da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Sovversivismo dall'alto

Di «sovversivismo dall'alto» Gramsci parla, specificamente, in una postilla brevissima, per l'esattezza di tre righe e mezza, aggiunta in epoca posteriore al testo originario della nota del Quaderno 3, redatto interamente nel 1930, nota che corrisponde, nell'edizione critica (pp. 323-326), al § 46 del complesso tematico intitolato «Passato e presente», dedicato ad una prima riflessione sistematica sulla natura e sugli sviluppi del fascismo.

Non bisogna, però, farsi trarre in inganno dalla brevità dell'ag­giunta, che sembra avere l'unico scopo di richiamare alla mente del lettore di quella specifica nota, tutta rivolta ad approfondire il concetto di sovversivismo popolare, o sovversivismo dal basso, che esiste, però, un sovversivismo dall'alto e che l'uno è «correlativo» all'altro nella vicenda del fascismo italiano. Della «rivoluzione» fascista come colpo di Stato promosso e finanziato dai gruppi capitalistici dominanti in Italia, Gramsci tratta, infatti, diffusamente in tutti i Quaderni, così come negli articoli sull’Ordine Nuovo del 1921 e '22 e negli scritti politici del periodo precedente all'arresto (1924-26). Quel colpo di Stato è, per Gramsci, sovversivismo dall'alto accompagnato da un vasto fenomeno di sovversivismo di ceti popolari.

Del sovversivismo popolare «italiano» Gramsci parla, nella nota richiamata e in altri caratteristici passaggi della sua analisi del processo di formazione dello Stato nazionale moderno (per esempio nella colorita descrizione di quella «tendenza sovversiva popolare» che fu il moto anarchico-religioso «lazzarettista» dell'Amiata, negli anni '70 del secolo scorso), come di una spinta al rovesciamento violento di ogni ordine stabilito, proveniente dagli strati dei «morti di fame» (espressione gergale popolaresca che riecheggia quella di «lumpenproletariat» della letteratura sociologica tedesca). Gramsci li individua per l'Italia (non senza un certo schematismo) nei giorna­lieri di campagna e nei «piccoli intellettuali» rurali e urbani (il pensiero corre al Mussolini «rivoluzionario»), gli uni e gli altri confluenti, nei periodi di crisi e nelle fasce più degradate di sottoproletariato urbano, con la «malavita professionale e fluttuan­te».

Il sovversivismo di questi strati, scrive Gramsci — e certamente egli pensa alle prime formazioni dello squadrismo agrario della Val Padana nel 1921 — «ha due facce, verso sinistra e verso destra, ma il volto di sinistra è un mezzo di ricatto»; nei momenti decisivi, essi vanno sempre a destra «e il loro coraggio disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati». Perciò, egli conclude, il concetto di «sovversivismo» non è concetto di classe e lo è solo in senso negativo e, al massimo, esso può essere interpretato come il «primo barlume», il sorgere «crepuscolare» di una coscienza di classe, in un paese come l'Italia, a cavallo tra '800 e '900, per due terzi agricola, solo di recente diventata Stato nazionale, ma con «scarso spirito nazionale statale in senso moderno».

Per Gramsci, dunque, il colpo di stato fascista consiste in un intreccio di sovversivismo dal basso (il fascismo popolaresco, «rivolu­zionario») e di sovversivismo dall'alto, quest'ultimo dovuto «al non essere mai esistito, nell'ambito dei gruppi capitalistici dominanti e nel paese, un "dominio della legge", ma solo una "politica di arbitrii" e di cricca personale e di gruppo».

I gruppi dominanti del capitalismo italiano hanno la grave responsabilità storica di avere, promuovendo il colpo di Stato fascista, sovvertito e rovesciato quel tanto di ordine legale, quel tanto di «dominio delle leggi» (presente in altri paesi occidentali, come Francia e Gran Bretagna), che in Italia si era venuto, sia pure con difficoltà, costituendo dopo la formazione dello Stato unitario, «Stato ancora gracile e incerto nelle sue articolazioni più vitali» (v. l'artico­lo intitolato «Forze elementari» suWOrdine Nuovo del 26 aprile 1921). Su quella responsabilità storica il giudizio di Gramsci è duro e preciso. «Nel marzo 1920 — egli ricorda — («La Correspondance Internationale», 20 novembre 1922, n. 89), le classi possidenti cominciarono a organizzare la controffensiva. Il 7 marzo fu convoca­ta a Milano la prima Conferenza nazionale degli industriali, che creò la Confederazione generale dell'industria italiana. Nel corso di questa conferenza fu elaborato un piano preciso e concreto di azione politica unificata (...)».

Ma questo piano di una controffensiva generale delle forze capitalistiche italiane, che avrebbe, forse, potuto approdare (e ve ne fu, in realtà, il tentativo) ad una forma ammodernata di governo trasformista giolittiano, diventa, nel giudizio di Gramsci, «sovversivi­smo dall'alto» quando incontra, in un fatale intreccio in cui il prima e il dopo sfumano e si fondono, il «sovversivismo reazionario» di Mussolini, espressione di quel sovversivismo dal basso di cui Gram­sci si sforza di portare alla luce le ragioni storiche, sociologiche, culturali profonde.

Nel «sovversivismo mussoliniano», del «capo della reazione italiana», un misto «di illogico, di goffo, di grottesco» (v. l'articolo intitolato «Sovversivismo reazionario», nell’Ordine Nuovo del 22 giu­gno 1921), Gramsci scorge un riflesso di quel sovversivismo popola­re, dal basso, su cui ritornerà nei Quaderni. Parlando alla Camera, Mussolini s'era vantato di aver introdotto, per primo, nel socialismo italiano, infettandolo, «un po' di Bergson mescolato a molto Blan- qui». Gramsci replica (quanti di questi giudizi sono all'origine dell'odio profondo di Mussolini per Gramsci?) che «del blanqui­smo», manifestazione, in Francia e altrove, di sovversivismo dal basso, come primo barlume d'una coscienza di classe, «Mussolini aveva ritenuto solo l'esteriorità», riducendolo «alla materialità della minoranza dominatrice e dell'uso delle armi nell'attacco violento».

A conclusione di questa breve nota, si può dire che il termine e il concetto di «sovversivismo», con tutto quello che esso implica di meccanicistico, di cambiamento catastrofico, di «rivoluzione senza programma» (v. articolo citato sopra), ha in Gramsci una connota­zione profondamente negativa, in entrambe le sue versioni. Quella «popolare», anzi, proprio con Gramsci esce dall'ideologia e dal linguaggio del movimento operaio italiano. Ad essa si contrappone, come espressione di una coscienza di classe sviluppata e moderna, divenuta statuale, il principio di razionalità e di un ordine nuovo non totalitario ma pluralista, non violento ma persuasivo, non elitario ma universalistico, quale è, per Gramsci, l'ordine socialista per cui i comunisti combattono.

Umberto Cardia

membro del Comitato regionale del Pei in Sardegna