da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Brescianesimo

Termine coniato da Gramsci sul cognome dello scrittore Antonio Bresciani (1798-1862), gesuita, acceso avversario del liberalismo risorgimentale e del romanticismo, autore, fra l'altro, di romanzi storici, uno dei quali (L'ebreo di Verona) ristampato nel 1851 fu oggetto di una feroce stroncatura di quel Francesco De Sanctis la cui critica era, per Gramsci, la più vicina a quella «propria della filosofia della prassi» (Quaderni del carcere, p. 2187 sgg.).

Nel suo saggio (in rivista, 1855; poi nei Saggi critici, Napoli, Morano, 1930, I. 125 sgg.) De Sanctis, mentre metteva in evidenza le tesi illiberali del libro, mostrava come la povertà artistica del Bresciani fosse tutt'uno con le sue carenze di uomo: debolezza intellettuale, mancanza di fede, «gesuitismo», fiacchezza morale, i difetti storici del «vecchio letterato italiano».

Gramsci riprende da De Sanctis la categoria (psicologica, morale e letteraria tutt'assieme) del «brescianesimo», e l'adopera largamente, almeno a due fini. Essa infatti gli serve, nel suo proposito di scrivere una storia degli intellettuali italiani, a identifi­care i caratteri assunti dall'intellettuale reazionario nell'età del risorgimento e del romanticismo: individualismo, illiberalismo, oppo­sizione al nazional-popolare, sagrestanesimo, aristocraticismo innato, paternalismo gesuitico. È caratteristico che in un passo famosissimo e variamente interpretato Gramsci ritrovi «notevoli tracce di brescia­nesimo» anche nei Promessi sposi (p. 2246).

D'altra parte, essa gli permette di scoprire e denunziare gli stessi vizi negli scrittori del suo tempo, smascherando così i tratti reazionari e conformistici di uomini e di opere allora celebrati, in una polemica inclemente ma necessaria, premessa indispensabile alla acquisizione, da parte della «filosofia della prassi», di una sua «egemonia».

Pertanto Gramsci intitola ai «Nipotini di padre Bresciani» un'ampia sezione delle sue note letterarie, raccogliendo sotto quel denominatore comune «una parte cospicua della letteratura narrati­va italiana» (p. 2198), ma anche degli scritti di storia, di filosofia, di politica; e stroncando con allegra geniale ferocia il fior fiore degli intellettuali in voga (da Croce e Gentile a Papini, da Ungaretti a Panzini, da Corradini a Bellonci), accusati, in gradi e modi diversi, di «vigliaccheria morale e civile», di «bassezza morale», di buffone­ria, conformismo ecc.

Il valore di questa operazione è chiarito da Gramsci in un passo che va ancora rimeditato e ripreso: «Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un conte­nuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell'arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare, ma di casta chiusa» (p. 2247).

Una precisazione che permette a Gramsci (sulle orme di De Sanctis, ma anche di Marx e di Engels) di non cadere nelle secche del «contenutismo», della «letteratura di partito», dello «zdanovi- smo», ma intanto di smascherare l'ideologismo di tanta cultura del tempo, stabilendo tra giudizio ideologico e giudizio estetico un rapporto difficile e complesso, anche se non sciolto sempre con sicurezza.

Giuseppe Petronio

docente di letteratura italiana all'Università di Trieste