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Appendice Cronache teatrali
Indice
1916
«La falena» di Bataille al Carignano
Dina Galli all'Alfieri
«Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti all'Alfieri
«Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano
Un commediografo dialettale
«L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini
Emma Gramatica al Carignano
La compagnia Ruggeri al Carignano
«Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri
«Il piccolo santo» di Bracco al Carignano
«Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri
L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano
«Il signor di Courpières» di Hermant al Carignano
La serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano
Serata in onore di R. Ruggeri
La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri
Ermete Novelli all'Alfieri
«Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero
all'Alfieri
Teatro inglese
«L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano
«La prigioniera» di Poggio al Carignano
Olga Vittoria Gentilli
«L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri
Il Grand-Guignol al Carignano
«Quacquarà» di Capuana all'Alfieri
«La malquerida» di Benavente al Carignano
Angelo Musco all'Alfieri
Alfredo Sainati al Carignano
«Il titano» di Niccodemi al Carignano
Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al Carignano
In un saggio recentissimo su Shakespeare
Vedere proiettata sulla scena
Sfogo necessario
Tina Bondi al Carignano
Melanconie...
Teatro e cinematografo
«Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans
al Carignano
Sichel
Giulio Tempesti al Chiarella
«Le due sponde» di Poggio all'Alfieri
«Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano
«Robespierre» di Sardou al Carignano
«La nemica» di Niccodemi al Carignano
«La mare» allo Scribe
Armando Falconi
«... e chi vive si dà pace» di Novelli al
Carignano
«Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe
Tina Di Lorenzo
«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri
1917
«Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri
«L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona
Traversi al Carignano
Luigi Carini
«Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano
L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs
d'mia fômna» di Leoni)
«Piccolo harem» di Costa al Carignano
«La marea» di Hastings al Carignano
«L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri
«Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano
In principio era il sesso...
«La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri
«All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano
«L'amazzone» di Bataille al Carignano
Il tramonto di Guignol
La serata di Emma Gramatica al Carignano
«U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri
La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al
Carignano)
«Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri
«Liolà» di Pirandello all'Alfieri
«Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano
«Scuru» di Martoglio all'Alfieri
«La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano
L'industria teatrale
L'industria teatrale
Ancora i fratelli Chiarella
L'industria teatrale
Continuazione della vita
Contrasti
«Cosí è (se vi pare)» di Pirandello
Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al
Carignano)
«Mimí» di Fraccaroli al Carignano
«Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano
Ruggero Ruggeri
«L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri
«Il piacere dell'onestà» di Pirandello al
Carignano
1918
«Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano
Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al
Carignano)
«Fum e Fiame» di Leoni al Rossini
«La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al
Carignano
«A 'berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello
all'Alfieri
«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella
«Il nuovo falco» di Teglio al Carignano
«Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri
«Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano
«Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri
«Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano
Angelo Musco
Giosuè Borsi
«Occhi consacrati» di Bracco al Carignano
«Marionette che passione!...» di Rosso di San Secondo al
Carignano
«Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano
«Racanaca» di Villauri all'Alfieri
Virgilio Talli
«S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri
«La dame de chambre» di Gandera al Carignano
«Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano
«Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano
«L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli
al Carignano
«Il marito ideale» di Wilde al Carignano
«Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano
«Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri
«Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano
«Le galere» di Tumiati all'Alfieri
«La signora innamorata» di Berrini al Carignano
«La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano
1919
«Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle
all'Alfieri
«Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano
«Una donna qualunque» di Wilde al Carignano
«Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano
«L'arch an cel» di Leoni al Rossini
«Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri
«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano
La serata della Vergani al Carignano
«U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri
«L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano
«Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri
«La ca 'veuida» di Nicola al Rossini
«L'innesto» di Pirandello al Carignano
«Fedeltà» di Calzini al Carignano
«Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri
«La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano
«L'intesa» di Rocca e «La trappola
sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri
«La volata» di Niccodemi al Chiarella
Gli spettacoli al Teatro del Popolo
«I giocatori» di Poggio al Carignano
«La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella
«L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano
«Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella
«Nino er boja» di Monaldi allo Scribe
«La nostra immagine» di Bataille al Carignano
«Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella
«Il silenzio» di Pescetti al Carignano
«Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella
Emma Gramatica
«Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo
«Addio sogno» di Motta al Carignano
«Il soldato millantatore» («Miles
gloriosus») di Plauto al Carignano
«Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri
«La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella
«Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella
1920
«La principessa» di Géraldy al Carignano
«La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano
«La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano
«Io prima di te» di Veneziani al Carignano
«Chimere» di Chiarelli al Carignano
«Pane altrui» di Turghenieff al Balbo
«Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri
«La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe
«Il beffardo» di Berrini al Regio
«Come prima, meglio di prima» di Pirandello al Carignano
«L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al
Carignano
«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella
«Gli interessi creati» di Benavente al Balbo
«Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo
«Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano
«Il bell'Apollo» di Praga al Carignano
«Anfissa» di Andreieff al Carignano
«Glauco» di Morselli al Carignano
Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di
Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli,
«Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez)
Cronache teatrali dall'«Avanti!»,
1916-1920
«La falena» di Bataille al Carignano. Freddissima
accoglienza ha avuto la nuova commedia del Bataille, La falena,
portata dinanzi al pubblico torinese dalla compagnia
Gramatica-Carini-Piperno. E il pubblico non ha avuto torto. Tre atti
lunghi, pesanti, senza azione, costruiti completamente sul dialogo,
che a forza di voler essere sottile, raffinato, diventa monotono,
stucchevole, senza vivacità. La psicologia d'eccezione, se
non è incarnata in una creatura viva, che diventi il centro
motore di una azione adeguata, può riuscire a far costruire
un romanzo passabile, ma nel teatro è fatalmente destinata a
partorire opere fiacche, senza nerbo, come questa del Bataille.
Vedendo svolgersi sulla scena i casi melodrammatici di una donna,
che sapendo la sua vita crudelmente limitata da una malattia vuol
godere tutto il piacere e vivere tutte le illusioni che un amore
capriccioso le consente [censura].
Anche l'esecuzione fu da parte degli attori poco convincente e un
tantino monotona, ciò che del resto non meraviglia.
(13 gennaio 1916).
Dina Galli all'Alfieri. Magnifica la serata d'onore di Dina Galli,
che ormai è diventata a Torino la piú popolare e la
piú ammirata delle attrici. Ella ha saputo, pur nel tritume
della produzione comica francese, crearsi una personalità,
rinnovandosi in ogni personaggio, riuscendo a trovare per ogni
figurino una nota nuova, che le desse almeno l'apparenza della vita,
rendendo signorile e ingenua anche la volgarità che in altri
sarebbe stata abietta. E il pubblico l'ha colmata di fiori e di
applausi.
(20 gennaio 1916).
«Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti
all'Alfieri. Dobbiamo riconfermare la prima impressione. Ce ne
dispiace per l'Ambrosini, specialmente, del quale ricordiamo con
sempre vivo godimento i bozzetti storici di grandissimo valore, ma
la nuova commedia Paolo e Virginia non ci convince e non ci
può piacere. E non per la ingenuità tecnica, per le
manchevolezze sceniche, che si possono perdonare in un primo
tentativo e che possono anzi essere prova di ingegno drammatico
potente che si dibatte sulle prime fra le pastoie delle
necessità della pratica, ma perché la commedia
è una offesa al buon gusto e al senso comune. Tutto è
artificioso, voluto, riflesso. Nessun abbandono dell'autore verso le
creature della sua fantasia che le renda indipendenti, libere, vive
di attività propria, ma invece la sensazione implacabile
della preoccupazione del successo, dello sforzo cerebrale, e senza
possibilità di uno sbocco nell'azione. Il primo atto è
appiccicato colla colla al resto: serve per lo spunto, per
giustificare il titolo, per poter riallacciare i personaggi col
celebre romanzo del languido e rugiadoso Saint-Pierre, e per poter
adombrare, senza riuscire a completarlo, il carattere di Virginia,
condannata a vivere di una vita doppia, libresca per il ricordo dei
due sfortunati amanti del buon tempo antico, e piena di impulsi e di
curiosità di vivere della monelluccia moderna. Ma del resto
tutti i personaggi ragionano, ricordano e mai operano. La
comicità è di parole, di freddure, e non sempre di
buon gusto, anzi per lo piú tolte dal vecchio repertorio
caricaturale, cosicché spesso gli attori ne rimangono
oppressi; come il povero Conforti (Paolo), al quale è fatta
ripetere, per cercare di renderlo piú scialbo e piú
grottesco, la vecchia boutade del viaggiatore che non può
cambiare il posto incomodo con un altro, perché nello
scompartimento egli è solo.
E altre e altre, stillicidio noioso e schiacciante con parentesi di
grossolanità come quella dell'albergatrice da due anni vedova
che non ha potuto nell'intervallo coniugale procurarsi la piú
piccola soddisfazione. Gli interpreti fecero del loro meglio per
dare tutto ciò che era possibile: ammirevoli, come al solito,
la Galli e il Guasti.
(23 gennaio 1916).
«Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano. Pomo
della discordia tra il conte e la contessa Alberti pare sia il fatto
che il loro unigenito è femmina e non maschio. Quindi
separazione legale, carta bollata, ecc., e sentenza del tribunale
che fa sí che Luciana, la prole non desiderata dal padre,
debba trascorrere la sua vita a pezzi e bocconi, quattro mesi con
l'uno e quattro mesi con l'altro dei suoi cosí suscettibili
genitori. E la fanciulla, educata dal padre, a quanto dice l'autore,
senza pregiudizi, o almeno, senza troppi pregiudizi femminili,
prepara un complotto per rifare la famiglia cosí poco
tragicamente separata. Salva la mamma da un cattivo passo, la
conserva degna del papà, e poi riconosciutasi innamorata di
un amico d'infanzia, scappa dal papà, gli impone un dilemma:
o far la pace o perdere la figliuola che va a marito, e riesce dopo
un seguito di avvenimenti superlativamente banali, a non essere
piú pomo della discordia, ma a maritarsi e a riconciliare i
suoi fieri genitori. Tutta la commedia è imperniata sulla
figura della fanciulla, che la Gramatica seppe rendere con
vivacità e con spontaneità veramente degne della sua
fama di grande artista, e su alcune parti del dialogo, d'un humour
per lo piú convenzionale, ma non senza qualche sprazzo di
sano spirito piccolo borghese. Questo ormai forma a un tempo la
ragione dei mezzi successi delle commedie del Testoni e della
debolezza del suo teatro, fatto tutto di tali piccole cose che non
riescono mai a organizzarsi in una commedia, in tutta una commedia.
Insieme alla Gramatica, che seppe, senza contrasto troppo stridente,
rendere e forse migliorare ciò che il Testoni aveva fatto
della figura di Luciana, fu notevole il Carini. Non altrettanto bene
gli altri.
(27 gennaio 1916).
Un commediografo dialettale. Certa stampa cittadina ha menato grande
scalpore sulla commedia dialettale di Mario Leoni: L'erbô d'la
libertà, che sarà data stasera al Rossini. Pare si
tratti di una rievocazione di quel periodo della storia piemontese
in cui maggiormente si risentivano i contraccolpi della Rivoluzione
francese. Il nome dell'autore, temperamento di letteratucolo
provinciale, autore di plumbei romanzi di appendice e di
superficiali drammacci da stadera, nonché assessore della
Giunta clerico-moderata, non dà certo troppo affidamento per
la rievocazione di un periodo che ebbe momenti di vera
epicità e di dolorosa delusione.
(28 gennaio 1916).
«L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini.
Grande avvenimento cittadino l'altra sera al Rossini. C'erano il
sindaco e l'ing. Sincero, l'antipapa; gli assessori, i consiglieri
comunali piú intellettuali da Fino a Grassi, e il vecchio
teatro accoglieva tutti con la tranquilla bonomia di un vecchio, del
quale il ritorno per una volta dei bei giorni passati non turba lo
scetticismo sereno, frutto di tante alterne vicende di gloria e di
decadenza. Serata familiare anche! Ché Torino è in
fondo ancora una grande città di provincia, dove tutti ci si
conosce, e dove si corre a sentire e applaudire l'opera del collega
o del conoscente per dovere d'amicizia, ben disposti a essergli
grati di una serata trascorsa cosí senza grande divertimento
e senza molta noia, lasciando riposare cervello e nervi. All'amico
molti applausi e quattro chiamate ha concesso la platea del Rossini.
E non vorremmo noi contrastare. Ché anche per la critica,
occorre un punto d'appoggio. Ma L'erbô d'la libertà non
è né bello né brutto: è nel pensiero di
un dolce accomodantismo. C'è tutto o niente: l'azione, se non
fosse posta nel 1798, avrebbe potuto svolgersi nel 1848, a Torino o
a Milano o a Berlino. C'è chi crede e sacrifica per gli
ideali rivoluzionari; c'è la fucilazione del mitissimo e
ingenuo agitatore Tenivell, ma c'è la caricatura leggera
delle nuove idee e dei nuovi costumi; c'è il cittadino
calzolaio Barberis che è vestito di rosso e cambia nome alla
moglie ed al figlio e sacrifica ai piedi dell'albero un pacco di
biglietti del vecchio governo... fuori corso, con un po' di
sentimentalismo e un paio di amoretti e infine la trovata:
«Meglio bastardo che figlio di tedesco!».
Non è l'opera che contribuisca a rialzare il teatro
dialettale piemontese; manca in essa calore e vita; non ha mai
suscitato il brivido dell'interesse e del consenso che percorre la
folla e la attanaglia e fa scattare lo spettatore nell'apostrofe che
eccita il sorriso di noi, troppo blasés, ma consacra il
successo dell'autore popolare.
L'erbô avrà delle repliche e Mario Leoni, alla fine
della carriera di fortunato negoziante di stoffe, allieta la sua
vecchiaia con lo stringere le catene matrimoniali alle coppie
amanti, col firmare molti atti di stato civile e con lo scrivere
commedie. E continui pure per molti anni.
(30 gennaio 1916).
Emma Gramatica al Carignano. Dopo La moglie di Claudio, che la
Gramatica interpretò rendendo un po' troppo manierata la
donna fatale di una moda ormai tramontata (ma non è manierata
già in sé ogni donna fatale?), abbiamo sentito un
breve atto di J. M. Barrie, che potrebbe definirsi una spiritosa
conferenza dialogata ed elaborata scenicamente sull'Età delle
attrici. In esso, piú che nel dramma a forti tinte, la
Gramatica poté meglio mostrare tutte le doti che la
distinguono di spontaneità e di una certa sottile arguzia.
(31 gennaio 1916).
La compagnia Ruggeri al Carignano. Il nuovo corso di recite iniziato
dalla compagnia di Ruggero Ruggeri si è già dalle
prime sere affermato vittoriosamente. A dir il vero, non
bisognerebbe parlare di compagnia, ma del solo Ruggeri e di qualche
altro meno peggio, poiché ormai è invalso, nella
organizzazione delle nostre migliori compagnie, l'uso di circondare
gli elementi ottimi con altri molto scadenti, se non addirittura
pessimi, che servono solo per il chiaroscuro, per dare maggiore
risalto ai primi, con quanto scapito dell'effetto generale di una
recita, è facile a chiunque capire.
L'anima della compagnia è Ruggeri, che nelle tre commedie
finora date: Il marchese di Priola, Il bosco sacro, L'avventuriero,
ha saputo mostrare quanto sia grande la duttilità del suo
ingegno artistico, la potenzialità di rinnovamento, la
facilità (apparente, almeno, perché si sa dovuta a
lunghi studi e coscienziosa preparazione) di investirsi di parti
sempre nuove, di personaggi antipodici, che ne riescono migliorati,
umanizzati dalla calda simpatia dell'interprete.
(5 febbraio 1916).
«Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri. Continua a far
affollare l'elegante teatro di Piazza Solferino Scampolo di Dario
Niccodemi, che ormai è arrivato alla nona replica. La
figurina selvaggiamente ingenua della protagonista, pur nel suo
convenzionalismo sentimentale e nella pretesa di voler rappresentare
in un tipo universale la vita della strada, fatta di
semplicità e di sincerità in contrapposizione alla
vita artefatta della restante umanità, è riuscita a
conquistare la simpatia del pubblico. Molto contribuirono al
successo gli attori, specialmente A. Guasti e D. Galli, che hanno
saputo dare, di personaggi questa volta italiani, una
interpretazione sicura ed efficace, abbandonando per un momento i
soliti e abusati tipi delle Gobette, e dei pittori in fregola di
piacevoli avventure. Si annunzia intanto che la compagnia sta
lavorando alle prove di un'altra novità italiana: La campana,
tre atti di G. Forzano, noto finora solo come manipolatore di
intrugli melodrammatici e di riviste-pasticcio.
(6 febbraio 1916).
«Il piccolo santo» di Bracco al Carignano. Il piccolo
santo è veramente piú creatura di Ruggeri che di
Bracco; seguendo l'artista in tutto il sottile lavorio col quale
egli riesce a plasmare atto per atto, parola per parola il carattere
di don Fiorenzo, anche nelle sue piú evanescenti sfumature
(che spesso sono le piú significative), pare impossibile
immaginare un altro interprete, e una vita dell'opera all'infuori di
questa cornice e di questi scenari. La suggestione è
cosí avvincente che non si bada a tutto il resto, né
all'incertezza che può essere stata cagionata dalla scomparsa
di un attore misurato ed efficace come il Bonafini, né
all'insufficienza di qualche altro.
Nelle repliche che certo si succederanno con la stessa fortuna,
molti di questi inconvenienti spariranno, e l'insieme dello
spettacolo sarà ancor piú perfetto.
(13 febbraio 1916).
«Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri. La
compagnia della Galli ha ridato la commedia di Nino Berrini Il poeta
e la signorina, e pare voglia ancora replicarla, quantunque
l'accoglienza non sia stata molto calorosa. Se Ferdinando Martini si
occupasse ancora di queste bazzecole e si ponesse di nuovo la
questione del perché non esiste un teatro nazionale italiano,
gli si potrebbe rispondere, prendendo le mosse dall'ultima
produzione, che il difetto d'origine è l'insincerità
degli autori, specialmente giovani. La mancanza di un genio
può spiegare il non sorgere di capolavori. Ma il teatro non
si nutre solo di capolavori, e questi d'altronde non paiono sfungare
con molta frequenza neanche fuori d'Italia.
È proprio l'insincerità, la mania letteraria che
impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti
piú modesti. Per il razzo di una trovata, per il barbaglio di
una situazione piccante o di un personaggio che nessuno ha mai posto
in scena, si sacrifica tutto quello che può veramente dare
ossa e carne a una commedia.
E cosí sia, se cosí meglio piace.
(13 febbraio 1916).
L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano. La compagnia di R.
Ruggeri ha ripreso l'Amleto, e, se è lodevole lo sforzo che
l'attore ha fatto per dare di Amleto una raffigurazione pienamente
umana, non si può però dire che Shakespeare sia stato
bene interpretato. Sicuro: perché nelle opere del tragico
inglese non c'è solo il protagonista, e la tragedia non
è solo la tragedia di questo. La caratteristica del
capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella
saturazione di poesia di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona
del dramma; niente c'è di inutile, niente da trascurare, ogni
anche piccolo accenno concorre alla catastrofe ed è
indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e
lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di
diventare un dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale.
Tutti i personaggi sono grandi nella concezione shakespeariana:
fortemente messi in rilievo, e presi nel turbine di fatalità
che ha in Amleto la vittima principale; e se non si riesce a dare di
tutto ciò che la concezione del lavoro vuole, Amleto
continuerà a essere pietra di paragone per la virtú di
plasticità dei nostri migliori attori, ma non sarà
l'Amleto di Shakespeare, e il pubblico, pur persuaso di aver sentito
un capolavoro (lo dicono tutti e da tanto tempo) uscirà da
teatro con qualche delusione e lievemente propenso a non credere del
tutto ai capolavori.
(20 febbraio 1916).
«Il signor di Courpières» di Hermant al
Carignano. Il signor di Courpières di Abel Hermant è
una commedia cadaverica, costrutta di pezzi anatomici da gabinetto
sperimentale, freddamente, come potrebbe fare un giocatore di
scacchi che si pone le difficoltà e laboriosamente se le
risolve per passare il tempo. Il protagonista è il tipo
dell'aristocratico spiantato, cinico, amorale, che nella
società borghese cui non può adattarsi, risolve il suo
problema sociale con le amanti ricche o che si vendono ad altri per
mantenerlo, senza sentire mai un brivido di passione, un palpito di
umanità se non forse verso i suoi simili dei sobborghi, gli
apaches e gli Alphonses della suburra. Ma nel letamaio fiorisce una
violetta (come sono sentimentali i cinici e gli scettici
convenzionalmente professionali!), una fanciulla della borghesia
danarosa che nell'ultimo atto, quando la catastrofe sembra
imminente, e il signor di Courpières sta per farsi suicidare
(ammazzarsi tutto da sé sarebbe troppo banale) avendo
falsificato una cambiale, lo salva perché vuol redimerlo e
rigenerarlo.
La commedia fu zittita e cadde nell'indifferenza generale.
(24 febbraio 1916).
Serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano. Ruggero Ruggeri
annunzia per venerdí la sua serata d'onore con L'amico delle
donne di A. Dumas. Il Ruggeri nella sua pur breve permanenza a
Torino, e nel limitato numero di rappresentazioni che ha potuto
dare, ha dimostrato che egli sta fuori di ogni ruolo convenzionale.
La sua potente personalità supera ogni professionismo. La
tragicità di Amleto non fissa nessun abito acquisito nel
carattere dell'attore. Il «fascino slavo» del Bosco
sacro trova in lui l'immediatezza espressiva che non può
dargli un brillante che per la continuità della sua funzione
si lascia soverchiare da abitudini fisiche e vocali che conguagliano
i caratteri comici piú disparati. Perciò il pubblico
giustamente ha reso sempre omaggio, e piú lo farà
venerdí alle doti eccezionali di Ruggero Ruggeri.
(2 marzo 1916).
La serata in onore di R. Ruggeri fece affollare in modo eccezionale
il Teatro Carignano.
La commedia di A. Dumas figlio L'amico delle donne non è
tale, di per se stessa, da incatenare un pubblico per cinque atti
non tutti leggeri. Ma il dialogo, fitto di leggeri ricami
dialettici, superficialmente piacevole e interessante per i
confronti tra la moda teatrale del passato e quella attuale, sembra
fatto apposta per mettere in rilievo tutte le qualità buone
dell'attore insigne, che riempie di sé tutti i cinque atti,
rendendo passabile e simpatico quel tipo di perpetuo seccatore che
nella vita reale sarebbe l'amico delle donne come l'immaginava Dumas
figlio.
(5 marzo 1916).
La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri. Stasera Amerigo Guasti
darà la sua serata d'onore con L'asino di Buridano di de
Flers e Caillavet. L'altra sera Dina Galli ha dato la sua con Amore
veglia degli stessi autori. Il pubblico ha affollato il teatro come
nei primi giorni della lunghissima stagione teatrale, prova la
piú significativa della simpatia che la compagnia ha saputo
suscitare. Credo infatti che quella Galli-Guasti-Bracci sia l'unica
compagnia italiana che meriti veramente questo nome, poiché
presenta organicità di ruoli e graduazioni di
capacità, che pur lasciando agio ai principes di mettere in
rilievo le loro doti speciali, non nuoce all'insieme e dà
risalto anche alle parti secondarie.
Il Guasti, la Galli e il Bracci hanno sempre trovato nella Galli,
nella Casilini, nel Conforti, nel Fuggetta e negli altri dei
cooperatori intelligenti, sempre alacri, che hanno contribuito
indubbiamente al buon successo costante delle rappresentazioni,
senza far diminuire perciò la personalità dei
maggiori, anzi forse mettendole maggiormente in risalto.
(6 marzo 1916).
Ermete Novelli all'Alfieri. Un pubblico speciale aspettava l'altra
sera la rentrée di Ermete Novelli: di ammiratori che avevano
seguito con affetto nella sua lunga carriera il vecchio attore, e di
giovani che forse lo sentivano per la prima volta e volevano
fissarsi nella memoria l'immagine dell'interprete sommo di talune
figure popolaresche, come papà Martin, concepite
ingenuamente, attuate e poste in azione in drammi poco consistenti e
artisticamente nulli, ma nei quali tuttavia il richiamo a sentimenti
umani elementari, radicati, innati quasi, e diffusi universalmente
lascia all'attore la piú grande libertà di creazione
individuale, personale. Che rimane di queste rappresentazioni nello
spirito dell'ascoltatore? Non certo un godimento artistico, una
nuova esperienza estetica, derivante dalla produzione drammatica. Il
godimento, l'esperienza la dà l'attore con la sua arte
d'interprete. Il fatto stesso che il dramma è concepito su
una trama tenue, elementare, fa sí che esso venga assorbito
immediatamente senza contrasti e senza sforzi, e che tutta
l'attenzione si rivolga al modo, alla vita particolare che il
Novelli riesce a infondere anche ai piú frusti e abusati
motivi sentimentali. L'attore è in realtà egli stesso
l'autore, perché tutto ciò che non solo rende
sopportabile, ma anche piacevole e interessante il vecchio dramma di
Cormon e Grangé è opera sua, tutta sua. Molti applausi
a ogni fine d'atto, e molti anche a scena aperta.
(16 marzo 1916).
«Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero
all'Alfieri. Una successione di quadretti appena abbozzati, di
figurine comiche, sentimentali e grottesche formano tutta la
commedia dei fratelli Quintero: Le memorie di don Rodrigo. Nessuna
novità, né di ambiente, né di caratteri. Don
Rodrigo è un vecchio spagnuolo che, arricchitosi attraverso
una vita di stenti e di lavoro indefesso, s'è formata una
filosofia della vita discretamente banale e convenzionale, e scrive
le sue memorie nelle quali molte fame usurpate troveranno il loro
implacabile giustiziere. Intorno a lui e alla sua filosofia
volteggia il mondo circostante: dei figli o idioti o incapaci, che
lo portano alla rovina, dei nipoti che s'adattano a trarre, da
ciò che era stato motivo di eleganza e di bon ton, i mezzi
per vivere, e delle conoscenze incasellate secondo i tipi che
piú possono trarre l'epigramma e lo scherno dalle labbra del
solitario. E siccome don Rodrigo, ovverossia i fratelli Quintero,
non sono della vita troppo profondi osservatori o filosofi, troppo
acuti, cosí i fatti che dovrebbero essere postillati dal
protagonista sono spesso noiosamente monotoni, fatuamente
superficiali, e la commedia, se non fosse stata retta da Ermete
Novelli e da una sua giovane cooperatrice, Hesperia Sperani, sarebbe
caduta senza infamia e senza lode.
(18 marzo 1916).
Teatro inglese. Domani la compagnia di Luigi Carini porrà in
iscena una novità di un autore inglese: L'onore di John
Glayde, di Alfredo Sutro. Come a chi ha lo stomaco guasto per il
soverchio uso di dolciumi nauseosi è utile consigliare un
buon bicchiere di gin, cosí il pubblico, abituato ad
ascoltare le frivole e cerebralmente idiote costruzioni del teatro
francese, molto potrà giovarsi di un contatto un po' vivo e
simpatico con le produzioni del teatro inglese. Esse, oltre che per
la rivelazione di un mondo morale alquanto diverso dal nostro, hanno
il pregio di un humour non superficiale e di parole, un fondamento
spirituale per cui le contraddizioni e le incongruenze della vita
sono viste da un angolo visuale nuovo, originale per noi, pur senza
sforzi e anfanamenti.
Naturalmente bisogna ascoltare già persuasi che tutto
ciò che di strano e di diverso dal solito può esserci
presentato, non è il risultato di uno sforzo scenico, ma il
portato naturale di un mondo diverso dal nostro per costumi, per
tradizioni di idee e di cultura.
(20 marzo 1916).
«L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano. L'onore
di John Glayde di Alfredo Sutro non si distacca quasi per niente
dalla media comune delle commedie costruite su un caso di adulterio.
Un uomo di affari che si appassiona piú al giuoco titanico
della Borsa che alla felicità domestica, ritrova al suo
improvviso ritorno che la moglie gli è diventata un'estranea,
che ella si è costruita una vita nuova, delle
possibilità nuove di esistenza, e non vuol piú saperne
di lui.
Ma è il modo che maggiormente offende il suo senso d'onore,
non il fatto in sé. La commedia che gli viene rappresentata,
la finzione che lo circonda e lo soffoca pur nel roseo cerchio delle
braccia femminee, lo esaspera, ma lo riconduce al senso della
realtà.
Il dominatore riconosce il suo torto: ha giocato male, e ha perduto.
Di fronte a lui l'avversario non ha altro torto che
l'insincerità, la frode sleale che ha sorpreso la buona fede
di chi, per conoscere gli uomini, ha trascurato l'altra metà
del genere umano, ma nient'altro. E perciò non si erge
esecutore della giustizia offesa: la punizione della moglie e del
suo amante è in loro stessi, nella loro coscienza turbata di
mentitori, che germinerà disillusioni e nuovi tradimenti e
nuove vittime.
Questo scioglimento psicologico che per essere perfettamente,
kantianamente morale, può rappresentare nel teatro una
semplice ma grande novità, è preparato da quattro atti
non altrettanto semplici e piani. Il dialogo, e forse vi
contribuisce la traduzione scolorita e qualche volta spropositata,
è monotono, e nello svolgimento non mancano incongruenze e
colpi di scena artificiosi.
Luigi Carini rese molto bene la parte di John Glayde, e la Gentilli
in quella di Mary (la moglie) fu in qualche momento perfetta. Il
Baghetti con la sua comicità fluida e schietta salvò
la situazione che pareva dovesse diventare burrascosa, e
contribuí cosí al successo finale, se non
entusiastico, certo assai notevole.
(23 marzo 1916).
«La prigioniera» di Poggio al Carignano. La prigioniera
di Oreste Poggio è di quelle commedie che si fanno applaudire
per l'onestà delle intenzioni piú che per la
realizzazione artistica di un momento drammatico dello spirito
umano. Una fanciulla povera si vende a un amatore vecchio e ricco,
lo tradisce con un suo impiegato infedele, e ne viene punita con
l'impossibilità in cui viene messa di abbandonarsi anche dopo
la vedovanza, alla sua passione. L'amante è un briccone (ella
naturalmente non lo vede sotto questa luce) e i documenti delle sue
azioni delittuose dovranno servire a rendere prigioniera la donna, a
preservarla dalla iattura che la nuova unione rappresenterebbe per
lei. Finalmente un fatto nuovo (la prova del tradimento e della
malafede del lontano) la rende libera e dalla prigionia esteriore
impostale dal vecchio marito morto per il dolore e dalla prigionia
interiore della passione per un indegno.
La commedia si perde spesso e volentieri in azioni secondarie, in
episodi graziosi in sé, ma perfettamente inutili per lo
svolgersi dell'azione principale; e le giustificazioni psicologiche
dei momenti sono disperse nel dialogo fiorito di massime
moraleggianti e di spunti che, cosí come sono presentati,
rappresentano un di piú, un'imbottitura sgraziata e
superflua. Il successo fu buono, perché i particolari
riuscirono a interessare e a tenere sempre desti l'attenzione e
l'interesse del pubblico che assisteva, e il Carini, la Gentilli, il
Baghetti e il Dondini dettero un'interpretazione ottima nel
complesso e piena di vita.
(30 marzo 1916).
Olga Vittoria Gentilli. Un teatro affollatissimo ha voluto
dimostrare a Olga Vittoria Gentilli come ella nella sua breve
permanenza nella nostra città sia riuscita a far apprezzare
l'intelligenza sua d'artista e i nobili tentativi per formarsi una
personalità e imprimere alle interpretazioni di personaggi
ormai entrati nella tradizione una nota speciale. L'abbiamo sentita
nel Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, una delle opere d'arte
piú vive e piú efficaci del teatro europeo, rendere
con grazia e spigliatezza il malizioso spirito settecentesco, e
nelle produzioni moderne abbandonarsi al suo istinto femminile e
dare senza artificio e morbosità anche le piú contorte
e irreali figure di donne prodigalmente create dalla fantasia degli
odierni scrittori. Nelle Marionette di Pierre Wolf, tutte le buone
qualità della Gentilli ebbero agio di manifestarsi, e in
qualche momento il pubblico le tributò un vero trionfo.
(1° aprile 1916).
«L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri. L'aria
del continente, di Nino Martoglio, è un seguito di scene
giocose, caricaturali, nelle quali il filo conduttore dell'azione
non è dato dal carattere dei personaggi, ma dall'ambiente.
Don Cola Dusciu ha dovuto recarsi a Roma per subire una operazione
chirurgica che il medico del suo paese non sarebbe stato capace di
eseguire; e come ogni buon paesano che si rispetti si è
ubriacato dell'aria del continente, si è slanciato in quella
che a lui sembrava la bella vita, ha fatto delle pazzie e ha
sprecato il suo denaro per una donnina da caffè-concerto, e
infine se l'è portata con sé in patria. L'ambiente gli
si rivolta contro: la sorella non ne vuol sapere di novità
continentali, i buoni villici si scandalizzano per le libertà
che la donnina si prende e che don Cola, volendo fare l'uomo
superiore ai pregiudizi, le consente. Ma il suo temperamento di
siciliano non tarda a riprendere il sopravvento; la corte che si fa
alla sua amante da parte di alcuni damerini lo incomincia a
irritare, a mettere in sospetto. E quando viene a sapere, quasi
contemporaneamente, che Milla ha concesso i suoi favori a suo
cognato e a suo nipote, e che ella non è una romanesca, una
continentale, ma una siciliana qualunque, un'avventuriera che l'ha
preso in giro e ha sfruttato la sua ingenuità provinciale,
perde la testa, ripudia la sua mania innovatrice di costumi e
scaccia l'intrusa.
Nei tre atti compaiono sulla scena, resi grotteschi per un maggior
successo d'ilarità, alcuni momenti della vita paesana
siciliana, e alcuni tipi caratteristici di essa: la mamma, gelosa
custode di pure tradizioni familiari, il viveur di provincia, i
giocatori di scopone dei circoli di lettura, ecc., in mezzo ai quali
il soffio di vita continentale porta lo scompiglio e la rivoluzione.
La comicità delle situazioni che ne nascono viene portata al
parossismo con un piccolo sforzo dialogico, e la esuberante
personalità del Musco fa il resto. Pare, in certi momenti che
un'aria di follia frenetica sia arrivata dal continente, tanto
l'azione è convulsa.
Il pubblico ha applaudito a ogni fine di atto, tutti gli attori, e
specialmente il Musco e la Anselmi, e ha chiamato insistentemente al
proscenio l'autore.
(12 aprile 1916).
Il Grand-Guignol al Carignano. Il Grand-Guignol ha portato sulle
scene di questo teatro le sue figure di incubo, il suo realismo
truce e ingenuo nello stesso tempo, la rappresentazione di una vita
esasperata e sussultante di terrore e di spasimi. Nessuna
interiorità, nessun urto drammatico di coscienze e di
caratteri.
Della tragicità non c'è che la maschera esteriore, lo
spasimo fisico che cerca comunicarsi allo spettatore inebetito con
un brivido irresistibile. Bisogna dire che Alfredo Sainati e Bella
Starace sono maestri nel raggiungere gli effetti che si propongono
di conseguire. La materia bruta, il tritume del fattaccio di cronaca
si organizzano nella elasticità della loro personalità
artistica che sa atteggiarsi nei modi piú truci, piú
sanguinosamente suggestivi. E cosí lo spettatore, che va a
teatro per incanagliarsi, per sentire uno strappo di nervi che gli
dia l'impressione della vita fittizia della suburra, del bassofondo,
è soddisfatto e applaude.
(25 aprile 1916).
«Quacquarà» di Capuana all'Alfieri.
Quacquarà di Luigi Capuana non è altro che una smilza
novella d'ambiente diluita in tre atti, inzeppata di dialoghi e
controscene che non portano nessun contributo a una perspicua e viva
rappresentazione del protagonista. Don Mario Mamuca è un
povero deficiente, perseguitato dai monelli del suo paese che lo
tormentano rifacendogli dietro il richiamo delle quaglie:
quacquarà, quacquarà. È un nobile spiantato,
mezzo analfabeta, che scrive dei versi che non tornano e vive di
ripieghi e di elemosine larvate. S'innamora di una ricca signorina
che sarebbe felicissima di farsene il paravento per un suo
piú precoce errore, perché ha già 35 anni. Il
matrimonio però va anch'esso a monte e Quacquarà
registra nel libro dei suoi ricordi e dei pettegolezzi paesani
un'altra delusione. Tutta la commedia è un susseguirsi di
episodi inorganici, appena abbozzati, pieno di lungagnate verbose.
È questo un lavoro che Luigi Capuana, che pure era un forte
ingegno e uomo di buon gusto, ha lasciato inedito ai suoi eredi, che
non hanno certo reso un omaggio alla sua memoria presentandolo al
pubblico.
(27 aprile 1916).
«La malquerida» di Benavente al Carignano. La malquerida
di Benavente ha fatto ricordare a qualcheduno le produzioni del
teatro classico. Naturalmente ogni richiamo è possibile:
un'anfora di Samo rassomiglia piú a un boccale di Montelupo
che al lupo mannaro, e cosí l'intreccio di Malquerida
può far ricordare Eschilo e Shakespeare. Anche in essa
infatti una passione perversa attanaglia due creature umane, ed
è istintiva, elementare, dovuta al fato, ma la tragedia si
estrinseca in forma granguignolesca, e cioè senza
profondità di vita interiore, senza tormenti e slanci lirici,
riducendosi a gesti brutali. La giovinetta Rosaria non ha mai saputo
e potuto amare come padre, il nuovo marito che sua madre ha preso; e
d'altronde questo odio ingiustificato fa sí che Renzo non
possa in lei vedere una figlia; e una passione morbosa si
impadronisce di lui. Per non lasciarla andar via di casa, ne fa
uccidere il fidanzato, monta una macchina infernale per rovinare un
innocente, un povero Cristo innamorato di Rosaria, ma non riesce a
far sí che la verità non venga conosciuta da sua
moglie. La quale per salvare l'onore della famiglia e perché
comprende che nella passione dell'uomo c'è un elemento
imponderabile di fatalità, è disposta a perdonare, ma
quando un bacio che dovrebbe essere di conciliazione, di oblio,
rivela a Rosaria che ella ama il suo padrigno, e i due si
avvinghiano disperatamente comprendendosi alfine, la madre urla la
sua vendetta, la sua collera, e cade uccisa da Renzo. Nel dramma non
c'è nulla piú dell'intreccio, abilmente condotto in
modo che gli intrighi vadano creando malintesi, imbrogli psicologici
che determinano un crescendo e preparino gli animi alla scossa
finale. Ma l'abilità piú o meno grande di facitor di
ficelle, non può sostituire ciò che solo può
rendere umane e logiche anche le piú bestiali vibrazioni dei
sensi. Particolarmente efficace fu l'interpretazione della
Starace-Sainati.
(30 aprile 1916).
Angelo Musco all'Alfieri. Angelo Musco ha dato la sua serata d'onore
molto festeggiato e applaudito. La sua personalità d'attore,
se in un primo momento può anche non piacere e perfino
irritare, finisce alla fine per farsi comprendere e stimare. Angelo
Musco è eminentemente un attore della commedia dell'arte:
egli non può mantenersi mai nei limiti che l'autore ha
fissato ai personaggi; vuole aggiungere qualcosa di suo personale, e
per l'ingegno che ha duttile, pieghevole, riesce quasi sempre a
convincere. Il teatro dialettale gli dà naturalmente largo
campo agli sbizzarrimenti, e siccome le produzioni del suo
repertorio sono, come del resto il novantanove per cento di tutti i
repertori, nient'altro che commedie dell'arte che vivono della vita
effimera della ribalta, cosí la sua maniera potrebbe anche
essere la migliore.
(30 aprile 1916).
Alfredo Sainati al Carignano. Un teatro affollatissimo per la serata
di Alfredo Sainati. L'orribile esperimento del De Lorde, Cravatta
nera di L. Ruggi, Revenant del Satèrne, truci e sanguinolenti
produzioni granguignolesche, mostrano Sainati nel suo piú
noto carattere di attore drammatico di eccezione, procurandogli gli
applausi entusiastici degli spettatori, che potrebbero offrire lo
spunto a una ricerca psicologica simile a quella che Arturo Graf ha
fatto per la tragedia. Perché il pubblico si diverte al
Grand-Guignol? Se la natura umana rifugge dal dolore, dalla
sofferenza, come mai nel teatro ciò può essere un
motivo di attrazione? Non potendosi parlare di godimenti artistici
per ciò che riguarda la creazione di fantasmi poetici
espressi plasticamente dal dramma, è evidente che la ragione
della fortuna di questo teatro è dovuta tutta agli attori che
sanno, come il Sainati, dare vita anche a dei pupazzi incolori e
incongruenti come quelli che di solito popolano la loro scena.
(14 maggio 1916).
«Il titano» di Niccodemi al Carignano. La guerra
evidentemente ha imposto una moratoria anche all'arte. L'azione che
si svolge al fronte fa rivolgere tutte le energie degli uomini di
buona volontà alla pratica, alla speculazione
dell'esaltamento passeggero, che opportunamente solleticato,
dà buon gettito di applausi e di cassetta. Santa retorica si
dice per le manifestazioni simili del passato, del Risorgimento;
perché né Berchet, né Silvio Pellico, né
il Giusti, né il Dall'Ongaro, né Poerio ponevano un
fine economico all'arte patriottica. Volgare speculazione deve
semplicemente giudicarsi quella del Niccodemi, che ha allegramente
imbastito, con quella abilità che si è acquistata nel
suo garzonato di autore rotto a tutte le piccole astuzie della
scena, una commedia di palpitantissima attualità.
Quattro convenzionalità sono i personaggi: il bene assoluto
(Marco Asciani), il male assoluto (Gilberto Guidi) suo cognato,
l'innocenza sciupata (sorella di Marco), l'innocenza ingenua ed
elementare (una bambina). Marco ha partecipato alla guerra con i
suoi due figli; questi vi hanno lasciato la vita, egli l'ha scampata
per miracolo, e sua moglie è morta di crepacuore. Uscendo
dall'ospedale rinnovato di corpo e d'anima, mentre si dispone a
diventare l'apostolo di una vita nuova, di una nuova morale,
è travolto in uno scandalo di frodi in forniture militari.
È Gilberto, l'uomo della preistoria, il bruto pieno di vizi,
che essendo stato da lui posto a capo della propria banca, ha
speculato sulla vita, sulla incolumità dei soldati per
arricchirsi, per alimentare le sue basse cupidigie di gaudente.
Marco perde nella crisi tutto il patrimonio, e mentre prima era
chiamato titano per la ferrea volontà che esprimeva negli
affari, ora si chiama da sé titano perché scopre che
per fare il modesto impiegato è necessaria una forza morale
ben maggiore di quella richiesta per fare il capitalista. Gilberto
sparisce silenziosamente nella sorridente marina di Anzio,
perché la coscienza gli è diventata una carceriera
implacabile, e decide di non ritornare piú a galla;
affinché la nuova Italia non veda piú la fisionomia
del frodatore militare. Questa è la nuda trama, impolpata con
le piú svariate zeppe di repertorio: una porta sfondata, un
marito che sta per strangolare la moglie per farsi consegnare dei
valori, un fratello che crede per un momento la sorella adultera
col... marito, una requisitoria formidabile contro i fornitori
militari, che ricorda la filippica contro i preti della Morte civile
del Giacometti, una piccola Scampolo che come un pappagallino
ammaestrato recita graziosamente le ingenuità piú
artificiali di questo mondo, e cosí via.
Il colpo era sicuro. La tirata contro i fornitori, eloquente come
una forbita orazione di avvocato fiscale, suscitò i frenetici
applausi dalla platea (ingresso) e dal loggione; le poltrone e i
palchi prudentemente si astennero. Gli attori non erano altro che
fonografi, e non poterono per mancanza di materia prima, creare
nessun carattere. Il Ruggeri è artista tale che si mantiene
alto anche in simili spappolamenti teatrali; e il Niccodemi, come
Gilberto della sua commedia, troverà nella sua coscienza la
carceriera che lo punirà dall'aver speculato sul dramma
nazionale, per raggiungere in poco tempo solo ciò che un
onesto e lungo lavoro gli avrebbe dato allo stesso modo.
(18 maggio 1916).
Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al
Carignano. Dopo qualche replica del Titano di Niccodemi, e del
Piccolo santo di Bracco, martedí Ruggeri interpreterà
per la prima volta fra noi, la piú difficile e complessa,
forse, di tutte le tragedie di Shakespeare: Macbeth.
Dopo la sua personalissima interpretazione di Amleto, e anche
perché ormai da molto tempo nessun altro attore ebbe il
coraggio di misurarsi con un'opera di tanta difficoltà e
responsabilità, questo Macbeth di Ruggero Ruggeri è
atteso con immenso interesse.
E poiché i giudizi del pubblico e della critica milanese
furono cosí vari e discordi, la seconda prova tentata a
Torino potrà aver valore di giudizio di appello e decisivo.
(22 maggio 1916).
In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain Rolland ha
incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento
critico migliore della tragicità dell'autore inglese:
«Shakespeare nel creare i suoi personaggi procede senza
sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso riveste il suo
pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; mai egli muove dal
di fuori». Cadono cosí tutte le interpretazioni che del
Macbeth la critica giornalistica ha recentemente cucinato per il
grande pubblico. Non tragedia dell'orrore, né della paura,
né dell'ambizione, come è stata volta a volta
chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere,
ben definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il
dramma, e ne è l'eroe. È una volontà,
cosí, senz'altro; volontà che riceve stimoli
all'azione dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua
personalità e fa propri, senza perdere un atomo della
libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli
uomini, e senza la quale non può esservi tragedia.
Shakespeare lo ha posto in un ambiente storico, in un tempo e in
luogo nei quali anche il soprannaturale era elemento della
realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto
perciò questo soprannaturale non è meccanico, non
è astrazione fredda, non è ripiego comodo per trarre
dai fatti elementi di successo; è certo esistenza,
integrazione necessaria del dramma.
Vediamo svolgersi questo dramma con una logica interiore
inflessibile. La predizione delle streghe del primo atto è
l'inizio di esso. Macbeth è incerto in principio, titubante;
la grandezza del destino che lo attende lo scrolla fin nell'intimo
della sua umanità, fa traballare, ma non distrugge d'un
tratto nella sua coscienza le leggi morali che ne sono la base
granitica:
Quando
mi voglia re la sorte coronarmi,
essa pure dovrà senza il mio sprone.
Ma la realtà lo attanaglia; sua moglie è lo sprone
della sua volontà incerta e vacillante. Lady Macbeth,
creatura meno complessa, piú elementare, che appunto
perciò il destino stronca cosí, semplicemente, senza
trovare resistenza, è di quelle che tra il pensiero e
l'azione non pongono intermezzo. Solo nel quarto atto, dopo che la
causa scagliata da lui nel mondo ha prodotto effetti che egli non
poteva prevedere, anche Macbeth si riduce a questa semplicità
di concezione:
D'ora in avanti
i primi impulsi del mio cuor saranno
gl'impulsi di mia mano.
Macbeth ha a questo punto ritrovato se stesso: ma attraverso quali
sanguinose esperienze! L'assassinio del re e dei suoi custodi ha
fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L'abisso
ha chiamato l'abisso, secondo la sua tragica necessità. La
pazzia sembra afferrarlo per un istante con la tortura dell'ombra di
Banco. Ma egli, nella sua forte volontà, vince questi
richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un'ombra,
preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta
piú, non esita piú. Tutto gli diventa avverso, ma egli
è sicuro della sua fortuna.
La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa
sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi
delitti. E Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni
uomo a quella degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La
morte di Lady Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle
sue labbra; il suo cuore è impietrito; non vive che la
volontà atroce.
Lady Macbeth soccombe alla visione dei fantasmi che ella stessa ha
suscitato. È una debole, in fondo, che solo l'esasperazione
fa diventare furia perversa. Come nel suo romanzo grottesco Chamisso
impersona nell'ombra che è fuggita, la coscienza di Pietro
Schlemil, Shakespeare rappresenta plasticamente nella morte del
sonno il rimorso della donna. E il sonno uccide quel già
vibrante fascio di nervi, nei quali la lampada della vita non
dà che qualche incerto guizzo.
Il sangue cola a ruscelli in questa tragedia: si ha l'incubo del
rosso nel riviverla integralmente. Re Duncano, le due sue guardie
del corpo, Banco, lady Macduff, e tutta la sua famiglia muoiono e
tutte queste morti sono necessarie nell'azione, fatali, date le
premesse. Una orribile gorgona ha abbacinato Macbeth; Banco lo aveva
subito capito, fin dalla prima previsione delle streghe:
Spesso a render certo
il nostro danno gli stromenti delle
tenebre il vero dicono e con lievi
cose ci attraggono per gettarci poi
nei piú oscuri raggiri.
Ma bisogna che Macbeth veda tutto il baratro, nel quale egli
è precipitato per persuadersi di ciò. Bisogna che veda
muoversi la selva, e che un uomo nato pei ferri del chirurgo lo
turbi dimostrandogli vana la sua sicurezza. Solo allora il titano
del male sente che tutto è crollato intorno a sé e
ritorna debole, pauroso, uomo insomma. E la giustizia lo colpisce.
Ruggeri darà stasera il gigantesco lavoro di Shakespeare.
È un avvenimento artistico, al quale non possono essere
estranei anche i nostri lettori, i quali anzi perché meno
intellettualmente corrotti, sono i piú degni d'avvicinare e
di risentire i brividi di passione del tragico inglese. Potranno
Ruggeri e i suoi collaboratori ridare integralmente questi brividi,
questa vita intensa, anelante alla distruzione, alla strage
infeconda? Vedremo.
(23 maggio 1916).
Vedere proiettata sulla scena, incarnata in persone operanti e
parlanti, rinchiusa in un determinato orizzonte, un'opera che per
noi è solo vissuta della vita delle parole, delle immagini
che la fantasia ricrea, dei segni materiali della carta stampata,
produce sempre un urto che non si riesce subito a superare. Qualche
cosa si interpone tra voi e l'opera, una personalità estranea
che diventa invadente, ingombrante talvolta, e alla quale bisogna
abituarsi. Come tutte le opere di poesia, la tragedia di Shakespeare
vive autonoma nella cerchia delle parole. La suggestione di vita non
ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio
fatale. Anzi. Ogni urto brutale con tutto ciò che è
convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze
dell'ora e delle possibilità interpretative, produce squarci
dolorosi, mortificazioni umilianti. L'arbitrio direttoriale che
toglie e riduce non può non essere sacrilego. L'opera deve
rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita,
dalla fantasia dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni
atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una
personalità che è stata concepita in quel dato modo e
in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo
interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la
libertà crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth di
Ruggeri e dimenticare alquanto quello di Shakespeare. E l'uno
è infinitamente inferiore all'altro e l'adattamento non
può avvenire con facilità, senza mortificazioni.
Ruggeri ha cercato per quanto gli è stato possibile, di
ridurre la tragedia alla sua persona. L'ha modernizzata, in un certo
senso, poiché le opere che egli è solito dare con
piú successo, si conchiudono in un solo eroe, che come il
tenore dei melodrammi diventa centro dell'universo. E Shakespeare
invece è polifono: le azioni dell'eroe trovano risonanze in
tutto l'ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di
fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di
molti particolari nuoce, cosí, enormemente, alla
rappresentazione dell'eroe stesso, lo rende meno vivo. Vedere
davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale
piú che il sentirla ricordare dall'assassino. Vedere come
Banco sia fraudolentemente sgozzato, accresce l'orrore della
rievocazione dello spettro. Vedere come fossero vivi lady Macduff, e
i suoi figlioli, e come i sicari tronchino nelle loro gole la parola
ingenua, il rimbrotto femminile, è necessario per l'effetto
d'insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di sangue e
d'orrore. Il tiranno è tale per i soprusi inumani che compie,
non per le parole che escono dalle sue labbra. L'opera cosí
scarnificata diventa un moncherino, grottesco talvolta.
L'espressione di Macduff che rassomiglia la moglie e i figli a una
chioccia ghermita coi pulcini da un avvoltoio, non avrebbe fatto
ridere la platea se questa avesse avuto dinanzi agli occhi il quadro
della strage compiuta freddamente dalla volontà del re.
Piccole osservazioni che si potrebbero moltiplicare se ciò
non fosse inutile, e se noi non sentissimo per Ruggeri una grande
gratitudine anche per il poco che ci ha dato, e che serve da stimolo
per accostarci con piú amore all'opera. Come non
servirà a nulla osservare che Ruggeri è cosí
infetto di lebbra dannunziana vacua e declamatoria, che troppo
spesso la sua riflessione critica ne viene sorpassata e annegata in
una sentimentalità melodrammatica che stona terribilmente
colla creatura di Shakespeare, né decadente, né
ammalata di modernità floreale e liberty.
E il pubblico, anch'esso compenetrato dello sforzo che il Ruggeri,
la Vergani, e gli altri hanno fatto, ha applaudito, e talvolta con
vera convinzione.
(25 maggio 1916).
Sfogo necessario. Inizi di nuovi corsi di recite in tutti i teatri
di Torino. Produzioni per tutti i gusti, o per meglio dire, per
tutti i cattivi gusti. Mediocrità uggiosa, asfissiante.
Torino è diventata una buona piazza per il trust che regola
il mercato artistico italiano: vi si smerciano anche i prodotti
piú indigesti. Eppure non dovrebbe essere cosí: la
fortuna dei concerti di Toscanini, delle esecuzioni di Cavalleria
dimostrano che la superiorità del prodotto, l'intenzione
artistica non nocciono alla cassetta; tutt'altro. Ma Toscanini,
Mascagni hanno dovuto essere invitati da una istituzione privata, in
un teatro municipale, non ancora caduto in balia della bassa
speculazione. Il trust ha ammazzato la concorrenza, ha rotto la
molla che costringeva a dare il meglio se si voleva molto pubblico,
e si è formata la palude, la marcita che favorisce
prosperità ai girini e alle erbacce.
Scala decrescente di valori. Ma da che grado si incomincia a
contare?
Al Carignano la compagnia Bondi-Orlandini, di nuova formazione.
Demi-monde di A. Dumas, questo abile cesellatore di brillanti
chimici, ha dato inizio al nuovo corso, che si annunzia breve.
Disinvoltura meccanica, molte stonature nell'insieme artistico,
qualche buono spunto che dimostra della buona volontà. Ma
nient'altro; e per il Carignano è troppo poco.
Al Chiarella e all'Alfieri, operette. Cinema-star e la Signorina del
cinematografo, pur dopo le grandi chiacchiere che hanno suscitato, e
il fluire di tanto inchiostro patriottico, non riescono a sollevarsi
dal pattume. La compagnia Caracciolo al Chiarella pone in linea
qualche ottimo elemento, ma l'insieme persuade poco.
All'Alfieri quella Gattini-Angelini dicono non abbia avuto ancora
occasione di mostrare tutte le sue qualità. Sarebbe tempo le
mostrasse una buona volta, per cancellare l'impressione si tratti di
una troupe di dilettanti che non conoscono neppure l'abbicci della
scena.
Al Parco Michelotti, Casaleggio sciorina tutto un ricchissimo
programma di novità. Sembrerebbe che il teatro dialettale non
sia mai stato tanto in voga. Ma si tratta evidentemente di un falso
allarme. L'esperienza del passato (i nomi sono sempre gli stessi)
deve ben servire a qualcosa. Adesso Casaleggio ha trovato anche
un'altra via dell'avvenire: il concorso. Che i numi preservino da
altri malanni.
Ma gli applausi scoppiano lo stesso fragorosi. L'estate attutisce i
sensi, il caldo fa ingurgitare anche i tamarindi fatti con prugne
secche. Ha poi torto il trust di far di Torino il rifugio degli
invalidi? Ognuno ha il governo che si merita; l'affermazione
è vecchia, ma forse purtroppo, sempre d'attualità.
(4 giugno 1916).
Tina Bondi al Carignano. Una commedia che si fa sempre applaudire,
La trilogia di Dorina del Rovetta, ha dato occasione a Tina Bondi di
porre in valore alcune sue buone qualità di attrice, che il
pubblico fu lieto di riconoscere e di applaudire. Niente di
eccezionale, pertanto, o di rivelativo. La Bondi è
essenzialmente una riflessiva e una volitiva, e ciò spiega
come spesso non riesca a superare una freddezza esteriore che nuoce
molto all'efficacia delle sue interpretazioni, e che si manifesta
anche nelle intonazioni della voce e nella plastica degli
atteggiamenti fisici. Ma d'altronde la rende interessante e le
procura le simpatie che vanno sempre agli uomini, e alle donne, di
buona volontà.
(18 giugno 1916).
Melanconie... Un preconcetto ancora solidamente radicato fa ritenere
a moltissimi che il teatro sia uno dei tanti luoghi di divertimento
piú o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza non
deve ritenersi un danno, anzi per molti, i clericali, per esempio,
deve ritenersi una fortuna. Perciò nessuno ha fatto rilevare
e ha deplorato che a Torino da piú di un mese e mezzo non sia
aperto nessun teatro degno di tal nome, e non si è domandato
quale sia la causa dello strano avvenimento.
Perché non è certamente la guerra coi suoi
contraccolpi che ha determinato la clausura. Al contrario, la
mancanza di un ritrovo non banale ha dato luogo a un pullulare
malsano di varietà e di canzonettisterie, nelle quali, per
disperazione, vanno a finire tutti gli annoiati, non solo, ma anche
tutti quelli che dopo una giornata di lavoro febbrile e pesante,
sentono la necessità di una serata di svago, sentono il
bisogno di una occupazione cerebrale che completi la vita, che non
riduca l'esistenza a un puro esercizio di forze muscolari.
Poiché questa è una delle ragioni che dànno un
valore sociale al teatro. Accanto all'attività economica,
pratica, e all'attività conoscitiva, che ci rende curiosi
degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di
esercitare la sua attività estetica. L'impastoiare questa
è un limitare arbitrariamente la nostra personalità;
ed essa si vendica, a nostre spese. L'astinenza artificiosa porta al
vizio solitario: l'assenza di possibilità buone per la
ricreazione intellettuale fa sfungare i ritrovi piú o meno
osceni, dove si logora una apprezzabilissima parte di noi stessi e
si pervertisce il gusto. A Torino una completa mancanza di
spettacoli teatrali non si era mai avuta. Il comune stesso, quando
era retto da uomini meno intellettualmente beceri, si preoccupava
del problema, e a ragione. Quando il Carignano era ancora
esercíto dal municipio, si facevano con le migliori compagnie
dei contratti speciali che permettevano ai torinesi di sapere dove
poter recarsi spendendo utilmente i propri quattrini. Il municipio
si interessava di regolar lui la bilancia di tutte le
attività cittadine; faceva ciò che dovrebbe fare ogni
ente comunale che si rispetti, che prevede e provvede nella misura
del possibile, a tutti i bisogni degli amministrati.
In seguito Torino si è abbiosciata, ha perduto completamente
ogni fisionomia intellettuale. È diventata ormai, per quanto
riguarda i teatri, una sezione del gran feudo del trust, che fa e
disfà, ordina e scompone a seconda dei suoi interessi
immediati, e quasi sempre, come avviene, anche contro i suoi
interessi, per incapacità industriale e ristretta visione
delle cose.
E cosí mentre città, non solo come Milano e Roma, ma
anche come Bologna, Genova, Firenze, hanno completa la loro vita
cittadina, da noi bisogna accontentarsi delle scemenze vernacole del
parco Michelotti, o delle recite da circo equestre del Vittorio
Emanuele. Naturalmente poi i benpensanti finiranno col domandare che
un decreto luogotenenziale limiti e magari espella l'esercito di
canzonettiste che ha invaso tutti i locali disponibili della
città. Perché da noi si batte sulle dita dei bimbi che
fan le bizze, e si fa la casistica del permesso e del proibito, ma
non si cerca mai di dare le possibilità affinché i
bisogni che trovano nella bizza o nel pervertimento l'unico loro
sfogo, possano invece incanalarsi nei diritti e naturali loro alvei.
(21 agosto 1916).
Teatro e cinematografo. Si dice che il cinematografo sta ammazzando
il teatro. Si dice che a Torino le imprese teatrali hanno tenuti
chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il pubblico
diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi. A Torino
è sorta e si è affermata la nuova industria delle
films, a Torino sono stati aperti dei cinematografi lussuosi, come
non ce ne sono molti in Europa, e tutti i ritrovi del genere sono
sempre affollatissimi.
Parrebbe quindi che ci fosse almeno un fondo di vero nella dolorosa
constatazione che il gusto del pubblico ha degenerato, e che per il
teatro si avvicinano dei brutti giorni.
Noi siamo invece persuasissimi che queste lamentele sono fondate su
un estetismo bacato, e che si può facilmente dimostrare che
esse dipendono da un falso concetto. La ragione della fortuna del
cinematografo e dell'assorbimento che esso fa del pubblico, che
prima frequentava i teatri, è puramente economica. Il
cinematografo offre le stesse, stessissime sensazioni che il teatro
volgare, a migliori condizioni, senza apparati coreografici di falsa
intellettualità, senza promettere troppo mantenendo poco. Gli
spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie; le
produzioni piú comunemente date non sono che tessuti di fatti
esteriori, vuoti di ogni contenuto umano, nei quali delle marionette
parlanti si agitano variamente, senza mai attingere una
verità psicologica, senza mai riuscire a imporre alla
fantasia ricreatrice dell'ascoltatore un carattere, delle passioni
veramente sentite ed espresse adeguatamente. L'insincerità
psicologica, la bolsa espressione artistica hanno ridotto il teatro
allo stesso livello della pantomima. Si cerca, e nient'altro, di
creare nel pubblico l'illusione di una vita solo esteriormente
diversa da quella solita di tutti, nella quale cambiano solo
l'orizzonte geografico, l'ambiente sociale, dei personaggi, tutto
ciò che nella vita è argomento di cartolina
illustrata, di curiosità visiva, non di curiosità
artistica, fantastica. E nessuno può negare che la film abbia
per questo lato una superiorità schiacciante sul
palcoscenico. È piú completa, piú varia,
è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice
movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in
realtà sono anche nel teatro. Prendersela col cinematografo
è semplicemente buffo. Parlare di volgarità, di
banalità, ecc., è retorica bolsa. Quelli che credono
veramente a una funzione artistica del teatro, dovrebbero invece
essere lieti di questa concorrenza. Perché essa serve a far
precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero carattere.
Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di
divertirsi (cioè di riposarsi cambiando il termine della
propria attenzione) con una pura e semplice distrazione visiva: il
teatro, industrializzandosi, ha cercato in questi ultimi tempi di
soddisfare solo questo bisogno. È diventato un affare
senz'altro, è diventato una bottega di paccottiglia a buon
mercato. Solo per caso si dànno ormai produzioni che abbiano
un valore eterno, universale. Il cinematografo, che quest'ufficio
può compiere con piú agio e piú a buon mercato,
lo supera nel successo, e tende a sostituirlo. Le imprese e le
compagnie finiranno col persuadersi che è necessario cambiar
strada, se vogliono continuare a esistere. Non è vero che il
pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una
lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi
all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un
capolavoro, o anche piú modestamente un'opera tipica di una
moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che
ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi
invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono
lavoro e attività per esser degnamente rappresentati, sono
anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D'Annunzio, Bernstein,
Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la
smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia
piú adatta alla loro espressione. E le inutili, noiose,
insincere tirate retoriche ritorneranno a essere letteratura,
nient'altro che letteratura, morta e seppellita nei libri e nelle
biblioteche.
(26 agosto 1916).
«Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans
al Carignano. Come avvenne che un seminarista, mentre si trova sul
punto di pronunziare i voti sacerdotali e diventare un umile servo
di Dio, sia richiamato sotto le armi e mandato in trincea invece che
in sanità, si addimostri uomo di fegato, cada nelle
tentazioni della carne e prenda moglie.
La trama di questa farsa in tre atti, rappresentata dalla compagnia
Sichel, non abbonda di finezze, né d'intreccio, né di
sentimento, come tutte le farse. Prenderla sul serio sarebbe troppo
ingenuo. Si propone di sollazzare piacevolmente, prospettando dei
bozzetti cui la grande guerra che incombe non dà neppure
l'ombra di una tragicità qualsiasi. Rosalia, la baionetta
sanguinosa, diventa un eufemismo, senza traccia dell'acre ironia che
vi possono mettere i soldati che ne sono i fidanzati. Il soldato
ridiventa il solito tipo che Cuttica ha popolarizzato: cafone
sempliciotto, che parla e opera per far ridere anche se non è
piú il cappellone dei tempi di pace. La trama sentimentale
del seminarista che si innamora e con l'aiuto delle circostanze
sempre propizie, come si conviene all'eroe, riesce a pronunziare i
voti terreni di marito esemplare, serve a collegare l'insieme ma non
dà un'unità essenziale all'azione. Sichel, Rossi,
Lotti, la Zucchini con la loro varia interpretazione, sempre
piacevole e senza essere eccezionale, sono tuttavia riusciti a
tenere l'attenzione sveglia e suscitare dei sorrisi benevoli e
persino qualche risatella senza conseguenze. Perché non
sarà certamente la guerra che farà diventare
piú seriamente raccolti gli scrittori e tantomeno il
pubblico.
(6 settembre 1916).
Sichel. È uno degli attori meglio quotati, a Torino. Mi
dicono sia molto popolare e che persino sotto i portici gli
ammiratori si fermino a osservarlo, e se lo additino sbirciando, e
si ricordino scambievolmente i momenti di ilarità. Certo
è che in questa stagione il Carignano è sempre stato
affollatissimo, e gli spettatori hanno mostrato di divertirsi e
Sichel è stato festeggiatissimo e ha avuto l'onore (come si
dice) di molti applausi a solo, di molti segni di distinzione. Ma io
mi spiego la curiosità nelle vie e tutto il resto, molto
facilmente. E credo di non sbagliare. Ho domandato a piú
d'uno: in che consiste l'arte comica di Sichel? Nessuno m'ha saputo
rispondere, nessuno m'ha saputo definire una cosa della cui
esistenza pure sembra si sia persuasi. Ho domandato: perché
il repertorio della compagnia Sichel è cosí monotono,
cosí uguale, cosí scialbo? e le commedie da essa date
sono le peggiori del repertorio generale? E ho visto che la fama
della bravura di questo attore non aveva davvero alcuna base seria.
Perché gli ammiratori sorridono e si allietano anche nel
vedere l'attore sotto i portici, cioè anche quando non
riveste i panni di un personaggio comico? Perché la
comicità di Sichel non esiste affatto come fatto artistico,
non è qualcosa che possa essere descritto e criticato come
fatto artistico, ma è solo un'impressione fugace, una
suggestione esteriore, un superficialissimo fenomeno psicologico.
Sichel ha trovato il suo train speciale, e a esso adatta tutte le
parti che deve interpretare. È sempre lo stesso, conserva
sempre la stessa espressione, la stessa faccia per tutti i
personaggi. È sempre serio, e le commedie che dà sono
sempre allegre. Sembra sempre una persona qualunque, una delle tante
persone cosiddette serie che si incontrano sotto i portici, e dice
invece delle cose che non sono serie; ha la faccia delle persone
comuni, che perché comuni non sono né troppo imbecilli
né troppo intelligenti, e i tipi che rappresenta con
predilezione sono invece quelli di cretini nati, di idioti completi.
Se la commedia non li vuole proprio cosí, l'attore pensa lui
a completarli: ha una mezza dozzina di intercalari diversi, che
ripetuti a sazietà... «basta intendersi!»,
«io capisco tutto!» ecc., dànno l'apparenza del
cretino anche all'uomo piú furbo. Da questo contrasto, tra la
serietà fisica e muscolare, e le parole, le situazioni
cretine, nasce per gli spettatori l'impressione della forza comica
dell'attore, il quale naturalmente, essendo sempre uguale, non
può svestirsene neanche quando ridiventa il cittadino cav.
Giuseppe Sichel, rispettabile come qualsiasi altro cittadino di
questo mondo. E ciò basta per gli spettatori, i quali sono di
buona pasta. Perdonano tutto, non vedono affatto tutto ciò
che di meccanico c'è in questa apparente comicità. Si
divertono e non cercano di piú: passano piacevolmente qualche
ora e al teatro non domandano altro. Sichel è l'attore fatto
apposta per i pubblici di mediocre levatura. Appiattisce tutto,
mediocrizza tutto, anche la banalità, la volgarità
della pochade. E si merita pertanto gli applausi a solo, i segni di
distinzione. Come dicono gli inglesi: è l'uomo piú
adatto per il ruolo che piú gli si adatta.
(23 settembre 1916).
Giulio Tempesti al Chiarella. La compagnia di Giulio Tempesti aveva
annunziato cinque recite straordinarie con cinque produzioni
diverse. Il successo della prima sera ha fatto replicare la Cena
delle beffe.
La meteora benelliana non accenna ancora a tramontare. La
virtuosità personale del Tempesti riesce ancora a tener su un
castelletto di carta pesta e di stucco cinquecentesco, e a far
inghiottire non solo, ma anche a far applaudire le lunghe
declamazioni del poema drammatico di Sem, che fanno rimpiangere
anche la noiosa novella del Grazzini saccheggiato dall'autore. Il
Tempesti, che è l'attore benelliano per eccellenza, e nel
quale la vuota declamazione è diventata abito artistico,
continua stasera a prodursi nel Napoleone del Pelaez d'Avoine e si
completerà con la Morte civile di Pietro Giacometti.
(28 settembre 1916).
«Le due sponde» di Poggio all'Alfieri. Commedia
piccolo-borghese a tesi. L'autore polemizza nientemeno che con
Giorgio Ohnet per ciò che ha voluto dimostrare nel Padrone
delle ferriere. E drammatizza un fatto diverso, in cui le persone
rivestono caratteri rappresentativi di classe. La tesi è
banale tanto quanto quella del romanzatore francese. Le due sponde
sono l'aristocrazia e la borghesia, fra le quali sarebbe impossibile
gettare un qualsiasi ponticello sentimentale, senza crisi e disastro
a breve scadenza. Le persone sono naturalmente scelte bene: una
marchesina pettegola e capricciosa e un ingegnere lacrimoso, figlio
di un non meno lacrimoso repubblicano che riesce a far entrare in
ogni cosa i santi principî. Noiosi tutte e tre, e determinanti
una vita comune cosí noiosa da non trovare nell'adulterio che
la piú aspettabile delle soluzioni. L'ultima scena, in cui
dalle labbra del vecchio scocca una parola a effetto sicuro,
«sgualdrina», rivolta a una donna che è per
l'autore solo un'aristocratica, ha salvato l'intiera commedia dalla
caduta altrimenti immancabile.
(29 settembre 1916).
«Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano.
Quando Alfredo De Sanctis presentò per la prima volta questo
lavoro di un giovanissimo scrittore polacco, da qualcuno fu fatto il
nome di Shakespeare, come punto limite di riferimento critico. Ma si
è ben lungi dalla rivelazione clamorosa di un genio
drammatico, e si è specialmente ben lungi dalla
giustificazione della levata di scudi tentata da qualche altro
contro il crudo realismo dell'autore. Il quale pone sulla scena un
bordello, e gente da bordello. Ma senza esagerare, con molte
cautele, come sfondo scenico e morale piú che come macchina
drammatica intimamente necessaria.
Il dramma è nella coscienza del vecchio ebreo Jankel
Scepsiovitische; egli è riuscito a salvare nel naufragio
della sua vita di speculatore del piacere almeno un sentimento,
elementarmente umano: l'amore per la figlia, dalla quale il suo
spirito intimamente religioso aspetta la redenzione. E il dio della
sua razza lo punisce in questo amore, in questo residuo di
umanità. La vergine è avvelenata dall'ambiente
vizioso: l'esempio della madre, il contatto con donne della casa
hanno pervertito il suo spirito, e senza rivolte, senza ribellioni,
naturalmente, ella cade in peccato. I tre atti non sono molto
complessi, né molto densi di drammaticità. Un solo
carattere rigidamente scolpito e profondamente vissuto: il vecchio
padre. In lui si esaurisce l'azione. La materia putrescente della
casa di tolleranza è presentata rivestita di un blando
romanticismo di maniera, senza troppe parole, è vero, anzi di
una scheletrica rappresentazione che in qualche momento impressiona,
ma anche senza una giustificazione intima. La lotta è tra
l'ebreo Jankel che crede, e il vecchio dio che travolge la sua
credenza, ricacciandolo nel fango. Alfredo De Sanctis ha posto bene
in rilievo questo unico carattere del dramma: l'ultima scena, della
rivolta del vecchio contro l'implacabile Jehova, è stata un
vero trionfo per l'attore che nella sua misura e correttezza
è stato di una efficacia stupefacente. Un altro attore si
è fatto notare: il Bissi, nei panni di una figurina
umoristica del mondo ebraico, sbozzata con vivacità e
completa di vita rappresentativa.
Il dramma ha conquistato lentamente: ma si è imposto per
ciò che in esso è di vitale. L'ultima scena, la scena
culminante dell'azione, ha procurato agli attori cinque o sei
chiamate.
(21 ottobre 1916).
«Robespierre» di Sardou al Carignano. Un dramma inedito
di Sardou, e su Robespierre. Teatro affollatissimo; il pubblico
s'interessa vivamente alle produzioni teatrali che ricostruiscono un
periodo storico, che promettono la ricostruzione completa, con
persone vive e parlanti, di un periodo storico che impressiona
vivamente anche nella narrazione impersonale, in cui gli avvenimenti
sono logicamente ordinati secondo il principio di causalità,
e i singoli perdono molta parte della loro individualità
attiva, e appaiono solo per ciò che di fattivo hanno creato e
lasciato. Ma il dramma di Sardou, a parte l'elemento artistico
completamente assente, non ha mantenuto nessuna promessa. Il
Robespierre della storia dà solo il nome al lavoro; di
ciò che è la sua personalità di rivoluzionario
non è dato nulla, se non una melensa rappresentazione di
terrore dei morti, delle ombre dei decapitati. Sardou immagina
attorno a Robespierre un dramma dei soliti: il dramma della
paternità violentata. E costringe la storia entro questa sua
trama: Massimiliano, nei giorni del terrore, ritrova un figlio
natogli da una aristocratica, e lotta per salvare dalla ghigliottina
il giovane e sua madre. Ma l'odio e la paura che egli ha seminato
intorno a sé tendono continuamente agguati al suo sentimento
paterno, e come supremo oltraggio, armano la mano del figlio contro
il padre. Ma l'abile sceneggiatore francese non riesce a far
dimenticare il Robespierre ormai fissatosi nelle coscienze
attraverso la storia: il dramma che egli escogita per cercare
effetti sensazionali, rimane una superficiale successione di scene e
di dialoghi, che dovrebbero apparire drammatici per il protagonista
quale storicamente è conosciuto, e il quale è invece
completamente svuotato della sua piú vera e concreta vita,
quella di rivoluzionario. Cosí i cinque atti e due quadri
passano nella loro puerile e convenzionale meccanicità
teatrale, applauditi mediocremente e finiscono nell'ultima scena,
quella del parricidio, senza che quest'ultimo colpo riesca
piú a scuotere e commuovere. Sardou ha fatto violenza alla
storia, ha posto in iscena un Robespierre di sua invenzione, che
avrebbe dovuto essere piú uomo e meno personaggio; ma non ha
saputo crearlo, quest'uomo, e ne è venuto fuori un fantoccio
ridicolo.
Alfredo De Sanctis ha molto contribuito con la sua arte, a tener su
il lavoro, ma molto spesso anch'egli, per la refrattarietà
della materia, è stato convenzionale.
(29 ottobre 1916).
«La nemica» di Niccodemi al Carignano. Dario Niccodemi
si è costruito un mito teatrale. Ed esso serve a spiegare in
gran parte il successo spettacoloso dei lavori del fortunato
scrittore italo-francese. Viene da ripensare alle idee di Riccardo
Wagner sul dramma musicale, e al suo rifugiarsi nella mitologia
medioevale germanica, per poter dare il massimo di realismo poetico
alle creature della sua fantasia, per rendere piú
sostanzialmente suggestiva la sua musica, trasportando l'uditorio in
un mondo soprannaturale, nel quale il linguaggio musicale sia
immaginato possibile e naturalissimo. Ma ciò che nel Wagner
è ricerca affannosa di maggiore sincerità fantastica,
nel Niccodemi è mezzo di successo. Il suo mondo mitologico
è l'aristocrazia; il pubblico che affolla i teatri e rende
redditizia la professione di scrittore drammatico è la
piccola borghesia. L'insincerità di Dario Niccodemi cerca la
sua giustificazione, cerca di rendersi naturale e possibile
mitizzandosi. Una idea morale, elementarissima, o che riesca a far
presa subito sul pubblico sentimentale, pronto a commuoversi e a
diventare salice piangente, diventa sostanza di dramma non per forza
propria, per la sua profonda umanità, ma perché serve
di cauterio e distacca due classi, due concezioni quanto mai
fittizie e artificiali: quella aristocratica e quella
piccolo-borghese. Gli urti che ne derivano, i discorsi che è
possibile far fare, le predichette, tutta la cattiva letteratura
degli scrittori sociali del basso romanticismo francese come Eugenio
Sue, o Dumas figlio, si dànno accolta e toccano il cuore, e
strappano l'applauso. Cosí nell'Aigrette, cosi in questa
nuovissima Nemica. La ficelle è sempre la stessa. Nella
Nemica la macchina è anche piú complicata, e i
precordi vengono piú violentemente scossi. Roberto di
Nièvres è odiato da sua madre; una fanciulla che lo
ama, la figlia di un notaio che vorrebbe diventare duchessa,
respinta da lui, gli rivela un mistero: Roberto è figlio di
un amore colpevole di sua madre, è un intruso, che ha
usurpato al secondogenito la ricchezza, il titolo, tutte le fortune
e i sorrisi della vita. L'anima medioevale della madre odia in lui
la colpa, l'usurpazione. Grande colpo. Il Niccodemi aveva
evidentemente su questa deviazione feudale dell'animo di una madre
impostato il suo lavoro. Altrimenti non si capirebbe il personaggio
del notaio Regnault, depositario di tutti gli scandali aristocratici
e che è introdotto a posta per preparare l'urto tra madre e
figlio. Ma nel secondo atto il dramma si complica e raggiunge il
colmo del successo esteriore.
Nella scena culminante Roberto viene a sapere che Anna di
Nièvres non è sua madre affatto, che egli è un
figlio naturale del duca morto. La rivelazione della figlia del
notaio non era esatta, ma è servita magnificamente per la
progressione degli effetti. Nel terzo atto lo scioglimento è
coordinato con la guerra. Roberto e suo fratello Gastone vanno a
combattere: Gastone muore, e l'ultima sua parola «mamma»
riallaccia i legami tra Roberto e Anna di Nièvres; Roberto
ritrova una madre. L'effetto era sicuro, e il successo fu grande,
anche per la buonissima interpretazione della compagnia Di
Lorenzo-Falconi. L'analisi fatta in principio è l'unica che
si possa fare: bisogna giustificare il successo, poiché non
lo si può spiegare con ragioni che interessino da vicino
l'arte.
(9 novembre 1916).
«La madre» allo Scribe. Una famiglia di provincia.
Padre, madre e un figlio di trent'anni. Dissidio fra i coniugi: il
signore ha sedotto una domestica e ne ha avuto un figlio di ormai
venti anni, e la signora dopo questo tradimento coniugale si
è chiusa nel suo orgoglio di moglie ferita e nell'amore della
legittima prole. Siamo in piena guerra europea e all'inizio della
guerra italiana; la terza categoria del 1885 non è stata
ancora chiamata. Vittorio, il legittimo, che ha letto molti articoli
della «Gazzetta» e se ne serve con molto vigore nelle
conversazioni e nelle discussioni, non vuole attendere e si arruola.
La fidanzata lo ammira, ed è fiera di lui, il genitore e il
futuro suocero anch'essi; la madre, Clara, no, e ci vuole tutta una
rievocazione di carta stampata per convincerla a fare la madre
spartana. Al secondo atto scoppia il dramma, Vittorio si incontra al
fronte con Pietro, il fratello naturale di cui ignora l'esistenza, e
un misterioso fluido li avvicina, li affratella: quando si dice la
voce del sangue!... Pietro è gravemente ferito; suo padre
è disperato e non può dimostrare il suo dolore per non
colpire la suscettibilità di sua moglie. Ma questa, nel
dolore, si è purificata; ogni orgoglio umano è caduto.
Si riavvicina al marito, incomincia ad amare attraverso suo figlio,
l'altro, l'intruso, e perdona e piange e tutti piangono, e gli animi
di tutti sono diventati una dolcissima marmellata che fa piangere di
consolazione tutti come tanti vitellini. E Vittorio muore,
gloriosamente, mentre Pietro ritorna, anch'egli riabilitato del suo
giovanile sovversivismo, e la domestica traditora, sua madre,
rientra nella casa dei suoi antichi padroni, e Pietro descrive,
proprio come un inviato speciale, la presa di Gorizia, e la morte
del suo amico, e un nuovo alito di bontà spira su tutti i
cuori, e ci si sente tutti rimminchioniti per tanta dolcezza, per
tanto candore, e si ringrazia il buon Dio che da tanto male, tanto
bene ha saputo trarre, irrorandone i cuori, facendo di questi
altrettanti vasi d'elezione.
Il teatro non era molto affollato: il successo esteriore fu
notevole. La commedia è presentata con abilità. La
declamazione fatta in dialetto, perde una gran parte della sua
retorica: e del resto nel lavoro non tutto è retorica, e
qualche piccola scena è realmente efficace. Tra i personaggi
di contorno c'è un alpino gianduiesco, volgarmente e
popolarescamente eroico, reso con tutta la volgarità
possibile da Mario Casaleggio, tutto da ridere. Cosí la
mozione degli affetti è completata, e l'anonimo autore che
abilmente si è saputo servire del materiale emotivo
d'attualità, è stato ampiamente premiato delle sue
fatiche: cinquecento lire, una medaglia d'oro e il cumulo di
pettegolezzi e di ipotesi sul suo anonimo. Quanto basta per rendere
felice un letterato anche se dialettale.
(12 novembre 1916).
Armando Falconi. Non so se Armando Falconi sia, come si dice nel
gergo dei cronisti teatrali, un figlio dell'arte. Non sono uno
schedaiolo della cronaca, un documentario, e mi manca la pezza
giustificatrice in proposito. Ma, del resto, ciò poco
importa. L'atto di nascita non spiega molto, in fondo, sulle
qualità di un individuo. Conoscere l'ambiente in cui un
carattere si è formato, spesso non serve ad altro che a
trarre in errore. Ciò che importa è accertare se
questo carattere esiste veramente, e quale ne è il peso
specifico, la individuazione specifica. Trattandosi di un attore
drammatico, ciò che importa è accertare se egli da
attore è diventato artista, se veramente la sua
umanità si distingue da quella degli infiniti altri mortali
per la capacità di ricreare gli individui concreti che la
fantasia degli scrittori crea, per la capacità di dimenticare
in questa ricreazione se stesso come tal dei tali, per assorbire,
assimilare ed esprimere integralmente tutti quegli elementi di
individuazione concreta coi quali lo scrittore ha realizzato la sua
intuizione drammatica. Ma come esistono pochi uomini che siano dei
caratteri dal punto di vista morale, cosí esistono pochi
attori che siano artisti, cioè caratteri dal punto di vista
della vita artistica. Il dolersene sarebbe perfettamente inutile: e
il far credere il contrario può esser solo compito
dell'ipocrita cortigianeria giornalistica, che di ogni villan che
parteggiando viene, fa un Marcello (esempio recente Antonio
Salandra) come di ogni istrione che dirige una compagnia e sa condur
bene i suoi affari, fa un Salvini o una Ristori.
Con ciò non si dice che anche gli altri non siano necessari,
e in quanto esplicano un compito necessario, non siano rispettabili.
Bisogna però rimetterli al loro posto, ecco tutto, e avere
una coscienza chiara del loro valore, e della loro attività.
Ciò per tutte le espressioni di vita, quella morale come
quella artistica. E questi altri si possono classificare, dividere
in categorie, perché la loro persona si confonde nel grigio
di una collettività, le loro caratteristiche non riescono a
farli emergere dalla folla di simili, il loro vario atteggiarsi
costituisce una serie, precisamente come avviene nella industria
meccanica. Sono sempre la stessa ruota, la stessa valvola, lo stesso
bullone, che può applicarsi indifferentemente a un centinaio
o a un migliaio di macchine diverse. La serie per gli attori
drammatici si chiama ruolo: e il ruolo al tempo della commedia
dell'arte, si chiamava maschera. Ciò che nel gergo dei
cronisti teatrali si chiama figlio dell'arte, non è che la
espressione moderna di un fatto di un antico passato: figlio
dell'arte vuol dire maschera. Ecco perché ho incominciato
domandandomi se Armando Falconi apparteneva anche per lo stato
civile a questa rispettabile categoria. Perché, anche se per
avventura, il suo albero genealogico fosse bianco per questo
rispetto, egli non apparterrebbe meno alla categoria. Egli che si
è fatto una maschera della comicità; una maschera,
cioè qualcosa di inarticolabile e di immutabile: qualcosa che
solo casualmente diventa espressione, perché casualmente la
smorfia continuata può anche essere espressione di una vita,
ma che altrimenti non è che smorfia, che trucco esteriore. Il
quale può anche piacere, può anche far ridere e
procurare il successo, ma non fa arte, non è un fatto
estetico, è semplicemente un fatto commerciale. Necessario,
in quanto anche la produzione drammatica è in grandissima
parte un fatto commerciale, e perciò rispettabile. Ma il
rispetto non può cambiarsi in ammirazione, e tanto meno in
ammirazione per un altro fatto che non esiste. Pensateci bene e
vedrete che ho ragione. Come ho avuto ragione a fare delle
digressioni, poiché dovendo parlare di un fatto che non
esiste (Falconi artista) ho dovuto fare delle premesse che
togliessero alla conclusione ogni apparenza di malignità e di
ipercritica.
(8 dicembre 1916).
«... e chi vive si dà pace» di Novelli al
Carignano. Una rappresentazione vivace e colorita di un piccolo
mondo di campagna, che vive gagliardamente la sua piccola vita,
senza sottilizzare intorno a essa, senza smarrirsi nell'autoanalisi
esasperata. Rappresentazione, non inquieta morale e psicologia
dialogata; perciò arte, anche se i momenti in cui essa si
afferma in valori definitivi, non siano troppo numerosi. O piuttosto
esperimento, tentativo artistico, nel quale si rivelano le
possibilità di una piú congrua solidificazione
complessiva. Lo spunto è tenue e semplice. È la storia
di un uomo che dopo la morte di sua moglie, si rifà una casa
ritrovando nella donna di servizio la compagna che gli è
necessaria per riempire la solitudine. Si arriva alla conclusione
attraverso una serie di quadretti, sbozzati con abilità e
sicurezza, cui dànno colore oltre che la bonaria sete di
vivere del protagonista, la malizia gaia della donna, o gli intrighi
di una madre che vorrebbe accasare la sua figliuola e l'intervento
di un amico di casa che postilla col suo sorriso paesano lo
svolgersi degli avvenimenti e l'adattamento graduale alle
necessità della vita del vedovo, che subito dopo la morte
della moglie diceva di volersi persino ammazzare.
Il Novelli ha trovato nella compagnia Di Lorenzo degli interpreti
efficacissimi per il suo lavoro. La Di Lorenzo, il Falconi e il
Biliotti hanno dato il massimo risalto ai personaggi, coadiuvati
ottimamente dagli altri. Gli attori e l'autore furono molte volte
chiamati alla ribalta.
(15 dicembre 1916).
«Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe. Non sono poche le
disgrazie che hanno afflitto la memoria e il nome dello statista
piemontese. Da quelle procurategli dai suoi sedicenti continuatori
in politica, alle piú recenti che hanno tratto la figura di
Cavour a calcare le scene nelle truccature degli attori degni e
indegni a seconda del caso. G. B. Ferrero nei suoi cinque atti ha
recato l'estremo oltraggio allo statista; l'ha rimpicciolito a
macchietta regionale, a macchietta dialettale, e Mario Casaleggio ne
ha assunto la parte, con quella serietà di intendimenti che
poteva aspettarsi da un istrione della sua fatta. Cinque atti, un
autore dialettale, Mario Casaleggio! E non esiste nessun nume che
preservi le figure storiche rispettabili da questi oltraggi degli
ammiratori da strapazzo!
(20 dicembre 1916).
Tina Di Lorenzo. Esiste un pregiudizio, ancora radicato in molti,
sebbene battuto in breccia dalla categoria degli uomini che pensano.
Per esso si classificano gli uomini e li si giudica a seconda dei
caratteri comuni che essi mostrano di avere tra loro. Si segue
precisamente il criterio proprio delle scienze naturali, che devono
classificare le piante e gli animali e non possono farlo che a
seconda delle forme appariscenti alla superficie di questi esseri.
Ma la classificazione non è precisamente la forma di
conoscenza che deve adottarsi con gli uomini, né il riuscire
a fissare dei tipi (serie di esseri simili rappresentate da
esemplari che ne sintetizzano le caratteristiche) è una forma
di giudizio. Perché negli uomini, che noi possiamo studiare e
conoscere anche nelle loro qualità individuali, ciò
che piú interessa è precisamente l'individuo e il
complesso di doti che lo fanno inconfondibile nella specie: che lo
rendono insostituibile da qualsiasi altro esemplare della sua
specie. Se ciò si può dire degli uomini in genere (e
ogni uomo, anche il piú comunemente detto comune, ha qualcosa
che lo rende in sé interessante) si deve dire specialmente di
quel certo numero di essi che estrinsecano la loro attività
attraverso forme di vita in cui la fantasia creatrice ha il
predominio assoluto sulla logicità. Se la logicità
può ancora dare modo di stabilire delle categorie (scuole,
costumi, ecc.) la fantasia non è che prettamente individuale.
E gli attori di teatro, quando sono artisti, sono appunto di questo
numero di individui. E Tina Di Lorenzo è di essi.
Perciò non può essere classificata neppure in quella
categoria, lusinghiera apparentemente, dei grandi. Perché
dire grande vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a
dei confronti, classificare. E invece l'artista non è grande
o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio
può essere rivolto solo alla osservazione del come lo sia,
può essere rivolto a stabilire il come si svolge questa sua
particolare attività, che è tutta lui, che è
ciò che ci interessa. Cogliere l'attimo vivo, abbandonarsi al
fluire di questa vita, e risentirla in sé come qualcosa di
solidamente compatto, che si impone all'ammirazione, che ci domina
in quel momento, come fosse tutto il mondo, il solo mondo esistente.
A noi basta affermare nella Di Lorenzo l'esistenza di questa
attività fantastica. Essa si afferma concretamente ogni
qualvolta il lavoro da interpretare le dà la
possibilità di ricreare una donna che veramente abbia vita.
La Di Lorenzo riesce a calarsi nel suo animo, a intenderne la
necessità psicologica, e diventar lei.
Ogni opera drammatica è una sintesi di vita, è un
frammento di vita. L'artista deve continuare il lavoro fantastico
dell'autore. Nella sintesi, nel frammento deve sentire la
continuità, l'accessorio, l'alone che circonda la luce,
ciò che è vita diffusa, ma sentirlo in relazione
all'esistente creato dall'autore, sentirlo come lo sentiva la
fantasia dell'autore quando scriveva quelle tali parole.
Perché dovendo dare vita fisica, reale persona alla bocca che
pronunzia quelle parole, deve creare un accordo, un'armonia, solo
dalla quale scaturisce la bellezza. E questa bellezza scaturisce
dalle interpretazioni della Di Lorenzo. E la suggestione è
accresciuta da altri fattori. Principalissimo un fascino speciale,
diffuso in tutti i momenti dell'attività dell'artista, che
riesce a incatenare l'attenzione anche quando la materia sorda,
imposta dalle necessità pratiche della professione e del
mercato, non le permette un lavoro definitivo di creazione. È
un fascino difficile da definire, difficile perché il costume
non libero dai pregiudizi della morale volgare, dà apparenza
di volgarità a ciò che non è certamente tale
che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si
esprime con la parola banale di femminilità.
Ma non è possibile nella cronaca fare piú che delle
affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare
l'osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare
un po' la loro retina da certi pregiudizi.
(22 dicembre 1916).
«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri. Cerchiamo
invano in questi nuovissimi tre atti dialogati di Roberto Bracco un
punto di appoggio, una giustificazione delle parole e dei gesti che
sentiamo dire e vediamo fare dai personaggi. Il dialogo si esaurisce
in se stesso, è solo vuota declamazione, i gesti sono solo
irritazione di muscoli motori, non segni fisici di un linguaggio
interiore. I tre atti sono un susseguirsi disorganico e disordinato
di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti
pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la
fantasia dell'autore riesca ad attuare la sua intenzione
rappresentandosela in una azione concreta e avvincente. Sentiamo che
questa intenzione è diffusa blandamente in tutte le parole,
le discussioni, le declamazioni retrospettive, e passiamo di
illusione in disillusione, sempre in attesa che la sfinge riveli il
suo enigma, e convincendoci infine che la sfinge è solo una
larva di stucco e non racchiude alcun enigma. L'esposizione
dell'intreccio può perciò dare solo un'idea di questa
volontà che non ha trovato uno sbocco. Il dramma avrebbe
dovuto scaturire dall'urto di tre personaggi. Una giovinetta,
Mirella, che nel primo atto sembra debba promettere tutta una serie
di impressioni vive e liete di colori sgargianti, ma che in seguito
si affloscia e diventa una figura lattiginosa, dolciastra, senza
anima. Due uomini: Luciano D'Alvezza, un gaudente, un amorale, un
conquistatore di donne, che affoga negli imbrogli e per liberarsi
dal fango che sta per sommergere il rudere del suo blasone
marchionale, va volontario alla guerra, ma non senza aver cercato
all'ultima ora di usare violenza a Mirella. E Michele, contraltare
di Luciano, lavoratore indefesso, volontà e costanza di
ferro, il quale si innamora di Mirella, si promette a lei, crede per
un momento di aver costruito definitivamente la magione austera
della sua felicità. Il lavoro, che a mala pena era riuscito a
puntellarsi fino a questo punto, precipita definitivamente
nell'incognito indistinto. I rimasti, Mirella e Michele sono ormai
solamente dei bambocci-fonografi. Dalle parole che si scambiano
dovrebbe apparire come qualmente Mirella è preda di una
fatale passione per il lontano eroe che muore al fronte per una
salva di aggettivi, e come qualmente Michele non vuole usurpare nel
cuore della donzella il posto che il lontano amante vi ha preso. La
fine cosí verbosamente impiastricciata ha suscitato qualche
sibilo e molte proteste. Gli ottimi artisti della compagnia di Luigi
Carini, che avevano preparato un'interpretazione degna di un bel
lavoro, non potevano che far apparire mortificate le loro
qualità.
(29 dicembre 1916).
«Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri.
Il cartellone della compagnia di Luigi Carini annunzia la prossima
ripresa del Matrimonio di Figaro, cinque atti del Beaumarchais. La
vecchia commedia è stata già applaudita l'anno scorso
nella efficace interpretazione che la stessa compagnia offrí
al pubblico torinese in un altro teatro. Ne facciamo cenno ai nostri
lettori per due motivi. La commedia del Beaumarchais è una
autentica opera d'arte, e per chi vuole affinare il proprio gusto
niente vale di piú dell'accostarsi simpaticamente a un
capolavoro genuino, integrale, in cui ogni parola, ogni atto, ogni
personaggio ha intensa vita artistica, in cui non si bada
all'effetto, al successo, ma la sincerità e la
spontaneità sono qualità precipue. E la commedia del
Beaumarchais è documento storico di primo ordine. Essa mostra
in azione, vivente di immortale bellezza, la società francese
prerivoluzionaria. I rapporti sociali, le condizioni di alcune
categorie di individui, i costumi, le idee dominanti appaiono nella
loro realtà dinamica, materiate e concrete nella vita
vissuta, soffuse di una gioconda gaiezza, vivificate da una ironia
profonda e corrosiva. I cinque atti, per l'efficacia culturale, sia
storica che artistica, equivalgono a un intiero corso di conferenze
e a qualsiasi profondissima disquisizione sull'essenza dell'arte.
(4 gennaio 1917).
«L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona
Traversi al Carignano. La compagnia Borelli-Piperno ha già
presentato due esumazioni del teatro italiano quasi contemporaneo.
L'ondina di Marco Praga e Le Rozeno di Camillo Antona Traversi. Due
lavori pleonastici, che hanno rivissuto e rivivranno per alcune sere
di quella effimera vita alla quale erano destinate. Che ci fossero o
no, a nessuno era importato finora e a nessuno importerà per
l'avvenire. La necessità di variare il solito menu, ora che
la guerra impedisce la superproduzione di novità francesi, le
ha fatte rispolverare, e il ristabilirsi in equilibrio della
bilancia le farà riscomparire. La commedia del Traversi
è la piú massiccia e pesante delle due. È una
macchinosa concezione che si fa tiepidamente applaudire
perché costruita su uno dei motivi sentimentali di piú
facile presa: la maternità che mantiene puri i suoi affetti
anche attraverso la putredine dell'ambiente sociale e familiare.
Accoglienza glaciale ai primi due atti; e stentati applausi agli
ultimi due.
(4 gennaio 1917).
Luigi Carini. Il carattere si rivela nell'individuo attraverso una
serie di atti intimamente omogenei, quantunque distinti l'uno
dall'altro per la coloritura occasionale determinata dalla
spontaneità. Studiare un carattere vuol dire quindi rivivere
questi atti singoli, trovare per ciascuno di essi il particolare
fremito di vita fisica che meglio risuoni col loro significato
spirituale, e nel distinto comprendere l'omogeneo, nel tortuoso
zig-zag dell'azione trovare la linea dorsale che unifichi l'azione
stessa in una personale vita. Nell'opera artistica di Luigi Carini
l'osservatore attento sorprende facilmente i mirabili risultati di
un simile lavoro di critica sottile. Ma carattere non vuol dire
gesto eccezionale, o, almeno, solo gesto eccezionale. Carattere
è invece piuttosto continuità; e la continuità
la si ritrova nei piccoli atti piú che nei grandi, nei
piccoli episodi, piú che nelle grandi situazioni drammatiche.
Le possibilità d'arte di un attore si misurano in questa
continuità, nella capacità che egli possiede di dare
impronta omogeneamente distinta a una continuità di piccole
cose. Questa capacità esuberante dà a Luigi Carini un
posto ben distinto nella storia dell'arte di teatro. Essa gli nuoce
un po' nella conquista dei grandi successi. Perché di solito
si rimane estasiati di fronte alle congestioni muscolari e sanguigne
degli atleti da cinematografi, mentre la forza serena e tranquilla
fa rimanere un po' freddi. Ma il torto è di chi va in estasi
o rimane freddo, non dell'uomo forte. La grandiosità
apparente di una grande mole riempie la pupilla senza eccitare la
fantasia. Il minuto lavoro del cesellatore, compiuto nei
particolari, eccita la fantasia dopo aver occupato la pupilla, ma
deve essere studiato con serietà, si rivela nella sua
perfetta bellezza solo agli spiriti che se ne sappiano rendere
degni. Bisogna accostarsi con simpatia benevola, e con l'arco
dell'attenzione ben teso. Cosí come bisogna fare per le
interpretazioni del Carini. E non già che egli non sappia
montare le situazioni fortemente impressionanti e non sappia
raggiungere gli acuti e spasmodici culmini della
drammaticità. Ma da artista che sente la dignità
dell'arte sua, non abusa di queste droghe piccanti. E si tiene nei
limiti dell'umanità normale, riuscendo lo stesso, e anzi
piú efficacemente, a far risentire l'angoscia piú
profonda e la gioia piú spirituale. La
congestionabilità non rompe affatto la monotonia, né
il volume è grandezza. Un bassorilievo di Donatello è
meno monotono della piazza di S. Pietro con tutte le sue enormi
fughe di enormi colonne e il mostruoso volume dello spazio occupato
nella superficie del mondo e nell'orizzonte del cielo. Il ritmo
dell'uno è piú incalzante e piú vario del ritmo
della seconda, e contiene un numero maggiore di momenti di
intensità espressiva. Si pensa a tutto ciò ascoltando
sulla scena il Carini, seguendolo con attenzione raccolta nel suo
sempre vario atteggiarsi, che è volta a volta però un
atteggiarsi unitario, e vedendo come il lavoro critico di
riflessione sulla parte assunta diventi spontaneità,
ingenuità nel migliore significato di questa parola. Sono
mezzi espressivi molto semplici nell'apparenza, ma che rivelano un
lavoro delicato e sottile di scelta, una padronanza sempre vigile
anche quando l'abbandono è massimo.
Sono queste qualità che permettono al Carini di assumere ed
esprimere con intensità pari delle parti disparate per il
contenuto sentimentale. Figaro nella commedia del Beaumarchais o
Claudio nella Moglie del Dumas: il gaio amatore di novità che
è lodato dagli uni e biasimato dagli altri, che ride degli
sciocchi e sfida i malvagi, che ride di tutto per paura di essere
obbligato a piangere, e lo scienziato umanitario, l'inventore di
armi sempre piú perfette che con la perfezione dei mezzi
distruttivi tende all'instaurazione della pace universale e uccide
la moglie viperina non per i suoi tradimenti coniugali, ma
perché tradisce la patria. Due uomini, pertanto nella loro
antipodica costruzione, e che dànno all'attore la stoffa
necessaria per interpretazioni nutrite di elementi espressivi pieni
di finezza e aderenti perfettamente a degli individui di carne e
ossa.
Il Carini è del numero di quei pochi attori che fanno amare
il teatro e che non abbassano la loro arte al livello del circo
equestre e dello schermo cinematografico. E a lui perciò
abbiamo voluto, con queste linee, fare omaggio.
(16 gennaio 1917).
«Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano. Sacha
Guitry, oltre che uno scrittore di teatro, è anche un uomo di
spirito. I suoi lavori, oltre che opere d'arte, piú o meno
perfette, piú o meno compiute in tutto il loro svolgimento,
si distinguono per la genialità inventiva dell'autore. Sono
piccole cose dal punto di vista dell'intreccio esteriore e della
complicazione psicologica. L'autore fa dire ai suoi personaggi che
la vita non è complicata che per coloro i quali da lontano
vedono solo i momenti culminanti di essa, e questi accumulano in
breve spazio di tempo fingendo cosí una condensazione che
nella realtà non esiste. Pertanto nelle sue commedie, come in
questa, rappresenta dei momenti di vita in cui l'azione fisica
è sostituita da una azione interiore che è segnata dai
singoli trapassi di stato d'animo, e siccome questi si concretano
ordinariamente, per l'individuo isolato, nella riflessione
monologata, cosí due atti di Facciamo un sogno! sono parlati
da un personaggio, e i personaggi dei quattro atti sono solamente
tre, la moglie, il marito e l'amante. L'azione è solo
trapasso di stati d'animo, questi culminano in due o tre
osservazioni spiritose e si cullano in una atmosfera di parole, di
frasi, di periodi sempre vari e scolpiti solidamente in un poliorama
interiore dello spirito individuale. Teatro d'eccezione? Teatro che
non si può sunteggiare, ma che è vivo lo stesso, e non
stanca, e sa farsi applaudire, ed è preferibile al solito
guazzabuglio macchinoso, sia la macchina una psiche, o sia una
garçonnière a doppio fondo.
(19 gennaio 1917).
L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs
d'mia fômna» di Leoni). Giacomo Albertini, assessore
dello stato civile, quando esercita le sue funzioni di cozzone di
matrimoni in teatro, si chiama Mario Leoni. E rimane sempre in
carattere. Lo stato civile, reparto matrimoni, gli dà
l'ispirazione, gli suggerisce i motti di spirito sulla
felicità coniugale, sulle miserie della vita coniugale, sulle
speranze della vita coniugale. Scrive in dialetto, per la compagnia
di Dante Testa, al Rossini: e il dialetto è ricco di arguzie
ridanciane, di osservazioni profonde e melanconicamente pungenti
sullo stato civile, reparto matrimoni. Mario Leoni di esse ne ha a
disposizione un sacco e una sporta; il suo tirocinio di assessore
gliene deve aver fatto sentire delle carine, dette con quella
bonomia che è propria dell'arguzia piemontese. Il successo di
questa nuova commedia è stato solo un successo di arguzia
dialettale. 'L môrôs d'mia fômna sono tre atti che
non hanno nessuno dei pregi che di solito fanno applaudire le
produzioni di teatro. Imbastiti frettolosamente, sconnessi, tardi e
stentati nello sviluppo dei motivi, sono però ricchi di
metafore dialettali, semplici, non ghiribizzose, che hanno facile
presa sull'anima dello spettatore e gli strappano la risata franca e
cordiale senza sottintesi e senza sforzi di elaborazione.
'L môrôs d'mia fômna è il nomignolo
amichevole che Deodato Fragolini dà all'on. Ferlingotti, un
affarista volgare che vorrebbe sposarne la nipote Erminia. L'on.
Ferlingotti ha moglie, anzi ha due mogli, una sposata in chiesa,
l'altra in municipio, e le ha abbandonate ambedue. Finalmente
rintraccia la seconda, che è dattilografa in casa Fragolini,
e con lei parte per l'Ungheria, e divorzia (l'assessore Albertini
è favorevole al divorzio, e questa sua commedia rientra nel
numero delle opere di teatro pro divorzio). Il viaggio clandestino
della dattilografa e dell'onorevole sconcerta tutta casa Fragolini.
La signora, bisbetica e piena di bizzarrie, infuria su tutti: il
giovane figlio, che è innamorato dell'impiegata, si dispera,
ma con giudizio; il padre, che non ha altro ufficio che di dire
delle scemenze amenamente ridicole, non è mai stato tanto se
stesso. Al terzo atto tutti i nodi si sciolgono: la dattilografa
rivela le sue vere generalità e riacquista la stima
universale; l'onorevole viene squalificato; la giovane Erminia sposa
un impiegato di suo zio e il giovane Fragolini sposa la signora
divorziata. Il sipario cala su un triplice idillio che deve aver
commosso teneramente i precordi dell'assessore.
I tre atti sono stati dalla compagnia di Dante Testa, resi con una
franchezza e una semplicità di interpretazione notevoli. Il
Testa e la Gemelli si sono fatti spesso applaudire a scena aperta.
L'autore è stato chiamato al proscenio una dozzina di volte.
(21 gennaio 1917).
«Piccolo harem» di Costa al Carignano. Ho sentito fare
da un operaio la migliore critica di questo lavoro. Sentimento,
passioni, ambiente arabo. Può tutto ciò essere
rappresentato in teatro, cioè col dialogo, con parole che non
raccontano e descrivono, analizzando, ma sono esse stesse quei
sentimenti, quelle passioni, quell'ambiente, in una lingua diversa e
tanto lontana da quella che può sola essere espressione
sincera del mondo che si vuol rappresentare? In questa domanda, che
il compagno elevava a criterio generale di giudizio, era contenuta
la sua insoddisfazione per il dramma del Costa. Del quale egli
comprendeva perfettamente le motivazioni, ammirava il lavoro
accurato di esecuzione e la compenetrazione dei vari elementi
drammatici, ma senza che per ciò gli sfuggisse lo squilibrio
tra queste motivazioni, questi elementi che possono essere di tutti
i luoghi e di tutti i tempi e la espressione particolare che
dovrebbero avere quando sono posti in un determinato luogo che ha
una determinata colorazione storica e folcloristica. E non gli
sfuggiva che questa espressione particolare risente dello sforzo di
una traduzione non ben riuscita, e risente di certe
prolissità e lungaggini e ridondanze figurative che forse si
avvertono solo per lo sforzo di contenere nella nostra lingua
ciò che in questa altrimenti sarebbe espresso.
Piccolo harem non è un dramma complicato. Oghzala è
un'araba algerina che, avendo conosciuto, anche superficialmente, la
vita spirituale della famiglia europea, non riesce piú ad
adattarsi all'idea musulmana di un uomo che ama nello stesso tempo
piú donne, senza pertanto che alcuna di queste possa
ritenersi diminuita nella stima di se stessa e esserne offesa nel
piú profondo della propria dignità individuale. Questa
ribellione all'harem però non diventa un superiore sentimento
di piú spirituale umanità; è solo un fatto
elementare, istintivo, che l'autore rappresenta in alcuni momenti
piú salientemente rappresentativi, e che prepara una
catastrofe violenta. Oghzala, l'araba cittadina, si disfà di
Mabruka, l'araba dell'oasi, tendendole un tranello, facendola
credere adultera con un trucco poco complicato: facendo bussare alla
porta di Mabruka il proprio drudo, l'uomo che è servito a lei
per avere il figlio che doveva servire a conservarle la predilezione
del marito.
Il dramma si sviluppa solo nel quarto atto; i primi tre sono
preparatorii. L'autore si accorge della difficoltà di porre
subito a contatto gli ascoltatori europei con un mondo esotico, e
per tre atti si sforza di suggestionarli, di condurli a comprendere,
a impadronirsi dell'animo dei suoi personaggi. E in questo
lavorío usa molte parole, molta riflessione che tolgono
efficacia al quadro e lo illanguidiscono, snaturando il carattere
delle persone che si sdoppiano, facendo opera di cultura nello
stesso tempo che devono agire.
Gastone Costa è al suo primo tentativo, e per tutta quella
parte in cui esso si è addimostrato vitale si è fatto
applaudire.
(25 gennaio 1917).
«La marea» di Hastings al Carignano. Felicita Schart
è stata, da giovinetta, resa madre da uno sconosciuto che ha
abusato della sua ingenuità e dell'ignoranza intorno alle
cose sessuali in cui i parenti l'hanno lasciata: un delitto della
cicogna l'avrebbe chiamato Franz Wedekind. Ma per l'autore inglese
non è questa ignoranza che diventa motivazione drammatica e
spunto a propaganda dialogata contro i pregiudizi dell'educazione
giovanile. Felicita Schart viene dai genitori, bigotti e per bene,
separata dal suo nato, e per sedici anni ne ignora il destino, ne
ignora persino il sesso. Questa violenza brutale rovina la giovine
donna, che precipita gradatamente in un abbrutimento morale e
fisico, dal quale solo un caso la risolleva. In una camera d'albergo
dove si era rinchiusa per uccidersi alla fine, sommersa dalla
amarezza della dissoluzione e del suo interiore rodimento materno,
incontra un medico che con la robustezza del suo senno la convince a
curarsi, promette di ritrovarle il figlio. Felicita Schart si
ritempra in piú d'un anno di vita selvaggia sulla spiaggia
del mare; la sua bellezza rifiorisce, rinasce l'amore della vita e
del piacere. Il dottor Stratton le fa incontrare sua figlia, senza
che nessuna voce istintiva le riveli la verità; anzi
l'istinto le gioca un atroce giuoco. Ella sostituisce sua figlia
nell'amore del fidanzato di questa, e la giovinetta Maisie apprende
chi veramente sia sua madre subito dopo che un odio atroce la ha
allontanata da lei. La messa in accusa dei pregiudizi sociali
diventa cosí completa. Essi sostituiscono nel dramma il
feroce destino delle antiche concezioni tragiche della vita. La
natura, la elementare natura che ha salvato già dal
precipizio la dissolventesi bellezza di Felicita Schart, interviene
anche ora. È la voce fragorosa della marea, è la
semplice voce di un umile J.-J. Rousseau, Jerry, un bastardo anche
egli, che dalla lettura dei libri e dalla solitaria contemplazione
delle forze irresistibili della terra trae una forza di convinzione
che appaga lo spirito di Maisie, la riconforta, e inizia la sua
nuova vita e le suggerisce le prime parole che dovranno
riconciliarla con sua madre. Su questi elementi è tessuto il
dramma dello Hastings. Ma la loro traduzione in arte non avviene
senza convenzionalità e senza sforzi. Il lavoro è
troppo spesso stentato, prolisso e risente di un lavorio riflesso
che ne vuol fare una dimostrazione logica esteriore alle persone,
piuttosto che un'intuizione di vita drammatica. Tutto è
prestabilito dalla volontà, gli elementi emotivi e passionali
sono sorpassati e sommersi da una necessità di propaganda,
che si fonde solo raramente con le necessità delle coscienze
individuali. E ne risultano ingenuità, cavillosità
urtanti, prediche noiose, colpi di scena di cattivo gusto. È
un puritano della natura e della semplicità, che combatte i
puritani della convenienza sociale, della moralità borghese e
pretesca, conservandone il tono e i metodi. Un convenzionalismo si
sostituisce a un altro convenzionalismo.
I primi tre atti furono applauditi, quantunque blandamente; il
quarto passò in silenzio. L'interpretazione si distinse per
merito del Piperno specialmente, e dell'Almirante, che sostenevano
le parti del dottor Stratton e di Jerry il bastardo, le due persone
piú vive di tutto il lavoro.
(1° febbraio 1917).
«L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri. Giuseppe Adami
costruisce i suoi tre atti su questo motivo: quali reazioni
sentimentali provoca l'avvicinamento di un grande uomo a un piccolo
mondo provinciale, materiato di piccoli fatti, di piccole anime
pettegole, di fanciulle che sognano il cavaliere della leggenda? E
l'Adami ha avuto il buon gusto di non fare del grande uomo la solita
creatura fatale, d'eccezione, che travolge nel suo cammino tutto e
tutti. Ha invece posto in iscena un uomo apparentemente uguale agli
altri, che se ne differenzia solo, come avviene di solito nella
vita, per l'alone fantastico che la sua fama ha creato intorno alla
sua persona, e per la maggiore tolleranza di fronte alla vita
vissuta che la piú rapida comprensione e intuizione degli
avvenimenti rende naturale in lui. Un essere normale, insomma, e non
la abusata caricatura del superuomo, che la comune degli scrittori,
non essendo essi stessi dei geni, non riescono a ricreare che come
caricatura. Paolo Varchi è l'uomo del sogno. Egli, piombando
all'improvviso in un ambiente provinciale, diventa nella fantasia
dei suoi ospiti e degli amici degli ospiti, il modello di
umanità cui tutti inconsciamente tendono, per l'ingegno, per
lo spirito pronto, per la tranquilla e serena placidità con
cui giudica tutto e tutti, e anche nelle piccole miserie della vita
trova un ritmo superiore, una bellezza che negli altri non appare
perché di quelle miserie sono le vittime e gli attori. Questo
suo differenziarsi dagli altri suscita il piccolo dramma dei tre
atti. Nella casa in cui è l'ospite occasionale, si svolge un
idillio. È naturale che la giovinetta, Carmine, paragoni i
due uomini che piú la interessano spiritualmente e per un
istante dia la preferenza all'uomo del sogno. Come è naturale
che Roberto, il fidanzato di Carmine, diffidi di questo fascino
intellettuale e diventi ingiusto, duro, grottesco, persino, almeno
apparentemente, nel suo rancore inconsiderato. Paolo Varchi è
però un grande uomo morale, e non abusa delle illusioni
fantastiche di Carmine. Dopo un attimo di abbandono, riprende la
padronanza di sé e rinsalda volontariamente l'iato prodotto
senza volerlo. Roberto si pente dei suoi grotteschi stati d'animo e
ritorna alla fidanzata, che all'immagine di cartone del sogno
preferisce di nuovo la realtà viva dei suoi piú
profondi sentimenti. Intreccio semplice e dimesso, che in
verità non trova un'espressione che non superi sempre la
mediocrità, ma che ha il pregio della semplicità e
della sincerità intellettuale, e della modestia. Ciò
che non è cosa che si incontri ogni giorno nel mercato
letterario.
I tre atti furono bene accolti, e molti applausi andarono
specialmente agli attori: il Ruggeri e la Vergani tra gli altri.
(7 febbraio 1917).
«Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano. Edmond
Rostand ha tirato fuori dal cassetto solo in questi ultimi tempi una
sua commedia: I due Pierrot, scritta negli anni giovanili. La
commedia doveva essere rappresentata appena composta, in un teatro
d'arte parigino, ma quando essa stava per andare in iscena,
morí Teodoro de Banville, il poeta poco noto ai piú,
che di Pierrot e delle sue avventure sentimentali aveva scritto
delicatissime filigrane, bozzetti scenici in cui il lirismo si
fondeva mirabilmente con l'azione, creando piccoli capolavori di
espressione linguistica perfetta. Edmond Rostand ebbe rispetto del
grande morto, e forse ebbe paura del paragone che non poteva
mancare. La sua rinunzia fu pertanto anche un atto di
probità. E Augusto Berta che della probità ha fatto in
tempi non lontani la divisa melensa della sua attività
letteraria, non ha esitato a presentarsi nella veste di umbra (i
latini con spirito chiamavano ombre i parassiti) di un grande. La
sua fregola di letterato mancato e deficiente si è sfogata
oscenamente su una creazione poetica collettiva che aveva ormai
trovato anche un'espressione individuale definitiva. E ha cucinato
sul disgraziato Pierrot un guazzetto disgustoso, che solletica i
cattivi istinti del pubblico ora con la piú volgare
galanteria da gabinetto riservato ora con un pruriginoso
sentimentalismo in versi martelliani in cui di poesia non c'è
che l'affermazione sazievolmente ripetuta di essere poesia. È
questa bassa volgarità versaiola che maggiormente offende il
gusto di chi ha letto il de Banville, questa piatta
gelatinosità in cui l'amore, la vita, la gelosia, i rapporti
sessuali, sono visti, concepiti ed espressi come si suole leggere
nelle pubblicazioni da caserma: «L'amore Illustrato», il
«Capriccio», o la «Sigaretta». È
seguíto il solito sistema della tricotimia simmetrica, dei
tre puntelli legnosi: le tre cene, come ieri erano le tre età
della pietra, del ferro e dell'oro. L'azione è nulla: Pierrot
prende moglie; Pierrot sta per essere tradito da sua moglie, Viviana
la fioraia, col marchese di Priola (altra dolciastra caricatura che
al brio e allo spirito di don Giovanni della commedia francese
sostituisce i palpeggiamenti postribolari sotto il tavolo); Pierrot
che uccide il rivale e poi muore avvelenato dai profumi di un fiore
orientale, per elezione spontanea. E su questi tre puntelli di
legno, quanta broda di lasagne, quale disgustoso innaffiamento di
loia raccolta con lo strofinaccio da tutti gli spurghi poetici della
letteratura a un soldo. Un vero bazar del cattivo gusto: una amena
giostra di sproloqui rimati, di scemenze triviali sul vecchio
repertorio dei motivi poetici. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno,
armati di colascione e travestiti da marchese di Priola, da Pierrot
e da Viviana, non potrebbero dire piú abusati luoghi comuni.
Ascoltando, il cervello continuava, per sollevarsi dal martirio, il
lavoro del poeta. Ad affermazioni come queste: – Chi è nato
all'aria aperta, non regge all'aria chiusa; – a rime come queste: –
paese e maionese, – gatto e cioccolatto – il mio cervello
contrapponeva fulgide immagini, che regalo al Berta per la sua
prossima tricotimia; – la vita è uno spiraglio – or sente di
mughetto, or puzza d'aglio – o – la vita è una sanguetta –
chi vuol cavarsi sangue, se la metta, – disposto a mandargli per
posta le altre che per brevità ometto.
I tre atti del Berta sono stati applauditi. Ha contribuito molto al
successo una papera di Lyda Borelli (Pierrot), che, a un certo
punto, sbagliandosi di sesso, ha detto: «sono pronta»
per «sono pronto». L'intelligenza del pubblico ha colto
a volo la grazia indefinibile di una papera simile, prova della
intensa femminilità di una artista come la Borelli, ed
è scoppiato in una vera ovazione. Sono cose che capitano:
un'altra commedia ha avuto successo perché a
«timonata» l'attore aveva sostituito
«limonata». Il grande attore Tolentino è grande
specialmente per la fama creatasi dicendo, con inesprimibile
convinzione: «figlio, io sono tuo padre», invece di
«padre, io sono tuo figlio», dinanzi a Ermete Zacconi
truccato da vegliardo. Sono cose che capitano.
Aspettando che venga il giorno di poter precipitare dalla Mole
Antonelliana simili truffatori di applausi, rileggiamo le
fantasticherie poetiche su Pierrot, di Teodoro de Banville.
(8 febbraio 1917).
In principio era il sesso.. In principio era il verbo... No, in
principio era il sesso.
Di fronte a determinate manifestazioni dello spirito pubblico, voi
che avete dei bisogni logici, rimanete in principio sbalorditi. Dato
come presupposto un certo fatto, ve ne aspettereste un altro che ne
fosse la conseguenza logica. Vedete che invece questo non si
verifica e se ne verificano altri non logici al suo posto; vedete
che entrano in giuoco nuove forze, forze elementari, istintive,
imponderabili nel calcolo delle probabilità.
Andate ad assistere alle recite della Borelli. Avete ancora le
orecchie intronate dalle lodi per la Borelli, dalle critiche per le
audacie di eleganza della Borelli, per la grande efficacia
drammatica della Borelli. Andate ad osservare la proiezione di una
film della Borelli. Per una strana fortuna non cadete nel laccio che
inconsciamente vi è teso. Rimanete padroni di voi stessi.
Potete stabilire in voi stesso un osservatorio. Osservate. Rimanete
stupito. Vi pare incredibile. Poi scrollate le spalle e vi ricordate
che qualcuno all'affermazione: in principio era il verbo, ha
sostituito l'altra: in principio era il sesso.
Intendiamoci bene. Il sesso come forza spirituale, come purezza, non
come bassa manifestazione di animalità. Ebbene: bisogna
studiare il caso Borelli, come un caso di sessualità. Non
c'è altra via per comprenderlo, per spiegarlo, e anche per
liberarsene. Non voglio dire che il caso Borelli sia talmente
pericoloso da domandare l'intervento del famoso ferro chirurgico.
Tuttavia esso è poco piacevole, e lo smagare un certo numero
di persone può anche essere utile ai fini di una piú
perfetta umanità.
Dante ha posto il problema sessuale in termini elevatissimi.
Nell'episodio di Francesca da Rimini egli dice che la forma
piú alta della sessualità è data dal fatto che
l'amore tra due è necessario, è indeprecabile.
Esistono due metà di un tutto: esse si cercano e quando si
sono trovate si fondono in una cosa sola. Ora però succede
questo fatto. Esistono metà che invece di un'altra sola
metà ne hanno due, tre. Alcune potrebbero essere la
metà di tutti gli uomini. L'elemento «sesso» ha
talmente soverchiato in essi tutti gli altri attributi, tutte le
altre possibilità che diventa una specie di magia
affascinante.
Tutti gli uomini vi trovano qualcuna delle complementari di se
stessi, e ne sono suggestionati. È una specie di mistero
orfico che si viene costruendo inconsciamente.
Orfeo col suono della lira si tirava dietro anche le piante e gli
animali. Il mito simboleggia il raggiungimento completo della
suggestione musicale totale, come forza che attrae tutto ciò
che può essere musicabile. Il fenomeno ha dato luogo a
qualche creazione letteraria. Guy de Maupassant ha scritto un
poemetto in cui una donna, «il sesso», attrae a
sé tutte le creature viventi, che la seguono inconsciamente,
cosí come seguirebbero un santo o un apostolo che avesse
saputo trovare la parola piú semplice che ne scuotesse
l'animo fin dalla radice.
Con le dovute limitazioni, ciò succede per l'attrice Lyda
Borelli. Questa donna è un pezzo di umanità
preistorica, primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non
è vero. Nessuno sa spiegare cosa sia l'arte della Borelli,
perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare
nessuna creatura diversa da se stessa. Ella scande semplicemente i
periodi, non recita. Perciò preferisce le opere in versi, e
predilige Sem Benelli, il quale scrive per la musica delle parole
piú che per il loro significato rappresentativo.
Perciò anche la Borelli è l'artista per eccellenza
della film, in cui lingua è solo il corpo umano nella sua
plasticità sempre rinnovantesi.
L'elemento «sesso» ha trovato nel palcoscenico la sua
moderna possibilità di contatto col pubblico. E ha rapinato
le intelligenze. Il caso Borelli, se può essere bello per chi
lo suscita, non è certo confortante per chi vi si lascia
prendere. L'uomo ha lavorato enormemente per ridurre l'elemento
«sesso» ai suoi veri limiti. Lasciare che esso di nuovo
si dilati a scapito dell'intelligenza è prova di
imbestiamento, non certo di elevazione spirituale.
(16 febbraio 1917).
«La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri.
La compagnia Sainati, specialista per il repertorio del
Grand-Guignol, ha messo in iscena, l'altra sera, due novità
spagnuole che nulla hanno di comune colle solite terrifiche
produzioni che – con successo del resto – solitamente i Sainati
eseguiscono. Le due novità ebbero un'accoglienza piuttosto
fredda dal pubblico poco numeroso che s'era dato convegno
all'Alfieri.
La canzone della cuna, commedia sentimentale, secondo la definizione
stessa dell'autore, in due atti, tenta la riproduzione scenica di un
convento di monache spagnuole nel quale una decina di suore, che si
sono rifugiate in quel monastero pei soliti motivi inconsolabili,
sospirano nostalgicamente sul divino volere che le condanna a
perenne sterilità. A chetare un tantino l'insistente ricordo
dei fratellini dalle angiolesche manine di latte, pensa un giorno il
caso, sotto forma di una prostituta, la quale depone nella
«ruota» del convento, una piccina appena nata. Ne segue,
naturalmente, grande confusione, ma la figlia del convento viene
adottata e affidata alle cure particolari di suor Giovanna. Il primo
atto termina mentre la vergine suora, esaltata di essere... madre,
dimenticando di pregare colle compagne, guarda e bacia la piccola
trovatella. Dal primo al secondo atto passano diciotto anni. La
figlia del convento ha appunto diciotto anni e sta per sposarsi con
un giovane, pien di vita, che subito dopo le nozze se la
porterà lontano, oltre l'oceano, nel mondo nuovo. Le suore
sono tristi, sconfortate. Suor Giovanna tace, ma ha il cuore
oppresso da una grande pena. La madre adottiva e l'allegra
trovatella si trovano un istante sole, in un ultimo colloquio, al
quale assiste pure il fidanzato. La suora raccomanda allo
sconosciuto che è al di là della grata, la figlia. La
voce della povera donna trema, è angosciata.
– Siete triste, – chiede l'uomo che scoppia di felicità.
– Sí, molto, – risponde in un singhiozzo la suora.
– Volete venire con noi suor Giovanna? – chiede lo sposo.
– No, no, non posso. È troppo tardi...
Il distacco è doloroso e dopo l'ultimo fervido abbraccio di
separazione suor Giovanna sviene... mentre le preghiere ricominciano
al rintocco delle campane del convento.
La trama contiene certo uno spunto poetico e delicato, ma la sua
concretizzazione scenica non convince e riesce miserevole cosa. Essa
è stata recitata assai lodevolmente, come avviene per tutto
quello che rappresenta la compagnia Sainati. Efficace suor Giovanna
fu la signora Bella Starace Sainati; buone pure nell'interpretazione
dei singoli personaggi minori: la Lenci e la M. Sainati. Ad Alfredo
Sainati è affidata una parte di mediocre importanza.
L'altra novità, dei fratelli Quintero: L'ultimo capitolo, non
ebbe successo. Lo spunto è vecchio e scarsamente
interessante.
(8 marzo 1917).
«All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano.
All'ombra delle statue è il risultato abortivo della
contaminazione di due motivi drammatici abusati fino al disgusto:
«il bastardo» e il «genio che schiaccia gli eredi
sotto il peso della sua gloria». La novità avrebbe
dovuto consistere precisamente in questo avvicinamento.
Perché il figlio del genio, quando viene ad apprendere che
è un intruso adulterino, non si dispera e non esala ai numi
tutta la piena dei suoi affetti, ma se ne rallegra quasi
perché trova finalmente nel fatto rivelatogli la via della
liberazione, la via per liberarsi dalla tutela postuma del suo
grande padre putativo, e per uscire dall'ombra della statua alla
luce della sua personalità vera che col morto non ha niente a
che fare. Ma questi spunti non hanno trovato nei tre atti alcuna
espressione drammatica adeguata. Hanno dato la stura a una enorme
superfluità di parole, di pettegolezzi, di scene disorganiche
e senza interesse specifico, che hanno fatto zittire l'intiero
lavoro. Un applauso a scena aperta è stato strappato dalla
Gramatica, che è riuscita a dare della vivacità e del
contenuto drammatico alla persona della protagonista.
(9 marzo 1917).
«L'amazzone» di Bataille al Carignano. Parentesi
francese. In Francia hanno creduto necessario far conoscere agli
italiani la nuova commedia di Henri Bataille, L'amazzone.
Evidentemente si dà molta importanza a questi tre atti.
Eppure è del Bataille solito, del Bataille che annega la vita
nell'oceano del tenerume sentimentale, che esaspera e diluisce due o
tre spunti drammatici in un oceano di tenerume poetico. È
cambiato il contenuto: la guerra è diventata il cardine degli
affetti e dei sentimenti, la guerra con le sue nuove creature
poetiche, che rinnovano la vita spirituale francese, come ieri per
Henri Bataille era la provincia che dava gli esempi delle mogli che
per non tradire si uccidono, a perpetuo scorno delle parigine
corrotte fino alle midolla. È una nuova donna ideale che
nell'Amazzone continua il modo antico del commediografo francese. La
donna che sacrifica la sua felicità presente per non tradire
un fantasma d'amore passato precisamente come nella Marcia nuziale.
Con questo di peggio: che nella nuova commedia c'è l'elemento
esteriore della guerra, che costringe il patriota a dei
convenzionalismi piú crudi e banali che per il passato.
Un grande successo ha ottenuto la Réjane, con le virtú
sue della semplicità e della spontaneità.
(12 marzo 1917).
Il tramonto di Guignol. Il Guignol italiano sta per morire. Il suo
nome è strettamente legato a quello della compagnia di
Alfredo Sainati. La compagnia è diventata, qualche giorno fa,
di proprietà del milionario esteta Luca Cortese, l'ultimo dei
dannunziani, e il milionario esteta diventando il proprietario di
questa e di numerose altre compagnie drammatiche italiane, si
propone di rinnovare la tradizione teatrale italiana, sostanziandola
di quattrini e di intendimenti e propositi piú strettamente
artistici. La morte del Guignol italiano non può tardare a
venire, se questi propositi del Cortese non cadranno nel baratro
dell'indifferenza, come altre volte è successo per propositi
simili.
La storia della fortuna di Guignol è presto raccontata.
È la storia di quel ragazzo della fiaba che partí per
il mondo, perché voleva sapere quale fosse il significato
preciso della banale espressione: «Mi sento venire la pelle
d'oca». E viaggiò, viaggiò, traversò
paesi strani, incantati, paesi di briganti, di streghe, di mostri
favolosi; ebbe avventure, di quelle che si sogliono dire
raccapriccianti; ma inutilmente: la sua pelle rimase pelle d'uomo, e
non ne volle sapere di diventare pelle d'oca. E aveva già
disperato di raggiungere il suo intento e di ritornarsene a casa,
convinto che la pelle d'oca fosse una spiritosa invenzione per far
star buoni i bimbi bizzosi, quando un avvenimento di polizia urbana
pose fine alla sua aspettativa: mentre pensieroso, preoccupato dal
dubbio di essere un mostro, differente dagli altri uomini, inferiore
agli altri uomini, perché meno sensibile di loro, fu bagnato
dalla testa ai piedi da un catino di acqua freddissima. Il miracolo
fiorí: la sua pelle si corrugò rabbrividendo, e dalle
sue labbra, spontanea, irresistibile sgorgò la frase:
«Mi sento venir la pelle d'oca». Guignol sulla scena
cerca di ricreare lo strano, miracoloso paese delle oche; il paese
dell'orribile, del raccapricciante, che dovrebbe far sentire ai
pellegrini che vi viaggiano dei fremiti, dei tuffi al cuore, degli
scombussolamenti capillari ed epidermici come al tempo in cui i
serpenti a sonagli al braccio dei megateri passeggiavano ingordi
sotto gli alberi trasformati in grappoli umani dai primitivi
aborigeni delle palafitte? Guignol ha fatto del teatro un gabinetto
spiritico per imbestiare gli spiriti. Il terrore è un istinto
animalesco, non è un atto dello spirito. Non fa lavorare il
cervello, Guignol; cerca di scombussolare il sistema nervoso. Ma
quale persona intelligente si lascia manipolare i nervi a questo
modo? Guignol vuol far paura; ma le persone intelligenti non hanno
paura degli occhiacci spiritati. La paura è certamente un
fatto umano, con tutte le sfumature del terrore, dell'allucinazione
folle, del delirio. Ma perché essa diventi elemento
artistico, deve trovare una espressione linguistica che la trasformi
in atto umano, in elemento drammatico graduato secondo l'importanza
relativa che essa ha nella vita dell'uomo. Guignol invece ha fatto
del terrore fisico tutto il dramma della vita dell'uomo; e pertanto
ha ridotto l'uomo a pura fisica, a pura macchina materiale.
L'origine marionettistica di Guignol ha avuto questo effetto: ha
reso marionette anche gli uomini del teatro propriamente detto.
Guignol italiano ha avuto però un merito. È servito a
creare una compagnia di primo ordine Ha servito a formare degli
attori eccellenti. La riproduzione plastica del terrore domanda
intelligenza e studio. Se Guignol non ha valore estetico
linguistico, ha valore estetico plastico. I suoi interpreti devono
acquistare, attraverso uno sforzo cosciente e un lavorio interiore
indefesso, una grande capacità fisica di espressione, una
capacità di rinnovamento che renda possibile la
varietà e la novità degli atteggiamenti. Alfredo
Sainati è riuscito a costituire cosí una compagnia non
comune per affiatamento e per omogeneità. Egli stesso, e la
signora Starace Sainati, sono degli attori non comuni, che hanno
dimostrato di sapere uscire dal repertorio loro speciale,
conservando tuttavia quelle possibilità drammatiche che hanno
loro permesso di fare la fortuna di Guignol, anche se gli uomini non
vogliono diventare delle oche rabbrividenti. E queste
possibilità drammatiche, affermatesi specialmente in alcune
rappresentazioni della Fiaccola sotto il moggio, devono appunto aver
persuaso il milionario esteta Luca Cortese che valeva la pena di
fare uno sforzo per riconquistare all'arte degli artisti che se
hanno voluto trovar successo, si sono dovuti adattare a solleticare
la parte animalesca dell'animale uomo.
Cosí il Guignol italiano sta per morire di morte violenta,
quantunque lenta e angosciosa, poiché non gli sarà
possibile di trovare altri interpreti del valore del Sainati.
L'ultimo dramma del Grand-Guignol sarà pertanto la morte
stessa di Guignol, già decisa, ma che, per non essere dammeno
al carattere del personaggio, sarà lentissima come una
tortura cinese.
(13 marzo 1917).
La serata di Emma Gramatica al Carignano. Questa sera al teatro
Carignano la compagnia di Emma Gramatica rappresenterà per la
serata della sua prima attrice uno dei capolavori di Enrico Ibsen:
Casa di bambola. Bisogna essere grati alla Gramatica la quale
è una delle poche attrici che nella profluvie di lavori
scadentissimi si ricorda almeno qualche volta di rappresentare
qualcheduna di quelle opere in cui è realizzato perfettamente
il dramma moderno, contenuto, vivificato da una profondissima vita
morale; azione drammatica sincera e spontaneamente omogenea.
(20 marzo 1917).
«U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri. I tre atti nuovi
di Nino Martoglio non sono che un seguito di bozzetti scenici senza
intreccio drammatico, senza alcun approfondimento di carattere,
senza altra pretesa che non sia quella di dare ad Angelo Musco il
modo di creare una macchietta esilarante, perché esteriori e
solamente fisiche sono le possibilità rappresentative della
commedia. U'riffanti è un traforello di piccola levatura, un
tenitore del lotto clandestino, che riesce a salvarsi dalle grinfie
della polizia, dando modo a un delegato di PS di rintracciare gli
autori e la vittima di un sequestro di persona: la chiave del
delitto è data dal numero della cabala, numero che i
superstiziosi banditi hanno costretto la vittima a dare, non
pensando che potevano diventare termini di corrispondenza segreta.
La commedia è stata applaudita, e ha fatto molto ridere per
opera dell'arte di Angelo Musco e delle sue sempre nuove capriole e
smorfie, esilaranti solo fino a un certo punto.
(21 marzo 1917).
La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al
Carignano). Emma Gramatica, per la sua serata d'onore, ha fatto
rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di
dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma
evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la
maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione
simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e
sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola
chiamata, piú per l'interprete insigne che per la creatura
superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché
il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito
alcuna vibrazione simpatica dinanzi all'atto profondamente morale di
Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare
solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella
profondità del proprio io le radici robuste del proprio
essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso
prima che verso gli altri?
Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile
iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere
la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori,
tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l'urto è
necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli
spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità,
in tutte le motivazioni da quelle piú elementari a quelle
piú squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore
del dramma, ne rivivono anche l'arte, la forma artistica che a quel
mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una
rappresentazione viva e sicura di individualità umane che
soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse,
per migliorare continuamente la tempra morale della propria
personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo.
Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che
l'altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente
necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un
certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti
sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali
questi cavalieri e queste dame, o è immorale l'umanità
di Enrico Ibsen?
Né l'una cosa né l'altra. È avvenuta
semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale piú
spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta
del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita
del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della
nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di
schiavitú, di sottomissione all'ambiente, di ipocrita
mascheratura dell'animale uomo, fascio di nervi e di muscoli
inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro
costume, a un'altra tradizione, superiore, piú spirituale,
meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l'uomo
non sono piú soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono
essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è
piú solo un istituto economico, ma è specialmente un
mondo morale in atto, che si completa per l'intima fusione di due
anime che ritrovano l'una nell'altra ciò che manca a ciascuna
individualmente: per il quale la donna non è piú
solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente
per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di
tuffi di sangue, ma è una creatura umana a sé, che ha
una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha
una personalità umana tutta sua e una dignità di
essere indipendente.
Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non
comprende un mondo cosí fatto. L'unica forma di liberazione
femminile che è consentito comprendere al nostro costume,
è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è
davvero l'unica azione drammatica femminile che il nostro costume
comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e
sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli
e dell'epidermide sensibile.
Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla
nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile
italiana. Retorica. Si è esaltata l'abolizione dell'istituto
dell'autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di
questa nuova anima. Ma l'istituto riguarda la donna come persona di
un contratto economico, non come umanità universale. È
una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una
proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca
neppure superficialmente il costume. Questo non è stato
mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei
nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia
borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di
vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando
sembra ribelle, piú schiava ancora quando ritrova l'unica
libertà che le è consentita, la libertà della
galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati,
la bambola piú cara quanto è piú stupida,
piú diletta ed esaltata quanto piú rinunzia a se
stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi
agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi,
i detriti d'umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre
maternamente. L'ipocrisia del sacrifizio benefico è un'altra
delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro
costume.
Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia
attuale, perché è il costume della classe che è
della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un
altro costume in formazione, quello che è piú nostro,
perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume
nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale
universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale
perché profondamente umana, perché fatta di
spiritualità piú che di animalità, di anima
piú che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes
potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo
possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le
donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono
qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova
e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per
esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non
hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per
ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite
e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali,
col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma
lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la
famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra
loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza,
senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che
sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola
dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della
creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché
avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la
testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove,
perché essenzialmente morale, perché aspirazione di
anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia
pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria
personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi
ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni.
(22 marzo 1917).
«Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri. Questa
commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di
virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi.
I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono
ritratti nella loro esteriorità piú che in una intima
ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita
la smorfia piú che il sorriso, il ridicolo piú che il
comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato,
piú che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma
per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale
piú che visione sincera e spontanea.
I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in
questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle
altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità
pittoriche, o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con
qualche velatura di melanconia, che è anch'essa smorfia
fisica piú che passione. Il protagonista della commedia
è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi
in 34 anni d'insegnamento: un rudere d'umanità, un detrito,
senza piú alcuna caratteristica d'uomo all'infuori del
profilo fisico. Il movente dell'azione, l'unico che si può
sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha
servito lo Stato, essendone ricompensato cosí miseramente che
non ha potuto crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del
governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una moglie
giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla
pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla
giovane vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere,
tutti quei quattrini che a lui sono mancati sempre per poter vivere
veramente, per essere uomo e non macchina d'insegnamento. Giocare al
governo questo tiro birbone diventa per il prof. Toti l'unica
ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome
non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e
perciò le consente le piú ampie libertà; aiuta
il suo sostituto nel compito maritale, lo ama come un figlio, e
incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del
direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è
oggetto, va innanzi verso la meta. Giacomino, l'amante di sua
moglie, vorrebbe sciogliersi dalla situazione in cui è
impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a casa sua
il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti
sbigottiti, di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie
e finalmente riesce a condurre Giacomino nella via del dovere, a
continuare il suo compito di marito della giovane moglie
dell'impiegato che vuol vendicarsi del governo senza perciò
creare altre vittime.
La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto della
figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per
sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.
(24 marzo 1917).
«Liolà» di Pirandello all'Alfieri. I tre atti
nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all'Alfieri. Non
hanno avuto almeno quel successo che è necessario
perché una commedia diventi redditizia. Ma Liolà
ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la migliore
delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a
creare. L'insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro
momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni
estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi
tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e
perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non
poteva finire che cosí come è, e pertanto
finirà con l'imporsi.
Liolà è il prodotto migliore dell'energia letteraria
di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un
umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo
spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in
una palude retorica di moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è
passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal,
ed era il protagonista di un lungo romanzo ironico intitolato
appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il 1906 dalla
«Nuova Antologia» e poi ristampato dal Treves. In
seguito il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è
venuto fuori Liolà; l'intreccio rimane lo stesso, ma il
fantasma artistico è stato completamente rinnovato: esso
è diventato omogeneo, è diventato pura
rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio
moraleggiante e artatamente umoristico che lo aduggiava.
Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola,
una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica,
e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa
vascolare del mondo ellenistico. C'è da pensare che l'arte
dialettale cosí come è espressa in questi tre atti del
Pirandello, si riallacci con l'antica tradizione artistica popolare
della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con
la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte
è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia
odierna, là dove questa tradizione si è conservata
piú viva e piú sincera. È una vita ingenua,
rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle
querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di
paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la
fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia
organica.
Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall'occhio strabico,
l'osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico,
sentimentale, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana,
pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo,
perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la
trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche
semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era
contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere
un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una
ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della
moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia,
vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di
essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del
vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a
Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di
farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie
legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto
altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha
un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a
queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che
ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena
accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre
altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che
ubbidiscono all'impulso della danza e del canto, che sono impastati
di suono e di danza come le creature primitive dei drammi
satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone,
prima che fosse imbastito il trucco dell'erede, ora che l'erede
legale c'è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non
vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi
figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di
Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno
l'odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il
matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.
(4 aprile 1917).
«Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano.
Gli uomini spiritosi sono una parte molto importante della vita
sociale moderna: e sono molto popolari. Essi sostituiscono alla
verità un motto che fa ridere, alla serietà un motto
che fa ridere, alla profondità un motto che fa ridere.
L'ideale della loro vita spirituale è il salotto elegante, la
conversazione fatua e brillante del salotto, l'applauso discreto e
il sorriso velato dei frequentatori di salotti. Riducono tutta la
vita al livello di mediocrità spiritosa della vita di
salotto: molte parole, amabile scetticismo, con qualche leggero
spruzzo di sentimentalismo malinconico. L'uomo spiritoso è
diventato ancor piú importante attraverso l'ultima
incarnazione che hanno subíto i salotti, e cioè nelle
redazioni dei giornali borghesi. L'uomo spiritoso ha cosí
allargato la cerchia dei suoi ascoltatori, e ha reso spiritoso
tutto: la politica, la guerra, il dolore, la vita e la morte,
ottenendo molti plausi e guadagnando molti quattrini. Arnaldo
Fraccaroli, che è uno degli uomini spiritosi italiani meglio
quotati, ha, nell'ultima sua commedia Non amarmi cosí!,
offerto un brillantissimo esempio del come l'uomo spiritoso riduce
per il lieto sollazzo dei suoi clienti le cose serie.
Il tema generico è questo: una moglie, alla rivelazione che
suo marito non la comprende, scatta in una ribellione, si ripiega su
se stessa, approfondisce il proprio io interiore. Un genio
drammatico, Ibsen, avrebbe dato a questo dramma il suggello
definitivo della sua fantasia poetica. Ma Ibsen non era un uomo
spiritoso, era un artista, che viveva profondamente la vita delle
sue creature; perciò egli non ha avuto fortuna nei salotti e
nei teatri che ne sono l'ingrandimento peggiorato. Arnaldo
Fraccaroli ha corretto Ibsen, lo ha reso piacevole e amabile, lo ha
latinizzato. Margherita di Fraccaroli è ben piú facile
a comprendersi di Nora; le motivazioni dell'urto fra marito e moglie
sono in Fraccaroli alla portata di tutte le anime incipriate:
Margherita ama male suo marito, è la bambola seccante,
perché ama troppo, perché sbaciucchia troppo,
perché non lascia mai solo Luciano, perché, e questo
è il colmo del paradosso profondissimo, rende troppo facile
la vita di Luciano, pulendogli le penne, facendogli trovare sempre a
posto, e nel momento piú opportuno, l'ombrello, il soprabito,
e le galoches. Luciano dice che Margherita è noiosa, e il
dramma precipita. Margherita non lascia la casa maritale. L'uomo di
spirito trova che questa soluzione sarebbe una esagerazione, e i
salotti aborrono le esagerazioni. Margherita è una complicata
anima moderna (con svolgimento a lieto fine). Si fa fare la corte da
un imbecille, ma non per ingelosire il marito: non per nulla essa
è un'anima complicata. La corte dell'imbecille serve a
mascherare un altro finto amante, la cui personalità,
attraverso queste amabili complicazioni, rimane immersa nel buio
fondo, nel mistero. Ed è questo buio, questo mistero, che
porta al lieto fine, al ravvicinamento delle due anime: tra esse
rimane lo sfondo del mistero, la minaccia immanente di un nuovo
dramma, a rinsaldarle, a farle diventar savie. «Mariti, non
scherzate, con le armi caricate», è la profonda
verità che il Fraccaroli instilla nell'anima e nella
coscienza dei suoi ascoltatori, e la via è facilitata da un
lubrificante infallibile: la divina melanconia, coi cirri
sull'orizzonte e il pallido raggio di sole che balugina e imbianca i
sembianti degli eroi.
L'uomo spiritoso ha raggiunto il suo scopo. Ha trovato nel teatro
Carignano il salotto di imbecilli meglio disposti a comprenderlo e
ad applaudirlo. L'uomo di spirito è sempre un uomo fortunato.
Anche se il suo spirito è passato attraverso tutti i filtri
di carta del magazzino internazionale, e ne ha conservato tutti i
tanfi e le muffe: dai filtri di Ibsen a quelli di Pierre Wolf e
delle sue Marionette.
(5 aprile 1917).
«Scuru» di Martoglio all'Alfieri. È la quarta o
la quinta produzione teatrale italiana sul tema della cecità.
La prima arrivata a Torino. Ha avuto successo. Ha avuto un grande
successo. Ma in esso l'opera personale artistica di Nino Martoglio
non entra affatto. La tragicità è nell'ambiente,
è nella vita, è nella minaccia che sentiamo immanente
per migliaia e migliaia di vite. Basta immaginare il fatto
perché si senta un brivido, basta vedere sulla scena delle
persone eroiche che presentino in concreto la minaccia, per sentire
plasticamente, in tutta la sua violenza brutale, la tragedia
incombente. Nino Martoglio non ha elaborato artisticamente il fatto
oggettivo. I ciechi di Maurizio Maeterlink sono troppo vivi nella
memoria per non sentire che Nino Martoglio ha lasciato inerte la
materia, e che essa vive solo per il travaglio inconsapevole degli
spettatori, e per la virtú di realizzazione scenica di Angelo
Musco e dei suoi collaboratori. Lo strappo che il nostro animo
risente è dovuto tutto all'arte semplice del Musco e del
Pandolfini. Essi soli dànno al fatto una soggettività:
l'unica che in questo caso può avere: il brivido corporale,
la maschera della tragicità.
(7 aprile 1917).
«La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano. La
maschera: il complesso di atteggiamenti esteriori che gli uomini
assumono sotto lo stimolo della realtà sociale che li
circonda. La maschera è la patina superficiale del costume,
della moda, dello snob, il precipitato di tutte le reazioni tra la
vita individuale e la vita collettiva, tra la vita di un individuo e
la vita di quella determinata categoria sociale in mezzo alla quale
l'individuo ha le radici della sua particolare esistenza. Chi riesce
a strappare dal proprio volto questa maschera, chi riesce a vivere
non secondo le inconsapute violenze della convenzione sociale, ma
solo secondo i dettami del proprio io piú profondo, della
sincerità che pure esiste in fondo alla coscienza di ogni
individuo? I tre atti di Luigi Chiarelli rappresentano appunto la
storia di uno di questi individui, le avventure tragicomiche, le
esperienze interiori ed esteriori di uno di questi individui. Le
rappresentano in un modo curioso, deformandole, esasperandole,
esteriorizzandole, con molte parole, con molti particolari, con
molta convenzione, ma riuscendo tuttavia a raggiungere degli effetti
di rappresentazione, riuscendo a fondere in un complesso piacevole e
spiritoso molte banalità, molti luoghi comuni, molte
affermazioni del senso comune piú comune.
L'autore ha volontariamente costruito la macchina convenzionale che
regge i tre atti: egli non nasconde la volontà del
convenzionale, non tende delle trappole al pubblico; il lavoro suo
è come una campana di cristallo, e lascia trasparire il suo
volto che sogghigna senza la maschera della falsa serietà
drammatica e artistica. Il suo lavoro è pertanto opera di
sincerità, e ha un grande valore per l'educazione estetica
del pubblico, per correggere il gusto del pubblico, attutito e fatto
lapposo dalla falsa grandezza e dall'artificio abilmente nascosto
nel teatro solito. La storia è questa. Il conte Paolo Grazia
scopre che sua moglie lo inganna, sorprende il flagrante adulterio
di sua moglie mentre la sua casa è piena di ospiti, e tutti
gli occhi della società sono fissati su di lui. Il conte
Paolo è posto come il tipo riassuntivo della maschera sociale
del marito; tutti conoscono ciò che egli pensa sul modo con
cui un marito deve comportarsi con la moglie adultera: uccidere;
l'autore gli ha fatto ripetere a sazietà le idee in
proposito. Eppure il marito non uccide: il volto incomincia ad
apparire, ma la maschera è ancora troppo tenacemente
appiccicata alla pelle. La moglie parte, scompare, e il conte fa
credere d'averla uccisa, d'averla precipitata nel lago. Si
costituisce, lo assolvono: l'avvocato che lo difende è
l'amante di sua moglie. Ritornato a casa riceve l'omaggio di tutte
le donne, diventa il ridicolo idolo della mondanità. La
maschera si lacera del tutto: avrebbe dovuto servire ad evitare il
ridicolo, diventa la calamita di un altro ridicolo, peggiore per chi
piú sente, per chi è piú raffinatamente se
stesso. Ma il giuoco deve continuare: un cadavere di donna viene
trovato nel lago: egli deve riconoscervi sua moglie, deve allestire
il funerale. La moglie viva ritorna a lui, in quell'istante, e
mentre il funerale si svolge, un nuovo idillio incomincia, questa
volta tra due senza maschera, tra due che hanno subíto,
attraverso le esperienze del proprio dolore, il lavacro salutare
della patina convenzionale che la società spalma sulle
coscienze. E il conte deve scappare all'estero, per non essere
condannato dalle leggi che hanno assolto l'assassino ma punirebbero
il simulatore del reato. Nei tre atti agiscono altre maschere
caratteristiche, mariti filosofi, donne adultere, i soliti
personaggi da commedia, tutti adattati al grottesco centrale, alla
rappresentazione deformata della vita solita del teatro di maniera,
resi vivaci dalla volontà costruttrice dell'autore, che con
molta abilità e molta elasticità d'ingegno li compone
in modo piacevole.
La commedia ha avuto un successo discreto. Essa si replica. La
compagnia Talli ne ha dato una interpretazione molto accurata ed
efficacissima: attori principali il Betrone, la Melato, il Gandusio
e il Paoli.
(11 aprile 1917).
L'industria teatrale. Politeama Chiarella: spettacoli di
varietà, Cuttica, Spadaro e compagni. Teatro Carignano: il
miracolo vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco
tutti i luminari della scienza. Alfieri: 60a rappresentazione della
compagnia d'operette di Luigi Maresca. Operette, varietà,
vaudevilles di Carosio e di Cuneo, fenomeni viventi Fregoli,
Petrolini, Cuttica, Spadaro e Titina. Torino è diventata una
fiera, Barnum è diventato il dio tutelare
dell'attività estetica e del gusto dei torinesi.
Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli
Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo
spirito dell'accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a
tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani
sarà provato che è piú conveniente adibire i
teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi
ghiacciati, l'industria teatrale non esiterà un istante a
farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo
nella ditta l'aggettivo «teatrale».
Fa maraviglia una cosa soltanto: che l'autorità militare,
cosí fiscale quando si tratta di requisire le scuole o il
Teatro del popolo di Corso Siccardi, o il teatro Regio, dove non
vanno e non possono andare che compagnie che veramente vogliono
offrire al pubblico spettacoli di teatro, utili per l'educazione
estetica e che rappresentano il soddisfacimento di una
necessità buona, risparmino invece i teatri gestiti dalla
ditta Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina
caratteristica d'arte e servono allo sfruttamento delle
velleità di divertimento volgare.
Il trust teatrale a Torino è andato un po' troppo oltre nella
sua abilità industriale, Torino è completamente
tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli vi
capitano due o tre delle maggiori compagnie drammatiche per una
stagione straordinaria. Torino dà molto pubblico agli
spettacoli di varietà, non è mai satura di ritrovi
equivoci. L'industria teatrale è entrata in concorrenza con
il varietà, cerca di accaparrarsi la categoria piú
redditizia di questo pubblico. Persegue cosí il suo fine
monopolistico. Le compagnie maggiori sono riservate alla provincia,
ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano pagati
meno, perché i teatri sono piú piccoli e gli incassi
sono minori. Il monopolio trionfa. I teatri delle grandi
città, anche se adibiti a spettacoli di ordine inferiore,
rimangono redditizi, perché c'è tra i 500 mila
cittadini quel certo numero di individui che li frequenta lo stesso.
Gli artisti di varietà sono pagati meno, e il capitale si
impingua. Nei piccoli centri, è necessario il grande nome per
attirare la folla; gli artisti sono pagati meno perché la
piazza è secondaria, e il capitale si impingua allo stesso
modo. Le grandi compagnie si dissolvono, gli attori sono costretti
per vivere a dedicarsi al cinematografo; l'industria teatrale,
monopolizzata, non se ne preoccupa; i suoi affari prosperano
ugualmente per l'impossibilità della concorrenza, per
l'abbassamento del livello estetico che fa ricercare lo spettacolo
di Petrolini o di Cuttica, e non fa rimpiangere le interpretazioni
artistiche di Ermete Zacconi e di Emma Gramatica.
A Torino però il trust ha esagerato nella sua abilità
industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia del capitale
monopolizzato si contrapponesse un'altra autocrazia. Quale ragione
superiore può ormai piú oltre far considerare
intangibili i teatri della ditta Chiarella, mentre i locali
scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e tangibilissimo è
stato il Teatro Regio?
Petrolini, Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro ambienti naturali.
Quale superiore ragione artistica deve piú oltre permettere
che la città di Torino diventi un feudo del varietà?
È doloroso dover ammettere che in una grande città
debba essere ristabilito il buon costume da un provvedimento
autoritario. Ma è purtroppo cosí. Le esagerazioni del
monopolio non possono che essere frenate dai calmieri di Stato.
(28 aprile 1917).
L'industria teatrale. Riceviamo dal sig. Giovanni Chiarella:
«Mi rivolgo alla lealtà di V. S. per rettificare le
varie inesattezze contenute nell'articolo Industria teatrale apparso
nel suo giornale il 28 corrente. Il male informato articolista
vorrebbe asserire che la nostra ditta ha danneggiato lo sviluppo
artistico teatrale di Torino escludendo o limitando la presentazione
delle buone compagnie.
«Orbene: dall'ottobre 1916 a oggi ecco i nomi delle compagnie
che agirono nei nostri teatri: compagnie di prosa: Tina di Lorenzo e
Armando Falconi – Lyda Borelli e Ugo Piperno – Emma Gramatica –
Ermete Novelli – Talli, Melato, Betrone, Gandusio – Ruggero Ruggeri
– Alfredo De Sanctis – Dina Galli e Amerigo Guasti – Carini,
Gentilli, Baghetti, Dondini – Sichel e soci – Sainati – Tempesti –
Musco. Tina Bondi. Compagnie di operetta: Lombardo n. 1 –
Città di Milano Lombardo n. 2 – Maresca – Vannutelli.
«Sono dunque 14 compagnie di prosa e 5 di operetta. Totale 19
primarie compagnie. Quasi tutte quelle che la guerra lasciò
in piedi si sono avvicendate nei nostri teatri nello spazio di nove
mesi. Si chiama questo tagliar fuori una città dal movimento
teatrale?
«Agli spettacoli dati da compagnie costituite devonsi
aggiungere le stagioni liriche e dal settembre scorso nei nostri
teatri si rappresentarono piú che decorosamente 21 opere.
«Non parlo delle varie conferenze, concerti e compagnie
francesi. Di fronte a questo importante svolgersi di spettacoli
primari, che può essere sempre documentato, l'articolista
male informato si scaglia contro di noi perché ci siamo
permessi in giugno di far agire al Politeama Chiarella, Fregoli e
Cuttica, e al Carignano Gabrielli e non sapendo o non ricordando
vorrebbe accusarci di aver ridotto Torino a città tagliata
fuori dal movimento teatrale, ridotta, dice, a ospitare soltanto due
o tre buone compagnie. Coi dati di fatto, facile è stata la
nostra smentita, e alla taccia di affaristi risponderemo affermando
senza tema di smentita, che in nessuna città di primo ordine
come a Torino i prezzi rimasero modesti. Ed è notorio che i
nostri teatri sono aperti costantemente e del tutto gratuitamente a
tutte le opere di beneficenza.
«E per rispondere ancora a un'inesattezza, diremo che in
nessuna città come a Torino la requisizione ha infierito sui
teatri, poiché senza il municipale teatro Regio tre teatri di
imprese private furono occupati dall'autorità militare e
cioè il Balbo, il Vittorio Emanuele e il Torinese.
«Confidando nell'imparzialità della S. V. per la
pubblicazione della presente, ossequi».
Il signor Chiarella fa sfilare i nomi delle compagnie primarie che
sono passate nei suoi teatri dall'ottobre 1916 al giugno 1917, e la
coroncina dei nomi sembrerebbe dargli ragione. Se egli avesse
incluso per i suoi calcoli gli ultimi due anni, avrebbe ancor di
piú avuto ragione. Ma noi non volevamo fare il processo della
attività industriale della ditta Chiarella sua vita natural
durante. Volevamo constatare una tendenza che si è
manifestata in questa attività nel 1917, si è
acutizzata nel trimestre aprile-giugno, e temiamo voglia diventare
definitiva sistemazione d'affari. La preoccupazione ha una legittima
ragione d'essere. A Torino c'è molta gente che frequenta i
pubblici spettacoli. Constatiamo il fatto, senza tentare di darne
una qualsiasi spiegazione. Questa sempre maggior affluenza di
pubblico agli spettacoli ha fatto fiorire in modo indecoroso i
ritrovi di infimo ordine. La ditta Chiarella, che ha il monopolio
dei teatri torinesi, contribuisce a questo abbassamento di livello
del gusto generale. Si nota la tendenza, nel criterio degli affari
della ditta, di sfruttare questa mania del varietà, invece di
indirizzarla a forme superiori di spettacoli. Dall'aprile al giugno,
i teatri dei Chiarella hanno ospitato una sola compagnia di prosa
per una stagione ordinaria, ed è, neppure a farlo apposta, la
compagnia di Sichel, che dà spettacoli dello stesso livello
degli spettacoli di varietà. Nel mese di aprile ci sono state
anche altre compagnie, ma per recite straordinarie: Musco, 5 giorni,
Talli-Melato, 15 giorni, Novelli, 5 giorni. In questo trimestre i
teatri torinesi hanno accolto in prevalenza varietà e
operette: due mesi della compagnia Maresca, recite della compagnia
Lombardo, Città di Milano e Parigi, poi Petrolini
all'Alfieri, cinematografo all'Alfieri, Zambi allo Scribe, Gabrielli
al Carignano, Fregoli e Cuttica al Chiarella. Nei due mesi di maggio
e giugno, solo 10 recite di una compagnia di prosa rispettabile, se
non primaria, la compagnia di Tina Bondi.
Il signor Chiarella dice che lo abbiamo tacciato di affarista. Egli
è semplicemente un uomo d'affari, che trova nel monopolio il
metodo piú sicuro di raggiungere i suoi fini. Gli affari in
regime di monopolio, si deformano fatalmente, cosí come si
sono deformati quelli della sua industria teatrale. Il monopolio
è portato persino a distruggere dei valori economici, e fa
sviluppare delle forme contorte e dannose di speculazione: dannose,
s'intende, per la collettività, non per il capitalista, e per
questo non dannose solo immediatamente. Il trust del consorzio
teatrale ha già escluso dai teatri di Torino Ermete Zacconi;
ora anche Emma Gramatica è caduta in ostracismo. Per esso le
compagnie di prosa si vanno lentamente disgregando, perché,
se vogliono vivere e lavorare, devono passare sotto le forche
caudine dei patti, delle ingerenze, dei repertori, che il consorzio
impone. Il teatro ha una grande importanza sociale: noi ci
preoccupiamo della degenerazione di cui è minacciato per
opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è
possibile, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a
teatro: l'industria lo sta lentamente abituando a preferire lo
spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una
necessità buona dello spirito.
Dato questo nostro atteggiamento, preghiamo il signor Chiarella di
credere che non vogliamo affatto contribuire a spingere alla
requisizione dei suoi locali. Ci pare che sia la sua ditta stessa a
offrire l'occasione di una misura del genere. Il Balbo, il Torino,
il Vittorio furono requisiti appunto perché da un pezzo non
si aprivano piú a spettacoli teatrali degni del nome. Il
teatro Vittorio, gestito dai Chiarella, si chiuse il 23 ottobre dopo
una stagione teatrale del circo equestre Bisini e fino al giorno
della requisizione si aprí solo a lunghissimi intervalli per
qualche spettacolo lirico secondario. È questo il pericolo
dell'industria monopolizzata: essa fa affari, anche svalorizzandosi
in un certo mercato, anche distruggendo i suoi valori: se ne
rifà in altri mercati, senza preoccuparsi del disordine che
crea, delle tendenze morbose che determina. E non c'è modo di
farlo con mezzi economici. Saremmo lieti se a qualcosa servisse la
protesta dei giornali. Che se poi il trust Chiarella desidera che si
parli delle concessioni fatte per gli spettacoli di beneficenza noi
non avremmo alcuna difficoltà: solo che il discorso sarebbe
lungo e... pericoloso!
(4 luglio 1917).
Ancora i fratelli Chiarella. Il signor Giovanni Chiarella ci invia
una seconda lettera di recriminazioni che non riescono a far mutare
le nostre convinzioni. Egli vuole che si faccia notare ai nostri
lettori che le compagnie Musco e Novelli continuavano nel mese di
aprile corsi di recite iniziati nel mese di marzo, cosí che
non appaia che essi siano venuti a Torino per soli cinque giorni.
Desidera pure che sia ricordato che la compagnia Talli nello stesso
aprile tenne 28 serate. Ciò non toglie naturalmente che nei
due mesi di maggio e giugno i teatri dei Chiarella abbiano accolto
in prevalenza spettacoli di infimo ordine, mentre a Milano, a Roma,
a Bologna, a Firenze, contemporaneamente, la vita teatrale aveva ben
altro svolgimento. Non fummo i soli a osservare il fenomeno: altri
giornali di Torino ripeterono le cose da noi scritte.
Quanto all'opera deleteria del trust, il Chiarella si appella ai
capocomici italiani. Perché appaia però che le nostre
osservazioni non erano campate in aria, riportiamo un brano della
lettera aperta con cui Marco Praga, presidente della Società
italiana degli autori, ha indetto un convegno di capocomici per il 9
luglio:
«Piú voci sono giunte a noi, e voci degne d'essere
ascoltate, sia che venissero dai piú eletti e dai piú
umili.
«Dicono alcuni capocomici: s'è formato uno stato di
cose pel quale l'esercizio della nostra industria è reso
troppo difficile, troppo rischioso, se non addirittura impossibile.
Ci sono imposti contratti stranamente onerosi. C'è chi
s'immischia nella formazione delle compagnie, senza diritto. Il giro
delle compagnie è forzoso, ed è subordinato non
all'interesse dell'arte e dell'industria teatrale, ma a quello
soltanto di chi tiene in suo potere l'agibilità e la
disponibilità dei principali teatri nelle città
principali. E aspre polemiche e dibattiti dolorosi si sono svolti,
su questo argomento, né ebbero ancor fine.
«Dicono i comici: lunghi anni di lotta ci avevano fatto
ottenere equi patti di scritture, con l'abolizione di certe clausole
viete e sommamente pericolose per noi, e la concessione di tali
garanzie che ci assicuravano un pane modesto dandoci quella
tranquillità di vita che è indispensabile al miglior
esercizio dell'arte nostra. Ed ora d'un tratto, tutto ci fu ritolto;
e ci fu ritolto in un momento grave della vita nazionale, in un
periodo di crisi quale mai fu attraversato dal teatro italiano. O
vivere di ansie e di stenti, o disertare, per rifugiarsi su quella
scena muta che non può dare soddisfazioni al nostro amor
proprio, ma che ci offre un pane meno incerto e meno duro.
«Dicono alcuni proprietari o conduttori di teatro: Non
è manía di monopolio che ci guida, non è
manía di accentramento in nostre mani della industria
teatrale, e non è un'egemonia a nostro solo profitto che noi
vogliamo creare. Ma è il desiderio e il bisogno di
disciplinare l'esercizio di questa industria teatrale, disciplina
dalla quale non possono derivar danni, ma, anzi, debbono scaturire
maggiori fortune per l'arte.
«E dicono, infine, altri proprietari o conduttori di teatro:
Noi potremmo e vorremmo offrire condizioni contrattuali piú
favorevoli ai capocomici, e non temeremmo la leale concorrenza fra
teatro e teatro di una stessa città. Ma per ragioni troppo
evidenti dobbiamo seguir la corrente, dobbiamo uniformarci alle
disposizioni o ai consigli di chi ha in mano la maggior somma degli
interessi teatrali, né possiamo agire se non con il consenso
e per il tramite delle agenzie».
Del resto basterebbe ricordare le lettere che Ermete Zacconi (cui
pure il Chiarella si rivolge nella sua lettera) ha inviato ai
giornali in varie occasioni, e la recente campagna degli organi
giornalistici del trust contro Emma Gramatica.
È questo che a noi importa piú di tutte le
statistiche, di tutti i calendari che il Chiarella volge a suo
favore, non potendo smentire i fatti che a Torino si chiamano
Petrolini, Bambi, Cuttica, Spadaro, Gabrielli, nello stesso tempo in
cui nelle altre città si chiamano coi nomi delle compagnie
drammatiche. Che i Chiarella cerchino di armonizzare il desiderio di
non essere in deficit, con l'esplicazione di un alto ideale
artistico, è cosa che vogliamo vedere nella realtà e
non solo nell'affermazione generica scritta per i giornali. La
realtà di questi ultimi due mesi è stata tale da
rendere giustificato l'appunto da noi mosso. Il resto è
minutaglia inconcludente.
Infine il signor Chiarella propone di sottoporre l'opera da lui
prestata per la beneficenza all'esame e al giudizio dei probiviri
della stampa. Non vediamo l'importanza dell'esame e del giudizio.
Perché il signor Chiarella si tranquillizzi e per evitare un
cumulo di beghe e di fastidi perfettamente pleonastici, siamo
disposti a riconoscere che il signor Chiarella ha fatto tutto
ciò che ha potuto fare, come uomo d'affari, per la
beneficenza!!
(8 luglio 1917).
L'industria teatrale. A Milano si sono radunati a convegno, nei
giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate
all'industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e
d'operetta, e gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal
presidente della Società degli autori, per cercare di
appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei
proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo
sprecato. Le questioni non furono appianate, i proprietari non
cedettero di una linea: ma il signor Giovanni Chiarella
continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei
capocomici italiani perché documentino il suo illuminato
mecenatismo.
I capocomici domandavano il ritorno puro e semplice alle condizioni
contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione
della propina tre per cento sull'introito di ogni spettacolo,
imposta dal trust a favore dell'agenzia Paradossi; 2) abolizione
delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri
abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e
dei proprietari di teatro, eliminandosi l'inconveniente che una
parte dell'introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3)
ripartizione proporzionale su ogni spettacolo dell'ammontare degli
affitti annui per palchi e barcacce, affitti che ora vanno a totale
ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a carico
dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari
di teatro; 6) per le compagnie d'operetta le spese di orchestra a
carico dei proprietari di teatro.
I proprietari non accettarono nessuna di queste proposte, sebbene
fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a tutti i
teatri dell'aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei
palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e
devoluzione dell'aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per
compensarli dell'aumentato prezzo del carbone e dell'aumentata tassa
teatrale; 2) riduzione del 5 per cento della percentuale sugli
introiti serali devoluta finora ai capocomici. I proprietari invece
fecero delle controproposte che miravano a far sorgere degli attriti
fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il convegno
è servito a qualcosa, è perché ha determinato
un avvicinamento tra le tre categorie che sono direttamente
danneggiate dal trust: gli autori, i capocomici e gli scritturati. I
capocomici hanno concesso agli scritturati un nuovo contratto di
locazione d'opera, contratto unico, paga annuale senza stagioni
morte.
Certo non basterà questo principio d'accordo per scompaginare
il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l'arte, e
strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha
possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato
potrebbe intervenire. Esso può boicottare subdolamente gli
artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al cinematografo, a
Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni Chiarella si
è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi
effetti dell'industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose
scrivono ora, dopo l'esperienza del convegno di Milano, anche altri
giornali. E usano precisamente quel linguaggio, per il quale il
Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare affarismo.
Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un
giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per
l'industria propriamente detta, è liberista e avversario dei
monopoli per l'industria teatrale, l'unica che studi e svisceri con
criteri non amministrativi:
I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio su basi
commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi
esclusivamente: dell'arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto
questa gente si trasformi in un'accolta di mecenati o di persone che
si accorgano di non speculare su delle scarpe, sarebbe
ingenuità.
Il consorzio oltre aver determinato anche nei teatri di provincia
non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto salire il
prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri
interessi spinto da necessità insite nella sua natura.
Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú teatri gli
è possibile, è diventato e diventa proprietario di
teatri di secondo e terz'ordine, che non rendono niente, e che
rimangono chiusi gran parte dell'anno. E allora escogita quei mezzi
balordi del cinematografo, dei visionisti, degli spettacoli
sportivi, dei vari Petrolini, in modo da diminuirne anche la
secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a dei
locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per
nozze, banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è
precisamente un criterio da caffettiere che ispira il consorzio, il
quale è sempre in caccia del genere o dell'individuo che
piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi
qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi
sulla moralità, sul giuoco e su altre miserie. È
facile intuire in quali condizioni si trova l'arte drammatica alla
mercé di costoro.
Tolte due o tre compagnie favorite, perché attirano gente, le
altre che pure l'attirerebbero se potessero recitare durante le
stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni
possibilità di far bene; e siccome raramente il valore
commerciale coincide col valore artistico, il consorzio favorisce il
primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che esso grava
sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della
compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i
piú volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati
da persone colte, intellettuali e pronte a qualsiasi visione di
bellezza.
(17 luglio 1917).
Continuazione della vita. Entrare e uscire. Bisogna abolire le due
parole. Non si entra, né si esce: si continua. Incomincio ad
ammirare il genio industriale dei fratelli Chiarella. Incomincio a
credere che i loro criteri siano gli unici criteri possibili a
Torino. Torino ha il teatro che si merita: esso è lo specchio
della sua anima, della sua vita.
Sichel, che si maschera da cretino, e ripete sempre lo stesso gesto,
e ripete sempre la stessa frase idiota, e tuttavia fa sganasciare di
giocondità, è la persona seria, è il pater
conscriptus, è il commendatore Usseglio della vita torinese.
Non basta il consiglio comunale: al Carignano hanno aperto la
succursale. La finzione conquista la vita: non c'è piú
finzione e vita, c'è solamente la gelatinosa realtà
torinese, e tutto diventa bigio, tutto diventa piatto e volgare.
Cirano diventa il cav. Serafino Renzi. Hanno riaperto il teatro
Balbo perché Cirano si ripresentasse in questa sua ultima
truccatura. Il giocoliere si è vestito da Cirano, e sbava
poesia e agita il pennacchio. È il Cirano da Porta Palazzo,
è il Cirano che scrive sui giornali, che ogni giorno si
arrovella il piccolo cervello da pulce castrata, e inventa nuove
trame e scopre, smente, riconferma nuovi colloqui, e nomina nuovi
generali ai 55 barabba, e gira su se stesso, orgoglioso e ammirato
del suo roteare. Cirano dello Scribe, Cirano del cav. Renzi, sotto
il pennacchio, sotto la volgarità del tuo ultimo trucco, tu
continui le gesta di Francesco Rèpaci, continui le gesta di
Mario Gioda. Hai anche tu aperto una succursale a Porta Palazzo, ti
vedremo passeggiare al chiaro di luna in compagnia del cav. Bonvito,
la tua Rossana, e sbavare lunghi racconti di intrighi romanzeschi, e
dare prove di complotti e poi soffregarti le mani soddisfatto:
provino che non è vero, provino che è inventato.
Povero Cirano quanto schifo per la tua finzione, e per la tua vita
sdrucciolata nelle lubricità delle latrine follaiole. I
fratelli Chiarella hanno veramente del genio. Ti hanno preso per il
naso e ti espongono nella loro vetrina: sanno fare i loro affari:
Torino, hai il teatro che ti meriti.
Sichel, Renzi, il Trovatore, i Pagliacci, l'operetta tutta da
ridere: realtà gelatinosa: lo sberleffo e il gemito
sentimentale, la finzione della falsità inzuccherata e la
vita dei tuoi angiporti: Cirano che dà il braccio al
questurino, il libertario che scrive l'apologia del deputato
commissario di polizia. Il teatro non è che la continuazione
della tua vita, e la tua vita è tutta nel libro nero della
polizia.
(11 settembre 1917).
Contrasti. Una cavallerizza, una moglie adultera, una fanciulla
ingenua, un marito sordo e grottesco, due giovanotti eleganti e
stupidi, un imbroglione foderato di tutte le grossolanità. I
sette personaggi giocano a rincorrersi, a infinocchiarsi
reciprocamente: dicono una infinità di scempiaggini, la loro
vita è tutta una scempiaggine. Sichel e soci ripetono molto
bene le scempiaggini: le ripetono con tanta sicura medesimezza, che
si comprende benissimo non sarebbero capaci di ripetere altrettanto
bene le cose intelligenti. Si annega nella sciocchezza. Un'atmosfera
palpabile di bestialità si forma nella sala dell'Alfieri:
promana dai visi ridenti, dagli occhi lucidi, dalle brevi e nervose
risate degli spettatori: si diffonde grossa e pesante dagli attori,
dal palcoscenico. Neppure un brivido di umanità, di
spiritualità. Eppure questi spettatori non sono dei grezzi
ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno
la possibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati
nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si
schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi,
con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al braccio di un
amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora
chi è sprofondato nel buio da poco, con le pupille abbruciate
da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un
velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono
sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono
atteggiare il volto alla serietà, possono sentirsi velare gli
occhi di cupa tristezza. Eppure, quando il velario si apre, e le
ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono
a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla
gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e
appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in
immondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il
sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si
approfondisce in risatine di compiacimento: continua a perseguitarci
nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno
che si avvicina.
(3 ottobre 1917).
«Cosí è (se vi pare)» di Pirandello. La
verità in sé non esiste, la verità non è
altro che l'impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un
certo fatto. Questa affermazione può essere (anzi è
certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio emesso da un facilone
spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo di
superficiale ilarità. Ma ciò non importa.
L'affermazione può dare luogo a un dramma lo stesso: non
è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime. Ma
Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione
filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio
superficiale. Dei fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non
hanno altra ragion d'essere che questa: la curiosità
pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa è
una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e
non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di
caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se
non logico. I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni
connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico
di parole che non creano né una verità, né una
immagine. L'autore li ha chiamati parabola: l'espressione è
esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la
dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la
fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita
pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non
bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione
è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano
piú, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto
della vita, perché nel teatro non bastano le virtú
dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa
rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che
conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione.
La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La
verità in sé non esiste, esiste l'interpretazione che
di essa dànno gli uomini. L'interpretazione è vera,
quando di un fatto rimangono tali documenti da permettere agli
uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto
che dà luogo alla parabola esistono solo due
testimoni-documenti: e i due sono interessati al fatto, e non
appaiono che esteriormente, nell'apparenza sensibile che si sviluppa
da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia
arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica:
marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di
mistero. Il mistero solletica tutte le curiosità pettegole
del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire
l'autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la
vecchia un'altra, uno lascia credere che l'altra sia pazza: chi ha
ragione? Il signor Ponza sostiene d'essere vedovo di una figlia
della signora Frola, d'essersi riammogliato, e di tenere con
sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la Frola solo per
un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita
alla morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia
sua figlia, sempre viva. La signora Frola sostiene che il Ponza
abbia avuto in un certo momento della sua vita un oscuramento della
ragione: che in quel periodo gli sia stata sottratta la moglie e che
egli l'abbia creduta morta, e non si sia voluto ricongiungere con
lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un altro
nome, credendola un'altra persona. I due separatamente sembrano
saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione,
sebbene reciprocamente operino come se veramente uno faccia la
commedia per pietà dell'altro. Quale è la
verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti:
il paese loro d'origine è distrutto dal terremoto, chi
potrebbe informare è morto. La moglie del Ponza fa una breve
apparizione, ma l'autore preso nell'incanto della sua dimostrazione,
ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io
sono l'una e l'altra cosa, io sono ciò che si crede io sia.
Uno sgambetto logico semplicemente. Il vero dramma l'autore l'ha
solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non
rappresentano però la loro vera vita, l'intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono
presentati come pedine della dimostrazione logica. Un mostro
pertanto, non una dimostrazione, non un dramma, e come residuo, del
facile spirito e molta abilità scenografica.
Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il Paoli, il
Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi
applausi a ogni chiusura di velario.
(5 ottobre 1917).
Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al
Carignano). Annibale Betrone ha scelto, per la sua serata, la
commedia di Paolo Ferrari: La satira e Parini. Scelta poco felice.
Se un significato possono avere queste serate speciali, esse lo
hanno per il fatto che l'attore beneficiato può scegliere nel
repertorio – spesso imposto da necessità industriali, e dal
particolare cattivo gusto imperante – quel lavoro che meglio si
confà con la sua preparazione, con la sua indole, con le sue
qualità piú intime, può scegliersi egli stesso
la interpretazione piú aderente alla sua personalità e
questa esprimere nel modo piú adeguato, come non è
dato sempre di poter fare. Nella commedia del Ferrari un solo
personaggio ha vita artistica propria, peculiare, il marchese
Colombi. Parini è un incidente, è un personaggio
esteriore, sebbene il suo nome appaia nel titolo e la sua persona
ritorni spesso sulla scena. Parini è un pretesto, un
meccanismo scenico, che serve a determinare un intreccio, ma non ha
vita propria, drammatica. Parla e opera secondo uno schema, come un
po' fanno tutti gli altri personaggi, eccettuato uno solo, il
marchese Colombi, che diventa cosí il vero centro artistico
della commedia, l'unica giustificazione artistica della commedia.
La beneficiata del Betrone è diventata cosí invece la
beneficiata di Giulio Paoli, per la logica stessa delle cose.
Perché un attore sia artista in atto è necessario che
le sue possibilità interpretative si sostanzino di vita reale
artistica. Il Betrone non poteva trovare questa vita nel personaggio
di Giuseppe Parini. Le sue possibilità non potevano che
rimanere esteriori, forma senza sostanza, cioè pura ipotesi,
sforzo di immaginazione, non plasticità. Un po' di
declamazione, nessuna interiorità. Un vero peccato.
Perché la serata di Annibale Betrone potrebbe sempre essere
una vera manifestazione d'arte, perché il Betrone è
attore tale da realizzare, in una opera d'arte, una interpretazione
perfetta. Le rappresentazioni solite, di ogni giorno, non
dànno mai occasione a una espressione di sé completa.
Sono frammentarie, incerte, provvisorie: le abitudini del teatro
italiano obbligano gli attori a una varietà di
interpretazioni che non può non essere a danno della
profondità, della compiutezza. C'è sempre un po' di
dilettantismo, di nomadismo, di improvvisato nei nostri attori. Le
elaborazioni minuziose, capillari, sono ignorate. L'intuizione
può supplire in parte, ma non riesce mai a dare quella
pastosità intensa di luci che dà la preparazione, il
lavorio critico.
Nel Betrone c'è l'intuizione vigile, pronta, e anche il senso
critico, ma non sempre le due possibilità si incontrano in
una stessa interpretazione. Accade che il senso critico debba
applicarsi a personaggi vuoti di sostanza artistica, e
l'interpretazione non sia che virtuosismo esteriore. E accade che un
carattere sia interpretato a grandi linee, nel suo complesso, ma
manchi all'interpretazione lo studio dei particolari che fa gioire
di ogni parola, di ogni cenno, perché in ogni parola, in ogni
cenno si vede un momento di vita, perché sempre si coglie
l'anima dell'attore che brilla e dà valore. Cosí in
questa edizione della commedia di Paolo Ferrari non può
apparire dell'arte di A. Betrone che qualche sprazzo inconsapevole,
manca la sostanza che si lasci foggiare, che diventi plastica
espressione di vita drammatica, o completa estrinsecazione di
qualità che pure esistono, ma non riescono a emergere che per
incidenza.
(21 ottobre 1917).
«Mimí» di Fraccaroli al Carignano. Mimí,
commedia in tre atti di Arnaldo Fraccaroli, è la sintesi
drammatica di un romanzo di Carolina Invernizio o di H. Malot e di
una raccolta di frizzi e piacevolezze estratta da
«Numero» dal «Guerin Meschino». Mimí
è una sorella maggiore di Scampolo, come Scampolo balza
fuori, tutta sfumata e senza contorni precisi, da una
infinità di libri popolareschi nei quali al tipo della
cocotte, o a quello della donna fatale viene preferito il tipo della
donna di natura, non ancora guastata dalla società, dal
contatto con la vita degli altri. Tipo, cioè non creatura
viva, individuata: cliché letterario, incipriato e
infiocchettato di frasi e di parole che fanno quasi sempre presa
facile sul pubblico grosso, che si bea dell'ingenuità
artificiosa, come un vecchio infrollito si bea delle smorfie e dei
capricci ammaestrati di una minorenne che conosce già alla
perfezione l'arte sua. Mimí è un'artista, una
pittrice: è una bohême, amica e compagna di ventura di
altri bohêmes. Ha la fortuna di trovare tutti galantuomini:
affamati, ma galantuomini, milionari, ma galantuomini. E sale,
diventa gloriosa, e sempre i galantuomini le allietano l'esistenza.
La guerra ha proprio, nella commedia di Fraccaroli, rinnovato il
mondo: il mondo è un idillio arcadico, soffuso di foglioline
di rosa, in ognuna delle quali è scritto un frizzo per far
sempre migliorare il sangue. Mimí anch'ella si mantiene pura
e onesta: sta per cedere, sta per insozzare la natura sua
candidissima in un'avventura, tiratavi piú che altro dal buon
cuore, e dal nobilissimo sentimento della gratitudine, ma non ne fa
niente. L'amore vero, quello che si trova cosí spesso citato
nell'«Amore illustrato» e nei melodrammi del Piave, la
distoglie dai mali passi, e la conduce a un ospedale militare dove
il suo bene, arrivatovi proprio caldo caldo, la sospira.
Applausi a ogni atto, sempre piú tiepidi. Il successo
relativo (troppo a ogni modo, e apportatore di nuove sciagure) fu
dovuto all'interpretazione: suggestiva in Maria Melato, misurata,
efficacissima nel Paoli.
(26 ottobre 1917).
«Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano.
Silvestro Bonnard messo in iscena non è piú il
Silvestro Bonnard di Anatole France. La concretezza della sua
personalità non resiste alla traduzione del romanzo in
commedia. La sua vita è nella parola, è celebrazione
di tutta la realtà, e si dissolve nella scena o si colora di
elementi estranei, che cozzano con quelli originari dando luogo a
una azione scenica talvolta trivialissima, priva come è
completamente di ogni spiritualità, pura macchina teatrale
che si trascina terra terra. Bonnard, come Bergeret, come altre
creazioni del France, sono concepite liricamente piú che
drammaticamente. Sono momenti polemici dello spirito dell'autore,
piú che disinteressate fantasticherie artistiche. Hanno un
qualcosa del Socrate nei dialoghi platonici, e artisticamente sono
definiti, non possono essere trasportati in una temperie che sia
diversa da quella che l'autore, sia pure arbitrariamente, ha
fissato; in quell'arbitrio è l'unica ragione loro d'essere,
quell'arbitrio è la loro giustificazione.
Nella commedia, Silvestro Bonnard diventa un personaggio da romanzo
popolare, un protettore svenevole delle orfane e dei pupilli.
L'ironia corrosiva diffusa nel romanzo, dilegua nella scena: Bonnard
si avvicina ai papà Martin del repertorio di Ermete Novelli e
perde quasi del tutto l'Anatole France. Tuttavia la commedia si
è sorretta, pur tra qualche incidente, grazie specialmente
all'interpretazione che del protagonista ha composto Ruggero
Ruggeri.
(8 novembre 1917).
Ruggero Ruggeri. Nel ripensare, prima di scrivere queste note, le
impressioni provate, volta a volta nell'assistere alle
interpretazioni di Ruggero Ruggeri; nel vagliare criticamente gli
elementi che dovrebbero comporre la personalità artistica
dell'attore e nell'accostare questi elementi di giudizio, si arriva
a un punto morto. Ogni sintesi è impossibile. Le impressioni
provate volta a volta non contengono in sé un elemento
connettivo che possa servire a saldarle insieme in un giudizio
unitario.
Ruggero Ruggeri è l'attore che recita sempre bene. Che in
ogni interpretazione – anche di cose mediocri o nulle – sa far
risaltare la sua parte, sa farsi notare, sa strappare, a un certo
punto, l'applauso. Ripensandoci, si trova che in ciò consiste
il suo talento, e la sua deficienza di artista.
Gli autori potranno essergliene grati, il pubblico non deve
essergliene grato. E neppure tutti gli autori: gli autori mediocri,
che non sanno dire una parola che valga in sé e per
sé, che viva di vita propria. Ruggeri è l'attore
dell'indistinto: conguaglia tutto: il bello e il brutto diventano
uguali attraverso la sua persona, e il bello ne soffre, ne viene
diminuito, non è piú lui. Chi si reca a teatro per
divertirsi, per passare l'ora, può essere lieto di
ciò: difficilmente prova una impressione sgradevole,
difficilmente dice d'aver perduto la serata, di non essersi
spassato. Ma lo spasso e il passatempo non sono sensazioni
estetiche. Il gusto gode nel rivivere con l'attore una creazione di
bellezza; prova anzi una doppia sensazione: rivive il fantasma
drammatico con l'autore e con l'attore. L'attore esprime
plasticamente il fantasma che l'autore ha espresso verbalmente.
È una doppia creazione, che, quando è perfetta, deve
dare una impressione solida, compiuta, senza residui.
Ruggeri non sa abbandonarsi all'autore, all'espressione verbale;
egli vi si sovrappone. E lo fa sempre allo stesso modo. La
duttilità dell'ingegno gli serve magnificamente. È
adusato a tutti i lenocini dell'arte: possiede la tecnica a
perfezione. Ma la pura tecnica è esteriorità: se non
si fonde con gli altri elementi che contribuiscono alla creazione,
se non diventa spontaneità, essa è un impaccio,
è una deficienza piú che una qualità buona.
Crea, come appunto in Ruggeri, il conguagliamento, l'indistinto,
mentre l'arte è sempre diversità, distinzione,
individuazione.
Per limitare e comprendere la fortuna e il successo del Ruggeri
bisogna porsi questa domanda: è possibile recitar bene
un'opera mancata? e rispondere. La risposta non può essere
che negativa, se si ragiona con criteri artistici. Recitar bene
un'opera mancata significa solo che l'attore è riuscito a
costruire un'apparenza di bellezza, che si è servito di
elementi extraartistici, di suggestioni che non hanno affatto a che
vedere con l'interpretazione. Ha isolato qualche elemento a
successo, e lo ha dilatato fino a dar l'impressione di una
compattezza espressiva. È il lavoro solito del Ruggeri. Le
commedie e i drammi del suo repertorio sono imperniati su un
personaggio: Lo sparviero, L'avventuriero, L'amico delle donne,
ecc.; gli altri personaggi sono sfumatura, penombra. L'unico
è anch'esso composto di molta sfumatura e penombra, e di
pochi sprazzi di luce: ma questa poca luce finisce con l'irradiarsi
in tutto il lavoro, col dargli una vita fittizia, che dura tra la
prima e l'ultima scena, e lascia in fondo la bocca allappata, e la
fantasia inerte.
Ruggeri non sa spogliarsi di questo abito di virtuosismo neanche
quando l'espressione verbale ha tale vita intima da poter dar luogo
alla vera interpretazione, alla traduzione integrale in valori
scenici. Il lavorio di isolamento è trasportato anche alle
opere d'arte; anche esse vengono raffazzonate, snaturate, e il
successo che le accompagna è in gran parte successo fittizio,
perché ottenuto con mezzi esteriori alla loro intima
grandezza.
Ruggero Ruggeri non è piccola causa del pervertimento
estetico del pubblico di teatro. Egli riesce a dare impressioni di
bellezza e di grandezza anche quando la bellezza e la grandezza
lasciano il posto al lenocinio e alla tecnica, e il pubblico finisce
col confondere, col perdere ogni esatto criterio di giudizio, col
ritenere che valgano ugualmente Bernstein e Shakespeare.
(25 novembre 1917).
«L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri. Le sofferenze e
le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto diventare
generosi, hanno elevato gli uomini. È il motivo dominante. Le
sofferenze e le angosce non hanno però fatto diventare
sinceri gli uomini che non erano sinceri, e specialmente gli
scrittori di teatro. Gli scrittori di teatro, francesi specialmente,
ma anche italiani, avevano creato, per uso industriale, un mondo
fittizio di avventurieri, di donnine allegre, di vecchie intriganti
e di vecchi satiri. Era una riduzione meccanica del mondo, era una
visione artificiosa del mondo, utilissima ai fini del successo,
perché offriva una inesauribile miniera di spunti, di
intrighi, di intrecci, non domandava sforzi di fantasia, non
domandava elaborazioni faticose. Il pubblico di scioperati che
affollava i teatri si divertiva e si diverte tuttora a quegli
intrighi e a quelle gaglioffaggini. Si è parlato però
troppo di virtú, di sacrificio, di doveri. Si è dovuto
riconoscere, per fini pragmatistici, che la virtú, lo spirito
di sacrificio, il sentimento del dovere, sono ancora radicati negli
animi. Chi si era troppo compromesso con lo scetticismo, chi aveva
lasciato troppi documenti della sua superficialità
spirituale, con rappresentazioni gaglioffe di una vita d'eccezione
presentata come tutta la vita, ha cercato una via d'uscita, ha
gridato al miracolo. La guerra ha fatto il miracolo, le sofferenze e
le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto il miracolo.
Rimane l'insincerità interiore, rimane la meccanizzazione
interiore della vita. La guerra, moralmente, non fa diventare
né generosi, né ribaldi, perché può far
diventare l'uno e l'altro, e non è ancor detto quali siano in
maggioranza questi prodotti, non della guerra, ma delle riflessioni,
dei giudizi, delle esasperazioni, degli entusiasmi che la guerra ha
servito a rinsaldare o a liquefare a seconda degli uomini, della
loro preparazione morale, della loro preparazione umana. La guerra
può aver elevato molti o pochi uomini, non ha elevato E.
Bernstein: nel caso nostro non lo ha fatto diventare artista, non
gli ha suscitato una fantasia creatrice. Egli è rimasto
ciò che era ieri: un abile scrittore di teatro, un abile
alchimista di parole. La guerra non può far diventare poeta
un mercante di parole: può dare semplicemente uno spunto
nuovo, può suggerire diversi accostamenti di parole: la
macchina generale rimane la stessa. C'è un marito vecchio,
che è uno scienziato, ed è un religioso della
volontà, che opererebbe cosí come opera anche senza il
fattore guerra: sarebbe in qualche istante meno retorico, e forse
neppure, perché tutto può diventare retorica.
È il personaggio piú completo, questo vecchio
scienziato, che non uccide la moglie adultera, che riesce a
dominarsi anche in momenti che si è abituati a vedere tragici
in sé e per sé. Gli altri due personaggi sono
sbiaditi: le troppe parole che dicono non bastano a circoscriverli:
anzi quanto piú parole sublimi pronunziano, tanto piú
essi disperdono la loro personalità, che si generalizza e
dilegua nell'indistinto. Il soldato ferito, moribondo,
«elevato» dalle sofferenze e dalle angosce,
morirà: è una grande fortuna per l'autore,
perché presentare dei grandi moribondi, è piú
facile che rappresentare dei piccoli vivi che dimostrino
quotidianamente, nelle piccole cose specialmente, la loro
elevazione. L'artificio è troppo visibile per chi non
abbandona l'abito critico sul limitare del tempio grandioso della
retorica neanche nei momenti di piú infuocata esasperazione
sentimentale.
Il dramma di Bernstein è il solito dramma del terzetto
classico: l'anima vecchia, non «elevata» dell'autore, ha
bisogno della catapulta di guerra per credere davvero che ci siano
uomini e donne capaci di compiere il loro dovere. Questo
gaglioffismo morale gli imbottitori di crani lo chiamano
«l'anima nuova della giovine generazione».
(28 novembre 1917).
«Il piacere dell'onestà» di Pirandello al
Carignano. Luigi Pirandello è un «ardito» del
teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei
cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità,
rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito
grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che
escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però
non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere
imitate, non possono determinare il cliché di moda.
C'è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che
tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce,
dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una
plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile. Cosí
avviene nei tre atti del Piacere dell'onestà. Il Pirandello
vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come
programma, la vita come «pura forma». Non è un
uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone,
è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in
verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto
il torto di essere tale per cui la «pura forma» è
in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino
si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua
vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è
stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi
degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa
il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si
realizza per sé, ma scombussola tutto l'ambiente e arriva a
questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli
altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore,
diventi ladro, perché la «pura forma» si sviluppi
in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur
rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro
è il marchese, e che non impunemente si accettano dei
contratti in cui la logica e la volontà di uno deciso a
rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di
scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno
svolto pericoloso, e un po' confuso. Le reazioni sentimentali hanno
il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende
un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie
putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che
non è un briccone o un galantuomo, ma solo un uomo che vuole
essere l'uno e l'altro, e sa essere effettivamente galantuomo,
lavoratore, perché queste parole non sono che attributi
contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà
creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto
alla virtú di persuasione insita nel processo fantastico
dell'intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la
Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il
Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso
presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che
contribuí a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di
scorci della commedia.
(29 novembre 1917).
«Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano.
Carlo Veneziani è un professionista dello spirito. Ogni suo
lavoro è immancabilmente esuberante di spiritosaggini: tanto
esuberante che si finisce per rimanerne stuccati. Il braccialetto al
piede, commedia in tre atti di Carlo Veneziani, è
naturalmente tutta una spiritosaggine: dalla prima all'ultima
parola. Ed è anche tutta una goffaggine: succede spesso che i
professionisti dello spirito siano i piú goffi uomini del
mondo. Perché essi sono d'una superficialità
esasperante, perché la loro particolare attività manca
di ogni spontanea vivezza. L'espressione è frusta, i
personaggi sono presi dalla cronaca piú banale. Come in
questa commedia. Un candidato politico, avvocato, grande avvocato
che si fa preparare da un segretario tutto il materiale della sua
fama. Che vive d'intrigo, che si prepara nelle alcove il titolo
maggiore del successo politico, mentre sua moglie lo aiuta,
concedendo le sue grazie a un vecchio, padrone di un giornale.
E come contrasto a questo vecchio cliché, un altro
cliché piú vecchio ancora: una donna galante, che si
è arricchita oltre oceano, e si addimostra nel vecchio mondo
la migliore, fra tutte le fame usurpate che la circondano.
Una farsaccia legata insieme alla meglio, senza vita, senza un
attimo di comicità, e che è caduta tra la noia e
l'indifferenza.
(5 gennaio 1918).
Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al
Carignano). L'amazzone di Henri Bataille è ritornata al
Carignano nella traduzione italiana. Si è accostata
cosí al pubblico nostro, ha suscitato discussioni e
riflessioni: ha avuto e avrà, per quel poco che è
consentito alle opere di teatro, efficacia costruttiva di
moralità, di attività giudicatrice. Il Bataille
continua nell'Amazzone il teatro suo anteriore alla guerra. Rimane
uno scrittore moralisteggiante. Non ha, come Bernstein e altri,
cambiato di moda. L'atmosfera della drammaticità è
sempre la stessa, se pure sono cambiate per la guerra le
contingenze, i motivi occasionali dell'azione drammatica. Il
Bataille sublima le creature della sua fantasia, assegna loro un
compito e un apostolato: dovrebbero esse superare l'ambiente morale
in cui vivono, essere gli esempi di una umanità migliore,
piú spirituale, in cui gli imperativi categorici del dovere
si affermano senza residui. Ma l'espressione artistica viene
contaminata da queste giustapposizioni volontarie: i personaggi si
sbiadiscono, perdono gran parte della umanità loro, sono
bocche da discorsi, simboli in cui si accumulano le esperienze dello
scrittore, ponticelli tra l'autore – che non è filosofo, e
non sa dare forma filosoficamente adeguata alle sue impressioni – e
il pubblico, che l'autore vuole compartecipe dei suoi sentimenti,
del suo mondo interiore, che però non riesce a esprimere
intrinsecamente e si adagia piú male che bene, nelle forme
tradizionali della letteratura.
L'amazzone ha un corpo femminile e un nome: Gina Bardel, ma non
è solo una donna. È tutto il complesso delle forze
spirituali che spingono gli uomini alla guerra.
È la materializzazione sensibile dello spirito di guerra:
è la Francia, è l'idea del dovere, è l'idea del
sacrifizio del singolo per la collettività, è
l'energia necessaria per questo sacrifizio [alcune righe censurate].
Cosí come Cecima Bellanger, che nei primi due atti è
appunto solo questa semplice creatura umana, individuo vivo e
dolorante, nel terzo atto si compone in simbolo: è tutto il
sacrifizio dell'umanità per la guerra, è la somma di
tutti i dolori, di tutte le lacerazioni, di tutte le lacrime che la
guerra ha prodotto e fatto versare. Questi dissidi tra individui e
simboli, tra la realtà sensibile e l'astrazione ideale
contaminano tutto il dramma, lo rendono artisticamente una
raffazzonatura, se pure sapientemente costruita. Ma il problema
spirituale raggiunge il suo completo sviluppo, il fine morale che
l'autore si proponeva di fissare, acquista una concretezza quasi
rappresentativa.
La guerra ha domandato ai popoli ogni sacrifizio, e specialmente il
sacrifizio massimo, quello della vita. Ma la guerra per ottener
ciò ha dovuto incarnarsi in uomini e donne vivi, che la
necessità della guerra hanno predicato, che con la parola,
con la dimostrazione hanno contribuito a suscitare entusiasmo, a
inebriare le coscienze, a mettere a contatto la coscienza
individuale con la coscienza universale, a far dimenticare i doveri
individuali per un superiore dovere che si è rivelato
attraverso le loro parole. Milioni d'uomini sono cosí morti,
centinaia di migliaia di famiglie si sono disciolte, centinaia di
migliaia di cuori sono stati inguaribilmente feriti. La guerra
finisce: il dovere è stato compiuto, il sacrifizio è
stato consumato. Qual è il destino oramai dei rimasti, ma di
quelli specialmente che hanno incarnato lo spirito della guerra, che
hanno rappresentato la necessità, il dovere, lo spirito di
sacrifizio? È il problema del dopoguerra spirituale che il
Bataille cosí si pone e cerca di risolvere. La vita, la
felicità cercano di riattirare a sé questi uomini e
queste donne. E pare che i sopravvissuti debbano avere il compito di
rifare il mondo, di sanare le ferite profonde inferte dalla guerra
alla compagine sociale. Ma cosí non può essere.
Predicando la morte, il sacrifizio, quelle creature si sono
indissolubilmente votate alla morte, al sacrifizio. Esse devono
rappresentare un olocausto al carnaio che hanno contribuito – sia
pure per necessità, per alta missione ideale – a determinare.
La vita non deve piú avere un raggio di luce per loro. Questo
destino non è segnato nelle leggi, non può comportare
sanzioni per quelli che tentino eluderlo. È intrinseco,
è una necessità interiore. Quando qualcuno di questi
segnati starà per dimenticare, per rientrare nella vita, un
fantasma si drizzerà loro di contro: il fantasma del passato
sanguinoso, che reca l'impronta anche delle loro piccole mani.
Sarà una generazione di puri apostoli del dovere, che si
chiuderanno nel chiostro della loro coscienza, che saranno come un
ordine laico di sacerdoti addetto al culto dei morti, le vestali che
dovranno sempre mantenere accesa la lampada dell'ideale,
alimentandola del loro sacrifizio, della loro rinunzia alla gioia e
alla felicità.
Questa l'atmosfera morale del dramma. Questo il fine che il Bataille
propone come dovere imprescindibile alle «vergini
guerriere», alle «seminatrici di coraggio», a
tutta quella parte di umanità che si è assunta
liberamente e spontaneamente il compito, gravido di
responsabilità, di richiamare gli individui al sacrifizio, al
senso del dovere. Non è un dopoguerra di riposo, di
tranquillo riassestamento delle esigenze della vita. La vita non
ricomincia domani per loro, come per i combattenti. Anzi la vita dei
combattenti deve essere per loro la fine della vita,
dell'attività, del fervore per il velo monacale, per il
cilicio che strazia le carni.
Il dramma vale come presentazione della tesi, come esemplificazione
del dovere che dovrebbe germinare spontaneamente nelle coscienze.
Gina Dardel, la vergine guerriera, quando sta per spogliarsi del
cumulo di astrazioni che ha impersonato, e diventare vita sensibile,
rinunzia alla vita. Ha contribuito a fare andare un uomo, molti
uomini verso la morte, ha inebriato di follia, è stata
l'immagine necessaria ai cervelli per veder meglio, per la saldatura
tra il reale e l'ideale: il ricordo la riprende, la incatena, ed
essa se ne va verso il suo destino.
La compagnia Tina Di Lorenzo ha dato una efficacissima
interpretazione del dramma che pure non può, per la sua
impostazione, dar luogo a un grande successo.
(10 gennaio 1918).
«Fum e fiame» di Leoni al Rossini. Lo spirochete pallido
del pregiudizio di guerra, nel processo di infezione letteraria,
è arrivato anche al teatro dialettale: Mario Leoni è
stato il veicolo epidemico: i quattro atti di Fum e fiame sono le
quattro vittime piú illustri del morbo. La guerra, come
abbiamo piú volte visto, è diventata la macchina
moralizzatrice, la panacea universale, il motivo comodo e redditizio
per una nuova tradizione di «lieti fini».
Prefatto della nuova commedia: Michele, pecora matta, nella famiglia
rusticana di pare Lorens, e stato scacciato di casa, dopo aver reso
infelice sua moglie Nina, ha vagabondato per molti anni all'estero,
ha avuto una figliolina da un suo amore randagio.
Intreccio: Guido, altro figlio di pare Lorens, giovane esonerato, si
innamora della cognata, e le offre un prezioso ventaglio (il ricordo
goldoniano non giova davvero al lavoro di Mario Leoni); Nina, che
è donna di eletta morale, non accetta il regalo galeotto, e
il ventaglio passa nei capaci cassettoni di mare Vittoria. Michele
ritorna a casa con la sua figliolina. Mare Vittoria lo accoglie come
tutte le madri immancabilmente accolgono i figli prodighi: il
perdono sarebbe generale, se tra Michele e Nina non si frapponesse
la bimba straniera. Un tentativo di conciliazione avviene per mezzo
dell'infausto ventaglio, che Michele, per suggerimento di sua madre,
offre alla selvatica moglie nel giorno onomastico. Scoppia
l'uragano: Nina suppone intenzioni oltraggiose nel dono: Michele
viene a conoscenza del peccato di pensiero di suo fratello. Un
dramma sanguinoso sta per nascere.
Scioglimento: nell'istante in cui i due fratelli stanno per trovarsi
di fronte, l'un contro l'altro armati, suona la belligera squilla.
La classe di Michele viene richiamata alle armi. I cuori feroci si
compongono in serenità. Guido andrà anch'egli in
guerra, volontario. Michele ha la promessa tacita di un coniugale
perdono al suo ritorno: Nina si ammansa fino ad accogliere in sua
custodia l'innocente bambinetta. L'orizzonte si colora in lontananza
del roseo matrimoniale: perché anche Guido ha scoperto la
vera sua anima gemella.
Consolazione dei poveri ma onesti genitori che soddisfatti assistono
a queste metamorfosi della loro amata prole.
E la commedia finisce coi soliti applausi a Mario Leoni che anche
quest'anno ha sfornato l'ennesimo suo capolavoro.
(23 gennaio 1918).
«La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al
Carignano. Il nucleo drammatico di questi tre atti dovrebbe
consistere in un fatto sessuale. Dovrebbe, ma gli autori non si sono
troppo preoccupati dell'unità, della consistenza del loro
lavoro: volta a volta, essi si sono lasciati sopraffare dagli
episodi, dal particolare scenico, e cosí il dramma si
è venuto svolgendo senza nessuna armonia, senza che la
molteplicità dei suoi momenti abbia una profonda ragione di
esistenza.
L'intreccio si fonda su un abusato giuoco di prospettiva: mentre un
motivo drammatico si inizia per un personaggio, lo stesso motivo si
conclude e determina la crisi interiore di un altro.
Il conte Rolando D'Astico ha, nella sua giovinezza, in un istante di
ebrietà sconsiderata, violentato una cameriera di sua madre.
L'episodio non ha lasciato alcuna traccia nella sua vita successiva:
egli ha ignorato la donna, il suo destino, le conseguenze di quel
momento di pura animalità irresponsabile. Nei vent'anni che
sono trascorsi d'allora ha avuto tempo di rovinarsi per un'altra
donna, di diventare una «macchietta»: povero, trascurato
nell'apparenza esteriore della sua vita di nottambulo
filosofeggiante, vivacchia scrivendo articoli per i giornali,
conferenze, libri. Gli autori lasciano comprendere come egli sia un
genio incompreso, un uomo di grande intelligenza, sebbene ciò
non appaia troppo dalla scena, e da qualche battuta piuttosto povera
di umorismo e dalla quale appare solo la mania da gazzettiere dello
Zambaldi di occuparsi di cose che non intende. Ma lasciamo andare:
anche questa non è che una delle tante prove della poca
consistenza del dramma. Il conte D'Astico è un uomo oltre che
una caricatura di filosofo, come non poteva non essere nelle mani di
questi autori. Come tale, conosce un giovanotto, un pittore di belle
speranze anch'egli, che è travolto da una passione
ossessionante per una donnetta da poco, una ballerina, una che
è stata, e continua a essere, merce sessuale. Il pittore,
Stefano Landi, ha però avuto una signorina di buona famiglia
e l'ha resa madre.
Rolando lo avvia al dovere, alla riparazione necessaria, e ne
ottiene la promessa. Ma ecco che egli stesso viene a sapere di
essere padre, di non avere compiuto il suo dovere, e per di
piú viene a sapere che sua figlia è proprio quella
donnetta da poco, quella ballerina che ossessiona Stefano. Che fare?
Quale è ora il dovere? Come deve operare un uomo che diventa
padre per sbaglio, inconsapevolmente, senza che egli sia stato
unito, alla madre del nato, da vincoli spirituali, oltre che
dall'accostamento fisico? Il conte D'Astico non sa rispondere a
queste domande. Nessuno dei personaggi regolari sa rispondere.
Stefano Landi, che non ha mantenuto la promessa, e non ha alcuna
voglia di mantenerla, declama una sua interessata teoria sulla
spiritualità dell'accoppiamento. Rolando pare accettarla, ma
sua figlia, non conoscendolo come padre, lo atterra con le istintive
parole della sua femminilità: ella vuole che Stefano sposi la
madre del bambino nato da un istante di stordimento primaverile, e
inveisce contro gli uomini che non sanno quale destino creino a
tante vite, inveisce contro suo padre, l'ignoto egoista che l'ha
ridotta la donna di tutti. Cosí avviene che il conte
D'Astico, ammalato di cuore, muoia tragicamente dopo questa crudele
scena, senza aver risolto nulla, e senza aver potuto, nella sua
persona, accogliere ed esprimere il dramma che gli autori, indecisi
tra la «macchietta» e la serietà, tra l'episodio
e l'unità, non hanno saputo concretare.
Commossero il pubblico alcune scene di spolvero, e ciò
procurò molti applausi agli autori, ad Armando Falconi come
attore, e agli altri.
(7 febbraio 1918).
«A' berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello
all'Alfieri. È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello,
un episodio, un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto
autentico del temperamento personalissimo dell'autore, ma non
è stata elaborata, e rifinita come le altre commedie. Lo
spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non
esce certo dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali,
siano sentimentali, ma l'autore svecchia il motivo antico, lo
presenta rivestito di peculiarità caratteristiche, i
personaggi sono suoi, della sua fantasia, le parole che dicono hanno
una vita nuova, di stile e di passione. In questi due atti
c'è poca intensità: la dimostrazione soverchia
l'azione, la diluisce, la svanisce. A' berritta ccu li ciancianeddi
continua la serie delle altre commedie, è un residuo delle
altre commedie: continua la rappresentazione esemplificata delle
contraddizioni tra l'essere e il voler essere, tra l'apparenza e la
realtà, tra l'immagine e il vero, che hanno avuto due momenti
drammatici nel Cosí è (se vi pare) e nel Piacere
dell'onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso
non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale:
qualche battuta, qualche piccola scena, la vita è solo
nell'interprete, in Angelo Musco, che riesce a far superare il tedio
delle lunghe parlate non piú interessanti spesso di quelle
del piú melenso scrittore di teatro.
C'è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e
innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non
vuole sul suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello
scherno. Egli sopporta il tradimento per conservare la donna,
poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo sdoppiamento
dell'uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione
sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il
segreto viene propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene
colta in flagrante adulterio. Un tranello è stato teso dalla
moglie gelosa dell'adultero, e l'arresto dei due colpevoli
rovinerà l'esistenza di don Nuccio, se egli non riesce a far
credere che si tratta di una pazzia, che l'accusatrice è
stata una pazza. Cosí si chiudono i due atti: il marito becco
pone un dilemma: o la strage dei due colpevoli, sua moglie e
l'amante, o la finzione della pazzia nell'accusatrice, nella donna
gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha rovinato un quarto
innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione indirettamente,
facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire
incompostamente e goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco
dalla signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza
civile e lascia senza freni la vena di follia che esiste in ogni
umano.
La commedia si impernia tutta su Angelo Musco, che riesce colla sua
comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata,
irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante, a destare
l'interesse degli spettatori, che si raccoglie nei due atti per
dilatarsi ed espandersi nella risata finale.
(27 febbraio 1918).
«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella. Un ramo di
pesco entra un giorno nella stanzetta di una maestrina, e la
maestrina ne coglie un frutto mentre il padrone dell'albero, sindaco
del villaggio, conte, e uomo di cuore invano verniciato di
scetticismo parigino, passa sotto la finestra.
Il conte Filippo si presenta alla maestrina in atteggiamento
sguaiatamente spavaldo, si abbonisce dopo cinque minuti di dialogo,
si intenerisce dopo un quarto d'ora, se ne va, dopo mezz'ora,
mutato, galantuomo, buono, ricolmo di tutte le migliori intenzioni,
con un principio di innamoramento. La signorina Maria Bini ha
raccontato la storia della sua vita al conte Filippo, e si è
rivelata in tutta la sua dolorante umanità di sedicenne
sedotta da un rustico don Giovanni, madre separata dal frutto delle
sue viscere, imbarcata subdolamente per l'America, ritornata dopo
nove anni e ridottasi a fare la maestra per poter ogni giorno
recarsi a un cimitero vicino, nel quale devono giacere la polvere e
le ossa della sua bambina.
Il conte Filippo, abbandonata definitivamente la scorza esteriore
dello scetticismo e del pariginismo conquistatore, si pone
all'opera. Rintraccia il seduttore, un porcospino immorale, dalla
cotenna piú spessa di quella di un cinghiale, che ha mandato
in America un mezza dozzina di minorenni, che, da perfetto farabutto
non può non essere immerso in un brago di maialerie: sua
moglie infatti è l'amante del curato, e il curato protegge le
capestrerie del marito della sua amante e allontana dal suo capo i
fulmini della giustizia.
La figliolina di Maria Bini non è morta, sebbene non sia viva
nello stato civile, avendola il padre snaturato privata della sua
identità sociale registrata e autenticata. Vive dunque, veste
panni, e frequenta la classe proprio dove sua madre è
maestra. Ma quale bimbetta sarà dessa? Il mistero dà
luogo a una scena impeccabilmente commoventissima, nella quale si
contempla la signorina Maria Bini che abbraccia freneticamente un
mucchio di testine bionde e brune, tra le quali non può non
esserci la testina di una figlia del mistero, del peccato, e della
delinquenza piú snaturata e cocciuta.
Il seduttore Giacomo Macchia sta ritto, cinicamente indifferente e
muto, innanzi al conte Filippo. Nega tutto, lo sciagurato impudente.
Un articolo di codice, un mandato di cattura per manomissione di
stato civile, un delegato di P. S. che pronunzia le sacramentali
parole: in nome della legge, vi dichiaro in arresto. Giacomo Macchia
la molla. La bambina viene identificata. Ella si presenta alla mamma
sua e pronunzia alcune di quelle frasi innocenti che fanno
cosí bene al cuore dopo aver visto sbavare un rettile del
volume e della lunghezza di Giacomo Macchia. Maria Bini
rimarrà con la sua creatura, e il conte Filippo sarà
il loro angelo tutelare, non avendo potuto essere il rispettivo
consorte e padre adottivo.
Tre atti: autore, Dario Niccodemi: titolo La maestrina, interpreti:
Tina Di Lorenzo e Armando Falconi, nelle due parti principali, il
Migliara e la Donadoni in due parti secondarie. Metodo per la
mozione degli affetti: il vecchio metodo bernsteiniano di far
culminare l'atto in una scena patetica che ammollisce il cuore.
Molta maestria teatrale: nessuna traccia d'arte, e quindi moltissimi
applausi.
(28 febbraio 1918).
«Il nuovo falco» di Teglio al Carignano. Il signor Paolo
Teglio voleva scrivere una commedia, e voleva che essa fosse
originale. Il signor Paolo Teglio, pensa e ripensa, scoprí
che fra i tanti ingredienti che la vita e la società pone a
disposizione degli scrittori, l'aeroplano non era ancora stato
convenientemente sfruttato. Il signor Paolo Teglio decise allora di
scrivere una commedia in cui entrasse l'aeroplano. Ma l'aeroplano
è un meccanismo che non parla e non si muove senza che uno o
piú uomini lo mettano in movimento e lo facciano diventare
oggetto di drammaticità (almeno nell'apparenza) di azione, di
passioni, di contrasti. L'aeroplano, insomma, si rivela come una
pura esteriorità, che in un lavoro drammatico ha la stessa
importanza delle sedie, degli alberi, delle pareti di una stanza,
delle scarpe che i personaggi riempiono con i loro arti inferiori.
Ma il signor Paolo Teglio aveva appreso molte parole che si
riferiscono all'aeroplano e alle sue funzioni, aveva persino
imparato il grido di guerra degli aviatori: Eja, eja, alalà.
Probabilmente il signor Paolo Teglio è un aviatore, o almeno
ha provato le emozioni del volo, e perciò crede che di per
sé l'aeroplano possa destare negli spettatori di una commedia
quell'empito fuso e vago, fatto di brividi carnali e di
fantasticheria astratta, che deve provare chi si solleva dalla terra
affidandosi a un fragile strumento meccanico. Certo è che
nella commedia manca ogni altra drammaticità, ogni azione,
ogni movente di azione. C'è un intreccio, ma esso rimane pura
successione di scene e dialoghi, senza anima, senza
interiorità. Un ingegnere che è stato rovinato da un
giovinastro scioperato, e inventa un nuovo aeroplano: un giovinastro
scioperato che, dopo commessa una grave colpa, viene toccato dallo
spirito del bene e diventa pilota, e si redime. Una signorina che
all'insaputa del papà, accompagna il suo amico nei voli e,
coi capricci, riesce a farsi condurre a bordo anche per il volo di
prova della nuova macchina inventata dal papà e guidata
dall'amico convertito al lavoro e all'attività buona. Il
nucleo di ogni scena, di ogni dialogo è sempre e solo:
l'aeroplano, il volo, che sostituisce la continuità
drammatica, che determina un'unità fittizia e puramente
esteriore. La commedia è condotta sul canovaccio di una
pochade: l'elemento sensuale è sostituito dalla declamazione
eroica o letteraria, ma l'impostazione è la stessa: una
macchina, non l'interiorità passionale, un susseguirsi di
scene, non l'azione, declamazione letteraria piú o meno, non
espressione spirituale. Il pubblico ha fatto giustizia dei tre atti
del signor Paolo Teglio senza molti sforzi e con molto tedio.
(8 marzo 1918).
«Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri.
È la storia di una beffa, che culmina anch'essa in una
mangiata, come tutte le beffe classiche. Ma il Barbiera non è
un poeta come Sem Benelli: e don Cecè non è Giannetto.
Don Cecè è uno scrocco, una macchietta da villaggio
siciliano, che i «galantuomini» del paese nutrono, e
fanno diventare assessore, perché se ne divertono,
perché egli li sollazza con le sue millanterie e i suoi
pettegolezzi. La burla è fiera: don Cecè si crede
cavaliere, crede di aver conquistato una primadonna di Guittelemme,
e si vendica, fieramente anch'egli: una fischiata alla primadonna,
un pignoramento per mano d'usciere al rivale in amore, una sommossa
delle legittime consorti per gli altri beffatori. Don Cecè
è Angelo Musco: i tre atti sono farseschi, senza pretese di
successi letterari.
(13 marzo 1918).
«Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano.
Due statue settecentesche acquistano vita e movimento per
partecipare a una festa mascherata del secolo delle crinoline.
Scendono dai loro piedistalli, si confondono tra gli invitati. Si
confondono? Ohibò, esse non possono affatto confondersi. I
due esemplari del secolo dei lumi, nel trasformarsi da frigido marmo
in carne e ossa, sono passati per la fantasia di una poetessa
moderna ed hanno subito qualche leggera truccatura: essi diventano
gozzaniani. Nella fantasia di un artista probabilmente i due
sarebbero saltati vivi, agili, pieni di nervi e di vitalità
carnale, da una pagina di Giacomo Casanova. Nella fantasia di Amalia
Guglielminetti essi diventano due teneri calamaretti intrisi di
bianca farina, che a gara vogliono ognuno saltare per il primo nella
bastardella di una moderna friggitoria. Essi appartengono a quel
fantasioso settecento di maniera col quale scherzò
argutamente Guido Gozzano. Ma il Gozzano metteva nei suoi leggeri
fantasmi un sorriso arguto, una tenerezza ironica di
superiorità spirituale: egli era quel settecento, erano i
suoi sogni, la sua sensibilità, che fioriva diafana e anemica
in versi di rimpianto scherzoso, in tenere figurine ritagliate con
pazienza su vecchia carta da tappezzeria. La Guglielminetti prende
sul serio la sua finzione, e il secolo dei lumi rivive in versi
inzuccherati che sono davvero vecchia ammuffita tappezzeria, in cui
sono state tagliate delle marionette che hanno la pretesa di vivere
da sé, senza sorrisi ironici, povere figurine che nessun
giuoco spiritoso fa muovere, che nessuna melanconia profonda sono
riuscite a far intenerire.
Vogliono impartire una lezione di galanteria le due statue redivive:
fanno sul serio, e i loro discepoli moderni sono anche essi di una
furibonda serietà: immaginatevi che anche essi facciano i
moderni per partito preso, pur senza giungere alle esagerazioni
americane, e poi pensate al contrasto. Quale contrasto, mio Dio, e
come sono infelici i moderni! A che serve poter volare, disporre del
telefono e dell'automobile? Manca la grazia e il saper fare, manca
la parola che fiorisce nel madrigale e nel ghiribizzo. E hanno
terribilmente ragione le due statue parlanti: esse stesse sarebbero
state diverse se Amalia Guglielminetti non fosse una moderna
letterata, che prende troppo sul serio i modelli letterari:
sarebbero vivificati dalla spiritualità, la divina Ironia
avrebbe con pochi tratti finito la loro mascheratura: e in quei
pochi tratti avrebbero avuto la loro ragion d'essere, la loro
poetica necessità, poveri calamaretti intrisi di bianca
farina, condannati a ballare in una bastardella di moderna
friggitoria.
(14 marzo 1918).
«Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri. Ricordate
il ragionamento col quale don Ferrante dimostra nei Promessi Sposi
che il contagio non può essere causa della peste? Don
Ferrante è un logico serrato, e il suo ragionamento non fa
una grinza. Dal contrasto tra la realtà e il ragionamento
scoppia irresistibile la comicità del personaggio manzoniano,
che muore di peste, persuaso però sempre che in essa non
entri il contagio. Un personaggio della stessa comicità
sembrava che il Martoglio avesse introdotto nella sua commedia il
Contravveleno. Nel primo atto don Procopio ha davvero un qualcosa di
manzoniano: egli ragiona del colera, dei microbi, del contagio, con
la stessa serietà scientifica di don Ferrante. Ma, in
complesso, ha una nozione del fenomeno epidemico che si avvicina
alla realtà. Gli manca però la precisione e
l'esattezza nella descrizione, che è sostituita dalla fede
nel sapere e nella cultura moderna. Il pubblico cui si rivolge, per
illuminare e scacciare la superstizione, è refrattario, non
comprende neppure gli elementari concetti, e don Procopio si avvolge
in una matassa di parole strambe, che vengono sfigurate ancora e
contorte. Il primo atto è prolisso, esagerato farsescamente
nei particolari, eseguito in fretta e senza alcuna cura, ma pure
riesce a porre in rilievo questo personaggio, a fargli iniziare
un'azione che pare debba continuare. Resisterà la scienza di
don Procopio alla suggestione del mondo che lo circonda,
soccomberà o trionferà egli, nella sua coscienza,
della superstizione dell'ambiente? Estenuato da un digiuno troppo
lungo, egli divora avidamente un cibo indigesto e pesante, beve un
po' di vino: l'inedia soddisfatta brutalmente lo fa vacillare, lo
intorpidisce: si grida al sortilegio, al colera trasmesso per magia.
Ma nei due altri atti, non è questo don Procopio che
riappare: l'autore non perseguiva un fine artistico, non voleva
suscitare comicità di caratteri umani. La commedia si
sviluppa (!) e si conclude come una farsa, e in don Procopio
è uno dei tanti miserabili affamati, azzeccagarbugli, ottimo
cuore, bocca di spropositi banali, che appare. La commedia è
via vai di scene, di dialoghi scuciti, che possono o non valere per
sé, ma non concretano una unità poetica; trionfa la
prolissità, la sconnessione del primo atto senza che abbia
sviluppo il motivo organizzatore che in esso era contenuto.
I tre atti sono stati applauditi, specialmente per l'interpretazione
vivace e colorita di A. Musco e della sua compagnia.
(20 marzo 1918).
«Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano. A breve
distanza di tempo sono state rappresentate a Torino due nuove
commedie di Sacha Guitry L'illusionista e Jean La Fontaine: un
insuccesso e un mezzo successo. Non è giustificata la diversa
accoglienza fatta ai due lavori; non è giustificata almeno da
un punto di vista critico. È sempre lo stesso Guitry, che si
mantiene allo stesso livello, in queste due ultime commedie come
nelle precedenti: La presa di Bergop-Zoom, o Facciamo un sogno.
L'Illusionista anzi è piú completa delle altre, rivela
meglio l'autore, perché nel titolo stesso è contenuto
il programma artistico del Guitry.
Non teatro dei soliti, sebbene l'originalità sia puramente
esteriore; non gli intrecci soliti; ma dialogo; puro dialogo, che
deve suscitare ondate di simpatia negli spettatori, cosí come
deve prima suscitarle in uno degli interlocutori. L'azione non
è urto di grandi passioni, elaborazione di forti
personalità fantastiche che operano, suscitando contrasti
drammatici o comici: è lieve, vellutata creazione di stati
d'animo provvisori, che si esauriscono in breve tratto di tempo,
finché dura l'illusione che la parola melliflua, che il
discorso capzioso sono riusciti a destare. È sempre un
illusionista che Sacha Guitry introduce nelle sue commedie,
illusionista che incanta le femmine per una breve ora d'amore, che
cerca spiritualizzare l'atto sessuale quando esso è
piú meccanico e animalesco, nelle avventure da pochades,
cosí come esso dovrebbe essere nelle manifestazioni normali
della sessualità, nel matrimonio, nella convivenza che ha un
fine superiore al piacere. Nell'Illusionista il giuoco scenico
è piú raffinato e sottile: la commedia è caduta
(almeno nella sua clamorosità) perché
l'interpretazione buffonesca ha impedito fin dalla prima battuta che
si iniziasse l'incantamento, la suggestione. Gli interpreti non
hanno preso sul serio l'autore, e la tenuità comica è
diventata grottesca buffoneria, cosí lontana dalle
possibilità del dialogo, che questo si è appesantito
immediatamente in un immenso tedio, in una sguaiatissima caricatura.
Jean la Fontaine ha avuto miglior fortuna. Esso è la
descrizione del ciclo che deve subire il matrimonio perché
diventi moralità. Il Guitry, nonostante le apparenze,
è autore essenzialmente morale, perché lo sforzo
massimo dei suoi lavori consiste nel far arrivare i protagonisti a
un piano superiore di spiritualità in cui si giustifichino e
si moralizzino gli istinti e i capricci. La giustificazione morale
del matrimonio è l'amore; Jean La Fontaine si separa dalla
moglie infedele, vive la pienezza della sua intellettualità,
raccoglie fama e popolarità, e ritorna alla moglie, non come
marito autenticato e legalizzato dal contratto nuziale, ma come
uomo, come amante. Nel terzo e nel quarto atto il Guitry applica il
suo metodo, crea l'illusione verbale del nuovo contratto, del nuovo
ambiente morale in cui dovrà svolgersi l'attività
amorosa, la convivenza nuova dei due soci. La Fontaine come storia,
come uomo già vissuto, è un pretesto che serve ad
aumentare l'illusione, che accresce forza alla dimostrazione
implicita di una tesi, col fascino che il grande scrittore esercita
in Francia. Il mezzo successo che la commedia ha ottenuto in Italia
è dovuto in parte anche alla mancanza di questa suggestione,
esteriore quanto si vuole, ma sulla quale lo scaltro autore deve
aver calcolato come su un ingrediente di primordine per il grande
successo [nel suo paese]. Cosí pure è andata perduta
l'intima potenza suggestiva di una gran parte del dialogo, che non
risvegliava nel pubblico nostro nessuna eco, nessun richiamo a una
tradizione letteraria e di costume vivissima in Francia. Ma la
commedia è emersa, malgrado tutto, e ha interessato, come
dovrebbe interessare sempre il Guitry, che è superiore
indubbiamente alla paccottiglia solita del teatro francese, e
stimola il gusto, e raffina, sia pure per antitesi, la
sensibilità, tanto nel pubblico, come negli attori, che
devono continuamente padroneggiarsi, evitare le esagerazioni, non
cadere nel volgare e nel banale. Luigi Carini era Jean La Fontaine,
e seppe trarre dal dialogo gli effetti migliori coadiuvato con zelo
e misura dagli altri attori della sua compagnia.
(28 marzo 1918).
Angelo Musco. E. A Berta ha fatto tradurre per Angelo Musco, dalla
lingua letteraria in dialetto siciliano, una commedia inedita.
L'omaggio non è dei piú significativi, data la smania
teatrale dello scrittore che lavora (!) perfino per le marionette,
ma ha pure il suo valore. Angelo Musco è ormai qualcuno nella
storia del teatro italiano, ed è riuscito a imporre il teatro
dialettale della sua regione.
Cinquant'anni di vita unitaria sono stati in gran parte dedicati dai
nostri uomini politici a creare l'apparenza di una uniformità
italiana: le regioni avrebbero dovuto sparire nella nazione, i
dialetti nella lingua letteraria. La Sicilia è la regione che
ha piú attivamente resistito a questa manomissione della
storia e della libertà. La Sicilia ha dimostrato in numerose
occasioni di vivere una vita a carattere nazionale proprio,
piú che regionale: quando la storia del Risorgimento e di
questi ultimi sessant'anni sarà scritta per la verità
e l'esattezza, piú che per il desiderio di suscitare
artificialmente stati d'animo arbitrari, per la volontà di
far credere che esiste ciò che solo si vorrebbe esistesse,
molti episodi della storia interna appariranno sotto altra luce, e
la causa della unità effettiva italiana (in quanto è
necessità economica reale) se ne avvantaggerà. La
verità è che la Sicilia conserva una sua indipendenza
spirituale, e questa si rivela piú spontanea e forte che mai
nel teatro. Esso è diventato gran parte del teatro nazionale,
ha acquistato una popolarità nel settentrione come nel
centro, che ne denotano la vitalità e l'aderenza a un costume
diffuso e fortemente radicato. È vita, è
realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti
dell'attività sociale, che mette in rilievo un carattere in
tutto il suo multiforme atteggiarsi, lo scolpisce drammaticamente o
comicamente. Avrà un influsso notevole nel teatro letterario;
servirà a sveltirlo, contribuirà, con la virtú
efficace dell'esempio, a far decadere questa produzione provvisoria
del non ingegno italiano, produzione di uomini togati, falsa,
pretenziosa, priva di ogni brivido di ricerca, di ogni
possibilità di miglioramento.
Luigi Pirandello, Nino Martoglio specialmente, hanno dato al teatro
siciliano commedie che hanno un carattere di vitalità. Ma
certo la fortuna è dovuta per molta parte ad Angelo Musco.
Attore d'istinto, il Musco si presenta con tutte le disuguaglianze e
le impulsività di un uomo ricco di vita interiore, che in
ogni interpretazione erompe selvaggiamente in manifestazioni di una
plasticità sorprendente. È vita ingenua, sincera, che
trova nel movimento plastico l'espressione piú adeguata. Il
teatro ritorna alle sue originarie scaturigini: l'attore è
veramente interprete ricreatore dell'opera d'arte; questa si
confonde col suo spirito, si scompone nei suoi elementi primordiali
e si ricompone in una sintesi di movimenti, di danza, elementare, di
atteggiamento plastico; perde della sua letteratura verbale e
ritorna vita fisica, vita di espressione integrale: tutto il corpo
diventa lingua, tutto il corpo parla. Certo l'essere dialettale,
l'adagiarsi nelle manifestazioni umane piú vicine
all'originarietà umana, dànno questo carattere
specifico al teatro siciliano, dànno tutte queste
possibilità espressive ad Angelo Musco. Ma è la
quistione solita dell'uovo e della gallina: Musco ha il teatro che
si merita solo perché se lo merita, perché lo
comprende, lo rivive. E il suo merito non è sempre uguale
infatti: egli ha qualche volta il torto di sforzare interpretazioni
impossibili, perché il lavoro è vuoto di ogni
espressività. Ma diventa grande quando l'autore dà
almeno uno spunto artistico, che dia possibilità di
continuazione, di integrazioni. Basta ricordare Angelo Musco in
Liolà di Luigi Pirandello, una delle piú belle
commedie moderne che la sguaiata critica pseudo-moraleggiante ha
fatto quasi del tutto ritirare dal repertorio.
(29 marzo 1918).
Giosuè Borsi. Giosuè Borsi è egli stesso un
rinnovellato della guerra (nella memoria degli amici, almeno,
perché morto al fronte). La compagnia Zago ha presentato un
suo lavoruccio, di quando il Borsi era ancora volterriano,
anticlericale, alla Carducci. Commediola informe, leggera, che
potrebbe vivere in un epigramma. A una festa di nozze settecentesca,
partecipa il cardinale patriarca di Venezia; egli ricorda la prima
confessione ricevuta da sacerdote, e la profonda impressione
provatane, perché il penitente era un parricida. Il padre
dello sposo, che non ha sentito, ricorda anch'egli qualcosa, e
precisamente d'essere stato il primo penitente del patriarca.
Disperazione del figlio, subbuglio, e intervento del patriarca che
rimette la pace negli animi, turbati dalla sua leggerezza. Il Borsi
è tutto in questo lavoretto: egli è stato esaltato dai
cattolici per la conversione rivelata dalle carte rimaste, ma la
conversione non ha mutato in profondità la superficiale
retorica che era caratteristica dei suoi scritti; letterato di
spolvero, ammiratore e imitatore del Carducci in ciò che del
Carducci era meno vitale, non è stato imposto neppure dalla
réclame che i cattolici hanno fatto ai suoi scritti postumi.
Il suo misticismo è della stessa lega del suo volterrianismo.
(17 aprile 1918).
«Occhi consacrati» di Bracco al Carignano. Anche questo
atto, scritto qualche anno fa, appartiene al teatro delle
«riabilitazioni di guerra». Ma il Bracco vi ha messo
qualcosa di piú: ha cercato, attraverso alcune scene
vigorose, di creare un carattere, il quale è superiore alle
contingenze, all'occasionalità, cerca di vivere indipendente,
sebbene di scorcio, per accenni, piú che per ricostruzione
diffusa e completa.
Una ragazza napoletana è stata sedotta e abbandonata
dall'amante. Diventa donna Filomena, fredda e perversa creatura di
piacere, ambientata in una osteriola, nella quale è signora e
padrona degli uomini che frequentano. In pochi tratti appare il suo
animo, irrigidito, astratto da ogni umanità: ha legato a
sé un uomo ammogliato, che lascia nella fame e nella
sofferenza la moglie e tre figli, senza amarlo, perché ella
rimane unita da un odio amoroso col seduttore, con l'uomo che
fanciulla ingenua, religiosa, senza alcuna tutela, l'ha tradita e
affondata nel fango. E costui ritorna, dopo una sapiente
preparazione, fatta da un vecchio mendicante, che rievoca il
passato, che risveglia l'umanità di donna Filomena, sia pure
facendola urlare di dolore e d'odio: ritorna cieco, umile, pentito,
rinnovato, e donna Filomena, colpita nell'intimità piú
profonda, perdona, si spoglia dei ricordi del passato, allontana da
sé l'amante, e rientra nella normalità morale. Il
piccolo dramma, interpretato con vigore dalla Melato, dal Betrone,
dal Ninchi, e dal Berti, pur con qualche sforzo per la tinta
dialettale voluta conservare al dialogo, ha ottenuto sei chiamate
dal pubblico.
(17 aprile 1918).
«Marionette che passione!» di Rosso di San Secondo al
Carignano. Avventure di sfaccendati, sceneggiate da un dilettante
d'ingegno. L'ingegno permette a Rosso di San Secondo di portare sul
teatro la formula famosa: per fare un cannone si prende un buco e lo
si avvolge di bronzo: egli prende il vuoto, lo avvolge di parole,
messe in ordine dialogico, divise in sezioni (scene e atti). Il
vuoto è nei personaggi, nell'intrinseca sostanza dell'anima
loro. Sono creature umane? Vivono? Ohibò, sono marionette,
solo marionette, ma non in senso ironico: il burattinaio che li fa
muovere non è la passione, è la vuotezza spirituale:
non vivono; parlano, o meglio, l'autore parla, non i personaggi:
essi sono terribilmente uguali, essi sono una tesi, la piú
comune e volgare delle tesi: che gli uomini non siano altro che
burattini.
Tre sfaccendati si incontrano in un ufficio telegrafico: non hanno
nome perché non sono individui, ma tipi. I tre sono agitati
da uno stesso demone: la passione. Una cantante tradita e bastonata
dall'amico, che pur continua ad amare. Un ingegnere tradito dalla
moglie, un signore in grigio tradito dall'amica. La signora è
una figura scialba, evanescente; la sua passione potrebbe essere
benissimo puro fenomeno nervoso, puro dispetto: non ha certo il
carattere della tragicità, non si esprime, perché il
nulla non ha espressione. L'ingegnere è personaggio da
pochade: la sua passione è tremolio gelatinoso di pover'uomo
che ne ha visto una grossa: non poteva non essere tradito, questa
l'unica, piccola, ridicola tragicità della sua avventura
coniugale. L'uomo in grigio è la base del dramma, il
mistagogo, la bocca della verità rivelata. È lo
sfaccendato per eccellenza, che da un anno sgomitola dal suo
cervello barzellette che l'autore prende sul serio fino a crederle
profonda filosofia della vita. I tre si scontrano: la dama sta per
entrare in congiunzione con l'ingegnere, ma se questo piccolo fatto,
banale e umanissimo, accadesse, due atti non avrebbero ragione
d'esistere. Il fatto ameno non accade: il mistagogo s'interpone,
parla di apocalissi. Poi si reca egli stesso in casa della dama.
Prolissità di scene pseudooriginali, di una
meccanicità ingegnosa che invano cerca nascondere il vuoto
sostanziale: ridda di larve senza ossa né carne. I tre
riuniscono i loro destini intorno a una tavola di ristorante:
romanticismo macabro, rugiadoso come una ballata del 1830. La dama
viene raggiunta dal suo amatore e sparisce, pregustando nuove botte;
l'uomo in grigio si uccide. L'ingegnere si appiccica a una artista,
dalla quale sarà fatalmente tradito alla prima occasione. Il
pubblico fischia ridendo.
Ha scritto J-H Rosny: «Molti giovani i quali oggi
s'accaniscono a scrivere mediocri romanzi (o commedie, aggiungiamo)
sedicenti letterari, riuscirebbero a scrivere, se incoraggiati,
romanzi d'avventure interessanti, e potrebbero alimentare le
appendici dei giornali, con lavori certo piú intelligenti dei
romanzi che i giornali invece pubblicano».
Nessuno vorrà incoraggiare Rosso di San Secondo?
(21 aprile 1918).
«Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano. Mister Wu
è un personaggio da romanzo d'avventure per persone colte:
come quelli di Guido Boothby, costruiti con l'ingrediente comune del
meraviglioso concatenarsi degli avvenimenti per l'arbitrio del
protagonista, ma in cui però l'autore si sforza di evadere
dal dominio del puro avvenimento per rilevare un carattere forte,
che ubbidisce alle grandi passioni elementari dell'anima umana, e
acquista quindi a tratti un colorito di umanità che
impressiona il lettore e lo spettatore. Mister Wu ritrova i suoi
antenati nel Veglio della Montagna di Marco Polo e nel dottor Nikola
dell'australiano Boothby; nel terzo atto del dramma egli domanda
ispirazione a Scarpia, per la sua vendetta. Motivi elementari,
semplicissimi, che fanno presa immediatamente nella coscienza degli
spettatori e determinano commozioni profonde, all'infuori di ogni
forma artistica, di ogni armonia. È questo il segreto del
successo dei drammoni popolari, come anche delle grandi tragedie
classiche. Gli uni e le altre rappresentano le originarie e
fondamentali passioni: l'amore paterno o filiale, la vendetta, la
gelosia, l'odio, il fanatismo; esse sono comprese subito anche dal
piú ottuso degli spettatori, fanno vibrare all'unisono gli
animi, che si compenetrano dell'azione, la comprendono tutta senza
residui, se ne esaltano intimamente e applaudono con frenesia. La
tragedia classica vive immortale per tutti; ma anche il drammone
è immortale e chi non ha educato la sensibilità e la
fantasia, si estasia ancora dinanzi alla rozza e artefatta
umanità dei romanzi d'appendice, dei drammi di Sardou o di
Bernstein.
Mister Wu ha beneficiato di questa predisposizione del gusto, e, in
verità, noi non vogliamo sostenere che i suoi casi non
meritino piú attenzione dei casi di una bellissima donna da
dramma letterario, angosciata dal quadruplice spasimo di un
raffinato amore fatalmente accesosi a una gara ippica.
Mister Wu vuole vendicare sua figlia, sedotta da un giovane europeo.
È un'anima complicata il signor Wu; cinese educato
all'europea, vuole vendicarsi, da uomo al di sotto di ogni
civiltà, ma la vendetta prepara disposando la crudeltà
orientale con il progredito senso di reciprocità degli
europei. Il Veglio della Montagna veste gli abiti del sardoniano
Scarpia. Mister Wu incomincia col sequestrare il seduttore di sua
figlia, quindi scatena sull'infelice signor Gregory, padre del
giovane, tutte le malefiche forze di cui egli dispone nella sua
misteriosa potenza: il signor Gregory ha notizia che le navi della
sua flotta commerciale affondano o s'incendiano in alto mare: gli
affari sono insidiati e non fruttano, i suoi uomini di fatica gli si
ribellano e domandano aumenti di mercede ogni tre ore. Fin qui
Mister Wu rimane cinese e lo spettatore può credere davvero
che nel Cataio le disgrazie possano essere mosse da un uomo come il
bimbetto fa muovere le pallottoline del pallottoliere. Ma Wu si
ricorda d'essere anche europeo e tende un laccio alla signora
Gregory, la madre. La attira in casa sua e la ricatta. Tragica
situazione di una madre europea in Cina! Lo scioglimento non tarda.
Una mano benefica porge alla signora una potente dose di stricnina;
il veleno, per mirabile concatenarsi d'eventi, invece di dare alla
storia una Lucrezia in Cina, va a finire nello stomaco di Wu, che
muore caprioleggiando. Il destino ha punito un infame, ma salvato
una madre dal disonore, ha restituito un figlio ai suoi genitori. Il
finale corona il dramma e riscuote gli applausi piú calorosi.
In fondo questi applausi significano come i sentimenti
immarcescibili dell'animo umano siano veramente tali, e lo
scetticismo non abbia ancora addentato e corroso le ingenue carni
dei cuori moderni, antichi invero quanto antico è l'uomo
stesso, con le sue ipocrisie e i suoi omaggi alla virtú.
(5 maggio 1918).
«Racanaca» di Villauri all'Alfieri. Racanaca è un
buon uomo di Melito, in Sicilia, e nella commedia si segnano i
momenti tipici della sua carriera politica. Racanaca non ha un
temperamento politico; è corto d'intelletto, è
ingenuo, non saprebbe cavarsela negli intrighi e nelle
attività un tantino complicate. Un giovane solitario studioso
di Melito se ne serve per la realizzazione delle sue teorie
politico-economiche, e per soffiargli la moglie. Cosí
Racanaca si fa iniziatore a Melito di un sistema di cooperative
agricole che dia ai contadini l'illusione di essere diventati i
padroni della terra, viene eletto deputato e si stabilisce a Roma.
Due azioni si svolgono parallelamente: una in cui risalta la figura
di Racanaca nei suoi rapporti artificiali col mondo esterno, azione
ricca di spunti comici, e che ha procurato alla commedia un buon
numero di applausi. La seconda dovrebbe sviluppare i motivi
passionali per cui Nino Laurenzi, giovane d'ingegno, di dottrina,
buon oratore, mette al servizio di Racanaca tutte queste
qualità e rimane ignorato, incompreso. Ama la moglie della
sua creatura intellettuale. Ma appunto questa parte è appena
accennata, molto vagamente adombrata: non c'è saldatura tra
le due azioni, che artisticamente dovrebbero ridursi a una sola, non
potendosi il fenomeno Racanaca spiegare senza queste motivazioni
extrapolitiche. La commedia è di accenni, perciò,
piú che una elaborazione compiuta e definitiva. Gli scorci,
le impostazioni di luci e di rilievi sono ottenuti meccanicamente,
ma esistono tuttavia, e pur senza avere tutta l'efficacia
rappresentativa, dànno dei buoni risultati scenici. L'autore
non ha ancora spogliato la sua concezione di ciò che di
grezzo e immaturo essa trascina con sé; ma questa stessa
ingenuità artistica è, in un primo lavoro, promessa di
ulteriore elaborazione e di superamento progressivo.
A Roma la fortuna di Racanaca si afferma subito in Parlamento. La
sua teoria dell'abolizione della lotta di classe, ottenuta mediante
l'illusione proletaria di un condominio dello strumento di lavoro,
ottiene successo tra i capitalisti e anche presso alcuni maneggioni
della Camera del lavoro. Racanaca è maturo per un portafoglio
ministeriale. Un punto d'arresto: il suo segretario, il suo cervello
vuole abbandonarlo, perché disilluso nella speranza di un
facile adulterio. La speranza viene fatta rinascere dalla signora,
che desidera che suo marito continui nella carriera degli onori.
L'adulterio matura nel terzo atto. Uno sciopero generale è
scoppiato nell'Agro romano; i contadini hanno invaso le terre, ne
pretendono la requisizione da parte dello Stato. Laurenzi prepara un
successo popolare al ministro, viatico necessario per una probabile
presidenza; la requisizione sarà decretata e finirà
con l'essere utile specialmente ai proprietari, ai quali
assicurerà un reddito sicuro da ogni alea. E, mentre Racanaca
discuterà in seduta la disposizione di legge, Laurenzi
coglierà il frutto di tanto lavoro, continuato per anni e
anni.
La commedia è piaciuta, indubbiamente; la presentazione
obiettiva, senza intenti partigiani, dell'ambiente politico, con le
sue ipocrisie, con la sua imbecillità costituzionale, ha
strappato spesso risate cordiali. Situazioni farsesche? Ma la vita
politica è purtroppo farsa il piú delle volte, e tutta
Roma non è, da cinquant'anni, che il teatro di una farsa
sinistra ai danni della nazione italiana. Una commedia, per
rappresentare una vita politica, dovrebbe ambientarsi in Cina o in
Persia, secondo la tradizione letteraria delle Lettere di
Montesquieu. La vita politica italiana è composta di cuoiai e
salsicciai gabbamondo come nel mondo comico d'Aristofane, e
rappresentarla porta necessariamente alla farsa.
Al buon successo della commedia contribuí l'interpretazione
ottima di Giulio Paoli, A. Betrone e della signora Frigerio.
(12 maggio 1918).
Virgilio Talli. Virgilio Talli è forse il piú acuto
critico letterario che oggi esista in Italia. Non credo che le
librerie vendano suoi volumi di saggi, il suo nome probabilmente non
apparirà mai nelle storie dell'estetica o della letteratura,
ma ciò poco importa. Probabilmente ancora, se il Talli
dovesse stendere in iscritto il suo giudizio su un lavoro teatrale,
questo giudizio sarebbe banale, generico, privo di vita e zeppo di
frasi fatte.
L'energia critica del Talli si rivela e si esaurisce
nell'àmbito della compagnia drammatica di cui è
direttore: i suoi saggi sono le interpretazioni che la compagnia
crea dei drammi e delle commedie, la sua specifica opera è
diventata spontaneità, naturalezza negli attori, adesione del
gesto, della musica vocale con l'intimo spirito dei personaggi
rappresentati. La personalità del Talli viene cosí a
sparire nell'insieme, è difficilmente rintracciabile.
L'attività sua di rivelatore, di maestro, diventa vita degli
altri, dei discepoli. Talli ha fatto rivivere, con mirabile
precisione, le famiglie artistiche del quattrocento, in cui c'erano
il maestro e i discenti, e il maestro svolgeva l'opera sua
pedagogica, educativa in un fitto lavoro di collaborazione
umanistica, dalla quale scaturí l'infinito mondo di bellezza
del Rinascimento. Questi maestri sono spesso nulla fuori della loro
scuola, della tradizione che creano e sviluppano: la loro natura non
è tanto di creatori individuali quanto di educatori e
rivelatori. La loro grandezza e perfezione è nei discenti, i
quali rapidamente assurgono alla completezza, perché il
maestro ha loro risparmiato ogni dispersione di energia in tentativi
arbitrari, in esperienze inutili. La scuola è per lo spirito
ciò che il metodo Taylor è per i gesti meccanici del
corpo: economia di esperienza e di fatiche, acceleramento
dell'evoluzione spontanea, organizzazione dell'intelletto.
Talli svolge la sua attività nelle prove: lavoro di
miniatura, raffinato e sottile sforzo di elaborazione paziente. Il
dramma si frantuma nei suoi elementi primordiali: le parole, i
movimenti. Ma in ognuno di questi elementi continua a vivere
l'intiero dramma. E l'analisi minuziosa incomincia. Il dramma viene
esaminato, pesato, studiato, in ogni piú sottile nervatura,
in ogni fibrilla di tessuto. Talli è l'orafo che trae dal
metallo il suo timbro riposto, ne intuisce il valore effettivo, e lo
sgrana in collane e monili di infinito pregio.
La sua fantasia, dall'intuizione rapida dominatrice, padroneggia
tutta l'azione, e la rivive per i suoi discepoli. Ogni personaggio
acquista una individualità distinta, ogni parola diventa
sintesi di uno stato d'animo distinto. Talli ripete la parola, la
amplifica, la pone in relazione col discorso interiore sottaciuto di
cui è conseguenza: essa perde cosí ogni valore
meccanico, di pura sonorità, diventa interiorità, vita
spirituale, si colora di tutta una personalità, di tutta
un'anima, scocca dalla gola, dalle labbra come una necessità
fatale, si comprende come debba essere quella e non un'altra,
accompagnata da quel gesto e non da un altro, modulata con quei toni
e non con altri. E l'unità spirituale dell'individuo diventa
unità spirituale della scena. Tutto vive: l'ambiente
dev'essere cosí e non altrimenti, perché anche la
esteriore parvenza delle cose si riflette sugli uomini e ne
determina sfumature di atteggiamento che non bisogna trascurare.
La parola del Talli è suggestiva in modo irresistibile. In un
romanzo di Rudyard Kipling c'è quest'episodio: un mago della
volontà vuol provare l'intimo metallo dell'anima di un
giovanetto e lo sottopone a un esperimento di illusione. Il
giovanetto deve scagliare una brocca piena di acqua: la brocca va in
frantumi innumerevoli, l'acqua si versa. Eppure, sotto l'influsso
della volontà dominatrice, il giovanetto vede lentamente
questi frantumi ritornare al loro posto, saldarsi fra loro: l'acqua
versata sparisce e nella fantasia l'immagine della brocca rifiorisce
dal nulla, nella sua interezza primitiva.
Cosí Talli sminuzza e ricrea i drammi per i suoi attori, li
analizza e sembra distruggerli; ma nella sapiente analisi la sintesi
è potenziale e si afferma nelle prime rappresentazioni,
dinanzi al pubblico che applaude e non pensa neppure all'artefice
maggiore, al maestro che ha raccolto in un fascio le singole energie
e le ha rivelate a loro stesse.
(14 maggio 1918).
«S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri. Tre
atti ridanciani, onesti e lieti. Lisci come il pavimento cerato di
un buon salotto borghese, in cui si lasciano le finestre sempre
chiuse con gli scuri, perché la luce non rovini le
cromolitografie delle pareti. Si raccontano i casi piuttosto
rocamboleschi del principe di Falcomarzano, deputato al parlamento,
padre di due rampolli, dei quali la femmina non piú
fanciullina, spiantato come uno zingaro errabondo, che aspira a
diventare plenipotenziario in Cina, per potere, come Verre in
Sicilia, riassestare i suoi negozi.
Il principe vive alla giornata elegantemente truffando i conoscenti,
sempre superiore alle miserie della vita, al denaro, al vile
borghese che il denaro sborsa. Prende quattromila lire da un
imbecille che desidera una onorificenza, a titolo di oblazione per
un istituto che ancora non è sorto. Appiccica per ventimila
lire un ritratto a un altro imbecille che se ne servirà per
provare i suoi diritti al titolo di conte, e cosí via: sempre
però mantenendosi nella linea del suo titolo principesco,
dell'avvenire politico che vuole conquistare.
Gli riesce di far sposare sua figlia da un ricco giovane borghese,
salvando anche in questo caso le apparenze, poiché sua figlia
viene rapita. E dopo difficile lotta riesce anche a diventare
plenipotenziario a Pechino, sebbene suo figlio abbia sposato una
borghesuccia, mettendo in pericolo il maturato disegno, per il quale
l'ambasciata doveva essere il premio politico di un matrimonio tra
il duchino e una marchesina alquanto calante per la cattiva fama dei
genitori.
La trama è svolta piacevolmente, in un dialogo snello e
fluido, senza ricercatezze e abuso di spirito verbale. Ruggero
Ruggeri era il protagonista. La commedia fu applaudita
calorosamente.
(23 maggio 1918).
«La dame de chambre» di Gandera al Carignano. Una
commedia dell'intossicamento sessuale, come tante altre che furono e
che saranno. Il sesso rimane, e rimarrà ancora per un pezzo,
la preoccupazione maggiore della nostra società (della
società costituita, della società che non lavora o
può non lavorare), l'enigma insolubile: i lettori e i
commediografi girano intorno alla Sfinge, claudicanti Edipi, e non
potendo penetrare descrivono, ripetono, condiscono con qualche nuova
droga piccante.
Il Gandera è dei meno noiosi scrittori di pochades: non esce
dal puro meccanismo, dall'esteriorità descrittiva del brivido
carnale, ma non cade nella sguaiataggine, o almeno non vi cade
troppo spesso: lavora con coscienza, porta a ripulitura i suoi
prodotti. Il genere si perfeziona: il mercato è piú
esigente: la vita, ahimè, diventa ogni giorno piú
difficile e seminata di triboli.
Il Gandera ha complicato sessualmente il vecchio spunto novellistico
della moglie che si sostituisce all'amante del marito: un orario
delle ferrovie gli è servito da trampolino. Un marito non
impartisce piú alla moglie la razione legittima di
felicità coniugale. Di chi la colpa? Del marito o della
moglie? La moglie vorrebbe uscire dal dilemma dilacerante: il
Gandera le viene in aiuto. Il marito si incapriccia della cameriera
(un manichino che dal titolo dovrebbe sembrare essere la
protagonista del dramma), ne ottiene pietosamente una notte d'amore,
e ottiene dall'amico di famiglia l'uso dell'appartamentino. La
moglie scopre la tresca, e si reca lei a tentare l'esperienza (di
chi la colpa?). Complicazione. Il marito parte durante la notte e
viene sostituito nella bisogna dall'amico, che anch'egli vuole
tentare la sua gherminella. Giornata delle rivelazioni. Il marito
scopre di essere diventato ciò che mai avrebbe voluto. La
moglie ha scoperto un amante fatale e l'amico altrettanto. La vita
familiare si compone in un raffinatissimo adulterio. Il pubblico ha
scoperto un nuovo autore di commedie allegre, che con maggior
delicatezza di altri sa fare il solletico alla pianta dei piedi e
integrare le delizie di un «virginia».
(4 settembre 1918).
«Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano. In Lift,
commedia sessuale-sentimentale di Armont e Gerbidon, troviamo un
personaggio quasi originale: l'etairogogo, il professore di belle
maniere per le cortigiane geniali, che si propongono la conquista di
una brillante posizione sociale. Il professore non ha nulla di
socratico, cosí come le sue discenti non hanno nulla da
spartire con Aspasia; la galanteria, nei tre atti moderni, è
posta bensí come funzione sociale, ma il motivo non supera
l'espressione plateale delle comuni pochades, ed è anzi
sviluppato con poca disinvoltura e molta prolissità. Rimane
irriducibile una forza comica che gli autori non hanno saputo
elaborare artisticamente, soggettivandola: essi hanno intravisto un
mondo di comicità, ma esso è rimasto inerte, puramente
intenzionale.
La cocotte che percorre il curricolo della gloria sociale è,
in fondo, una povera figliuola nata in una novella romantica, con
aspirazioni piccolo-borghesi per il matrimonio, il talamo familiare
e la bianca culla in cui strilla e sgambetta un roseo pargoletto. Il
suo ascendere verso la gloria è dovuto a volontà
estranee, alle suggestioni del professore; se queste volontà,
se queste suggestioni fossero state, dagli autori, viste come
dinamismo autonomo di una donna moderna, che solo nella galanteria
può trovare la libertà negatale dal costume per
l'estrinsecazione delle sue energie sociali buone, avremmo avuto una
commedia del costume ricca di contenuto morale, cioè una
opera d'arte e non una sceneggiatura commerciale. Gli autori non
hanno saputo o non hanno osato: è piú facile e
piú gradito al pubblico il lieve colpo di spillo, la burletta
superficiale, la caricatura bonaria che non urta troppo di petto la
convenzionale moralità e anzi solletica lo scetticismo pelle
pelle.
Lift sale dal quartierino povero fino al pranzo ministeriale,
all'amicizia di una Eccellenza, al salotto politico in cui si
decidono le sorti di uno Stato e magari di un regime, ma è
ascensione «alpinistica», non episodio umano di
«volere è potere», determinato socialmente dal
confluire necessario di tutte le forze agenti della vita
contemporanea.
(11 settembre 1918).
«Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano. Lo scrittore
di teatro Silvio Zambaldi è come un giocoliere giapponese che
estragga scatola da scatola, e il pubblico aspetta finalmente si
giunga alla sospirata scatola che deve contenere lo enigma
giustificante l'attesa e la spesa. Il giuoco delle scatole si
è iniziato con la prima commedia dello Zambaldi, e si inizia
colla prima scena di ogni commedia. Lo Zambaldi è ancora e
sempre «uno scrittore che promette» e non si decide mai
a mantenere; è una scatola chiusa che ne contiene delle altre
e si aspetta che finalmente in una si trovi il brillante da
incastonare nel diadema del teatro nazionale.
Tardi in treno, i tre nuovi atti di Silvio Zambaldi, presentati
dalla compagnia Gandusio, non sono certo il brillante aspettato.
Una, due, tre scatole: vuoto finale.
Inizio: interessante come tutti gli inizi perché inizi. Due
sposini perdono il treno del viaggio di nozze: la festa di imene
sarà celebrata fra le pareti domestiche. Egli è molto
stupido, ella è molto ingenua: i parenti sono ingombranti, le
persone di servizio sono noiose: lo Zambaldi è infatti uno
scrittore realista. Nel primo atto ci presenta: una cameriera
pruriginosa che si lascia pizzicare dal collega e da un vecchio
signore e quindi va a letto col collega; una vedovella che fa la
schizzinosa con un avvocato ma poi consente di essere accompagnata a
casa in vettura chiusa; una coppia di suoceri di buaggine infinita;
uno zio che è stato tradito dalla moglie. Questa è la
natura degli uomini e lo Zambaldi cosí rappresentandola
è scrittore realista. Gli sposini si ubriacano (o natura,
natura!); ella ingenua confessa un amoretto di bambina, egli si
offende e dorme sul sofà. Nei due atti seguenti si assiste
allo svolgersi di tutte le stupidaggini, le lungaggini, le
chiacchierate, le rivelazioni che devono condurre alla pace generale
e alla ricomposizione della famigliola scomposta al suo nascimento:
si vede una suocera che imperversa, un suocero che è vittima
di sua moglie, una cameriera che piange e si dispera per il fallo
commesso, uno zio seduttore di cameriere che ammansa la suocera
poiché le ricorda un episodio extramatrimoniale e altre
simili originalissime novità servite in un dialogo insipido e
lungo e pastaceo come il brodo di lasagne. Il giuoco delle scatole
è finito, il pubblico ha rumoreggiato disilluso, ma
aspettiamo: il capolavoro sarà per la prossima commedia.
(19 settembre 1918).
«L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli
al Carignano. La compagnia Gandusio ha egregiamente recitato per la
prima volta a Torino questa commedia dell'Antonelli. Un lavoro che
si stacca nettamente da tutta la serie di novità della
stagione, per arditezza di concezione e signorilità di
svolgimento.
Questo strano sogno che l'autore ha portato sulla scena, superando
difficoltà di tecnica teatrale che sembravano insormontabili,
questa fine satira della vita ha stupito il pubblico a cui da tempo
non si ammanniscono lavori atti a sviluppare un pensiero. Molte cose
buone si possono e si debbono attendere da questo giovane autore che
sembra fornito di tutte le doti che occorrono per forgiare opere che
lascino traccia nella vita del teatro e a cui arrise al Carignano il
piú completo successo colla sua fantastica avventura.
A ogni fine d'atto vi furono applausi e chiamate all'autore. Il
Gandusio recitò come sempre, bene, e la Pini impersonò
in modo perfetto la donnina frivola che non riesce a concepire il
male, ma che lo fa, spinta fatalmente a esso da una forza che la
domina. Anche l'Almirante, che impersonava l'altro io, seppe dar
risalto alla figura del giovane che non conosce il mondo e le sue
sozzurre, che non crede al male, né vi vuol credere e che non
vede che rose sul suo cammino in questa bella primavera della vita
dei suoi venti anni.
(2 ottobre 1918).
«Il marito ideale» di Wilde al Carignano. La compagnia
di Irma Gramatica ha presentato una commedia di Oscar Wilde Il
marito ideale, nuova per Torino; la commedia non ha avuto successo.
Essa è un'opera piú letteraria che teatrale, da
leggersi piú che da udirsi. Il contenuto drammatico è
lievissimo e si sviluppa in situazioni comuni; l'autore si è
dedicato esclusivamente al dialogo, alla parola; i caratteri si
rivelano per ciò che le bocche dicono, attraverso il
paradosso brillante, l'ingenua affermazione di fede puritana, il
racconto di intrighi politici e finanziari. Un romanzo dialogato,
che la compagnia della Gramatica ha presentato in modo degno
dell'intimo valore letterario dell'opera.
(14 novembre 1918).
«Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano. La
compagnia di Irma Gramatica ha rappresentato l'annuale contributo di
E. A. Berta al teatro in lingua: Una sentimentale, tre atti in prosa
con molte parentesi musicali. La commedia deve essere stata scritta
almeno venti anni fa: gli accenni cronologici al passato prossimo
vanno dal 1866 al 1880; ma l'autore non ha rimodernato il suo
lavoro, sebbene vi abbia introdotte allusioni e avvenimenti
recentissimi, senza accorgersi che un ascoltatore appena appena
attento dovrebbe immaginare l'eroina della commedia come una donna
di almeno cinquantadue anni (suo padre viene fatto morire nel 1866).
E. A. Berta non ha voluto interrompere il rito annuale, e non avendo
merce fresca, ha spolverato un vecchio prodotto della sua infinita
quanto futile mania scrittoria. Nei tre atti si svolge un dramma
«interiore» di femminilità offesa e incompresa,
con alcune situazioni simili a quelle della «Nora» di
Ibsen; simili esteriormente, ma inerti drammaticamente. Il Berta
pone il dramma, non lo sviluppa. La sua fantasia non è capace
di creare caratteri che abbiano consistenza e solidità umana:
il pubblico dovrebbe commuoversi per l'astratta genericità di
un dolore ineluttabile in certe situazioni, anche se questo dolore
si esprime solo come uggioso belato pecorile e non come
umanità individuale straziata che si compone artisticamente
in poesia. Una moglie abbandona il tetto coniugale affermando di non
essere compresa, e certo pare che cosi sia. Ma il processo
drammatico è snervato e superficiale. La protagonista
è una povera fanciulla sedotta che si redime nell'amore
disinteressato e nel sacrifizio della quotidiana, misera vita
familiare. Il seduttore le lascia una eredità di mezzo
milione, e questo oro diventa la macchina infernale che distrugge
l'amore e la felicità. L'autore abbozza una metafisica
dell'oro: nell'oro è la personalità dell'uomo,
nell'oro si continua la personalità dell'uomo. L'istinto
conduce la donna a voler rinunziare all'eredità: accetta,
perché suo marito crede con la ricchezza di poter diventare
un grande compositore (egli è violoncellista). Secondo un
postulato della metafisica bertiana il bello nasce dal bello, la
ricchezza farà bella la casa, dalla bellezza della casa
nascerà la bella musica, e il violoncellista che
annoterà la bella musica sarà un grande compositore.
Nella donna la metafisica si esprime in altre emozioni: il morto
seduttore si continua nel suo oro, l'oro compra i mobili e il lusso
della casa, il morto seduttore rivive nei mobili e nel lusso. Marito
e moglie si allontanano l'uno dall'altra; la vita dell'uno (la
bellezza che genera bellezza) è la morte dell'altra
(l'oro-bellezza che è la colpa, il tradimento, ecc., ecc.).
Cosí riassunta la commedia può parere interessante;
l'autore potrebbe apparire capace di connettere idee. Non è
cosí. La commedia non è neppure a tesi; essa è
un informe accozzo di parole biascicate, senza espressione
spirituale poetica, infarcito di spunti banalmente comici che si
rincorrono a tira e molla. Il Berta non si accorge della mancanza di
unità cronologica della commedia; non riesce cioè
neppure a creare una unità esteriore; egli si aggira tra i
personaggi, che vuole far vivere e parlare, come uno scarafaggio
nella stoppa. Una dozzina di spettatori, con mirabile sangue freddo,
sono riusciti a creare agli attori la suggestione necessaria per
mezza dozzina di chiamate.
(20 novembre 1918).
«Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri. Desolazione
di uno spettacolo «interventista». Imbottitura di
cervelli che nessuna suggestione frenetica riesce piú a
inverniciare di idealità cromolitografica. Anfanare faticoso
di uno scrittore mediocre che per la prima volta si cimenta col
romanticismo dei romanzi d'appendice e vuol trarne un dramma
sensazionale che solletichi il cattivo gusto della platea, dia un
buon gettito di applausi e di quattrini e procuri una nicchia nel
camposanto dei benemeriti della quarta guerra del Risorgimento.
Alessandro Varaldo dovrebbe per questi suoi tre atti,
Appassionatamente, domandare un indennizzo allo Stato; industria di
guerra rovinata dallo scoppio improvviso della pace. Tre atti senza
un bagliore d'intelligenza. Trionfa il «talento» e
cioè l'attitudine a utilizzare gli elementi piú
disparati e contraddittori per un piccolo fine immediato: il
sentimentalismo rugiadoso della moralina democratica che si esprime
affermativamente o per contrasto in personaggi ritagliati nei vecchi
clichés del romanzo popolare: l'aristocratica proterva e
irriducibile, la dolce fanciulla vero angelo senz'ali, il sacerdote
misericordioso e pio, la madre infelice, il bastardo sciagurato che
nella carriera del vizio precipita fino all'assassinio. Gli
ingredienti vengono agglutinati con la rozza goffaggine dello
scettico che finge entusiasmo; i trucchi si succedono sgarbati e
superficiali; il dialogo si diluisce senza alcuna suggestione
letteraria; le scene si accavallano insensatamente culminando in
«cartoline illustrate» pro-mutilati e pro-prestito di
guerra; l'azione si scioglie al rombo del cannone che reintegra
ognuno nei propri meriti. Ma perché non avere almeno quel
tantino di buon gusto che è sufficiente per non condurre
piú a spasso, dopo la pace, i cadaveri dell'interventismo
blaterone?
(22 novembre 1918).
«Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano. Sabatino Lopez
è maestro nel far le bolle di sapone; sa opportunamente
impiegare il corto respiro e sgranare dalla cannuccia, con ritmo
uguale, quel tanto di bollicine tenui e fatue che accontenti il
facile pubblico dei nostri teatri. Bonarietà,
semplicità superficiale, dialogo facile, leggero, una
pizzicatina alle corde del sentimento, un cartoccino di sale
casalingo: nasce la commedia borghese, la commedia «per
bene», che sa quel che si dice e quel che si fa, educata,
lisciata, profumata allo spigo e al cotogno.
I tre atti Sole d'ottobre, sono del Sabatino Lopez autentico; non ci
manca neppure uno zinzino di volterrianesimo, coccarda
dell'indipendenza intellettuale dei borghesi capi di famiglia che
ricordano i tempi eroici del liberalismo da caffè. Un marito
e una moglie, un suocero e una suocera, e un nipotino che fa
diventar nonni i due vecchi: il marito ha tradito la moglie e i due
nonni lavorano a risolvere il groppo: nel risolverlo bonariamente
decidono di sposarsi e dare il buon esempio della convivenza
coniugale. Un nulla, adorno di parole drogate per palati casalinghi,
che è diventato qualcosa nella recitazione di Irma Gramatica,
di Ernesto Sabbatini e degli altri bravi collaboratori della
compagnia.
(28 novembre 1918).
«Le galere» di Tumiati all'Alfieri. È un capitolo
della storia del Risorgimento italiano che Domenico Tumiati sta
scrivendo per il pubblico che frequenta i teatri. Storia per uso del
popolo che ha letto I misteri dell'inquisizione di Spagna e nel
succedersi degli avvenimenti umani non sa vedere e crede non ci sia
altro che il gesto spettacoloso, sia pure gesto di individui
altissimi per carattere e energia morale. Cosí è che
Domenico Tumiati diffama il Risorgimento italiano e, per quanto
è dato a un lavoro di teatro, contribuisce a tener basso il
livello medio della intellettualità italiana. Il dramma
è concepito come un romanzo d'appendice: è una
combinazione di elementi sociali e di lirica (!) individuale. La
vita singola si intreccia con la vita sociale per diventarne un
simbolo: l'eroe diventa la «vera» anima di un popolo,
che si svolge secondo un processo di sviluppo coincidente con
avventure amorose, idealizzate da un sublime spirito femminile che
si confonde con un fine politico e umano. Il Tumiati molto
rozzamente calca la mano su i motivi piú clamorosi: in un
atto solo delle Galere si contempla un carcere cupo racchiudente il
barone Carlo Poerio e un suo compagno di sventura ridotto agli
estremi dalle torture poliziesche: si assiste a un tentativo di
fiaccare il carattere del Poerio con l'acquavite fatturata, a un
colloquio clandestino del Poerio con lord Gladstone che piange, si
sente l'ultimo canto di un usignolo, barbaramente trucidato da uno
spietato aguzzino; e finalmente, come finale, i galeotti che
intonano in coro una terzina della Divina Commedia. Il pubblico, che
si lascia ancora prendere da questi espedienti di teatro
commerciale, ha applaudito.
(5 dicembre 1918).
«La signora innamorata» di Berrini al Carignano. La
signora innamorata, tre atti di Nino Berrini, è stata scritta
prima della guerra. Poiché dal 4 agosto 1914 si è
iniziata un'èra nuova, l'autore ha aggiunto l'aggettivo
«storica» al sostantivo «commedia», e
poiché è oramai opinione diffusa e debitamente
autenticata dai competenti in psicologia e sociologia, che il mondo
in questi quattro anni si è foggiato su un'anima nuova, Nino
Berrini, che ci tiene a essere reputato persona seria e competente
di psicologia, ha fatto precedere ai tre atti un prologo in versi
martelliani, nel quale spiega la faccenda della storia, dell'anima
nuova, della nuova psicologia e del rombo del cannone.
I tre atti appartengono al genere «rivista con pretese
letterarie»: una successione di scene in cui si attua l'anima
femminile studiata alla stregua del famoso aforisma «la donna
è mobile»; in cui si interroga la Sfinge per sapere
quale mistero racchiuda la complicata, labirintica, oceanica anima
della «donna che si spoglia». Poiché le donne non
si spogliano piú, poiché nessuno piú si
diverte, e nei salotti non si spettegola piú in grammatica, i
tre atti del Berrini sono una commedia storica, cioè
preistorica: la storia è solo attuale, è storia
dell'anima nuova, del costume rinnovato del mondo.
(5 dicembre 1918).
«La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano. Carlo
Veneziani appartiene a un gruppo di scrittori che si è
proposto di rinnovare il teatro italiano. Le commedie e i drammi che
si scrivono in Italia sono una casistica della vita sessuale che si
svolge nell'àmbito della legge umana e che è
perennemente insidiata dalle leggi della natura, cioè dai
capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di controllo su se stessi.
Poiché il costume italiano è essenzialmente sessuale,
poiché la sessualità è l'argomento che
piú interessa lo spirito degli italiani, è naturale
che gli scrittori di teatro non concepiscano altra vita che la
sessuale. Ciò significa che gli scrittori italiani di teatro
non hanno fantasia, non riescono a superare fantasticamente la
mediocrissima umanità della quale fanno parte, mediocrissima
umanità che inspira la sua vita spirituale al popolarissimo
proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto con la
moglie»; e non avendo fantasia, non riuscendo a concepire bene
piú grande di quello che i sensi godono nell'alcova, gli
scrittori italiani di teatro non sono artisti e il teatro italiano
non è un fatto estetico, ma un fatto meramente pratico,
d'ordine commerciale.
Ma il teatro italiano aveva finora visto la vita sessuale in due
sole forme: quella piú crassamente sguaiata che si propone di
solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella
romantico-sentimentale che dipende dall'aforisma: «Dopo la
voluttà, ogni animale è triste». Perché
il teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno
sessuale assumesse una terza forma (il tre è numero perfetto
nella mitologia cristiana e nel simbolo massonico, che tanta
importanza hanno avuto nell'informare il costume italiano) e questa
fu escogitata dal gruppo degli innovatori: Pirandello, Chiarelli,
Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in confronto della
vita sessuale una posizione critica, assolutamente intellettuale, di
introspezione.
In certo senso c'è un superamento, sebbene esso possa solo
paragonarsi al gesto che fa il cane dopo aver rosicchiato un osso:
è un inizio di risanamento del costume, di evasione dalla
fogna miasmatica dei sensi.
Carlo Veneziani «dovrebbe» appartenere al gruppo
innovatore, la sua commedia in quattro atti La finestra sul mondo
che la compagnia Tina di Lorenzo ha presentato al pubblico torinese,
«dovrebbe» appartenere alla serie delle nuove commedie.
Ma è impossibile farla rientrare in essa: il Veneziani non ha
altra visione della vita, altra attitudine all'introspezione, che
quella espressa nei motti per ridere pubblicati dai settimanali
illustrati. Tra Pirandello e Veneziani c'è l'abisso che
separa un uomo intelligente da un collaboratore del
«Numero» o del «420». La finestra sul mondo
rientra nella serie delle commedie nuove allo stesso modo che un
abito smesso rientra nella personalità dell'uomo che l'ha
indossato: anche nella mediocrità intellettuale è
necessario stabilire delle gerarchie di valori. La commedia è
stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal
marasma spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui
statura non supera la sua statura media, lo soddisfano doppiamente:
perché il sesso ci predomina e perché banalmente si
sorride della vita sessuale: nella banalità pubblico e autore
si compenetrano, identificandosi.
(15 dicembre 1918).
«Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle
all'Alfieri. I tre atti di A. De Lorde e Jean Marcèle, Marito
suo malgrado sono stati tradotti da Amerigo Guasti, capocomico della
compagnia Galli-Guasti-Bracci. È il Guasti che ha scelto,
secondo le convenienze della sua compagnia, e ha tradotto secondo il
suo cattivo gusto. Non si può giudicare chi sia
l'«inventore» della filza di cose brutte che i due
autori francesi hanno intitolato Marito suo malgrado. Amerigo Guasti
è traduttore troppo «personale», perché
sia lecito imputare gli autori francesi, senza visione diretta del
documento originale. Si può affermare solo questo:
poiché il Guasti, come «letterato», non brilla
per troppa sensibilità al bello, la sua scelta non può
essere che caduta su una cosa brutta: egli ha poi largamente
abbondato nel trasformare in brutto italiano il brutto francese,
insaccando nei tre atti tutto il repertorio delle
«aggiunte» a braccio che normalmente inserisce nelle
altre commedie che non ha tradotto.
L'intrigo dei tre atti è dei piú banali: un
imbroglione, munito di carte false, giustificanti un titolo
nobiliare, s'introduce in una onesta casa di ricchi borghesi per
rubare una grossa dote. Scoperto dopo la cerimonia legale, ma prima
della cerimonia sentimentale, viene arrestato, ma l'atto
matrimoniale vive per il legittimo proprietario delle carte e del
titolo. Questi naturalmente odia le donne, ma poi, come suol
succedere, mantiene il matrimonio perché la sposina
è... Dina Galli. I tre atti sono infarciti dei soliti
giochetti, contrattempi e doppi sensi che dovrebbero far sbellicare
dalle risa e infatti ci riescono: chi ha fatto la spesa per andare a
ridere, finisce sempre col ridere e divertirsi; si tratta, in fondo,
d'un punto d'onore.
(3 gennaio 1919).
«Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano.
Nessuno aveva pensato ancora a consolare una delle tante categorie
di vittime della guerra: i padri di numerosa prole femminile da
marito. Alfredo Testoni ha colmato la lacuna, sfuggita
all'attività sociale di beneficienza, che pure sembrava non
poter conoscere campi inesplorati.
La guerra ha ucciso, la guerra stimola a ricostruire le generazioni;
la guerra ha dissolto le famiglie, la guerra moltiplica le famiglie:
la natura è di un'astuzia diabolica. Alfredo Testoni, come
scrittore di commedie, deve essere rimasto molto seccato per le
vociferazioni che si diffondevano sulle conseguenze corrosive, della
vita al fronte dei mariti, per la fedeltà coniugale e non
coniugale. La marea di pessimismo diveniva in verità
preoccupante: come poter piú scrivere una commedia o una
farsa se l'ambiente sociale si fosse definitivamente convertito allo
scetticismo? Era necessario un colpo di timone: Pace in tempo di
guerra è un colpo di timone, piú che una commedia;
timone di gondola (se le gondole hanno timone), per portare una
pietruzza alla soluzione del problema dell'amore in tempo di guerra
e di dopoguerra. Pertanto Alfredo Testoni ha dimostrato che è
possibile ancora scrivere commedie o farse concludentisi con un
matrimonio; la sua si conclude con cinque matrimoni e scorre come
dolce ruscelletto.
C'è un signor Bellotti con quattro figlie da marito;
graziose, veh! graziosissime, sebbene il padre sia imbecille e
ridicolo quel tanto che serve per un padre da commedia. Il signor
Bellotti si preoccupa per questi benedetti mariti, e tre delle
quattro figliuole si preoccupano secolui: tanto si preoccupano che
sarebbero disposte, le tre, a sposare un fornitore militare
anzianotto, brutto e idiota. L'astuzia della natura soccorre i
naufraghi e si presenta sotto le spoglie pregiate di un tenente. Il
tenente Serra, come si chiama, espone una sua teoria sulle guerre e
il matrimonio: la vita di trincea ha infuocato nell'animo dei
cittadini maschi l'aspirazione alla pace domestica, con contorno di
idillio e di figliolanza. Il tenente Serra è una forza della
natura e opera. Il fornitore militare viene liquidato in breve tempo
come si addice a un fornitore militare: con lo scorno e le beffe.
Tre figliuole scoprono di botto l'anima gemella e per loro la
è fatta. Il caso della quarta figliuola, che poi è la
primogenita, essendo complicato e romantico, serve all'intrigo
centrale della farsa, che appunto per esso aspira al genere
commedia. Questa figliuola Alda è stata vilmente tradita da
uno scavezzacollo: la guerra tempra la coscienza dello
scavezzacollo, egli si pente e vuole riparare al malfatto.
Resistenza da parte di Alda, trionfo finale della forza della natura
che legge una lettera-testamento, commuove i presenti fino alle
lacrime e raggiunge il suo fine: la commedia si conclude con cinque
fidanzamenti, poiché anche l'attendente del Serra sposa la
cameriera delle quattro signorine. Il popolo partecipa alla
vendemmia d'amore.
I tre atti hanno avuto il successo di tutti gli atti di Alfredo
Testoni. Il buon umore fa buon sangue e, tra la guerra e la febbre
spagnuola, il buon umore e il buon sangue sono articoli che nei
bazar trovano compratori in abbondanza.
(10 gennaio 1919).
«Una donna qualunque» di Wilde al Carignano. Una donna
qualunque è una «moralità» scritta da un
poeta che faceva professione di immoralità, e che non era uno
scrittore di teatro. È una rappresentazione di vita semplice
e complicata, ottimista e scettica, ingenua e perversa, proprio
com'è la vita «qualunque». E la commedia stessa
è ingenua e complicata: tessuta con un dialogo elegante e
raffinato, quando chi parla è un elegante e raffinato signore
inglese, al quale la fortuna ha dato tutte le condizioni per poter
essere scettico ed egoista; «melodrammatica» quando
l'azione si svolge per opera di un ingenuo e istintivo giovane
«morale»; profondamente drammatica quando chi parla
è una donna che ha sofferto. E la posizione esteriore di
ognuno è «qualunque» per un altro, è
ridicola per un altro, perché lo Wilde osserva il costume con
occhio acuto piú di quanto non si reputi utile osservare
dalla comune degli scrittori drammatici che non sono poeti: vede gli
uomini distinti per classi e per gradi e per concezioni della vita,
e trova che la bellezza o il bene (bello e buono sono identici per
lui) è creata solo dagli «indipendenti», da
coloro che operano per un fine di meccanicità quattrinaria o
tradizionale. Le compagnie drammatiche stanno riabilitando in Italia
la fama infame di Oscar Wilde, col presentare queste vecchie
commedie, nelle quali l'originalità spontanea dello Wilde si
manifesta genuinamente piú che nelle stravaganze e nelle
avventure giudiziarie; è un merito che si aggiunge alla
esecuzione accurata che di Una donna qualunque ha offerto la
compagnia Carini.
(16 gennaio 1919).
«Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano.
Misteri abissali, sortilegi, inesplorate cavernosità di anime
dedaliche, tormenti senza confine e senza possibilità di
espressione verbale e che perciò domandano all'autore
discorsi zeppi di parole (moltissimi aggettivi e scarsi sostantivi),
di metafore, di ampi gesti abbracciatutto, e agli attori
un'orchestica sostenuta e grave come di personaggi da tragedia
greca.
Fausto Maria Martini appare, in questi tre atti di Il fanciullo che
cadde, come uno spirito pesante, goffo, di una pedanteria filistea
spessa come il fumo ammorbante di una lucerna da vecchio letterato
aristotelico. Non un guizzo vivo di fantasia, una costruzione lenta,
volontaria, meramente esteriore di parole e di frasi e di giri e di
intrighi e di spettacolosi duelli oratori, senza che dietro la
nebbia verbale sia dato scorgere un'anima viva, una concreta figura
umana che si attui in una passione, in una gioia, sia pure in una
parola, ma che sia atto espressivo e non vuota sonorità
vocale.
Il fanciullo che cadde svolge una successione meccanica di scene,
nelle quali si contempla lo sgomitolarsi di due stami vitali che la
piú brutta delle Parche filò con soverchia velenosa
saliva. Gabriella è lo stame femmineo, Luciano quello virile.
Tra i due esiste sortilegio. Gabriella sposa il fratello di Luciano
e Luciano per allontanare dalle sue frementi nari l'afrore
dell'incesto, salpa per l'Oriente profumato e crudele. Ritorna alla
morte del fratello, tutto fasciato di misteri, e che trova?
Gabriella ha un figliolino, nel quale il morto fratello rivive, e si
erge per separare; la madre non può essere l'amante,
cosí come non poteva la sposa. Ed ecco che Luciano, dopo una
tonitruante spiegazione, parte «per sempre» una seconda
volta per l'ignoto, ed ecco che prima della sua partenza,
l'«innocente» cade nelle acque burrascose e miseramente
affoga. Ed ecco che un nuovo infrangibile misterioso schermo si
frappone tra le due anime e un viperino duello si inizia. Una dolce
fanciulla, figlia della disperazione e di Luciano, inventa un giuoco
grazioso: richiama il misterioso padre presso la misteriosa
Gabriella e si fa galeotto tra i due. Il sortilegio crudele non
risparmia, ahimè, neanche la dolce fanciulla! Gabriella si
dichiara pazza d'amore, delirante di passione carnale per Luciano,
sembra avvolgerlo in una magia folle di desideri; lo trascina verso
la voluttà, nella stessa camera d'albergo dove il fanciullo
cadde, lo invischia, bellissima e proterva, in una squisita rete di
parole capziose e gli fa confessare il delitto; egli, per avere la
donna, ha ucciso il frutto delle materne viscere. Quindi leva un
vindice pugnale. Ed ecco il sortilegio: Luciano disarma Gabriella e
le rivela che è innocente e aveva compreso il viperino
agguato e aveva secondato il giuoco per meglio conoscerne l'anima
nera. Quindi riparte «per sempre», seco portandosi il
pugnale, mentre Gabriella pazza di vero amore, si contorce nel letto
illibato.
Cosí il sortilegio si chiude, a meno che Fausto Maria Martini
non lo riprenda per rifondere tutto il dramma in un romanzo di
pirati e corsari dell'arcipelago o in una «film» a lungo
metraggio per Febo Mari e Pina Menichelli.
(23 gennaio 1919).
«L'arch an cel» di Leoni al Rossini. Il signor Mario
Leoni, al secolo commendatore Giacomo Albertini, ex deputato al
Parlamento nazionale, sezione elettiva, ha ieri presentato al
pubblico del teatro Rossini l'ultima novità del suo bazar
spirituale da rivendugliolo di Porta Palazzo. La novità
è intitolata L'arch an cel e si compone di quattro atti, coi
personaggi che parlano in dialetto piemontese. Altra volta,
scrivendo di una commedia di Mario Leoni, abbiamo affermato che
cattive azioni di questo genere non dovrebbero rimanere impunite, e
ci siamo augurati che per il signor Mario Leoni si restaurasse la
pena corporale che nel Medio evo puniva le donne adultere: una
passeggiata per le strade cittadine a schiena d'asino, col corpo
nudo impegolato e variegato di penne di pollo.
Il signor Mario Leoni non è uno scrittore, anche se per
scrittore s'intenda chi compila l'Almanacco di Chiaravalle o il
Libro dei cuochi. Mario Leoni è un rozzo uomo, che ha per
cuore una bistecca e per cervello una spugna da massaggio. Con la
sua praticoneria da esercente furbo, infarcisce zibaldoni verbali,
speculando sul candore e l'ingenuità del pubblico popolare,
come una astuta mercantessa di carne femminile può speculare
sui primi brividi della pubertà degli adolescenti allevati a
bacioni materni e a caramelle sororali. Non è possibile che
neanche un'ombra di rispetto si possa sentire per le fatiche di
questo dozzinale acciabattone, che non rispetta nulla e nessuno, che
mercanteggia la commozione istintiva per il dolore materno,
imbrattandolo subito dopo con la piú goffa buffoneria, che
impiastriccia le commedie con la stessa disinvoltura che serve allo
straccivendolo per ficcare in un sacco sudicio tutti i rifiuti della
vita. Col signor Mario Leoni non è possibile, e sarebbe
indecoroso, anche accennare a uno spunto critico: non si può
dialettizzare il tanfo.
La reazione adeguata e omogenea alle fatiche del signor Mario Leoni
può solo essere di natura fisica: una pena corporale come la
suddescritta, integrata con qualche beffa del genere novelle
cinquecentesche con protagonista il secco e triste pedagogo.
(28 gennaio 1919).
«Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri. Una burla, come
in tutte le commedie cinquecentesche che siano
«veramente» cinquecentesche, compone e scioglie
l'intrigo dei tre atti cinquecenteschi della Madonna Oretta di
Gioacchino Forzano. Madonna Oretta è una fiorentina, spirito
bizzarro, scaltra e procace, che ricerca in diversi amatori quella
razione di felicità, cui ha diritto la sua beltade e il suo
vivace temperamento, e che suo marito, l'anzianotto e grossolano
Luca, mercante dell'arte della seta, non può ministrarle. Ma
Oretta non è poi cosí scaltra e spiritosa e
cinquecentesca come il Forzano vorrebbe farci credere di averla
fantasticata; la poverina credeva anch'essa di essere scappata
fuori, come un fiore di vita, da una novella del Cinquecento, ma poi
illanguidí, la meschina, e si fece romantica e sentimentale
come una violetta del pensiero e della vita moderna rappresentata in
una pochade parigina. Ed ecco come Oretta vive, spensierata e
raccolta, nella bottega di Luca, tra gli affari e l'amore: ma un
giorno si incontra con un bel cavaliere, il conte Gherardo di San
Gimignano, che le appare come san Michele nell'atto di liberare un
mercante fallito dai suoi rozzi persecutori. Per un
«abile» colpo di pollice del caso, Oretta duella, nella
maritale bottega, con Genoveffa, amante del conte, e le infligge un
solenne scorno. Quindi si incontra col cavaliere, un uomo fatuo, un
presuntuoso, e nella sua scaltrezza, vuole staccarlo dall'amante,
scoprendogli come lei, proprio lei, Oretta, che il cavaliere
presuntuosamente ha giudicato donna fedele, abbia due amanti e
simultaneamente meni per il naso tre uomini. E per convincere meglio
il cavaliere della sua ignoranza, rimasta vergine pur attraverso una
infinita serie di esperienze amatorie, Oretta pensa la burla: si
traveste da giovine poeta e seduce Genoveffa e si fa sorprendere. Ma
su quale mai rozzo e maldestro cavaliere aveva Oretta posato il suo
amore: Oretta è innamorata e Gherardo è persuaso sia
una commediante, Oretta si strugge e lacrima e Gherardo si
infurbisce ancora e non può credere. Il dio d'amore è
veramente bisbetica ed enigmatica creatura del destino. E
cosí Oretta, la spensierata Oretta, la scaltra mercantessa di
sete, ridiventa saggia provvisoriamente e si abbandona sul petto
maritale di Luca. Ma Oretta è piaciuta lo stesso, anche se
poco cinquecentesca, anche se operante in un mondo fittizio,
artefatto, fuori di ogni spazio e di ogni tempo, anche se un po'
stupidella, essa stessa, per la curiosa pretesa di essere persona
viva nell'arte letteraria, pur fuori della individualità
della Galli, e di muoversi e agire, e reagire, tra i cartoni
dipinti, a uomini cinquecenteschi, vivi solo nel movimento degli
attori. È piaciuta, ha divertito, ha fatto ridere
fisicamente; il solo fine che l'autore stesso forse si riprometteva
di raggiungere.
(5 febbraio 1919).
«Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano. Nel
primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la
presentazione della «moglie» come personificante la
visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori
del futurismo post-cubistico: l'inferiorità spirituale
è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano
nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e
superfici. Il «marito» invece è fortemente
accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un
concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che
la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice,
fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature
non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza
affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi
vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel
marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi
in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e
soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io,
inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile
contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile:
la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si
sottomettono alla volontà della trottola socratica.
C'è un «amante», perché la commedia
rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l'amante non impersona
alcuna idea; è sorda materia, è oggettività
opaca, è il «fesso» della vita, che logicamente
è condotto a rimetterci la pelle, perché la dialettica
dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima
del concetto puro e l'urlo belluino del protoplasma in movimento: la
umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta
orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di
provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del
marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in
duello. Il marito non la intende cosí e costruisce, sulle
contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi,
il trionfo della ragione logica: accetta il duello all'ultimo sangue
e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere,
l'amante che è il vero marito. La vita è per lui,
concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a
priori le parti, facendo sempre scacco matto.
La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere
Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di
dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico.
L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è
proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza
finestre, incomunicabili e incoercibili, l'autore, i personaggi e il
pubblico.
(6 febbraio 1919).
La serata della Vergani al Carignano. Per valutare anche
approssimativamente le capacità creatrici di una attrice come
Vera Vergani non si può prescindere dalla necessità di
un giudizio riassuntivo e sintetico su tutta l'opera sua di artista.
Vera Vergani nulla ha da temere nell'affrontare un simile giudizio
che non può non tenere conto di tutti gli elementi che
possono giustificare le poche e lievi manchevolezze che si
rintracciano nelle sue interpretazioni.
Ma sono queste piccole incertezze che dànno maggiore rilievo
alle non comuni virtú della Vergani. Essa è talora
imprecisa perché non calca le scene come una marionetta, ma
vive, ama e soffre la fugace esistenza di cui le è affidata
la creazione. Sono doti che non potevano sfuggire al gran pubblico,
anche se degli sforzi solitari e tenaci di qualche artista
coscienziosa non si cura. Il valore persuasivo delle interpretazioni
della Vergani ha finito per vincere.
Accanto a Ruggero Ruggeri essa non è affatto sacrificata,
appunto perché ha raggiunto una maturità che le
può permettere di trasfondere la sua personalità
indipendentemente da qualsiasi contributo estraneo.
Ieri sera, per la sua serata d'onore, essa ottenne un vero trionfo.
Dopo il terzo atto fu chiamata sei volte al proscenio. Il teatro
Carignano era affollatissimo.
(22 febbraio 1919).
«U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri.
È un'efficace rappresentazione della «scemenza»
meridionale (siciliana). La scemenza meridionale è una
particolare scemenza, per due rispetti: genericamente e
specificamente, è meridionale ed è di casta. Lo scemo
meridionale è diverso dallo scemo toscano (Stenterello),
è diverso dallo scemo lombardo (Marchese Colombi, per es.).
Ma nella scemenza che è generica si distingue una scemenza
specifica: quella del barone, del signorotto feudale che si maschera
di decoro, che ha delle pretensioni; nel semplice
«uomo», rozza umanità senza intelligenza che si
colora per atteggiamenti particolari, essa è spettacolo
pietoso; nel barone essa è possibilità infinita di
comico. Il barone scemo vuole essere qualcosa, crede di essere un
valore umano; egli è il suo titolo, è una tradizione
di boria, altezzosa coi deboli e strisciante coi forti, è un
rapporto tra un essere e un presumersi; tra l'essere abietti,
incapaci, ottusi, analfabeti, pietosi, e il presumersi superiori a
tutti gli uomini perché si è nobili e gli altri sono
scarpari, falegnami, zappatori, «gente che deve lavorare per
vivere». Lo «scemo» barone non è neppure
piú un uomo: è una scimmia. Non basta: ha dimenticato
di essere uomo, non riesce a concepire l'uomo. Il lavoratore
meridionale (il lavoratore della terra) è quadrato, robusto,
dalla voce profonda, musicale e vigorosa; il barone è
degenerato fisicamente, è una decomposizione fisiologica
oltre che una decomposizione sociale, è diverso
dall'umanità laboriosa che lo circonda nel tipo fisico, nella
voce, nel gestire, oltre che per la casta e la moralità.
Francesco Campanozzi ha vigorosamente rappresentato uno di questi
scemi nei tre atti che umilmente chiama di farsa. E certo non
può esserci tragedia o dramma in uno di questi baroni, e i
tre atti sono «storici»; non può esserci
commozione profonda, conflitto interiore, urto di grandi passioni
nobili o infami. Non può esserci alcuna cosa grande, nel bene
o nel male, che sia inerente a umanità: è un
balzellare fisico e un crepuscolo tremolante dello spirito e
dell'intelligenza, un'inettitudine assoluta, all'azione e al
pensiero che solo talvolta si scuote per un istinto confuso della
famiglia. Il Campanozzi ha dato espressione plastica a questo mondo
che tramonta; ne ha saputo fissare con esatta evidenza alcuni
momenti essenziali, anche se il carattere (in senso artistico)
centrale non gli è apparso che in uno sviluppo di insieme
spesso forzato e scolorito, con antitesi crudamente meccaniche. U
baruni di Carnalivari vive tuttavia, e non è spesso che nel
teatro si vedano creazioni vive.
(12 marzo 1919).
«L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano. Il
teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di San Secondo,
Veneziani... e Cavacchioli) risulta in gran parte da un piccolo
errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese,
volendo arrivare a Bernard Shaw, si sono smarriti nel dedalo delle
avventure di Sherlock Holmes. Lo stampo della loro fantasia è
da ricercarsi nella vasta fronte di mister Conan Doyle, divenuto
baronetto per meriti letterari; in ogni loro commedia l'intrigo
è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà di
intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito
ovverosia della psiche umana: le avventure ideali si connettono per
ragione filata, si sviluppano con ritmo sicuro, si intrecciano, si
accavallano, si mescolano, unite sempre da una sottile bava di
ragno, sulla quale un folletto danza gioiosamente, caprioleggiando,
rischiando triplici e quadruplici salti mortali, per ricadere sempre
in piedi, gentile, fresco, ilare, smorfieggiante a destra e a
mancina per esporsi e proporsi all'ammirazione universale.
È una fantasia legnosamente arida, che scoppietta e frigge
per una goccetta d'olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si
compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia
matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una
fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era fatta, i quali
pertanto l'hanno recisa per notomizzarla e veder com'era fatta.
Divertono, pur annoiando un po' per la pedanteria, della quale sono
figli non degeneri. Divertono e interessano, perché, insomma
questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la
vecchia moda del teatro romantico da appendice, sfrenare una
irrequietudine interiore e corrodere i sedimenti di sugna inacidita
che facevano grossi i cuoricini piú microscopici. Ma non sono
che uccelli di paradiso impagliati o che saranno impagliati tra
breve dagli archivisti delle biblioteche teatrali; non godono della
libertà, sono legati a un cordino come i rospi che divertono
i monelli; sbalzellano, goffi alquanto per la finzione della
libertà, e ricadono molli. È difficile analizzare le
loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si può
essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto,
che non ha ancora esaurito il suo ufficio storico. Sono quasi sempre
ben eseguite, perché domandano studio e lavoro e spoltriscono
i facili schemi irrigiditi degli attori. L'uccello del paradiso,
confessione (!) in tre atti di Enrico Cavacchioli, ha dato modo al
Betrone, alla Melato e agli altri bravi artisti della compagnia
Talli di determinare una esecuzione che vale in se stessa.
(20 marzo 1919).
«Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri. Giovanni
Schiffi, in arte Flick, è un uomo che soffre. Ma questo
dolore, questa sofferenza atroce del pagliaccio Flick, dipende da
una mera condizione del suo essere fisico; può suscitare la
pietà, come la susciterebbe l'esposizione in palcoscenico di
un lebbroso, di un cieco, di un qualsiasi infelice accasciato sulla
sua sventura che gema e ululi e si contorca. Il dramma (!) di Fausto
Maria Martini è costruito coi procedimenti del Grand-Guignol;
l'umanità, come poesia, come spirito, come intelligenza che
supera e comprende l'essere fisico, vi è assente. Ci troviamo
dinanzi a un referto da neuropatologo, un tale che non può
ridere, che non può godere, che non può vivere, a una
fontanella di lacrime ambulante. È un pagliaccio; è un
professionista del riso; ci sarà un contrasto, il dramma
nascerà appunto da questo contrasto mostruoso. No, l'autore
non pone il dramma in ciò; è un incidente questo
contrasto, non è essenziale motivo, e forse non potrebbe
esserlo perché la professione di pagliaccio a quanto si
sappia non è inerente alla natura umana, non attributo
necessario di una passione o di un essere. Flick si domanderà
perché, a lui, innocente, sia toccata una tale sciagura,
interrogherà la natura, interrogherà gli uomini, si
rivolgerà alle stelle e alla luna, magari, per sapere la
ragione, maledirà, imprecherà, diverrà patetico
rimprovero dell'inconoscibile, del destino, di Dio, del caso
perverso che lo ha cosí foggiato, che lo ha condannato a
essere l'ombra della vita, senza amore, senza sorriso, senza
contrasto tra la gioconda risata e la amara lacrima. Niente di tutto
ciò, assolutamente nulla; Flick è un mero referto da
gabinetto medico, Flick ha per anima una cipolla lacrimogena, non
una sorgente di poesia e di dolore umano.
I contrasti sono ottenuti con mezzi esterni; l'uomo che piange si
incontra con l'uomo che ride, che ride senza motivo come egli piange
senza motivo: due maschere s'incontrano presso uno specialista e si
prendono sotto il braccio, iniziano una vita comune; si completano?
nasce da questo contatto un principio di vita? Neppur questo. Una
donna è coi due; essa è la consolatrice di Flick, a
quanto Flick afferma; ma non è amata da Flick, non determina
nel suo cuore un senso, un moto che possa svolgersi in una
dialettica e condurre a una evasione dal cerchio chiuso della mera
sensibilità animalesca del soffrire. L'uomo che ride
guarisce, lui, nell'amore, si porta via la donna nella gioia che non
è piú secco scoppiettio d'ilarità effimera;
Flick non soffre per ciò, il suo dolore non si modifica, il
dramma rimane puro Grand-Guignol, esposizione del meccanico
decomporsi di un essere umano per reazioni fisiologiche, a grande
effetto, rozzo verismo senza soffio di poesia. L'intrigo è
preparato per lo scioglimento; lo scioglimento è a grande
effetto, e l'effetto è riposto nella virtuosità
dell'attore.
Il prof. Gambetta, neuropatologo, aveva consigliato a Giovanni
Schiffi di recarsi ad ammirare il pagliaccio Flick e di abbandonarsi
alla giocondità che il pagliaccio dispensava nella sala. Ed
ecco che Giovanni Schiffi ricerca in se stesso il riso, in se stesso
(ohibò, non pensate che il Martini abbia ricavato da questo
motivo una ricerca dell'interiorità) riflesso negli specchi,
e danza e folleggia, e ride e si uccide, pugnalandosi, sempre
nient'altro che maschera senza anima, senza poesia, senza un
briciolo di umanità spirituale.
(21 marzo 1919).
«La ca' veuida» di Nicola al Rossini. Esistono ancora
uomini che credono nelle forze buone che pure conducono e
dànno una configurazione alla vita: la bontà, la
lealtà, la generosità e gli altri astratti che
abbondano nei libri delle educande.
Il Nicola è uno di questi e La ca' veuida è
un'affermazione di fede. Una onesta e illibata figlia di magistrato
pecca col suo fidanzato che deve partire per il fronte e muore.
È dessa indegna del genitore e della società? La
lealtà la rigenera, la generosità di chi la circonda
le ridà un compito e una missione nella vita: la casa che si
era vuotata sotto i colpi del destino, si riempirà nuovamente
di sorrisi e di speranza. Il dramma è condotto molto
ingenuamente e perciò talvolta assume toni accademici e
predicatori, ma forse perciò appunto si cattiva le simpatie:
sente di buon odore casalingo, e alla fin fine si è nauseati
dei tanti che speculano sullo scetticismo e il cinismo, che
rinnegano i valori tradizionali della vita e si mettono, il
piú delle volte, fuori di ogni vita. Si rimane colpiti dello
strano fatto che qualcuno prenda ancora sul serio gli ammonimenti
del buon Giannetto: e forse è vero, come avverte Benedetto
Croce, che il Buon Giannetto dovrebbe essere riletto e meditato da
molti.
(27 marzo 1919).
«L'innesto» di Pirandello al Carignano. Esiste nell'arte
del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese
d'agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie
«amorosamente» il tallo, col quale la mano rude ma
esperta del villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo
desiderio di frutto, lo accoglie a «occhi chiusi»,
nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla
maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà
alla innocente pianta l'origine legittima della sua
fecondità? Anche la signora Laura Banti è una sterile
pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale
ha ricevuto a «occhi chiusi» il germe vitale che la
renderà madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo
amore, e lo ha nutrito di tutto il suo spirito, del quale è
essenziale parte lo spirito, l'amore e il corpo fisico del consorte
legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i
suoi scrupoli e la sua suscettibilità e la sua volontà
che sono due con quelli della moglie e non solo uno come nello
stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo che compiono il rito
fecondatore senza nulla generare. Come venga superato lo stato
d'animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la
follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il
figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del
Pirandello.
Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la
concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica
generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure
è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione
intima permanente di due vite? E ha irrigidito un'azione, ricca di
umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora
da giardinaggio, e ha finito col credere, un po' anch'egli,
all'accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha
presentato questo problema sessuale, che è poi fondamentale
nella vita degli uomini, avvolgendolo in una artificiosa bambagia di
dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività
sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si
presenta (la pianta, una rozza villanella e la spirituale signora
Banti), quasi non sapesse come esprimere al pubblico e come organare
in atto la concezione che pure era chiara nella sua fantasia.
Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e
congestione. L'argomento è posto, ma non vivificato, la
passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il
Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue
«conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto
nella storia dell'arte, avranno invece molta parte nella storia
della cultura italiana.
(29 marzo 1919).
«Fedeltà» di Calzini al Carignano. Abitava a
Siviglia, nel tempo stesso quando Michele Cervantes scriveva il Don
Chisciotte e il Geloso d'Estremadura, un artiere del marmo che aveva
una moglie bellissima ma fantasiosa e bizzarra assai. Questo marito
accoppiava al genio artistico una crudelissima volontà
amatoria verso la moglie sua Soledad; il capriccio giunse in lui
fino al punto che preparato avea una tagliola, nella cui morsa le
trecce della donna assicurava, e solo cosí di lei era sicuro
e poteva attendere ai perigliosi lavori di architetto e di
capomastro. Ma la donna lo tradí ugualmente, pur dolorando
nelle braccia dell'amante, per la tagliola che le irrigidiva la nuca
e le spalle; lo tradí per smania di libertà, per
provare a se stessa di essere creatura umana vivente e non vile
schiava, non proprietà di un padrone; lo tradí col
primo uomo che fu tanto ardito da tentare la sorte, in quella
misteriosa casa di un sí crudele padrone, posta accanto alle
carceri risonanti delle urla dei pazienti torturati, avvolta di
sanguigni riflessi patibolari attraversati dalle piacevoli figure
dei carnefici, dei manigoldi, dei confessori, delle confraternite e
dei becchini. Ma il brutto giuoco dura poco: la fatalità si
compie. Il marito precipita nel vuoto, poiché solo l'amore di
Soledad lo teneva aggrappato alla vita e lo preservava dal capogiro,
e muore. Soledad è libera, diventa fedele al morto; il
tradire per lei era lotta per la libertà, per il possesso di
se stessa; era un duello, e il duello si fa in due. L'amante viene
discacciato, ma anch'egli è spagnuolo, è andaluso,
è geloso, è crudele, per di piú si avvale dei
servizi di un parassita, il quale naturalmente è un italiano,
un italiano disperato, affamato, ma il cuore gonfio di poesia, di
dolce malinconia che si traveste in giocondità e brio, il
quale a sua volta si innamora di Soledad. Il primo amante rivuole a
ogni costo Soledad e la ricatta: va a un convegno e viene pugnalato
dalla fantastica donna che circuisce quindi l'italiano con le sue
reti e lo convince a trasportare il cadavere fino al prossimo fiume.
Nel dramma del Calzini appaiono molte orme (orme sulla sabbia):
v'è un pizzico di Villiers de l'Isle-Adam delle Novelle
crudeli, un pizzico di Beaumarchais creatore di Figaro, qualche
granellino shakespeariano, e persino un briciolo di Sem Benelli.
Manca un autore unico, un poeta unico che unifichi e vivifichi nella
sua fantasia tanti figurini; del Calzini c'è solo
un'abbondante frasca di parole, che impressionano spesso con
abbaglianti luccichii e roboanti sonorità.
Una bellissima messa in scena e una accurata e diligentissima
interpretazione della Melato, del Betrone, dell'Olivieri, del
Marcacci.
(6 aprile 1919).
«Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri. Il filosofo Filippo
Carmi ha girato il mondo piú che Guido da Verona per studiare
l'infedeltà femminile in tutti i suoi rapporti con la vita
degli uomini, individui e associati. Ha tuttavia scritto già
una cinquantina di volumi sull'argomento, e non riesce a concludere
la sua laboriosa fatica, poiché gli manca l'esperienza
personale dell'infedeltà e della gelosia: egli è una
calamita che polarizza verso l'amore, l'onestà e tutte le
virtú cardinali e teologali ogni donna in cui s'imbatte: non
conosce Acidalia, cioè Venere inquieta, e affannosamente la
ricerca, per dovere di filosofo e di uomo morale che si è
proposto la nobile missione di guarire radicalmente l'umanità
dalla schiavitú sessuale. Nei primi due atti di questa
commedia del Niccodemi si assiste ai vani tentativi che il filosofo
Pippo fa per essere tradito da una giovine donna che vuole essere
onesta finalmente, dopo essere stata l'amante di mezzo mondo; nel
terzo atto il filosofo Pippo scopre, nello spazio di qualche ora, di
essere stato lo zimbello di tutti, di essere stato tradito da tutto
e da tutti e di non essere un filosofo, ma un poveruomo qualsiasi:
si consola con una sua segretaria.
Tutto ciò è presentato con molta disinvoltura, senza
altra preoccupazione che non sia quella di far ridere
fisiologicamente a molto buon mercato: ai tre atti manca ogni
intenzione d'arte e ogni elaborazione, anche superficiale; sono un
vero scoppiettio di parole infilzate con molta praticaccia del
mestiere.
(8 aprile 1919).
«La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano. Per
Luigi Antonelli la sostanza di questi suoi tre atti è una
«avventura fantastica». La definizione è molto
pretenziosa, e implica un giudizio di perfezione: come si dovrebbe
definire il Sogno di una notte di mezza estate dello Shakespeare?
Nei tre atti c'è poca avventura e pochissima fantasia;
abbonda invece la scaltrezza letteraria, abbonda lo spirito pratico
che freddamente applica un metodo e riesce a sistemare un certo
equilibrio che dà l'illusione dell'armonia.
L'avventura è il dominio dell'imprevisto, della vita che
fiorisce spontaneamente nuova e attuale dal suo morto passato; se la
fantasia dell'artista vive questa attualità, sboccia la
poesia, si realizza il capolavoro nell'armonia dei caratteri umani,
delle azioni che da questi caratteri sono determinate e delle
immagini che la espressione suscita. Nessuna avventura nella fiaba
dell'Antonelli: essa è una moralità, è una
dimostrazione logica, è una tesi, una vecchia tesi diventata
accademica e pedantesca per essere troppo ripetuta, una tesi che
l'Antonelli nega in atto nel tentativo di fermarla. La giustizia e
la verità uccidono, la poesia vivifica. I tre maghi della
verità, della giustizia e della poesia si mischiano alla vita
degli uomini. La Verità mette a nudo l'essenza di ognuno:
ciarlataneria, tradimento, ipocrisia, violenza cozzano e minacciano
di condurre al mutuo sterminio. La Giustizia conseguentemente fa
giocare le cause e gli effetti: un disastro, uno squallore, la
disperazione, il suicidio. La Poesia ricompone, tira a lucido,
folleggia, dà impulso alla continuità. La favola
centrale è poverissima: una comitiva di amici casuali sbarca
in Europa con un bambino: il bambino viene assassinato. Da chi?
Giuoco della Verità. È responsabile un figlio,
è giusto che un figlio subisca una qualsiasi sanzione,
ché un padre epilettico ha ucciso senza sapere che si
facesse? Giuoco della Giustizia. Come può risanare un
principio vitale dalle rovine accumulatesi per l'affermarsi delle
due prime forze? Giuoco della Poesia. La secchezza del processo di
sviluppo è invano rivestita di brillantina verbale; nel terzo
atto il giuoco non basta piú, le parole si stemperano. La
commedia rinnega se stessa; la poesia non vivifica. Fin dove essa si
mantiene nel dominio delle premesse la scaltrezza letteraria riesce
a suscitare l'interesse, la curiosità si tende ansiosa se non
commossa. Ma l'albero della vita non emerge, non incanta con
l'atteso lusso di fiori, di colori, di frutti: una banale sequela di
bozzetti e una coreografia snervata e tediosa concludono la
commedia.
(13 aprile 1919).
«L'intesa» di Rocca e «La trappola
sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri. La commedia di Gino
Rocca è una lievissima costruzione scenica, culminante in un
epigramma che può essere diversamente gustato e che va oltre
l'intenzione stessa dell'autore, fervente interventista. Una cocotte
italiana divide la sua grazia con tre soldati: un inglese, un
francese e un italiano (l'italiano è imboscato); in essa
ognuno dei tre trova un fascino come nell'intesa politica ognuna
delle tre nazioni (l'italiano è l'amico del cuore, metafora
che il dilettantismo morale e politico dell'autore getta lí,
con una disinvoltura che in altri tempi e in altri sarebbe giudicata
cinico e malvagio disfattismo). Un bozzetto senza importanza e senza
altra conseguenza che non sia una risatina nervosa a fior di pelle.
I tre atti di Pilade Vecchietti sono invece una complessa
costruzione: essi seguono il modello classico della commedia
d'intreccio. Bisogna, in fondo, congratularsi con l'autore, che ha
avuto l'audacia di tornare all'antico, in questi tempi di frenetica
modernità, di spasmodica ricerca del nuovo e dello strano. La
trappola sentimentale espone i casi di una moglie trentacinquenne
che sfiora l'adulterio e viene salvata dall'accorto e intelligente
marito. Tutti i pezzi dello svolgimento sono preparati con cura e
diligenza: la moglie può innamorarsi del primo uomo che le fa
la corte (Paolo Anselmi), il marito, che possiede un intiero, un
copioso epistolario amoroso di un ignoto anonimo, fa pervenire alla
moglie queste lettere, le crea l'illusione di un innamorato
misterioso, la culla in un incanto sentimentale che rende ripugnante
la realtà. Ma l'autore delle lettere è proprio
l'Anselmi, il quale tenta di rivolgere a suo giovamento l'astuzia
dell'accorto marito, rimanendo finalmente sconfitto. Una commedia
bonaria, senza pretese, che si sgomitola pacatamente e si ascolta
senza alcuna scossa e nessuna reazione: un bicchiere di acqua con
pochi sali.
(15 aprile 1919).
«La volata» di Niccodemi al Chiarella. L'officina
irrompe nel palazzo. Il vecchio palazzo aristocratico, dove i
sentimenti, gli affetti, le abitudini, i rapporti familiari sono
diventati una muffa variopinta alla superficie ma germinata da una
putredine fondamentale, è assediato dalla fervida
attività del lavoro moderno, che lo sgretola e provoca
numerosi crolli. Il lavoro vince il palazzo, il compartimento stagno
della casta si sfascia sotto i colpi di maglio del proletario: la
contessina Dora si ribella alla tirannia delle convenzioni
ancestrali e sposa Mario Gaddi, un modesto operaio che si è
aperta la strada nel mondo con la tenace volontà e
l'intelligenza natia.
Il motivo ritorna spesso nel teatro di Dario Niccodemi. Il
Niccodemi, come preparazione intellettuale, come esperienza sociale
e storica, dipende direttamente dai romantici francesi del '48;
è un epigono spirituale degli scrittori borghesi che nel
romanzo, nel dramma, nella poesia continuarono la battaglia ideale
per i diritti dell'uomo, per l'uguaglianza di fronte al cuore e al
sentimento, vinta dai loro antenati dell'89 per i diritti dell'uomo,
per l'uguaglianza di fronte alla legge.
Il Niccodemi è un Giorgio Ohnet in ritardo, e Giorgio Ohnet
era già in ritardo a Eugenio Sue, a Victor Hugo e alla
infinita schiera degli scrittori di appendici. Ma il motivo ha
conservato una virtú di suggestione: riesce sempre ad
avvincere e a commuovere, segno che il costume non si è
modificato ed arricchito sentimentalmente e razionalmente con lo
stesso ritmo della legge scritta e del progresso meccanico. La lotta
di classe è vista dall'angolo visuale della tenerezza e del
buon cuore: non è neppure una distinzione di classi che si
fissa, ma una convenzionale caricatura degli uomini, secondo le
categorie morali del bene e del male, secondo le categorie
letterarie dell'angelo e del piededicapra, secondo le categorie
oleografiche di lavoro e del sangue putrido. Sdolcinature
piccolo-borghesi, che avrebbero provocato il vomito a Ottavio
Mirbeau, e susciterebbero un sorriso ironico sul labbro di Massimo
Gorki; prodotto di una invidiuzza inerente alla mentalità del
borghesuccio francese che non sa perdonare alla propria
mediocrità di sentire una grande ammirazione per il nobile,
col quale spera di imparentarsi. Il Niccodemi non si innalza di un
dito sulla statura intellettuale e artistica di Carolina Invernizio.
La volata è costruita coi procedimenti teatrali abituali al
«mago» della scena italiana: grandi urti, situazioni
piccanti, conflitti esasperati, che fanno scoccare il desiato
applauso promettitore di un buon numero di repliche.
(24 aprile 1919).
Gli spettacoli al Teatro del Popolo. Con L'onore di Sudermann
s'è iniziato sabato sera il corso delle rappresentazioni al
Teatro del Popolo. La interpretazione della interessante commedia, a
fondo psicologico e filosofico, è stata condotta con vero
senso artistico dalla compagnia Sangiorgi-Carini, i cui attori sono
stati ripetutamente, insistentemente applauditi a ogni fine di atto
e anche durante lo svolgimento dell'azione. La commedia ha
interessato moltissimo il nostro pubblico che ha potuto vedere e
sentire condito in tutte le salse il concetto borghese e bottegaio
dell'«onore», che nella società capitalista si
compra e si vende come una merce qualunque. E ha applaudito
fragorosamente alla invettiva che Roberto, il giovane laborioso
emerso dalla nullità del suo ambiente, ha lanciato contro i
ricchi, padroni dei corpi e delle anime della povera gente.
Interessantissima anche la brillante commedia rappresentata nella
giornata di domenica: Il deputato di Bombignac. L'allegra satira dei
costumi parlamentari e delle leggerezze dell'alta aristocrazia non
poteva non divertire il pubblico che frequenta i nostri ambienti
dato il periodo di dissolvimento che stanno attraversando le classi
dirigenti d'Italia e di altri siti.
Non cosí vivo interesse ha destato domenica sera il dramma di
Bernstein: La raffica, dove l'azione si svolge esclusivamente nel
mondo borghese della nobiltà infrollita dall'ozio e
incartapecorita negli affari. I lavori capaci di emozionare il
nostro pubblico sono quelli che mettono a contatto il presente con
l'avvenire, i dominatori cogli oppressi, il sistema sociale
dell'oggi colle ardite speranze del domani. E questo crediamo sia il
concetto ispiratore della benemerita commissione del teatro.
Il locale ampio e arieggiato di Corso Siccardi è stato sempre
affollatissimo e dobbiamo lodare gli organizzatori per
l'allestimento elegante e popolare del caratteristico teatro in cui
si svolgeranno le sane rappresentazioni educative del nostro popolo.
(30 aprile 1919).
«I giocatori» di Poggio al Carignano. Al signor Cesare
Biliotti capita ogni dieci anni un'avventura bisbetica. Sui
ventotto, il signor Cesare s'innamorò della signorina Maria;
ma aveva avuto il torto di presentare alla fanciulla un amico, Mario
Bini, che destramente gliela soffiò, aggiungiamo, per il
prestigio del candore femminile e dell'amicizia, che né Maria
né Mario conoscevano l'amore di Cesare. Sui trentotto, il
signor Cesare si innamora della signorina Emma, e anche a lei
presenta l'amico Mario Bini, il quale si prova a soffiargliela.
Ma... in questo ma consiste la commedia.
Mario Bini non ha mutato il pelo, né ha perduto il vizio, ma
Cesare Biliotti e le condizioni generali dell'avventura sono mutate.
Intanto Mario Bini ha moglie e due figli; è separato dalla
moglie ma intimamente ne è innamorato e adora i figlioletti.
Cesare, poi, in dieci anni l'ha imparata lunga: ha indossato una
palandrana filosofica, si è catafratto contro le
avversità e i giuochi del caso; resiste, combatte e vince. La
signorina Emma ignora anch'essa l'amore del signor Cesare; è
una donnina dal caratterino bizzarro, questa signorina Emma. Ha
ventisei anni (l'autore nota scrupolosamente l'età dei
personaggi), e da nove anni abita in una bicocca rurale col vecchio
e cadente padre e la non piú giovane sorella; è stanca
di questa muffa, vuol vivere, vuole espandersi, vuole audacemente
conquistarsi la felicità e la luce. Si ribella clamorosamente
al genitore, non si commuove per le sue tremule ginocchia e la sua
canizie (questo padre è stato un poco di buono, nove anni
prima, e l'inesorabile figlia glielo ricorda fremente): se ne
andrà col Bini, pur di evadere dalla cella domestica, pur di
sentirsi libera, indipendente, se stessa. Cesare Biliotti veglia e
opera: ingelosisce Mario Bini, facendogli credere che sua moglie
vuol divorziare per sposare il suo primo pretendente e convince la
signora Bini a intervenire nell'avventura. Terzo atto. Torino. Una
sala di casa Bini. La signorina Emma invece di Mario, trova la
signora Maria. Serrato duello tra le due donne. Entrano in scena i
due pargoletti. Emma è disfatta. Il marito e la moglie si
riconciliano. Il signor Cesare si porta via Emma verso il municipio
e la felicità. Gli spettatori, che hanno con molto
compiacimento seguito lo sviluppo dell'intrigo e hanno gustato con
pacata soddisfazione le centinaia di massime, di paragoni, allegorie
e apologhi con cui l'autore lo ha snellito e illeggiadrito, dopo
aver applaudito i primi due atti, applaudono anche il terzo godendo
di tanta felicità e tanta armonia di cuori e di sentimenti.
(13 maggio 1919).
«La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella. L'amore del
titolo ha tradito l'autore; lo ha condotto ad aggiungere alla azione
del suo dramma due lunghe scene finali che ne guastano l'armonia, e
non hanno alcun fine artistico. Troppo piccola cosa, l'immagine
della vena d'oro, per tanto sacrifizio. L'autore era riuscito, in
limiti soddisfacenti, a contenere la letteratura: non è
riuscito a vincersi sempre, ed è un peccato.
L'azione del dramma culmina nel sacrifizio che un figlio fa di tutta
la sua piú intima coscienza per sua madre. I greci non
amavano descrivere lo stato d'animo inerente ai dolori che toccano i
cardini stessi dell'essere uomini; e neppure Dante. In un quadro di
Pompei, Medea assiste all'uccisione dei figli, ma il suo volto
è ricoperto da un drappo: il pittore non osò
effigiarne la maschera atroce. Cavalcante ricade nell'arca appena
gli pare di aver compreso che suo figlio è morto, senza
parole, senza gesti, per Dante. Il lettore, l'osservatore possono
immaginare, o forse solo sentire un tonfo, un brivido, che li
immedesima col dramma: non di piú, forse. Lo Zorzi non
è certo riuscito a ottenere di piú, non è
riuscito neppure a determinare quel tonfo, quel brivido. È
voluto uscire dai limiti, non ha creato nulla: disillusione.
Una donna (una madre), abbandonata dal marito dopo pochi mesi di
convivenza fredda ed esteriore, per vent'anni si salva nell'affetto
del figlio. È la matrona, la Giulia romana, che fila e alleva
la prole in castità. La passione, Afrodite, dorme in lei, non
la scuote, non la tormenta. Conosce il poeta Manfredi (il pericolo
del poeta in iscena è stato superato dallo Zorzi con misura e
garbo), si innamora, con innocenza, con candore. Il figlio
interviene brutalmente, selvaticamente, in una scena che è la
piú bella e la piú efficace del dramma. Il poeta
parte. La contessa Usberti langue, si consuma. Un uomo di scienza,
il dottor Albani, trova la parola «umana»; il figlio
deve permettere alla madre di amare, contro tutte le leggi, contro
tutte le morali, contro tutte le vergogne. È un uomo di
scienza che parla: la tesi ne diventa «umana», perde
ogni sapore di facile e dilettantesca audacia verbale. E il figlio
acconsente e richiama il Manfredi. L'autore non ha saputo fermarsi.
(14 maggio 1919).
«L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano. L'ultimo
nemico è un ingegnere tedesco che ritorna in Italia dopo la
pace e viene strozzato da un reduce. Commedia del cannibalismo
nazionalista. Con tutta l'enfasi e la rozza crudeltà retorica
del cannibalismo nazionalista. Greve, tediosa,
«prussiana», come ogni cattiva azione nazionalista.
Antinazionale, come ogni prodotto della barbarica concezione
nazionalista. È come un avviso ai tedeschi: non ritornate in
Italia, o gli italiani vi strozzeranno. Gli italiani avrebbero
bisogno di voi, perché voi siete laboriosi e tenaci, siete
pazienti e mantenete gli impegni. Gli italiani avrebbero bisogno di
voi, perché devono moltiplicare i loro impianti industriali e
mancano di personale tecnico; i capitalisti italiani vi
riaccetterebbero, perché gli affari sono gli affari e non
sentimentalismo: ma badate, v'è in Italia chi vi
strozzerebbe, perché pensa che l'Italia «debba»
far da sé, anche se non può, anche se la sua classe
dirigente è costituita di individui che pensano a
riacquistare il tempo perduto per la gioia e il sollazzo invece di
lavorare, che pensano a dare incremento alla galanteria invece che
alla industria e agli studi. Molti spettatori dei palchi e delle
poltrone devono essere stati seccati di questa commedia, che denota
il sussistere d'uno stato d'animo che turba i traffici. Per noi essa
è una cattiva azione nell'ordine artistico, e una evasione
dalla sfera dell'umanità nell'ordine morale.
(20 maggio 1919).
«Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella. In
un pomeriggio romano afoso di temporale, la signora Elena Demei,
consorte del signor Giorgio Demei, rivela alla baronessa Lanfranchi
di aver conservato, sulle sue bianche spalle, il sigillo di un bacio
impressovi due anni avanti, a San Sebastiano, dalle ardenti labbra
di un tenebroso e fatidico andaluso.
Ella è presa, è schiava: avrà un convegno col
bel cavaliere che deve rivelarle l'amore. E la moglie inganna
astutamente il consorte, e la madre non si intenerisce alle lacrime
inconsapevoli dell'innocente figliolina, che ha dieci anni e legge
Peter Pan e sta per imparare la regola del tre e svolge componimenti
su presaghe e galeotte frasi di Napoleone (che scuole! assegnare
alle innocenti bambine temi che corrompono le genitrici), e va in
una camera d'albergo. Ahimè, quale delusione. Il bel
tenebroso è uno zingaro, un avventuriero, un truffatore, un
baro d'amore. La signora fugge, lasciando il suo mantello
d'ermellino, come Giuseppe la sua tunica, e il giorno dopo tradisce
il marito col medico di casa. La commedia di Amalia Guglielminetti:
Un baro d'amore, essenzialmente si regge su due mantelli
d'ermellino, una sera di burrasca e una lunga telefonata dietro le
quinte: le spagnolerie, le andaluserie, le siviglierie, le lunghe
psico-pato-senso-femminilerie sono il bianco mangiare in cui affoga
il moscerino stremenzito e volato dalla non fantasia drammatica
della Guglielminetti. Il pubblico ha pazientemente ascoltato i primi
due atti; al terzo si è scosso dal torpore e ha protestato
indelicatamente.
(28 maggio 1919).
«Nino er boja» di Monaldi allo Scribe. Ladri, assassini,
prostitute, ruffiani, scatti di coltelli a molla, lividi
lampeggiamenti di acciari, urla, sfide, streghe, fatture, donne
sfregiate da una parte, tenerezze, senso morboso dell'onore, spirito
cavalleresco, coraggio dall'altra. In questo quadro si rileva un
personaggio che sintetizza tutto il bene e tutto il male
dell'ambiente: il capo della onorata società che entrando in
scena fa scattare il ferro e zic, sfregia l'amante traditora.
L'azione si complica: nell'ordine delle bassezze c'è una
vecchia che se la intende col marito della figliuola, il quale
marito è il Giuda pallido e repugnante di questa caverna da
mille e una notte; nell'ordine degli eroismi c'è la
magnanimità del capo che non uccide il Giuda per le
supplicazioni di una sua amante (la quale è la moglie del
Giuda, ma ha avuto un figliuolo dal capo, anzi il Giuda l'ha sposata
per coprire il fallo e il figliuolo). L'azione culmina nella
esecuzione che il capo fa del traditore. E qui è capitato un
fatto che rende interessante questo pasticcetto romantico e
trucolento (Nino er boja) e le recite del Monaldi. Quando Nino, il
capo della paranza, afferra per i capelli, con gesto ampio e
magnifico di grandezza, Pietro il traditore e gli taglia la gola,
dal pubblico del teatro si sprigiona un sospiro di soddisfazione e
da una cinquantina di bocche strette sibila l'approvazione: ben
fatto. Sí, il pubblico (un teatrone e scelto, come dicono i
cronisti) è rimasto incatenato allo svolgersi dei momenti
drammatici della rappresentazione, ha palpitato, ha rabbrividito, si
è commosso, e non solo per la virtú degli attori, ma
per i fatti in sé, che lo interessavano come lo interessano
tuttora i librucciacci sui banditi celebri, sugli sventratori di
donne, su Guerin Meschino e i reali di Francia. Con questa
differenza: che i lettori di questi libri sono lettori clandestini e
in pubblico fanno il chi la sa lunga in letteratura e in buon gusto;
in teatro, collettivamente, non nascondono la loro predilezione.
È un problema di costume di non trascurabile importanza: a
Torino, c'è la possibilità che un teatro zeppo langua
e rabbrividisca vedendo e udendo sulla scena ladri, assassini,
ruffiani, prostitute, coltelli, sangue, e tutto l'armamento
romantico e trucolento del cliché della mala vita.
(2 giugno 1919).
«La nostra immagine» di Bataille al Carignano. Nel
recente poema del Bataille, La divine tragédie, è
riprodotta l'immagine di un uomo le cui carni in disfacimento
cadono, scoprendo la nuda aridezza dello scheletro; ma il braccio ha
strappato il cuore dal petto, e lo tende verso l'alto, per salvarlo
dalla putredine con un gesto disperatamente eroico.
Il mondo interiore del Bataille è simbolizzato in quella
immagine, e anche l'espressione nella quale il Bataille concreta il
suo mondo interiore. Una tensione esasperata, uno sforzo spasmodico
di raggiungere le cime, che spesso, troppo spesso, si concreta in
forme manierate e dolciastre, illanguidisce in compromessi banali e
accomodanti. Nei due atti di La nostra immagine, il dissidio si
presenta piú vistoso e urtante perché cozza nei due
atti, tra un dramma e una farsa. Vediamo prima contrapporsi una
madre e una figlia che furiosamente difendono ognuna la propria
vita, la propria libertà. Enrichetta, con fredda
crudeltà, domanda a sua madre, ancor giovane, ancora
ammirata, di sposare un vecchio idiota per espiare il passato di
avventure, per mettere in regola le sue carte di stato civile, per
darle un nome e permetterle di entrare nel mondo
«ufficiale», per permetterle di realizzare la
felicità. Tra questa giovinetta, che ragiona freddamente e si
dispera, che è crudele e tenera, spietata e commossa, e la
donna che è posta dinanzi al compimento di un dovere che deve
attuarsi in una cerimonia ridicola ferocemente, l'urto fa sprizzare
scintille luminosamente vive di drammaticità. Ma il
componimento avviene per un processo in cui tutta l'energia
creatrice si è oscurata e ammorbidita: l'esperienza per cui
Onorina si umilia e accetta di compiere l'espiazione è un
tessuto di mere parole flosce e povere, di scene vuote ed esteriori,
disperatamente uggiose e sconfortanti: e il pubblico ha sanzionato
giustamente.
Questa sera la commedia si replica.
(13 giugno 1919).
«Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella. Questo lavoro
di Bernard Shaw è stato giudicato in Italia dagli echi
diluiti della polemica che esso ha suscitato in Inghilterra.
È un lavoro semplice e piano, condotto su motivi di
umanità semplice e piana (umanità che si incarna in
Giulio Cesare e in Cleopatra, semplice e piana, quindi, come
può essere nella rappresentazione che dei due può
esprimere uno che vuole rispettare i valori fissati dalla storia: e
lo Shaw ha voluto rispettare questi valori); si è cercato e
si cercherà in esso il paradosso, l'acrobatismo,
l'«originalità». Gli italiani non hanno la
percezione dello spirito: Shaw è originale perché ha
rispettato la buona e normale umanità. Il suo lavoro è
una ribellione, una stranezza, un paradosso per gli inglesi. Shaw ha
scritto di Giulio Cesare dopo Shakespeare, ha cercato di imporre,
con insolente prepotenza, alla fantasia degli inglesi, una immagine
di Cesare che non è quella creata da Shakespeare. Lo scandalo
può essere paragonato a quello sorto in Italia, in qualche
gruppo di esteti fiorentini, quando il Cesareo pubblicò la
sua Francesca da Rimini: esiste una sola Francesca, fu scritto, ed
è quella di Dante; ogni altra rappresentazione di Francesca
è una insolente caricatura. Per gli inglesi, Shakespeare
è piú di quanto Dante sia per gli italiani; gli
inglesi hanno tutti «riletto» Shakespeare, pochi
italiani hanno studiato a scuola i commenti della Divina commedia.
Cosí è che da noi il lavoro dello Shaw non sarà
presentato al pubblico nella sua vera luce: la rappresentazione
efficacissima e drammaticissima di un grande uomo, di un grande uomo
di Stato, di un grande generale, Giulio Cesare, visto proprio
umanamente, senza sublimazioni tragiche, ma ugualmente grande in
ogni sua attività, come fu veramente, come è stato
presentato dagli storici antichi, come si rivela dai suoi candidi
libri di ricordi che sono tra i capolavori della letteratura romana
per il candore e la schiettezza semplice.
Domandare altro allo Shaw, far credere che altro lo Shaw abbia
voluto dare, pretendere che sia necessario star lí ad
ascoltare con tutto l'arco dell'intelligenza teso per colpire al
volo paradossi e originalità se si vuole non apparire
cretini, sarebbe stolto e inintelligente.
Cesare e Cleopatra è un bellissimo lavoro anche senza che gli
si imprestino arzigogoli ermetici per le persone comuni: un
bellissimo lavoro, presentato in forma magnifica dalla compagnia di
Emma Gramatica, in tutte le sue parti, degno di essere veduto e
riveduto.
(14 giugno 1919).
«Il silenzio» di Pescetti al Carignano. Il dramma si
svolge con un protagonista silenzioso: la casa. Dramma sentimentale,
di piccole lacerazioni sentimentali, che si esaurisce nel mero
dialogo e nelle contrazioni dei muscoli facciali: un motivo tenue,
senza conseguenze gravi, che l'autore, giovanissimo, ha il merito
grandissimo di aver espresso sobriamente, senza amplificazioni
enfatiche e letterarie. Giovanni Bereni vive una sola vita con la
sua casa, coi ricordi, con le immagini del passato che perennemente
nascono e popolano, viventi creature, il silenzio discreto delle
stanze. Giovanni Bereni è il passato, è la
contemplazione, è l'inerzia che sogna; la vita pullula
intorno e dentro la casa, prorompe vittoriosa, frange e lacera,
spalanca le finestre e fa scappare esterrefatti i fantasmi. Una
figliuola cresce accanto al Bereni, ama, tende alla vita attiva, si
sposa e parte. Ha svuotato la casa, ne ha rotto l'incanto, l'ha
spopolata dei suoi abitatori per farsi posto e la lascia
cosí, ridotta una tomba, definitivamente. L'azione drammatica
è tutta in questa tenuità, interrotta da quadretti
brevi, di vita provinciale, ed è condotta con candore, con
dizione semplice e quasi scialba. È lavoro di un giovane,
perciò è notevole tanta sobria misura e assenza di
esaltazione letteraria. Rappresentata con cura dei particolari da
Luigi Carini e dai suoi collaboratori, ha ottenuto un successo che
non è solo d'incoraggiamento.
(19 giugno 1919).
«Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella.
L'interno di una casupola da pastore, ai piedi di una collina
irlandese, in una sera di uragano. Un vagabondo bussa e domanda
ristoro. Una giovane donna accigliata lo invita a entrare. In casa
c'è un morto, il vecchio marito. La compagnia del cadavere
non turba la donna che la distanza e la tempesta separano dai
viventi. Una cosa la turba: sarà sola anche domani e
dopodomani e ci son le pecore da condurre, e in casa non c'è
torba, ed ella non può uscire perché bisogna vegliare
il cadavere. Il vagabondo veglierà, ella esce. Il vecchio si
scuote, fingeva d'esser morto; è un vecchio pastore bizzarro,
roso da un'ira cupa e sordida verso la moglie. Si fa dare da bere,
si fa consegnare un randello e si distende nuovamente sotto il
sudario, gorgogliando acquavite e maledizioni. Nara rientra, con un
giovane pastore: parla, della sua vita sacrificata, dei suoi aneliti
bramosi alla libertà, alla maternità, accanto al
marito, un rozzo tronco di umanità feroce e bisbetica. Il
giovane fa l'inventario dell'eredità: le offre di sposarla.
Il cadavere si risolleva spettrito, squassato dalla tosse,
minaccioso col randello. Scaccia la moglie, furioso, mentre ella sta
impassibile, fredda dinanzi a quella frenesia senile che si consuma
maledicendo, vogliosa di nuocere, di vedere la nemica ridotta
all'abiezione della fame e del vagabondaggio, per quindi uscire, in
compagnia del vagabondo che le parla con dolcezza virile e le offre
il suo sostegno per una nuova vita, fuori dalla valle, dalla nebbia,
dal trito inseguirsi dei giorni, delle settimane, dei mesi, delle
stagioni. E il vecchio, dopo aver impaurito il giovanotto, siede
insieme a costui e beve, sghignazzando trucemente.
Un seguirsi di rappresentazioni rapide, secche, incisive che si
giustificano in se stesse, nel rilievo dei singoli quadretti.
(29 giugno 1919).
Emma Gramatica. Il teatro, come organizzazione pratica di uomini e
di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del
maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del teatro
è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si
può turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo,
senza sterilire l'organo «linguistico» della
rappresentazione teatrale.
L'industrialismo ha determinato le sue necessarie conseguenze. La
compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti che
intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si
è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente
dal lavoro in comune – lavoro di natura particolare, perché
tendente a fini di creazione artistica – sono successi i
«vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i
vincoli della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza
hanno rapidamente condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il
comico è diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni
di lavoro, col «maestro», divenuto mediatore e
coll'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione sordida, essa
non ha conosciuto piú confini. Il carattere stesso peculiare
del lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo.
Primeggiare nel guadagno va di pari passo col primeggiare nella
compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella
libertà di scegliere per sé le parti a successo e
spiccare, monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni. La
tecnica teatrale ne è stata scombussolata, la produzione si
è adattata «facilmente» alle condizioni nuove;
facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in
un piano infimo, di compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro.
Si parla di depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di
dissoluzione artistica. L'origine di questi fenomeni vistosi
è da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti economici
tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato in un
trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla
schiavitú del salario.
Poche resistenze si verificarono a questo imperversare della
concorrenza e della speculazione. Resistere d'altronde è
difficile. Qualcuno cercò di salvare almeno una parte della
libertà d'espressione artistica di fra le urla e gli stridi
avidi del mercato capitalistico. Emma Gramatica è certamente
di questi pochi: segno della sua personalità e della sua
volontà artistica. Ribellarsi sarebbe stato pazzo e puerile:
è finito il tempo delle avventure romantiche e delle audacie
donchisciottesche. Del resto queste sono possibili alle iniziative
individuali, non alle imprese che domandano un complesso di
individui. Ribellarsi avrebbe solo significato essere immediatamente
privati delle possibilità maggiori di espressione. Ma
c'è adattamento e adattamento. La Gramatica ha conservato una
sua libertà di movimento e di scelta: c'è una ricerca
continua, una lotta continua nella sua attività: c'è
vita. Può conoscere zone inesplorate, può allargare la
sfera della sua sensibilità e delle sue esperienze: non cade
nella routine, non è diventata una mera impiegata, che ha
applicato il metodo Taylor all'espressione plastica della vita, che
ha ridotto a meccanismo – complicato, esperto, di 20.000 pezzi
mobili, ma meccanismo – ciò che è in quanto
imprevedibile e incoercibile: l'espressione.
A Torino, almeno, dove l'industrialismo teatrale opera implacabile
come un flagello, la Gramatica è la sola che in questi ultimi
anni ha «prodotto» novità, ha suscitato
dall'interiore sua vita creature nuove, che vibrano d'amore e di
odio o svolgono la quotidiana fatica del vivere in forme non
logorate e rese opache dall'abitudine e dallo schema del mestiere,
che è regolato dalla legge del minimo sforzo. Ha tentato, ha
osato, dicono che abbia anche arrischiato dei capitali senza
certezza di rivalsa, per imporre fantasmi artistici che altrimenti
non avrebbero mai passeggiato sulle scene italiane. Vive dunque in
lei e opera incessantemente, condizionando anche l'attività
pratica, il principio della creazione irresistibile e prepotente che
foggia una personalità e plasma un carattere secondo le leggi
sue proprie: le leggi della bellezza.
(1° luglio 1919).
«Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo.
Questa sera il nostro Teatro del Popolo darà la prima
rappresentazione di Una donna moderna, commedia in tre atti di Nino
Berrini. Il lavoro non è nuovissimo, perché venne
rappresentato per la prima volta nel 1912 al Teatro Carignano dalla
compagnia di Tina Di Lorenzo. Allora, appena alzato il sipario,
prima che l'azione si iniziasse e cominciassero i dialoghi di
preparazione, un sussurro di delusione correva fra gli spettatori
eleganti e impomatati dell'aristocratico teatro. Quel pubblico,
abituato a vedere in iscena la bellissima attrice in vesti sfarzose,
contornata da rigidi gentiluomini in marsina, aveva provato e subito
manifestato il suo stupore nel vedere la prima attrice in un
semplice e umile vestitino di dattilografa, impiegata in un ufficio
di avvocato. La commedia infatti svolge le vicende di una signorina
che, nata in una ricca famiglia borghese, in seguito a disgrazie
familiari è ricondotta alla legge comune del lavoro. Energica
e volenterosa, ella si mette nella nuova via acquistando a poco a
poco, insieme con l'indipendenza economica, anche una indipendenza
morale e sentimentale, trovandosi perciò in contrasto con le
tradizioni e con le persone della sua famiglia, rappresentate da un
fratello ufficiale e allievo della scuola di guerra a Torino.
La commedia dunque, sia per l'ambiente, sia per le idee cui si
ispira, trovò nel pubblico borghese delle resistenze che
però vennero vinte dall'azione serrata e dalle verità
anche se poco gradite, scaraventate dall'autore senza esitazioni; e
conseguí un buon successo con un buon numero di repliche.
La rappresentazione di questa sera pel nostro pubblico ha
perciò valore di una prima rappresentazione. L'autore
curò personalmente le prove e attende l'esito al Teatro del
Popolo come una vera e piú schietta riprova del valore d'arte
e di vita dell'opera sua.
(5 luglio 1919).
«Addio sogno» di Motta al Carignano. Luigi Motta
è un copioso scrittore di romanzi d'avventure nei quali
abbondano i sultani, i pirati, i diamanti, gli scotennatori
piú che il buon senso e il buon gusto. L'anno scorso ha
incominciato a uscire dal suo dominio, commercialmente cosí
fruttuoso, e ha scritto un libretto per operetta. Con questa sua
commedia, Addio sogno, il Motta ha voluto tentare le grandi vie. Non
contento di aver istupidito tanti innocenti bambini, vorrebbe
continuare la sua opera anche con gli adulti. Nei tre atti non
è possibile trovare neppure una immagine, neppure un gesto
che riveli una sensibilità artistica: si tratta di un
mucchietto di scempiaggini, che sono anche mediocri nella loro
scempiaggine. Il pubblico scarso ha riso gustosamente dove l'autore
si proponeva di far piangere a calde lagrime, e il tentativo del
Motta è stato cosí allegramente seppellito.
(10 settembre 1919).
«Il soldato millantatore» («Miles
gloriosus») di Plauto al Carignano. Il soldato Pirgopolinice,
mentre il giovane Pleusicle è lontano da Atene, perché
conduce un'ambasceria a Naupatto, rapisce la meretrice Filocomasia e
se la conduce per forza a Efeso. Palestrione, schiavo di Pleusicle,
si imbarca per andare ad avvertire il padrone, ma è catturato
dai pirati e regalato a Pirgopolinice. Pleusicle viene da lui
chiamato a Efeso e diventa ospite di Periplettomene, vicino di casa
di Pirgopolinice. Tra le due case viene praticato un passaggio
segreto, attraverso il quale Filocomasia vola tra le braccia del suo
fedele e perseverante amico Pleusicle. Sceledro, altro schiavo del
soldato, mentre insegue una scimmia sui tetti, li sorprende
abbracciati; Palestrione e Periplettomene lo convincono che è
arrivata a Efeso la madre e una sorella di Filocomasia, e che la
donna che egli ha visto abbracciata da un giovane è appunto
questa sorella, che rassomiglia a Filocomasia come due gocce
d'acqua. Per risolvere la situazione, Palestrione inventa l'intrigo
che dovrà liberare lui e i due amanti dalle grinfie di
Pirgopolinice e dovrà condurre il soldato a una solennissima
beffa e a una solennissima bastonatura. Pirgopolinice, oltre a
credersi un secondo Achille (il suo nome significa
l'«espugnatore di città») si crede anche un
nipote di Venere, un irresistibile conquistatore di donne:
Palestrione gli fa credere che la moglie di Periplettomene è
innamorata follemente della sua bellezza e della sua virtú,
che per lui ha divorziato dal marito e che vuole sposarlo e recargli
in dote la casa. Una meretrice di Efeso, Acrotelenzia, viene assunta
per far la parte di moglie divorziata e innamorata. Pirgopolinice
cade nella rete; rimanda in Atene Filocomasia con l'amante, che si
è travestito da marinaio e libera Palestrione, che parte
anch'egli con la piccola meretrice ateniese. Ma quando
Pirgopolinice, baldanzosamente entra in casa di Periplettomene,
viene preso e legato dagli schiavi di costui e sottoposto alla
umiliante e indescrivibile punizione degli adulteri colti in
flagrante.
La commedia ha avuto un vivo successo nell'adattamento di G.
Sinimberghi. Occorre dire subito che il successo è dovuto
alla buffoneria intrinseca nell'intrigo e nel carattere tipizzato
dei protagonisti e alle virtú comiche degli artisti della
compagnia «Eclettica». Di Plauto, in questo adattamento,
rimane nulla. Perché di Plauto, nella commedia latina, era il
linguaggio, l'espressione particolare del dialogo, la ricchezza del
vocabolario popolaresco: tutto ciò che nell'adattamento
è precisamente svanito. Il dialogo, come espressione del
particolare, come varietà individuale, è pessimo in
questo adattamento. La scoloritura incomincia nella traduzione del
titolo: gloriosus (millantatore, spaccone) viene reso con
«vanaglorioso». Si può immaginare la truculenza
iperbolica di Pirgopolinice rappresentata come una
«vanagloria» da studentello? Si può immaginare un
tipo da commedia, che ha generato Falstaff e il capitan Fracassa e
l'Ammazzasette (Pirgopolinice ne ammazza settemila in un giorno)
qualificato come un «vanaglorioso»? La commedia è
tutta «ridotta» in tal modo.
(11 novembre 1919).
«Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri. In
questo «tentativo scenico» (la definizione è
dell'autore o è stata autorizzata dall'autore) il Cavacchioli
si è «proposto» di arrovesciare il processo di
intuizione e di espressione artistica. L'artista intuisce, vede,
vive la sua concezione, la unifica, la concreta, nel suo interiore
travaglio, e la esprime, le dà una forma linguistica,
cioè la conduce alla sua perfezione (quando è
perfezione) assoluta, alla sua universalità. Dal generale,
dall'indistinto, l'artista giunge all'universale, al distinto
individuato, al lirismo. Il Cavacchioli si è
«proposto»... cioè ha incominciato col negare in
sé l'artista, il fabbro di forme espressive, e ha lavorato
con la volontà dello scrittore inchiodato al tavolino
professionale. Egli ha fissato l'«esistenza» di una
serie di stati d'animo tradizionali nelle belle arti e nella
psicologia; cioè è partito – non dal tumulto interiore
della fantasia che cerca attraverso una sua intima dialettica, di
comporsi, di organarsi, di esprimersi, di giungere alla sua
maturità lirica – ma da una astrazione, da un mondo meramente
cartaceo, libresco, dove le parole sono cifre, dove i sentimenti non
sono, come sono nella vita individuale degli uomini, imprevedibili
nel loro svolgimento, nel loro divenire motivo d'azione e di
passione, ma sono freddi pezzi anatomici da gabinetto di psicologia
letteraria; e ha «tentato» di
«materializzarli», di fasciarli in uomini che: – si
chiamano Leonardo, hanno quarant'anni, sono calvi baffuti e di
grossa pancia quando rappresentano il senso statico, fanfarone,
pauroso della vita – si chiamano Gabriele, sono lunghi, allampanati,
spettrali, lamentosi quando rappresentano l'ideale sempre calpestato
– si chiamano Gabriella quando sono giovani donne, hanno i capelli
verdi, sono volubili, carnali, rancide di sentimento e trovano solo
nel sentimento la loro umanità – e non si chiamano con un
nome, ma con la designazione professionale «il
meccanico», quando sono il praticismo inesorabile macchinale
dell'esistenza, hanno due ruote al posto degli occhi e sembrano
tutto un congegno di leve e di ingranaggi.
Il Cavacchioli non ha raggiunto nessuno dei fini che si era
«proposto» perché essi potrebbero essere
raggiunti, tutt'al piú, con una conferenza da
università popolare arricchita di molte proiezioni. Ha
raggiunto una costruzione, degna del «meccanico» che ha
due ruote al posto degli occhi e sembra ecc. ecc. L'intrigo
dell'azione ha, contro la sua volontà, continuato a essere il
tradizionale intrigo, e, come succede per il novantanove per cento
degli intrighi, ha guidato l'attenzione degli spettatori attraverso
un rosario di scene «ogni figura un fatto», piuttosto
che fino al fuoco di una visione drammatica. L'intrigo comune
postbellico della moglie che tradisce il marito al fronte dopo
averlo, con le sue perfidie di sposa, ahimè!, infedele,
spinto a partire volontario, e si pente e si converte alla vita
casta e pura quando il marito ritorna cieco, non è stato per
nulla «originalizzato» dalle luci diverse, dagli scenari
fantastici, dall'essere il «drudo» un avventuriero
illusionista, e dai fantocci parlanti, dagli spettri ecc. ecc. Il
Cavacchioli è stato un militante della retroguardia
marinettiana; in lui il futurismo appare nella sua forma letteraria
essenziale, come un travestimento, nell'epoca delle macchine e della
grande industria moderna, del romanticismo trucolento e
grandiosamente cretino del 1848.
Il «tentativo» ha, tuttavia, fortemente interessato il
pubblico. Una lotta si è impegnata tra ammiratori e
«denigratori»; fischi, applausi, gente in piedi che si
sporge e si tende, fuori dai parapetti e dalle file, per approvare o
disapprovare. Risultato: sopravvento degli applausi, una quindicina
di chiamate al Cavacchioli e agli interpreti (Tina Di Lorenzo, Luigi
Cimara, Ruggero Lupi, Armando Falconi, D. M. Migliari) che avevano
spesso ricondotto a umanità viva e individuale gli
«stati d'animo» della commedia, contravvenendo ai
«propositi» del Cavacchioli.
(27 novembre 1919).
«La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella. Gli
operai russi non avevano ancora dato tutto il potere ai soviet. La
Russia non era ancora diventata, nella fantasia dei portinai, dei
pizzicagnoli e dei farmacisti, l'apocalittico paese di Gog e Magog,
dove Satana arruola le sue milizie per mettere il mondo a sacco
prima del giudizio universale. Jasnaia Polijana non era ancora stata
violata dalla rozzezza e dalla insensibilità dei contadini
bolscevichi. Ma da un pezzo gli speculatori occidentali
dell'intelligenza avevano già messo a sacco e violato le
opere di Tolstoj, senza che nessun giornalista, depositario della
fiaccola di Prometeo, ululasse lamentosamente e invocasse tutte le
forze sane del mondo contro i sacrileghi e i barbari. Cosí
è avvenuto che gli italiani non possono conoscere, dalle
edizioni italiane, l'opera che Tolstoj ha intitolato: La sonata a
Kreutzer. L'editore italiano ha giudicato che Tolstoj non conoscesse
l'arte sua e ha fatto aggiungere alla traduzione francese già
modificata sulla traduzione tedesca del testo russo, qualche decina
di pagine di impressioni e di descrizioni che rimpolpassero la
scarsità verbale di Tolstoj. A questa contraffazione,
attraverso la quale la massa degli ammiratori italiani di Tolstoj
hanno conosciuto La sonata a Kreutzer, si è aggiunta la
traduzione di quest'altra contraffazione del Fleischmann: il
«borghesismo» italiano non è tenero col grande
scrittore russo. Questi tre atti non hanno niente che li distingua
da una pessima contraffazione. La Sonata a Kreutzer è un
violento pamphlet, che risulta artisticamente piú efficace
dalla commistione del dialogo alla dimostrazione logica fino
all'assurdo; non è un dramma di individui particolari, che
possano essere immaginati viventi singolarmente. La riduzione
scenica non può che risultare una raffazzonatura, se il
dramma, che è interiore alla coscienza morale del Tolstoj,
viene profilato come urto fra uomini e donne realmente vivi,
muoventisi e speranti in un mondo corporeo. E cosí è
stato, con un peggiorativo per l'interpretazione artificiosa e
superficiale del Tempesti. Una serata da registrare nel catalogo del
perverso destino italiano di Tolstoj.
(20 dicembre 1919).
«Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella. Una nota del
traduttore, stampata nel programma della serata, avverte:
«Il dramma è dominato da una concezione "claustrale"
della vita, che cozza e urta contro un'opposta concezione "umana"
della vita stessa. Ma sopra il dramma determinato dall'urto di
codeste due opposte concezioni sta, apparentemente, il dramma che si
opera in una coscienza, in quella cioè del protagonista
principale, di "frate Baldassare".
«Dico apparentemente, perché, a chi ben guarda, non
può sfuggire che il dramma di frate Baldassare è, nel
suo fondo, generato dall'urto in se stesso di codeste due medesime
concezioni della vita: la concezione "claustrale" e quella "umana".
Affermare, perciò, la personalità del protagonista,
equivale a comprendere lucidamente tutto il significato del
dramma».
La personalità del protagonista di questo come di ogni altro
lavoro di teatro, può essere afferrata e ricostruita
dall'interpretazione dell'attore che lo impersona.
Dall'«interpretazione» dell'attore Tempesti non appare
che il protagonista abbia una personalità e tanto meno appare
che essa sia una personalità «dialettica»,
vivente e svolgentesi per il cozzo di due concezioni della vita;
appare solo la «maniera» di recitare, propria del
Tempesti, formatasi nella ripetizione a getto continuo dei lavori
teatrali di Sem Benelli. Qualche cosa appare tuttavia chiaramente:
il distacco tra l'attore e le parole che l'attore recita, il
distacco tra il significato delle parole, tra la vita interiore che
le parole esprimono e i gesti, i moti, le contorsioni, le smorfie
dell'attore. Appare chiaramente che il protagonista viene dinanzi al
pubblico ricoperto da una maschera: la maschera dei protagonisti
dalla gola canora e dall'anima di legno dei lavori di Sem Benelli. E
cosí viene presentato al pubblico italiano un dramma di
Verhaeren...
(24 dicembre 1919).
«La principessa» di Géraldy al Carignano.
Susanna, principessa, ama Giorgio Enrico, re. Giorgio Enrico, re,
ama Susanna, principessa. Susanna è, dinanzi al mondo, alla
corte e nello stato civile, la sorella di Giorgio Enrico. Ma Giorgio
Enrico non è fratello di Susanna che nello stato civile; egli
è un intruso nel regno e nella dinastia, egli è il
frutto di un adulterio della prima moglie del padre di Susanna, e
solo per evitare uno scandalo clamoroso e per non insozzare la
memoria di una regina, gli è stato trasmesso il potere.
Giorgio Enrico potrebbe dunque amare Susanna e Susanna amare Giorgio
Enrico: invece Susanna sposa un principe di... Imbritch.
Tutto questo intreccio è sviluppato nella sua
esteriorità superficiale. Il conflitto è presentato
nelle fasi salienti di bizze, dispetti, sgarberie, rivelazioni
esterne. Il dramma è incorniciato nel cerimoniale e nella
ragione di Stato, è ridotto a un episodio borghese o piccolo
borghese: sí, insomma, è doloroso che un amore
legittimo, dinanzi all'innocenza dei fiori e degli astri, debba
sacrificarsi alla ragione di Stato, ma questo sacrificio può
costare una lacrimuccia, può determinare anche uno strappo
abbastanza fiero alle abitudini della vita quotidiana, non far
però affiorare dall'intima umanità nessun grido di
poesia, non produce nessuna lacerazione vitale. Lo Géraldy
immagina i re moderni molto diversi dagli eroi della
classicità; essi sono indispensabili nell'intreccio per
giustificare l'intreccio stesso, per giustificare i motivi del
dramma; ma i motivi, che hanno domandato come attori del conflitto
persone regali, sono rimasti inerti nella fantasia, sono rimasti
alla fase dell'invenzione; le persone regali non sentono il dramma
piú che non lo sentano due coniugi droghieri, improsciuttiti
nell'esercizio della professione, resi teneri e patetici di
temperamento dallo spettacolo permanente delle provviste di
magazzino, che, per distrarsi, leggano una traduzione popolare di
Sofocle. Lo Géraldy ha solo lavorato con cura e attenzione
letteraria la forma esterna scenica, in modo da presentare al
pubblico una cosina ben gentile e garbata, che ha avuto un buon
successo di applausi anche e specialmente per la recitazione
accurata e viva del Carini, della Gentilli e della Sanmarco.
(3 gennaio 1920).
«La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano.
Dov'è la nostra ricchezza? È nell'attività
industriale o nell'agricoltura, nelle speculazioni di borsa o nella
coltivazione dei campi, nelle città o nella campagna?
Siamo nel dopo guerra: il problema è, come usa dire, di
attualità, non v'è studente che abbia masticato un po'
di scienza economica e politica il quale non si senta in grado di
farvi un discorso, con gli ingredienti di uso (le virtú e i
vizi di oggi e di una volta, l'urbanesimo, il decentramento
regionale, se occorre) la sua brava dissertazione. Salvator Gotta
invece ha scritto una commedia; gli ingredienti però sono gli
stessi, quelli di una dissertazione accademica di seconda mano. E
quanto all'arte? Vediamo.
Tre uomini: un nonno, un padre, un figlio. Il figlio è stato
in guerra, volontario, e la guerra lo ha fatto diventare,
cosí dice l'autore, socialista. Il padre è un
industriale che si è arricchito con le forniture governative.
Il nonno è un ricco campagnuolo, che ama la sua casa e la sua
terra, che è legato dai piú tenaci vincoli d'affetto e
di tradizione al suolo ch'egli coltiva, al podere che è per
lui la sola, la vera ricchezza. Tra questi tre uomini dovrebbero
sorgere il contrasto, la tensione drammatica e l'urto. E
apparentemente sorgono. L'industriale specula, perde, vuol salvare
la sua posizione e non vede di meglio che vendere la vecchia casa,
liquidare il podere, trasformarlo in ciò che per lui è
ricchezza, in denaro da lanciare nel giuoco e nel circolo degli
affari cittadini. Per il nonno questa è una enormità:
si ribella, resiste, poi non si sa come, cede, vende casa e podere e
va in esilio. E il figlio che prima, allontanatosi dal padre,
sembrava volersi dedicare egli pure alla vita dei campi, si pone
recisamente contro tutti e fa l'organizzatore dei contadini.
Il contrasto, come si vede, c'è. Siamo davanti a tre
posizioni mentali, a tre tendenze diverse, a tre diverse soluzioni
di un problema. Ma niente di piú. L'urto deriva da una
antitesi logica, non da una contrapposizione di passioni, di
volontà, di sentimenti.
Dalla prima battuta all'ultima non vi è nulla che accenni a
umanizzare il problema, a far sí che i protagonisti cessino
di essere rappresentanti di una tesi o di una idea, e diventino
uomini. Non vi è, dal principio alla fine, uno sviluppo.
Accenti di umanità profonda avrebbero potuto essere tratti
dalla posizione della donna che è insieme figlia, sposa e
madre, e invece questa donna non ha un'anima, è un piccolo
fantoccio che si può far ballare con tre fili diversi,
è un brandello di carne che oscilla senza una direzione e
senza un significato.
Ma nessuno ha un'anima qua dentro, nessuno vive di una vita che non
sia quella artificiale, che l'autore crede possa consistere
nell'essere per l'industria o per l'agricoltura, per il denaro o per
i campi. E nessuno parla realmente un linguaggio umano: declamano
tutti, declamano per l'una e per l'altra tesi.
Vero è che gli artisti si sforzano di aggiungere con l'azione
loro ciò che ai personaggi l'autore non ha dato, e, bisogna
dirlo, ci riescono talora assai bene. E il pubblico applaude.
Applaude un po' come ai comizi, non perché la
rappresentazione artistica lo conquisti e lo faccia vibrare di un
sentimento unico, ma perché condivide l'una o l'altra tesi,
perché gli piace o non gli piace sentir svalutare il febbrile
lavoro delle città di fronte alle calme e sane fatiche dei
campi, gli piace o non gli piace veder piú o meno biasimato
il contadino che si inurba o quello che resta legato alla sua terra
e all'opera sua, e getta contro alla tempesta l'acqua santa
invocando da santa Barbara e da san Simone la salvezza delle terre
padronali.
Ma a noi, che non vogliamo che dare un giudizio sul valore
dell'opera di arte teatrale, sia permesso di non discutere la tesi.
(10 gennaio 1920).
«La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano. La
casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non
può essere fondata su meri rapporti sessuali, non può
essere fondata sul codice, non può essere fondata sulle idee
convenzionali di dovere, non può essere fondata su motivi
sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e
perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i
figli esiste la casa...
La logica di questo principio (condotta fino all'assurdo: i figli
anche se di un'altra donna, la maternità anche se... presa a
prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona
i motivi letterari, i motivi... filosofici di intrigo e di
conversazione drammatica e poggia lo svolgimento dell'azione su un
motivo primordiale di umanità, la piú profonda e
istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto:
sono di fronte due donne, che si contendono una bambina, l'una per
difendere la sua maternità, non per conservare un amante:
l'altra per avere in casa una figlia di suo marito, apparire a suo
marito come madre, e con questa illusione di maternità
ricostruire o costruire la famiglia, dare all'amore una
moralità. Lotta atroce, crudele, perché la madre
dovrà rinunziare alla sua bambina per assicurarle un
avvenire, il nome del padre, una ricchezza, una casa; dramma
rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti, senza
scene grandiloquenti, e perciò direttamente rivolto a colpire
tutte le abitudini sentimentali del pubblico, che reagisce con irti
tutti i pregiudizi piccolo-borghesi. Ma il Pirandello è poi
riuscito a esprimere il dramma in tutta la sua pienezza? Si ha
l'impressione penosa, nei primi due atti, dello stento, del tormento
senza uscita, che si adagia nella direzione, nella prolissa
insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è
accennato vagamente, non conduce e non indica lo sviluppo
dell'azione: il terzo atto appare come una rivelazione troppo cruda,
troppo offensiva del... buon gusto e delle buone maniere.
Il dramma non si replica.
(13 gennaio 1920).
«Io prima di te» di Veneziani al Carignano. Si
contempla, in questi tre atti, lo svolgersi di un intrigo molto
drammatico e pieno di risposte e profondissime significazioni: nel
terzo atto compare perfino un personaggio simbolico, l'ignoto che fa
da reagente sulle coscienze e determina precipitazioni ricche di
sapori nuovi e mai gustati.
L'intrigo è questo: il cav. Giovanni Ranzi vuole sempre
essere un personaggio di dramma e giammai di commedia, vuole sempre
essere protagonista e giammai comparsa sul palcoscenico della vita,
vuole sempre essere «prima di te», di lui, di voi, di
loro, di tutti. La moglie del cavaliere è amata da un
tanghero imbecille, che finanzia le imprese del cavaliere, ed
è amata da un tal altro, che è stato un anno in Cina.
Una notte (ahi, notte di misteri e di orrori!) il tanghero imbecille
ottiene un convegno (o quasi); mentre attende viene ucciso da uno
dei «soliti ignoti» che voleva semplicemente derubarlo.
Nel frattempo il tal altro si introduce furtivamente nel salotto
della dama (scena rivelatrice di riposti amorosi sensi), viene
bloccato dalla polizia che cerca l'assassino e dal marito tornato
d'improvviso da una partita di caccia. Il marito fa il protagonista
con la polizia, facendo arrestare il tal altro come assassino, e fa
il protagonista con la moglie, dicendosi l'assassino del povero
giovane vittima di ignoti. La moglie è presa nella morsa; la
morsa viene allentata dal «solito ignoto» che si
presenta, scopre il trucco alla moglie e sta per costituirsi come
assassino legittimo. Allora il cavaliere si decide ad essere ancora
una volta protagonista, e irrompe furiosamente per... chissà
mai cosa dire dinanzi al giudice istruttore.
Si contempla, nei tre atti, lo spettacolo penoso di un mediocre
freddurista che si sforza di sembrare intelligente e originale.
(20 gennaio 1920).
«Chimere» di Chiarelli al Carignano. L'ingegner Claudio
Rialto è un uomo d'affari; si crede un forte ed è un
debole; crede di riuscire a dominare il mondo, ed è una
marionetta in pugno al banchiere Rogai. Marina Rialto, sua moglie,
è una donna come ce ne sono poche: ha una coscienza questa
donna, ha degli ideali e un piano generale della sua vita di sposa
amata e amante.
Alla fine del terzo atto Marina dorme su un sofà, stanca per
le soverchie emozioni, suo marito rimpannucciatosi dopo una minaccia
clamorosa di fallimento e di gattabuia, dorme tranquillo al
capezzale della sposa addormentata: il banchiere Rogai dorme
anch'egli sicuro che all'indomani Marina diventerà la sua
amante.
L'originalità della commedia consiste in questo: l'ideale,
che di solito si infrange e quindi si chiama ideale infranto, nel
secondo atto si tira un colpo di rivoltella, non muore, e quindi non
può chiamarsi ideale rivoltellato: vive al lumicino,
l'infelice ideale, per essersi procurata la tubercolosi galoppante e
al terzo atto muore per un colpo d'aria. È la sua morte
appunto che provoca la scena finale dei tre assopiti. Il Chiarelli
insomma esteriorizza in due fantasmi il Bene e il Male che si
combattono ferocemente nell'intimo di ogni ben nata e mal nata
coscienza: un poeta è il bene, l'ideale, è la purezza
ecc., ecc., che vorrebbe tutta per sé la donna; un fallito
vizioso ubriacone cinico chiacchierone è il sogghigno della
realtà che, come Satana, tira per le gambe la gente e la
spedisce al calderone di pece e zolfo. L'ingegnere Claudio Rialto,
un debole che si crede un forte, un uomo che si crede un lottatore
ed è puramente un energumeno senza numero per l'eroismo, si
rivela nella sua piccolezza alla moglie: fallito, si dispera
vanamente, si contorce come un vermiciattolo assalito da uno
scorpione: il banchiere Rogai, che lo ha rovinato per ricattare
Marina, offre a Marina di salvarlo dietro ricompensa: Marina esita,
e l'ideale-poeta si tira un colpo, mortale, ma non immediatamente.
L'ideale, divenuto tisico, si decompone ed è naturale muoia
di un colpo d'aria, mentre Rogai bacia Marina: il Cinismo ubriaco e
sconcio trionfa e ride silenziosamente.
La commedia ha avuto successo contrastato: una parte del pubblico
temeva di essere preso in burletta, un'altra parte trovava nei
personaggi simbolici significati profondi, degni di pensiero e di
matura riflessione. Ha divertito molto lo spettacolo dell'ubriaco in
iscena, che parla chiaro dicendo pane al pane vino al vino: un
ubriaco sulla scena fa infatti sempre divertire.
(7 febbraio 1920).
«Pane altrui» di Turghenieff al Balbo. Turghenieff ha
rivelato all'occidente la vita della nobiltà provinciale
russa, ignorante e presuntuosa, credente in Dio, fedele allo zar,
crudele col servo che chiama fratello. Tutta l'opera letteraria di
Ivan Turghenieff è animata dalla ripugnanza per questa vita,
da lui conosciuta in ogni particolare, da lui vissuta dolorosamente.
Pane altrui non è che un bozzetto, una scena. Ma è
tutta la tragedia del popolo russo che rivela. È la
meschinità ripugnante dell'ambiente posta in rilievo con
richiami sentimentali, è la reazione della nobiltà
dell'anima al costume volgare della nobiltà russa qual era
ancora pochi anni fa, in regime di servitú della gleba e di
incontrastato feudalismo.
L'interpretazione di Ermete Zacconi è appassionata, ottima,
efficace.
(14 marzo 1920).
«Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri. Amore,
dolcezza, virtú, generosità, tenerezza, candore: sono
queste le doti che campeggiano nei quattro atti di Sorelle d'amore
di Henri Bataille. Ma quale passione vivifica queste qualità,
quale vita interiore attiva e operante? Nessuna. Esse rimangono
inerti, non hanno una giustificazione, sono nient'altro che la
monotona descrizione letteraria dei rapporti esterni, di avvenimenti
che si succedono, perché le parole li riferiscono nella loro
banalità vuota, d'una vuotaggine iridescente come nelle bolle
di sapone. Vediamo muoversi e parlare fisicamente una donna:
Federica; un essere tenue ed evanescente che ha marito e una
figliuola e ama Giuliano. Per sei mesi, per un anno, per due anni,
Giuliano attende che l'amore diventi realtà, si conceda alla
passione; Federica ama Giuliano seriamente (l'autore lo afferma in
modo perentorio), ma non vuole materializzare l'amore. E per quattro
atti è un rincorrersi della materia e dello spirito, della
carne e dell'anima, nel quarto atto si intravede anche un letto, un
materialissimo e volgarissimo letto, ma Federica se ne va e sul
letto lascia una rosa, e lascia un bel discorso che dovrà
consolare Giuliano, che dovrà indirizzarlo a pensieri e
azioni alte e nobili. Tutto ciò è brutto e anche
antispirituale, è falso artisticamente ed è falso
moralmente, perché non è vivo, perché una tale
virtú esangue e snervata rasenta la turpitudine. La commedia
di Bataille è una mera esercitazione letteraria, che
può essere assunta come documento storico di grande
corruzione e di irrimediabile scadimento dei costumi. L'esaltazione
fredda di un atteggiamento sentimentale come quello di Federica
può nascere solo dopo una stanchezza fisica prodotta dalla
voluttà professionale. La madre di Amore è piú
bella e piú morale delle sorelle di Amore.
(20 marzo 1920).
«La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe.
Nino Martoglio e Luigi Pirandello hanno sceneggiato nei tre atti di
una nuova loro commedia dialettale, La bilancia, questo spunto
folcloristico: un marito scopre di essere tradito: non si vendica
immediatamente, ma pensa di vendicarsi ristabilendo l'equilibrio nei
conti coniugali. Il rivale credendolo lontano tranquillamente si
è installato nel suo talamo, egli va in casa del rivale e col
terrore di un massacro, ne costringe la moglie a prestarsi alla sua
vendetta. I tre atti sono freddi e scarni; non si esce dalla
esteriore narrazione di un avvenimento di cronaca: l'azione si
svolge secondo il piano irrigidito dell'assioma «dente per
dente» con un parallelismo crudo senza che entrino in giuoco
motivi sentimentali e passionali che diano particolare vita e
carattere individuale ai personaggi.
Teatro semivuoto, sebbene la compagnia del Grasso sia composta di
buoni attori, che meriterebbero migliore fortuna. La commedia si
replica, sebbene non ne valga la pena e il teatro siciliano sia
ricco di ben altri lavori.
(24 marzo 1920).
«Il beffardo» di Berrini al Regio. Nino Berrini ha
voluto ricostruire, dai documenti letterari, la figura e il dramma
interiore di Cecco Angiolieri, poeta senese del secolo XIII. Sarebbe
vano porsi il problema se il Berrini sia stato fedele ai
«testi»: il lavoro deve essere giudicato nel suo pregio
intrinseco. Anche se l'Angiolieri del Berrini non avesse nessun
rapporto con l'Angiolieri del XIII secolo, ciò importerebbe
poco, è il Berrini riuscito a creare una figura umana,
vivente nelle sue azioni e per le sue azioni, il dramma del quale
egli è protagonista è un dramma reale, giustificato
psicologicamente ed espresso artisticamente? Il Berrini si è
lasciato trascinare dalla ricerca letteraria e ha sacrificato
l'interiorità all'esteriorità; per contrapposto ha
collocato l'Angiolieri in un cupo abisso di orrore, ha cercato di
far convergere sulla sua figura dei fasci di luce infernale.
L'Angiolieri diventa un Ezzelino da Romano, il frutto di un
accoppiamento mostruoso, determinato da questa sua origine a
compiere orrende gesta e ad assistere a orrende gesta: il suo
ghigno, illeggiadrito da parolette che suonano leziose, diventa
superficiale, è staccato dalla sua vita, e la sua vita stessa
non esiste piú. Il Berrini è un lavoratore
coscienzioso: la sua preoccupazione soverchia del particolare
provoca rotture, fragilità, franamenti del mondo interiore
che egli si propone di esprimere; provoca disuguaglianze e contrasti
che poi il Berrini non riesce a superare artisticamente. Nel
Beffardo il Berrini ha sentito ancora piú energicamente il
freno di queste preoccupazioni e ha esitato tra il documento storico
cui avrebbe voluto rimanere fedele e la concezione sua del dramma di
Cecco Angiolieri: non ha osato sacrificare il documento.
I quattro atti del Berrini hanno avuto buon successo: una ventina di
chiamate.
(4 aprile 1920).
«Come prima, meglio di prima» di Pirandello al
Carignano. Tredici anni prima: la signora Fulvia Gelli abbandona il
tetto coniugale, il marito e una figliolina. Tredici anni dopo: la
signora Fulvia Gelli rientra sotto il tetto coniugale, col marito ma
senza essere riconosciuta (e dovendo non essere riconosciuta) dalla
figlia. Nei tredici anni è successo questo: la signora Fulvia
è diventata una Flora qualunque; la sua ultima avventura
è un disgraziato pretore che abbandona per lei moglie, figli
e pretura; la sua ultimissima avventura è un tentativo di
suicidio; il marito chirurgo che la salva, è nuovamente preso
d'amore per lei e la riporta a casa. Ma nei tredici anni è
successo anche questo: il professore Gelli ha educato la figliuola
Lina nel culto della madre morta; per Lina la signora Fulvia Gelli
è morta, la signora Fulvia ritorna come un'intrusa, come
un'estranea, che sarà odiata e disprezzata dalla figliuola.
La commedia consiste in questo contrasto, ma il contrasto è
accennato, non è approfondito; gli episodi nei quali si
rivela sono di carattere secondario. L'autore non ha curato il
lavoro nel dialogo, come è nel suo carattere di scrittore di
teatro: il dramma è solamente impostato e non è svolto
in nessun modo, né con un'azione serrata, né con una
«trattazione» dialogata.
(8 aprile 1920).
«L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al
Carignano. L'amico di famiglia, di Caillavet e De Flers, è il
lavoro teatrale da cui è stato estratto il libretto
dell'operetta: La regina del fonografo. Nessun elemento teatrale di
notevole importanza esiste nella commedia che non sia passato
nell'operetta: la figura di «amico di famiglia»,
quantunque dia il titolo, non è effettivamente che la
«macchina» che serve esteriormente a saldare i vari
episodi dell'azione. La commedia si svolge in questi due motivi: una
donna «onesta» dà buoni consigli a una cocotte, e
una cocotte dà buoni consigli a una donna onesta. Una cocotte
è rammaricata perché come donna ella è sempre
scelta e non ha la libertà di scegliere: una moglie le
insegna come si possa scegliere l'uomo che piace. La cocotte
è stata educata a vedere nell'amore «una
carriera», è stata educata a non vedere negli uomini
altro che dei clienti, di cui non bisogna mai innamorarsi, per non
compromettere la carriera; la moglie invece è stata educata a
far innamorare e quindi a mostrarsi innamorata: può insegnare
qualcosa. Ma anche la cocotte può insegnare qualcosa alla
moglie: può insegnare come si faccia a conservare un uomo,
arte che non conosce la fanciulla «onesta» che deve
trovar marito e non pensare al domani, non pensare a conservarlo: la
cocotte deve sapersi conservare le buone «pratiche».
Sono questi due motivi che dànno un qualche sapore ai tre
atti, nonostante la farraggine degli episodi e delle situazioni,
costruite secondo uno schema, per far ridere a tutti i costi il
pubblico.
(27 giugno 1920).
«Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella. Nei tre
atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana questa matassa: un
tale Martino Lori ha sposato la figlia di un illustre scienziato che
lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste
incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e
gli appunti e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni
diventa una illustrazione della scienza, è deputato, diventa
ministro, diventa senatore; il Lori è da lui trascinato nella
carriera politica e giunge fino al posto di consigliere di Stato.
Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non sospetta che sua
moglie l'abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia invece
figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si
sostituisca a lui nel curare la fanciulla, divenuta orfana della
madre, e la tiri su per conto suo e le costituisca una dote e le
trovi un marito aristocratico; non sospetta di nulla, sebbene tutti
gli intimi di casa sappiano, e Palma sappia, e il fidanzato di Palma
sappia. Non sospetta di nulla e per sedici anni si costruisce una
vita sua particolare, che a tutti pare la commedia di un miserabile,
contento dei benefizi ricavati dal consenso dato alla moglie per la
tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel giorno,
dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull'onestà e sulla
bontà degli uomini, la verità gli è rivelata.
La commedia si impernia su questa rivelazione: dovrebbe essere la
rappresentazione di questo dramma fulmineo: il dramma di un uomo che
si è costruita tutta la sua vita interiore ed esteriore
sull'ignoranza di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d'un
tratto si trova sperduto, perché il suo «io»
intimo è svanito e il panorama circostante, veduto sempre in
un modo per tanti e tanti anni, è mutato radicalmente,
è un panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che
il Pirandello si limita a dipanare la matassa, a condurre l'intrigo;
il lavoro è affrettato, e la figura di Martino Lori non
riesce a dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo;
è smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non
diventa un carattere, rimane una vittima senza energia né
sentimentale, né dialettica (come avviene nelle creazioni del
Pirandello), che si affloscia e scompare, rientrando nel buio della
nullaggine drammatica.
(7 luglio 1920).
«Gli interessi creati» di Benavente al Balbo. Gli uomini
sono dei fantocci che si muovono per il mondo e operano guidati dai
fili degli interessi. Su questo comune spunto della filosofia
popolare il Benavente ha intrecciato la sua commedia; le ha dato un
colore di novità introducendo nella scena le maschere del
teatro italiano, Pulcinella, Arlecchino, Balanzone, Colombina; gli
uomini fantocci appaiono rappresentati da tipi di fantocci uomini
creati dal teatro dell'arte. L'intrigo è anch'esso comune:
come un furbo avventuriero riesca a combinare un matrimonio,
determinando una serie di interessi costituiti intorno alla fortuna
del suo amico-padrone. Ma il matrimonio è d'amore: esistono
dunque altri fili, oltre agli interessi, che fanno muovere gli
uomini e dànno loro una dignità. Tre atti lievi,
graziosi, senza pretese, che furono accolti con favore dal non
troppo numeroso pubblico.
(27 luglio 1920).
«Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo.
Nell'ascoltare la commedia Il fantoccio di Osvaldo
Cantoni-Gibertini, si pone irresistibilmente questo problema, che
nasce dall'intimità piú preziosa della commedia
stessa. Poiché il protagonista, signor Mario Stella, è
un superuomo, che soffre della malattia propria dei superuomini, il
discentramento scheletrico tra l'io-superuomo e l'io-fantoccio di
legno, e poiché Osvaldo Cantoni-Gibertini, se può
rappresentare nella pienezza della sua superumanità un
superuomo, è da supporsi partecipi della sublimazione geniale
e soffra quindi anch'egli di discentramento tra i due
«io» – quale dei due «io» di Osvaldo
Cantoni-Gibertini ha trovato la sua espressione in questa commedia?
L'«io» di legno non stagionato, che a primavera urge
l'involucro umano, o l'«io» superuomo? Il problema, che
irresistibilmente si è imposto, si è, per questa sua
irresistibilità, risolto automaticamente; la commedia
è espressione di legnosità non maturata piú di
quanto sia espressione di genialità superumana; Osvaldo
Cantoni-Gibertini è un genio foderato di una pesantissima
cappa da filisteo. Egli ha ridotto in cifra matematica il giudizio
del buon senso comune che in ogni uomo c'è un fantoccio; ha
materializzato la metafora, ha costituito intorno a essa un intrigo
qualsiasi e ha affogato in una nube di trivialità bambagiosa
il qualche tratto originale che era risultato casualmente dal giuoco
della macchina inventata. Manca al Cantoni-Gibertini proprio quel
gusto letterario che è indispensabile per nascondere
l'automatismo legnoso sotto l'apparenza umana; il gusto della
semplicità e della misura; gli manca specialmente
l'equilibrio dell'inventore che non balla la danza indiana intorno
al suo ordigno, gridando: come è bello! come è bello!
quale grande inventore di ordigni io sono! Il Cantoni-Gibertini
insomma ha messo troppo del suo io-fantoccio nella commedia e
pochina pochina della sua umanità; ha elaborato un
«penso», non ha scritto un'opera letteraria.
(4 agosto 1920).
«Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano. Carlo
Veneziani ha rimesso in iscena i personaggi della Bohême. La
gaiezza del Mürger si è invenezianizzata in
farsaioleria, la vena di malinconia e di sentimento è
divenuta fiume lutulento di mutria e di sentimentalismo. Colline, il
filosofo, è divenuto un predicatore di energia, un
propagandista delle immortali parole d'ordine: «progresso nel
lavoro e nell'ordine», «volere è potere»,
«le bugie hanno le gambe corte», «le donne sono la
causa di tutti i mali», «l'ozio è il padre dei
vizi». È questa, in fondo, l'originalità della
commedia, la quale può essere assunta a simbolo del periodo
che attraversa il nostro paese. Nella rovina di tutte le forze
morali che sostengono ogni società bene organizzata, nel
venir meno di ogni norma di condotta, che serva all'individuo e alla
collettività, in Italia, che ha dato i natali a Stenterello,
sono i farsaioli che parlano delle cose serie e fanno la predica
della saggezza: cosí avviene che le cose serie e la saggezza
predicate da tali bocche non siano piú distinguibili dalle
farsaiolerie e la vita italiana diventi sempre piú gioconda.
Per la cronaca: nella commedia del Veneziani, Colline, deluso in
amore, sposa l'affittasoffitte, risolve radicalmente il problema
dell'alloggio, diventa genitore di tre pargoletti, ma non perde
l'abitudine di dormire sulle pubbliche panche. Sono stati applauditi
i primi due atti, il terzo è stato accolto da applausi
commisti con abbondanti zittii e qualche fischio. Luigi Carini
(Colline) recitò con molto buon gusto e collaborò
parecchio alla buona riuscita del lavoro.
(13 ottobre 1920).
«Il bell'Apollo» di Praga al Carignano. Piero Badia,
signore milanese dell'anno di grazia 1893, è il
«bell'Apollo». Ciò significa che Piero Badia
è un conquistatore di signore, è uno specialista nella
professione di sedurre e di abbandonare; ma la parola
«Apollo» non deve trarre in errore: non c'è
alcuna traccia di lirismo nella figura di Piero Badia, egli non
esplica la sua attività come creazione artistica, come
espressione di una personalità che non può ritrovarsi
altro che nel sedurre belle signore. Piero Badia è un
omaccione molto volgare e molto banale, che si preoccupa solo di
godere senza far nascere scandali e senza determinare drammi
incresciosi.
In che consistano questi quattro atti di Marco Praga, non si riesce
a stabilire con esattezza: probabilmente Marco Praga ha
semplicemente voluto scrivere quattro atti, ben congegnati
tecnicamente, che avessero un buon successo di platea. Pare la
commedia sia stata, tempo fa, una battaglia contro lo spirito dei
tempi e sia stata una battaglia perduta. La fortuna odierna
proverebbe in questo caso che si è fatto un passo indietro
nell'educazione del buon gusto popolare. Poiché nella
commedia si vede un uomo, e precisamente l'eroe, il bell'Apollo,
infilarsi le scarpe dinanzi al pubblico; poiché il
bell'Apollo è un uomo senza cuore, che fa all'amore col solo
cervello; poiché si assiste a scene veramente
«ardite» e si odono proposizioni molto ciniche, è
da supporre che la battaglia, che la commedia ha rappresentato tempo
fa, sia stata combattuta per il «realismo».
La battaglia meritava di essere perduta: la commedia non ha alcuna
consistenza drammatica, essa è una pura esteriorità di
parole e di scene ben congegnate. Manca in questa commedia ogni
rappresentazione di caratteri; sarebbe stato meglio trarre
dall'argomento un romanzo d'appendice con un urlo popolaresco contro
il cinico signore che non si preoccupa se i suoi sollazzi lascino
uno strascico di cuori insanguinati. In un tale romanzo d'appendice
ci sarebbe stata piú umanità e quindi piú arte
che in questo quadro sbiadito di un cinismo di maniera che ragiona
su se stesso e si giustifica con ragionamenti da lenone che non vuol
abbandonare la professione lucrativa.
La commedia ha avuto successo: c'è però da domandarsi
quanto abbia contribuito al successo l'interpretazione degli attori.
È un successo da teatro moderno o da teatro dell'arte? Pare
veramente che si ritorni indietro di duecento anni; il pubblico non
si preoccupa del lavoro artistico, ma dell'interpretazione
artistica.
Non ci sarebbe niente di male, se dal teatro non ricavassero fama e
quattrini scrittori che non meritano né l'una, né gli
altri a cosí buon mercato.
(20 ottobre 1920).
«Anfissa» di Andreieff al Carignano. Per il borghese che
ha cenato bene e ha tre ore da perdere tra la cena e il letto, un
dramma è qualcosa di mezzo tra il digestivo e l'afrodisiaco.
Per il critico, dramma è una contrapposizione di
«caratteri», cioè di marionette che giocano alla
vita. Anfissa di Andreieff non è né l'una cosa
né l'altra. Il borghese che vuol digerire ne riceve come un
pugno sullo stomaco, il critico vi cerca invano le marionette. La
drammaticità di Anfissa è nell'inasprimento, portato
fino all'assurdo, fino alla lacerazione, fino al delitto, di un
contrasto originariamente semplice di passioni.
Nel centro è un uomo, Teodoro Kostamarov, un avvocato,
orgoglioso, vano, sensuale, grande ingegno per la città di
provincia. Ha pose da superuomo, ma da superuomo provinciale:
insulta gli avversari in un'arringa, prende a schiaffi per via chi
non lo saluta, è un conquistatore di donne, uno sprezzatore
della moralità comune, ma non ha maggiore originalità
di un libertino. In complesso una figura che vuol dominare restando
legata a terra. Una crisi, che sorge piú da contrasti
esteriori che da un intimo dissenso, lo sconvolge, gli fa perdere il
dominio di sé, lo fa insieme incerto e brutale, violento e
pauroso.
Intorno, tre figure di donne, o meglio in tutte una figura sola:
l'essere che vive dell'amore e del dominio dell'uomo, ne vive fino
al sacrifizio, alla perdita di sé, all'odio, al delitto.
La moglie di Kostamarov, tradita, trascurata, chiama presso di
sé la sorella, Anfissa, vedova che giunge con non si sa qual
fama di autorità, e spera che la sorella, ammonendo,
esortando, inspirando magari un nuovo sentimento, le riporti
l'affetto e la fedeltà del marito. Ma questi ama Anfissa, fin
dal giorno che ne ha sposato la sorella e Anfissa ama essa pure il
cognato. Il sentimento, doppiamente colpevole, dei cognati si
esaspera nella strana situazione in cui essi vengono a trovarsi.
Giungerà esso a purificarsi, a trionfare come un sentimento
primordiale, che non ha bisogno di giustificazioni, che non soffre
attenuazioni, che di per sé vale ed è tutto? Il dramma
si dibatte per quattro atti, per alcuni mesi di vita, e si chiude
con un delitto. Dico che si dibatte e non lo dico per esprimere un
giudizio di condanna. La scena è anzi perfetta. Se qualcosa
vi è da rimproverare, è piuttosto la tensione che non
si allenta per un attimo, dalla prima all'ultima battuta, dando
l'impressione di una logicità perfetta e di uno sviluppo
pienamente conforme alle leggi della vita. Ma il dibattersi
angoscioso, in cui la drammaticità, in cui i limiti della
comune esistenza sono superati, in cui si giunge alla tragedia e
alla poesia, è quello di alcune coscienze prese nelle spire
di una sorte che per essere fatta della loro stessa passione non
appare meno come qualcosa di tragicamente imponente. È tutto
spiegabile, a cominciare dalla prima ripulsa di Anfissa fino alla
sua caduta, e alle promesse dell'amante, e al suo desiderio piccino
di vendetta e all'esasperarsi nella donna del sentimento e della
gelosia. È un processo tutto umano di sviluppo quello che
porta alla stanchezza dell'uno e all'odio dell'altra, alle offese
che l'uomo fa all'amore e la donna all'orgoglio, alla violenta
scena, in cui Anfissa di fronte alla famiglia riunita rinfaccia a
Teodoro di aver tradito la moglie, di essersi fatto della cognata
un'amante e di cercare ora un'amante nuova nella terza sorella,
giovane, ingenua, ignara. È tutto umano e tutto si snoda con
agilità e rapidità, ma tu senti che un gorgo di
passione si è aperto nel quale questi uomini sono trascinati
come festuche, che si è prodotta una lacerazione che non
può essere chiusa perché forze e sentimenti umani si
adoprano a renderla sempre piú grande e profonda.
Il delitto, col quale si chiude il dramma, quando Anfissa uccide col
veleno l'uomo che odia e ama, grava in realtà sull'azione fin
dalle prime scene. Si direbbe un destino se non fosse una cosa che
vien fuori in modo cosí chiaro dal cuore di questi uomini.
In questo senso Andreieff ha scritto un dramma borghese, non solo
introducendo in un ambiente comune un fatto tragico o qualche
elemento di tragicità, ma cercando di ottenere da un
esacerbato contrasto di passioni una trasfigurazione dell'ambiente,
e se un appunto è da fargli, è quello di avere in
questo senso troppo insistito, introducendo a esempio elementi
secondari che servono a creare e mantenere un senso di diffusa
drammaticità e di incertezza, ma sono poco strettamente
collegati con l'azione scenica principale, restano impliciti e non
si spiegano con essa. Tale la figura della nonna che ha avvelenato
il primo marito, che fa la sorda ed è l'incubo del
protagonista.
Anche su di ciò però l'appunto sarebbe valido se
l'opera drammatica non fosse opera d'arte, cioè di poesia,
soggetta a nessuna logicità che non sia quella della fantasia
del poeta, che ha in sé la sua legge e soltanto a essa deve
obbedire. Riconosciamo che la vita stessa non è logica, ma
è piena di elementi che non si pesano con la bilancia del
ragionatore; e riconosciamo soprattutto che Andreieff ha dato vita a
un quadro tragico di cui la figura della nonna, nella stessa sua
incerta posizione, è un elemento essenziale. Se quell'essere
parlasse e si sapesse chiaramente chi è, verrebbe meno non
solo un elemento scenico di incomparabile suggestione, ma sarebbe
distrutto un elemento intuitivo che è inseparabile dal resto
dell'opera d'arte. Lo stesso si dica di molti altri particolari e
del rilievo e della finitezza loro.
Tutto ciò fu reso dalla compagnia in modo scenicamente
perfetto. Se però vi è nel dramma un'ombra di
pesantezza, questo difetto fu accentuato dal tipo di recitazione,
specialmente della signora Melato, tipo di recitazione che risente
troppo della scena cinematografica e tenne sí avvinto il
pubblico, ma finí per stancarlo. Cosí avvenne che
alcuni passaggi parvero pesanti per soverchia tensione, e avvenne
che dopo tre atti, condotti a termine con successo e con un buon
numero di chiamate, alla fine si sentí qualche zittio.
Confessiamo però che il pubblico borghese del teatro non era
dei meglio adatti a seguire e sentire l'opera d'arte. L'intiera
verità di essa doveva purtroppo fargli l'impressione di un
pugno sullo stomaco.
Auguriamo dunque a questo dramma un pubblico migliore, piú
rozzo, piú immediatamente sincero, piú vicino a godere
e soffrire l'impetuosa angoscia della tragedia. Gli auguriamo un
pubblico di proletari.
(14 novembre 1920).
«Glauco» di Morselli al Carignano. Glauco, l'eroe della
mitologia greca, è presentato, al principio del primo atto,
come un pescatore, il pescatore piú povero della Sicilia,
privo di ogni ricchezza, ma pieno il cuore delle piú grandi
cose. Tende l'orecchio al canto delle sirene e agli allettamenti dei
tritoni e sogna terre lontane. Sogna l'Africa piena di mostri da
uccidere, di oro e di regni da conquistare, sogna la Colchide verso
la quale l'eroe Giasone sta guidando gli Argonauti. Sogna
soprattutto la gloria che uguaglia gli uomini agli dei. Ma insieme a
queste alte voci di gloria anche una modesta voce di amore parla al
cuore del giovane. È l'amore di Scilla, una fresca e
tranquilla vena di acqua chiara, in mezzo a un tumulto di
insoddisfatte brame.
Glauco convince i pescatori a partire con lui per l'Africa, con un
carico di lana tessuta.
Lasciata l'isola, egli li trascinerà poi con sé alle
imprese che sogna. Ma la lana è di Forchis, il pastore padre
di Scilla, ricchezza e grettezza riunite, e Forchis come la figlia
cosí nega al pescatore la stoffa. I sogni debbono
precipitare. E Scilla, la fanciulla che poco prima si è
disperata nel vedere Glauco, entusiasta dei suoi progetti,
dimenticare la voce tenera e sicura dell'amore, ora dà essa
l'aiuto suo perché i progetti possano diventare
realtà. Consegna ai pescatori la chiave della capanna dove si
trova la stoffa: i pescatori la rubano e fanno vela per l'Africa.
Glauco è sulla poppa della nave e tende le braccia alla
fanciulla che si abbatte su una pietra della riva, come schiacciata
da un'altra pietra invisibile.
Cosí all'inizio si prospetta un fondamentale contrasto, sul
quale dovrebbe correre tutta la tessitura della tragedia.
Piú che di sentimenti, vuol essere contrasto di aspirazioni e
di concezioni. Forse, e bisogna pur dire subito queste parole, anche
se in esse e già implicito un giudizio, è piú
che altro un contrasto di tesi e di simboli. Il quadro vuol quindi
avere una cornice piú ampia di quella di ogni comune azione
scenica nella quale uomini parlano e vogliono e agiscono e il
ricorso a personaggi, scene e decorazioni mitologiche è
fondamentalmente giustificato da questa aspirazione. Ma fin dal
primo atto appaiono gli strappi e attraverso di essi l'arida, ossuta
schematicità dei simboli: la fanciulla che invoca la
virtú come la sola cosa che può fare di una capanna
una reggia, le soddisfazioni e le dolcezze umili, le grettezze, le
bassezze anche della vita contrastanti con l'ardore di un sogno.
Tutto ciò l'autore vuol rendere concreto e vivente in modo
che sia drammatico e lirico insieme, ma la scena decorativa e
simbolica rende stentato, difficile a esser còlto
immediatamente il ritmo della vita, e la lirica non c'è
ancora.
Dopo il primo atto il difetto si accentua. Glauco è andato in
Colchide, ha combattuto e vinto, ha liberato un popolo, è
diventato re e giunge, nel viaggio di ritorno, all'isola di Circe.
È un dominatore che arriva e la maga lo vuol conquistare con
le sue arti, avvincerlo, tenerlo per sempre legato a sé col
suo magico influsso, come tiene chiusi in stalla gli altri eroi che
sono venuti per godere di lei, e ch'essa ha cambiato in porci.
Glauco vince. Fingendosi ubriaco e dormente carpisce alla dea il
bacio che lo rende immortale e poi respingendone l'amplesso fugge,
richiamato dal ricordo di Scilla, dalla voce sempre viva dell'amore
di lei. La sua nave si allontana veloce spinta dai tritoni, e la dea
si vendica, recide il filo della vita di Scilla, strappandolo dalle
mani delle Parche.
Cosí quando l'eroe giunge alla Sicilia e scende alla riva i
pastori stanno piangendo la morte della ragazza che si è
gettata in mare. Il corpicino giace sulla sabbia e dopo essersi
fatto legare a esso con la catena dell'ancora, Glauco si fa gettare
in mare. Dalla profondità salgono ancora il suo lamento e il
suo pianto.
Questa, nella sua trama e nella sua conclusione, la favola. E di
piú che la favola che vi è in questo dramma? L'autore,
dicevamo, ha voluto metterci grandi cose. Per velare dietro di esso
grandi cose ha scelto e sceneggiato un soggetto mitologico. Le cose
grandi però, sono rimaste cosí, dietro un velo, una
velleità senza espressione definita. Tale è pure la
liricità di questa tragedia. È esatto dire che si
tratta di un tentativo apertamente confessato di fare in teatro
cosa, se non nuova, diversa almeno dal comune, di trasfigurare
l'azione scenica con una intuizione di poesia. Ma è pure
esatto dire che il tentativo è fallito. La mitologia ha
inaridito la fonte della poesia, invece di alimentarla. Chi conosca
la serena e grande poesia dei miti greci, non ravvisa in questa
tragedia che un travestimento di problemi o di pseudoproblemi
moderni.
Forse chi è abituato al teatro attuale vi trova qualcosa di
nuovo. Ma per il nuovo si perde il meglio, si perde quello che conta
e che vale: si perde la spontaneità e la pienezza
dell'azione, si oscilla tra una realtà e un sogno che non
hanno entrambi consistenza che di parole.
Non si afferra, di concreto, nulla che non potrebbe esser contenuto
in una qualsiasi mediocre favola borghese.
Il successo c'è stato, sebbene un po' tiepido.
Tre chiamate a ogni atto. Nessun entusiasmo.
(21 novembre 1920).
Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di
Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli,
«Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez). Pirandello,
Fraccaroli, Lopez. Tre atti unici, del genere, «per rivista
mensile "Lettura", "Secolo XX"». Tre novelline dialogate: le
prime due farsesche, la terza sentimentalmente rosea, per fanciulle
di buona famiglia, che abitano nella mitica provincia gozzaniana. La
prima, Cecé, di Luigi Pirandello, è una sciocchezza
semplice senza capo né coda: si descrive, a puro titolo di
fare il solletico sotto la pianta dei piedi, come avvenga che un
viveur riesca a non pagare seimila lire a una prostituta. La seconda
Ma non lo nominare, di Arnaldo Fraccaroli, è una sciocchezza
con molte complicazioni. Arnaldo Fraccaroli ha scritto la
sciocchezza pensando che il pubblico fosse la sublimazione sintetica
di 10 abbonati da 20 anni al «Corriere della Sera» e
alla «Domenica del Corriere», che poi hanno alquanto
mutato la loro psicologia leggendo assiduamente anche il
«Corriere dei Piccoli», moltiplicati per 10 scrittori di
«cartoline del pubblico», divisi per 4 ammiratori di
Luigi Barzini, ridotti ai minimi termini di intelligenza. Il
Fraccaroli descrive come avvenga che, in un albergo con parco, un
signore, travestendosi da iettatore, riesca a far scappare, da un
angolo propizio ai convegni amorosi, una cocotte, la madre che la
cocotte ha preso in affitto, un pescecane, un celebre scrittore
genere «milanese», un ricco di prima della guerra e un
polacco, e come poi, nell'angolo propizio, corrompa una dama
morigerata.
La commedia di Sabatino Lopez, Schiccheri, tu sei grande!
rappresentata come conclusione, ha guadagnato enormemente per il
confronto; la bonarietà casalinga del Lopez è
diventata grandezza goldoniana. Dopo aver visto tutta la flora e la
fauna che può sorgere dalla putrefazione dell'intelligenza,
del senso comune e del buon gusto, vedere un buon diavolaccio di
vecchio dottore che riesce felicemente a trovar marito per due
nipoti! Sabatino Lopez è diventato grande, come sono grandi
le Piramidi, quando la pianura del Nilo è una marcita
popolata di ranocchi.
(16 dicembre 1920).