Questa legge è esposta nella terza sezione del libro terzo
(postumo) del Capitale. Poche critiche sono state fatte intorno ad
essa, le quali variano da quella del Sombart, che la dichiara svolta
«nel modo più splendido» (in glänzendster
Weise) a quella del Loria, che la definisce «un colpo di
pistola della metafisica (sic) d'oltre Reno», e crede di
abbatterla con obiezioni, in verità, affatto improprie: altri
hanno opinato che la legge sia bensì vera, ma spieghi solo in
parte il fatto della caduta del saggio di profitto e convenga
integrarla con altre leggi già note all'economia classica. Ma
i più di coloro, che si sono occupati delle dottrine
economiche del Marx, non l'hanno indagata in nessun modo;
rigettandola gli avversari (come il Böhm Bawerk),
implicitamente, col rigettare i principi fondamentali del Marx;
accogliendola i marxisti, segnatamente tedeschi, umili o proni,
senza discutere, con quella mancanza di libertà e di
originalità mentale, che si osserva in tutta la loro
letteratura.
L'esame, che qui se ne tenta, è fatto sulla base stessa delle
dottrine del Marx, ossia è condotto col presupposto che si
ammettano i fondamenti di quelle dottrine, e quindi la premessa del
valore-lavoro, la distinzione tra capitale costante e capitale
variabile, la considerazione del profitto come nascente dal
sopravalore, e del saggio medio di profitto come nascente
dall'agguagliamento dei vari saggi di sopravalore per opera della
concorrenza. Vero è che tutte queste cose io le ammetto in un
certo senso, che non è il senso dei volgari marxisti, in
quanto cioè si riguardino non come leggi realmente operanti
nel mondo economico, ma come risultamenti di considerazioni
comparative tra varie forme possibili di società economiche.
Ma tale riserva, che concerne una questione da me discussa a lungo
altrove1, non ha quasi nessun effetto nel presente esame, le
cui conclusioni sarebbero presso a poco le stesse, anche quando
quelle teorie del Marx si prendessero nel senso che io credo
erroneo. Si tratta qui, non più di determinare e delimitare
esattamente i concetti fondamentali del Marx, ma di vedere se da
quei concetti, anche intesi nel modo corrente, possa mai in alcun
modo dedursi la legge della caduta del saggio di profitto. La qual
cosa a me non pare.
La legge è stata dal Marx ricavata dalla considerazione degli
effetti economici dei progressi tecnici. Il Marx afferma che il
progresso tecnico accresca la grandezza e cangi la composizione del
capitale complessivo, facendo crescere la proporzione del capitale
costante rispetto al variabile, cosicché per tal modo venga a
diminuire il saggio di profitto; il quale si genera, com'è
noto, dal sopravalore, prodotto dal capitale variabile, diviso pel
capitale complessivo. Egli si figura così il fatto. Accade un
progresso tecnico; si foggiano nuove macchine, che prima non
esistevano. Il capitale, impiegato nella produzione, è stato
finora, supponiamo, complessivamente, di 1000, ripartito in 500 e. e
500 v., ed impiegante 100 lavoratori: il sopravalore = 500, ossia il
saggio di esso al 100 %; e quindi il saggio di profitto del 500/1000
= 50%.
Per effetto del progresso tecnico e della costruzione di nuove
macchine, i 100 lavoratori, che sono mantenuti dal capitale
variabile di 500, restano sempre impiegati nella produzione; ma,
affinchè ciò sia possibile, dovranno mettere in
movimento un capitale costante più grande, che supporremo di
200 maggiore dell'antico. Onde si avrà, per effetto del
progresso tecnico, un capitale complessivo di 1200 = 700 c. +500v;
e, restando immutato il saggio del sopravalore nel 100%, il saggio
di profìtto sarà di =500/1200 = circa 41%, ossia
sarà disceso dal 50 %o al 41%.- Dunque, decadenza necessaria
del saggio di profìtto sotto l'ipotesi del progresso tecnico.
Ma questa ipotesi è il fatto reale, di tutti i giorni, della
società capitalistica moderna. Dunque, decadenza effettiva
del saggio medio di profìtto nella società
capitalistica moderna. Ma questa legge .è più o meno
attraversata da altri fatti, più o meno transitoriamente
controperanti. Dunque, caduta soltanto tendenziale.
Perché il nostro esame riesca chiaro, è anzitutto
necessario scindere i due gruppi di fatti, o i due stadi della
medesima società capitalistica, che il Marx fonde insieme ed
abbraccia in una sola guardata alquanto confusa.
Il primo stadio è dato dal fatto puro e semplice di un
progresso tecnico. Ora il progresso tecnico, tra i suoi effetti
logici, 0, ch'è lo stesso, necessari, non ha punto quello di
un aumento nella grandezza del capitale complessivo impiegato, e
neanche l'altro di lasciare immutata la grandezza del capitale
complessivo. Ha anzi, per effetto necessario e immediato, proprio
l'opposto: cioè quello di restringere il capitale impiegato.
(Non occorre avvertire che qui siamo in scienza economica, e aumento
e diminuzione si riferiscono sempre a valori economici). Nella sua
formola più semplice, supponendo costante la quantità
degli oggetti prodotti (200 scarpe sono richieste, e non c'è
ragione di aumentarne la produzione), il progresso tecnico
consisterà, puramente e semplicemente, in un risparmio di
spesa sociale: stessa produzione con minore spesa. E poiché
ogni costo, nell'ipotesi del Marx, si risolve in lavoro sociale, si
avrà: stessa produzione con minor lavoro sociale. Se non
fosse così, non varrebbe la pena d'introdurre
quell'innovazione tecnica; si avrebbe, economicamente, non
già un progresso, ma 0 lo status quo ante o un regresso.
Non dobbiamo considerare gli altri effetti che sorgerebbero per
aumento di produzione, maggior consumo, crescere di popolazione,
ecc.: fatti estranei e sopraggiunti che qui non ci riguardano,
avendo noi da fare col solo fatto del progresso tecnico, tutte le
altre condizioni restando immutate. E, in tal caso, non possiamo
simboleggiare il progresso tecnico con la serie crescente che il
Marx adopera, di capitali complessivi di 150, 200, 300, 400, 500,
ecc., ma con quella, decrescente, di 150, 140, 130, 120, 110, ecc.
E, per restare nell'esempio addotto di sopra, ponendo che l'avvenuto
progresso tecnico abbia fatto diminuire 1/10 del complessivo lavoro
sociale richiesto, avremo, in luogo dell'antico capitale di 1000, un
capitale di 900, composto non più di 500 c. + 500 v., ma di
450c. + 450v. (La diminuzione deve affettare proporzionalmente tutte
le parti del capitale, giacché tutto è, in ultima
analisi, prodotto di lavoro).
Dei 100 antichi lavoratori, 1/10, ossia 10 di essi, resteranno
disoccupati: una frazione dell'antico capitale resterà
disoccupata: la quantità (o utilità) dei beni che si
produrranno resterà la medesima2.
Corretta così la descrizione del fatto, non vi ha dubbio che
il piùpiccolo capitale complessivo impiegato, restando da una
parte immutato il saggio di sopravalore e dall'altra più non
lavorando 10 degli antichi lavoratori, assorbirebbe una massa di
sopravalore di 450. Ma non per questo il saggio di profitto ne
verrebbe alterato ; o meglio, appunto per ciò il saggio di
profitto non potrebbe esserne alterato, e si esprimerebbe in
450/900 (come prima in 500/1000), ossia sarebbe, come prima, del
50%.
Tale caso semplicissimo non ci dà, dunque, la legge del Marx,
ma l'altra: «Il progresso tecnico, tutte le altre condizioni
restando immutate, fa diminuire la massa (non il saggio) dei
sopravalori e dei profitti». Questa legge ha per ipotesi che
quel 1/10 di lavoratori, rimasto disoccupato, sia diventato
assolutamente superfluo: quei 10 lavoratori saranno ormai pezzenti
oziosi mantenuti dalla carità altrui, o periranno di stenti,
o emigreranno — in un nuovo mondo. Di essi, sarà quel che
sarà. La produzione sociale resterà al livello di
prima, in grazia del progresso tecnico, pur facendo a meno del loro
concorso. Questa l'ipotesi. Ma, data questa ipotesi, qual'è
l'importanza della legge? Per vederci chiaro, basterà
spingere ancora, com'è nostro diritto, l'ipotesi, e supporre
che, continuando il progresso tecnico, diventi via via superfluo
l'impiego non solo di 1/10, ma di 1/4, di 1/3, di1/2, di 1
lavoratori, ossia che l'impiego di lavoratori tenda a diventare = 0.
In questo caso, la società capitalistica sarebbe, come tale,
bella e finita, perché sarebbe finita Futilità del
lavoro, sopra la quale essa si fonda. Dove non c'è nulla, il
re perde i suoi diritti; e dove il lavoro non ha utilità, il
capitale perde i suoi. Gli ex-capitalisti non avrebbero più
operai da sfruttare; si sarebbero mutati in possessori di fonti
automatiche di ricchezza: come quei fortunati mortali delle fiabe,
arricchiti di coltelli fatati, di lucerne prodigiose, di giardini
producenti con foga instancabile e spontanea ogni ben di Dio. In
altri termini, la legge qui si risolve in una vuota
generalità.
Ma il Marx non si trastullava in codeste generalità vuote e
nelle congiunte fantasie, e voleva proprio determinare la legge
organica delle variazioni del saggio di profitto. Infatti, egli
(come si è visto nell'esempio recato) non suppone punto che
la forza di lavoro diventi superflua; ma anzi che i lavoratori
trovino nuovo impiego col crescere del primitivo capitale costante.
Avvenuto il progresso tecnico, anche la produzione è
cresciuta; e questo secondo stadio egli considera. I 100 lavoratori
lavorano ancora tutti 100, il capitale costante con cui lavorano
è dovuto crescere da 500 a 700, e il complessivo è
quindi diventato di 1200. La legge ch'egli ne deduce, della caduta
del saggio di profitto (nell'esempio, dal 50% 0 al 41%), si presenta
con la gravità e l'originalità di una scoperta
scientifica. Tutto sta a vedere, se della scoperta scientifica abbia
poi — la verità.
Il nerbo della dimostrazione del Marx è nella proposizione:
che i lavoratori, che dovrebbero restare disoccupati, trovino invece
impiego, ma con un capitale cresciuto di un tanto (= 200) sul
primitivo. E esatta questa proposizione? In qual modo il Marx la
giustifica?
A questa proposizione fondamentale si riferisce la mia obiezione,
altrettanto fondamentale; la quale, se ammessa, viene a negare nel
modo più radicale la verità della legge marxistica.
Esprimo tuttavia il mio pensiero sotto forma di obiezione e di
dubbio, perché, trattandosi di un pensatore del grado del
Marx, bisogna proceder cauti, e ricordarsi (come io non me ne
scordo) che parecchie volte errori a lui addebitati si sono chiariti
equivoci degli avversari.
Per quale ragione (domando) i 10 lavoratori disoccupati, per essere
di nuovo impiegati, avrebbero bisogno di un capitale costante
maggiore del primitivo?
Il progresso tecnico non ha fatto diminuire l'utilità
naturale della produzione (anzi, nella nostra ipotesi, non l'ha
fatta neanche crescere, e l'ha lasciata immutata); ma ne ha
diminuito solo il valore. Si avranno, dunque, col progredito
ordinamento tecnico, materie grezze, strumenti, oggetti di
vestiario, mezzi di alimentazione, ecc., della stessa complessiva
naturale utilità di prima. Il valore economico di tutti
questi prodotti è diminuito, perché in essi (per
servirci della metafora prediletta del Marx) è conglutinata
minore quantità di lavoro, ossia vi è in meno il
lavoro di 10 lavoratori. Ma, sotto l'aspetto della
potenzialità a soddisfare bisogni, le materie grezze, gli
strumenti, i capi di vestiario, i mezzi di alimentazione, ecc.,
stanno, per virtù del progresso tecnico, allo stesso grado di
prima. Se, dunque, capitalisti ed operai saranno restati sobri
quanto prima, e il loro livello di vita non si sarà elevato
(e ciò è nell'ipotesi), la produzione offrirà,
come prima, mezzi d'impiego e mezzi di sussistenza pei 10 lavoratori
restati disoccupati. Rioccupandoli, ossia mantenendoli con gli
antichi mezzi di sussistenza, e facendoli lavorare sulle antiche
materie grezze o sui nuovi prodotti, i capitalisti verranno ad
accrescere la loro produzione, o (ch'è lo stesso) verranno a
migliorarne la qualità. Ma, poiché noi sappiamo che
economicamente il valore di quel capitale è diminuito, si
avrà che un capitale economicamente minore assorbirà
le stesse forze di lavoro di prima, ossia la stessa massa di
profitto; e massa di profitto eguale con capitale complessivo minore
significa saggio di profitto cresciuto. Proprio l'opposto di
ciò che il Marx aveva creduto di poter dimostrare.
Tornando al semplicissimo esempio nostro, i 10 lavoratori troveranno
impiego con un capitale, che, come utilità, è restato
lo stesso, ma economicamente è disceso a 900. Il che
significa, che il saggio di profitto è cresciuto da 500/1000
a 500/900 ossia da 505 al 55%.
Quanto alsaggio del sopra valore, esso, essendosi ridotto l'intero
valore del capitale complessivo, dovrà calcolarsi non
più, come prima del progresso tecnico, in 500/500, ,
né come nel primo stadio da noi considerato (in cui il
progresso tecnico abbia resa assolutamente superflua una parte del
lavoro) in 450/450 , ma in 500/450 , ossia non sarà
più del 100% ma saràsalito al 111 % circa.
A questa mia obiezione non ho trovato risposta né esplicita
né implicita nell'opera del Marx. Solo in un punto, dove egli
parla delle cause controperanti, e propriamente della
sovrapopolazione (cap. XIV, § IV), accenna al caso che forze di
lavoro possano rimpiegarsi con capitale costante minimo. Si
può dire che qui il Marx sia passato accanto all'obiezione
senza urtarvi, ossia senza acquistar coscienza dell'importanza di
essa. E, se vi fosse urtato, dubito che l'avrebbe spezzata e
spazzata via; e credo piuttosto, che la sua teoria ne sarebbe andata
in frantumi.
Prevedo ciò che si potrebbe dire: — Voi avete supposto che,
col progresso tecnico, resti disoccupato non soltanto un numero di
lavoratori, ma anche una frazione dell'antico capitale complessivo,
ossia di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza; e, quando i
lavoratori si rimpiegheranno, è vero che nel nuovo ciclo
produttivo non si aggiungeranno alle antiche frazioni altre frazioni
di capitale disoccupato, ma perciò appunto la quantità
della produzione che ne verrà faori sarà aumentata, e
nel seguente ciclo produttivo si aggiungerà una frazione
anche maggiore di capitale disoccupato, se pure non si
continuerà nel rini-piego dei 10 lavoratori, nel qual caso la
frazione disoccupata sarà più piccola, ma l'aumento
diventerà costante. Ora tutti questi mezzi di produzione e di
sussistenza non saranno consumati (o saranno consumati in parte e in
parte l'isparmiati) dalla classe capitalistica; e quindi si
avrà una crescente accumulazione. Le somme di beni
risparmiate, per la spinta dell'interesse economico, non resteranno
inutili nei magazzini o nelle casseforti; ma saranno gittate sul
mercato come capitali chiedenti impiego. Ciò farà
aumentare il saggio dei salari, e quindi avrà efficacia
diminu trice sul saggio del profitto.
— Benissimo: ma in tal caso siamo fuori della legge del Marx,
L'agente, che qui si considera, non è più il progresso
tecnico per se preso, ma il risparmio, il quale potrà essere,
come si dice, favorito dal progresso tecnico, ma non si può
da questo dedurre; tanto è vero che, facendo il caso di
capitalisti gaudenti, il risparmio, nonostante il progresso tecnico,
non avrebbe luogo. E come il progresso tecnico favorisce il
risparmio, così questo, in sèguito, favorisce, per
mezzo dell'aumento dei salari, l'accrescimento della popolazione; e
quindi la riduzione dei salari, e di nuovo il riateo del saggio di
profitto. Senonchè, quando entrano in iscena il risparmio e
l'aumento della popolazione, siamo già nell'ambito della
legge della domanda e offerta, ossia della comune e accettata
economia, che il Marx disprezzava come volgare, e in odio alla quale
aveva escogitato la legge della caduta del saggio di profitto
dedotta dalla più alta composizione del capitale per effetto
del progresso tecnico. Credo anch'io che soltanto l'ovvia legge
della domanda e offerta spieghi le variazioni del saggio di
profitto; ma ricorrere ad essa è non già difendere la
tesi del Marx, sibbene rifermarne la condanna.
Comunque si consideri, cotesta tesi a me pare insostenibile; e anche
più insostenibile se, lasciando per un momento in disparte i
ragionamenti a ili di logica e i calcoli aritmetici, guardiamo con
la limpida intuizione del buon senso. Ecco qui (per seguire la
rigida ipotesi schematica del Marx) da una parte una classe
capitalistica, e dall'altra una classe di proletari. Che cosa fa il
progresso tecnico? Moltiplica la ricchezza nelle mani della classe
capitalistica. Non è intuitivamente chiaro che, per effetto
del progresso tecnico, i capitalisti potranno, con l'anticipo di
beni che valgono sempre meno, ottenere gli stessi servigi, che
ottenevano prima dai proletari? E che quindi il rapporto tra valore
di servigi e valore di capitale si altererà con prevalenza
del primo valore, ossia che il saggio di proiltto crescerà?
Con l'anticipo di beni (capitale), che prima si riproducevano con 5
ore di lavoro ed ora si riproducono con 4, l'operaio lavora sempre
10 ore. Prima con 5 si aveva 10: ora con 4 si ha egualmente 10. La
spugna costa meno; ma la quantità d'acqua, di cui s'imbeve,
è la stessa. Come il Marx ha potuto immaginare che col
progresso tecnico cresca sempre la spesa dei capitalisti, in modo
che, proporzionalmente, il profitto resti in perpetua minoranza e
finisca col fare, di fronte alla spesa complessiva, una
meschinissima figura?.
L'errore del Marx è stato di aver attribuito inavvedutamente
un valore maggiore al capitale costante che, dopo il progresso
tecnico, vien messo in movimento dagli stessi antichi lavoratori.
Certo, chi guardi una società in due stadi successivi di
sviluppo tecnico, potrà trovare, nel secondo stadio, maggior
numero di macchine e d'istrumenti d'ogni genere. Ciò riguarda
la statistica e non l'economia. Il capitale (e ciò il Marx
sembra avere per un momento dimenticato) non si misura dalla sua
fisica estensione, ma dal suo valore economico. Ed economicamente
quel capitale (supposte costanti tutte le altre condizioni) deve
valer meno; altrimenti, il progresso tecnico non avrebbe avuto
luogo.
A spiegare l'errore del Marx potrebbe valere il fatto, che il terzo
libro del Capitale è un'opera postuma, di cui alcune parti
sono appena abbozzate, tra cui questa della Legge del saggio di
profitto; la quale, inoltre, non appartenendo allo
«stabilimento dei principi», ma essendo conseguenza e
applicazione, non fu forse maturata al modo stesso della parte
fondamentale o centrale della dottrina3. È probabile che
l'autore, se fosse potuto tornare sul suo abbozzo, l'avrebbe
profondamente modificato o addirittura distrutto. Ma forse dello
strano errore si potrebbe trovare anche qualche ragione interna,
nell'avere il Marx sempre abusato del metodo comparativo, al quale
ricorreva senza rendersi pieno conto del proprio procedere. E si
potrebbe dire che, come già nelle sue precedenti indagini
aveva perpetuamente trasportato il valore-lavoro di un'ipotetica
società alla reale società capitalistica, così
nella nuova questione è stato tratto a valutare il capitale
tecnico di una società pili progredita alla stregua del
valore di quello di una società meno progredita. Qui,
nell'assurdo tentativo, il metodo gli si è spezzato tra le
mani.
Avendo noi combattuto il fondamento stesso della legge marxistica,
ci pare affatto superfluo proseguirne gli svolgimenti ulteriori, che
ci avanzano in forma ben poco elaborata. Basti notare che in quegli
svolgimenti, come in generale in tutto il Capitale, vi ha una
continua mescolanza di deduzione teorica e di descrizione storica,
di nessi logici e di nessi di fatto. Il difetto, per altro, si
risolve, in questo caso, in un vantaggio; perché molte
osservazioni che fa il Marx, intese come descrizioni storiche di
ciò che accade di solito nella società moderna,
potranno ritrovarsi vere, ed esser salvate dal naufragio teorico
della legge, con la quale, per fortuna, sono debolmente connesse. E
anzi, sarebbe il caso di far tale indagine per la stessa parte da
noi combattuta: ossia domandarsi quali fatti, da lui realmente
osservati, poterono spingere il Marx a costruire la sua legge, ossia
a dar di quelli una spiegazione, ch'è teoricamente
inammissibile.
Somma era l'importanza che il Marx attribuiva alla scoperta della
legge della caduta del saggio di profitto. Era qui per lui «
il mistero intorno a cui si era travagliata tutta l'Economia
politica da Adamo Smith in poi»; e nei vari tentativi di
soluzione del problema vedeva la ragione delle divergenze delle
varie scuole economiche. Lo smarrimento del Ricardo innanzi al
fenomeno del progressivo decrescere del saggio di profitto gli
sembrava nuovo documento della serietà di quell'intelletto,
che scorgeva l'importanza vitale del fatto per la società
capitalistica. Che la soluzione non ne fosse stata scoperta fino a
lui, Marx, gli pareva bene spiegabile, considerando che l'Economia
politica aveva fin'allora cercato a tentoni, senza riuscire a
formolarla, la differenza tra capitale costante e capitale
variabile; che non aveva saputo esporre il sopravalore
distinguendolo dal profitto, né il profitto nella sua
purità, indipendentemente dalle sue singole frazioni in lotta
tra loro ; e che, finalmente, non aveva saputo analizzare a fondo la
diversità nella composizione organica del capitale, e, molto
meno, la formazione del saggio generale del profitto.
Rigettata ora la sua spiegazione, due questioni si presentano. La
prima concerne il fatto asserito e pel quale occorre dimostrare se
davvero sia e come. È accertato un graduale abbassamento nel
saggio di profitto? E in quali paesi e tra quali circostanze? — La
seconda concerne le cause storiche; perché, se la ragione
economica del fatto abbiamo visto che non può essere se non
una sola (la legge della domanda e offerta), le forme storiche
possono essere parecchie, varie secondo i vari casi. E
l'abbassamento del saggio di profitto può accadere per un
aumento nominale dei salari a cagione della crescente rendita della
terra; come può accadere per un aumento effettivo dei salari
a cagione del più forte collegamento della classe operaia;
come può accadere per un aumento anche effettivo dei salari
in conseguenza del risparmio e della crescente accumulazione, che
moltiplichi i capitali in cerca di impiego,. Questa indagine si deve
fare senza predisposizioni ottimistiche o pessimistiche,
apologetiche o polemiche; nel che gli economisti hanno sovente
peccato. Gli orecchianti, d'altra parte, si sono impadroniti dei
risultamenti di ristrette e condizionate ricerche, ora per cantare
un inno alla forza spontanea del progresso, che a poco a poco
farà sparire i capitalisti o ridurrà l'interesse al
mezzo per 100; ora per fare inorridire gli ascoltatori sopra uno
spettacolo non meno fantastico, dei proprietari di terre, soli
padroni di tutti i beni della società!4.
Maggio 18S9.
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1 Si vedano i saggi III e V.
2 Supponiamo qui già percorsa una serie di periodi produttivi
che basti a rinnovare l' intero capitale complessivo coi nuovi
procedimenti tecnici. È chiaro, per altro, che, rinnovandosi
il capitale in porzioni successive, in un primo stadio fungono, come
capitale, beni il cui costo di riproduzione non risponde più
al primitivo costo di produzione, ossia il cui valore sociale
attuale non risponde più all'antico. Ma considerare i singoli stadi sarebbe qui inutile complicazione.
3 Spetta alla parte fondamentale l'esposizione del processo pel
quale sorge il saggio medio di profitto, eh' è nel terzo
libro del Capitale, e che il Marx dovè pensarle insieme coi
capitoli fondamentali del primo libro.
4 E il caso contemplato dal Ricardo, nel celebre § 44 del
capitolo VI, On profits. Il Marx sembra dare a questo caso poca
importanza, avendo piena fede negli incessanti progressi tecnici
dell'agricoltura, per non parlare delle altre cause controperanti.
Bisogna aggiungere che egli, in conformità della legge che
credeva avere stabilita, sostiene che anche la rendita della terra
ha una tendenza a cadere, ancorché possa crescere la sua
massa o la sua proporzione rispetto al profitto industriale: si veda
vol. III, 223-4.