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Benedetto Croce


Teoria e storia della storiografia

Il rigetto del determinismo storico e della filosofia teleologica della storia è congiunto: perché capire gli uomini significa ricostruire e rivivere in se stessi la loro esperienza spirituale, e ciò non può essere se si concepiscono gli uomini come cose, come natura. Ma non si conosce storia nemmeno assegnando alla vicenda umana qualsiasi finalità arbitraria e fantastica, che vada oltre i fini che gli uomini si propongono nel loro vivere.

In queste pagine vi è però una curiosità, quasi uno hapax legomenon nel corpus crociano; dice Croce che "...così poco noi come i greci conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le umane fortune". Espressione di tono agnostico, che sorprende, perché la consueta forma mentis storicista sente come politically uncorrect, residuo di illuminismo e concessione all'aborrito spirito positivistico, ammettere esplicitamente che gli uomini in questo mondo non sanno nulla delle ragioni del cielo. Qui Croce però per dare forza al suo argomento è costretto a concederselo, per una volta.

Capitolo IV - GENESI E DISSOLUZIONE IDEALE DELLA "FILOSOFIA DELLA STORIA"
I
La concezione della così detta "Filosofia della storia" è perpetuamente fronteggiata e contrastata dalla concezione deterministica della storia. Il che non solo si vede chiaro nel fatto, ma riluce anche di logica evidenza, perché la "filosofia della storia" rappresenta la concezione trascendente del reale, e il determinismo quella immanente. Ma non meno certo è, nella considerazione di fatto, che il determinismo storico genera esso, perpetuamente, la "filosofia della storia"; né questo fatto è poi meno evidentemente logico del precedente, perché il determinismo è naturalismo, e perciò immanente, sì, ma d'insufficiente e falsa immanenza: onde si deve dire piuttosto che esso vuol essere, ma non è, immanente, e, quali che siano i suoi sforzi nella direzione opposta, si converte in trascendenza. Tutto ciò non incontra difficoltà. per chiunque abbia chiari in mente i concetti del trascendente e dell'immanente, e della filosofia della storia come trascendenza, e della concezione deterministica e naturalistica della storia come falsa immanenza. Ma giova vedere più in particolare come questo processo di accordi e di contrasti si svolga e si risolva con riverenza al problema della storia.

"Prima raccogliere i fatti, poi connetterli causalmente": questo è il modo nel quale la concezione deterministica si raffigura il lavoro della storia. "Après la collection des faits, la recherche des causes", per ripetere la comunissima formola nelle parole testuali di uno dei più immaginosi ed eloquenti teorici di quella scuola, del Taine. I fatti sono bruti, opachi, reali bensì, ma non rischiarati dal lume della scienza, non intellettualizzati; e questo carattere intelligibile deve essere loro conferito mercé la ricerca delle cause. Ma è anche notissimo che cosa accada nel legare un fatto a un altro come a causa di quello, componendo una catena di cause ed effetti: che si entra, cioè, in un regresso all'infinito, e non si riesce mai a trovare la causa o le cause, alle quali si possa in ultimo sospendere la catena che si è venuta industriosamente componendo.

Veramente, da codesta difficoltà taluni o molti deterministi della storia si cavano in maniera assai semplice: a un punto qualsiasi, spezzano o lasciano cadere la loro catena, che è già spezzata dall'altro capo in un altro punto (l'effetto preso a considerare); e operano col loro troncone di catena come con qualcosa di compiuto e chiuso in sé, quasi che una retta tagliata in due punti includa spazio e sia una figura. Donde altresì la dottrina che s'incontra presso i metodologisti della storia: che alla storia spetti ricercare solamente le cause "prossime": dottrina, che vorrebbe dare un fondamento logico a quel procedere. Ma chi dirà mai che cosa sono le "cause prossime"? Il pensiero, posto che sia costretto per sua sventura a pensare seguendo la catena delle cause, non vorrà sapere mai altro che di cause "vere", vicine o lontane che siano nello spazio e nel tempo (lo spazio, come il tempo, ne fait rien à l'affaire). In realtà, quella teoria è una foglia di fico, messa a coprire un procedimento, di cui lo storico, che è uomo di pensiero e di critica, si vergogna: l'arbitrio, un arbitrio che torna comodo, ma che appunto perciò è arbitrio. E la foglia di fico è pur indizio di pudore, e come tale ha il suo pregio; ché, se quel pudore si perde, c'è caso che si finisca col dichiarare che le "cause", alle quali arbitrariamente si è fatta fermata, sono le cause "ultime" e le cause "vere", innalzando così il proprio individuale arbitrio ad atto creativo del mondo e atteggiandolo a Dio, al Dio di certi teologi, il cui arbitrio è verità. Non vorrei, dopo aver detto questo, citare di nuovo proprio il Taine (scrittore assai rispettabile, non certo per la sua forma mentale, ma per la sua fede entusiastica nella scienza); e nondimeno mi conviene citarlo. Il Taine, giunto nella sua ricerca di cause a una causa, che egli chiama a volte la "razza", a volte il "secolo", - per esempio, nella sua storia della letteratura inglese, al concetto di "uomo del Nord" o "Germano", col carattere e l'ingegno che a questo sarebbero propri, la frigidezza dei sensi, l'amore per le idee astratte, la rozzezza del gusto e il disdegno per l'ordine e la regolarità, - afferma gravemente: "Là s'arrête la recherche: on est tombé sur quelque disposition primitive, sur quelque trait propre à toutes les sensations, à toutes les conceptions d'un siècle ou d'une race, sur quelque particularité inséparable de toutes les démarches de son esprit et de son coeur. Ce sont là les grandes causes, les causes universelles et permanentes...". Che cosa di primitivo e d'insormontabile sia in ciò, sapeva l'immaginazione del Taine, ma la critica ignora; perché la critica chiede che si dia la genesi dei fatti o dei gruppi di fatti che si designano coi nomi di "secolo" e di "razza", e, nel richiedere tale genesi, li dichiara insieme né "universali" né "permanenti ", perché "fatti universali e permanenti ", che si sappia, non ve ne sono, e non sono tali, nonché le Germain e l'Homme du Nord, nemmeno, direi, le mummie, che durano alcuni millenni ma non in perpetuo, e si alterano lentamente, ma si alterano.

Cosicché, chiunque pensi secondo la concezione deterministica della storia, sempre che voglia astenersi dal troncare con l'arbitrio e con l'immaginazione la ricerca iniziata, è condotto di necessità a riconoscere che il metodo adottato non raggiunge il fine che si persegue; e poiché, d'altra parte, si è cominciato, sia pure con metodo insufficiente, a pensare la storia, non ci sono altri partiti che: o rifarsi da capo, cangiando strada, o andare innanzi, cangiando direzione. Il presupposto naturalistico, che rimane ancora saldo ("prima raccogliere i fatti, poi cercarne le cause": quale cosa più evidente e più ineluttabile di questa?), spinge di necessità al secondo partito. Ma appigliarsi al secondo partito è oltrepassare il determinismo, è trascendere la natura e le sue cause, è proporre un metodo opposto al precedente, ossia rinunziare alla categoria di causa per un'altra, che non può essere se non quella di fine; e di fine estrinseco e trascendente, che è l'analogo opposto che corrisponde alla causa. Ora, la ricerca del fine trascendente è la "filosofia della storia".

A questa ricerca il naturalista conseguente (e chiamo tale colui che "seguita a pensare", o, come si dice comunemente, trae le conseguenze) non si può sottrarre, e non si sottrae in effetto giammai, comunque concepisca la sua nuova ricerca; nemmeno quando prova a sottrarvisi, dichiarando inconoscibile il fine o la "causa ultima", perché (come altresì è noto) un inconoscibile affermato è un inconoscibile in qualche modo conosciuto. Il naturalismo si corona sempre di una filosofia della storia, quale che sia la forma delle sue sistemazioni: o che l'universo venga da esso spiegato con gli atomi che si accozzano e col loro vario accozzarsi e danzare producono il corso storico, al quale possono altresì mettere termine col tornarsene alla primitiva dispersione; o che chiami il Dio ascoso Materia o Incosciente o in altro modo; o, infine, che lo concepisca come una Intelligenza che si vale, per mettere in atto i suoi consigli, della catena delle cause. E, per converso, ogni filosofo della storia è un naturalista, e tale è perché è dualista, e concepisce un Dio e un mondo, un'Idea e un fatto oltre o sotto l'Idea, un Regno dei fini e un Regno o sottoregno delle cause, una città celeste e un'altra più o meno diabolica o terrena. Si prenda qualsiasi costruzione di determinismo storico, e si troverà o scoprirà in essa, esplicita o sottintesa, la trascendenza (nel Taine, per esempio, reca il nome di "Race" o di "Siècle", vere e proprie deità); e si prenda qualsiasi costruzione di "filosofia della storia", e vi si scopriranno il dualismo e il naturalismo (nello Hegel, per esempio, in quel suo ammettere fatti ribelli e impotenti, che resistono o non sono degni del dominio dell'Idea). E si vedrà sempre più chiaramente come dalle viscere del naturalismo venga fuori, incoercibile, la "filosofia della storia".

II
Ma la "filosofia della storia" è altrettanto contradittoria quanto la concezione deterministica da cui sorge e a cui si oppone. Perché essa, avendo accettato e oltrepassato insieme il metodo del congiungere tra loro i fatti bruti, non trova più innanzi a sé fatti da congiungere (che sono stati già congiunti, come si poteva, mercé la categoria di causa), sibbene fatti bruti, ai quali deve conferire, non più un legamento ma un "significato", e rappresentarli come aspetti di un processo trascendente, di una teofania. Ora quei fatti in quanto bruti sono mutoli, e la trascendenza del processo richiede, per essere concepita e rappresentata, un organo che non sia quello del pensiero che pensa, ossia produce i fatti, ma un organo extralogico (per esempio, un pensiero che proceda astrattamente a priori: Fichte), il quale non si trova nello spirito se non come momento negativo, come il vuoto del pensiero logico effettivo. E il vuoto del pensiero logico è occupato immediatamente dalla praxis, o, come si dice, dal sentimento, che poi, rifrangendosi teoricamente, si atteggia a poesia. Carattere poetico, che è evidente in tutte le "filosofie della storia": sia in quelle antiche, che rappresentavano gli accadimenti storici come lotte tra gli dèi di singoli popoli o di singole genti o protettori di singoli individui, o del Dio della luce e della verità contro le potenze della tenebra e della menzogna; ed esprimevano così le aspirazioni di popoli, di gruppi o d'individui verso l'egemonia, o dell'uomo verso il bene e la verità: sia in quelle moderne e modernissime, che s'ispirano ai vari nazionalismi ed etnicismi (l'italico, il germanico, lo slavo, ecc.), o che rappresentano il corso storico come la corsa verso il regno della Libertà, o come il passaggio dall'Eden del comunismo primitivo, attraverso il Medioevo della schiavitù, della servitù e del salariato, verso il comunismo restaurato, non più inconsapevole ma consapevole, non più edenico ma umano. Nella poesia, i fatti non sono più fatti ma parole, non realtà ma immagini; e perciò non ci sarebbe luogo a censura, se qui si rimanesse nella pura poesia. Ma non vi si rimane, perché quelle immagini e parole sono ora poste come idee e fatti, e cioè come miti: miti il Progresso, la Libertà, l'Economia, la Tecnica, la Scienza, sempre che siano concepiti come motori esterni ai fatti; miti non meno di Dio e il Diavolo, Marte e Venere, Geova e Baal, o di altre più rozze figurazioni di divinità. Ed ecco perché la concezione deterministica, dopo avere prodotto la "filosofia della storia" che le fa contrasto, è costretta a contrastare a sua volta la propria figliuola, e ad appellarsi dal regno dei fini a quello delle connessioni causali, dall'immaginazione all'osservazione, dai miti ai fatti.

La confutazione reciproca del determinismo storico e della filosofia della storia, che fa dell'una e dell'altro due vuoti o due niente, cioè un unico vuoto e niente, sembra invece, come suole, agli eclettici il compiersi reciproco di due entità, che stringono o dovrebbero stringere tra loro un'alleanza per sorreggersi a vicenda. E poiché l'eclettismo, mutato nomine, infierisce nella filosofia contemporanea, non è meraviglia che si trovi di frequente assegnato alla storia, oltre l'ufficio d'investigare le cause, quello del "significato" o del "piano generale" del corso storico (si vedano i lavori sulla "filosofia della storia" del Labriola, del Simmel, del Rickert); e poiché gli scrittori di metodiche sogliono essere empirici, e perciò eclettici, anche tra es'si è vulgata la partizione della storia in istoria che si fa col radunare e criticare i documenti e ricostruire gli accadimenti, e in "filosofia della storia" (si veda per tutti il manuale del Bernheim); e, infine, poiché eclettico è il pensiero ordinario, niente è più facile che raccogliere consenso intorno alla tesi: che la semplice storia, la quale offre la serie dei fatti, non basta, e che si richiede che il pensiero torni sopra la costituita catena dei fatti per iscoprirvi il disegno riposto e per rispondere alle domande del donde veniamo e del dove andiamo; cioè che, accanto alla storia, debba porsi una "filosofia della storia". Questo eclettismo, che sostanzializza due opposte vacuità e fa che l'una dia la mano all'altra, tenta perfino talvolta di superare sé stesso e di fondere quelle due finte scienze o parti di scienza. E allora si ode difendere la "filosofia della storia", ma con la cautela, che essa debba essere condotta con metodo "scientifico" e "positivo", mercé la ricerca causale, e svelare per tal modo l'azione della ragione o della Provvidenza divina: - programma nel quale altresì il pensiero volgare tosto consente, ma che poi non si riesce a eseguire. Niente di nuovo, neanche qui, per gl'intendenti: la "filosofia della storia", da costruire coi "metodi positivi", la trascendenza da dimostrare coi metodi della falsa immanenza, è, nel campo degli studi storici, l'esatto equivalente
di quella "metafisica da costruire con metodo sperimentale", che i neocritici (Zeller e altri) raccomandavano, e che anch' essa pretendeva, non già superare due vacuità che reciprocamente si confutano, ma accordarle tra loro, e, dopo averle sostanzializzate, combinarle in unica sostanza. Cose che, per significarne l'impossibilità, io non chiamerei prodigi da alchimista (la metafora mi sembrerebbe troppo alta), ma sì, piuttosto, intrugli da cattivi cuochi.

III
Tutt'altro è il rimedio efficace alle contradizioni del determinismo storico e della "filosofia della storia"; e, per ottenerlo, bisogna accettare il risultamento della reciproca confutazione, che li vanifica entrambi, e rifiutare, perché privi di pensiero, così i "disegni" della filosofia della storia, come le "catene causali" del determinismo. E, dissipate queste due ombre, ci ritroviamo al punto di partenza: siamo innanzi di nuovo ai fatti bruti e slegati, ai fatti assodati ma non intesi, pei quali il determinismo aveva procurato di adoprare il cemento della causalità, e la "filosofia della storia", la bacchetta magica della finalità. - Che cosa faremo di questi fatti? Come li renderemo da opachi traslucidi? da disorganici, organici? da inintelligibili, intelligibili? Veramente, sembra difficile fame qualcosa, e, soprattutto, eseguire di essi la trasformazione invocata. Lo spirito è impotente innanzi a ciò che gli è, ossia si suppone che gli sia, estraneo. E, concepiti i fatti a quel modo, si è tentati a ripigliare l'atteggiamento di disprezzo dei filosofi verso la storia, mantenutosi quasi costante dall'antichità (per Aristotele la storia era "meno filosofica" e "meno grave" della poesia, e per Sesto Empirico "materia ametodica"), fin quasi alla fine del secolo decimottavo (Kant non intese né sentì la storia): ai filosofi le idee, agli storici i fatti bruti: contentiamoci delle cose serie e lasciamo ai bambini i loro balocchi.

Ma, prima di cedere a siffatta tentazione, sarà prudente chiedere consiglio al dubbio metodico (che riesce sempre assai utile), e volgere l'attenzione appunto su quei fatti bruti e sconnessi, dai quali la ricerca causale asserisce di prendere le mosse, e innanzi ai quali noi, abbandonati ormai da essa e dal suo complemento, la filosofia della storia, sembra che siamo tornati. E il dubbio metodico ci suggerirà innanzi tutto il pensiero: che quei fatti sono un presupposto non provato: e ci indurrà quindi a esaminare se la prova si possa fare; e, mettendoli al cimento della prova, ci porterà, in fine, alla conclusione, che quei fatti, realmente, non esistono.

Chi, infatti, afferma la loro esistenza? Per l'appunto, lo spirito nell'atto che si accinge alla ricerca delle cause. Ma lo spirito, in quell'atto, non possiede prima i fatti bruti ("d'abord, la collection des faits"), e poi ne cerca le cause ("après, la recherche des causes"); sibbene, con quell'atto stesso, rende bruti i fatti, cioè li pone lui così, perché gli giova così porli. La ricerca delle cause, che si esegue nella storia, non è niente di diverso dal procedere, più volte illustrato, del naturalismo, che analizza astrattamente e classifica la realtà. E analizzare astrattamente e classificare importa insieme astrattamente giudicare classificando; cioè trattare i fatti, non come atti dello spirito, consapevoli nel pensiero che li pensa, ma come fatti esterni o bruti. La Divina Commedia è quel poema che noi, leggendo, rifacciamo nella nostra fantasia in tutte le sue particolarità, e che criticamente intendiamo come una particolare determinazione dello spirito, e che perciò collochiamo mentalmente al suo posto nella storia con tutte le sue circostanze e in tutte le sue relazioni. Ma quando questa attualità della nostra fantasia e del nostro pensiero è trapassata, ossia quel processo mentale si è compiuto, siamo in grado, con un nuovo atto spirituale, di analizzarne astrattamente gli elementi; e costruendo,
per esempio, i concetti classifica tori i di "civiltà fiorentina" o di "poesia politica ), diremo che la Divina Commedia fu un effetto della civiltà fiorentina, e questa, a sua volta, delle lotte politiche dei Comuni, e simili. E ci saremo così, in pari tempo, aperta la strada a quei problemi assurdi, che tanto infastidivano il De Sanctis a proposito dell'opera di Dante, e ch'egli benissimo qualificava dicendo che sorgono solamente quando la viva impressione estetica si è raffreddata, e 1'opera poetica cade in balìa dei cervelli ottusi, vaghi di sciarade. Ma se ci arrestiamo a tempo e non entriamo nella strada aperta di quelle assurdità, se ci atteniamo al momento naturalistico puro e semplice, alla classificazione e al giudizio classificatorio (che è insieme connessione causale), in guisa affatto pratica, senza tirarlo a conseguenza, non faremo niente di men che legittimo, anzi eserciteremo un nostro diritto e ci piegheremo a una razionale necessità, che è quella del naturalizzare quando il naturalizzare giova e nei limiti entro cui esso giova. Talché, come puro naturalismo, il materializzamento dei fatti, e il loro legamento estrinseco o causale, è del tutto giustificato; e giustificata si dimostrerà perfino la massima di fermarsi alle cause "prossime" ossia di non spingere tant'oltre la classificazione, che essa perda qualsiasi utilità pratica. Porre in relazione la Divina Commedia col concetto di classe "civiltà fiorentina"potrà giovare; ma non gioverà punto, o infinitamente meno, porla in relazione col concetto di classe "civiltà indoeuropea", o "civiltà dell'uomo bianco".

IV
Torniamo, dunque, con maggiore fiducia al punto di partenza, al vero punto di partenza, cioè non a quello dei fatti già disorganizzati e naturalizzati, ma a quello della mente che pensa e costruisce il fatto; risolleviamo i volti avviliti dei calunniati "fatti bruti", e vedremo risplendere sulle loro fronti la luce del pensiero. E quel vero punto di partenza ci si mostrerà, non semplice punto di partenza, ma e di partenza e di arrivo; non il primo passo nella costruzione della storia, ma tutta la storia nella sua costruzione, che è poi il suo costruirsi. Il determinismo storico, e a più forte ragione la "filosofia della storia", si lasciano dietro le spalle la realtà della storia, verso la quale pur indirizzavano il loro viaggio, riuscito aberrante e viziosamente circolare.

Che questo che diciamo sia la verità, ce lo faremo confessare dall'ingenuo Taine, domandandogli che cosa intenda per "collection des faits", e apprendendo da lui in risposta che quella raccolta si compie in due stadi o momenti, nel primo dei quali i documenti vengono ravvivati per raggiungere, "à travers la distance des temps, 1'homme vivant, agissant, doué de passions, muni d'habitudes, avec sa voix et sa physionomie, avec ses gestes et ses habits, distinct et complet comme celui qui tout à 1'heure nous avons quitté dans la rue"; e nel secondo si cerca e scopre "sous l'homme extérieur l'homme intérieur", "l'homme invisible", "le centre", "le groupe des facultés et des sentiments qui produit le reste", "le drame intérieur", "la psychologie". - Altro, dunque, che "collections des faits"! Se le cose, che il nostro autore dice, si adempiono per davvero, se davvero si rivivono in fantasia gli individui e gli accadimenti, e se degli uni e degli altri si pensa l'interiorità, cioè se si esegue la sintesi d'intuizione e concetto che è il pensiero nella sua concretezza, la storia è bella e attuata: che cosa si desidera di più? non c'è da cercar altro. "C'è da cercar le cause!" aggiunge il Taine. Ossia, c'è da ammazzare il "fatto" vivo, pensato dal pensiero, e c'è da separarne gli astratti elementi, cosa utile senza dubbio, ma alla memoria e alla pratica; o ancora (come esso Taine adopera) fraintendere e sopravalutare questo ufficio dell'analisi astratta, andandosi a perdere nella mitologia delle Razze e dei Secoli, o in altra diversa e nondimeno simile. Guardiamoci dall'ammazzare i poveri fatti, se vogliamo pensare da storici; e, in quanto tali, in quanto effettivamente pensiamo, non sentiremo bisogno di ricorrere né al legame estrinseco delle cause (determinismo storico), né a quello parimente estrinseco dei fini trascendenti (filosofia della storia). Il fatto concretamente pensato non ha né causa né fine fuori di sé, ma solamente in sé stesso, coincidente con la sua reale qualità o con la sua qualitativa realtà. Perché (sarà opportuno notare di passata) la determinazione dei fatti come fatti reali bensì, ma d'ignota natura, asseriti e non compresi, è anch'essa un'illusione del naturalismo (che preannunzia così l'altra sua illusione, quella della "filosofia della storia"): nel pensiero, realtà e qualità, esistenza ed essenza, sono tutt'uno, e non si può affermare reale un fatto senza insieme conoscere qual fatto esso sia, cioè senza qualificarlo.

Tornando e restando, ossia movendoci nel fatto concreto, o, meglio, facendoci pensiero che pensa concretamente il fatto, noi sperimentiamo il continuo formarsi e il continuo progredire del nostro pensiero storico, e ci rendiamo anche chiara la storia della storiografia, che progredisce allo stesso modo. E vediamo come (mi restringo a un esempio per non lasciar vagare troppo lo sguardo) dai greci a noi l'intelligenza storica si sia fatta sempre più ricca e profonda, non già perché si siano mai rinvenute le cause astratte e i fini trascendenti delle cose umane, ma sol perché si è acquistata via via di esse una coscienza sempre più ricca; e politica e morale e religione e filosofia e arte e scienza e cultura ed economia sono diventate concetti più complessi, e insieme meglio determinati e unificati in sé medesimi e col tutto; e correlativamente, le storie di quelle forme di attività sono diventate sempre più complesse e più saldamente une. Le "cause" della civiltà le conosciamo così poco noi come i greci; e così poco noi come i greci conosciamo il Dio o gli dèi, che guidano le umane fortune. Ma noi conosciamo meglio dei greci la teoria della civiltà, e, tra l'altro, sappiamo (com'essi non sapevano, o non sapevano con altrettanta chiarezza e sicurezza) che la poesia è una forma eterna dello spirito teoretico; che il regresso o decadenza è un concetto relativo; che il mondo non è diviso in idee e ombre delle idee, o in potenze ed atti; che la schiavitù non è una categoria del  reale, ma una forma storica dell'economia; e via discorrendo. E perciò non ci accade più (salvo che ai sopravvissuti o ai fossili, che pur sono tra noi) di tessere la storia della poesia passando a rassegna i fini pedagogici che si sarebbero proposti i poeti; ma intendiamo a determinare invece le forme espressive dei loro sentimenti: né restiamo smarriti innanzi alle così dette "decadenze", ma ricerchiamo che cosa di nuovo e di superiore si andò, attraverso la dialettica di esse, elaborando; - né consideriamo misera e illusoria l'opera dell'uomo e solo degni di ammirazione e d'imitazione il sospiro al cielo e la congiunta ascesi, avversa alla terra: ma nell'atto riconosciamo la realtà della potenza e nelle ombre la saldezza delle idee, e nella terra il cielo; - né, infine, ci sentiamo mancare la possibilità della vita sociale per effetto della sparizione dell' economia a schiavi: sparizione che sarebbe stata la catastrofe della realtà, se nella realtà fossero schiavi per natura; e via discorrendo.

Questo concetto della storia e la considerazione del lavoro storiografico nel suo intrinseco ci mettono in grado altresì di usare giustizia verso il determinismo storico e la "filosofia della storia", che, col loro continuo risorgere, hanno continuamente additato le lacune del nostro sapere così storico come filosofico, e con le loro soluzioni immaginose hanno precorso le soluzioni dialettiche e storiche dei nuovi problemi che si sono andati ponendo; né è detto che smetteranno da ora in poi di esercitare tale ufficio (che è l'ufficio benefico delle utopie di ogni sorta). E quantunque, come meramente astratti e negativi, il determinismo storico e la "filosofia della storia" non abbiano storia perché non si svolgono, dalla relazione in cui essi sono con la storia ricevono un contenuto che si svolge, cioè la storia si svolge in essi, nonostante il loro involucro, estrinseco al contenuto, costringendo a pensare anche chi si propone di schematizzare e d'immaginare senza pensare. Ché, in verità, è da porre gran divario tra il determinismo che può risorgere ora, dopo Cartesio e Vico e Kant e Hegel, e quello che sorse dopo Aristotele; tra la filosofia della storia di Hegel o di Marx, e quella dello gnosticismo o del cristianesimo. Trascendenza e falsa immanenza travagliano, rispettivamente, tutte queste concezioni; ma le forme astratte e le mitologie, nate in più matura epoca del pensiero, racchiudono in sé questa nuova maturità; e, per soffermarci solamente (lasciando da parte i vari naturalismi) sul caso delle "filosofie della storia", si avverte già una bella differenza dalla filosofia della storia, che domina nel mondo omerico, a quella di Erodoto, il cui concetto dell'invidia degli dèi è quasi un'idea di legge morale, che risparmia gli umili e calca i superbi; e da questa al fato degli stoici, che è una legge alla quale gli stessi dèi sono sottoposti; e poi al concetto della Provvidenza, che spunta nella tarda antichità, della sapienza che regge il mondo; e ancora da questa provvidenza pagana alla cristiana, che è giustizia divina, preparazione evangelica e cura educativa del genere umano; e via via alla provvidenza affinata dai teologi, che esclude d'ordinario l'intervento miracoloso e opera per cause seconde, e a quella del Vico, che opera come dialettica dello spirito, e alla Idea dello Hegel, che è graduale conquista, che la libertà, attraverso la storia, fa della propria coscienza; o, infine, alla mitologia ancora persistente del Progresso e della Civiltà, che tenderebbero al definitivo sgombramento dei pregiudizi e delle superstizioni da conseguire mercé la crescente forza e divulgazione della scienza positiva.

Per tal modo, la "filosofia della storia" e il determinismo storico raggiungono a volte la sottigliezza e la trasparenza di un velo, che copre e scopre insieme la concretezza del reale nel pensiero; e le meccaniche "cause" appaiono idealizzate, e le trascendenti "deità" umanate, e i fatti svestono gran parte del loro aspetto brutale. Ma, per sottile che sia il velo, è velo, e per ischietta che sembri la verità, non è del tutto schietta, perché permane pur sempre nel fondo la falsa persuasione che la storia si costruisca col "materiale" dei fatti bruti, col "cemento" delle cause e con la "magia" dei fini, come con tre successivi o concorrenti metodi. È il caso medesimo della religione, la quale, nelle menti alte, si libera quasi del tutto dalle volgari credenze, come negli animi alti la sua etica si affranca quasi del tutto dall'eteronomismo del comando divino e dall'utilitarismo del premio e della pena. Quasi del tutto, ma non del tutto; e perciò la religione non sarà mai filosofia, se non negandosi; e così la "filosofia della storia" e il determinismo storico, solo negandosi, diventeranno storia. Sempre che in qualche misura essi persistano in modo positivo, persisterà insieme il dualismo, e il conseguente angoscioso scetticismo o agnosticismo.

La negazione della filosofia della storia nella storia concretamente intesa è la sua ideale dissoluzione; e, poiché quella cosiddetta "filosofia" non è altro che un momento astratto e negativo, è chiaro per quale ragione da noi si affermi che la filosofia della storia è morta: morta nella sua positività, morta come corpo di dottrine; morta, a questo modo, con tutte le altre concezioni e forme del trascendente. E io non vorrei appiccare alla mia breve (ma, a mio credere, bastevole) trattazione di tale argomento, la giunta di una dilucidazione che sembrerà ad alcuni (come sembra a me stesso) poco filosofica e persino alquanto triviale. Nondimeno, preferendo al rischio dell'equivoco quello della semitrivialità, aggiungerò che, come la critica dei "concetti" di causa e di finalità trascendente non vieta di adoperare queste "parole" quando siano semplici parole (e, per esempio, di parlare immaginosamente della Libertà come di una dea, o di dire, nell'accingersi a uno studio su Dante, che s'intende "ricercare la causa" o "le cause" di questa o quell'azione e opera di lui), - così niente vieta di seguitare a parlare di "filosofia della storia", e di un "filosofare sulla storia", per significare l'esigenza di una elaborazione o di una migliore elaborazione di questo o di quel problema storico. E neanche è vietato chiamare "filosofia della storia" le ricerche di gnoseologia storica, sebbene in questo caso si elabori la filosofia, non propriamente della storia, ma della storiografia: due cose che sogliono essere designate in italiano, come in altre lingue, da un medesimo vocabolo. E nemmeno, infine, si vuole impedire di affermare (come fece, anni addietro, un professore tedesco) che la "filosofia della storia" debba trattarsi come "sociologia", cioè d'insignire di quel vecchio titolo la cosiddetta Sociologia, scienza empirica dello Stato, della società e della cultura.

Queste denominazioni sono tutte permesse, in virtù del medesimo diritto che l'avventuriere Casanova invocava innanzi al magistrato per giustificarsi di aver cangiato nome: "il diritto che ogni uomo ha sulle lettere dell'alfabeto". Ma la questione, trattata di sopra, non è stata di lettere dell'alfabeto; e la "filosofia della storia", della quale abbiamo sommariamente mostrato la genesi e la dissoluzione, non è già un nome, che variamente si adoperi, ma una determinatissima concezione della storia: la concezione trascendente.


(Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 71-90 dell'edizione Adelphi 1989)