VI

UNA OBIEZIONE ALLA LEGGE MARXISTICA DELLA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO


Questa legge è esposta nella terza sezione del libro terzo (postumo) del Capitale. Poche critiche sono state fatte intorno ad essa, le quali variano da quella del Sombart, che la dichiara svolta «nel modo più splendido» (in glänzendster Weise) a quella del Loria, che la definisce «un colpo di pistola della metafisica (sic) d'oltre Reno», e crede di abbatterla con obiezioni, in verità, affatto improprie: altri hanno opinato che la legge sia bensì vera, ma spieghi solo in parte il fatto della caduta del saggio di profitto e convenga integrarla con altre leggi già note all'economia classica. Ma i più di coloro, che si sono occupati delle dottrine economiche del Marx, non l'hanno indagata in nessun modo; rigettandola gli avversari (come il Böhm Bawerk), implicitamente, col rigettare i principi fondamentali del Marx; accogliendola i marxisti, segnatamente tedeschi, umili o proni, senza discutere, con quella mancanza di libertà e di originalità mentale, che si osserva in tutta la loro letteratura.

L'esame, che qui se ne tenta, è fatto sulla base stessa delle dottrine del Marx, ossia è condotto col presupposto che si ammettano i fondamenti di quelle dottrine, e quindi la premessa del valore-lavoro, la distinzione tra capitale costante e capitale variabile, la considerazione del profitto come nascente dal sopravalore, e del saggio medio di profitto come nascente dall'agguagliamento dei vari saggi di sopravalore per opera della concorrenza. Vero è che tutte queste cose io le ammetto in un certo senso, che non è il senso dei volgari marxisti, in quanto cioè si riguardino non come leggi realmente operanti nel mondo economico, ma come risultamenti di considerazioni comparative tra varie forme possibili di società economiche. Ma tale riserva, che concerne una questione da me discussa a lungo altrove1,  non ha quasi nessun effetto nel presente esame, le cui conclusioni sarebbero presso a poco le stesse, anche quando quelle teorie del Marx si prendessero nel senso che io credo erroneo. Si tratta qui, non più di determinare e delimitare esattamente i concetti fondamentali del Marx, ma di vedere se da quei concetti, anche intesi nel modo corrente, possa mai in alcun modo dedursi la legge della caduta del saggio di profitto. La qual cosa a me non pare.

La legge è stata dal Marx ricavata dalla considerazione degli effetti economici dei progressi tecnici. Il Marx afferma che il progresso tecnico accresca la grandezza e cangi la composizione del capitale complessivo, facendo crescere la proporzione del capitale costante rispetto al variabile, cosicché per tal modo venga a diminuire il saggio di profitto; il quale si genera, com'è noto, dal sopravalore, prodotto dal capitale variabile, diviso pel capitale complessivo. Egli si figura così il fatto. Accade un progresso tecnico; si foggiano nuove macchine, che prima non esistevano. Il capitale, impiegato nella produzione, è stato finora, supponiamo, complessivamente, di 1000, ripartito in 500 e. e 500 v., ed impiegante 100 lavoratori: il sopravalore = 500, ossia il saggio di esso al 100 %; e quindi il saggio di profitto del 500/1000 = 50%.

Per effetto del progresso tecnico e della costruzione di nuove macchine, i 100 lavoratori, che sono mantenuti dal capitale variabile di 500, restano sempre impiegati nella produzione; ma, affinchè ciò sia possibile, dovranno mettere in movimento un capitale costante più grande, che supporremo di 200 maggiore dell'antico. Onde si avrà, per effetto del progresso tecnico, un capitale complessivo di 1200 = 700 c. +500v; e, restando immutato il saggio del sopravalore nel 100%, il saggio di profìtto sarà di =500/1200 = circa 41%, ossia sarà disceso dal 50 %o al 41%.- Dunque, decadenza necessaria del saggio di profìtto sotto l'ipotesi del progresso tecnico. Ma questa ipotesi è il fatto reale, di tutti i giorni, della società capitalistica moderna. Dunque, decadenza effettiva del saggio medio di profìtto nella società capitalistica moderna. Ma questa legge .è più o meno attraversata da altri fatti, più o meno transitoriamente controperanti. Dunque, caduta soltanto tendenziale.

Perché il nostro esame riesca chiaro, è anzitutto necessario scindere i due gruppi di fatti, o i due stadi della medesima società capitalistica, che il Marx fonde insieme ed abbraccia in una sola guardata alquanto confusa.

Il primo stadio è dato dal fatto puro e semplice di un progresso tecnico. Ora il progresso tecnico, tra i suoi effetti logici, 0, ch'è lo stesso, necessari, non ha punto quello di un aumento nella grandezza del capitale complessivo impiegato, e neanche l'altro di lasciare immutata la grandezza del capitale complessivo. Ha anzi, per effetto necessario e immediato, proprio l'opposto: cioè quello di restringere il capitale impiegato. (Non occorre avvertire che qui siamo in scienza economica, e aumento e diminuzione si riferiscono sempre a valori economici). Nella sua formola più semplice, supponendo costante la quantità degli oggetti prodotti (200 scarpe sono richieste, e non c'è ragione di aumentarne la produzione), il progresso tecnico consisterà, puramente e semplicemente, in un risparmio di spesa sociale: stessa produzione con minore spesa. E poiché ogni costo, nell'ipotesi del Marx, si risolve in lavoro sociale, si avrà: stessa produzione con minor lavoro sociale. Se non fosse così, non varrebbe la pena d'introdurre quell'innovazione tecnica; si avrebbe, economicamente, non già un progresso, ma 0 lo status quo ante o un regresso.

Non dobbiamo considerare gli altri effetti che sorgerebbero per aumento di produzione, maggior consumo, crescere di popolazione, ecc.: fatti estranei e sopraggiunti che qui non ci riguardano, avendo noi da fare col solo fatto del progresso tecnico, tutte le altre condizioni restando immutate. E, in tal caso, non possiamo simboleggiare il progresso tecnico con la serie crescente che il Marx adopera, di capitali complessivi di 150, 200, 300, 400, 500, ecc., ma con quella, decrescente, di 150, 140, 130, 120, 110, ecc. E, per restare nell'esempio addotto di sopra, ponendo che l'avvenuto progresso tecnico abbia fatto diminuire 1/10 del complessivo lavoro sociale richiesto, avremo, in luogo dell'antico capitale di 1000, un capitale di 900, composto non più di 500 c. + 500 v., ma di 450c. + 450v. (La diminuzione deve affettare proporzionalmente tutte le parti del capitale, giacché tutto è, in ultima analisi, prodotto di lavoro).

Dei 100 antichi lavoratori, 1/10, ossia 10 di essi, resteranno disoccupati: una frazione dell'antico capitale resterà disoccupata: la quantità (o utilità) dei beni che si produrranno resterà la medesima2.

Corretta così la descrizione del fatto, non vi ha dubbio che il piùpiccolo capitale complessivo impiegato, restando da una parte immutato il saggio di sopravalore e dall'altra più non lavorando 10 degli antichi lavoratori, assorbirebbe una massa di sopravalore di 450. Ma non per questo il saggio di profitto ne verrebbe alterato ; o meglio, appunto per ciò il saggio di profitto non potrebbe esserne alterato, e si esprimerebbe in  450/900 (come prima in 500/1000), ossia sarebbe, come prima, del 50%.

Tale caso semplicissimo non ci dà, dunque, la legge del Marx, ma l'altra: «Il progresso tecnico, tutte le altre condizioni restando immutate, fa diminuire la massa (non il saggio) dei sopravalori e dei profitti». Questa legge ha per ipotesi che quel 1/10 di lavoratori, rimasto disoccupato, sia diventato assolutamente superfluo: quei 10 lavoratori saranno ormai pezzenti oziosi mantenuti dalla carità altrui, o periranno di stenti, o emigreranno — in un nuovo mondo. Di essi, sarà quel che sarà. La produzione sociale resterà al livello di prima, in grazia del progresso tecnico, pur facendo a meno del loro concorso. Questa l'ipotesi. Ma, data questa ipotesi, qual'è l'importanza della legge? Per vederci chiaro, basterà spingere ancora, com'è nostro diritto, l'ipotesi, e supporre che, continuando il progresso tecnico, diventi via via superfluo l'impiego non solo di 1/10, ma di 1/4, di 1/3, di1/2, di 1 lavoratori, ossia che l'impiego di lavoratori tenda a diventare = 0. In questo caso, la società capitalistica sarebbe, come tale, bella e finita, perché sarebbe finita Futilità del lavoro, sopra la quale essa si fonda. Dove non c'è nulla, il re perde i suoi diritti; e dove il lavoro non ha utilità, il capitale perde i suoi. Gli ex-capitalisti non avrebbero più operai da sfruttare; si sarebbero mutati in possessori di fonti automatiche di ricchezza: come quei fortunati mortali delle fiabe, arricchiti di coltelli fatati, di lucerne prodigiose, di giardini producenti con foga instancabile e spontanea ogni ben di Dio. In altri termini, la legge qui si risolve in una vuota generalità.

Ma il Marx non si trastullava in codeste generalità vuote e nelle congiunte fantasie, e voleva proprio determinare la legge organica delle variazioni del saggio di profitto. Infatti, egli (come si è visto nell'esempio recato) non suppone punto che la forza di lavoro diventi superflua; ma anzi che i lavoratori trovino nuovo impiego col crescere del primitivo capitale costante. Avvenuto il progresso tecnico, anche la produzione è cresciuta; e questo secondo stadio egli considera. I 100 lavoratori lavorano ancora tutti 100, il capitale costante con cui lavorano è dovuto crescere da 500 a 700, e il complessivo è quindi diventato di 1200. La legge ch'egli ne deduce, della caduta del saggio di profitto (nell'esempio, dal 50% 0 al 41%), si presenta con la gravità e l'originalità di una scoperta scientifica. Tutto sta a vedere, se della scoperta scientifica abbia poi — la verità.

Il nerbo della dimostrazione del Marx è nella proposizione: che i lavoratori, che dovrebbero restare disoccupati, trovino invece impiego, ma con un capitale cresciuto di un tanto (= 200) sul primitivo. E esatta questa proposizione? In qual modo il Marx la giustifica?

A questa proposizione fondamentale si riferisce la mia obiezione, altrettanto fondamentale; la quale, se ammessa, viene a negare nel modo più radicale la verità della legge marxistica. Esprimo tuttavia il mio pensiero sotto forma di obiezione e di dubbio, perché, trattandosi di un pensatore del grado del Marx, bisogna proceder cauti, e ricordarsi (come io non me ne scordo) che parecchie volte errori a lui addebitati si sono chiariti equivoci degli avversari.

Per quale ragione (domando) i 10 lavoratori disoccupati, per essere di nuovo impiegati, avrebbero bisogno di un capitale costante maggiore del primitivo?

Il progresso tecnico non ha fatto diminuire l'utilità naturale della produzione (anzi, nella nostra ipotesi, non l'ha fatta neanche crescere, e l'ha lasciata immutata); ma ne ha diminuito solo il valore. Si avranno, dunque, col progredito ordinamento tecnico, materie grezze, strumenti, oggetti di vestiario, mezzi di alimentazione, ecc., della stessa complessiva naturale utilità di prima. Il valore economico di tutti questi prodotti è diminuito, perché in essi (per servirci della metafora prediletta del Marx) è conglutinata minore quantità di lavoro, ossia vi è in meno il lavoro di 10 lavoratori. Ma, sotto l'aspetto della potenzialità a soddisfare bisogni, le materie grezze, gli strumenti, i capi di vestiario, i mezzi di alimentazione, ecc., stanno, per virtù del progresso tecnico, allo stesso grado di prima. Se, dunque, capitalisti ed operai saranno restati sobri quanto prima, e il loro livello di vita non si sarà elevato (e ciò è nell'ipotesi), la produzione offrirà, come prima, mezzi d'impiego e mezzi di sussistenza pei 10 lavoratori restati disoccupati. Rioccupandoli, ossia mantenendoli con gli antichi mezzi di sussistenza, e facendoli lavorare sulle antiche materie grezze o sui nuovi prodotti, i capitalisti verranno ad accrescere la loro produzione, o (ch'è lo stesso) verranno a migliorarne la qualità. Ma, poiché noi sappiamo che economicamente il valore di quel capitale è diminuito, si avrà che un capitale economicamente minore assorbirà le stesse forze di lavoro di prima, ossia la stessa massa di profitto; e massa di profitto eguale con capitale complessivo minore significa saggio di profitto cresciuto. Proprio l'opposto di ciò che il Marx aveva creduto di poter dimostrare.

Tornando al semplicissimo esempio nostro, i 10 lavoratori troveranno impiego con un capitale, che, come utilità, è restato lo stesso, ma economicamente è disceso a 900. Il che significa, che il saggio di profitto è cresciuto da 500/1000 a 500/900 ossia da 505 al 55%.

Quanto alsaggio del sopra valore, esso, essendosi ridotto l'intero valore del capitale complessivo, dovrà calcolarsi non più, come prima del progresso tecnico, in  500/500, , né come nel primo stadio da noi considerato (in cui il progresso tecnico abbia resa assolutamente superflua una parte del lavoro) in 450/450 , ma in  500/450 , ossia non sarà più del 100% ma saràsalito al 111 % circa.

A questa mia obiezione non ho trovato risposta né esplicita né implicita nell'opera del Marx. Solo in un punto, dove egli parla delle cause controperanti, e propriamente della sovrapopolazione (cap. XIV, § IV), accenna al caso che forze di lavoro possano rimpiegarsi con capitale costante minimo. Si può dire che qui il Marx sia passato accanto all'obiezione senza urtarvi, ossia senza acquistar coscienza dell'importanza di essa. E, se vi fosse urtato, dubito che l'avrebbe spezzata e spazzata via; e credo piuttosto, che la sua teoria ne sarebbe andata in frantumi.

Prevedo ciò che si potrebbe dire: — Voi avete supposto che, col progresso tecnico, resti disoccupato non soltanto un numero di lavoratori, ma anche una frazione dell'antico capitale complessivo, ossia di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza; e, quando i lavoratori si rimpiegheranno, è vero che nel nuovo ciclo produttivo non si aggiungeranno alle antiche frazioni altre frazioni di capitale disoccupato, ma perciò appunto la quantità della produzione che ne verrà faori sarà aumentata, e nel seguente ciclo produttivo si aggiungerà una frazione anche maggiore di capitale disoccupato, se pure non si continuerà nel rini-piego dei 10 lavoratori, nel qual caso la frazione disoccupata sarà più piccola, ma l'aumento diventerà costante. Ora tutti questi mezzi di produzione e di sussistenza non saranno consumati (o saranno consumati in parte e in parte l'isparmiati) dalla classe capitalistica; e quindi si avrà una crescente accumulazione. Le somme di beni risparmiate, per la spinta dell'interesse economico, non resteranno inutili nei magazzini o nelle casseforti; ma saranno gittate sul mercato come capitali chiedenti impiego. Ciò farà aumentare il saggio dei salari, e quindi avrà efficacia diminu trice sul saggio del profitto.

— Benissimo: ma in tal caso siamo fuori della legge del Marx, L'agente, che qui si considera, non è più il progresso tecnico per se preso, ma il risparmio, il quale potrà essere, come si dice, favorito dal progresso tecnico, ma non si può da questo dedurre; tanto è vero che, facendo il caso di capitalisti gaudenti, il risparmio, nonostante il progresso tecnico, non avrebbe luogo. E come il progresso tecnico favorisce il risparmio, così questo, in sèguito, favorisce, per mezzo dell'aumento dei salari, l'accrescimento della popolazione; e quindi la riduzione dei salari, e di nuovo il riateo del saggio di profitto. Senonchè, quando entrano in iscena il risparmio e l'aumento della popolazione, siamo già nell'ambito della legge della domanda e offerta, ossia della comune e accettata economia, che il Marx disprezzava come volgare, e in odio alla quale aveva escogitato la legge della caduta del saggio di profitto dedotta dalla più alta composizione del capitale per effetto del progresso tecnico. Credo anch'io che soltanto l'ovvia legge della domanda e offerta spieghi le variazioni del saggio di profitto; ma ricorrere ad essa è non già difendere la tesi del Marx, sibbene rifermarne la condanna.

Comunque si consideri, cotesta tesi a me pare insostenibile; e anche più insostenibile se, lasciando per un momento in disparte i ragionamenti a ili di logica e i calcoli aritmetici, guardiamo con la limpida intuizione del buon senso. Ecco qui (per seguire la rigida ipotesi schematica del Marx) da una parte una classe capitalistica, e dall'altra una classe di proletari. Che cosa fa il progresso tecnico? Moltiplica la ricchezza nelle mani della classe capitalistica. Non è intuitivamente chiaro che, per effetto del progresso tecnico, i capitalisti potranno, con l'anticipo di beni che valgono sempre meno, ottenere gli stessi servigi, che ottenevano prima dai proletari? E che quindi il rapporto tra valore di servigi e valore di capitale si altererà con prevalenza del primo valore, ossia che il saggio di proiltto crescerà? Con l'anticipo di beni (capitale), che prima si riproducevano con 5 ore di lavoro ed ora si riproducono con 4, l'operaio lavora sempre 10 ore. Prima con 5 si aveva 10: ora con 4 si ha egualmente 10. La spugna costa meno; ma la quantità d'acqua, di cui s'imbeve, è la stessa. Come il Marx ha potuto immaginare che col progresso tecnico cresca sempre la spesa dei capitalisti, in modo che, proporzionalmente, il profitto resti in perpetua minoranza e finisca col fare, di fronte alla spesa complessiva, una meschinissima figura?.


L'errore del Marx è stato di aver attribuito inavvedutamente un valore maggiore al capitale costante che, dopo il progresso tecnico, vien messo in movimento dagli stessi antichi lavoratori. Certo, chi guardi una società in due stadi successivi di sviluppo tecnico, potrà trovare, nel secondo stadio, maggior numero di macchine e d'istrumenti d'ogni genere. Ciò riguarda la statistica e non l'economia. Il capitale (e ciò il Marx sembra avere per un momento dimenticato) non si misura dalla sua fisica estensione, ma dal suo valore economico. Ed economicamente quel capitale (supposte costanti tutte le altre condizioni) deve valer meno; altrimenti, il progresso tecnico non avrebbe avuto luogo.

A spiegare l'errore del Marx potrebbe valere il fatto, che il terzo libro del Capitale è un'opera postuma, di cui alcune parti sono appena abbozzate, tra cui questa della Legge del saggio di profitto; la quale, inoltre, non appartenendo allo «stabilimento dei principi», ma essendo conseguenza e applicazione, non fu forse maturata al modo stesso della parte fondamentale o centrale della dottrina3. È probabile che l'autore, se fosse potuto tornare sul suo abbozzo, l'avrebbe profondamente modificato o addirittura distrutto. Ma forse dello strano errore si potrebbe trovare anche qualche ragione interna, nell'avere il Marx sempre abusato del metodo comparativo, al quale ricorreva senza rendersi pieno conto del proprio procedere. E si potrebbe dire che, come già nelle sue precedenti indagini aveva perpetuamente trasportato il valore-lavoro di un'ipotetica società alla reale società capitalistica, così nella nuova questione è stato tratto a valutare il capitale tecnico di una società pili progredita alla stregua del valore di quello di una società meno progredita. Qui, nell'assurdo tentativo, il metodo gli si è spezzato tra le mani.

Avendo noi combattuto il fondamento stesso della legge marxistica, ci pare affatto superfluo proseguirne gli svolgimenti ulteriori, che ci avanzano in forma ben poco elaborata. Basti notare che in quegli svolgimenti, come in generale in tutto il Capitale, vi ha una continua mescolanza di deduzione teorica e di descrizione storica, di nessi logici e di nessi di fatto. Il difetto, per altro, si risolve, in questo caso, in un vantaggio; perché molte osservazioni che fa il Marx, intese come descrizioni storiche di ciò che accade di solito nella società moderna, potranno ritrovarsi vere, ed esser salvate dal naufragio teorico della legge, con la quale, per fortuna, sono debolmente connesse. E anzi, sarebbe il caso di far tale indagine per la stessa parte da noi combattuta: ossia domandarsi quali fatti, da lui realmente osservati, poterono spingere il Marx a costruire la sua legge, ossia a dar di quelli una spiegazione, ch'è teoricamente inammissibile.

Somma era l'importanza che il Marx attribuiva alla scoperta della legge della caduta del saggio di profitto. Era qui per lui « il mistero intorno a cui si era travagliata tutta l'Economia politica da Adamo Smith in poi»; e nei vari tentativi di soluzione del problema vedeva la ragione delle divergenze delle varie scuole economiche. Lo smarrimento del Ricardo innanzi al fenomeno del progressivo decrescere del saggio di profitto gli sembrava nuovo documento della serietà di quell'intelletto, che scorgeva l'importanza vitale del fatto per la società capitalistica. Che la soluzione non ne fosse stata scoperta fino a lui, Marx, gli pareva bene spiegabile, considerando che l'Economia politica aveva fin'allora cercato a tentoni, senza riuscire a formolarla, la differenza tra capitale costante e capitale variabile; che non aveva saputo esporre il sopravalore distinguendolo dal profitto, né il profitto nella sua purità, indipendentemente dalle sue singole frazioni in lotta tra loro ; e che, finalmente, non aveva saputo analizzare a fondo la diversità nella composizione organica del capitale, e, molto meno, la formazione del saggio generale del profitto.

Rigettata ora la sua spiegazione, due questioni si presentano. La prima concerne il fatto asserito e pel quale occorre dimostrare se davvero sia e come. È accertato un graduale abbassamento nel saggio di profitto? E in quali paesi e tra quali circostanze? — La seconda concerne le cause storiche; perché, se la ragione economica del fatto abbiamo visto che non può essere se non una sola (la legge della domanda e offerta), le forme storiche possono essere parecchie, varie secondo i vari casi. E l'abbassamento del saggio di profitto può accadere per un aumento nominale dei salari a cagione della crescente rendita della terra; come può accadere per un aumento effettivo dei salari a cagione del più forte collegamento della classe operaia; come può accadere per un aumento anche effettivo dei salari in conseguenza del risparmio e della crescente accumulazione, che moltiplichi i capitali in cerca di impiego,. Questa indagine si deve fare senza predisposizioni ottimistiche o pessimistiche, apologetiche o polemiche; nel che gli economisti hanno sovente peccato. Gli orecchianti, d'altra parte, si sono impadroniti dei risultamenti di ristrette e condizionate ricerche, ora per cantare un inno alla forza spontanea del progresso, che a poco a poco farà sparire i capitalisti o ridurrà l'interesse al mezzo per 100; ora per fare inorridire gli ascoltatori sopra uno spettacolo non meno fantastico, dei proprietari di terre, soli padroni di tutti i beni della società!4.

Maggio 18S9.

---

1 Si vedano i saggi III e V.

2 Supponiamo qui già percorsa una serie di periodi produttivi che basti a rinnovare l' intero capitale complessivo coi nuovi procedimenti tecnici. È chiaro, per altro, che, rinnovandosi il capitale in porzioni successive, in un primo stadio fungono, come capitale, beni il cui costo di riproduzione non risponde più al primitivo costo di produzione, ossia il cui valore sociale attuale non risponde più all'antico. Ma considerare i singoli stadi sarebbe qui inutile complicazione.

3 Spetta alla parte fondamentale l'esposizione del processo pel quale sorge il saggio medio di profitto, eh' è nel terzo libro del Capitale, e che il Marx dovè pensarle insieme coi capitoli fondamentali del primo libro.

4 E il caso contemplato dal Ricardo, nel celebre § 44 del capitolo VI, On profits. Il Marx sembra dare a questo caso poca importanza, avendo piena fede negli incessanti progressi tecnici dell'agricoltura, per non parlare delle altre cause controperanti. Bisogna aggiungere che egli, in conformità della legge che credeva avere stabilita, sostiene che anche la rendita della terra ha una tendenza a cadere, ancorché possa crescere la sua massa o la sua proporzione rispetto al profitto industriale: si veda vol. III, 223-4.