale: l'operaio che va al lavoro dopo una notte di
«stravizio» non è un buon lavoratore,
l'esaltazione passionale non può andar d'accordo coi
movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai piú
perfetti automatismi. Questo complesso di compressioni e
coercizioni dirette e indirette esercitate sulla massa
otterrà indubbiamente dei risultati e sorgerà una
nuova forma di unione sessuale di cui la monogamia e la
stabilità relativa paiono dover essere il tratto
caratteristico e fondamentale. Sarebbe interessante conoscere le
risultanze statistiche dei fenomeni di deviazione dai costumi
sessuali ufficialmente propagandati negli Stati Uniti, analizzati
per gruppi sociali: in generale si verificherà che i
divorzi sono specialmente numerosi nelle classi superiori.
Questo distacco di moralità tra le masse lavoratrici ed
elementi sempre piú numerosi delle classi dirigenti, negli
Stati Uniti, pare sia uno dei fenomeni piú interessanti e
ricco di conseguenze. Fino a poco tempo fa quello americano era un
popolo di lavoratori: la «vocazione laboriosa» non era
un tratto inerente solo alle classi operaie, ma era una
qualità specifica anche delle classi dirigenti. Il fatto
che un miliardario continuasse ad essere praticamente operoso fino
a quando la malattia o la vecchiaia non lo costringessero al
riposo e che la sua attività occupasse un numero di ore
molto notevole della sua giornata: ecco uno dei fenomeni
tipicamente americani, ecco l'americanata piú strabiliante
per l'europeo medio. È stato notato precedentemente che
questa differenza tra americani ed europei è data dalla
mancanza di «tradizione» negli Stati Uniti, in quanto
tradizione significa anche residuo passivo di tutte le forme
sociali tramontate nella storia: negli Stati Uniti invece è
recente ancora la «tradizione» dei pionieri,
cioè di forti individualità in cui la
«vocazione laboriosa» aveva raggiunto la maggior
intensità e vigore, di uomini che direttamente, e non per
il tramite di un esercito di schiavi o di servi, entravano in
contatto energico con le forze naturali per dominarle e sfruttarle
vittoriosamente. Sono questi residui passivi che in Europa
resistono all'americanismo, «rappresentano la qualità
ecc.», perché essi sentono istintivamente che le
nuove forme di produzione e di lavoro li spazzerebbero via
implacabilmente.
Ma se è vero che in Europa, in tal modo, il vecchiume non
ancora seppellito verrebbe definitivamente distrutto, cosa
incomincia ad avvenire nella stessa America? Il distacco di
moralità su accennato mostra che si stanno creando margini
di passività sociale sempre piú ampi. Pare che le
donne abbiano una funzione prevalente in questo fenomeno.
L'uomo-industriale continua a lavorare anche se miliardario, ma
sua moglie e le sue figlie diventano sempre piú
«mammiferi di lusso». I concorsi di bellezza, i
concorsi per il personale cinematografico (ricordare le 30.000
ragazze italiane che nel 1926 inviarono la loro fotografia in
costume da bagno alla Fox), il teatro ecc., selezionando la
bellezza femminile mondiale e ponendola all'asta, suscitano una
mentalità di prostituzione, e la «tratta delle
bianche» viene fatta legalmente per le classi alte. Le
donne, oziose, viaggiano, attraversano continuamente l'oceano per
venire in Europa, sfuggono al proibizionismo patrio e contraggono
«matrimoni» stagionali (è da ricordare che fu
tolto ai capitani marittimi degli S. U. la facoltà di
sanzionare matrimoni a bordo, perché molte coppie si
sposavano alla partenza dall'Europa e divorziavano prima dello
sbarco in America): la prostituzione reale dilaga, appena larvata
da fragili formalità giuridiche.
Questi fenomeni propri delle classi alte renderanno piú
difficile la coercizione sulle masse lavoratrici per conformarle
ai bisogni della nuova industria; (in ogni modo determinano una
frattura psicologica e accelerano la cristallizzazione e la
saturazione dei gruppi sociali, rendendo evidente il loro
trasformarsi in caste come è avvenuto in Europa.
Eugenio Giovannetti ha scritto, nel «Pègaso»
del maggio 1929, un articolo su Federico Taylor e l'americanismo,
in cui scrive: «L'energia letteraria, astratta, nutrita di
retorica generalizzante, non è insomma oggi piú in
grado di capire l'energia tecnica, sempre piú individuale
ed acuta, tessuto originalissimo di volontà singolare e di
educazione specializzata. La letteratura energetica è
ancora al suo Prometeo scatenato, immagine troppo comoda. L'eroe
della civiltà tecnica non è uno scatenato: è
un silenzioso che sa portare pei cieli la sua ferrea catena. Non
è un ignorante che si goda l'aria: è uno studioso
nel piú bel senso classico, perché studium
significava «punta viva». Mentre la civiltà
tecnica o meccanistica come volete chiamarla, elabora in silenzio
questo suo tipo di eroe incisivo, il culto letterario dell'energia
non crea che un gaglioffo aereo, un acchiappanuvole
scalmanato».
È da rilevare come non si sia cercato di applicare
all'americanismo la formuletta del Gentile sulla «filosofia
che non si enunzia in formule ma si afferma nell'azione»;
ciò è significativo e istruttivo, perché se
la formula ha un valore, è proprio l'americanismo che
può rivendicarlo. Invece, quando si parla
dell'americanismo, si trova che esso è
«meccanicistico», rozzo, brutale, cioè
«pura azione», e gli si contrappone la tradizione,
ecc. Ma questa tradizione, ecc., perché non viene assunta
anche come base filosofica, come la filosofia enunziata in formule
di quei movimenti per i quali invece la «filosofia è
affermata nell'azione»? Questa contraddizione può
spiegare molte cose: la differenza, per esempio, tra l'azione
reale, che modifica essenzialmente sia l'uomo che la realtà
esterna (cioè la reale cultura) ed è l'americanismo,
e il gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica
solo il vocabolario, non le cose, il gesto esterno, non l'uomo
interiore. La prima sta creando un avvenire che è
intrinseco alla sua attività obbiettiva e del quale si
preferisce tacere. Il secondo crea solo dei fantocci perfezionati,
stagliati su un figurino retoricamente prefissato, e che cadranno
nel nulla non appena saranno recisi i fili esterni che danno loro
l'apparenza del moto e della vita.
Quantità e qualità. Nel mondo della produzione
significa niente altro che «buon mercato» e
«alto prezzo», cioè soddisfazione o no dei
bisogni elementari delle classi popolari e tendenza ad elevare o a
deprimere il loro tenore di vita: tutto il resto non è
altro che romanzo ideologico d'appendice, di cui Guglielmo Ferrero
ha scritto la prima puntata. In un'azienda-nazione, che ha
disponibile molta mano d'opera e poche materie prime (ciò
che è discutibile, perché ogni nazione-azienda
«si crea» la propria materia prima) il motto:
«Qualità!» significa solo la volontà di
impiegare molto lavoro su poca materia, perfezionando il prodotto
all'estremo, cioè la volontà di specializzarsi per
un mercato di lusso. Ma è ciò possibile per
un'intiera nazione molto popolosa?
Dove esiste molta materia prima sono possibili i due indirizzi,
qualitativo e quantitativo, mentre non esiste reciproca per i
cosí detti paesi poveri. La produzione quantitativa
può essere anche qualitativa, cioè fare la
concorrenza all'industria puramente qualitativa, tra quella parte
della classe consumatrice di oggetti «distinti» che
non è tradizionalista perché di nuova formazione.
Tali appunti sono validi se si accetta il criterio della
«qualità» cosí come è posto
comunemente e che non è un criterio razionale: in
realtà si può parlare di
«qualità» solo per le opere d'arte individue e
non riproducibili, tutto ciò che è riproducibile
rientra nel regno della «quantità» e può
essere fabbricato in serie.
Si può osservare inoltre: se una nazione si specializza
nella produzione «qualitativa», quale industria
procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si
promuoverà una situazione di divisione internazionale del
lavoro? Si tratta di niente altro che di una formula da letterati
perdigiorno e di politici la cui demagogia consiste nel costruire
castelli in aria. La qualità dovrebbe essere attribuita
agli uomini e non alle cose: e la qualità umana si eleva e
si raffina nella misura in cui l'uomo soddisfa un maggior numero
di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del
pane dovuto al fatto di voler mantenere legata a una determinata
attività una maggiore quantità di persone, porta
alla denutrizione. La politica della qualità determina
quasi sempre il suo opposto: una quantità squalificata.
Taylorismo e meccanizzazione del lavoratore. A proposito del
distacco che il taylorismo determinerebbe tra il lavoro manuale e
il «contenuto umano» del lavoro, si possono fare utili
osservazioni sul passato, e proprio a riguardo di quelle
professioni che sono ritenute tra le piú
«intellettuali», le professioni cioè legate
alla riproduzione degli scritti per la pubblicazione o per altra
forma di diffusione e trasmissione: gli amanuensi di prima
dell'invenzione della stampa, i compositori a mano, i linotypisti,
gli stenografi, i dattilografi. Se si riflette, si vede che in
questi mestieri il processo di adattamento alla meccanizzazione
è piú difficile che negli altri. Perché?
Perché è difficile raggiungere la massima qualifica
professionale, che domanda da parte dell'operaio di
«dimenticare» o non riflettere al contenuto
intellettuale dello scritto che riproduce, per fissare la sua
attenzione solo o alla forma calligrafica delle singole lettere,
se amanuense, o per scomporre le frasi in parole
«astratte» e queste in lettere-caratteri e rapidamente
scegliere i pezzi di piombo nelle caselle, per scomporre non
piú solo le singole parole, ma gruppi di parole, nel
contesto di un discorso, meccanicamente aggruppandoli in sigle
stenografiche, per ottenere la rapidità, nel dattilografo
ecc. L'interesse del lavoratore per il contenuto intellettuale del
testo si misura dai suoi errori, cioè è una
deficienza professionale: la sua qualifica è proprio
commisurata dal suo disinteressamento intellettuale, cioè
dal suo «meccanizzarsi». Il copista medioevale che si
interessava al testo, mutava l'ortografia, la morfologia, la
sintassi del testo ricopiato, tralasciava periodi interi che non
comprendeva, per la sua scarsa cultura, il corso dei pensieri
suscitati in lui dall'interesse per il testo lo portava a
interpolare glosse e avvertenze; se il suo dialetto o la sua
lingua erano diversi da quelli del testo, egli introduceva
sfumature alloglottiche; era un cattivo amanuense perché in
realtà «rifaceva» il testo. La lentezza
dell'arte scrittoria medioevale spiega molte di queste deficienze:
c'era troppo tempo per riflettere e quindi la
«meccanizzazione» era piú difficile. Il
tipografo deve essere molto rapido, deve tenere in continuo
movimento le mani e gli occhi e ciò rende piú facile
la sua meccanizzazione. Ma a pensarci bene, lo sforzo che questi
lavoratori devono fare per isolare dal contenuto intellettuale del
testo, talvolta molto appassionante (e allora infatti si lavora
meno e peggio), la sua simbolizzazione grafica e applicarsi solo a
questa, è lo sforzo forse piú grande che sia
richiesto da un mestiere. Tuttavia esso viene fatto e non ammazza
spiritualmente l'uomo. Quando il processo di adattamento è
avvenuto, si verifica in realtà che il cervello
dell'operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di
completa libertà. Si è completamente meccanizzato
solo il gesto fisico; la memoria del mestiere, ridotto a gesti
semplici ripetuti con ritmo intenso, si è
«annidata» nei fasci muscolari e nervosi che ha
lasciato il cervello libero e sgombro per altre occupazioni. Come
si cammina senza bisogno di riflettere a tutti i movimenti
necessari per muovere sincronicamente tutte le parti del corpo, in
quel determinato modo che è necessario per camminare,
cosí è avvenuto e continuerà ad avvenire
nell'industria per i gesti fondamentali del mestiere; si cammina
automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto ciò
che si vuole. Gli industriali americani hanno capito benissimo
questa dialettica insita nei nuovi metodi industriali. Essi hanno
capito che «gorilla ammaestrato» è una frase,
che l'operaio rimane «purtroppo» uomo e persino che
egli, durante il lavoro, pensa di piú o per lo meno ha
molto maggiori possibilità di pensare, almeno quando ha
superato la crisi di adattamento e non è stato eliminato: e
non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate dal
lavoro, e che comprende che lo si vuol ridurre a un gorilla
ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco
conformisti. Che una tale preoccupazione esista negli industriali
appare da tutta una serie di cautele e di iniziative
«educative» che si possono rilevare dai libri del Ford
e dall'opera del Philip.
Gli alti salari. È ovvio pensare che i cosí detti
alti salari sono una forma transitoria di retribuzione.
L'adattamento ai nuovi metodi di produzione e di lavoro non
può avvenire solo attraverso la coazione sociale: è
questo un «pregiudizio» molto diffuso in Europa e
specialmente nel Giappone, dove non può tardare ad aver
conseguenze gravi per la salute fisica e psichica dei lavoratori,
«pregiudizio» che d'altronde ha una base solo nella
endemica disoccupazione che si è verificata nel dopo
guerra. Se la situazione fosse «normale», l'apparato
di coercizione necessario per ottenere il risultato voluto
costerebbe piú degli alti salari. La coercizione
perciò deve essere sapientemente combinata con la
persuasione e il consenso e questo può essere ottenuto
nelle forme proprie della società data da una maggiore
retribuzione che permetta un determinato tenore di vita capace di
mantenere e reintegrare le forze logorate dal nuovo tipo di
fatica. Ma non appena i nuovi metodi di lavoro e di produzione si
saranno generalizzati e diffusi, appena il tipo nuovo di operaio
sarà creato universalmente e l'apparecchio di produzione
materiale sarà ancora perfezionato, il turnover eccessivo
verrà automaticamente ad essere limitato da una estesa
disoccupazione e gli alti salari spariranno. In realtà
l'industria americana ad alti salari sfrutta ancora un monopolio
dato dall'avere l'iniziativa dei nuovi metodi; ai profitti di
monopolio corrispondono salari di monopolio. Ma il monopolio
sarà necessariamente prima limitato e poi distrutto dalla
diffusione dei nuovi metodi sia nell'interno degli S. U. sia
all'estero (cfr. il fenomeno giapponese dei bassi prezzi delle
merci) e coi vasti profitti spariranno gli alti salari. D'altronde
è noto che gli alti salari sono necessariamente legati a
una aristocrazia operaia e non sono dati a tutti i lavoratori
americani.
Tutta l'ideologia fordiana degli alti salari è un fenomeno
derivato da una necessità obbiettiva dell'industria moderna
giunta a un determinato grado di sviluppo e non un fenomeno
primario (ciò che però non esonera dallo studio
dell'importanza e delle ripercussioni che l'ideologia può
avere per conto suo). Intanto cosa significa «alto
salario»? Il salario pagato da Ford è alto solo in
confronto alla media dei salari americani, o è alto come
prezzo della forza di lavoro che i dipendenti di Ford consumano
nella produzione e coi metodi di lavoro del Ford? Non pare che una
tale ricerca sia stata fatta sistematicamente, ma pure essa sola
potrebbe dare una risposta conclusiva. La ricerca è
difficile, ma le cause stesse di tale difficoltà sono una
risposta indiretta. La risposta è difficile perché
le maestranze Ford sono molto instabili e non è
perciò possibile stabilire una media della mortalità
«razionale» tra gli operai di Ford da porre a
confronto con la media delle altre industrie. Ma perché
questa instabilità? Come mai un operaio può
preferire un salario «piú basso» a quello
pagato dal Ford? Non significa questo che i cosí detti
«alti salari» sono meno convenienti a ricostituire la
forza di lavoro consumata, di quanto non siano i salari piú
bassi delle altre aziende? La instabilità delle maestranze
dimostra che le condizioni normali di concorrenza tra gli operai
(differenza di salario) non operano per ciò che riguarda
l'industria Ford che entro certi limiti: non opera il livello
diverso tra le medie del salario e non opera la pressione
dell'armata di riserva dei disoccupati. Ciò significa che
nell'industria Ford è da ricercare un qualche elemento
nuovo, che sarà la origine reale sia degli «alti
salari» che degli altri fenomeni accennati
(instabilità ecc.). Questo elemento non può essere
ricercato che in ciò: l'industria Ford richiede una
discriminazione, una qualifica, nei suoi operai che le altre
industrie ancora non richiedono, un tipo di qualifica di nuovo
genere, una forma di consumo di forza di lavoro e una
quantità di forza consumata nello stesso tempo medio che
sono piú gravose e piú estenuanti che altrove e che
il salario non riesce a compensare in tutti, a ricostituire nelle
condizioni date dalla società cosí com'è.
Poste queste ragioni, si presenta il problema: se il tipo di
industria e di organizzazione del lavoro e della produzione
proprio del Ford sia «razionale», possa e debba
cioè generalizzarsi o se invece si tratti di un fenomeno
morboso da combattere con la forza sindacale e con la
legislazione. Se cioè sia possibile, con la pressione
materiale e morale della società e dello Stato, condurre
gli operai come massa a subire tutto il processo di trasformazione
psicofisica per ottenere che il tipo medio dell'operaio Ford
diventi il tipo medio dell'operaio moderno o se ciò sia
impossibile perché porterebbe alla degenerazione fisica e
al deterioramento della razza, distruggendo ogni forza di lavoro.
Pare di poter rispondere che il metodo Ford è
«razionale», cioè deve generalizzarsi, ma che
perciò sia necessario un processo lungo, in cui avvenga un
mutamento delle condizioni sociali e un mutamento dei costumi e
delle abitudini individuali, ciò che non può
avvenire con la sola «coercizione», ma solo con un
contemperamento della coazione (autodisciplina) e della
persuasione, sotto forma anche di alti salari, cioè di
possibilità di miglior tenore di vita, o forse, piú
esattamente, di possibilità di realizzare il tenore di vita
adeguato ai nuovi modi di produzione e di lavoro, che domandano un
particolare dispendio di energie muscolari e nervose.
In misura limitata, ma tuttavia rilevante, fenomeni simili a
quelli determinati in larga scala dal Fordismo, si verificavano e
si verificano in certi rami di industria o in certi stabilimenti
non «fordizzati». Costituire una organica e bene
articolata maestranza di fabbrica o una squadra di lavorazione
specializzata non è mai stato cosa semplice: ora, una volta
la maestranza o la squadra costituite, i suoi componenti, o una
parte di essi, finiscono talvolta col beneficiare di un salario di
monopolio, non solo, ma non vengono licenziati in caso di arresto
temporaneo della produzione; sarebbe antieconomico lasciare
disperdere gli elementi di un tutto organico costituito
faticosamente perché sarebbe quasi impossibile riaccozzarli
insieme, mentre la sua ricostruzione con elementi nuovi, di
fortuna, costerebbe tentativi e spese non indifferenti. È
questo un limite alla legge della concorrenza determinata
dall'armata di riserva e dalla disoccupazione e questo limite
è sempre stato all'origine delle formazioni di aristocrazie
privilegiate. Poiché non ha mai funzionato e non funziona
una legge di equiparazione perfetta dei sistemi e dei metodi di
produzione e di lavoro per tutte le aziende di un determinato ramo
d'industria, consegue che ogni azienda, in una certa misura
piú o meno ampia, è «unica», e si forma
una maestranza con una qualifica propria alla particolare azienda:
piccoli «segreti» di fabbricazione e di lavoro,
«trucchi» che sembrano trascurabili in sé, ma
che, ripetuti infinità di volte, possono avere una portata
economica ingente. Un caso particolare si può studiare
nell'organizzazione del lavoro dei porti, specialmente in quelli
ove esiste squilibrio tra imbarco e sbarco di merci e dove si
verificano ingorghi stagionali di lavoro e morte stagioni.
È necessario avere una maestranza che sia sempre
disponibile (che non si allontani dal posto di lavoro) per il
minimo di lavoro stagionale o d'altro genere, e quindi la
formazione dei ruoli chiusi, con gli alti salari e altri
privilegi, in contrapposizione alla massa degli
«avventizi» ecc. Ciò si verifica anche
nell'agricoltura, nel rapporto tra coloni fissi e braccianti e in
molte industrie dove esistono le «morte stagioni», per
ragioni inerenti all'industria stessa, come l'abbigliamento, o per
la difettosa organizzazione del commercio all'ingrosso che fa i
suoi acquisti secondo cicli propri, non ingranati col ciclo di
produzione, ecc.
Azioni, obbligazioni, titoli di Stato. Quale radicale mutamento
porterà nell'orientamento del piccolo e medio risparmio
l'attuale depressione economica se essa, come pare probabile, si
prolunga ancora per qualche tempo? Si può osservare che la
caduta del mercato azionario ha determinato uno smisurato
spostamento di ricchezza e un fenomeno di espropriazione
«simultanea» del risparmio di vastissime masse della
popolazione, un po' da per tutto, ma specialmente in America:
cosí i processi morbosi che si erano verificati a causa
dell'inflazione, nel primo dopo guerra, si sono rinnovati in tutta
una serie di paesi, e hanno operato nei paesi che nel periodo
precedente non avevano conosciuto l'inflazione.
Il sistema che il governo italiano ha intensificato in questi anni
(continuando una tradizione già esistente, sia pure su
scala piú piccola) pare il piú razionale ed
organico, almeno per un gruppo di paesi, ma quali conseguenze
potrà avere? Differenza tra azioni comuni e azioni
privilegiate, tra queste e le obbligazioni, e tra azioni e
obbligazioni del mercato libero e obbligazioni o titoli di Stato.
La massa dei risparmiatori cerca di disfarsi completamente delle
azioni di ogni genere, svalutate in modo inaudito, preferisce le
obbligazioni alle azioni, ma preferisce i titoli di Stato a ogni
altra forma di investimento. Si può dire che la massa dei
risparmiatori vuole rompere ogni legame diretto con l'insieme del
sistema capitalistico privato, ma non rifiuta la sua fiducia allo
Stato: vuole partecipare all'attività economica, ma
attraverso lo Stato, che garantisca un interesse modico ma sicuro.
Lo Stato viene cosí ad essere investito di una funzione di
primordine nel sistema capitalistico, come azienda (holding
statale) che concentra il risparmio da porre a disposizione
dell'industria e dell'attività privata, come investitore a
medio e lungo termine (creazione italiana dei vari Istituti, di
Credito mobiliare, di ricostruzione industriale ecc.;
trasformazione della Banca Commerciale, consolidamento delle Casse
di risparmio, creazione di nuove forme nel risparmio postale
ecc.). Ma, una volta assunta questa funzione, per necessità
economiche imprescindibili, può lo Stato disinteressarsi
dell'organizzazione della produzione e dello scambio? lasciarla,
come prima, all'iniziativa della concorrenza e all'iniziativa
privata? Se ciò avvenisse, la sfiducia che oggi colpisce
l'industria e il commercio privato, travolgerebbe anche lo Stato;
il formarsi di una situazione che costringesse lo Stato a
svalutare i suoi titoli (con l'inflazione o in altra forma) come
si sono svalutate le azioni private, diventerebbe catastrofica per
l'insieme dell'organizzazione economico-sociale. Lo Stato è
cosí condotto necessariamente a intervenire per controllare
se gli investimenti avvenuti per il suo tramite sono bene
amministrati e cosí si comprende un aspetto almeno delle
discussioni teoriche sul regime corporativo. Ma il puro controllo
non è sufficiente. Non si tratta infatti solo di conservare
l'apparato produttivo cosí come è in un momento
dato; si tratta di riorganizzarlo per svilupparlo parallelamente
all'aumento della popolazione e dei bisogni collettivi. Appunto in
questi sviluppi necessari è il maggiore rischio
dell'iniziativa privata e dovrebbe essere maggiore l'intervento
statale, che non è anch'esso scevro di pericoli,
tutt'altro. (Si accenna a questi elementi, come a quelli
piú organici ed essenziali, ma anche altri elementi
conducono all'intervento statale, o lo giustificano teoricamente:
l'aggravarsi dei regimi doganali e delle tendenze autarchiche, i
premi, il dumping, i salvataggi delle grandi imprese in via di
fallimento o pericolanti; cioè, come è stato detto,
la «nazionalizzazione delle perdite e dei deficit
industriali» ecc.).
Se lo Stato si proponesse di imporre una direzione economica per
cui la produzione del risparmio da «funzione» di una
classe parassitaria fosse per divenire funzione dello stesso
organismo produttivo, questi sviluppi ipotetici sarebbero
progressivi, potrebbero rientrare in un vasto disegno di
razionalizzazione integrale: bisognerebbe perciò promuovere
una riforma agraria (con l'abolizione della rendita terriera come
rendita di una classe non lavoratrice e incorporazione di essa
nell'organismo produttivo, come risparmio collettivo da dedicare
alla ricostruzione e a ulteriori progressi) e una riforma
industriale, per ricondurre tutti i redditi a necessità
funzionali tecnico-industriali e non piú a conseguenze
giuridiche del puro diritto di proprietà.
Da questo complesso di esigenze, non sempre confessate, nasce la
giustificazione storica delle cosí dette tendenze
corporative, che si manifestano prevalentemente come esaltazione
dello Stato in generale, concepito come qualcosa di assoluto e
come diffidenza e avversione alle forme tradizionali del
capitalismo. Ne consegue che teoricamente lo Stato pare avere la
sua base politico-sociale nella «piccola gente» e
negli intellettuali, ma in realtà la sua struttura rimane
plutocratica e riesce impossibile rompere i legami col grande
capitale finanziario: del resto è lo Stato stesso che
diventa il piú grande organismo plutocratico, l'holding
delle grandi masse di risparmio dei piccoli capitalisti. (Lo Stato
gesuitico del Paraguay potrebbe essere utilmente richiamato come
modello di molte tendenze contemporanee).
Che possa esistere uno Stato che si basi politicamente sulla
plutocrazia e sulla piccola gente nello stesso tempo non è
poi del tutto contradditorio, come dimostra un paese esemplare, la
Francia, dove appunto non si comprenderebbe il dominio del
capitale finanziario senza la base politica di una democrazia di
redditieri piccolo-borghesi e contadini. Tuttavia la Francia, per
ragioni complesse, ha ancora una composizione sociale abbastanza
sana, perché vi esiste una larga base di piccola e media
proprietà coltivatrice. In altri paesi, invece, i
risparmiatori sono staccati dal mondo della produzione e del
lavoro; il risparmio vi è «socialmente» troppo
caro, perché ottenuto con un livello di vita troppo basso
dei lavoratori industriali e specialmente agricoli. Se la nuova
struttura del credito consolidasse questa situazione, in
realtà si avrebbe un peggioramento: se il risparmio
parassitario, grazie alla garanzia statale, non dovesse piú
neanche correre le alee generali del mercato normale, la
proprietà terriera parassitaria si rafforzerebbe da una
parte e dall'altra le obbligazioni industriali, a dividendo
legale, certo graverebbero sul lavoro in modo ancora piú
schiacciante.
Civiltà americana ed europea. In una intervista con Corrado
Alvaro («L'Italia Letteraria», 14 aprile 1929) Luigi
Pirandello afferma: «L'americanismo ci sommerge. Credo che
un nuovo faro di civiltà si sia acceso
laggiú». «Il denaro che corre il mondo è
americano (?!), e dietro al denaro (!) corre il modo di vita e la
cultura (ciò è vero solo per la schiuma della
società, e di tale schiuma cosmopolita pare che il
Pirandello, e con lui molti altri, creda sia costituito tutto il
"mondo"). Ha una cultura l'America? (occorrerebbe dire: ha una
cultura unitaria e centralizzata, cioè l'America è
una nazione del tipo francese, tedesco e inglese?) Ha libri e
costumi. I costumi sono la sua nuova letteratura, quella che
penetra attraverso le porte piú munite e difese. A Berlino
lei non sente il distacco tra vecchia e nuova Europa perché
la struttura stessa della città non offre resistenze
(Pirandello oggi non potrebbe dire lo stesso, e quindi è da
comprendere che egli si riferiva alla Berlino dei caffè
notturni). A Parigi, dove esiste una struttura storica e
artistica, dove le testimonianze di una civiltà autoctona
sono presenti, l'americanismo stride come il belletto sulla
vecchia faccia di una mondana».
Ma il problema non è se in America esista una nuova
civiltà, una nuova cultura, sia pure ancora allo stato di
«faro» e se esse stiano invadendo o abbiano già
invaso l'Europa: se il problema dovesse porsi cosí, la
risposta sarebbe facile: no, non esiste, ecc., e anzi in America
non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea. Il problema
è questo: se l'America, col peso implacabile della sua
produzione economica (e cioè indirettamente)
costringerà o sta costringendo l'Europa a un rivolgimento
della sua assise economico-sociale troppo antiquata, che sarebbe
avvenuto lo stesso, ma con ritmo lento e che immediatamente si
presenta invece come un contraccolpo della
«prepotenza» americana, se cioè si sta
verificando una trasformazione delle basi materiali della
civiltà europea, ciò che a lungo andare (e non molto
lungo, perché nel periodo attuale tutto è piú
rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento
della forma di civiltà esistente e alla forzata nascita di
una nuova civiltà.
Gli elementi di «nuova cultura» e di «nuovo modo
di vita» che oggi si diffondono sotto l'etichetta americana,
sono appena i primi tentativi a tastoni, dovuti non già a
un «ordine» che nasce da una nuova assise, che ancora
non si è formata, ma all'iniziativa superficiale e
scimmiesca degli elementi che incominciano a sentirsi socialmente
spostati dall'operare (ancora distruttivo e dissolutivo) della
nuova assise in formazione. Ciò che oggi viene chiamato
«americanismo» è in gran parte la critica
preventiva dei vecchi strati che dal possibile nuovo ordine
saranno appunto schiacciati e che sono già preda di
un'ondata di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione,
è un tentativo di reazione incosciente di chi è
impotente a ricostruire e fa leva sugli aspetti negativi del
rivolgimento. Non è dai gruppi sociali
«condannati» dal nuovo ordine che si può
attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per
imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di
questo nuovo ordine: essi «devono» trovare il sistema
di vita «originale» e non di marca americana, per far
diventare «libertà» ciò che oggi
è «necessità».
Questo criterio che tanto le reazioni intellettuali e morali allo
stabilirsi di un nuovo metodo produttivo quanto le esaltazioni
superficiali dell'americanismo sono dovute ai detriti dei vecchi
strati in isfacelo e non ai gruppi il cui destino è legato
a un ulteriore sviluppo del nuovo metodo, è estremamente
importante e spiega come alcuni elementi responsabili della
politica moderna, che basano la loro fortuna nell'organizzazione
dell'insieme dello strato medio, non vogliano prendere posizione
ma si mantengano neutrali «teoricamente», risolvendo i
problemi pratici col tradizionale metodo dell'empirismo e
dell'opportunismo (cfr. le diverse interpretazioni date del
ruralismo, da U. Spirito, che vuole «urbanizzare» la
campagna, agli altri che suonano il flauto di Pan).
Che non si tratti, nel caso dell'americanismo, inteso non solo
come vita da caffè ma anche come ideologia del Rotary Club,
di un nuovo tipo di civiltà si vede da ciò che nulla
è mutato nel carattere e nei rapporti dei gruppi
fondamentali: si tratta di un prolungamento organico e di una
intensificazione della civiltà europea, che ha solo assunto
una epidermide nuova nel clima americano. L'osservazione del
Pirandello sull'opposizione che l'americanismo trova a Parigi (ma
nel Creusot?) e sull'accoglienza immediata che avrebbe trovato a
Berlino, prova, in ogni caso, la non differenza di natura ma solo
di grado con l'«europeismo». A Berlino le classi medie
erano già state rovinate dalla guerra e dall'inflazione e
l'industria berlinese nel suo complesso ha caratteri ben diversi
da quella parigina: le classi medie francesi non subirono le crisi
occasionali come l'inflazione tedesca né la crisi organica
del '29 sgg., con lo stesso ritmo accelerato con cui la
subí la Germania. Perciò è vero che a Parigi
l'americanismo appaia come un belletto, una superficiale moda
straniera.