da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Ottimismo e pessimismo

La prima metà del Novecento è carica di attivismo sia nella teoria che nella pratica: si pensa diffusamente che agire significhi conoscere, addirittura che l'azione debba sostituire la conoscenza; perciò tutti si dicono «rivoluzionari», dagli anarchici ai fascisti. Questo primato dell'azione derivava da due matrici: il mito del progresso alimentato dal positivismo e la carica negativa accumulatasi nei popoli europei contro i vecchi regimi oligarchici. Ne risultava un singolare impasto, fatto di irrazionalismo e di entusiasmo, di nichilismo aggressivo nei confronti del passato e di autoproiezione irriflessa verso il futuro. I miti tecnistici del positivismo si mischiavano con l'ultima ondata del romanticismo. Soltanto le terribili esperienze di due guerre mondiali avrebbero avviato la guarigione. Il cambiamento esigerà un progetto.

Gramsci condensa la sua proposta nella celebre frase «pessimi­smo dell'intelligenza, ottimismo della volontà». Essa, più che un aforisma, è il tentativo di connettere in modo nuovo ragione e volontà, criticismo coerente e capacità di incidere sui processi reali del mondo. In primo luogo Gramsci cerca di concentrare l'attenzione sul raccordo che collega passato e futuro, cioè sul presente. Respinge, tanto nella teoria quanto nella pratica, lo stile del «sognare a occhi aperti e del fantasticare», che è uno stile altamente consolatorio. Per esso «tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena. Occorre invece violentemente attirare l'attenzione nel pre­sente così come è, se si vuole trasformarlo». Ma il presente è, appunto, anche il passato come si è cristallizzato sia nei rapporti e nelle istituzioni sociali, sia nelle psicologie degli individui. Da qui la necessità, per chiunque voglia cambiare il presente, di studiare il passato.

Questo studio mette in luce le radici del presente, la sua complessità e la sua «resistenza», e segnala perciò la difficoltà dell'impresa di trasformarlo. In certo modo la volontà di cambiare fuoriesce dall'individuo e, per così dire, si oggettiva e si razionalizza identificando i processi storici che debbono essere cambiati perché il presente cambi e perché cambino gli individui. È questo il momento del «pessimismo della ragione», la quale non semplifica, ma al contrario complica l'azione, mostrando lo spessore del problema da risolvere.

Nondimeno, proprio questa riflessione critica accentua, si deve presumere, la necessità del cambiamento e moltiplica così non solo le motivazioni teoriche, ma anche le spinte morali e l'interesse al cambiamento. Sbaglia la scienza politica — dice Gramsci — quando astrae l'elemento volontà dal fine cui una volontà determinata viene applicata. Mentre l'astratta esortazione del generale al soldato si risolve in retorica, la percezione razionale del fine da raggiungere rafforza e tende la volontà. Da qui l'avversione di Gramsci al «cadornismo» e in genere ad ogni pura tecnica del comando, e da qui l'importanza che egli attribuisce alla cultura come capacità di intendere i fini e, così, di concentrare le energie sui mezzi atti ad ottenerli. In questo quadro l'ottimismo risulta spesso solo «un modo di difendere la pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla». Si capisce che esso «è anche una forma di fatalismo e di meccanicismo». Il pessimismo, invece, responsabilizza.

Contro i modelli retorici, tardo-romantici dell'eroe-avventuriero, del capo onnisciente, dell'azione come sfida entusiastica, avventata e bizzarra Gramsci propone un ideale assai diverso: «bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza». Ciò preserverebbe, in politica, anche dall'opposto pericolo del moralismo isolazionista: «i moralizza­tori — scrive Gramsci — cadono nel pessimismo più scempio perché le loro prediche lasciano il tempo che trovano». Soltanto la spiegazione razionale dei processi è in grado di produrre un'azione incisiva, una volontà inflessibile. Ciò vale in politica così come nell'etica di ciascuno. E vale, in generale, per le sorti stesse della civiltà. Scrive Gramsci: «Dobbiamo salvare l'Occidente integrale; tutta la conoscenza con tutta l'azione». La cultura è infatti articolata mediazione di conoscenza e di azione.

Negli anni trenta, dunque, Gramsci sottopone ad un attento controllo critico due temi essenziali della civiltà moderna: il razionali­smo ereditato dall'illuminismo e il volontarismo ereditato dal romanti­cismo. Del primo elimina l'elemento scetticheggiante e implicitamente dogmatico, aristocratico, estetizzante. Del secondo elimina l'elemento irriflesso, individualistico, disordinato. Così Gramsci imposta proble­mi nuovi, attinenti alla fondazione di una scienza politica che faccia corpo con la scienza della società e di una etica della responsabilità socialmente radicata. Siamo infatti alla vigilia della società di massa nella quale la ragione è chiamata a spiegare complesse connessioni umane e nella quale grandi sentimenti possono nascere soltanto dalla profondità di interessi vitali e diffusi. Siamo in un'epoca di grandi movimenti di massa e del suffragio universale: occorre stimolare una generale crescita della conoscenza sociale, così come della nostra comune responsabilità pubblica.

Umberto Cerroni

docente di scienza della politica all'Università di Roma «La Sapienza»